Repubblicanesimo Geopolitico. 3a parte Alcune Delucidazioni Preliminari Di Massimo Morigi

Se però l’analisi del potere di Hannah Arendt risulta essere assolutamente realistica (il potere non è il male ma è la benzina della società), la filosofa politica ebrea tedesca naturalizzata statunitense non fu altrettanto puntuale nell’analizzare le problematiche del potere relative alla moderne democrazie rappresentative, in quanto il suo punto di riferimento della polis greca se assolutamente illuminante per quanto riguarda l’analisi fenomenologica del potere, non è assolutamente proponibile come modello per le moderne società industriali (e la Arendt ne era assolutamente consapevole) e la sua mitizzazione della rivoluzione americana – con l’idea di una riproposizione come futuro soggetto politico, mutatis mutantis, delle piccole comunità americane di origine che erano state alla base della voglia di libertà e laboratorio politico della rivoluzione e delle prime forme di democrazia del nuovo continente –, se ancora fondamentale per capire le dinamiche dominio-potere-libertà risulta ancora una volta improponibile come reale modello alternativo alla democrazia rappresentativa. Arrivo quindi rapidamente alla conclusione intorno alla domanda di cosa sia il Repubblicanesimo Geopolitico. Il Repubblicanesimo Geopolitico intende riempire questa lacuna nella consapevolezza molto elementare ma fondamentale che la partita della libertà non si gioca né in astratti enunciati (libertà come non interferenza di matrice liberale o libertà come non dominio del (neo)repubblicanesimo) ma nei concreti rapporti di forza (e quindi nei concreti spazi di libertà) che si sviluppano all’interno della società. Con questa enfasi sui rapporti di forza fra le classi, sembrerebbe però essere dalle parti di una riedizione del
marxismo vecchia maniera. Errore e per due semplici motivi. Primo perché nel Repubblicanesimo Geopolitico l’accento è messo sul potere come energia generatrice di libertà mentre il marximo classico vuole una società dove i rapporti di forza siano estinti (fine della storia, estinzione dello stato). Secondo perché se per il marximo l’agente generatore di una società più libera è il proletariato, per il Repubblicanesimo Geopolitico l’agente per una maggiore libertà sono proprio quelle forze ed energie (quindi anche il proletariato ma pure le forze che vi si contrappongono) che scontrandosi originano una dialettica del potere che è alla base per un concreto e non astratto ampliamento della sfera della libertà (sottolineo che questa della conflittualità come origine della libertà e/o della forza di una comunità politica non è certo molto originale discendendo direttamente da Machiavelli e dalla sua spiegazione della forza militare degli antichi romani, la quale, secondo il Segretario fiorentino, discendeva direttamente dalla lotta fra patrizi e plebei che trovava una sua valvola di sfogo nella espansione territoriale di Roma). E queste forze ed energie per il Repubblicanesimo Geopolitico possono trovare la loro piena espressione solo a condizione che il quadro geopolitico in cui questa comunità vive la sua esperienza storica sia favorevole a che questa comunità possa irrobustire la sua identità e, di conseguenza, progettare e lottare per sempre maggiori spazi di libertà. Dove Mazzini parlava di una missione dell’Italia una volta che fosse stata riunificata geograficamente e spiritualmente, sarebbe assai singolare non vedere in queste parole la consapevolezza che una nazione non può vivere – e quindi essere libera – senza che abbia un’idea della sua collocazione fra le altre comunità politiche del mondo, senza che possa disporre di un suo Lebensraum, non solo geografico e materiale ma anche culturale e spirituale (quello di Lebensraum, cioè spazio vitale, è un concetto che venne coniato da Friedrich Ratzel e sviluppato dalla geopolitica tedesca e per questo ha subito una sorta di damnatio memoriae. Ora il fatto che il nazismo abbia sviluppato una sua
versione criminale del Lebensraum non significa che questo concetto non sia fondamentale per la geopolitica e quindi per il Repubblicanesimo Geopolitico, tanto che il Repubblicanesimo Geopolitico potrebbe anche essere chiamato Lebensraum repubblicanesimo se non fosse per il fatto che il concetto di Lebensraum è ancor oggi appaiato all’imperialismo guglielmino e al male assoluto del nazismo e – per ironia della storia, se pur rifiutato dalle accademie politologiche e filosofico-politiche del secondo dopoguerra – impiegato come strumento di analisi fondamentale per dirigere l’azione geopolitica delle potenze vincitrici del secondo conflitto mondiale. Il Repubblicanesimo Geopolitico, invece, intende impiegarlo per i suoi scopi di libertà). Quando Mazzini criticava Marx questo non avveniva per una sorta di cecità nei confronti delle condizioni della classe operaia ma avveniva nella consapevolezza che la dinamica dello scontro delle classi sociali – e quindi della libertà – non poteva essere compressa nelle formulette che si riassumevano nella credenza parareligiosa della classe operaia come “classe intermodale” e quindi come unico agente per la trasformazione rivoluzionaria della società. Mazzini fu sempre accusato di misticismo. In realtà non era affatto un mistico ma, piuttosto, un dialettico che era consapevole che la partita della libertà poteva essere vinta solo con una generale crescita culturale (e quindi politica) di tutta la società. Quando Mazzini preconizzava l’edificazione per la sua nuova Italia di “scuole, scuole, scuole”, non designava per sé il ruolo di futuro ministro della pubblica istruzione ma era semplicemente consapevole che la libertà italiana doveva passare attraverso l’innalzamento culturale del popolo. Oggi questa dimensione culturale è entrata a pieno vigore nel lessico della geopolitica e si chiama noopolitik, quella noopolitik che presa molto sul serio dal Celeste Impero, rischia di qui a pochi anni, assieme ai suoi fattori di eccellenza economica, di rendere la Cina la prima superpotenza a dispetto degli standard terribilmente mediocri, almeno se comparati a quelli delle cosiddette
democrazie rappresentative occidentali, nel campo dei diritti politici. Ora, senza voler ripercorrere tutti quegli autori e personaggi storici in cui il momento geopolitico fu fondamentale (Garibaldi fu un geopolitico “pratico”, il nazionalismo italiano ebbe una sua versione di destra tipicamente autoritaria mentre la matrice democratica del nazionalismo è impensabile senza considerare il Maestro di Genova, l’interventismo democratico era mazzinianamente animato da una profonda, anche se rudimentale, consapevolezza repubblicana e geopolitica che la libertà del nuovo Stato – e quindi dei suoi cittadini – non era al sicuro senza la demolizione degli Imperi centrali, l’impresa fiumana ben lungi dall’essere stata uno stolto rigurgito del peggior nazionalismo come da certa stereotipata storiografia, diede voce – ed azione – alla consapevolezza geopolitica di matrice mazziniana diffusa fra gli strati più umili della popolazione – ma non per questo non certo politicamente meno avvertiti –, che l’astratto wilsonismo era un attentato non solo contro la potenza di una nazione, l’Italia, che aveva vinto la guerra ma anche contro la sua libertà nel consesso delle nazioni e, quindi, al suo interno, anche contro il suo sviluppo in una società sempre più libera. E quanto fossero avanzate le concezioni politiche e sociali dei “fiumani” guidati da D’Annunzio, volentieri si rimanda alla misconosciuta Carta del Carnaro), la tragedia dell’Italia attuale è che la sconfitta nel secondo conflitto mondiale, assieme alla giusta ridicolizzazione del fascismo, trascinò nel disastro anche quel Repubblicanesimo Geopolitico che era stato una delle componenti fondamenti del suo Risorgimento e della sua riunificazione e che aveva ben compreso che la libertà non poteva essere scissa dalla sua componente spaziale-geografica (2). Rimane da rispondere al quesito posto da Roberto Stefanini sulla rappresentazione della situazione che si fa il Repubblicanesimo Geopolitico. Se per rappresentazione della situazione s’intende il quadro delle relazioni internazionali, il Repubblicanesimo Geopolitico sente una profonda affinità, e prende robusti spunti oltre che dai già
citati padri della geopolitica, dalla dottrina delle relazioni internazionali che oggigiorno va sotto il nome di costruttivismo e che ha per caposcuola Alexander Wendt. Famoso il titolo del saggio di Alexander Wendt Anarchy is What States make of it, e cioè che l’anarchia del sistema internazionale non è una meccanica legge di natura ma dipende dalle scelte, a loro volta influenzate dalla storia e dalla cultura, che le singole nazioni compiono di volta in volta. Il costruttivismo, insomma, sottolinea l’importanza dei cosiddetti dati “sovrastrutturali” e volitivi nel determinare la dinamica del sistema internazionale. Da questo punto di vista, il Repubblicanesimo Geopolitico è completamente d’accordo col costruttivismo ma con una piccola rivendicazione, non per sé stesso – ci mancherebbe – ma per chi prima ancora del costruttivismo e con feroce volontà attuativa pensò in questi termini: il solito Giuseppe Mazzini. Se per rappresentazione della situazione si intende, invece, il giudizio sullo stato di salute della democrazia in Italia e nelle altre cosiddette democrazie rappresentative, il giudizio è già stato espresso in altri interventi sul “Corriere della Collera” ma, in estrema sintesi, si riassume nella conclusione che quello che i media – ed anche un pensiero politico asservito a necessità che con la ricerca della verità e dell’espansione della libertà hanno poco a che spartire – oggi chiamano democrazia non è altro che un regime ove le oligarchie finanziarie sostengono e foraggiano un teatrino dove ancora si consente di scegliere attraverso formalmente libere elezioni la rappresentanza politica ma in cui questa rappresentanza politica è totalmente irresponsabile rispetto al suo elettorato ed è spogliata, de facto, di qualsiasi potere decisionale (questo teatrino del potere e della falsa libertà politica è comune a tutte le cosiddette democrazie rappresentative occidentali. Proseguendo con l’immagine, possiamo dire che, allo stato attuale, la democrazia è una recita fatta dai politici su un palco gentilmente fornito dalle oligarchie finanziarie. In Italia poi, per non farci mancare niente, gli attori sono pure degli scadenti
guitti). Questo giudizio, peraltro, non è proprio un’esclusività del Repubblicanesimo Geopolitico ma è condiviso anche dalla parte meno corrotta dell’attuale mainstream della scienza politica (Colin Crouch, Robert Dahl tanto per citare qualche autore). Al contrario però di coloro che vedono la postdemocrazia e/o la poliarchia come un destino inevitabile per le democrazie rappresentative occidentali, il Repubblicanesimo Geopolitico non si rassegna all’avvizzimento della democrazia per il semplice motivo che se gli uomini per pigrizia possono essere sordi sulla loro libertà, la storia è un’ottima sveglia e che, se inascoltata, può portare a traumatici e tragici risvegli. È la storia del nostro paese che è tutto un susseguirsi di momenti alti e di altri di tragica miseria. È persino inutile dire in quale momento il Repubblicanesimo Geopolitico ambisca a collocarsi. Sembrerebbe, è vero, una missione impossibile, per non dire connotata da un’assoluta ed insopportabile hubris. Se il Repubblicanesimo Geopolitico fosse una semplice nuova elaborazione di scuola sui temi (neo)repubblicani ciò sarebbe assolutamente vero. Ma ovviamente la pretesa – o meglio la speranza – del Repubblicanesimo Geopolitico non è di essere la solita accademica variazione sul tema (neo)repubblicano ma modestamente, anche se con molto orgoglio, è di non essere altro che l’ennesima espressione di quel moto profondo che nasce dal cuore della nostra storia e civiltà e che si riassume nella ricerca di una sempre maggiore espansione della libertà. Ora e sempre.
Ravenna-Coimbra, 26 novembre 2013

