Alternative inesistenti_di Bernard Lugan

Contrariamente a quanto affermano i suoi leader, l’Algeria non è in grado di sostituire parzialmente la Russia nella fornitura di gas all’UE.

Approfittando del pesante contesto geopolitico, l’Algeria afferma di poter compensare parte dei volumi di gas russo aumentando le proprie esportazioni verso l’UE attraverso il gasdotto Transmed che la collega all’Italia. Un semplice effetto di annuncio costruito perché le riserve algerine si stanno esaurendo e tre quarti della sua produzione viene consumata localmente.

Anno dopo anno, l’Europa (UE) importa poco più del 40% del proprio consumo di gas dalla Russia, il 20% dalla Norvegia e tra l’11 e il 12% dall’Algeria.

En 2021, 10e producteur mondial, l’Algérie aurait produit 130 milliards de mètres cubes (mds de m3) de gaz sur une production mondiale de 3850 mds de m3, très loin derrière les Etats-Unis, la Russie, l’Iran et même La Cina.

Inoltre, dei 130 miliardi di m3 prodotti dall’Algeria, è necessario rimuovere:

– 48 miliardi di m3 per la produzione di gas urbano consumato localmente.

– 20 miliardi di m3 per la produzione di energia elettrica, l’Algeria produce il 99% della propria energia elettrica da gas naturale.

– 20 miliardi di m3 per la reiniezione in pozzi petroliferi o sacche di gas.

– 5 miliardi di m3 per il flaring, ovvero la combustione dei gas inutilizzati.

Si tratta di un totale di 93 miliardi di m3 su una produzione totale di 130 miliardi di m3. Ciò significa che l’Algeria ha solo circa 40 miliardi di m3 di gas da esportare. Per avere semplicemente un ordine di grandezza, l’UE importa ogni anno circa 520 miliardi di m3 di gas…

In queste condizioni, a meno che non applichi restrizioni drastiche ai suoi consumi interni, è difficile vedere come l’Algeria possa se non aumentare aneddoticamente le sue consegne nell’UE, a margine, e quindi pretendere di compensare una parte significativa delle consegne. …

A maggior ragione, ed è importante non dimenticare, che il 28 gennaio 2013, intervistato da Maghreb Emergent , Tewfik Hasni, ex vicepresidente di Sonatrach (Società nazionale per la ricerca, produzione, trasporto, lavorazione e commercializzazione di idrocarburi) ed ex CEO di NEAL, la controllata congiunta di Sonelgaz (National Electricity and Gas Company) e Sonatrach, ha dichiarato:

” Tutti gli esperti seri sanno che le nostre riserve garantiscono meno di vent’anni di consumo al ritmo attuale del loro sfruttamento (…) Se prendiamo in considerazione, ad esempio, l’evoluzione dei consumi interni al ritmo attuale, per prendere solo questo A titolo di esempio, Sonelgaz avrà bisogno di 85 miliardi di metri cubi di gas nel 2030 (ricordiamo, 20 miliardi di m3 nel 2022) per la sola produzione di elettricità. Non ci sarà più niente da esportare ” .

Il signor Tewfik Hasni si è poi basato sulla stima del consumo interno che aumenta del 7% all’anno, il che significa che l’Algeria avrà quindi meno quantità da immettere sul mercato.

Il 1 giugno 2014, in una clamorosa dichiarazione resa davanti all’APN (Assemblea Nazionale del Popolo), l’allora Primo Ministro algerino, il Sig. Abdelmalek Sellal ha cercato in questi termini di far conoscere ai deputati il ​​dramma che incombe:

” Entro il 2030 l’Algeria non potrà più esportare idrocarburi, se non in piccole quantità (…). Entro il 2030 le nostre riserve copriranno solo i nostri bisogni interni ” .

Tali proiezioni ufficiali, inoltre, sono state poi stabilite sulla base di dati contestati da alcuni esperti indipendenti per i quali le riserve disponibili erano in realtà inferiori ai volumi annunciati. Senza nuove scoperte, quindi, le esportazioni di gas algerine diminuiranno.

Per quanto riguarda lo shale gas, non può essere la soluzione. Certamente l’Algeria avrebbe enormi riserve in questo campo, ma per produrre un miliardo di metri cubi di gas (MBTu o Million British Thermal Unit ), occorre un milione di metri cubi di acqua dolce. Tuttavia, come tutti i paesi del Maghreb, l’Algeria è gravemente carente di acqua… e ne resterà sempre più a corto a causa dell’aumento della sua popolazione e del cambiamento climatico.

Per l’Algeria, non riuscendo a rilanciare la propria produzione di gas, l’urgenza è quindi di farla durare il più a lungo possibile, e quindi di razionalizzarne l’utilizzo. Tuttavia, al fine di preservare la pace sociale, il governo mantiene tariffe artificialmente basse che si traducono nel destinare una quota considerevole e crescente delle risorse di gas ai consumi delle famiglie e non alle esportazioni generatrici di valuta estera.

A queste condizioni, a parte il “bluff” inteso ad indurre gli investitori a cercare di far finanziare nuove esplorazioni da paesi esteri che, se riuscissero, non entrerebbero in produzione per almeno dieci anni, la proposta di fornitura di gas addizionale dell’Algeria alla UE per compensare la perdita di forniture russe è una vetrina.

http://bernardlugan.blogspot.com/

Mali: gli eteri ideologici spiegano lo sfratto della Francia, di Bernard Lugan

Due vicende ormai lontane tra loro. Il massacro di Gheddafi e la distruzione dello stato libico nel 2011; il pressante invito della giunta militare del Mali alle truppe francesi di abbandonare immediatamente il territorio nazionale. Proprio nel momento in cui si tiene a Ginevra, con qualche ironia della sorte, la conferenza congiunta tra l’Unione Europea e l’Unione Africana. Non siamo alla conclusione di una parabola, ma ci siamo ormai vicini. L’avventura libica avrebbe voluto essere l’atto di affermazione di un nuovo ruolo assertivo della Francia in Africa Settentrionale. Erano ben altre le forze in azione dietro le quinte. Ha innescato una dinamica che al contrario sta accelerando e sancendo il ridimensionamento definitivo della Francia e delle sue ambizioni neocoloniali in quell’area. In un ultimo sussulto teso a difendere i propri caposaldi, ha cercato di coinvolgere altre forze europee, in particolare italiane e tedesche, nell’avventura. Come in altre occasioni, il nostro ceto politico, privo di ogni respiro strategico e di una qualche cognizione di interesse nazionale, si è accodato supinamente a queste scelte, dilapidando ulteriormente il patrimonio di credibilità e di rispetto guadagnatosi per due decenni a partire da Mattei. L’ennesima svolta che sta maturando in Libia, con il probabile avvicinamento della Turchia all’Egitto, se a buon fine, sancirà l’estromissione definitiva dell’Italia da quell’area così prossima con tutte le nefande conseguenze che ne deriveranno; ma anche per la Francia, con il suo ruolo di mosca cocchiera nell’avventura libica, si prospetta una sorte simile, visto il suo progressivo arretramento anche in Algeria e gli esiti incerti in Tunisia. Tra Ucraina e Nord-Africa la tenaglia che stringe l’Europa amorfa, vittima accondiscendente dell’avventurismo statunitense, si stringe in una morsa ormai destabilizzante lo stesso continente. Giuseppe Germinario

Venerdì 18 febbraio 2022, la giunta militare al potere a Bamako ha chiesto che la partenza delle forze “Barkhane” avvenisse immediatamente, e non per tappe, come aveva annunciato il presidente Macron. Come siamo arrivati ​​a una tale situazione ea una tale rottura?

Come dico e scrivo da anni, soprattutto nel mio libro Le guerre del Sahel dalle origini al presente , in Mali i decisori francesi hanno sommato gli errori derivanti da una falsa analisi consistente nel vedere il conflitto attraverso il prisma dell’islamismo. Ma qui l’islamismo è prima di tutto la superinfezione di ferite etnorazziali millenarie che nessun intervento militare straniero è stato per definizione in grado di chiudere.

Inoltre, in un momento in cui sempre più africani rifiutano la democrazia in stile occidentale, la Francia si sta, al contrario, rafforzando questa ideologia vista in Africa come una forma di neocolonialismo. Più che mai, i vertici francesi sarebbero stati quindi ispirati a meditare su questa profonda riflessione che il Governatore Generale dell’AOF fece nel 1953: “Meno elezioni e più etnografia, e tutti ne troveranno qualcosa per trarne vantaggio”… uno parola, il ritorno al vero africano e non l’incantesimo a ideologie appiattite.

Questa è la grande spiegazione di questo nuovo fallimento francese in Africa. Per non parlare del concreto rifiuto di mettere in discussione semplicemente le argomentazioni della giunta maliana. Immediatamente messa alla berlina da Parigi, che non le ha lasciato alcun margine di manovra, quest’ultima è stata automaticamente costretta a una corsa massimalista a capofitto per non perdere la faccia. I piccoli marchesi che plasmano la politica africana della Francia dovrebbero però sapere che in Africa la priorità assoluta quando si entra in contenzioso è non far perdere la faccia al proprio interlocutore. Ma questo non si può imparare a Science-Po…

Infatti, dopo il colpo di stato del colonnello Assimi Goïta in Mali, Emmanuel Macron ha letteralmente strangolato il Mali economicamente imponendo sanzioni del tutto inopportune e improduttive a questo Paese, che hanno finito per opporre l’opinione pubblica maliana alla Francia.

