OLTRE IL GIARDINO, di Andrea Zhok

Ieri il responsabile della politica estera dell’Unione Europea Joesp Borrell ha spiegato in un’intervista come in Europa vi sia “la migliore combinazione di libertà politica, prosperità economica e coesione sociale che l’umanità è stata in grado di costruire: tutte e tre le cose insieme”, e prosegue paragonando l’Europa a “un giardino” e il resto del mondo ad una “giungla che potrebbe invadere il giardino”. È per questa ragione che gli europei devono “andare nella giungla”, devono “essere molto più coinvolti nel resto del mondo. Altrimenti, il resto del mondo ci invaderà”.
Questo discorso nella sua schiettezza ideologica rivela molte più cose delle circostanze in cui ci troviamo di qualunque sottile analisi geopolitica. Certo, vi saranno strateghi che operano dietro le quinte ed esaminano la realtà con freddo realismo in termini di mero potere, economico e militare, ma ogni epoca, ogni civiltà poggia sempre su una qualche visione fondamentale, cui aderiscono i più, che operano al di fuori della “stanza dei bottoni”. Le parole di Borrell ci rammentano gli estremi di questa visione portante, che sta al fondo dell’attuale conflitto mondiale ibrido (noi siamo già nella Terza Guerra Mondiale, ma in una forma per ora ibrida, in cui le componenti economica e di manipolazione cognitiva sono almeno altrettanto importanti di quella militare).
Borrell ci ricorda, involontariamente, come l’Occidente abbia costruito la propria autocoscienza negli ultimi due secoli in una forma “progressista” (condivisa, beninteso, anche da quelli che si dicono “conservatori” in politica), una forma in cui il mondo “va avanti”, e individui e popoli si distinguono in “avanzati” e “arretrati”.
Noi occidentali, in quanto avanzati e progrediti, possiamo legittimare ai nostri occhi fondamentalmente ogni abuso ed ogni prevaricazione nei confronti degli arretrati, giacché il progresso funziona come un dispositivo di giustificazione morale. Il progressismo occidentale è in effetti una forma di razzismo culturale, straordinariamente arrogante ed aggressivo, che riveste la primitiva “legge del più forte” con decorazioni ideologiche di altissima parvenza morale (i diritti umani, i diritti civili, ecc.).
L’intero apparato intellettuale e propagandistico organico a questa visione produce a getto continuo giustificazioni ad hoc per qualunque violenza e abuso, adottando con sistematicità doppiopesismi mirabolanti e sofismi iperbolici (dal Congo belga a Wounded Knee, dalla Shoah a Hiroshima, dal Vietnam all’Iraq, ecc. è un libro degli orrori punteggiato di appelli al progresso). Al fondo di tutto ciò c’è un assunto roccioso, l’unica cosa davvero stabile e inconcussa: il senso della nostra superiorità. Ciascuna delle infinite prove del carattere aggressivo, predatorio, disumanizzante della civiltà occidentale contemporanea vengono automaticamente lette dall’apparato come errori di percorso, incidenti inessenziali, danni collaterali nel processo verso l’avanti, il di più, il meglio, il progresso.
Noi, gli Eloi, viviamo nel giardino, gli altri, i Morlock, nella giungla.
È interessante ricordare come l’intera fondazione storica di questo senso di superiorità è esclusivamente fondata sulla superiorità tecnologica, militare e poi industriale, maturata compiutamente negli ultimi due secoli. È con la rivoluzione industriale e la capacità di produrre in serie grandi quantità di armi micidiali che il senso di superiorità e avanzamento diviene pienamente convincente.
Non è certo sul piano spirituale, né su quello dell’armonia delle forme di vita, né su quello della felicità, né su quello della raffinatezza artistica, né su nient’altro che l’Occidente ha maturato la propria autocoscienza di superiorità, nient’altro salvo la forza tecnologicamente supportata. Per dire, non abbiamo elaborato niente di comparabile alle tecniche del corpo e della mente che possiamo trovare nella cultura indiana, cinese, giapponese, ecc. ma noi avevamo le mitragliatrici, loro no.
In effetti l’unica cosa che nutre e permette di definire uno standard di “progresso” è l’accumulo di potenza tecnologica. Se sia migliore, “più progredita” la poesia giapponese o quella tedesca è questione che nessuna persona sana di mente si metterebbe seriamente a discutere, ma che la tecnologia tedesca fosse superiore a fine ‘800 era dimostrabile sul campo, e ciò, ad esempio, spinse il Giappone (nonostante grandi resistenze) ad adeguarsi agli standard europei.
L’Occidente è dunque la forza storica che ha spinto il mondo nella direzione di una competizione infinita, illimitata, giacché ha creato un campo di gioco dove non c’era pietà per chi restava “indietro”. L’Occidente ha indotto il pianeta ad una sistematica “corsa agli armamenti”, in senso bellico o economico, sulla scorta della propria visione progressista di un avanzamento assoggettante.
Al contempo, sin dall’inizio e con sempre maggiore intensità, l’Occidente (che non coincide con la cultura, o meglio le culture, europee) ha dato mostra di entrare in ricorrenti crisi di autofagia, di destabilizzazione ed autodistruzione. Gli anni che precedono la Prima Guerra Mondiale sono anni culturalmente affascinanti per lo studioso perché sono una straordinaria, insistente elaborazione sul tema della disperazione, della decadenza e del nichilismo (esattamente in parallelo con il simultaneo levarsi delle lodi positivistiche al progresso, all’illuminazione elettrica, ai nuovi “comfort”). Le due guerre mondiali – gli eventi ad oggi più distruttivi che la storia dell’umanità registri – hanno semplicemente portato le lancette dell’orologio della storia di nuovo indietro di mezzo quadrante: e dagli anni ’80 del XX secolo le stesse dinamiche di un secolo prima iniziano a profilarsi.
Oggi e da tempo nel “giardino” occidentale la percezione di precarietà e di mancanza di futuro è generalizzata; siamo alla seconda generazione che nasce e cresce in una condizione di perenne crisi, di totale disorientamento, di sradicamento, di liquefazione dei rapporti, degli affetti, delle identità, di incapacità di identificarsi con un qualunque processo sovraindividuale, che sia storico o trascendente.
Questa condizione di degrado sociale e antropologico viene camuffato ideologicamente facendo di ogni ferita un vanto, di ogni cicatrice una decorazione: l’instabilità è “dinamicità”, la sradicatezza è “libertà”, lo sfaldamento identitario è gioiosa “fluidità”, ecc. Il male di vivere nelle generazioni più giovani, quelle tradizionalmente più disposte alla contestazione e alla protesta, è tenuto sotto controllo con la disponibilità di un sempre crescente mercato di intrattenimento standardizzato, funzionale a distogliere la mente da qualunque durevole forma di autocoscienza o generale consapevolezza. Quello che un tempo era il gin delle distillerie clandestine per l’operaio della rivoluzione industriale è ora fornito in forma di intrattenimento a domicilio da variegati schermi. Anche questo è progresso: in questo modo la forza lavoro dura di più.
Collocandoci in una posizione superiore e avanzata, questa visione consente di delegittimare in partenza ogni lamento, giacché per definizione, quand’anche noi in prima classe avessimo problemi, figuratevi tutti gli altri miserabili, in altri luoghi o tempi. Dunque smettete di lamentarvi e tornate al lavoro.
Questa concezione onnicomprensiva, in cui siamo immersi ad una profondità quasi insondabile, rappresenta una bolla al di là della quale non siamo in grado di immaginare che possa esistere alcun mondo degno di essere abitato (c’è solo l’oscurità della “giungla”). È per questo motivo che nel momento in cui, per la prima volta da due secoli, compare all’orizzonte l’ombra di competitori non facilmente assoggettabili, la sfida, per chi è imbevuto di questa visione, diventa qualcosa di assoluto, di esistenziale. Non si può cedere perché cedere significherebbe aprire la strada ad una relativizzazione del nostro sguardo, e questo solo fatto aprirebbe le cateratte dello scontento represso, del disagio covante sotto le ceneri, della disperazione dietro a mille insegne luminose.
È per questo che si tratta di un momento di particolare pericolosità: l’Occidente, traendo tutta la propria resistenza psicologica residua dalla propria immagine di superiorità non è nelle condizioni culturali di immaginare per sé una forma di vita differente. Perciò le oligarchie, che della forma di vita occidentale percepiscono solo i benefici, sono disposte a sacrificare fino all’ultimo plebeo pur di non cedere terreno, pur di non lasciar crescere alcuna vegetazione spontanea dentro il “giardino”.

da https://www.facebook.com/andrea.zhok.5

La scoperta di noi stessi, di Andrea Zhok

L’altro giorno stavo assistendo ad una bella discussione di tesi avente per oggetto autori dei cosiddetti “postcolonial studies”.
Era tutto molto interessante, ma mentre ascoltavo gli argomenti di Frantz Fanon, Edward Said, ecc. ad un certo punto ho avuto quello che gli psicologi della Gestalt chiamano un’Intuizione (Einsicht, Insight).
Ascoltavo di come gli studi postcoloniali cercano di depotenziare quelle teorie filosofiche, linguistiche, sociali ed economiche per mezzo delle quali i colonialisti occidentali avevano “compreso” i popoli colonizzati proiettandovi sopra la loro autopercezione.
Ascoltavo di come veniva analizzata la natura psicologicamente distruttiva del colonialismo, che imponendo un’identità coloniale assoggettante intaccava la stessa salute mentale dei popoli soggiogati.
Queste ferite psicologiche, questa patogenesi psichiatrica avevano luogo in quanto lo sguardo coloniale toglieva al colonizzato la capacità di percepirsi come “essere umano pienamente riuscito”, perché e finché non riusciva ad essere indistinguibile dal colonizzatore. Ma tale compiuta assimilazione era destinata a non avvenire mai, ad essere guardata sempre come ad un ideale estraneo ancorché bramato. Di conseguenza il subordinato era condannato ad una esistenza dimidiata, in una sorta di mondo di seconda classe, irreale.
Quest’inferiore dignità rispetto alla cultura colonizzante finiva per inculcare una mentalità insieme servile e frustrata, perennemente insoddisfatta.
Di fronte al rischio di perenne dislocazione mentale una parte dei colonizzati reagiva cercando di fingere che la propria condizione subordinata era proprio ciò che avevano sempre desiderato.
D’altro canto, con il consolidarsi del dominio coloniale la stessa capacità di organizzare la propria esistenza in una forma diversa da quella del colonizzatore andava impallidendo, con sempre meno gente che aveva memoria del mondo di “prima”.
Il passo finale decisivo era l’adozione della lingua del colonizzatore, che il colonizzato parlava naturalmente sempre in modo subottimale e riconoscibile come derivato. Nel momento in cui i colonizzati iniziano ad adottare la lingua dei colonizzatori essi importano lo sguardo degli oppressori e le loro strutture di alienazione: il colonizzato introiettando lo sguardo del colonizzatore finiva per generare forme di sistematico autorazzismo.
Ecco, mentre sentivo tutte queste cose, ragionavo, come fanno tutti, assumendo che “noi” fossimo i colonizzatori e gli altri i colonizzati.
Ma poi, d’un tratto, lo slittamento gestaltico, l’intuizione.
D’un tratto ho visto che immaginarci come quel “noi” era a sua volta frutto della nostra introiezione della cultura dei colonizzatori.
Noi, come italiani, o mediterranei, dopo essere stati colonizzati dagli angloamericani, ne abbiamo adottato lo sguardo fino ad immaginare che “noi” fossimo come loro, che fossimo noi ad avere sulla coscienza secoli di tratta degli schiavi e di sfruttamento coloniale imperialistico con cui fare i conti (innalzando un paio di patetici e fallimentari episodi in Libia e nel corno d’Africa come se giocassero nella stessa lega con i professionisti).
Nell’ultimo mezzo secolo, abbiamo adottato pienamente e senza remore tutte le dinamiche dei popoli assoggettati, fantasticando che la “vita vera” fosse quella che ci arrivava come immaginario d’oltre oceano, dimenticando tutto ciò che avevamo ed eravamo, per proiettarci nell’esistenza superiore dei colonialisti, pronti ad assumerne i peccati nella speranza che ciò ci assimilasse, almeno da quel punto di vista, al modello irraggiungibile.
Questa condizione di esistenza a metà, tremebonda e felice di essere assoggettata, ma frustrata dal nostro essere ancor sempre distanti dal modello, ha creato ondate di autorazzismo inestinguibile e ha bruciato tutte le possibilità di rinascita.
In sempre maggior misura tutta la nostra cultura, da quella popolare a quella accademica ha iniziato questo processo di mimesi, immaginando che se farfugliavamo qualche neologismo in inglese o se ne infarcivamo i documenti ufficiali (dai programmi scolastici alle direttive ministeriali) avremmo magicamente acquisito la potenza del nostro santo oppressore.
Come paese sotto occupazione ci siamo inventati di essere “alleati” degli occupanti, e mentre eravamo orgogliosi del nostro acume nel denunciare “governi fantoccio” in giro per il mondo non vedevamo quelli che si succedevano (e succedono) in casa nostra.
In tutta questa storia di falsa coscienza conclamata, di cui si dovrebbero narrare le vicende in un libro apposito, siamo sempre rimasti un passo al di sotto della consapevolezza di ciò che siamo e possiamo.
Oggi che gli orientamenti della potenza occupante danno segni di progressivo disinteresse per noi – salvo che come ponte di volo per cacciabombardieri – oggi forse si presenta per la prima volta dopo tre quarti di secolo la possibilità di uscire da questa condizione di falsa coscienza.
Tra non molto saremo forse in grado di applicare lo sguardo dell’emancipazione coloniale anche a noi stessi. Sarà una presa di coscienza dolorosa e vi si opporranno forze enormi, ma il processo è avviato e con il fatale deterioramento della situazione interna esso emergerà sempre di più.