NOTE
(1) In questa risposta [sul “Corriere della Collera”] sul Repubblicanesimo Geopolitico ho originariamente omesso qualsiasi citazione dei vari Nozik, Friedrich von Hayek, Dworkin
e Rothbard come autori di riferimento in merito al canone liberale. La ragione è molto semplice. Tutti questi autori, chi più da “sinistra” chi più da “destra”, ci restituiscono un’immagine talmente caricaturale del liberalismo – e talmente priva di qualsiasi riferimento alla nozione di “conflitto strategico” (concetto coniato da Gianfranco La Grassa nell’ambito del suo fondamentale rinnovamento del marxismo e dell’interpretazione del filosofo di Treviri ma il cui campo semantico rimanda direttamente a Machiavelli) – che da parte di un pensiero, come il Repubblicanesimo Geopolitico, che intende seriamente e radicalmente superare il pensiero liberale è consigliabile, almeno in sede divulgativa come può essere quella di un blog, piuttosto che lasciarsi andare a facili, scontate – seppur giustificate – ironie, lasciar perdere ed ignorarli del tutto. Insomma, i lettori dei blog politici (o, meglio, tutti coloro che vogliono costruirsi una vera cultura politica e comprendere quindi anche la grandezza, seppur da superare, del liberalismo) se vogliono “perdere” tempo, affrontino Tucidide, Machiavelli, Hobbes, Adam Smith, Ricardo, Carl von Clausewitz, Hegel, Marx, Mazzini, Mosca, Pareto, Benjamin Constant, Alexis de Tocqueville, Carl Schmitt, Sorel, Lenin, Antonio Gramsci, Hannah Arendt, Friedrich List, Schumpeter, John Maynard Keynes, per finire con i padri della geopolitica Alfred Thayer Mahan, Halford John Mackinder e Friedrich Ratzel piuttosto che i moderni pedestri, feticistici ed irrealistici propagandisti nominati sopra di un liberalismo visto come una sorta di sistema eterno, immutabile e al di sopra della storia (e di un individuo come una sorta di onnipotente Robinson sociale), servi sciocchi di quegli agenti strategici, che coperti dalle enunciazioni ideologiche (un tempo socialiste e liberali oggi solo liberali) ad usum della manipolazione del consenso hanno inteso le varie organizzazioni socioeconomiche in cui venivano ad operare (socialiste e liberaldemocratiche e oggi solo liberaldemocratiche) come il campo di battaglia sul quale scontrarsi per ottenere la supremazia. Agenti strategici che,
insomma, da veri propri leviatani hobbessiani hanno fatto sempre un sol boccone, strumentalizzandoli e trattandoli come carne da cannone, dei vari Robison sociali del liberalismo e dei vari Stakanov del socialismo reale. È inutile aggiungere che il Repubblicanesimo Geopolitico sia dal punta di vista conoscitivo che da quello politico è unicamente inteso a far uscire dal loro “stato di minorità” questi illusi Robinson liberali e i tuttora persistenti – e perdenti – cultori del fu Stakanov del defunto socialismo reale.
(2) Fondamentale per comprendere sul piano teorico questa dialettica spazio/libertà, Democratic Ideals and Reality. A Study in the Politics of Reconstruction, London, 1919 di Halford Mackinder, il fondatore accanto a Thayer Mahan della geopolitica, e al quale si deve la comprensione che la democrazia è nata e si sviluppata grazie all’insularità della Gran Bretagna e che quindi il wilsonismo – oggi si direbbe l’esportazione della democrazia – era un assoluto non senso,

Repubblicanesimo Geopolitico. 2a parte Alcune Delucidazioni Preliminari Di Massimo Morigi

Repubblicanesimo Geopolitico. 2a parte  Alcune Delucidazioni Preliminari Di Massimo Morigi