Accecato dal suo presupposto democratico, Emmanuel Macron non vedeva che il colpo di stato del colonnello Goïta era un’occasione di pace. Poiché questo Minianka, ramo minoritario del grande gruppo Senufo, non ha contese storiche con i Tuareg e i Fulani, i due popoli all’origine del conflitto, potrebbe quindi aprire un discorso di pace attorno a una nuova organizzazione costituzionale e territoriale, così che Tuareg e Fulani non sono più automaticamente esclusi dal gioco politico dalla democrazia, che è diventata una semplice etnomatematica elettorale.

Al contrario, accecati dal loro imperativo democratico, dall’ideologia dei “diritti umani”, del “buon governo” e dello “stato di diritto”, tutte nozioni almeno localmente surreali, i leader francesi hanno considerato l’apertura di negoziati tra Bamako e alcuni gruppi armati del nord come provocazione. Mentre l’operazione sarebbe stata del tutto proficua perché avrebbe consentito di chiudere il fronte settentrionale per concentrare le risorse di Barkhane nella cosiddetta regione dei “Tre Confini”.

Frutto della reazione francese, presa per la gola, la giunta si lanciò in una corsa a capofitto consistente nell’adulare la propria opinione pubblica designando la Francia come capro espiatorio. Questo spreco ha anche permesso alle élite locali che hanno sistematicamente saccheggiato il Mali di nascondere sei decenni di corruzione, appropriazione indebita, incapacità politica, in una parola, incompetenza. Risultato, dopo la Repubblica Centrafricana, la Francia si vede “espulsa” dal Mali mentre i suoi soldati vi sono caduti per garantire l’incolumità delle popolazioni abbandonate dal proprio esercito…

L’altro grande errore francese è non aver fatto la differenza tra i vari gruppi armati. Dal 2018 al 2019, l’intrusione del DAECH attraverso l’EIGS (Stato Islamico nel Grande Sahara) ha cambiato profondamente i fatti del problema. E’ scoppiato un conflitto aperto tra l’EIGS ei gruppi etno-islamisti che affermano di appartenere al movimento di Al-Qaeda, accusandoli di favorire l’etnia a spese del califfato. Parigi poi non ha visto, mentre io non ho smesso di inviare note ai funzionari interessati, che i due principali leader etnoregionali della nebulosa di Al-Qaeda, ovvero il tuareg ifora Iyad Ag Ghali e il Fulani Ahmadou Koufa, leader del Katiba Macina, più etno-islamista che islamista, aveva deciso di negoziare una via d’uscita dalla crisi.

Non volendo una tale politica, Abdelmalek Droukdal, leader di Al-Qaeda per tutto il Nord Africa e per la striscia del Sahel, ha poi deciso di prendere il controllo e imporre la sua autorità, sia su Ahmadou Koufa che su Iyad ag Ghali. Fu poi “neutralizzato” dalle forze francesi informate dai servizi di Algeri preoccupati di vedere che lo Stato Islamico si avvicinava al confine algerino. L’Algeria, che considera il nord-ovest della BSS come il suo cortile di casa, ha infatti sempre “sponsorizzato” gli accordi di pace lì. Il suo uomo del posto è Iyad ag Ghali la cui famiglia vive nella regione di Ouargla. Questa ifora touareg è contraria allo smembramento del Mali, una priorità per l’Algeria che non vuole un Azawad indipendente che sia un faro per i propri Touareg.

Parigi non lo capiva. E non più il fatto che il ritorno al gioco politico dei Tuareg radunati alla guida di Iyad ag Ghali, e di quelli dei Fulani al seguito di Ahmadou Koufa, avrebbe consentito di concentrare tutti i mezzi sull’EIGS, e quindi pianificare a termine un soccorso di Barkhane, quindi il suo spostamento verso la regione peri-ciadica dove gli elementi della futura destabilizzazione in atto eserciteranno nel prossimo futuro pesanti minacce su Ciad e Camerun, il tutto alimentato dall’intrusione turca in Libia.

Fin dall’inizio, e come ho sempre suggerito, abbiamo dovuto andare d’accordo con questo capo Ifora con cui avevamo contatti, interessi comuni e la cui lotta è l’identità prima di essere islamista. Per ideologia, rifiutando di tener conto delle costanti etniche secolari, coloro che fanno la politica africana francese hanno ritenuto al contrario che fosse l’uomo da uccidere… Proprio di recente, il presidente Macron ha persino ordinato ancora una volta alle forze Barkhane di eliminarlo. E questo proprio nel momento in cui, sotto il patrocinio algerino, le autorità di Bamako stavano negoziando con lui una pace regionale… E siamo sorpresi dalla reazione della giunta maliana…

In un modo che definirei insolito come “carità”, l’Eliseo ha persistito nell’accumularsi di false analisi. Emmanuel Macron, quindi, non ha voluto vedere – torno a un episodio essenziale di cui ho parlato sopra – che, il 3 giugno 2020, è scomparsa l’algerino Abdelmalek Droukdal, leader di Al-Qaeda per tutto il Nord Africa e per la regione del Sahel, uccisa dalle forze francesi, ha cambiato radicalmente le definizioni del problema. La sua eliminazione diede autonomia ai Tuareg Iyad ag Ghali e al Peul Ahmadou Koufa. Dopo quelli degli “emiri algerini” che avevano guidato a lungo Al-Qaeda nella regione, quello di Abdelmalek Droukdal appunto e che ha segnato molto chiaramente la fine di un periodo, Al-Qaeda non è più guidata lì dagli stranieri, dagli “arabi”, ma da “regionali”. Questi capi regionali, però, hanno obiettivi etnoregionali radicati in un problema millenario nel caso dei Tuareg, laico in quello dei Fulani. La mancanza di cultura e i presupposti ideologici dei leader francesi impedivano loro di vederla

In questo nuovo contesto, nell’agosto 2020 è avvenuto in Mali un primo colpo di stato militare che ha permesso di avviare negoziati tra Bamako e Iyad Ag Ghali, che hanno amareggiato Parigi. Il 24 ottobre 2020 ho pubblicato un comunicato stampa sull’argomento dal titolo “Mali: serve il cambio di paradigma”. Ma, ancora una volta, Parigi non ha preso la misura di questo cambio di contesto, continuando a parlare indiscriminatamente di una lotta globale al terrorismo. Inoltre, contro quanto sostenuto dai vertici militari di Barkhane, Parigi ha quindi persistito in una strategia “all’americana”, “toccando” indiscriminatamente i GAT (Gruppi terroristici armati), e rifiutando qualsiasi approccio “buono”… “alla francese”. ..

In conclusione, da questo nuovo e amaro fallimento della politica francese in Africa si dovrebbero trarre quattro grandi insegnamenti:

– La priorità urgente è sapere cosa stiamo facendo nel BSS, dobbiamo quindi definire finalmente, e molto rapidamente, i nostri interessi strategici attuali e a lungo termine per sapere se dobbiamo disimpegnarci o meno, e se sì, a cosa livello e senza perdere la faccia.

– In futuro non dovremo più intervenire sistematicamente e direttamente a beneficio degli eserciti locali che abbiamo addestrato instancabilmente e invano dagli anni ’60 e che, ad eccezione di quello del Senegal e della guardia presidenziale ciadiana, sono incompetente.

– Sarà necessario favorire interventi indiretti o azioni rapide e specifiche realizzate dalle navi, che eliminerebbero il disagio dei diritti territoriali percepiti localmente come una insopportabile presenza neocoloniale. Sarà quindi necessaria una ridefinizione e un aumento di potenza dei nostri mezzi marittimi dispiegabili.

– Infine e in primo luogo, dovremo lasciare che l’ordine naturale africano si dispieghi. Ciò implica che i nostri intellettuali capiscano finalmente che gli ex governanti non accetteranno mai che, attraverso il gioco dell’etnomatematica elettorale, e solo perché sono più numerosi di loro, i loro ex sudditi o affluenti ora sono i loro padroni. . Ciò sconvolge le concezioni eteree della filosofia politica occidentale, ma tale è nondimeno la realtà africana.

C’è stato un “contratto” messo dalla NATO sulla testa del colonnello Gheddafi?

La Francia, allora guidata da Nicolas Sarkozy, ha una pesantissima responsabilità nella disintegrazione della Libia con tutte le conseguenze locali e regionali che sono seguite e che ancora seguono. Ma perché è entrata così direttamente in una guerra civile in cui non erano in gioco i suoi interessi? Perché anche la NATO ha interferito così profondamente in questa guerra? L’alibi umanitario citato da BHL non fornendo una risposta soddisfacente, restano ancora due domande senza risposta:

– La Francia è all’origine della guerra contro il colonnello Gheddafi?

– L’obiettivo di questa guerra era la morte di quest’ultimo?

Esistono elementi di risposta che sottolineo in occasione della ristampa aggiornata da parte di Éditions du Rocher del mio libro ” Storia della Libia dalle origini ai giorni nostri ” e che sono riportati nel seguente comunicato:

Domanda 1: La Francia è all’origine della guerra contro il colonnello Gheddafi?