Forza Mario!!_di Andrea Zhok

In un paese dove gli ospedali sono oramai allo stremo anche per un raffreddore, dove non si fa più manutenzione di strade o ferrovie, dove la polizia non ha benzina per le volanti, dove si attende la fine dell’emergenza siccità solo per aprire l’emergenza dissesto idrogeologico, dove una popolazione sull’orlo di una crisi di nervi si aggira spettrale con la mascherina nei parchi pubblici e nelle spiagge, è giunto il momento di appellarsi al cervello e al cuore del nostro premier.
Mario, mettiti una mano sulla coscienza:
è davvero questo il paese che vuoi lasciare ai pensionati americani?
IL CAPITANO e la Concordia….ovvero l’inchino e i prostrati
L’impressione rispetto al balletto istituzionale di ieri è straniante.
Quel che resta del M5S, dopo aver visto gli ultimi sondaggi, è stato attraversato da un piccolissimo sospetto e si è immaginato a breve in compagnia degli stegosauri, nella compagine degli organismi estinti.
Così hanno deciso di inscenare un finto rabbuffo al presidente del consiglio. Dopo aver firmato, controfirmato e annuito entusiasti per mesi alla qualunque, dal green pass all’invio di armi nel nome della russofobia, hanno deciso di botto di fare la faccetta corrucciata al premier. La speranza era che gli italiani, complici magari le vacanze e il caldo, cancellino dalla memoria l’organicità del M5S al peggior governo di sempre e gli riconcedano pian piano una nuova verginità da “combattenti del popolo”, giusto il tempo che serve per arrivare alle prossime elezioni.
Però, sia chiaro, il rabbuffo doveva essere rigorosamente finto, giusto per consentire ai pennivendoli di riempire qualche prima pagina di preoccupazioni pacchiane (“Après Mario le déluge!”). Infatti non hanno votato contro, ma hanno semplicemente voluto segnalare con l’astensione il proprio scontento.
Con loro grande sorpresa Draghi ha colto la palla al balzo ed è salito immediatamente al colle. Già, perché il viceré della Nato in Italia tutto è meno che uno stupido, e capisce benissimo che, dopo aver massacrato il paese e averlo condotto – per obbedienza ad ordini superiori – alla catastrofe industriale incombente, in autunno corre il rischio di venir inseguito con i forconi fin dentro il tinello, e non vede l’ora di lasciare il cerino in mano a qualche utile idiota, che traghetti il paese ad elezioni, meglio ancora se anticipate.
Solo che a questo punto, inopinatamente, Mattarella ha ricordato al premier che stava scappando senza neanche essere stato sfiduciato, e che doveva tornare in Transatlatico “(“Salga a bordo, cazzo!!”)
Morale della favola: dopo aver devastato il devastabile che neanche le cavallette ora siamo alla grande fuga alla ricerca di verginità improbabili o almeno di un buen retiro fuori dai riflettori (“Che se la vedano loro ‘sti mentecatti, io c’ho da nutrire gli alani”).
Intanto il paese cigola e geme sugli scogli come la Costa Concordia, in attesa di venir fatto a pezzi e rimosso dall’orizzonte, per riutilizzo come materia prima altrui.

ESERCIZI DI SOVRASTRUTTURALISMO, di Andrea Zhok

ESERCIZI DI SOVRASTRUTTURALISMO
Il ministro dell’Istruzione Bianchi ha un sogno (anche i competenti sognano): vuole che tutti gli studenti e i docenti cantino all’unisono l’Inno d’Italia in tutte le scuole del Regno, pardon, della Repubblica.
Ecco, perché questa sciocchezza merita un’osservazione supplementare?
Perché è un indice significativo di qualcosa di sciocco sì, ma pericoloso.
Cosa dovrebbe pensare di ciò ogni frequentante la scuola pubblica, e non villeggiante a Capalbio? Rispetto ad una scuola cui manca tutto, dagli spazi, alle infrastrutture, ai docenti, ai programmi, alla ormai proverbiale carta igienica, rispetto ad una scuola che risulta sempre meno attrattiva sia per gli studenti, sia per i docenti, rispetto ad una scuola uccisa da un fiume di misurazioni del nulla e di premialità del niente, mentre i livelli formativi affondano da decenni, rispetto a una simile catastrofe, cosa sogna il ministro?
Il coretto mattutino sull’Inno nazionale.
Ma attenzione a ridere, la dinamica di questo tipo di istanze è enormemente insidiosa.
Questa sceneggiata onirica del ministro ambisce ad essere trasmessa come “patriottismo” (fino a ieri reietto, ora, per qualche giorno, recuperato ad hoc). Se questo accade, se parte la relativa sceneggiata, i suoi critici potranno essere etichettati come privi d’amor di patria, di senso dello stato, disfattisti, traditori, (putiniani?), ecc.
A ruota, le usuali raffinate penne a gettone della stampa nazionale potranno esibirsi in invocazioni alle muse nel nome dei sani valori della patria e della nazione, sputando sui critici disfattisti e apolidi.
A questo punto si potrà creare, come al solito, sul puro nulla, uno schieramento oppositivo ed un dibattito artificiale, in cui per qualche giorno o settimana potremmo trovarci a discutere di “valori”, di “patria”, di “senso civico”.
Solo per far seguire tra qualche settimana una nuova onda (globalista? edonista? libertaria? lasciamoci stupire).
Ora, la dimensione su cui si valuta il valore delle idee non è il colore della vernice, ma lo spessore.
E’ perciò che la peggior cosa che può capitare ad una buona idea è di essere promossa per la sua verniciatura.
Questa tendenza, oggi assolutamente imperante – ma che fa parte della trasformazione di tutta la società in “società dello spettacolo” (Debord) – può essere chiamata “sovrastrutturalismo”.
Il sovrastrutturalismo è ciò che guida la tendenza, parimenti diffusa a destra come a sinistra, a concentrarsi sulla fuffa luccicante, sulla vernice metallizzata delle idee, sui gesti, i simboli, le apparenze.
Nessuno – figuriamoci il ministro Bianchi – si preoccupa davvero di come ridare fiducia nello stato o di come costruire un senso della comunità nazionale, tutte cose assai importanti, e che potrebbero essere condivise come importanti da tutti. No, uno sforzo del genere richiederebbe una pluralità di atti, di soluzioni testardamente ricercate, di iniziative radicali e durature, in tutti gli infiniti settori in cui la fiducia in un’etica pubblica è stata minata.
Praticamente si tratterebbe di rigirare il paese come un calzino.
Figuriamoci se qualcosa del genere passa, o è mai passato, per la mente di qualcuno come il nostro ministro.
Si ritrarrebbe inorridito.
No, l’essenziale è avere un’occasione per fare ammuina giochicchiando con le vestigia cadenti di valori rimossi e desueti, giusto il tempo di far cascare una pioggia di lustrini sul dibattito pubblico per qualche giorno, e poi via per una nuova recita.
Il “sovrastrutturalismo” è l’unica politica rimasta in vita.
Esiste un “sovrastrutturalismo” più spesso giocato a “sinistra” (battaglie navali nei bicchieri dell’aranciata su questo o quell’imperdibile “diritto civile”, con relativo vittimismo) e un “sovrastrutturalismo” più spesso giocato a “destra” (castelli di pongo per simboleggiare questo o quell’imperdibile valore eterno, con relative posture eroiche).
Ciò che è politicamente essenziale però, l’unica cosa che davvero conta e che davvero deve contare, è che tutto rimanga rigorosamente sulla superficie: deve occuparsi dei gesti, dei simboli, delle photo-opportunity, degli atteggiamenti, delle paroline giuste: dai coretti mattutini al frasario politicamente corretto, dalle panchine “inclusive” degli archistar all’indignazione a molla del “Me Too”, dalla povera Greta usata per risciaquature “verdi” agli inginocchiamenti del “Black Lives Matter”, e via di corsa verso altre sceneggiate, altre recite su problemi esotici o remoti, trattati in modi fittizi.
Ma attenzione, uno potrebbe immaginare che questa superficialità eretta a norma di vita debba avere almeno i pregi dei suoi difetti: “Non smuoverà niente, ma almeno non farà seri danni”.
Niente affatto.
Non c’è niente, assolutamente niente che venga preso oggi in modo più micidialmente serio dell’accondiscendenza a queste apparenze.
Potrai trovare compassione come mafioso, come assassino, come avvelenatore di fiumi o evasore totale, ma se verrai meno all’adesione alle regole della recita del momento, se dubiterai pubblicamente dei miracoli di Santa Greta o non ti inginocchierai a chiedere perdono perché a Minneapolis hanno dei poliziotti razzisti, allora sarai crocifisso, sanzionato, ostracizzato, diventerai l’archetipo del traditore.
La serietà con cui oggi si puniscono le infrazioni agli imperativi sovrastrutturali è qualcosa di simile alle infrazioni arcaiche rispetto ai tabù sacri, ma per ragioni completamente opposte.
I tabù tradizionali erano mortalmente seri perché incarnavano credenze consolidate secolari e vi davano coronamento formale;
le tabuizzazioni del sovrastrutturalismo odierno invece sono richieste dalla consapevolezza che dietro all’apparenza sottile, alla verniciatura di doveri e imperativi alla moda, non c’è assolutamente niente: il nulla abissale, un magma di disorientamento e disperazione, che teniamo a bada recitandovi sopra.