Rispondo molto volentieri, ringraziandolo per l’interesse mostrato, alle assai opportune domande di Roberto Stefanini sul Repubblicanesimo Geopolitico e ringrazio pure “Il Corriere della Collera” per dare spazio ed ospitalità alle seguenti opinioni ed analisi, ovviamente ascrivibili unicamente allo scrivente e non interpretabili come una sorta di sua linea editoriale ma che si ha fiducia che, almeno nello spirito, possano essere condivise dal blog e dai suoi cortesi ed attenti lettori. Senza scendere troppo nel dettaglio sugli autori e le fonti, attualmente, in contrapposizione ad una visione liberale della democrazia, che intravvede la libertà come non interferenza (e cioè che si sarebbe tanto più liberi quanto più la legge positiva non vieta di fare questo o quello), si contrappone, fra le altre, una corrente di pensiero che viene definita repubblicana o neorepubblicana (fra le altre, perché il repubblicanesimo o neorepubblicanesimo, nell’ambito delle dottrine che ambiscono a sostituire il liberalismo come ideologia guida, non è l’unica possibilità messa in campo dalla filosofia politica: abbiamo, per esempio, il pensiero comunitario (1) – cfr. Michael Sandel, Alasdair MacIntyre –, che indica come soluzione al deficit democratico un maggiore legame dell’individuo con la sua comunità di riferimento e che, da alcuni, per la sua critica alla versione liberaldemocratica della democrazia, viene avvicinato al repubblicanesimo, per non parlare dei vari marxismi più o meno neo che siano). Ora il (neo)repubblicanesimo, in contrapposizione ad una interpretazione liberale della libertà intesa come non interferenza, avanza un’idea della libertà intesa come non dominio (cfr., in particolare, Philip Pettit e Quentin Skinner), e cioè si è veramente liberi non solo quando la legge positiva interferisce il meno possibile con le scelte dell’individuo ma anche – e soprattutto – quando il contesto politico ed economico della società non consente che fra individuo ed individuo s’instaurino relazioni di dominio. L’esempio classico per illustrare la situazione di dominio è il rapporto servo/padrone di Hegel, dove il servo è sì legalmente libero di prendere decisioni in contrasto col suo padrone ma dove questo comportamento è, de facto, reso impossibile dalla disparità di forze fra questi due attori (per Hegel il rapporto servo/padrone aveva poi una sua evoluzione sempre più indispensabile al padrone, alla fine “padroneggiava” il padrone stesso; il (neo)repubblicanesimo meno dialettico e più “politically correct” vorrebbe, non si sa bene come, l’abolizione, ex abrupto – e bypassando del tutto la dinamica sociale delle scontro fra classi e della nascita da questa dialettica di nuove ed inedite classi – di questo rapporto). Quindi fra servo e padrone si instaura un rapporto di dominio e, giustamente secondo il (neo)repubblicanesimo, questo rapporto è una metafora di quanto avviene oggi nelle nostre moderne società rette politicamente da varie forme di democrazia rappresentativa. Per il (neo)repubblicanesimo è necessario, allora, per la costruzione di una società più democratica, affiancare alla non interferenza di matrice liberale anche una visione della libertà intesa come non dominio, una situazione quindi dove il comportamento del servo non sia condizionato dal maggior potere del padrone. Da ciò emerge un (neo)repubblicanesimo totalmente condivisibile a livello di etica pubblica ma, però, totalmente embrionale e a livello di elaborazione teorica e a livello di proposte di politiche pubbliche. Veniamo prima alle politiche pubbliche avanzate dal (neo)repubblicanesimo. Per quanto riguarda questo aspetto del (neo)repubblicanesimo, ci troviamo di fronte alla assoluta fumosità dei suggerimenti, fumosità il cui autentico “crampo del pensiero” è rappresentato dal fatto che l’analisi dei problemi politico-istituzionali delle società liberaldemocratiche non è mai affiancata ad una analisi delle classi socio-economiche che in queste società operano, dimodoché il (neo)repubblicanesimo stenta moltissimo ad individuare i reali rapporti di forza e/o di potere che operano all’interno di queste società, una dimenticanza di non piccolo momento per una dottrina che vorrebbe instaurare rapporti di non dominio all’interno delle democrazie rappresentative. Se questo è un problema del (neo)repubblicanesimo per quanta riguarda le politiche pubbliche (un problema che, comunque, potrebbe apparentemente essere risolto nella prassi con versioni più a “sinistra” e più redistributive della dottrina), è a livello teorico che troviamo il grande problema del (neo)repubblicanesimo, grande problema che sta proprio nella visione della libertà come non dominio, una visione, cioè, dove il potere (dominio) è visto come una cosa in sé cattiva e da contrastare il più possibile, una specie di pulsione da reprimere e da cacciare il più possibile nell’inconscio della vita politica, mentre il problema del potere non è tanto quello di rimuoverlo o di esorcizzarlo come una specie di peccato originale (una società ispirata al principio del non dominio altro non è che la realizzazione di questa rimozione) ma bensì un suo incremento e sempre maggiore condivisione di quote crescenti dello stesso fra tutti i membri della società. Se quindi la bandiera del (neo)repubblicanesimo è il non dominio, il Repubblicanesimo Geopolitico esprimendosi in termini simmetricamente contrari parla di dominio diffuso e/o diffusivo come condizione indispensabile per lo sviluppo della libertà. Per esprimersi ancora con maggior sintesi e ad uso di un facile promemoria: l’obiettivo del Repubblicanesimo Geopolitico è il Dominio Repubblicano Diffusivo, in inglese Republican Diffusive Domination (RDD se si preferisce l’impiego dell’acronimo o la Republican Increased Common Domination, RICD, Aumentato dominio comune repubblicano, usando un’altra locuzione semanticamente equivalente ed il suo rispettivo acronimo). Questa analisi sul potere come cosa in sé tutt’altro che malvagia, non proviene da autori autoritari, antidemocratici e/o fascisti ma discende direttamente dal pensiero di Hannah Arendt, per la quale, appunto, il potere non andava esorcizzato ma era lo strumento principale attraverso il quale sia la comunità politica che il singolo individuo potevano tendere alla realizzazione di una Vita Activa, quella Vita Activa la cui entelechia era la realizzazione di una immortale gloria terrena attraverso l’incremento della libertà/potere di ogni singolo individuo che, proprio in virtù di questa sua sempre più espansiva ed accresciuta capacità esistenziale, avrebbe potuto aspirare per sé e per la sua comunità ad obiettivi di tale esemplarità e bellezza da risultare immortali (tali da “vincere di mille secoli il silenzio”, cfr. in La guerra del Peloponneso di Tucidide il discorso funebre di Pericle agli Ateniesi).

REPUBBLICANESIMO GEO-POLITICO, di Massimo Morigi 1a parte

Italia e il mondo pubblicherà una serie di riflessioni e commenti di Massimo Morigi, già apparsi nel 2013, riguardanti la sua particolare interpretazione del “conflitto strategico” tra agenti inteso come peculiare modalità di articolazione della azione politica. L’ambizione è quella di metterla a confronto con analoghe chiavi di lettura dell’azione politica come quella offerta dal professor Gianfranco La Grassa