Durante i lavori della Commissione Speciale del Congresso degli Stati Uniti d’indagine sull’attacco alla missione americana a Bengasi nel settembre 2012, attacco costato la vita all’ambasciatore americano Christopher Stevens, sono state prodotte e-mail riservate di Sidney Blumenthal, consigliere di allora- Il segretario di Stato Hillary Clinton.

Secondo questi documenti, la DGSE (Direzione generale per la sicurezza esterna) francese avrebbe organizzato, su ordine di Nicolas Sarkozy, incontri segreti con gli oppositori libici a partire dal febbraio 2011, quindi proprio all’inizio dei fatti.

In una di queste note intitolata ” Come i francesi hanno creato il Consiglio nazionale libico ” si legge che gli agenti francesi avrebbero ” dato denaro e consigli ” e che questi agenti parlando a nome di Nicolas Sarkozy ” hanno promesso che non appena il (Consiglio ) è stato progettato, la Francia lo riconoscerà come il nuovo governo libico” .

In un’altra nota datata 20 marzo questa, si legge che Nicolas Sarkozy “si aspetta che la Francia guiderà gli attacchi contro (Gheddafi) per un lungo periodo di tempo” .

Se fosse autentico, e allo stato attuale del fascicolo, non vi è motivo di dubitarne, tale documento stabilirebbe quindi che, appena tre giorni dopo il voto sulla risoluzione 1973 risoluzione 1973 del 17 marzo 2011 del Consiglio di Sicurezza del le Nazioni Unite che prevedevano solo l’istituzione di una no-fly zone intorno alla sola città di Bengasi, il presidente Sarkozy avrebbe pianificato una guerra totale contro la Libia, cosa non prevista dalla suddetta risoluzione.

Domanda 2: Lo scopo della guerra era la morte del colonnello Gheddafi?

Martedì 16 dicembre 2014, a Dakar, in occasione della chiusura del Forum sulla pace e la sicurezza in Africa , acclamato dai partecipanti, il presidente ciadiano Idriss Déby ha sganciato una vera bomba quando, alla presenza del ministro della Difesa francese, ha ha dichiarato che andando in guerra in Libia: “(…) l’obiettivo della Nato era quello di assassinare Gheddafi. Questo obiettivo è stato raggiunto “.

Se è vero quanto affermato da questo intimo conoscitore del caso libico, tutta la storia di una guerra dalle conseguenze devastanti va dunque riscritta. Tanto più che questo conflitto razionalmente inspiegabile si è innescato quando, paradossalmente, il regime libico era diventato l’alleato degli europei, sia contro il jihadismo che contro le reti di immigrazione.

Torniamo indietro. :

 Il 13 gennaio 2011, dopo 42 anni al potere, il colonnello Gheddafi ha dovuto affrontare manifestazioni che si sono trasformate in un’insurrezione.

 Il 23 febbraio, per sostenere gli insorti, la Francia ha chiesto all’Unione Europea “la rapida adozione di sanzioni concrete” contro il regime libico. In Francia è stata poi orchestrata una grande mobilitazione dal “filosofo” Bernard-Henri Lévy per per “salvare” la popolazione di Bengasi.

– Il 17 marzo Alain Juppé, ministro degli Affari esteri francese, ha strappato al Consiglio di sicurezza dell’ONU la risoluzione 1973[1] , che ha consentito l’apertura delle ostilità[2]. Questa risoluzione autorizzava semplicemente e solo la creazione di una no-fly zone sulla Libia , non l’intervento nel conflitto.

Tuttavia, di fronte all’incapacità dei ribelli di minare le difese del regime, Parigi intervenne gradualmente nella guerra civile, impegnandosi anche sul campo, in particolare a Misurata dove ebbe luogo un’operazione dei Navy Commandos, e a Jebel Nefusa. Una cosa tira l’altra, violando la risoluzione 1973 del 17 marzo 2011 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, la Francia e la NATO hanno condotto una vera guerra, prendendo di mira direttamente e ripetutamente lo stesso colonnello Gheddafi.

L’attacco più sanguinoso è avvenuto il 1 maggio 2011 quando gli aerei della Nato hanno bombardato la villa di suo figlio Saif al-Arab mentre lì si teneva una riunione di famiglia, alla presenza del colonnello e di sua moglie. Dalle macerie della casa sono stati rimossi i cadaveri di Saif al-Arab e tre dei suoi figli piccoli. Reagendo a quello che ha definito un omicidio, Mons. Martinelli, Vescovo di Tripoli, ha detto: “Chiedo, per favore, un gesto di umanità verso il colonnello Gheddafi che ha protetto i cristiani di Libia. È un grande amico”. Tale non era evidentemente l’opinione di coloro che avevano ordinato questo bombardamento chiaramente inteso a porre fine al capo di stato libico.

I capi di stato africani che si erano opposti quasi all’unanimità a questa guerra e che avevano tentato senza successo di dissuadere il presidente Sarkozy dall’intraprenderla, pensavano di aver trovato un risultato accettabile: il colonnello Gheddafi si sarebbe dimesso, il potere provvisorio era assicurato dal figlio Saif al -Islam Gheddafi e questo, per evitare un posto vacante favorevole al caos. Questa opzione è stata rifiutata dalla CNT portata a condizioni di mercato dalla Francia. Di conseguenza, il colonnello Gheddafi si è trovato assediato nella città di Sirte, che è stata oggetto di intensi bombardamenti NATO.

È stata quindi preparata un’operazione di esfiltrazione verso il Niger. Tuttavia, ben informati (da chi?), i miliziani di Misurata si tesero in agguato sull’asse che da Sirte portava al Fezzan e da lì al Niger. Il 20 ottobre 2011, il convoglio di diversi veicoli civili del colonnello Gheddafi è riuscito a lasciare la città. Sebbene non costituisse un obiettivo militare, fu subito preso di mira dagli aerei della NATO e in parte distrutto. Catturato, il colonnello Gheddafi è stato brutalmente messo a morte dopo essere stato sodomizzato con una baionetta: in rete è visibile il video della sua cattura e del linciaggio. Suo figlio Moatassem Gheddafi è stato evirato, poi gli sono stati cavati gli occhi, le mani e i piedi tagliati. I loro resti sanguinanti furono poi esposti nell’obitorio di Misurata. La NATO non aveva quindi lasciato alcuna possibilità al colonnello Gheddafi e a suo figlio.

Fatte queste premesse, le accuse del presidente Deby assumono quindi tutto il loro valore. In retrospettiva, lo svolgersi degli eventi potrebbe infatti essere paragonato a un “contratto” posto sulla testa del colonnello perché non gli fu offerto alcun onorevole risultato diplomatico e tutte le sue proposte di pace furono rifiutate…

[1] Su questo argomento si veda il testo della conferenza stampa di Alain Juppé a New York ( www.ambafrance-at.org ).

[2] Su richiesta di Francia, Regno Unito e Libano, la risoluzione 1973 è stata adottata, ai sensi del capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, dal Consiglio di Sicurezza con 10 voti (10 favorevoli, 0 contrari, 5 astenuti tra cui Russia, Cina e Germania). La Russia si è astenuta dal voto all’ONU, poi Mosca ha denunciato gravi violazioni della risoluzione 1973.

Le origini del fallimento francese nel Sahel

Continuiamo a chiedere il motivo della partecipazione italiana all’operazione “Takuba”_Giuseppe Germinario
Il fallimento della Francia nel Sahel era prevedibile. I lettori di questo blog e gli abbonati a Afrique Réelle sanno che dal 2011 non ho smesso di spiegarne le ragioni, che sono ampiamente sviluppate nel mio libro Les guerres du Sahel desorigines à nos jours .
Questo naufragio politico e non militare è dovuto a sei cause principali:
1) Corsezionati dalla loro ideologia, i leader francesi ritengono che il diritto radicato e legittimo del Popolo debba cedere il passo alle nuvole dei “diritti umani”, le chimere del “buon governo” o l’etereo postulato del “vivere insieme”, ideologie inadatti al Sahel dove amplificano i problemi.
2) Questi stessi decisori francesi hanno favorito le analisi economiche e sociali aggrappandosi al miraggio dello “sviluppo”. Secondo il loro presupposto universalistico, essendo gli africani europei poveri con la pelle nera, le ricette che avevano funzionato in Europa potevano, secondo loro, essere trasponibili solo in Africa. Un’illusione fatale e una cecità colpevole…
3) Hanno superbamente ignorato la storia e le realtà etniche, dimenticando le sagge raccomandazioni formulate nel 1953 dal Governatore dell’Africa occidentale francese: “Meno elezioni e più etnografia, e tutti troveranno qualcosa per trarne vantaggio”.
4) Senza memoria e senza cultura storica regionale, i decisori francesi non vedevano che alla fine del XIX secolo la colonizzazione aveva due conseguenze contraddittorie. Ha liberato i meridionali dalla predazione settentrionale, ma, allo stesso tempo, ha riunito vittime e carnefici entro gli stessi confini amministrativi.
5) Neppure questi stessi funzionari francesi vedevano che negli anni ’60, con l’indipendenza, i confini amministrativi dell’ex AOF erano diventati confini di stato, si erano trasformati in tante carceri popolari. Ora, all’interno di questi confini artificiali, essendo i più numerosi, le leggi dell’etnomatematica elettorale danno automaticamente potere ai meridionali. Di conseguenza, in Mali, Niger e Ciad, negli anni 1960-1965, si sono sollevati i Tuareg ei Toubou che rifiutavano di essere assoggettati ai loro ex affluenti meridionali.
6) Gli irresponsabili che definiscono la politica africana della Francia non hanno più capito che il Sahel è il dominio del lungo periodo dove l’affermazione di una costante islamica radicale è prima di tutto la superinfezione di una ferita etno-razziale millenaria che siamo, per definizione, incapace di chiudere.
Mentre la politica africana della Francia avrebbe dovuto essere affidata a uomini del campo che hanno ereditato il “metodo Lyautey” e l’approccio etno-differenzialista dei vecchi “Affari Indigeni”, è stata, purtroppo, gestita da “piccolo marchese” di Sciences Po. Insignificante e pretenziosi, questi settari incistati nel Ministero della Difesa e degli Affari Esteri portano, con i ministri che in teoria li dirigono, la terribile responsabilità del fallimento francese nel Sahel.
blog de Bernard Lugan