Note sulla guerra russo-ucraina, di Andrea Zhok

Note sulla guerra russo-ucraina
1) All’indomani dell’invasione, l’Europa aveva due opzioni.
Poteva accompagnare le necessarie sanzioni con una richiesta a Zelensky e Putin di avviare immediate trattative sulla base delle due istanze fondamentali del contenzioso: la neutralità dell’Ucraina e il rispetto degli accordi di Minsk. Se Zelensky non si fosse sentito coperto e garantito nella prosecuzione della guerra probabilmente la pace si poteva ottenere in una settimana.
Oppure, e questa è stata la scelta fatta, l’Europa poteva mettersi a dire che Putin era il nuovo Hitler, un pazzo, un animale, poteva mettersi a rifornire di soldi, istruttori e armamenti pesanti l’Ucraina, poteva scatenare un’ondata di russofobia imbarazzante e poteva perseverare in questa linea fino a dire (Borrell) che la guerra doveva risolversi sul campo (diplomatici che si improvvisano guerrieri con il culo degli altri).
2) Fornendo una caterva di armi all’Ucraina e senza alcuna garanzia di dove esse andassero a finire, l’Europa ha creato alle porte di casa un bacino bellico pazzesco, cui partecipa non solo l’esercito regolare, non solo milizie mercenarie, ma anche gruppi e gruppuscoli paramilitari, incontrollabili, che agiscono in modo autonomo, spesso con intenti più terroristici che militari (come il bombardamento di ieri su una scuola a Donetsk), e che non obbediranno mai ad un’eventuale pace firmata da Zelensky. Si prospetta (e questo è stato dall’inizio un desideratum americano) un conflitto duraturo, magari dopo una dichiarazione di tregua un conflitto ad intensità ridotta, che impegnerà l’esercito russo a lungo e che condurrà alla distruzione totale dell’Ucraina – almeno di quella ad oriente del Dnepr.
3) Come sempre accade, più il conflitto dura, più lutti avvengono, più gli animi si caricano di un odio irrevocabile, e più spazio ci sarà per un abbandono delle ultime remore nel condurre la guerra (la Russia ha progressivamente aumentato il peso del tipo di armamento utilizzato, l’Ucraina ha iniziato a bersagliare il territorio russo nella provincia di Belgorod). Quale sarà il limite dell’escalation lo vedremo.
4) Nel frattempo abbiamo tutti bellamente rimosso che in Ucraina, oltre a gasdotti e centrali nucleari, ci sono alcuni dei maggiori depositi di plutonio e uranio arricchito al mondo. Insomma stiamo giocando alla guerra, in progressiva escalation, in una delle aree più pericolose del pianeta quanto a possibili ripercussioni generali. E’ utile ricordare che la distanza tra l’Italia e l’Ucraina è di 1.500 km in linea d’aria, quella tra l’Ucraina e gli USA è di 7.500 km (con in mezzo un oceano).
5) Sul piano economico l’Europa si è giocata in questo modo l’accesso a fonti energetiche abbondanti e a prezzi moderati. Essendo l’Europa l’area al mondo maggiormente dedicata alla trasformazione industriale e meno dotata di risorse naturali, questo equivale ad essersi confezionati un cappio e averci messo il collo dentro. L’Europa sta supportando e alimentando una guerra alle porte di casa propria, non solo, sta facendo di tutto per farla durare a lungo e per troncare definitivamente tutti i rapporti con il resto dell’Eurasia. In sostanza, ci stiamo tagliando i ponti con quella parte del mondo rispetto a cui siamo economicamente complementari (Russia per le risorse, Cina per la manifattura di base, tutti i BRICS come il più grande mercato al mondo). Al tempo stesso ci stiamo subordinando di nuovo e senza alternative ad un competitore primario con cui siamo in diretta concorrenza sul piano industriale, ma che, a differenza dell’Europa, è energeticamente autonomo.
6) Arrivati a questo punto, la Russia non ha più un interesse primario a pervenire ad una pace rapida. Sul piano economico sta sì pagando un costo, ma sul piano strategico sta diventando il punto di riferimento mondiale per una “rivincita” di quella maggioritaria parte del mondo che si sente da decenni bullizzata dallo strapotere americano. Questa vittoria strategica consente alla Russia di coltivare una sostanziale alleanza con la Cina, un’alleanza assolutamente invincibile e inscalfibile da qualunque punto di vista: territoriale, demografico, economico e militare.
7) L’Europa, invece, si è scavata la fossa. Se i governi europei non riescono in qualche modo (e a questo punto comunque con gravi costi) a riallacciare i rapporti con la rimanente parte dell’Eurasia, il suo destino è segnato.
I due secoli di ascesa sul piano mondiale avviati all’inizio del XIX secolo si avviano ad un’ingloriosa conclusione. Già a partire dall’autunno cominceremo ad avere la prime avvisaglie di quella che si prospetta come una nuova durevole contrazione economica, una contrazione che, coinvolgendo en bloc i paesi europei, avrà caratteristiche finora inaudite, molto più pesanti della crisi del 2008, perché qui non ci saranno “garanzie di affidabilità finanziaria” che tengano.
Guardando in faccia oggi i Draghi, i Macron, gli Scholz, e i loro puntelli parlamentari (in Italia quasi l’intero arco parlamentare), l’unica domanda che rimane è: qualcuno pagherà?
Chi pagherà per l’operazione più autodistruttiva sul continente europeo dalla seconda guerra mondiale? Pagheranno i giornalisti a gettone che hanno fomentato la narrativa propagandistica funzionale ad alimentare la guerra? Pagheranno i politici che hanno sostenuto attivamente la guerra o che si sono genuflessi ai diktat del presidente del Consiglio?
Oppure di fronte ai nuovi disoccupati e ai nuovi working poors riusciranno ancora una volta nel gioco di prestigio di spiegare che non c’era alternativa?
NB_Tratto da facebook

Il nazismo, figlio legittimo dell’imperialismo occidentale, di Andrea Zhok

Oggi in Russia e in molti altri paesi viene celebrata la commemorazione “Бессмертный полк” (Reggimento Immortale), rievocazione e festeggiamento della vittoria nella “Grande Guerra Patriottica” (così chiamano i russi il conflitto contro i nazisti nella seconda guerra mondiale tra il 1941 e il 1945).
Il 9 maggio 1945 è infatti la data della firma della resa tedesca (il “giorno della Vittoria”).
Questa, come tutte le celebrazioni, ha anche una funzione politica e propagandistica, e non c’è dubbio che il governo russo ne faccia uso “pro domo sua”.
Tuttavia, diversamente da altre, questa celebrazione è cresciuta di seguito popolare in Russia e in molti paesi dell’ex Unione Sovietica negli ultimi anni.
Ciò che sta avvenendo, e che l’attuale situazione in Ucraina alimenta in modo cospicuo, è una sovrapposizione – storicamente discutibile, ma emozionalmente potente – tra l’opposizione russa all’imperialismo nazista e la resistenza russa all’imperialismo occidentale (cioè americano).
Tutti sappiamo che a partire dal 1948 l’irrigidimento della divisione in blocchi e l’avvio della guerra fredda – unita ad una certa inclinazione alla paranoia da parte di Stalin – condusse all’istituzione di uno stato di polizia nei paesi del patto di Varsavia.
Tuttavia questo triste esito è indipendente dal valore simbolico della vittoria nella “Grande guerra patriottica”, che è rimasto potente e persino crescente, essendo qualcosa che per i russi, ma non solo per essi, va al di là del semplice patriottismo e assume un significato idealtipico.
Per capire questo punto non bisogna dimenticare che il nazismo è un movimento storico fortemente caratterizzato da due tratti distintamente occidentali: esso fu Imperialistico e fu Efficientistico.
Il nazismo si intese come movimento storico della costituzione di un Impero (Reich), un impero che non si poneva limiti territoriali di sorta. Ma il nazismo fu anche il primo grande movimento storico a mettere senza remore al centro della propria concezione non una strutturata visione del mondo, religiosa o civica (ideologicamente il nazismo è un guazzabuglio incoerente, privo di elaborazione e di radici) ma l’OTTIMIZZAZIONE dei processi.
Tale ottimizzazione è visibile tanto nella micidiale efficienza degli eserciti nazisti quanto nei processi di sfruttamento dei “sottouomini”, di cui, dopo averli sfruttati fino alla morte come manodopera, non si buttava letteralmente via niente.
Il nazismo, per quanto ciò possa disturbare, è un’incarnazione esemplare della volontà di potenza occidentale, dell’amore per l’estensione della potenza in quanto potenza, dell’efficienza in quanto efficienza, e dell’inebriarsi per tutto ciò.
E’ certo che nell’Occidente, nella sua storia e tradizione c’è infinitamente di più, ma è anche certo che l’imperialismo degli ultimi due secoli, partito alla conquista del mondo prima con la “diplomazia delle cannoniere” britannica e poi con la “diplomazia dei bombardieri” americana, ha sottomesso con la forza – militare ed economica – gran parte del mondo.
Per il mondo non occidentale, dunque, l’Occidente è percepito innanzitutto come forza, forza tecnologica ed efficientistica, volta alla conquista, all’espansione e allo sfruttamento.
So che può essere doloroso per un cittadino occidentale pensarlo, so che preferiremmo credere di aver persuaso cinesi e giapponesi e indiani con la brillantezza della nostra cultura e la profondità delle nostre argomentazioni, ma purtroppo la triste verità è che di cultura, profondità ed argomentazioni ne avevano tanta anche gli altri, mentre ciò che abbiamo usato senza particolari scrupoli – ma con secchiate di ipocrisia ad uso interno – è stata la tecnologia bellica e finanziaria.
Così, per quanto noi possiamo pensare noi stessi come toto coelo altra cosa dall’orrore nazista, per chi ci guarda da fuori il nazismo non può che apparire come un nostro tipico e coerente frutto.
L’unico aspetto su cui il nazismo è stato difettivo (e ciò gli è costato la sconfitta) è stato nel limitare il proprio efficientismo e il proprio razionalismo bellico di fronte al proprio viscerale razzismo.
E’ il razzismo che ha impedito alla Germania nazista la vittoria, perché trattare gli ebrei e gli slavi come sottouomini gli ha sottratto da un lato una bella fetta dell’expertise tecnologica (fuga dell’intellighentsia ebraica) e dall’altro ha dichiarato a (quasi) tutti i popoli del fronte orientale che il loro era un destino in catene, suscitandone la resistenza.
E’ importante vedere che ciò che è davvero mostruoso nel nazismo non è il suo razzismo (naturalmente pessimo), ma l’idea che tutto ciò che non è superiore può ed anzi DEVE diventare mero materiale sfruttabile per chi è alla sommità della catena alimentare. L’orrore non è pensare che un certo vivente sia inferiore, ma pensare che ciò che pensiamo inferiore (un “sottouomo”, un capo di bestiame, una foresta vergine) diventi perciò mera cosa, macellabile e bruciabile serialmente.
Ma nei suoi punti più spaventosi, perché vincenti, il Nazismo è percepibile in perfetta continuità con la storia occidentale degli ultimi due secoli, e come tale è visto o può essere visto al di fuori del mondo occidentale.
Per questo motivo esiste un significato simbolico profondo che andrebbe colto in un festeggiamento come quello odierno.
Per un occidentale esso potrebbe essere visto come una vittoria su una tentazione demoniaca – l’imperialismo tecnarchico – insita nella propria storia. Ma non è facile vederlo così perché quella tentazione demoniaca, lungi dall’essere state superata una volta per tutte, è in crescita da almeno una trentina d’anni e recentemente si sta mostrando virulenta come non mai.
Al di fuori dello sguardo occidentale e della sua propaganda autopromozionale il nazismo può essere facilmente visto come un volto appena dissimulato, e pronto ad emergere in ogni momento, dell’Occidente stesso.

La metamorfosi dell’Impero e le sue vittime_di Andrea Zhok

1. Il riflusso dell’imperialismo globalista USA

 

Nella frenesia angosciosa degli ultimi due anni, prima con la pandemia e ora con la guerra russo-ucraina, molti processi stanno accelerando e prendendo forme inedite.

Per comprendere gli eventi recenti bisogna partire da una constatazione, ovvero dall’esaurimento della spinta globalizzante dell’economia capitalistica mondiale. Come noto, il sistema capitalistico si conserva in equilibrio soltanto se e nella misura in cui può garantire ai detentori di capitale (investitori) una crescita futura del proprio capitale. Uno stato stazionario perdurante equivale senza resti ad un collasso per il sistema capitalistico, a partire dal fallimento degli istituti finanziari, che possono esistere soltanto sulla base di questo assunto di crescita.

La globalizzazione è stata la forma principale della crescita capitalistica (e delle promesse di crescita) a partire dagli anni ’70 del XX secolo. Dopo la caduta dell’URSS l’espansione globalizzante ha iniziato ad accelerare.

La globalizzazione tuttavia non è semplicemente un moto acefalo del capitale, per quanto essa esprima tendenze strutturali del capitalismo in quanto tale. Nell’ultimo mezzo secolo la globalizzazione è stata la forma presa dall’espansionismo “imperiale” americano.

La narrazione liberista per cui l’ampliamento e l’intensificazione degli scambi creerebbero automaticamente benessere per tutti i transattori è soltanto una fiaba per gonzi, che nasconde un punto cruciale: in ogni scambio è sempre decisivo il rapporto tra i poteri contrattuali dei contraenti. Chi ha maggior potere contrattuale è in grado di estrarre dallo scambio un profitto molto maggiore; chi estrae maggior profitto rafforza ulteriormente il proprio potere contrattuale futuro; e ciò che conta nel sistema è la gerarchia di potere che ne emerge (il capitale è potere).

Quando l’asimmetria di potere contrattuale conferito dalla capitalizzazione è grande, la parte “perdente” nello scambio è di fatto in condizioni di dipendenza totale, non dissimile da quella di uno schiavo nei confronti del padrone. Ciò accade negli scambi tra individui non meno che in quelli tra nazioni. In uno scambio tra poteri contrattuali massivamente asimmetrici la parte debole è disponibile a fornire qualunque servizio pur di evitare il collasso. Nel sistema mondiale degli scambi, all’indomani della caduta dell’URSS c’era un solo paese in cima alla piramide alimentare: gli USA, mentre un gran numero di paesi, soprattutto africani, in parte asiatici e sudamericani, fornivano la base della piramide, in condizioni di dipendenza totale.

In questa fase gli USA hanno alimentato la globalizzazione attraverso istituzioni internazionali (World Bank, International Monetary Fund, World Trade Organization) e hanno controllato il rispetto dei patti, dei contratti internazionali, e delle proprie aspettative, con l’esercito più forte del mondo.

Con il nuovo millennio è iniziata una fase caratterizzata da due principali fenomeni.

Il primo fenomeno è la comparsa sulla scena mondiale di un protagonista capace di sfruttare le occasioni offerte dalla globalizzazione in modo più efficace degli USA, battendoli proprio sul punto che la teoria predicava come qualificante: la capacità di produrre meglio a costi minori. La Cina, diversamente da altri paesi, aveva caratteristiche politiche, geografiche e demografiche tali da non essere senz’altro ricattabile e assoggettabile da parte americana. E sotto queste condizioni peculiari, invero uniche al mondo, il libero commercio ha operato effettivamente come capacità di trasferimento di capitali verso il produttore migliore. La Cina ha inoltre anche iniziato a fare affari con le parti più sfruttate del mondo, fornendo condizioni di scambio migliori, e così ha esteso la propria influenza insieme economica e geopolitica.

Il secondo fenomeno, parzialmente legato al primo, è stata la crescente fragilità di catene produttive sempre più estese e complesse. Quanto più estese e complesse, tanto maggiore la possibilità che eventi locali, guerre, epidemie, rivolgimenti politici, bolle finanziarie, ecc. creassero bruschi crolli delle aspettative di profitto.