1a parte ALLA RICERCA DELL’IDENTITÀ ITALIANA

Come in nessun’altra democrazia rappresentativa occidentale, l’Italia, con la sua involuzione verso il dominio delle oligarchie finanziarie, si presta alla più perfetta dimostrazione della “legge ferrea dell’oligarchia” di Robert Michels: se sul piano dell’enunciazione ideologica le élite al potere e i partiti politici dichiarano piena adesione alla democrazia, de facto, costantemente operano per una sempre maggiore restrizione degli spazi di libertà.
Michels vedeva nel parlamento il luogo dove avvenivano queste illiberali transazioni fra partiti e lobby, oggi aggiornando il suo pensiero c’è da osservare che il parlamento è sempre più surclassato come luogo di compensazione fra questi poteri dalla tecnoburocrazia transnazionale collusa con la grande finanza, una tecnoburocrazia che a differenza del partito michelsiano non è nemmeno formalmente responsabile verso il suo elettorato.
Se questo è “lo stato delle cose” è quindi di tutta evidenza che rivolte di piazza non possono che subire “manu militari” una facile repressione, vista la sproporzione delle forze in campo.
E allora quale via d’uscita? La risposta è che se le attuali pseudo-democrazie rappresentative sono immensamente più forti ed imbattibili come forza militare che possono dispiegare sul campo degli ancien régime spazzati via dalla rivoluzione francese (o dell’autocratico regime zarista o, per rimanere in Italia, dell’Italia liberale che non seppe superare la terribile prova del primo dopoguerra), non possono __________
*(Col presente documento si immettono in rete in gli articoli e gli interventi di Massimo Morigi sul repubblicanesimo geopolitico – o repubblicanesimo geostrategico o repubblicanesimo strategico, animati dalla ricerca teorica sui concetti di Lebensraum republicanism e di conflitto repubblicano strategico – e sulle attuali questioni geopolitiche apparsi fino al 3 marzo 2014 sul blog “Il Corriere della Collera”. Sono pure pubblicati alcuni dei commenti del blog a questi articoli ed interventi. Preme per ultimo sottolineare che, per quanto sviluppatosi del tutto autonomamente e con una sua specificità dialettica, il repubblicanesimo geo-politico condivide una profonda affinità colla scuola neomarxista di Gianfranco La Grassa e sul suo euristicamente denso concetto di conflitto strategico. Ravenna-Coimbra, marzo 2014).
nemmeno rinunciare, vista la loro natura poliarchica, a mantenere aperti quegli spazi di libertà di espressione che, se possono risultare molto fastidiosi, costituiscono anche il terreno di manovra sui cui si possono scontrare i vari gruppi di potere (e a dimostrazione di quanto questi spazi di “libera circolazione” siano intesi dai gruppi di potere in maniera strumentale, si considerino in tentativi messi in atto in ogni liberaldemocrazia per comprimere la libertà di espressione dando invece libero sfogo alla anarchica libera circolazione delle merci e dei capitali).
Siamo quindi di fronte ad un problema di “egemonia”, una egemonia come direbbe Gramsci che, invece di lanciare fantomatici e ridicoli appelli per una conquista del Palazzo d’inverno, deve preoccuparsi di conquistare a sé sempre più vasti strati della popolazione, attualmente indifferente o addormentata dall’oppio neoliberale.
Dal punto di vista dell’elaborazione teorica questo è il programma del repubblicanesimo geopolitico. Per quanto riguarda gli strumenti per diffondere una vera consapevolezza democratica, unico in campo nazionale – per non dire internazionale – è il blog, il “Corriere della Collera”, che cortesemente ospita questo ed altri interventi animati tutti dalla medesima consapevolezza della crisi epocale che le democrazie rappresentative stanno attraversando.
Visti gli strumenti materiali messi in campo, sembrerebbe che la sfida per superare il vecchio canone neoliberale sia disperata.
Non dimentichiamo però che l’Italia è sorta su scommesse che parevano già perse in partenza e che i protagonisti di queste scommesse azzardate furono uomini (primo fra tutti Mazzini) che ben lungi dall’essere metafisici sognatori capivano che il dato fondamentale di ogni azione sono le rappresentazioni che gli uomini si fanno della situazione.
Oggi questa impostazione la si chiamerebbe costruttivista. Quello che importa non è tuttavia il nome ma la consapevolezza che è dalla tradizione dell’azione e del pensiero politico italiani che non solo le più profonde correnti del pensiero politico internazionale trovano le sue radici ma che, soprattutto, possiamo trarre forza ed ispirazione per contrastare le forze delle oligarchie.
————-

Una chiosa di Massimo Morigi a “NATURA MORTA”

Nella “Natura morta (Prima parte)” di Giuseppe Germinario assieme alla esemplare definizione – se mai ce ne fosse ancora bisogno – della natura di parvenu della politica dell’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi e alla descrizione dello spappolamento dello scenario politico italiano che ha consentito che un tal personaggio, unicamente dotato di prontezza ferina di riflessi ma senza alcun spessore umano e politico, abbia potuto arrivare così lontano, emerge anche un dato di fondo che consente anche riflessioni sulla attuale involuzione dei sistemi politici retti dalle cosiddette democrazie rappresentative. E questo dato di fondo è che non solo in Italia, ma in tutti i paesi del perimetro di queste democrazie, quello che è sempre più solarmente evidente – e si cerca di nascondere con tutti i mezzi della propaganda per le masse e della dottrina politica per le classi meno indòtte della popolazione – é che il concetto di politica visto come rappresentanza/rappresentazione dei vari strati e diversificati strati della popolazione non sta letteralmente più in piedi. Non sta in piedi in primo luogo perché si è visto bene che le democrazie non riescono de facto a dare rappresentanza/rappresentazione armonica della società ma solo di coloro che in virtù della loro posizione privilegiata potrebbero benissimo fare a meno di delegare un ceto politico per avere una rappresentanza/rappresentazione parlamentare-teatrale dei loro desiderata e se lo fanno lo fanno solo perché così la realtà vera dei rapporti di forza viene meglio mascherata e, in secondo luogo, non sta nemmeno in piedi dal punto di vista scientifico perché ormai dopo un più che secolare rimbambimento ingenerato dalla scienza politica liberal-liberista dovrebbe, anche al più stolto cultore di scienze politiche e/o filosofico-politiche, risultare del tutto evidente che la politica non è rappresentanza/rappresentazione di qualcos’altro ma non è altro che un episodio del morfogenetico conflitto espressivo della società. Che poi la politica dei paesi nel perimetro liberaldemocratico possa assumere la Gestalt della rappresentanza/rappresentazione politico-teatrale, non contraddice la natura intimamente conflittuale della politica ma non è altro che una sua “astuzia” per coprire questa natura e rendere perciò lo scontro ancora più efficace. Frank Ankersmit con il suo “Political Represention” è il massimo esponente di questa farlocca visione teatrale della politica e Matteo Renzi, pur probabilmente non conoscendone nemmeno l’esistenza, è con la sua postmoderna “narrazione”, senza possibilità di smentita, il massimo interprete della dottrina di questo professore olandese. Ma ciò, come ben sappiamo, non è il problema: il problema non è cioè Renzi ma una politica in Italia e all’estero e, ugualmente, le relative conoscenze teoriche sulla stessa, che sono tutte da rifondare buttando a mare il concetto che la politica sia una specie di rappresentazione di marionette (in effetti, sotto un certo punto di vista lo è, lo è, cioè, per coloro che credono nella visione teatrale della politica), dove quello che conta, in ultima istanza, sono le leggi eterne dell’economia, indiscusse ed indiscutibili (e, in effetti, l’economia riveste un grandissimo ruolo ma non perché questa sia l’espressione di leggi eterne ma perché l’economia non è altro che un episodio, come la politica del resto, dello scontro all’interno fra le classi egemoni e di queste classi egemoni contro le classi sottomesse). Nell’articolo di Germinario viene riferito di un Orlando in cerca anche di nuove categorie di pensiero. Se sia coloro che rimangono dentro il PD in posizione falsamente critica che coloro che ne escono cercheranno, come è sicuro, con un tardo e poco creativo ricalco della visione Ankersmitiana rappresentativo-parlamentar-teatrale, queste categorie in un stupido ed irriflessivo rifiuto delle “narrazioni” renziane (rifiutino, cioè, il postmodernismo narrativo di Renzi per un “sano” ritorno alle vecchie retoriche della sinistra), costoro avrebbero potuto darsi anche meno pena. Se, come invece di tutta evidenza, il loro scopo è stato quello di meglio rappresentare il loro guicciardiniano “particolare” (ottenere una parte più o meno da comprimari nel futuro parlamento-teatro), lo sforzo sarà valso lo sputtanamento di aver combattuto il segretario del partito senza alcun apparentemente valido motivo di fondo. E a questo punto dobbiamo veramente rivalutare Ankersmit e le sue (apparentemente ma anche realmente) svianti elucubrazioni teatrali.
Massimo Morigi – 27 febbraio 2017

WALTER BENJAMIN, IPERDECISIONISMO E REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO: LO STATO DI ECCEZIONE IN CUI VIVIAMO È LA REGOLA*, di Massimo Morigi

Angelus Novus di Paul Klee

WALTER   BENJAMIN,     IPERDECISIONISMO   E REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO: LO STATO DI ECCEZIONE IN CUI VIVIAMO È  LA  REGOLA*

 C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che gli non può chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta.