Covid in Africa: un po’ di raffreddore?, di Bernard Lugan

Il centro epidemiologico Epicentro annesso a (MSF) Medici Senza Frontiere, ha pubblicato il 28 dicembre 2021 un articolo intitolato “Covid-19 in Africa: il virus circola più di quanto annunciato” e, sotto la didascalia “L’epidemia di Covid 19 è stata sottovalutato? ”

Questi due titoli “allarmisti” nascondono l’interesse principale dell’articolo, che è quello di riportare il “flagello del secolo” alla sua vera realtà. Almeno per quanto riguarda l’Africa, dove la devastazione annunciata non si è verificata poiché i casi ufficiali di Covid, lì sono particolarmente bassi. Un mistero vista la sua contagiosità e il bassissimo tasso di vaccinazione.

Inoltre, per cercare di capire questa eccezione africana, sono stati condotti diversi studi sulla sieroprevalenza, questo marcatore infallibile che consente di contare il numero di soggetti che, in un momento o nell’altro, sono stati in contatto con il virus o i virus. del covid.

Lo studio, che è stato condotto in sei paesi, Mali, Niger, Kenya, Sudan, Repubblica Democratica del Congo e Camerun, ha permesso ai suoi autori di stabilire che la percentuale di persone asintomatiche, cioè che non manifestano alcun sintomo, è molto alta . Così, secondo le analisi di sieroprevalenza, il 42% dei nigerini è stato infettato una volta o l’altra dal, o dal, covid, e questo senza avvertire il minimo sintomo mentre il tasso ufficiale nazionale è dello 0,02%. In Mali i rapporti sono 25% e 0,07%, in Sudan 34% e 0,08%.

Lo studio spazzando via il desiderio delle autorità di camuffare le reali figure dei pazienti, la spiegazione è potenzialmente triplice:

1) Non avendo sintomi, i cittadini di questi paesi non verranno testati.

2) Il virus circola in maniera molto importante, ma sotterranea, e senza provocare forme gravi. Tranne, come in Europa, nelle persone a rischio, i giovani non sono molto sensibili ad esso. Tuttavia, la popolazione africana è giovane. In queste condizioni, scrive il rapporto, “In Niger forse non è necessario vaccinare tutta la popolazione, la cui età media è di 15 anni”. Tanto più che lo studio ci dice che il 42% della popolazione è ormai immune da quando è stato in contatto con il virus…

3) Attraverso ciò che scrivono gli autori, ma senza che lo dicano apertamente, in Africa, l’immunizzazione naturale della popolazione sembra quindi essere una realtà,Ancrepuò essere lo stesso in Europa? Questo merita un nuovo studio.
Maggiori informazioni sul blog di Bernard Lugan

Libia: offuscamenti democratici sulla realtà, di Bernard Lugan

In Libia, le elezioni del 24 dicembre 2021 sono state cancellate e “rinviate”.

Gli ingenui  avevano assicurato che avrebbero chiuso la parentesi del caos aperta nel
2011 da un Nicolas Sarkozy molto mal ispirato da BHL. Un fallimento in più per il benpensante democratico-occidentale. Da quando nel 2011, rifiutando di prendere in considerazione le realtà umane, quest’ultima anzi pretende di ricostruire la Libia intorno

a prerequisito elettorale incompatibile con il sistema politico tribale. Quindi un vicolo cieco

sulla base di quattro grandi errori:
1) Il postulato dell’esistenza di una nazione libica. Ordunque, non esiste identità Libica. La costante storica è piuttosto la debolezza del potere centrale in relazione alle tribù. Le basi demografiche dei gruppi tribali sono certamente scivolato verso le città, ma il legami tribali non si sono certo allentati. Raggruppate in alleanze o confederazioni le tribù hanno loro proprie regole interne di funzionamento che non coincidono con la democrazia individualista occidentale basata su “Un uomo, un voto”.
2) Non aver visto che il colonnello Gheddafi aveva fondato il suo potere sull’equilibrio tra le tre principali confederazioni libiche.
Or dunque, eliminato il colonnello eliminò, queste ultime hanno riacquistato la propria autonomia in relazione al potere centrale.

3) Avere privilegiato politici di ritorno dall’esilio e ignorato le vere forze del paese

Ora, insediati dagli occidentali, questi politici non rappresentano che solo se stessi e

non le reali forze del paese che sono le tribù.

Il 14 settembre 2015, il Consiglio delle tribù della Libia aveva dichiarato a questo proposito che solo il figlio del colonnello Gheddafi, Seif al-Islam era autorizzato a parlare in loro nome.

4) Hanno imposto il prerequisito elettorale prima di ricostruire lo stato

La priorità però non sono le elezioni.
Come dopo il 1945, fu necessario stabilire un nuovo patto sociale partendo dalla realtà  tribale e regionale. Tutto al contrario, ingabbiati dalla loro ideologia, gli occidentali hanno postulato che le elezioni avrebbero permesso di raggiungere un consenso nazionale
tra le fazioni libiche.

Nel 2012 e 2014, tre elezioni sono state poi organizzate con un forcipe e hanno permesso di eleggere un Congresso Generale, un’Assemblea Costituente, poi una Camera dei Rappresentanti.
Nell’agosto 2014, minacciata dalle milizie, queste ultime si rifugiarono a Tobruk, in Cirenaica.
Invece di costruire consenso, queste tre elezioni hanno al contrario accentuato le divisioni locali, ampliato il divario tra Tripolitania e Cirenaica e provocato una guerra civile all’interno della guerra civile, specialmente in Tripolitania. Di conseguenza, una guerra di tutti contro tutti senza via d’uscita, punteggiato di accordi internazionali mai rispettati sul terreno e alla fine l’interferenza della Russia e della Turchia.
Oggi, e più che mai, la Libia è tagliata in due, messa male se non attraverso un sistema confederale in grado di riportare la Cirenaica e i Tripolitani a inventarsi un destino comune. Ma la “comunità internazionale ” si ostina ad esigere che la data delle elezioni sia

fissata …

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Le cause del fallimento politico della Francia nel Sahel, di Bernard Lugan

Interessante, anche se l’autore sembra dimenticare che l’approccio dogmatico ed astratto all’avventura militare nel Sahel è il corollario di una politica egemonica imperialistica, per quanto in declino; vittima non solo dei rivolgimenti interni a quei paesi ma anche dell’arrivo e del ritorno di nuovi attori esterni_Giuseppe Germinario

Nel Sahel, a dieci anni dalla trionfale accoglienza riservata alle forze francesi, e dopo che 52 dei migliori figli di Francia sono caduti per difendere i maliani che preferiscono emigrare in Francia piuttosto che combattere per il proprio paese, si susseguono manifestazioni antifrancesi . Convogli militari ora circolano sotto insulti, sputi e sassi. Sulla strada dalla Costa d’Avorio, la situazione diventa così difficile che inizia a sorgere la questione dell’approvvigionamento di Barkhane. A fine novembre 2021, in Niger, dopo la morte di diversi manifestanti che avevano bloccato un convoglio militare francese, il governo nigeriano ha incriminato Barkhane… La strategia francese di ridispiegare in Niger le forze precedentemente di stanza in Mali passerà quindi sotto la responsabilità di ‘atto di bilanciamento…

La situazione regionale è così degradata che, per paura di manifestazioni, il presidente Macron ha appena rinunciato ad andarci per incontrare i funzionari regionali. Forse andrà in una base militare solo per festeggiare il Natale con un’unità francese.

Perché un tale disastro politico? Dopo esserci cacciati dalla Repubblica Centrafricana accumulando i nostri errori, sperimenteremo un nuovo e umiliante fallimento, ma questa volta nella BSS?

Come continuo a dire e scrivere da anni, e come dimostro nel mio libro Le guerre del Sahel dall’inizio ai giorni nostri , i decisori francesi fin dall’inizio hanno fatto una falsa analisi vedendo il conflitto regionale attraverso il prisma dell’islamismo. La realtà, però, è diversa perché l’islamismo è prima di tutto la superinfezione di ferite etno-razziali millenarie che nessun intervento militare riesce a chiudere.