La crisi subprime del 2007-2008 ha segnato qui la svolta, coinvolgendo l’intero pianeta, ma in maniera particolarmente dura l’Occidente a guida americana e i suoi satelliti. Dal 2008 il sistema finanziario e produttivo occidentale è stato tenuto artificialmente in vita con somministrazioni massive di denaro. Queste somministrazioni non hanno però avuto carattere “keynesiano”, anticiclico. Il denaro “stampato” dalle banche centrali è stato destinato direttamente o indirettamente allo stesso sistema finanziario che aveva creato la crisi, entrando solo in minima percentuale nell’economia reale. Dopo il 2008, a causa di queste politiche di trasferimento dalle banche centrali al sistema finanziario, il rischio di una bolla inflattiva senza crescita (stagflazione) era sempre più forte. Questo processo non poteva durare indefinitivamente e ha dato ripetuti segni di essere sulla strada di un nuovo tracollo (l’ultimo grave segno fu la crisi di liquidità bancaria del settembre 2019).

La fase in cui siamo entrati è quella in cui la “globalizzazione imperiale” americana è entrata in fase di riflusso. I vertici del complesso politico-finanziario-militare americano devono ripensare il proprio ruolo, modificando il modello propagandato negli ultimi decenni e riposizionando il proprio potere, mentre le catene produttive si accorciano.

Tutto ciò che ci sta succedendo da due anni a questa parte ricade nella cornice definita da questa inversione di una tendenza storica, inversione che ha una portata storica simile a quella della ritrazione dell’Impero romano dalla propria fase di massima espansione dopo il II secolo d.C. Un sistema come quello romano sul piano militare, o come quello americano sul piano economico, che può prosperare solo crescendo, quando inizia a decrescere deve cambiare pelle e, nel lungo periodo, natura.

Questa fase di transizione può essere lunga o breve, ma in ogni caso non può non essere traumatica.

 

2. Il ruolo della pandemia di Covid-19

 

Che la pandemia di Covid sia stata scatenata appositamente, o che sia stato invece un accidente, questo probabilmente non lo sapremo mai con certezza. Quello che è certo è che una volta avviata, le sue opportunità di manipolazione di sistema sono state prontamente colte.

Da anni si facevano simulazioni intorno a cosa sarebbe potuto e dovuto accadere in presenza di un grave evento pandemico (le più note simulazioni: Clade-X, del 2017-2018, e Event 201 del settembre 2019, entrambe a guida americana). Queste simulazioni consideravano sia le ripercussioni economiche, sia le esigenze di “indirizzo mediatico”, cioè di controllo del messaggio da rivolgere alla popolazione.

Quale che ne sia stata l’origine, dunque, quando la pandemia si è presentata, esistevano indicazioni operative e previsioni circa gli effetti, ed esisteva un dominus della vicenda, ovvero gli USA, che avevano tutte le conoscenze e tutti i mezzi per orientare le scelte, se non del mondo, almeno di tutti i paesi da essi direttamente dipendenti sul piano politico-militare.

E in effetti, la prima cosa da osservare è che i paesi che hanno adottato, con piccole variazioni, il medesimo modello basato sulla vaccinazione a tappeto, con vari livelli di pressione sui renitenti, coincidono con l’area di influenza geopolitica e militare diretta degli USA: questo modello è stato adottato da tutta l’Europa inclusa nella Nato, da Canada, Israele, Australia e Nuova Zelanda.

Il modello di gestione della pandemia è stato sin dall’inizio di tipo militare, e militare è stata la retorica della “guerra al virus”, dei “no vax” come disertori, ecc.

Gli obiettivi di questa manipolazione sono stati due: l’incremento di controllo interno sulla popolazione e il compattamento internazionale delle catene di comando del blocco a guida americana.

Ben prima dello scoppio della pandemia c’erano stati tumulti e proteste diffuse in molti paesi europei, visto che dai postumi della crisi del 2008 non si era mai davvero usciti. I tumulti più tenaci e minacciosi sono stati quelli promossi dai gilets jaunes in Francia, ma le proteste avevano punteggiato tutti i paesi. In Italia le proteste erano state contenute, trovando un’apparente valvola di sfogo elettorale, con la nascita di un governo “atipico” e apparentemente “antisistema” (che inizialmente suscitava alcune preoccupazioni a livello UE).

Con la pandemia tutti i margini di protesta, contestazione e rivendicazione sono stati messi a tacere per “cause di forza maggiore”. Questo è un desideratum di chiunque gestisca il potere, e ha un significato di lungo periodo. Infatti, che circostanze di stagnazione, inflazione, contrazione economica, disoccupazione, ecc. conducano a tumulti e proteste potenzialmente esplosive è ovvio. In una fase di massiva contrazione e riflusso, come quella avviata, questo rischio è previsto, e perciò il potere si premunisce, procedendo a restrizioni, con incremento di controlli, limitazioni agli spostamenti, controllo intensivo sulle espressioni d’opinione, ecc.

Il secondo obiettivo ha carattere internazionale e geopolitico. La pandemia si presenta come un’occasione per addomesticare e “normalizzare” il contrarsi della globalizzazione, specificamente in rapporto al grande concorrente cinese. Con lo scoppio della pandemia la Cina venne immediatamente presentata (lo era invero già in precedenza) come il grande untore mondiale. Questo fatto ha iniziato una spinta a riportare la produzione in una sfera di nuovo direttamente controllabile da parte della potenza imperiale americana. È un processo costoso, lungo e faticoso, che non si sarebbe potuto mai avviare se non grazie a qualcosa che venisse percepito come una inesorabile e fatale “causa di forza maggiore”.

 

3. Il ruolo della guerra russo-ucraina

 

Mentre nel caso della pandemia attribuirne l’avvio ad un’iniziativa volontaria da parte americana è solo una congettura, nel caso della guerra attualmente in corso individuare un’intenzione americana diretta di innescare il conflitto è piuttosto facile.

Nessuno, che non sia uno sfortunato lettore dei gemelli diversi Corriere-Repubblica, può avere dubbi sul fatto che gli USA hanno fatto tutto ciò che era in loro potere per provocare questo conflitto. Ci sono le prove che il golpe in Ucraina del 2014 sia stato, almeno in parte, finanziato dagli USA e che questi abbiano deciso unilateralmente (alla faccia della sovranità ucraina) chi sarebbe succeduto a Yanukovich. Ci sono le prove di attività di armamento e addestramento militare americano delle forze armate ucraine ben prima del 2022. E c’è, come evidenza macroscopica, l’intero processo di espansione della Nato verso Est, in corso da oltre vent’anni, rispetto a cui i conflitti diplomatici con la Russia sono stati ripetuti e crescenti. Dunque, che gli USA abbiano lavorato per creare la condizioni di tale conflitto è certo. Questo, naturalmente, non significa che Putin sia stato costretto ad agire, visto che nessuna azione umana è mai obbligata: Putin porta la responsabilità delle scelte fatte, scelte che, nella propria ottica di una potenza internazionale che vuole rimanere tale, erano non obbligate, ma solo fortemente motivate.

Nell’ottica dell’impero americano la guerra perfeziona il processo avviato con la pandemia: questa volta l’operazione di ritrazione delle dipendenza globali si rivolge all’altro grande protagonista mondiale dopo la Cina, ovvero la Russia. La Russia non è economicamente comparabile con la superpotenza produttiva cinese, ma è l’unico vero competitore militare degli USA, oltre ad essere il paese con la maggiori risorse naturali del mondo; dunque, dopo gli anni del declino con Eltsin, la Russia è nuovamente di diritto una potenza capace di tenere testa all’impero americano.

Anche qui, come nel caso della pandemia, non bisogna mai cadere nell’errore di pensare che sia il fatto in sé, nella sua oggettività a creare certi esiti politici. Decisiva è la specifica orchestrazione interpretativa che ne viene data. Non è la pandemia ad aver causato i lockdown, né ad aver bloccato i consumi, né ad aver prodotto il Green Pass, ecc., parimenti, non è la guerra a causare automaticamente il distacco economico e politico dell’Europa dalla Russia.

Cruciale è invece il modo in cui la guerra è stata interpretata e continua ad essere letta dai principali media europei, modo che nutre una narrazione volta a creare una barriera di filo spinato tra l’“Occidente liberale” e l’“Impero del Male russo”. La demonizzazione di Putin, e dei russi in toto, è funzionale a creare una barriera durevole nel sentire popolare, che induca nel lungo periodo a separare Russia ed Europa, riconducendo economicamente l’Europa pienamente sotto l’ala americana.

L’Europa, cui gli USA avevano allentato la catena negli ultimi trent’anni, lasciando che dopo il trattato di Maastricht essa divenisse un polo neoliberale autonomo, viene ora richiamata all’ordine.

L’idea, cullata da molti europeisti, che l’UE fosse il nucleo di una forza mondiale autonoma viene riportata alla dura realtà: salvo i fratelli minori degli USA nel Regno Unito, l’Europa dal 1945 non è mai stata altro che una colonia americana, territorio occupato. L’americanizzazione culturale ha proceduto in maniera capillare a tutti i livelli, sempre però all’ombra silente di una dipendenza militare e politica assoluta (cui solo la Francia ha occasionalmente opposto qualche mugugno).

 

4. Chi guida il vascello?

 

Veniamo alla domanda più difficile. Chi è l’agente di tutto questo processo? Chi sya ai posti di comando della nave su cui siamo nostro malgrado imbarcati? La domanda è importante perché è proprio l’idea che il processo non sia nelle mani di nessuno, che sia qualcosa di “spontaneo”, a creare le condizioni della sua percezione pubblica come qualcosa di naturale, inevitabile, fatale.

Purtroppo non essendo di fronte ad istituzioni ufficiali, le possibilità di fornire una sorta di “elenco esaustivo di congiurati” è altamente improbabile. Ma forse una tale risposta, una risposta che desse i nomi e i piani di una sorta di “loggia segreta mondiale” non è richiesta, e non è nemmeno necessario che davvero una tale entità esista (per quanto non lo si possa escludere).

Forse invece di un tale “club di congiurati” è più sensato nominare ciò che li lega, prima e a prescindere dall’entrare in tale (eventuale) club. La migliore risposta che si può dare riecheggia la celebre espressione di Eisenhower, quando parlava del “complesso militare-industriale” americano.

Oggi come quando parlava Eisenhower, gli USA rimangono alla guida dell’impero globale, tuttavia la forma delle strutture di potere centrale ha subito una metamorfosi. La finanza ha una dimensione meno nazionalmente definita rispetto alla tradizionale economia industriale. E la dimensione militare negli USA è riassorbita nella politica neoliberale americana, che ha imparato da tempo a usare la sfera militare come il proprio più utile strumento. Lo stato neoliberale infatti non si affida al “libero scambio”, ma agisce energicamente per controllare gli approvvigionamenti di materie prime, usa l’esercito come strumento di pressione nei “trattati di libero scambio”, e usa le spese militari come mezzo di “intervento anticiclico”. Dunque invece che parlare di un “complesso militare-industriale” americano possiamo parlare di un “complesso politico-finanziario” a guida americana.

Questo complesso ha capacità e moventi per gestire la situazione mondiale nelle forme attuali. Se non è un’entità statutaria, sul modello di una “società segreta”, è probabile che si tratti di un nucleo flessibile dove ideologia e potere convergono. L’interesse primario è la conservazione del potere dell’attuale concentrazione finanziaria. Gli strumenti principali per implementare questo intento sono due: 1) la capacità di spostare i capitali internazionali (promuovendo politici graditi, condizionando gli apparati mediatici, ecc.) e 2) la minaccia militare rappresentata dall’esercito americano e dai suoi “alleati” (Nato in primis).

Al livello di questi gestori apicali del potere non c’è qui bisogno che “tutti siano d’accordo”, perché per ottenere spostamenti decisivi bastano accordi di minoranza di un gruppo compatto, capace di spostare i pesi nelle decisioni politiche e finanziarie che contano. Questo complesso è sì accomunato dall’interesse primario nel mantenimento del potere (la supremazia mondiale relativa), ma è anche accomunato da un’ideologia liberale in cui si identifica senza resti. Questo gruppo di comando non richiede una struttura istituzionale, né una distribuzione di compiti, come avviene nelle organizzazioni formalizzate, essendo unito dalla coincidenza tra il proprio potere, da preservare, e la visione del mondo liberale che sostiene e giustifica tale potere.

Queste caratteristiche di relativa indefinitezza rendono l’imputabilità dei responsabili delle odierne vicende ardua. Nominare questo o quel personaggio della finanza internazionale (Bill Gates, George Soros, ecc.), questo o quell’intellettuale di riferimento (Klaus Schwab, Bernard-Henry Levy, ecc.), questo o quel leader politico (Hilary Clinton, Emmanuel Macron, ecc.) non presenta mai un quadro di sufficiente distinzione, perché i confini di questo gruppo apicale del capitalismo liberale non sono netti ed è improbabile che ci sia un club specifico la cui tessera tutti debbano necessariamente avere in tasca. Esistono numerose associazioni che coltivano questo campo ideologico e operativo (World Economic Forum, Gruppo Bilderberg, ecc.), ma probabilmente non esiste alcuna “cupola” cui tutti facciano riferimento. Ciò che conta è la comune ideologia e la comune posizione apicale nella distribuzione del potere politico-finanziario a guida americana.