Walter Benjamin, Tesi di filosofia della storia (IX tesi)

 L’Angelus Novus di Paul Klee, che divenne il messianico protagonista della  IX tesi   di Tesi di filosofia della storia, era stato acquistato nel 1921 da Walter Benjamin e da allora lo accompagnò quasi sempre nelle sue peregrinazioni in Europa. Forse in un nessun altro luogo della produzione benjaminiana come nella tesi IX è espresso il disprezzo benjaminiano per l’ideologia del progresso,  un progresso che secondo l’ingenua mentalità positivistica – esemplata poi anche dal totalitaristico diamattino marxismo orientale e dall’ingenua visione  della stragrande maggioranza dei  dirigenti e dei militanti di base otto-novecenteschi dei movimenti rivoluzionari  – si doveva sviluppare all’infinito e lungo un vettore assolutamente lineare. Del tutto realisticamente Benjamin rifiutava questa ottimistica e consolatoria visione ma, apparentemente del tutto irrealisticamente, per Benjamin quello che il futuro negava e non ci poteva garantire era riservato al passato: per Benjamin la rivoluzione doveva, in primo luogo, compiere un’azione di salvezza verso tutti coloro che dai dominatori della storia erano stati sottomessi ed eliminati sia a livello individuale che come gruppi sociali e/o etnici.  Apparentemente,  dal punto di vista personale ed anche dell’elaborazione dottrinale del repubblicanesimo geopolitico,  nulla ci potrebbe di essere più distante – fatta eccezione per il  rifiuto dell’ideologia del progresso – dal messianismo rivolto al passato  dalla IX tesi  e  dalla  struggente immagine  dell’Angelus Novus  Benjaminiano,  nulla ci potrebbe di essere più distante  dal messianismo rivolto al passato  dalla IX tesi e dalla straziante immagine dell’Angelus Novus Benjaminiano che passivamente trasportato dal vento che gli spira fra le ali ha “il viso rivolto verso il passato” ma la grandissima attualità di Benjamin insiste sul fatto che in quest’autore convivono due aspetti che a prima vista sembrano assolutamente antitetici. Del misticismo soteriologico rivolto a resuscitare gli sconfitti abbiamo già accennato, vediamo ora di focalizzarci sul suo realismo politico. Scrive Benjamin nella VIII tesi di Tesi di filosofia della storia:

La tradizione degli oppressi ci insegna che lo ‘stato di eccezione’ in cui viviamo è la regola. Dobbiamo giungere a un concetto di storia che corrisponda a questo fatto. Avremo allora di fronte, come nostro compito, la creazione del vero stato di eccezione; e ciò migliorerà la nostra posizione nella lotta contro il fascismo. La sua fortuna consiste, non da ultimo, in ciò che i suoi avversari lo combattono in nome del progresso come di una legge storica. Lo stupore perché le cose che viviamo sono ‘ancora’ possibili nel ventesimo secolo è tutt’altro che filosofico. Non è all’inizio di nessuna conoscenza, se non di quella che l’idea di storia da cui proviene non sta più in piedi.

Cogliamo qui un Benjamin iperdecisionista ben oltre il decisionismo di Carl Schmitt, un iperdecisionismo benjaminano che aveva ben capito, sempre oltre Schmitt, che la decisione non era tanto quell’elemento che stava fuori dalla norma pur costituendone la base logica ma, molto più semplicemente (e fondamentale) era (ed è) sempre stata l’unica elementare norma di comportamento (e giudizio) degli agenti strategici, di quelle classi, cioè, dominanti che da sempre fanno la storia. E concordando a questo punto interamente con Benjamin, il repubblicanesimo geopolitico intende portare questa consapevolezza del perenne “stato di eccezione in cui viviamo” a conoscenza di tutti coloro che sono stati abbagliati dall’ideologizzazione della democrazia operata dagli agenti strategici, per i quali la decisione è da sempre sicura norma ispiratrice della loro azione concreta e di giudizio generale per comprendere come funzionano le cose del mondo.

Ancor più radicale di Carl Schmitt per il quale lo stato di eccezione pur stando alla base dell’ordinamento giuridico non faceva parte, comunque, dello stesso, Walter Benjamin aveva compreso che lo stato di eccezione andava ben al di là  della visione schmittiana del paolino katechon,  ultima mitica risorsa  per arrestare la rivoluzione per il grande giuspubblicista fascista di Plettenberg, cui fare ricorso per impedire la dissoluzione dello stato ma costituiva, bensì, la natura stessa dello stato e della vita associata. Per essere ancora più chiari: per Carl Schmitt uno stato di eccezione che entra in scena solo nei momenti di massima crisi; per Walter Benjamin uno stato di eccezione continuamente ed incessantemente operante e in cui il suo mascheramento in forme giuridiche è funzionale al mantenimento dei rapporti di dominio. Se giustamente, ma con intento nemmeno tanto nascostamente denigratorio, il pensiero di Carl Schmitt è stato definito ‘decisionismo’, Walter Benjamin apre al pensiero politico la dimensione dell’iperdecisionismo. Questo ‘iperdecisionismo’  è un aspetto  del pensiero di Walter Benjamin che finora non ha ricevuto alcuna attenzione. Sì, é vero che molto è stato scritto sui rapporti fra Walter Benjamin e Carl Schmitt, molta acribia filologica è stata spesa sull’argomento ma quello che è totalmente mancato è un discorso sul significato in Benjamin di una visione iperdecisionista e sul significato per noi dell’iperdecisionismo benjaminiano. Quella che è mancata, insomma, è un’autentica visione filosofico-politica, un vuoto di pensiero che è segno, prima ancora di una incomprensione di Benjamin, della totale cecità dell’attuale pensiero politico, tutto, sui tempi che stiamo vivendo. “L’idea di storia da cui proviene non sta più in piedi”, quello che per Benjamin era letteralmente spazzatura, una propaganda ancor peggio del fascismo, era il concetto che la storia fosse un processo immancabilmente tendente al progresso, un progresso che avrebbe immancabilmente sollevato l’uomo, in virtù di regole e leggi sempre più razionali, dalla fatica della decisione extra legem. Sconfitto il fascismo, le società del secondo dopoguerra, quelle capitalistiche e quelle socialiste indifferentemente, sono state basate proprio su questo principio, il principio cioè che la norma (che assumesse più o meno una forma giuridica, poco importa: le società socialiste avevano un rapporto più sciolto con la lettera della legge ma assolutamente ferreo sulla loro costituzione materiale, l’impossibilità cioè di mettere in discussione il ruolo del partito) non poteva essere messa in discussione se non soppiantandola con un’altra norma successiva generata secondo determinate regole elettorali del gioco democratico (o della democrazia socialista, nei paesi nella sfera d’influenza sovietica o politicamente organizzati sulla scia della tradizione politica della rivoluzione bolscevica). Su questo principio si sono edificate le liberaldemocrazie e i cosiddetti regimi del socialismo reale ma si tratta di un principio, come ben aveva visto Benjamin, che non sta letteralmente in piedi e svolge unicamente la funzione di mascheramento dei rapporti di dominio (rapporti di dominio che, anche se disvelati con prudente linguaggio dagli iniziati alle scienze politiche, si cerca di giustificare, da parte dell’intellighenzia e dai detentori del potere politico dediti alla riproduzione e mantenimento di questi rapporti, col dire che costituiscono un progresso rispetto al passato: un passo verso sempre maggiore democrazia o un passo verso il comunismo, si diceva nei defunti paesi socialisti). Causa, principalmente, la loro inefficienza economica e rapporti di dominio all’interno di queste società non proprio così totalitari come la pubblicistica e la scienza politica delle liberaldemocrazie hanno sempre voluto far credere, le società socialiste sono finite nel mitico bidone della storia e quindi oggigiorno, eredi della vittoria sul nazifascismo, rimangono su piazza le cosiddette società basate sulla democrazia elettoralistica a suffragio universale. A chiunque sia onesto e non voglia stancamente ripetere le illogiche assurdità sulla libertà e la democrazia che queste società consentirebbero, risulta solarmente evidente che la democrazia in queste società è del tutto allucinatoria mentre la libertà è – per dirla brevemente e senza bisogno di far sfoggio di tanta dottrina –  per molti strati della popolazione, la libertà di morire di fame e di essere emarginati da qualsiasi processo decisionale. Se i nonsense ideologici sono però utili per stabilizzare presso i ceti intellettuali – che è meglio definire per la loro intima insipienza ceti semicolti –  la teodicea della liberaldemocrazia, per gli strati con un livello di istruzione inferiore è necessario qualcosa di diverso e di un livello ancora più basso non tanto per celare la natura radicalmente violenta dei rapporti di dominio ma, nel loro caso, per celare la presenza stessa di questi rapporti. E senza dilungarci ulteriormente su questo punto, la “società dello spettacolo”, una società dello spettacolo che con quiz, informazione guidata e di livello cavernicolo, terroristi di cui l’Occidente non ha mai alcuna responsabilità e farlocche invasioni aliene che, oltre ad instillare il bisogno di un’autorità protettrice, non sono altro che la ridicola copertura di esperimenti militari, svolge egregiamente questo ruolo di “distrazione di massa”.