Al nord, è il risorgere di una frattura inscritta nella notte dei tempi, di una guerra etno-storica-economica-politica condotta dal 1963 dai Tuareg. Qui la soluzione del problema è tenuta da Iyad Ag Ghali, storico leader delle precedenti ribellioni tuareg. Dal 2012 ho continuato a dire che dovevamo trovare un’intesa con questo leader Ifora con cui avevamo contatti, interessi comuni e la cui lotta è prima di tutto per l’identità. Tuttavia, per ideologia, rifiutandosi di prendere in considerazione le costanti etniche secolari, coloro che definiscono la politica franco-africana consideravano al contrario che fosse lui l’uomo da massacrare… Il presidente Macron ha persino ordinato più volte alle forze di Barkhane di eliminarlo e che , fino a poco tempo fa, quando le autorità di Bamako stavano negoziando una pace regionale direttamente con lui… Già, il 10 novembre 2020, Bag Ag Moussa, il suo luogotenente, era stato ucciso da un attacco aereo.

Il conflitto nel sud (Macina, Liptako, regione conosciuta come i “Tre Confini” a nord e ad est del Burkina Faso), ha anche radici etno-storiche derivanti dal secolare scontro tra i Peul e varie popolazioni sedentarie. A differenza del nord, qui si svolgono due guerre molto diverse. Uno è l’emanazione di grandi fazioni Fulani raggruppate sotto la bandiera di AQIM ( Al-Quaïda per il Maghreb islamico ). L’altro infatti è prima di tutto religioso ed è guidato dallo Stato Islamico l’EIGS ( Stato Islamico nel Grande Sahara ). L’EIGS mira a creare in tutta la BSS (Sahelo-Saharan Band), un vasto califfato transetnico che sostituisca e includa gli attuali Stati. Al contrario, i leader regionali di AQIM, che sono etno-islamisti, hanno obiettivi principalmente locali e non sostengono la distruzione degli stati del Sahel.

Con un minimo di intelligenza tattica, giocando sugli equilibri di potere regionali ed etnici, si poteva rapidamente risolvere la questione del nord del Mali, che avrebbe consentito un rapido disimpegno consentendo di operare la concentrazione delle nostre risorse sulla regione di” 3 frontiere”, quindi contro l’EIGS [1] . Tuttavia, contrariamente a quanto sostenuto dai capi militari di Barkhane, Parigi ha persistito in una strategia “americana”, “colpisce” indiscriminatamente i GAT (Gruppi armati terroristici) e rifiutando qualsiasi approccio “buono” … “À la Française” … come i nostri anziani avevano fatto così bene in Indocina e Algeria. La linea di fondo è che, per i leader francesi, la questione etnica è secondaria o addirittura artificiale, quando non è, secondo loro, romanticismo coloniale…

L’ultimo e caricaturale esempio di cecità ideologica è stata la reazione di Parigi al colpo di Stato del colonnello Assimi Goïta, avvenuto in Mali nell’agosto 2020. In nome della democrazia, del buon governo e dello stato di diritto, nozioni che qui rientrano nel surrealismo politico, La Francia ha tagliato i legami con l’ex comandante delle forze speciali maliane, la cui acquisizione è stata comunque un’opportunità per la pace. Avendo per le sue funzioni un giusto apprezzamento delle realtà sul terreno, questo Minianka, ramo minoritario del grande ensemble Senufo, non ebbe infatti alcun contenzioso storico-etnico, né con i Tuareg, né con i Peul, i due popoli in origine. i due conflitti in Mali. Ha quindi aperto trattative con Iyad Ag Ghali, che hanno ulcerato i decisori parigini. Bloccati nel loro a priori ideologico, questi ultimi non hanno preso la misura del cambiamento di contesto appena avvenuto, e hanno continuato a parlare di rifiuto di “trattare con il terrorismo”. Prendendo come pretesto questo colpo di stato, Emmanuel Macron ha deciso di ritirare Barkhane, che è stato inteso come un abbandono. E, per completare il tutto, avendo Bamako chiesto l’aiuto della Russia, la Francia ha minacciato, che è stata denunciata come neocolonialismo….

Sulla base di un ostinato rifiuto di prendere in considerazione le realtà sul campo, questo accumulo di errori ha quindi portato a un vicolo cieco. La domanda ora è come uscirne senza mettere in pericolo le nostre forze. E senza che la nostra partenza aprisse la porta a un genocidio di cui saremmo accusati. Come ricordo, in Ruanda, è stato perché l’esercito francese si era ritirato che c’è stato un genocidio, perché, se le forze del generale Kagame non avessero chiesto la loro partenza, questo genocidio di fatto non si sarebbe verificato.

Quattro lezioni principali devono essere tratte da questo nuovo e amaro fallimento politico africano:

1) L’urgente priorità è sapere cosa stiamo facendo nel BSS, dobbiamo quindi definire finalmente, e molto rapidamente, i nostri interessi strategici attuali e a lungo termine per sapere se dobbiamo disimpegnarci o meno, e in caso affermativo, a che livello, e senza perdere la faccia.

2) In futuro, non dovremo più intervenire sistematicamente e direttamente a vantaggio degli eserciti locali che abbiamo instancabilmente e senza successo addestrato dagli anni ’60 e che, ad eccezione di quello del Senegal e della guardia presidenziale ciadiana, sono incompetente. E se lo sono, è per un semplice motivo che è che gli Stati, essendo artificiali, non esiste un vero sentimento patriottico.

3) Sarà necessario favorire interventi indiretti o azioni rapide e puntuali da parte delle navi, che eliminerebbero il disagio dei passaggi a terra percepiti localmente come un’insopportabile presenza neocoloniale. Sarebbe quindi necessaria una ridefinizione e un aumento di potenza delle nostre risorse marittime proiettabili.

4) Infine e prima, dovremo lasciare che l’ordine naturale africano si dispieghi. Ciò implica che i nostri intellettuali capiscano finalmente che i vecchi governanti non accetteranno mai che, attraverso il gioco dell’etnomatematica elettorale, e solo perché sono più numerosi di loro, i loro ex sudditi o tributari ora sono i loro padroni. . Ciò sconvolge le concezioni eteree della filosofia politica occidentale, eppure questa è la realtà africana.

Per più di mezzo secolo in Africa, l’ossessione occidentale per i diritti umani ha portato a massacri, l’imperativo democratico ha provocato la guerra e le elezioni hanno portato al caos.

Più che mai è quindi importante riflettere su questa profonda riflessione che fece nel 1953 il Governatore Generale dell’AOF: “Meno elezioni e più etnografia, e tutti troveranno ciò che cercano”… In una parola, il ritorno alla realtà e alla rinuncia alle nuvole.

[1] A tal proposito si rimanda al mio comunicato stampa del 24 ottobre 2020 dal titolo “Mali: fondamentale il cambio di paradigma”.

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Algeria, la pericolosa fuga in avanti_di Bernard Lugan

La crisi che ogni giorno si aggrava tra Algeria e Marocco si spiega perché
L’Algeria è contro il muro. Per anni, negando il suo appoggio diretto al Polisario, ha voluto
far credere che fosse solo un’osservatrice della questione del Sahara occidentale. Oro
il crollo del Polisario e la disgregazione del suo appoggio, ora lo costringe ad agire per primo linea in un’escalation verbale e militare [1]

Dopo aver interrotto unilateralmente le relazioni
relazioni diplomatiche con il Marocco, poi dopo aver
vieta il suo spazio aereo ai suoi aerei civili e mette
la fine del progetto del gasdotto per
Spagna di passaggio in Marocco, il discorso
Il guerriero algerino è salito di livello
dopo la distruzione di due camion algerini da parte di
un drone marocchino. Da entrambe le parti, truppe
sono ammassati al confine. Mentre il Marocco
si astiene da qualsiasi dichiarazione bellicosa, il
Il governo algerino si fa avanti
parole ostili abbondantemente trasmesse da a
stampa falco.
Cosa sta cercando l’Algeria? Dov’è l’interesse?
anche un “Sistema” difficile da suonare
pericolosamente con il fuoco?
La linea di fondo è che il “Sistema”
L’algerino sa che i suoi giorni sono contati e che,
semplicemente risparmiare tempo, ritardare
l’inevitabile implosione, ha bisogno di un derivato
nazionalista. Esattamente come nel 1963
quando la “guerra delle sabbie” glielo aveva permesso
per evitare la secessione della Cabilia da
designazione di un nemico conveniente, il Marocco
(pagina mappa…).
Oggi l’Algeria è diplomaticamente
isolato. Economicamente, è in bancarotta e
politicamente è sull’orlo di un precipizio. quanto a
nella sua giovinezza ha un solo futuro, il
haraga in Europa…
Per una gerontocrazia senza fiato, di cui
l’esercito, suo ultimo pilastro, è diviso in clan che
odiatevi a vicenda – per un decennio 30 generali hanno
stato imprigionato – l’unica via d’uscita è l’unità