 

5. Apocalypse Now

 

Concludendo, oggi ci troviamo in una fase di ritrazione della fase globalista dell’impero americano, che sta richiamando una parte dei propri tentacoli, per consolidarsi ed arroccarsi sulle posizioni per gli USA più facilmente difendibili dell’Occidente egemonizzato o colonizzato.

Questa fase ha, ed avrà, costi economici e sociali spaventosi. Essi devono venir fatti pagare alla periferia dell’impero, in proporzione al potere contrattuale delle varie parti.

Ne saranno esentati i gruppi apicali USA e minoranze scelte delle province dell’impero. I costi interni agli USA dovranno essere tenuti bassi, perché, come per la Roma imperiale, non ci si può permettere di avere eccessivi tassi di malcontento sotto casa. Via via che ci si allontana dal centro dell’impero verso le sue propaggini meno integrate i costi saliranno esponenzialmente, e alcuni paesi verranno semplicemente sacrificati.

In questa fase, che durerà certamente per diversi anni, il potenziale esplosivo delle proteste e dei moti di ribellione verrà tenuto a bada con la duplice leva di “alte ragioni morali” e “doverose strette repressive”.

Da un lato, grazie al controllo dei media, la propaganda promuove un “bene superiore” che esprime l’adesione ideologica positiva, quella che identifica i “buoni” e i “cattivi”. Nella cornice liberale il “bene superiore” ha tipicamente la forma di “solidarietà con le vittime”, quali che siano (recentemente siamo passati dai morti per Covid alle vittime ucraine, ma la lista è lunga). Una volta inventata mediaticamente una vittima acconcia, e suscitati i gridolini di sdegno della plebe telecomandata, si può chiedere ogni sacrificio, fiduciosi nella malleabilità del pubblico.

Simultaneamente, delle vittime reali di questa catastrofica trasformazione, delle popolazioni schiacciate, delle culture cancellate, dei nuovi schiavi, delle plebi emarginate e ricattate né oggi né domani sentirà parlare nessuno.

Se questa dimensione “positiva” non basta come motivante, per gli altri, per i reprobi, per quelli che non si lasciano commuovere dai peana su commissione per le “vittime” col bollino, per questi bruti si ricorre, e si ricorrerà sempre di più, a forme repressive: minacce, rappresaglie lavorative, sanzioni, censure, divieti di manifestazione, sistemi di controllo e ricatto, ecc.

Il punto d’arrivo di questo processo, se riuscirà a dispiegare i propri effetti senza un’opposizione dura ed efficace, sarà l’abbandono integrale, anche formale, del paradigma democratico (già svuotato di fatto) e l’avvento di un neo-feudalesimo a base tecnocratica e plutocratica.

https://sfero.me/article/la-metamorfosi-impero-e-le-sue-vittime

Il sogno liberale, di Andrea Zhok

Il sogno liberale

Come mi è capitato di sottolineare altrove, la nozione di “liberale” è strutturalmente ambigua per ragioni storiche. Purtroppo tale ambiguità continua a creare confusione e a smussare le armi dell’analisi, dove di volta in volta, di fronte agli stessi eventi, si finisce per invocare l’aggettivo “liberale”  a volte come causa di oppressione, a volte come fattore di emancipazione (così ha fatto recentemente, ad esempio, il prof. Orsini). Di fronte all’irreggimentazione, al controllo sociale, alla crescita di impulsi persecutori che ha tratteggiato questi ultimi due anni c’è ancora chi lo caratterizza utilizzando l’aggettivo “illiberale”, come se tutto ciò fosse estraneo e contrario all’essenza del liberalismo.

È perciò opportuno tentare un breve chiarimento concettuale e terminologico. Non provo qui a fornire un’analisi dello sviluppo storico e delle sue ragioni – svolta in altra sede – ma mi limito ad esplicitare l’ambiguità del termine liberalismo e a ribadire perché l’uso emancipativo del termine è latore di confusione.

I. Il liberalismo perfezionista

Esiste davvero una forma emancipativa del liberalismo?

Sì, esiste, si tratta di un’idea che concepisce il liberalismo come staccato dalla sua componente economica e che lo pone come una visione teorica che promuove il libero sviluppo umano. Questa concezione può essere chiamata “liberalismo perfezionista”, laddove il termine “perfezionista” è utilizzato nella filosofia morale contemporanea per definire una teoria che pone il senso dell’azione umana nell’esercizio e nel libero sviluppo delle proprie facoltà. Questa visione può essere rappresentata da pensatori come Benedetto Croce, in una cornice idealista, da Joseph Raz, Michael Polanyi e in parte John Rawls, in una cornice immanentista. Non è accidentale che la distinzione tra “liberalismo” e “liberismo” venne introdotta proprio da Croce per isolare il proprio liberalismo dalle istanze economiche (liberiste).

Qui l’idea portante è che l’uomo conferisce senso alla propria esistenza esplorandone le potenzialità e sviluppando le proprie capacità. Tale visione è minoritaria ed eccentrica rispetto allo sviluppo storico del liberalismo, ma è esistita ed esiste. Quanto sia essa lontana dalla prospettiva storica principale del liberalismo lo si può capire osservando come questo “liberalismo perfezionista” sia perfettamente compatibile con l’impianto teorico del critico per antonomasia del liberalismo, cioè di Karl Marx, la cui concezione del libero sviluppo umano (si vedano i Manoscritti economico-filosofici del 1844) è ampiamente sovrapponibile a questa visione. Non pochi soggetti, soprattutto intellettuali, si reputano liberali in quanto nutrono, in forma talvolta chiara, spesso confusa, un’immagine del genere.

 

II. Il liberalismo reale

Sul piano storico, tuttavia, questa versione del liberalismo disaccoppiata dal liberismo economico è ampiamente minoritaria, e influente quasi solo a livello di elaborazione intellettuale. Il liberalismo si è sviluppato incardinandosi nella teoria economica marginalista alla fine del XIX secolo, in questa forma ha acquisito centralità politica e ha imposto in modo egemonico la propria visione a partire dagli anni ’70 del XX secolo. Chiamiamo questo liberalismo egemone “liberalismo reale”, nel senso in cui si parlava una volta di “socialismo reale”.

Per capire l’essenza del liberalismo reale bisogna comprendere come si configura la sua visione ideale, quella visione che ogni agente liberale coltiva dentro di sé come ispirazione, come motore della propria azione.

Si dice spesso che il liberalismo sarebbe “neutrale” sul piano etico, nel senso di non volersi impegnare nel prendere posizione sui temi eticamente più controversi e scottanti. L’idea della neutralità liberale storicamente nasce in contrapposizione alla sostanzialità delle posizioni religiose: che si parli di aborto, eutanasia, famiglia, educazione, ecc. ogni religione ha una posizione definita – non necessariamente immobile nel tempo, ma di volta in volta ben definita – mentre il liberalismo, sin dalle origini, si vanta di rigettare questa dimensione di valutazione sostanziale, che andrebbe risolta lasciando a ciascun individuo la scelta ultima.

Questa idea di “neutralità” etico-politica è tuttavia perfettamente illusoria. L’etica e la politica si muovono in un’atmosfera densa in cui non esiste neutralità, in cui scelte sovraindividuali si fanno sempre necessariamente, e in cui quando condotte specifiche vengono favorite, altre vengono sfavorite e ostacolate. La “neutralità” liberale è in effetti un camuffamento, magari in buona fede, ma un camuffamento. In effetti anche il liberalismo ha un’immagine ideale del mondo, proprio come ce l’ha il comunismo o il cristianesimo, solo che è un’immagine che si interpreta come poco esigente e perciò universale.

 

III. Libertà negativa e presunta “neutralità” etica

La concezione che caratterizza il liberalismo è innanzitutto una concezione che promuove una forma di libertà negativa: laica, asociale e apolitica. Il liberalismo tipicamente nega che queste specifiche proprietà siano alcunché di sostanziale perché sostiene che anche per questi tratti, come per ogni altro tratto, la scelta viene lasciata al singolo individuo (se essere laico o credente, sociale o asociale, politicamente attivo o passivo, ecc.). Solo che le cose non stanno così. Questo perché ciascuna di quelle dimensioni travalica il singolo e non è alla portata di alcuna scelta individuale, unilaterale.

Non posso decidere individualmente di condurre un’esistenza politica, se l’ambiente circostante non lo consente; non posso associarmi, se non ci sono le altrui condizioni per formare un’associazione; posso condurre una vita da mistico stilita, ma nessuna vita religiosa in assenza di una comunità religiosa operante; non posso vivere un’esistenza comunitaria, se le forme di vita comunitarie sono disgregate, ecc.

Il cuore della libertà negativa nel liberalismo reale  è che, non essendovi un divieto a indirizzare la vita in queste forme, ciascuno è in grado di decidere autonomamente se percorrerle o meno. Ma questo è semplicemente falso. Ogni scelta politica, legislativa, economica che venga fatta potrà essere funzionale a costruire forme di vita religiosa, politica, comunitaria, ecc. oppure può essere disfunzionale a questi fini. Quando uno di questi indirizzi non viene supportato, proprio per la loro natura sovraindividuale, esso deperisce e si estingue.

 

IV. La visione propositiva del modello liberale

Quest’apparente “neutralità” è solo metà della storia del “sogno liberale”. La seconda fondamentale parte è determinata sul terreno economico, dove gli indirizzi più chiaramente positivi, “sostanziali” del liberalismo si vedono all’opera. L’impianto economico liberale infatti coltiva la competizione su base individuale, venera il rischio, l’innovazione e la mobilità. Ciascuno di questi elementi opera costantemente come fattore che accresce l’insicurezza individuale e alimenta lo sradicamento sociale. In una cornice di concorrenza auspicabilmente perfetta ogni singolo individuo occupa una posizione sociale differenziale, dove ogni successo altrui è potenzialmente una minaccia al successo proprio. Quanto più ci si approssima alla base della piramide sociale, tanto minore diviene il proprio potere contrattuale nella società, e tanto maggiori diventano per ciascuno le possibilità di essere proprio escluso dal sistema, di venire espulso ed emarginato.

Sul piano tecnologico, finanziario e ambientale lo stimolo costante al rischio, all’accelerazione e all’innovazione crea condizioni strutturalmente instabili. Esse vengono compensate – da chi è economicamente nelle condizioni di farlo – con la creazione di cuscinetti difensivi (riserve monetarie, assicurazioni private, ecc.). Questo significa che all’insicurezza generata dal sistema si cerca di rimediare con la “sicurezza economica”, cioè con lo sforzo di accumulare denaro: quanto maggiore l’insicurezza tanto maggiore la spinta alla competizione più spregiudicata, che aumenta a sua volta l’insicurezza, le possibilità di fallimento e la frustrazione.

La spinta alla mobilità, nella ricerca di opportunità d’impiego, spezza la possibilità di una perdurante cooperazione territoriale, e con ciò corrode ogni senso di partecipazione comunitaria: il soggetto liberale non è più “parte di una comunità”, ma è “utente di un servizio urbano”. (Incidentalmente, è per sopperire a questo vuoto che la società liberale contemporanea si riempie ossessivamente la bocca di “comunità” / “community”: secondo un tipico canone liberale, meno una cosa esiste, più ossessivamente la si evoca per fingerne l’esistenza.)

In questa cornice in cui tutto converge verso l’isolamento individuale e la competizione interpersonale, l’Altro appare primariamente nella forma di un’insidia, una fonte di potenziale pericolo – o almeno di ingombro. In un mondo liberale, se qualcuno ti si avvicina la prima domanda che tende a sorgere è: “Cosa vuole questo da me?” Dunque non solo le condizioni economiche ed ambientali tendono a far crescere il senso di insicurezza, ma anche i singoli individui sono innanzitutto percepiti come potenziali minacce.

Questo sfondo genera una tendenza profonda, che rappresenta l’ispirazione e il motore del sogno liberale. Siccome sia l’ambiente che l’altro soggetto (se non altrimenti esplicitato), si profilano prima facie come potenziali minacce, la disposizione che anima la società liberale si orienta in due direzioni: la neutralizzazione difensiva dei rapporti con il prossimo e l’acquisizione di potere mediato sull’ambiente.

 

V. Figure del sogno liberale

Siccome ciascun soggetto individuale è vissuto innanzitutto come una potenziale minaccia, la concezione liberale lavora sistematicamente a creare o mantenere le distanze tra individuo e individuo, a isolarli preliminarmente e a consentirne l’associazione solo in forme contrattuali sorvegliate. La società liberale tende a divenire sempre più isterica intorno al pericolo che altri esseri umani, o altri gruppi umani, o altre forme di vita umane, rappresentano per “noi liberali”.