Concordando quindi pienamente con Benjamin, il repubblicanesimo geopolitico intende portare questa consapevolezza del perenne “stato di eccezione in cui viviamo” a conoscenza di tutti coloro che sono stati abbagliati dall’ideologizzazione della democrazia operata dagli agenti strategici, per i quali la decisione è da sempre sicura norma ispiratrice della loro azione concreta e di giudizio generale per comprendere come funzionano le cose del mondo. Se il timido decisionismo di Schmitt era in funzione conservatrice e in perenne attesa – ed evocazione –  del mitico Katechon, il frenatore che avrebbe arrestato la rivoluzione sempre incombente, l’ ‘iperdecisionismo’ benjaminiano è invece il miglior farmaco mai messo punto per la diffusione della consapevolezza presso i dominati che la norma non è altro che la cristallizzazione di una decisione originaria. E se per comprendere che “Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta è necessario il passaggio attraverso una soteriologia rivolta al passato, ben venga allora anche il misticismo di Benjamin: un realismo giunto alla sua massima maturazione ha ben compreso la lezione della I tesi di Tesi di filosofia della storia dove si parla di un automa infallibile nel gioco degli scacchi, il materialismo storico, che è imbattibile al gioco degli scacchi ma al quale questa imbattibilità gli è fornita da un nano gobbo nascosto sotto il tavolo (la teologia) che abilissimo nel gioco manovra l’automa. Per Benjamin è il nano teologico che comanda la partita e lo deve fare di nascosto (perché è piccolo e brutto e quindi la sua presenza, oltre ad essere un barare sulle regole del gioco, non sarebbe stata apprezzata da un pensiero, benché progressista, solidamente realista, come pretendeva di essere la vulgata marxista del tempo infestata, come del resto l’odierno pensiero liberaldemocratico, dalla mala pianta del positivismo). Per noi, meno mistici ma forse consapevolmente più dialettici di Benjamin – e come lui integralmente antipositivisti,  massimamente contro, anche se non solo!, la sua ridicola versione neo à la Popper, tanto per essere chiari – , è alla fine difficile distinguere ciò che è veramente realista da ciò che è mistico e forse, a questo punto, ci  siamo ricongiunti in toto con la IX tesi di Tesi di filosofia della storia di Walter Benjamin.

 

LA DEMOCRAZIA CHE SOGNÒ LE FATE (STATO DI ECCEZIONE, TEORIA DELL’ALIENO E DEL TERRORISTA E REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO)*, di Massimo Morigi

 

*A pagina 8,  Miracolo della neve di Masolino da Panicale

 

Triste l’uomo che vide in sogno le fate!

Con un unico sogno sciupò l’intera sua vita.

 

Po-Chu-i, L’uomo che sognò le fate (da Liriche cinesi, Einuadi, p.170)

 