artificiale, sia contro il vicino marocchino che
contro l’ex colonizzatore francese. Le due
sono attualmente il suo obiettivo…
Il problema è che le accuse in piedi
contro la Francia ha avuto un risultato contrario al gol
Ricerca. Nonostante tutte le sue concessioni, di tutto
i suoi abbandoni e anche tutte le sue genuflessioni, il
Il presidente Macron che non è stato pagato in cambio
Sembra aver finalmente capito che non lo farà mai
basta agli occhi di Algeri, che vuole tenere la Francia sotto il
giogo del pentimento perpetuo.
Inoltre, a parte i soliti “portatori di
valigie ”, questo stravagante ricatto della memoria esercitato
dal “Sistema” algerino finì per risvegliarsi a
parte dell’opinione pubblica francese. Così tanto che
uno dei temi della campagna presidenziale è
proprio quello del rifiuto del pentimento.
Più così ora è sempre meno
raro sentire politici francesi
tenere il seguente discorso: come ha dimostrato l’Algeria
che la Francia non farebbe mai abbastanza nel
contrizione, quindi non c’è più niente da aspettarsi da lei.
Quindi, in queste condizioni, perché no?
sostenere apertamente la posizione marocchina e rendere
come gli Stati Uniti, riconoscendo
ufficialmente il carattere marocchino del Sahara occidentale?
Per quanto riguarda il Marocco, l’incessante
Anche le accuse algerine sono a
totale inefficacia. Algeri lo sa benissimo
le sue richieste riguardo al Sahara marocchino no
non può mai essere soddisfatto.
Tanto più che l’Algeria, che occupa il suo
confine occidentale di intere regioni

storicamente marocchina e quella colonizzazione
abbastanza artificialmente attaccato a lui, non ignorare
che il Marocco non accetterà mai di rinunciare al suo
province sahariane.
Allora perché l’Algeria insiste?
rimanere in un’impasse conflittuale fondata
su un rifiuto concreto della realtà? Invece di prendere
prendere in considerazione la questione non negoziabile di
marocchina del Sahara occidentale, e, a partire da
questa realtà, per cercare di trarne vantaggio
commerciale o altro negoziando con il
Marocco, perché, al contrario,
lei affonda un po’ più a fondo in un?
all’endismo che minaccia la pace regionale?
Il rischio è che, indurendo il tono e

tenere discorsi bellicosi, un punto no
ritorno sarà eventualmente raggiunto, con il risultato,

un conflitto che avrebbe solo esiti negativi
per entrambi i paesi. A meno che, avendone solo uno
solo obiettivo a brevissimo termine, vale a dire il suo unico
sopravvivenza, il “Sistema” algerino e lo stato maggiore
impegnarsi in un conflitto suicida nel tentativo di
aprirsi all’Algeria “bloccata” sulla costa
mediterraneo una finestra sulla facciata
Atlantico… Una scommessa pazzesca. Ma c’è un altro?
spiegazione per l’autismo politico algerino?

Il cuore del problema è quello dei confini
tra i due paesi. Per creare l’Algeria che
non è mai esistita, la Francia infatti si è smembrata
Marocco, eliminando le regioni storicamente
Marocchino, che sia Tindouf, il
Gourara, Tidikelt ecc. come è stato
spiegato nel numero di ottobre 2021 di
Vera Africa.
A ciò si aggiunge la questione del Sahara occidentale,
immensità strappata al Marocco dalla colonizzazione
Spagnolo. Tuttavia, per i marocchini, questo è
loro “Alsazia-Lorena” mentre gli algerini
vorrebbe la creazione di uno “Stato del Sahara” che
essere loro subordinato e che vieterebbe al Marocco di
avere una costa di diverse migliaia
chilometri da Tangeri a nord fino al confine
Mauritano a sud.
Ecco perché, come diceva Hubert Védrine,
ex capo della diplomazia francese: “(…)
l’affare Sahara è un affare nazionale per
Il Marocco e una questione di identità per l’esercito
algerina “.
Tanto più che l’attuale capo di gabinetto
algerino, il generale Saïd Chengriha, ex
Comandante della Terza Regione Militare,
colui il cui cuore è Tindouf e che perciò
nei confronti del Marocco, alimenta una nota avversione per
nei confronti dei suoi vicini marocchini.ù

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Mali e Libia: “Meno elezioni, più etnografia e ciascuno troverà il proprio rendiconto”, di Bernard Lugan

Considerazioni illuminanti, per altro già ribadite, di Bernard Lugan a proposito di Mali e Libia. A maggior ragione per l’Italia, visto il suo crescente coinvolgimento in posizione gregaria in questa area così prossima e strategica, sia dal punto di vista geografico che da quello dell’approvvigionamento energetico e dei flussi migratori. Lasciamo perdere, per il momento l’intreccio di relazioni economiche, altrettanto importanti, ma improponibili in condizione di guerra endemica. Un coinvolgimento in particolare al fianco della Francia, in chiara difficoltà in tutta l’area, con l’aggiunta clamorosa dell’Algeria. La Francia, appunto, un paese “fratello-coltello” che non ha esitato a sferrare un colpo distruttivo, ai danni dell’Italia in Libia, pensando di subentrarvi, in realtà aprendo ulteriori varchi a Turchia e Russia. Si ritorna sul luogo del delitto riproponendo la visione manichea di imposizione della “democrazia” in un contesto che richiede altre modalità di ricomposizione delle fratture; in caso di temporaneo e formale successo non farà che rendere endemica la condizione di guerra civile. Dobbiamo rassegnarci ai “successi” dei profeti dell’Occidente? Buona lettura_Giuseppe Germinario
Un breve comunicato stampa riassuntivo per fissare un punto fermo. Dal 2011 nel caso della Libia, e dal 2013 in quello del Mali – vedi i resoconti dei numeri di Afrique Réelle e i miei comunicati stampa – , lavorando solo sull’unico reale, annuncio ciò che accadrà a livello globale in entrambi i paesi. In tutta umiltà, i fatti sembravano darmi ragione:
1) In Mali siamo in presenza di due guerre, quella dei Tuareg al nord e quella dei Peul al sud. In entrambi i casi, la questione non è primariamente religiosa perché l’islamismo è solo la superinfezione di ferite etno-razziali millenarie. Nel nord la chiave del problema è detenuta da Iyad Ag Ghali, storico leader delle precedenti ribellioni tuareg. Quest’ultimo è però da tempo sostenuto dall’Algeria, come lo confermano i recenti incontri che ha appena avuto con i servizi algerini.
Fin dall’inizio, non dovremmo, come ho costantemente suggerito, arrivare a un’intesa con questo leader Ifora con cui abbiamo avuto contatti, interessi comuni, e la cui lotta è identitaria prima di essere islamista? Per ideologia, rifiutando di prendere in considerazione le costanti etniche secolari, coloro che fanno la politica franco-africana consideravano al contrario che fosse lui l’uomo da massacrare… Molto recentemente, il presidente Macron ha ordinato ancora una volta alle forze di Barkhane di eliminarlo. E questo proprio nel momento in cui, sotto il patrocinio algerino, le autorità di Bamako stanno negoziando con lui una pace regionale…
Anche il conflitto nel sud (Macina, Liptako e la cosiddetta regione dei “Tre Confini”) ha radici etno-storiche. Tuttavia, lì si svolgono due guerre. Uno è l’emanazione di grandi frazioni dei Fulani e il suo insediamento avverrà parallelamente a quello del nord, attraverso un negoziato globale. L’altro, su base religiosa, è guidato dallo Stato Islamico.
L’errore francese è stato quello di globalizzare la situazione quando era imperativo regionalizzarla. In tal modo :
1) Parigi non ha voluto vedere che l’EIGS ( Stato Islamico nel Grande Sahara ) e l’AQIM ( Al-Quaïda per il Maghreb islamico ) hanno obiettivi diversi. L’EIGS, che è attaccato a Daesh, mira a creare in tutta la BSS (Sahelo-Saharan Band), un vasto califfato transetnico che sostituisca e includa gli attuali Stati. Dal canto suo AQIM essendo l’emanazione locale di grandi frazioni dei due grandi popoli all’origine del conflitto, ovvero i Tuareg a nord e i Peul a sud, i suoi capi locali, i Tuareg Iyad Ag Ghali e i Peul Ahmadou Koufa, hanno principalmente obiettivi locali e non sostengono la distruzione degli stati del Sahel.
2) Parigi non ha voluto vedere che, il 3 giugno 2020, la morte dell’algerino Abdelmalek Droukdal, leader di Al-Quaïda per tutto il Nord Africa e per il BSS, ucciso dalle forze francesi, ha cambiato radicalmente i dati del problema. La sua eliminazione diede autonomia al Tuareg Iyad ag Ghali e al Peul Ahmadou Koufa. Dopo quelle degli “emiri algerini” che avevano a lungo guidato Al-Qaeda nella SSB, quella di Abdelmalek Droukdal ha segnato la fine di un periodo, al-Qaeda non più governata da stranieri, da “arabi”, ma da “regionali”. “. Tuttavia, questi capi regionali hanno obiettivi etnoregionali radicati in un problema millenario nel caso dei Tuareg, laico in quello dei Peul. La mancanza di cultura dei leader francesi ha impedito loro di vederlo. Da qui l’attuale impasse. Tuttavia, avrebbero potuto pensare a ciò che scrisse il Governatore Generale dell’AOF nel 1953: “Meno elezioni e più etnografia, e ognuno troverà qualcosa di suo gradimento ” …
Tuttavia, per i leader francesi, la questione etnica è secondario o addirittura artificiale. Lo “specialista” che mi era succeduto all’EMS di Saint-Cyr Coëtquidan dopo che ne ero stato licenziato, non aveva paura di dire e scrivere che l’approccio etnico è un “c…. “. Con tale formazione in superficie, i nostri futuri capisezione furono quindi costretti a prepararsi alla loro proiezione nella BSS con la lettura clandestina del mio libro Les guerres du Sahel des origines à nos jours , opera costruita appunto dai corsi che tenni al L’Ecole de Guerre e l’EMS prima della mia cacciata…
2) In Libia dove la questione è prima di tutto tribale – e non etnica -, e dove la guerra insensata ispirata da BHL ha portato allo scioglimento delle confederazioni tribali, quindi nell’anarchia, ho spiegato fin dall’inizio che la soluzione risiede nella ricostruzione del sistema politico-tribale un tempo costruito dal colonnello Gheddafi. Inoltre, non ho mai smesso di sostenere che l’unico che può rimetterlo insieme è Seif al-Islam Ghedhafi, suo figlio. Per un semplice motivo: attraverso suo padre, fa parte delle alleanze tribali della Tripolitania, e attraverso sua madre, di quelle della Cirenaica. Attraverso di essa può quindi rinascere l’ingranaggio tribale su cui poggia tutta la vita politica del Paese. Tutto il resto è solo un’artificiosa patina politica europea-centrica.
Secondo alcune fonti, Seif al-Islam Gheddafi, sostenuto dal Consiglio tribale, starebbe valutando di candidarsi alle prossime elezioni. Dove e quando potrebbe annunciare la sua candidatura? Dalla Libia o da un paese del Maghreb?