Rispetto ad ogni individuo cresce costantemente una sorta di permalosità strutturale, di ipersensibilità per cui l’altro potrebbe essere in procinto di ferirci, di offenderci in maniera insopportabile. Individui sradicati e psicologicamente provati dal distanziamento forzoso cui il mondo liberale conduce, temono il contatto diretto con il prossimo e a maggior ragione temono ogni forma di dipendenza dal prossimo. Figure emblematiche di questa dinamica sono, ad esempio, i giovani “hikikomori” che si rifiutano di uscire di casa e che si relazionano con gli altri solo in forma virtuale; o, in altro modo, sono figure emblematiche i pasdaran del “politicamente corretto”, alla continua ricerca di un possibile lato da cui potrebbero ritenersi offesi; o ancora, lo sono gli studenti dei college americani che firmano consensi scritti per avere rapporti sessuali, a garanzia che vi sia piena volontarietà dell’atto. Stendiamo poi un pietoso velo sulla recente isteria da contagio, che ha portato a galla strati profondi di questo autentico terrore nei confronti del prossimo.

Siccome il nostro prossimo è, proprio per la sua prossimità, il più pericoloso, il liberalismo reale dimostra la propria umanità come filantropismo verso i più remoti, verso coloro i quali hanno solo l’esistenza virtuale dei reportage giornalistici e delle raccolte di petizioni. Verso i lontani, gli sconosciuti, con cui mai entreremo in contatto e di cui nulla sappiamo, il liberalismo reale riversa la propria umanità residua, che, incapace di vicinanza, si trova a proprio agio invece nella sfera in cui può dipingere l’umanità a piacimento, con i tratti addomesticati del proprio immaginario. Se verso i più remoti il liberale può esercitare generosità, nei confronti del prossimo i rapporti sono governati dalla sfiducia e dal timore, e dunque le forme relazionali preferite sono l’isolamento o il rapporto mercenario, in cui il potere del denaro media la relazione tra esseri umani.

Dipendere da qualcun altro è, nel mondo liberale, la ricetta sicura per lo scacco, visto che per come il sistema funziona è razionale attendersi che tale dipendenza prenda la forma di uno sfruttamento. Questo varrà tanto sul piano lavorativo che su quello affettivo: se dipendo sono sottomesso; sono libero solo se sono io a sottomettere. Questo modello di indipendenza è quella che promuove ad esempio l’idea, sempre più diffusa nel Nord Europa, per cui avere un figlio dovrebbe essere disaccoppiato dall’avere un compagno o una compagna. Siccome un rapporto affettivo è percepito come un rischio e un vincolo, una subordinazione ad esigenze limitanti che intaccano la propria indipendenza, allora attingere ad una banca del seme o noleggiare un utero altrui, sono soluzioni decisamente preferibili.

La visione di principio della società nel liberalismo reale è quella di un sistema di percorsi di vita paralleli che non si intersecano se non con la mediazione di un controllo terzo (contratto, supervisione, giudice). I contatti ammessi e preventivati sono l’acquisizione di un servizio, l’erogazione retribuita di un servizio, o, dove entrambi falliscono, lo scontro. Un sistema che produce strutturalmente insicurezza ad ogni livello lavora per risparmiare ai propri adepti l’incertezza dei rapporti umani, l’insicurezza dei giudizi personali, il rischio dei contatti, la vulnerabilità dell’affettività.

Il sogno liberale consta di un mondo in cui non devi niente a nessuno, non hai bisogno di contare su nessuno, non dipendi da nessuno, ma in cui puoi portare avanti i tuoi progetti acquistando i servigi altrui. Questo tratto spiega il carattere insieme patetico e pericoloso dei grandi “sognatori” partoriti dal liberalismo, gente che conta di realizzare i propri infantili sogni di potenza comprandoli.

Il sistema del liberalismo reale perciò partorisce due forme umane: “servi” e “padroni”, che nello specifico si profilano come “frustrati senza remissione” e “imperatori per censo”.

Il primo gruppo, di gran lunga maggioritario, è rappresentato da tutti quelli che ambivano ad essere piccoli autocrati di un proprio regno a pagamento, ma che non ce l’hanno fatta. Questi cercano comunque di esercitare tutto il potere che viene loro concesso sul prossimo, sfogando almeno in parte la propria frustrazione, che tuttavia cova sempre sotto la cenere e nutre una rabbia costante, pronta ad esplodere. È gente che avrebbe voluto essere Bill Gates o Ellon Musk, e che rimarrà certa fino alla fine che, se avesse raggiunto quella posizione economicamente apicale, allora sì che il mondo avrebbe manifestato tutto il proprio senso. Essendo invece rimasti lontani dalla vetta non gli resta che rivalersi come possono sugli altri: piccoli delatori, burocrati inflessibili, bulli da parcheggio, ecc. Recentemente abbiamo avuto il piacere di ammirare simpatici esempi di questa tipologia umana in quelli che si sbracciavano orgogliosi per poter esibire il proprio Green Pass (come piccolo segno di esclusività), o in tutti quelli che vomitano odio bellicista fomentando guerre per procura.

Le guerre per procura sono in effetti un caso di scuola della visione liberale, perché combinano due elementi strutturali del liberalismo reale: il filantropismo per cause distanti in luoghi remoti e la frustrazione rabbiosa pronta ad esplodere, che può essere rilasciata verso l’apposito “malvagio” o lo “stato canaglia” di turno. Le guerre per procura in luoghi remoti, cui ci si può collegare televisivamente ore pasti, per poi tornare alla serietà della vita nel resto della giornata, sono una soluzione pulsionale perfetta per il cittadino liberale, che può al tempo stesso sentirsi un benefattore dell’umanità e sfogare il proprio desiderio rabbioso di distruzione (evitando così di sparare al vicino o di farsi sparare da esso).

Accanto all’esercito degli sconfitti dalla vita, che covano sotto un volto disciplinato una rabbia disperata, c’è poi la rarefatta truppa dei vincitori, di coloro i quali vedono la società dall’alto della propria capacità di comprare ogni cosa e persona che gli possa servire. Questi sono finalmente nella posizione che il sistema gli ha promesso come premio sommo: la capacità di “realizzare i propri sogni” in grande stile. Sciaguratamente chi ha fatto tutto ciò che il sistema gli richiedeva per raggiungere quei vertici, di norma non ha avuto né il tempo nè la cura per approfondire nulla, e i suoi sogni vivono dell’immaginario plastificato, astratto, convenzionale che il sistema secerne come sottoprodotto culturale. Nel migliore dei casi queste anime piatte “si realizzano” in qualche modo infantile, comprandosi qualcosa di molto molto grande e molto molto costoso (una nave, un razzo spaziale, un’isola). Il caso peggiore però è quello in cui questi stessi ritengano di essere nella posizione di “migliorare l’umanità” – un’umanità di cui hanno solo una conoscenza da rivista patinata postprandiale – e che cercheranno di “migliorare” realizzando qualche fantasia letteraria: l’emancipazione di quelle che nel proprio tinello gli appaiono come “minoranze oppresse”; il miglioramento della volgare umanità con qualche tecnologia transumanista, ecc. Questi imperatori per censo che si vogliono despoti illuminati sono obiettivamente personaggi pericolosi per l’unione di potere e astrattezza.

*          *          *

Ciò che bisogna tenere fermo di questo quadro, in conclusione, è soprattutto un punto, un singolo punto essenziale.

L’idea che la forma di vita liberale sia una forma di vita pacifica, rispettosa degli altri e umanitariamente ispirata è una delle più straordinarie fandonie e delle maggiori illusioni autointerpretative che una cultura abbia mai partorito.

Il liberalismo reale nella sua evoluzione storica ha fatto serenamente commercio di schiavi finché gli è convenuto (si vedano gli ottimi studi di Losurdo); ha fatto ogni resistenza possibile all’avvento di governi democratici che non fossero vincolati al censo; ha guidato gli eserciti imperialisti nello sfruttamento senza remore del resto del mondo nel XIX secolo (e anche dopo); ha fomentato lo sciovinismo e la guerra con i suoi giornali alle soglie del 1914; dopo la parentesi delle guerre mondiali ha ripreso la propria battaglia ideologica (nella versione “difesa del mondo libero”) facendo una raffica di guerre per procura mentre si vantava del proprio pacifismo; e infine dagli anni ’70, nella forma neoliberale, ha ripreso l’opera di progressivo spegnimento delle democrazie e di sistematico sfruttamento di chiunque abbia basso potere contrattuale.

Questo quadro può sorprendere il cittadino ingenuo, che magari è caduto vittima della pubblicità-progresso che il marketing ideologico liberale coltiva con grande cura. Essendo una cultura che nasce da una generalizzazione dello scambio commerciale, il liberalismo ha avuto sempre straordinaria cura del marketing, proiettando ovunque immagini idealizzate e ampiamente finzionali di sé. Ma al netto di questi raffinati tentativi di dissimulazione, il nocciolo duro del mondo liberale è rappresentato da una linea di sviluppo individualmente rivolta ad ideali di conquista, strumentalizzazione e asservimento, perché questa è la forma in cui “i sogni si realizzano”. Ciascun soggetto è spinto ad immaginarsi come un soggetto sovrano, indipendente, che non ha bisogno di nessuno, che può disporre strumentalmente degli altri e che è a sua volta disposto ad essere utilizzato, se questo lo conduce avanti nella realizzazione del suo sogno solitario. Ciascuno è dunque  un re, un sovrano, un piccolo imperatore in potenza, e di diritto, che ha solo bisogno di un po’ di fortuna per esserlo anche di fatto. E se il destino non gli concede tale fortuna, sente di avere pieno titolo per sfogare la propria rabbia. Un sistema predatorio che genera con eguale intensità, sfruttamento, violenza, indifferenza e la più spettacolare ipocrisia.

https://sfero.me/article/il-sogno-liberale?fbclid=IwAR0N9Icsr5FYK7KPoecji66oHM5fsaHtqr1773H2ncMRLTDdmTrgAjFh33E

Il lasciapassare verde: tramonto o alba?_di Andrea Zhok

Il lasciapassare verde: tramonto o alba?

È noto come la Commissione Europea avesse progettato sin dal gennaio 2018 l’implementazione di un pass sanitario per i cittadini UE (vaccination passport for EU citizens). L’intento dichiarato concerneva la mobilità tra paesi dell’UE e la “road map” che era stata proposta aveva il 2022 come data di implementazione definitiva.

Il fatto che questo progetto fosse inteso soltanto come limitazione agli spostamenti tra paesi non deve trarre in inganno circa la radicalità del progetto. Infatti è da tempo che le normative europee non contemplano alcuna distinzione netta tra la mobilità interna a ciascuno stato dell’UE e la mobilità tra stati, e dunque un passaporto vaccinale che potesse porre limitazioni alla mobilità tra stati implica di principio una legittimazione generale a porre limitazioni ad ogni mobilità territoriale, a qualunque livello.

È anche interessante notare che la proposta del 2018, una volta resa pubblica e commentabile dalla cittadinanza venne subissata da una debordante quantità di critiche, al punto che i commenti pubblici sulla pagina dedicata nel sito della Commissione Europea vennero bloccati nel marzo 2018.

Dopo questa accoglienza il progetto sembrava sospeso.

Ora, assumiamo ragionevolmente che la Commissione Europea ignorasse l’emergere futuro della pandemia di Sars-Cov-2. La domanda interessante da porre sotto queste condizioni è: quale era la ratio originaria di tale passaporto vaccinale? Questa domanda si impone perché:

1) nella legislazione UE un blocco alla libera mobilità è una cosa assai seria, implicando di diritto un’esclusione generalizzata ad accedere a luoghi e possibilità di lavoro;

2) non c’erano state nella storia europea degli ultimi cento anni eventi epidemici di peso tale da lasciar prevedere serie necessità di contenimento.

Dunque, perché spingere tale proposta, al tempo stesso ricca di implicazioni e priva di forti motivazioni sanitarie?

Per tentare una risposta dobbiamo chiederci quali sono le caratteristiche intrinseche di un tale passaporto, a prescindere dalla specifica, eventuale, emergenza sanitaria.

Un passaporto sanitario così concepito ha caratteristiche specifiche, del tutto diverse da qualunque altra “licenza” ordinaria.

Se desidero guidare un’automobile, o portare una pistola, farò una domanda per ottenere una patente di guida o un porto d’armi. Guidare o portare un’arma sono “poteri ulteriori” che acquisisco rispetto alle persone che mi stanno attorno, e tali poteri possono mettermi nelle condizioni di esercitare una minaccia verso il prossimo. Le relative licenze vengono perciò erogate a seguito di una serie di esami volti ad assicurare l’idoneità, la capacità e l’equilibrio di chi potrà in seguito circolare su un’automobile o con una pistola. Se desidero ottenere una facoltà supplementare mi sottopongo ad un esame che rassicura la collettività intorno alla mia capacità di gestirla.