Scrive Walter Benjamin nella tesi n.8 di Tesi di filosofia della storia: “La tradizione degli oppressi ci insegna che lo ‘stato di emergenza’ in cui viviamo è la regola. Dobbiamo giungere a un concetto di storia che corrisponda a questo fatto. Avremo allora di fronte, come nostro compito, la creazione del vero stato di emergenza; e ciò migliorerà la nostra posizione nella lotta contro il fascismo. La sua fortuna consiste, non da ultimo, in ciò che i suoi avversari lo combattono in nome del progresso come di una legge storica. Lo stupore perché le cose che viviamo sono ‘ancora’ possibili nel ventesimo secolo è tutt’altro che filosofico. Non è all’inizio di nessuna conoscenza, se non di quella che l’idea di storia da cui proviene non sta più in piedi.”  (1)  Ancor più radicale di Carl Schmitt per il quale lo stato di eccezione (2) pur stando alla base dell’ordinamento giuridico non faceva parte, comunque, dello stesso, Walter Benjamin aveva compreso che lo stato di eccezione andava ben al di là  della visione schmittiana di katechon ultimo cui fare ricorso per impedire la dissoluzione dello stato ma costituiva, bensì, la natura stessa dello stato e della vita associata. Per essere ancora più chiari: per Carl Schmitt uno stato di eccezione che entra in scena solo nei momenti di massima crisi; per Walter Benjamin uno stato di eccezione continuamente ed incessantemente operante e in cui il suo mascheramento in forme giuridiche è funzionale al mantenimento dei rapporti di dominio. Se giustamente, ma con intento nemmeno tanto nascostamente denigratorio, il pensiero di Carl Schmitt è stato definito ‘decisionismo’, Walter Benjamin apre al pensiero politico la dimensione dell’iperdecisionismo. Questo iperdecisionismo  è un aspetto  del pensiero di Walter Benjamin che finora non ha ricevuto alcuna attenzione. Sì, è vero che molto è stato scritto sui rapporti fra Walter Benjamin e Carl Schmitt, molta acribia filologica è stata spesa sull’argomento ma quello che è totalmente mancato è un discorso sul significato in Benjamin di una visione iperdecisionista e sul significato per noi dell’iperdecisionismo benjaminiano. Quella che è mancata, insomma, è un’autentica visione filosofico-politica, un vuoto di pensiero che è segno, prima ancora di una incomprensione di Benjamin, della totale cecità dell’attuale pensiero politico, tutto, sui tempi che stiamo vivendo. “L’idea di storia da cui proviene non sta più in piedi”, quello che per Benjamin era letteralmente spazzatura, una propaganda ancor peggio del fascismo, era il concetto che la storia fosse un processo immancabilmente tendente al progresso, un progresso che avrebbe immancabilmente sollevato l’uomo, in virtù di regole e leggi sempre più razionali, dalla fatica della decisione extra legem. Sconfitto il fascismo, le società del secondo dopoguerra, quelle capitalistiche e quelle socialiste indifferentemente, sono state  basate proprio su questo principio, il principio cioè che la norma ( che assumesse più o meno una forma giuridica, poco importa: le società socialiste avevano un rapporto più sciolto con la lettera della legge ma assolutamente ferreo sulla loro costituzione materiale, l’impossibilità cioè di mettere in discussione il ruolo del partito) non poteva essere messa in discussione se non soppiantandola con un’altra norma successiva generata secondo determinate regole elettorali del gioco democratico (o della democrazia socialista, nei paesi nella sfera d’influenza sovietica o politicamente organizzati sulla scia della tradizione politica della rivoluzione bolscevica). Su questo principio si sono edificate le liberaldemocrazie e i cosiddetti regimi del socialismo reale ma si tratta di un principio, come ben aveva visto Benjamin, che non sta letteralmente in piedi e svolge unicamente la funzione di mascheramento dei rapporti di dominio (rapporti di dominio che anche se disvelati si cerca di giustificare, da parte dell’intellighenzia e dai detentori del potere politico dediti alla riproduzione e mantenimento di questi rapporti, col dire che costituiscono un progresso rispetto al passato: un passo verso sempre maggiore democrazia o un passo verso il comunismo nei defunti paesi socialisti). Causa, principalmente, la loro inefficienza economica e rapporti di dominio all’interno di queste società non proprio così totalitari come la pubblicistica e la scienza politica democratiche hanno sempre voluto far credere, le società socialiste sono finite nel mitico bidone della storia e quindi oggigiorno, eredi della vittoria sul nazifascismo, rimangono su piazza le cosiddette società liberaldemocratiche. A chiunque sia onesto e non voglia ragliare le scemenze sulla libertà e la democrazia che queste società consentirebbero, risulta solarmente evidente che la democrazia in queste società è del tutto allucinatoria mentre la libertà è, per dirla brevemente e senza bisogno di far sfoggio di tanta dottrina, per molti strati della popolazione, la libertà di morire di fame e di essere emarginati da qualsiasi processo decisionale. (3) Se i ragli ideologici sono però utili per stabilizzare presso i ceti intellettuali, che è meglio definire per la loro intima somaraggine ceti semicolti, la teodicea della liberaldemocrazia, per gli strati con un livello di istruzione inferiore è necessario qualcosa di diverso e di un livello ancora più basso non tanto per celare la natura dei rapporti di dominio ma nel loro caso per celare la presenza stessa di questi rapporti. Tralasciando in questa sede i risaputi discorsi sul Panem et circenses (per la verità, man mano che le democrazie elettoralistiche tradiscono le loro promesse, sempre meno panem e sempre più circenses), è un su un particolare aspetto della società dello spettacolo che vogliamo focalizzare la nostra attenzione, un aspetto che come vedremo è intimamente legato, per quanto in maniera deviata e degradata, con la percezione benjaminiana che lo stato di eccezione in cui viviamo è la regola. In breve: riservata fino a non molto tempo fa ai racconti e ai film di fantascienza, è ora in corso attraverso documentari televisivi che trattano l’argomento con un taglio apparentemente scientifico, una imponente invasione di alieni. E se alcuni di questi prodotti televisivi riescono, nonostante tutto, a non sbragare completamente e a trattare la questione quasi unicamente dal punto di vista della esobiologia, la maggior parte di questi dà l’invasione come un fatto già avvenuto e ancora non universalmente riconosciuto come vero perché le autorità, quelle militari in primis, avrebbero compiuto una costante opera di insabbiamento della verità. E, in effetti, quello della manipolazione della verità da parte delle autorità è la pura e semplice verità, solo che, per somma ironia, in senso diametralmente opposto rispetto a quello che credono gli ingenui ufologi. In altre parole, oltre che dall’esame delle fonti in merito, è di tutta evidenza che le apparizioni ufologiche sono legate allo svolgimento di esperimenti nel campo delle nuove armi e che lo smentire, da parte delle autorità militari, l’esistenza degli UFO non è altro che una loro astuta mossa per far credere in un insabbiamento dell’esistenza dell’extraterrestre   mentre quello che in realtà si vuole celare è l’esperimento militare. E dal punto di vista dei detentori del potere (siano essi militari o civili) un altro non disprezzato frutto della credenza dell’invasione aliena è che, comunque, di un potere c’è un dannato bisogno per proteggere l’umanità da una tale terribile minaccia (quello che vogliono gli ufologi non è tanto mettere in discussione le autorità ma metterle di fronte alle loro responsabilità dichiarando che siamo in presenza di una minaccia aliena e chiedendo espressamente al popolo il suo aiuto per fronteggiarla). (4) Perché, al di là di questa funzione di soggiogamento delle masse indòtte, questi prodotti intratterrebbero allora un rapporto, per quanto malato, con lo stato di eccezione benjaminiano? Molto semplicemente perché se c’è una verità che essi ci consentono di cogliere, è che, a causa della invasione degli alieni,  noi viviamo in un stato di eccezione permanente. Ovviamente per gli ingenui tremebondi dell’omino verde che si diverte a compiere esperimenti su poveretti rapiti e portati allo scopo  sull’astronave aliena, lo stato di eccezione è scatenato da una forza esterna ma noi si sarebbe altrettanto ingenui se ci si limitasse a giudicare questa psicosi unicamente o come indotta da documentari spazzatura o, se si vuole andare più a fondo, come una sorta di despiritualizzazione delle forme della religione tradizionale dove il diavolo viene sostituito dall’omino verde. Al fondo c’è anche la percezione che i cosiddetti doni della liberaldemocrazia non sono per sempre e che il baratro è lì che ci aspetta ad un solo passo. Se almeno a livello di coscienza degli strati meno acculturati delle popolazioni appartenenti alle democrazie elettoralistiche occidentali esiste effettivamente la percezione di un disastro incombente ( i bassi livello di reddito se non generano una consapevolezza sui rapporti di forza che vigono nelle democrazie, sono comunque ben propedeutici a profondi stati d’ansia),  a livello di scienza e di filosofia politica questa percezione è stata definitivamente rimossa. Per farla breve. Il pensiero marxista, nonostante negli ultimi anni si dica che assistiamo ad una sua rinascita, non è riuscito nemmeno  a sviluppare una coerente analisi perché l’esperienza del socialismo realizzato sia miseramente franata. Alcune frange lunatiche che pretendono essere gli eredi del grande pensatore di Treviri continuano a farfugliare di imminenti e terrificanti crisi del sistema capitalistico, ignorando i poverini che, come insegna Schumpeter,  la crisi è il motore stesso del sistema capitalistico (distruzione creatrice et similia). Sul cosiddetto pensiero liberaldemocratico meglio stendere un velo pietoso, perché se storicamente dopo il secondo dopoguerra è servito nella sfera geopolitica di influenza statunitense a svolgere il ruolo di occultamento dei rapporti di dominio, oggi è totalmente incapace di svolgere addirittura questa funzione. È un fenomeno riservato al dibattito accademico, per promuovere più o meno qualche carrieruzza in quest’ambito o, tuttalpiù per essere preso di rimbalzo da qualche giornalista trombone che diffondendo questa menzogna si vuole cucire qualche spallina da intellettuale per vantarsi di fronte ai colleghi che trattano la cronaca nera, ma per tenere dominate le masse, molto meglio una informazione di livello cavernicolo e totalmente etero guidata , (5) qualche quiz, qualche film, pornografia internettiana a volontà e per i più ansiosi e percettivi dello stato di eccezione permanente con le sue potenzialità catastrofiche, molto meglio le invasioni aliene. Peccheremmo però di falso per omissione se considerassimo il pensiero politico di questo inizio di terzo millennio come un immenso campo di macerie. In primo luogo – primo solo perché la responsabilità di questo indirizzo è direttamente e unicamente a noi ascrivibile – il ‘repubblicanesimo geopolitico’ (6) pur riconoscendo al neorepubblicanesimo alla Philip Pettit o alla Quentin Skinner il merito storico di aver iniziato un’operazione di progressivo distacco dal mainstream liberaldemocratico, da questo si allontana nettamente per aver messo l’accento sul problema del potere, dei conseguenti rapporti di dominio e su come democrazia non significhi, come nel neorepubblicanesimo, una difesa dal potere ma la suddivisione molecolare – e felicemente conflittuale – del potere stesso. Nel campo del pensiero marxista, fondamentale, per mettere in evidenza lo stato di eccezione permanente che informa tutta la vita politica e sociale, è il lavoro teorico svolto da Gianfranco la Grassa e le sue illuminanti riflessioni sulla razionalità strategica versus razionalità strumentale, sugli agenti strategici e sugli strateghi del capitale . (7) Sia il repubblicanesimo geopolitico sia il lavoro teorico di La Grassa sono quindi basati sul tentativo di svolgere un’analisi puntuale del potere, sia che questo si manifesti nei rapporti sociali sia nelle sue espressioni istituzionali, e dalla consapevolezza che ogni pratica politica volta ad aumentare il tasso di libertà all’interno della società non sia un fatto di enunciazione di eterni principi (enunciazioni che invece sono dissimulazioni di pratiche di dominio) ma di continui e pratici tentativi per effettuare una effettiva diffusione e parcellizzazione di questo potere. Inoltre sia in  La Grassa che nel  ‘repubblicanesimo geopolitico’, è centrale la consapevolezza, tratta dall’evidenza storica, che il capitale è solo un strumento attraverso il quale si svolgono le lotte di potere (il ‘repubblicanesimo geopolitico’ sostiene che la libertà, sia individuale che dei gruppi sociali, per essere esercitata necessita di un suo spazio vitale di esercizio ed espansione conflittuale e quindi, il repubblicanesimo geopolitico, ispirandosi alla terminologia della geopolitica tedesca, può essere definito, ‘Lebensraum repubblicanesimo’; (8) mentre in La Grassa fondamentale è il ruolo svolto dagli agenti strategici che lottano continuamente per espandere la loro sfera di influenza servendosi anche, ma non solo, degli strumenti finanziari e della produzione capitalistica). Detto sinteticamente: se con La Grassa il marxismo esce definitivamente, per individuare gli strumenti di riproduzione del potere, dalla mitologia marxiana dei rapporti di produzione capitalistici, il ‘repubblicanesimo geopolitico’ fa piazza pulita della mitologia liberaldemocratica che la libertà sia una questione di norme e di regole del gioco. In entrambi centrale è la benjaminiana consapevolezza che la vera norma che regola il gioco sociale e politico è lo stato di eccezione. L’uomo che sognò le fate era stato condotto da uno svolazzare di fate davanti all’imperatore di giada  che gli aveva assicurato che dopo quindici anni di sacrifici sarebbe stato ammesso al regno degli immortali. Ma gli anni passarano e tutto quello che accadde fu che quest’uomo, come tutti, invecchiò e poi morì (non aveva capito, in altri termini, che ogni esistenza, sia sociale che individuale, è intessuta in uno stato di eccezione che non ammette utopiche attese). La poesia di Po-Chu-i si conclude con “Triste l’uomo che vide in sogno le fate!/Con un unico sogno sciupò l’intera sua vita.” Parafrasando possiamo concludere con “Triste l’uomo che vide in sogno la democrazia!/Con un unico sogno sciupò l’intera sua vita.” A meno che la consapevolezza dello stato di eccezione non sia lasciata solo agli agenti strategici continuamente lottanti per un loro lebensraum e la sua oscura percezione ai credenti della nuova demonologia aliena e/o terroristica, c’est tout.