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Sudan, perché il colpo di stato?_di Bernard Lugan

Al di là dei commenti speciosi e superficiali dei media, gli eventi in corso in Sudan sono l’esatta ripetizione di quanto accaduto in Egitto tra il 2011 e il 2013.

In Egitto, lasciando defluire il corso dell’ondata della “primavera araba”, l’esercito ha deposto il maresciallo Mubarak, cedendo apparentemente il potere ai civili. Pensando di aver vinto, il presidente Morsi ha poi commesso diversi errori politici sotto l’occhio vigile dell’esercito che ha lasciato il movimento rivoluzionario a dividersi. Poi, nel 2013, di fronte all’esasperazione della popolazione a causa della penuria che era stata in gran parte organizzata da loro, l’esercito ha ripreso il potere. Alla fine della “primavera araba”, chiusa la parentesi civile, il generale al-Sisi era dunque succeduto al maresciallo Mubarak… ( vedi a questo proposito il mio libro Storia dell’Egitto dalle origini ai giorni nostri ).

In Sudan, nel 2019, l’esercito ha dovuto affrontare a sua volta una grande protesta popolare. Non volendo affrontare direttamente la folla, lasciò che quest’ultima cacciasse dal potere il generale Omar al-Bashir. Ma, proprio come in Egitto, ha mantenuto il controllo del gioco attraverso la creazione di un Consiglio sovrano presieduto dal generale al-Burhane e un governo di transizione, composto per metà da soldati e da civili,  presieduto da Abdallah Hamdok.

Come in Egitto, l’esercito ha lasciato che la situazione degenerasse mentre spingeva la componente civile del governo all’errore. Questo è stato tanto più facile per lui in quanto il paese è in bancarotta da quando l’indipendenza del Sud Sudan nel 2011 lo ha privato di circa il 75% delle sue entrate petrolifere. Il debito pubblico è colossale, le carenze apocalittiche e, come se non bastasse, il polmone del Paese che è Port Sudan sul Mar Rosso, collegato a Khartoum da una ferrovia, vera arteria vitale del Paese, è regolarmente bloccato dall’insurrezione dell’etnia Bedja che vive nell’entroterra.

Nella notte tra il 24 e il 25 ottobre, giudicando il momento favorevole a salvaguardare gli interessi dell’esercito, il generale al-Burhane ha preso formalmente il potere che già esercitava in gran parte tramite il Consiglio di Sovranità. Il momento era cruciale perché la componente civile dello Stato minacciava doppiamente i suoi interessi:

– Economicamente perché, come in Egitto, qui, in Sudan, sono le forze armate i veri attori economici del Paese.

– Giudiziariamente a causa dei crimini commessi durante la guerra in Darfur. Crimini che hanno portato l’ex presidente Omar al-Bashir ad essere incriminato dalla Corte penale internazionale. Tuttavia, la componente civile del governo ha acconsentito alla sua consegna a questo tribunale; decisione che molti militari hanno visto come un insulto. Ma anche come una minaccia perché tutti gli alti ufficiali dell’esercito sudanese hanno partecipato a questi terribili eventi.

La forza dell’esercito sudanese è paragonabile a quella dell’esercito egiziano? Se è così, come in Egitto, dopo il teatro delle ombre civile, un generale sarà quindi succeduto a un generale …

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Lo stato della questione del Sahara, di Bernard Lugan

Nel 1956, quando il Marocco riconquistò la sua indipendenza, doveva ancora completare la sua riunificazione territoriale. La sua sovranità infatti era stata ripristinata solo sulle due ex zone dei protettorati francese e spagnolo, il che significava che diverse province o parti del paese dovevano ancora essere recuperate. Al nord, Sebta, Melilla, le isole Jaafarin, al sud, Ifni, Tarfaya, Saquia el Hamra e Oued ad Dahab, tutto sotto la sovranità spagnola.

 

Il signor Allal el Fassi, leader del partito nazionalista lstiqlal (Indipendenza), era stato molto chiaro su questo argomento il 27 marzo 1956 quando aveva dichiarato che: “Finché Tangeri non sarà liberata dal suo status internazionale finché il deserti spagnoli del sud, finché il Sahara da Tindouf ad Atar, finché i confini algerino-marocchini non saranno liberati dalla loro tutela, la nostra indipendenza rimarrà zoppa e il nostro primo dovere sarà quello di continuare l’azione per liberare la patria e unificarlo. Perché la nostra indipendenza sarà completa solo con il Sahara”. A tal fine, il sultano Mohammed V aveva dato il suo sostegno allo svolgimento nel marzo 1956 del Congresso della Saquia el Hamra dove diverse migliaia di rappresentanti di tutte le tribù della regione avevano proclamato la loro marocchinità. Nel giugno 1956 il Rguibat imbraccia le armi e nel novembre 1957 praticamente tutto il Sahara spagnolo è sotto il controllo dell’ALN, ad eccezione di tre punti di resistenza: Villa Cisneros, El Ayoun (Laâyoune) e Cape Juby (Capo Bojador, Boujdour). Questo sviluppo della situazione ai confini dell’Algeria, dove l’esercito francese stava combattendo l’FLN algerino, non poteva lasciare indifferente lo stato maggiore francese ed è per questo che, insieme alle autorità spagnole, fu deciso un intervento congiunto nel febbraio 1958. Fu Operazione Swab che ha cambiato i dati dei problemi nel Sahara Occidentale perché le tribù più impegnate nella lotta per l’attaccamento della regione al Marocco sono poi andate in esilio in territorio marocchino. Tuttavia, questi rifugiati erano al centro del problema della creazione delle liste elettorali per il referendum sull’autodeterminazione nel Sahara occidentale. Nel 1962, il re Hassan II chiese al Comitato per la decolonizzazione delle Nazioni Unite di inserire Ifni e il Sahara occidentale nell’elenco dei territori da decolonizzare. Nel 1964 e nel 1965, l’ONU sostenne la rivendicazione marocchina e invitò la Spagna ad aprire immediatamente i negoziati. Il 20 dicembre 1966 l’Assemblea Generale chiese a Madrid di restituire l’area di Sidi Ifni al Marocco e di organizzare, sotto gli auspici dell’ONU, un referendum nel Sahara occidentale. La Spagna si arrese a Ifni nel 1969, ma la spinosa questione del Sahara occidentale rimase irrisolta. Il 23 luglio 1973, i presidenti Boumediene d’Algeria, Ould Daddah di Mauritania e re Hassan II si incontrarono ad Agadir per definire un piano d’azione comune sulla questione del Sahara occidentale. Durante questo vertice sono state espresse in pieno giorno le opposte posizioni del Marocco e dell’Algeria: – La posizione di Rabat è stata chiara: in cambio del riconoscimento dell’esistenza della Mauritania da un lato e del suo confine con l’Algeria dall’altro, Algeri e Nouakchott doveva sostenere il desiderio del Marocco di recuperare il “suo” Sahara. Il Marocco ha accettato l’autodeterminazione solo a condizione che il ballottaggio avvenga o al ritorno della regione al Marocco o al mantenimento dello status quo spagnolo. – L’Algeria, che voleva invece uno “Stato sahariano” indipendente, vedeva nell’autodeterminazione un mezzo per ottenere questa indipendenza. Le soluzioni possibili erano quattro:
1) Attaccamento e integrazione in Marocco. 2) La divisione del territorio tra Marocco e Mauritania. 3) La costituzione di un’entità da definire sotto la triplice influenza di Marocco, Algeria e Mauritania. 4) La costituzione di uno Stato sahariano indipendente. Madrid ha applicato le risoluzioni Onu, in particolare quella relativa al referendum, ma in un senso non in linea con le opinioni marocchine.