Un passaporto vaccinale invece opera in modo inverso: anche se io non chiedo né pretendo nulla, esso mi sottrae alcuni diritti primari di cittadinanza, come i diritti di movimento o accesso, fino a quando io non abbia dimostrato di meritarli. Questo è il primo punto che deve essere sottolineato: qui siamo in presenza di una sottrazione di diritti generali della cittadinanza, e non di una richiesta personale di accesso ad ulteriori facoltà (come per le “licenze” di cui sopra).

In stretta connessione col primo punto sta il secondo: il passaporto vaccinale crea un’inversione dell’onere della prova. La situazione è tale che io ho accesso ai miei diritti di cittadinanza solo se dimostro di esserne degno, mentre nelle condizioni antecedenti io avevo intatti i miei diritti fino a quando non fossi stato dimostrato indegno di essi. Quest’inversione dell’onere della prova rappresenta un cambiamento di paradigma gravido di implicazioni: ora sta a me dimostrare di essere normale e di poter vivere in modo normale; e se per qualche motivo non sono in grado di dimostrarlo (foss’anche per un malfunzionamento tecnico), immediatamente ciò mi mette in una condizione di grave deprivazione (spostamenti, istruzione, salario, lavoro).

C’è infine una terza caratteristica decisiva: un passaporto vaccinale è concepito come testimonianza di una condizione intesa come durevole. La condizione di normalità (la non patologicità) è ora qualcosa che deve essere provato da ciascun soggetto in pianta stabile, a tempo illimitato.

È importante notare come la condizione emergenziale (reale o presunta) è stata sì richiamata per introdurre questo lasciapassare, ma non è stata più richiamata per definirne i limiti. La sua introduzione non è stata accompagnata da alcuna definizione delle condizioni sotto cui esso sarebbe stato tolto.

Anzi, nonostante ripetute sollecitazioni i governi che hanno adottato questa soluzione si sono sistematicamente rifiutati di chiarire sotto quali condizioni il lasciapassare sarebbe venuto meno in quanto superfluo.

In questi giorni si parla di “durata illimitata” per chi ha fatto la terza dose, e il punto importante di questa proposta non sta naturalmente nel numero delle dosi ritenute imperscrutabilmente bastevoli dai nostri esperti da avanspettacolo, ma nell’idea che comunque il meccanismo implementato rimarrà in vigore senza limite temporale. Quand’anche le condizioni specifiche per il conferimento del lasciapassare verde venissero allentate, tale allentamento sarebbe sempre revocabile, proprio in quanto è l’istituzione del lasciapassare in quanto tale a rimanere in vigore.

Veniamo così alla questione finale, quella determinante.

Non sappiamo quali fossero le intenzioni originarie per l’introduzione di questo lasciapassare nella proposta del 2018, ma abbiamo tutti gli elementi per capire che, quali che siano state tali intenzioni, tale dispositivo consente di esercitare un nuovo radicale livello di controllo sulla popolazione.

Immaginiamo due scenari.

Nel primo scenario tutta la popolazione accoglie senza fare resistenza questo dispositivo.

Se questo accadesse chi governa avrebbe mano libera per effettuarne ulteriori “upgrade”, estendendo le funzioni di un sistema così ben accetto. A questo punto qualunque “virtù” che venisse efficacemente rappresentata come “di interesse pubblico” potrebbe divenire una nuova condizione da dover provare su base individuale per avere accesso alle condizioni di cittadinanza normale.

Nel secondo scenario una parte della popolazione fa resistenza a questo dispositivo. Ciò permette a chi governa di presentare i “resistenti” come problema fondamentale del paese, come origine e causa dei malfunzionamenti e delle inefficienze che lo assillano. Se solo questi nostri concitttadini fossero virtuosi e non renitenti, i problemi non sussisterebbero. Questa mossa sposta la responsabilità dalle spalle di chi governa a quelle di una sezione della società, concentrando l’attenzione pubblica su di un conflitto interno alla società.

Dal primo scenario si può passare al secondo quando gli “upgrade” del dispositivo diventano momentaneamente troppo esigenti, producendo una resistenza nella società.

Dal secondo scenario si può passare al primo, quando la popolazione stremata finisce per rassegnarsi alle nuove condizioni.

Ecco, io non so se qualcuno abbia escogitato questo dispositivo a tavolino, con tali finalità.

Se lo ha fatto possiamo complimentarci per l’ingegno, oltre che per il cinismo.

Oppure nessuno lo ha inteso, ma semplicemente esso emerge come punto di caduta casuale di altre dinamiche. Ma questo non ne sottrae affatto le caratteristiche esiziali e la possibilità di essere utilizzato esattamente in questo modo.

Di fatto un tale dispositivo può funzionare come un collare a strozzo per qualunque libertà e qualunque diritto, consegnando a tempo indeterminato un potere nuovo e radicale ai governi centrali sulla propria popolazione, accedendo ad un nuovo livello di controllo sociale e di compressione degli spazi di libertà.

Questo è il momento decisivo in cui si determinerà il sentiero che andremo a prendere.

In questo momento il lasciapassare verde, oltre ad essersi dimostrato un fallimento per ciò che prometteva di ottenere, risulta sempre più chiaramente sia inutile sul piano sanitario che dannoso su quello economico. Questo è il momento per cancellarlo.

Se si permette che esso sopravviva, magari in una forma ad apparente “basso voltaggio” per qualche mese, esso diventerà un tratto definitivo della nostra vita, portando a compimento un processo di degrado irrevocabile nelle forme della libera cittadinanza.

https://sfero.me/article/il-lasciapassare-verde-tramonto-o-alba

 

L’istinto del gregge

Sono settimane che si parla di allentamenti, si ammette – magari a mezza bocca – che non ci sono vere ragioni per mantenere le restrizioni demenziali cui siamo stati sottoposti per mesi.

Però la verità è che non è cambiato assolutamente nulla.

Tutti i decreti più pazzi del mondo sono in vigore.

Da oggi centinaia di migliaia di persone che non si sono sottoposte a un trattamento sanitario che, nelle condizioni attuali, risulta inutile e potenzialmente dannoso, vengono deprivate dei propri mezzi di sussistenza (dopo essere state deprivate di tutto il resto nei mesi scorsi).

Le motivazioni originarie di questa operazione coattiva (“mettere in sicurezza”, separare untori e sani) sono smentite da tempo in ogni forma; ma in effetti tutto ciò è irrilevante; le motivazioni sono cadute in dimenticanza per i più.

Restano meccanismi di ottemperanza, resta il potere del precedente, l’obbedienza alla regola, il timore della sanzione, il piacere di sentirsi dalla parte del giusto. Scomparsa l’immunità di gregge resta l’istinto del gregge.

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“Sembrava che ci fossero state anche manifestazioni per ringraziare il Grande Fratello di aver portato la razione di cioccolato a venti grammi a settimana.

E solo ieri – rifletté – era stato annunciato che la razione veniva RIDOTTA a venti grammi a settimana.

Era possibile che potessero mandar giù questo, dopo solo ventiquattro ore?

Sì, l’avevano fatto.”

(Orwell, 1984)

https://sfero.me/article/istinto-gregge

Pragmatismo tecnocratico e inattualità della filosofia, di Andrea Zhok

Per la prima volta nella storia dei finanziamenti nazionali nessun PRIN (Progetto di Ricerca di Interesse Nazionale) è stato finanziato per l’area filosofica. I progetti di quest’area rappresentavano il 10% dei progetti presentati, ma sono stati bocciati tutti.

Al netto del dispiacere per i mancati finanziamenti, credo che ci si possa compiacere di questo evento almeno per il suo contributo a fare chiarezza.

Si tratta di una scelta che si inquadra perfettamente nell’atmosfera del nuovo pragmatismo emergenziale, che non ha più tanto tempo da perdere con le apparenze.

Dopo tutto, come ha detto il ministro Cingolani, basta studiare quattro volte le guerre puniche. Ci vogliono più conoscenze tecniche.

Questo nuovo “pragmatismo” sta rapidamente dismettendo tutti gli orpelli, tutti i passati omaggi alla Costituzione, ai diritti, alla libertà di pensiero ed espressione, e sta andando rapidamente al cuore del progetto tecnocratico contemporaneo, senza più infingimenti. L’imperativo è la rapidità d’esecuzione previa cancellazione di controlli, pratiche di mediazione, tempi di riflessione.

In questo senso si tratta di un evento chiarificatore, molto meglio della strategia adottata sui finanziamenti alla ricerca a livello europeo, dove vige ancora (ma vediamo per quanto) un altro stile d’azione, quello per cui si finanziano progetti “trendy”. Adesso è il momento del Greenwashing e dunque i finanziamenti alla libera ricerca cadono e cadranno su progetti che si raccomandano per la capacità di sostenere l’attuale narrazione sull’emergenza climatica.

Beninteso, naturalmente non c’è niente di male a svolgere ricerca su questo importante tema.

Il problema – non proprio marginale per la libertà di ricerca – è che il finanziatore stabilisca i temi degni di essere ricercati a monte (e, in effetti, scelga anche le linee di fondo delle tesi che si andranno a testare). Questo qualche problema direi che lo genera, visto che l’agenda del finanziatore è eminentemente politica, mentre quella del ricercatore dovrebbe essere il perseguimento della verità.

In attesa di vedere come verranno valutati in futuro progetti filosofici su “Spinoza e la Piccola Era Glaciale” e “La stufa di Cartesio e il Global Warming“, possiamo apprezzare la chiarezza fatta dalla scelta italiana.

Va detto che l’idea stessa di concepire i finanziamenti, specificamente per aree come quelle afferenti a forme di pensiero critico, nella modalità di pochi grandi finanziamenti, è parte del problema. Questo modello viene promosso come “altamente competitivo”, e il presunto “alto livello della competizione” rende l’esclusione anche di progetti manifestamente meritevoli del tutto normale. Dunque, che i meritevoli, anche gli assai meritevoli, restino fuori è un’idea cui il modello ci abitua.

In questa idea di “alta competizione” c’è qualcosa di profondamente fuorviante. Qui non siamo in una gara di corsa in cui il più veloce arriva primo, o in un incontro di boxe in cui il più forte resta in piedi. Qui siamo in un ambito più simile a un concorso di bellezza, dove si mettono in mostra i propri punti di forza sperando di convincere la giuria. E siccome “la bellezza è negli occhi di chi guarda”, questo modello conferisce alle “giurie” un totale controllo su quali linee di ricerca promuovere. Questo fatto stesso, a prescindere dall’obiettività e buona fede delle giurie che può essere adamantina, limita la libertà di ricerca, in quanto promuove implicitamente un gioco di anticipazione dei desiderata dei giudici. Progetti ambiziosi, fondati, ma “strani” tendono a scomparire per autocensura.

Detto questo, che la filosofia debba riciclarsi in un formato disciplinare “self-contained“, in un campo ben delimitato e dunque “tecnicizzabile”, è qualcosa di promosso e incentivato da tempo. Tuttavia la riflessione filosofica – finché esiste e non sono ottimista sul suo stato di salute – è intrinsecamente refrattaria alla chiusura in un campo.

Con qualche semplificazione, si potrebbe dire che mentre tutte le altre scienze possono di principio (magari malvolentieri) concepirsi come studio di “mezzi”, di “tecniche”, la filosofia perde completamente la sua natura se non è sempre insieme indagine sui “mezzi” e sui “fini”, sui mezzi in rapporto ai fini, sui fini in rapporto ai mezzi. E ogni discussione che chiami in campo i fini tende ad avere carattere olistico, non settoriale.

Ora, dovrebbe essere chiaro a chiunque sia aduso a riflettere sulla politica e sulla storia che, per il potere – chiunque lo gestisca di volta in volta – un sapere relativo ai mezzi è prezioso, perché ti fornisce ulteriore potenza; ma una riflessione aperta sui fini è invece esiziale, perché il potere la propria agenda di fini ce l’ha già e non desidera affatto che sia messa in discussione. Dunque i saperi tecnici sono i benvenuti, ma tutte le forme di riflessione che possono mettere in discussione l’agenda dei fini (forme che comunque, di fatto, possono nascere in qualunque area del sapere) rappresentano un problema.

La filosofia in questo senso, nella misura in cui esiste ancora in forme tradizionali, rappresenta un piccolo scandalo, una sorta di atavismo, il residuo di epoche al tramonto. In filosofia porsi domande intorno all’intero, alla storia e alla società in cui si è collocati, alla propria posizione nel cosmo, e farlo sulla base della critica radicale, del dubbio verso l’opinione maggioritaria, dell’uscita dallo schema pregresso, è precisamente la base, il cuore da cui tutto parte.

Per questo motivo la filosofia – finché esiste e nella misura in cui ancora esiste – esige innanzitutto libertà di pensiero ed espressione, e se c’è una battaglia rispetto a cui nessun filosofo che voglia dirsi tale può arretrare è una battaglia per la libertà di pensiero e di espressione.

Per far capire alla fine di che cosa ne va al momento, è utile riportare un breve passo da l’Avvenire; qui, proprio all’inizio di un articolo in cui si discute della mancata erogazione dei PRIN al settore filosofico, troviamo scritto:

“Qualche maligno attribuisce il risultato negativo a qualche isolato e presenzialista “avversario del Green pass” e all’avversione che può avere suscitato verso la disciplina, ma la comunità filosofica ha reagito con tempestività e con contributi di valore, mostrando al contrario di quanto bisogno vi sia di buone elaborazioni concettuali anche di fronte a un’emergenza sanitaria.”

Traduzione informale:

“Non lo dico io, naturalmente, mai mi permetterei; è solo una voce maligna, però, però, pensateci sopra, non sarà mica che il sostenere tesi eterodosse da parte di qualcuno che si fregia del nome di filosofo (Agamben? Cacciari?) abbia attratto sull’intera comunità filosofica l’ira funesta dei Giudici? No, no, cosa vado mai a pensare! Infatti – e per fortuna, altrimenti chissà cosa sarebbe potuto accadere – c’è stata una reazione pronta che ha riportato la nave sulla giusta rotta.”

Ecco, questa, per chi non lo avesse colto, è una garbata forma di intimidazione, ed è esattamente ciò che si desidera diventi la filosofia – altrimenti poi non ci si lamenti se non verrà finanziata: un amplificatore colto di tesi ortodosse, con bollinatura governativa.

Insomma veniamo lasciati scegliere come morire, se per soffocamento, senza soldi, o per snaturamento, senza critica.

https://www.lafionda.org/2021/11/29/pragmatismo-tecnocratico-e-inattualita-della-filosofia/?fbclid=IwAR09qFyVyeUum9zB_zEj6-EqVF07slcd1jGdRAKL28GdfvnDr9dKl1EOfl8

 

Seguono alcuni dei commenti apparsi su facebook:

Roberto Buffagni

Tutto giustissimo. Mi permetto però un parziale dissenso, o meglio una nota di specificazione a margine, sulla frase “Ora, dovrebbe essere chiaro a chiunque sia aduso a riflettere sulla politica e sulla storia che per il potere (chiunque lo gestisca di volta in volta) un sapere relativo ai mezzi è prezioso, perché ti fornisce ulteriore potere; ma una riflessione aperta sui fini è invece esiziale, perché il potere la propria agenda di fini ce l’ha già e non desidera affatto che sia messa in discussione.” Questo è senz’altro vero se la discussione sui fini è “aperta”, democratica, e può concludere ad atti politici efficaci (a nessuno piace cedere il posto). E’ meno vero se si considera la formazione culturale della classe dirigente. Ogni classe dirigente ha certo bisogno di saperi tecnici, dalla competenza militare alla competenza amministrativa. Per conservare il potere e accrescerlo nel conflitto sia interno, sia esterno al proprio campo, nella incessante lotta per l’egemonia tra le potenze, è invece indispensabile che la classe dirigente, e in specie i decisori politici di ultima istanza, siano culturalmente formati anche, e vorrei dire soprattutto, alla riflessione sui fini; perché la riflessione sui fini importa la riflessione sull’uomo e sul mondo, e le discipline indispensabili sono proprio la filosofia e la storia: anche la psicologia, la teologia, l’antropologia, etc., ma le prime due sono affatto necessarie. Per comprendere che cos’è la geopolitica, per formarsi al pensiero strategico, ossia per mettersi in condizione di prendere le decisioni di ultima istanza, che vertono sempre sull’essenziale, è indispensabile conoscere, assimilare, fare proprie la riflessione storica e filosofica (il che non vuol dire esserne specialisti, ovviamente). Alcuni errori colossali commessi dalle dirigenze occidentali negli ultimi anni – es. vent’anni di guerra persa in partenza in Afghanistan, traslocare infinite manifatture dagli USA alla Cina, un nemico potenziale di pari grado, la scelta del vaccino come unica risposta alla crisi pandemica – penso siano da ascrivere proprio a un difetto di riflessione in merito ai fini nei decisori di ultima istanza, a una povertà culturale, a un accecamento ideologico, a una mancanza di flessibilità intellettuale, a una imbecillità intelligente che hanno effetti concreti e rovinosi proprio sul piano della Realpolitik: perché per fare politica realistica bisogna prestare attenzione alla realtà, e la realtà è infinitamente vasta, inesauribile, misteriosa, e difficilissimo anche solo iniziare a comprenderla. Niente è più arduo che vedere le cose come sono; e l’arte politica è la più difficile delle arti, perché i materiali che deve mettere in forma sono i più riottosi, complessi, viventi. il disprezzo per la riflessione sui fini, per farla corta, prepara le sconfitte.
Andrea Zhok

Roberto Buffagni Capisco ciò che dici, ma qui credo sia da specificare una cosa. Quello che tu dici riguarda un’ideale élite al potere, che di riflessioni sui fini ha bisogno per non commettere gravi errori. Ma l’élite al potere oggi ha un carattere assai modestamente ‘personale’. E’ braccio esecutivo sostituibile di un sistema capitalistico acefalo. Il capitalismo sa sempre dove vuole andare. Nella direzione che incrementa le prossime trimestrali. Che questo a lungo termine possa condurre ad una qualche grande distruzione è irrilevante, anzi: il capitalismo fiorisce nelle grandi distruzioni, da cui emerge più forte di prima (beh, sì, salvo se la distruzione è planetaria, ma questa è ancora eventualità remota).
Antonio Boncristiano

Andrea e Roberto, scusate se mi intrometto nella vostra gara di fioretto, ma avrei un paio di considerazioni supplementari. Posto che la nonna di Einstein è sempre in agguato useró un linguaggio meno aulico. Condivido le osservazioni di entrambi in quanto ragionate, cionondimeno trovo che mal si attagliano alla situazione oggettiva sui punti seguenti.
Primo, la pericolosità della filosofia, per il Potere non è tanto a causa del proprio ruolo sui fini o sulle domande assolute ma rispetto ai destinatari. Vi siete persi la lotta di classe. Essi non hanno paura delle critiche se provengono da una piccola sezione comunque controllabile della società, anzi Agamben, Cacciari o chi per loro (vedi anche il caso di Borghi, Bagnai e Barra Caracciolo nella Lega nel caso politico) sono contorno necessario all’immagine della libera democrazia partecipativa. Il problema viene fuori quando figli e nipoti di operai, contadini, piccoli impiegati, ovvero milioni di persone potenzialmente, prendono coscienza e capacità critica e, soprattutto, forza reattiva.
Secondo, così come esiste un politically correct, esiste un condizionamento nella classe intellettuale di oggi nell’esprimere le proprie tesi, pur controcorrente, che rifiuta a priori di valutare l’ipotesi della malafede di Essi. Si ricorre a stigmi di incapacità politica, di miopia culturale o quant’altro pur di non essere ascritti al becero complottismo delle classi incolte. Mi dispiace di deludervi, Essi sono molto più avanti delle vostre ipotesi, in filosofia si destreggiano abbondantemente come in qualsiasi altra materia. Il che comporta l’ammissione che i loro atti e gli effetti derivanti siano accuratamente pianificati esattamente per tali effetti. Che poi a dirlo sono loro stessi. Ridisegnare la mappa del pianeta sotto vari profili, economico, digitale, genetico, ambientale e via discorrendo. Lo hanno teorizzato Essi e non qualche invasato complottista. E stanno procedendo come schiacciasassi. Il che puó voler dire tutto meno che impreparazione o improvvisazione. Trovate il coraggio di dire che sono proprio cattivi. E che non si sono venduti l’anima al diavolo. Rispetto a Essi, satana è un poveraccio qualsiasi.
Andrea Zhok

Antonio Boncristiano Capisco e in parte condivido. Non dimentico affatto la questione della lotta di classe, che oggi si ripresenta in una nuova forma, molto più radicale e misconosciuta che mai, essendo contrasto tra chi dipende essenzialmente dal proprio lavoro per vivere e chi dipende da varie forme di rendita (o da “lavori” che operano con la rendita).
Quanto al ‘piano’, ho letto “The Fourth Industrial Revolution” di Schwab e ne sono rimasto impressionato. Quello è un piano, ridente, ottimista, utopico e totalmente inconsapevole di essere una distopia fatta e finita. Non escludo che una qualche proiezione di un piano simile sia davvero all’opera. Ma anche in tal caso, la categoria della ‘malvagità’ è povera e inefficace. E’ una concettualità tecnologica che si è trasformata in un’ideologia filosoficamente miserabile, ma perfettamente all’altezza dei tempi. (E per quel che conta, combattere una visione del genere è al centro di tutto quello che ho pensato e scritto da buoni vent’anni.)
Andrea Zhok

Roberto Buffagni Non decide tutto. Non decide, perché non è una persona. Spinge in una direzione. E chi va nella direzione della spinta ha un supplemento di forza che spesso, quasi sempre, è decisivo. In quel quasi sta lo spazio in cui si possono incuneare occasionalmente altre ragioni.
Roberto Buffagni

Andrea Zhok Su questo concordo, e del resto si vede a occhio nudo. Secondo me uno dei fattori principali di questa scarsa capacità di direzione occidentale risiede proprio nella distorsione culturale che, in affinità con la tecnostruttura e l’ideologia dominante, tende a a) privilegiare lo studio dei mezzi sullo studio dei fini b) sopravvalutare la potenza materiale rispetto ad altri fattori di potenza come la qualità delle persone e le idee c) privilegiare la logica lineare sulla logica strategica, che NON è lineare ma paradossale (v. “si vis pacem para bellum”) d) privilegiare una concezione astratta e universale dei profili antropologici sulla valutazione empatica delle alterità e delle motivazioni profonde, tanto del proprio popolo quanto, a maggior ragione, degli altri. Questi sono punti ciechi molto pericolosi, perché oscurano una porzione molto grande e importante della realtà, che è indispensabile tentar di comprendere per partecipare con successo al conflitto tra le potenze.
Andrea Zhok

Roberto Buffagni Naturalmente concordo. Io però dubito molto fortemente della capacità delle odierne classi dirigenti, incluse quelle dell’Impero Americano di cui siamo provincia, di governare alcunché. Che alcuni ci provino, ok, su questo non ho dubbi.
Roberto Buffagni

Andrea Zhok Non so. Non sono d’accordo, almeno non sono d’accordo per intero. Che il capitalismo esista e pensi alla trimestrale di cassa e influenzi fortemente le decisioni politiche, non ci piove. Il capitalismo c’è dappertutto, coincide con la società industriale della quale nessuna formazione politica può fare a meno, perché essa sviluppa la potenza, e se non ce l’hai vieni spazzato via da chi ce l’ha. Però il capitalismo non è un soggetto, e però esistono, invece, oltre al capitalismo, anche gli imperi e gli Stati. Gli imperi, es. l’impero americano, non si fanno per fare profitti: si fanno per la gloria, per la primazia (poi spesso originano da un moto difensivo, vedi Roma alle origini circondata dalle altre piccole polis laziali, ma questo è un altro discorso). Negli Stati Uniti e in UK, ad esempio, c’è un fitto dibattito culturale in merito all’ordine dei fini, e proprio nell’ambiente che ospita e cresce le élites politiche al massimo livello. Negli USA è un dibattito poco invitante e spesso distorto perché la violenza dello scontro culturale è al livello “ti stermino la famiglia”, ma c’è eccome, con ricadute pratiche contraddittorie clamorose, vedi ad es. le preparatory schools più celebri e antiche che reintroducono nel curriculum obbligatorio il latino e a volte anche il greco, e le università della Ivy League in preda alla dinamica autodistruttiva del politically correct. Nell’ultimo discorso del presidente cinese, egli individua con precisione gli aspetti politicamente e culturalmente dannosi e pericolosi del capitalismo (disgregazione della personalità individuale e dell’armonia comunitaria) e vara una campagna pedagogica di massa. Analoga linea segue il presidente russo, istituendo il cristianesimo ortodosso come religione imperiale, promuovendo gli studi storici, difendendo la famiglia, etc. Insomma per farla corta e facile io al capitalismo che decide tutto non ci credo.
Roberto Buffagni

Andrea Zhok Certo. Ma il supplemento di forza che ti sospinge verso la vittoria ti può anche sospingere verso la sconfitta, appunto perché è forza cieca, “sistemica”. La potenza va governata, e non è per nulla facile governarla.
Roberto Buffagni

Andrea Zhok Il problema di fondo, spirituale, è che la potenza acceca, v. hybris greca, v. il racconto della Genesi, che mette a fuoco la linea di faglia essenziale della natura umana, il desiderio di essere “sicut dii”. Il controllo della potenza è la cosa più difficile del mondo, per chi ne dispone.
Giuseppe Germinario

Concordo con la riflessione con una noterella. L’impronta denunciata da Zhok è molto più evidente e incisiva nei paesi periferici e più subordinati. In Russia, in Cina, negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e Francia, paesi dal passato e presente imperiale e di resistenti, l’aspetto filosofico, umanistico e strategico viene curato; in alcuni in maniera più diffusa (Francia), in altri più riservati alle élites. Un aspetto che dovrebbe far riflettere sul ruolo politico degli intellettuali più orientati verso il realismo politico, di qualsiasi estrazione essi siano
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