Il 20 agosto 1974, re Hassan II si oppose ufficialmente al referendum indetto dalla Spagna perché, per lui, non c’era motivo di sottoporre al voto un territorio marocchino e ciò per staccarlo definitivamente dal Marocco. Quindi, il 17 settembre 1974, in questo contesto di situazione bloccata, il sovrano marocchino ha presentato la controversia marocchino-spagnola alla Corte internazionale di giustizia. Il 16 settembre 1975, quest’ultimo rese noto il suo parere: – Il Sahara occidentale non era una “terra nullius” al momento della sua colonizzazione da parte della Spagna poiché il territorio: – La Corte ha riconosciuto: “(…) l’esistenza, al tempo della colonizzazione spagnola, dei legami legali di fedeltà tra il Sultano del Marocco e alcune tribù che vivevano nel territorio del Sahara occidentale”. – La Corte ha ammesso: “(…) che le peculiarità dello Stato marocchino nascevano anzitutto dai fondamenti stessi del potere in Marocco, di cui il vincolo religioso dell’Islam e quello di fedeltà costituivano, più che la nozione di territorio, il due elementi fondamentali”. Legalmente in una posizione di forza, il re Hassan II cercò un modo per costringere il governo spagnolo a negoziare con lui. Ha quindi immaginato di riunire 350.000 volontari di cui 35.000 donne, in rappresentanza di tutte le province, regioni e città del Marocco, per coinvolgerli in una marcia pacifica verso il Sahara occidentale. Era la “marcia verde” che iniziò giovedì 6 novembre 1975 e che riunì diverse centinaia di migliaia di manifestanti in un’abbondanza di bandiere marocchine. Madrid ha accettato il fatto compiuto e il 14 novembre è stato firmato l’accordo tripartito Spagna, Marocco e Mauritania. Prevede la spartizione dell’ex colonia spagnola tra Marocco e Mauritania. In Marocco la parte settentrionale, cioè la Saquia el Hamra e in Mauritania la parte meridionale o Oued ad Dahab. Per il bene di una soluzione globale, il Marocco aveva quindi accettato di abbandonare la parte meridionale del Sahara occidentale alla Mauritania per allearsi con Nouakchott. La concessione, che era cospicua, fu però capita solo perché la Mauritania era diventata amica del Marocco. Tuttavia, l’Algeria e il Polisario cercarono di opporsi alla nuova situazione e nell’ex territorio spagnolo scoppiarono pesanti combattimenti. Nella zona marocchina l’esercito reale è riuscito a contenere gli assalitori ma non è stato lo stesso nel sud dove è stato surclassato l’esercito mauritano, cosa che ha costretto il Marocco ad intervenire. Per l’Algeria, infatti, non si trattava di lasciare che il Marocco si estendesse lungo la costa atlantica, chiudendo così tutti gli sbocchi del Sahara algerino a ovest e all’oceano. La sua politica era quindi semplice: contestare con tutti i mezzi il carattere marocchino del Sahara occidentale e sostenere la finzione dell’esistenza di un popolo sahariano che ha il diritto di autodeterminarsi in modo da creare un mini stato sahariano sul quale Algeri potrebbe esercitare il controllo. di protettorato. Per raggiungere questo obiettivo, l’Algeria agisce in due direzioni: 1) Contestando l’accordo tripartito del 14 novembre 1975, non riconoscendo: “ai governi di Spagna, Marocco e Mauritania ogni diritto di disporre del territorio del Sahara e del destino di la sua gente; per questo considera nulla la Dichiarazione di Principi presentata dalla Spagna e non conferisce alcuna validità alle sue disposizioni”. (Lettera del rappresentante permanente dell’Algeria all’ONU, 19 novembre 1975. 2) Dare al Polisario i mezzi militari che gli permettano di condurre una vera guerra. Prima contro la Mauritania per destabilizzare il governo, poi, poi, contro il Marocco. Algeri ha beneficiato per la prima volta del sostegno spagnolo.

Madrid ha così denunciato l'”espansionismo marocchino” e ha avanzato l’idea dell’autodeterminazione del “popolo sahariano”. Poi, dopo la “Marcia Verde” e il ritiro spagnolo, l’Algeria è rimasta sola contro il Marocco. Poiché la sua azione politica e diplomatica non aveva avuto i risultati sperati, l’Algeria diede al Polisario i mezzi militari che gli mancavano e patrocinò una “Repubblica Araba e Democratica del Sahara” (RASD) che fu proclamata all’inizio del mese di febbraio 1976 e portò al fonte battesimale dell’Algeria, il cui interesse regionale era triplice: politico, economico [2] e strategico [3]. Per Algeri non si trattava di lasciare che il Marocco si estendesse lungo la costa atlantica e chiudesse così tutti gli sbocchi dal Sahara algerino all’oceano. La sua politica era quindi quella di contestare con tutti i mezzi il carattere marocchino del Sahara occidentale e di sostenere la finzione dell’esistenza di un popolo sahariano avente diritto all’autodeterminazione, in modo da creare un mini-stato sul quale potesse esercitarsi. sorta di protettorato. Il 25 ottobre 1977 un’azione spettacolare del Polisario portò al rapimento di ostaggi europei a Zouératen in Mauritania e il Marocco si trovò costretto ad intervenire per evitare il crollo dell’esercito mauritano. Il 10 luglio 1979, un colpo di stato rovesciò il presidente mauritano Mokhtar Ould Daddah che fu sostituito dal colonnello Ould Mohamed Salek. Pochi giorni dopo, al 16° vertice dell’OUA tenutosi a Monrovia, la Mauritania ha fatto sapere che si stava dissociando dal suo alleato marocchino e ha votato una risoluzione che chiede un referendum nel Sahara. Poi, il 5 agosto 1979, ad Algeri, alla presenza di quattro ministri algerini, fu firmato un accordo di pace in base al quale la Mauritania abbandonò ufficialmente la parte del Sahara che occupava, ovvero l’Oued ed Dahab ribattezzato Tiris El Gharbia. Di fronte a quello che considerava un rischio di esca, il Marocco ha poi fatto sapere che il territorio abbandonato dalla Mauritania era storicamente parte del regno marocchino. L’11 agosto l’esercito marocchino ne prese possesso e il 14 agosto i rappresentanti delle tribù di Oued ed Dahab giunsero a Rabat per giurare fedeltà al re Hassan II. Il Sahara occidentale era tornato completamente marocchino, ma le tensioni con l’Algeria, retrobase del Polisario, non cessarono mai. Inoltre, nel 1980, il Marocco decise di costruire un muro lungo 2700 chilometri proteggendo il territorio dai raid motorizzati lanciati dal Polisario dall’Algeria, che consentirono all’esercito marocchino di riprendere l’iniziativa sul terreno. La questione del Sahara occidentale è stata ancora una volta fortemente risolta nel 2020 e nel 2021. Nel febbraio 2020, durante il 33° vertice dell’Unione africana (ULA), e quando era appena stato investito alla guida dell’Algeria, il sig. Abdelmadjid Tebboune, è chiaramente in linea con la continuità della politica algerina nei confronti del Sahara marocchino. Poi, il 9 e 10 febbraio 2021 al vertice dell’Unione africana tenutosi ad Addis Abeba, il suo presidente, il sudafricano Cyril Ramaphosa. Questo fermo sostegno della RASD e del Polisario si è basato sul capo della Commissione per la pace e la sicurezza dell’UA, il diplomatico algerino Smail Chergui, anch’egli impegnato nella causa della RASD, per cercare di bloccare i progressi diplomatici. degli interessi marocchini. Per il sostegno della RASD e del Polisario c’era davvero un’emergenza, la RASD avendo visto il suo appoggio sciogliersi come neve al sole. Infatti, ancora riconosciuto da 70 Stati membri delle Nazioni Unite alla fine del XX secolo, la RASD è oggi riconosciuta solo da 24, di cui 12 in Africa, ovvero Algeria, Angola, Botswana, Nigeria, Etiopia, Mozambico, Mauritania, Namibia, Sudafrica , Uganda, Tanzania e Zimbabwe. All’interno dell’UA, il Marocco ha un forte sostegno.

Per la cronaca, nel novembre 1985, il regno si ritirò dall’OUA (Organizzazione dell’Unità Africana) quando questa organizzazione riconobbe ufficialmente la RASD. Nel 2017, dopo 3 decenni di assenza, il Marocco è tornato nell’UA insieme a una politica africana attiva illustrata dagli importanti tour del re Mohammed VI nel 2016 e nel 2017 [4]. Nel tentativo di silurare la diplomazia marocchina, all’inizio del 2021, nell’estremo sud del territorio marocchino, il Polisario ha tagliato la strada che collegava il Senegal e la Mauritania al Mediterraneo prima di essere respinto dall’esercito marocchino. Poiché il Polisario ovviamente non ha agito di propria iniziativa, era chiaro che l’Algeria l’aveva ingaggiato per testare la volontà marocchina. Tanto più che il 27 febbraio 2021, ampiamente riportato dall’APS, l’agenzia di stampa ufficiale algerina, il Polisario ha celebrato il 45° anniversario della RASD in una cornice direttamente ereditata dalle celebrazioni marxiste degli anni 70. Totalmente emarginato, il Polisario, una sorta di cumulo di testimonianze delle lotte antimperialiste di un tempo, sarebbe poi sopravvissuto solo grazie allo stillicidio dei servizi algerini.

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