 

**********

 

Note

 

1)  W. Benjamin, Angelus novus. Saggi e frammenti, introduzione a cura di Renato Solmi, con un saggio di Fabrizio Desideri, Torino, Einuadi, 1995, p. 79.

 

2) Nella precedente citazione dell’ottava tesi di Benjamin la locuzione impiegata è “stato di emergenza”. Tuttavia la traduzione più corretta è “stato di eccezione”, locuzione che da adesso in poi manterremo nel corso della presente comunicazione.

 

3) Su cosa sia realmente la democrazia nessuno meglio di Gianfranco La Grassa ha saputo cogliere nel segno: “In linea teorica, poiché la sedicente “democrazia” non è certo mai stata il “governo del popolo” (una bugia invereconda), si potrebbe sostenere che la tendenza migliore (o meno peggiore), riguardo alla (molto) futura evoluzione dei rapporti sociali, sarebbe quella  in cui apparisse infine alla luce del Sole – e senza condensazione e concentrazione di potere nei “macrocorpi” esistenti nelle sfere politica o economica o ideologico-culturale – la politica, quale rete di strategie conflittuali tra vari centri di elaborazione delle stesse, centri rappresentanti i diversi gruppi sociali. Non un “Repubblica dei Saggi” (ideologia in quanto “falsa coscienza”, che predica invano la possibilità di equilibrio sociale nel dialogo), ma una rete di scoperto, luminoso conflitto tra visibili strategie, apprestate da questi centri di elaborazione in difesa degli interessi di differenti gruppi sociali componenti una complessa formazione sociale.” (Gianfranco  La Grassa, Oltre l’orizzonte. Verso una nuova teoria dei capitalismi, Nardò, Besa Editrice, 2011, p.169).

 

4) Lo stile retorico e comunicativo  dei documentari televisivi sugli UFO segue, nella maggior parte dei casi, schemi pesantamente paratattici che più a trasmissioni vagamente informative li fa assomigliare a  comunicazioni di tipo religioso – preghiere e funzioni religiose –   con iterazioni ad nauseam degli stessi concetti, immagini e suggestioni senza che fra questi elementi vengano mai stabiliti legami logici significativi. Ma qui non ci vogliamo soffermare sul fenomeno UFO inteso come una sorta di religione sostitutiva (dove gli alieni, a seconda dei gusti, possono assumere il ruolo degli angeli o dei demoni) ma sul fatto che questo fenomeno è arrivato ad interessare, e fin qui nulla di strano, anche il massimo esponente vivente della teoria delle relazioni internazionali, il costruttivista  Alexander Wendt. In Sovereignty and the UFO,  agli URL http://ptx.sagepub.com/content/36/4/607.full.pdf (WebCite: http://www.webcitation.org/6dt6pJRsx e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fptx.sagepub.com%2Fcontent%2F36%2F4%2F607.full.pdf&date=2015-12-19), Alexander Wendt afferma che il fenomeno UFO, si creda o no nell’esistenza effettiva degli extraterrestri, ha l’effetto di provocare una diminutio di sovranità delle vecchie autorità terrestri a favore di quelle ipotetiche provenienti da altri mondi. In linea di principio potremmo anche concordare su questa fenomenologia dei rapporti di dominio di fronte al fenomeno UFO ma Wendt ignora completamente che, all’atto pratico, la gran massa degli ufologi e dei credenti negli omini verdi, sono dei patrioti fedeli alle autorità costituite che chiedono una sola cosa: che le autorità prendano il toro per le corna stabilendo un contatto con queste entità e all’occorrenza, dove queste dovessero risultare ostili, per combatterle più efficacemente denunciando pubblicamente il pericolo  e chiedendo l’aiuto e la collaborazione del popolo precedentemente tenuto avventatamente all’oscuro. In pratica, quindi, contrariamente a quanto sostiene Wendt, il fenomeno UFO consolida le autorità costituite e la translatio della sovranità verso gli extraterrestri rimane un fatto più virtuale che reale. Questo sul piano delle istituzioni diciamo secolari. Per non parlare poi del fenomeno UFO come una sorta di religione sostitutiva. In questo caso vale il caso di ripristinare la marxiana religione oppio dei popoli … e quando l’oppio viene percepito di scarsa qualità (crisi delle religioni tradizionali), ci si rivolge ad altri fornitori, con massima soddisfazione dei consumatori e degli agenti strategici che non chiedono nulla di meglio di dominati tranquilli (anche se un po’ troppo allucinati).

 

5) Vedi il caso di come viene trattato il fenomeno del cosiddetto terrorismo, prescindendo dal fondamentale aspetto geopolitico della questione. A questo proposito rimandiamo ai nostri interventi svolti sul blog “Il Corriere della Collera”, dove a titolo di esempio, trattando all’URL  http://corrieredellacollera.com/2015/01/19/antiterrorismo-e-nata-una-stella-di-sceriffo-oppure-e-la-solita-truffa-allitaliana-buona-la-seconda-di-antonio-de-martini/#comment-51015 (WebCite: http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fcorrieredellacollera.com%2F2015%2F01%2F19%2Fantiterrorismo-e-nata-una-stella-di-sceriffo-oppure-e-la-solita-truffa-allitaliana-buona-la-seconda-di-antonio-de-martini%2F%23comment-51015&date=2015-04-19 e http://www.webcitation.org/6Xuok31dj) della recente isteria antiterroristica, il terrorista svolge il ruolo che in passato era affidato al diavolo (ed oggi, in gran parte, al suo valido compagno di merende, l’alieno: “Ad un livello immensamente più degradato di come l’intendeva Carl Schmitt, verrebbe voglia di citare, in relazione all’odierna isteria antiterroristica, la Politische Theologie, quando il giuspubblicista di Plettenberg affermava che “tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati”: tradotto, per comprendere il ruolo dell’odierna disinformatia, quando il terrorista prende, nell’immaginario secolarizzato, il ruolo del diavolo. [Concludiamo] con un ulteriore rinvio a Carl Schmitt e al suo Theorie des Partisanen, dove il ‘partigiano’ è portatore di un’inimicizia assoluta ma un’inimicizia assoluta, di tipo veramente demoniaco, che ha la sua origine nella moderna guerra totale che ha distrutto la vecchia concezione di justus hostis. E così torniamo ai tagliagole mediorientali, figli non solo di una caotica strategia del caos statunitense che ha foraggiato per i suoi interessi geostrategici i demoni più distruttori presenti nell’area ma anche della nostra modernità politica che non può ammettere, pena la perdita totale della sua legittimità, l’esistenza di un justus hostis, ma solo l’esistenza, appunto, del nemico totale dell’umanità, il terrorista.”

 

6) Sul repubblicanesimo geopolitico, oltre a quanto apparso sul blog “Il Corriere della Collera”, vista la sua consolidata presenza nel Web, si rimanda  genericamente all’aiuto dei benemeriti ed efficienti browser – Google in primis, ça va sans dire, con un’unica ulteriore precisazione: consigliamo caldamente di visitare il sito di file sharing Internet Archive (all’URL https://archive.org/index.php).

 

 

 

7) Sugli strateghi del capitale si rimanda alla  esaustiva trattazione fattane in G. La Grassa, Gli strateghi del capitale. Una teoria del conflitto oltre Marx e Lenin, Roma, Manifestolibri, 2005. A dimostrazione di quanto, pur non nominandolo espressamente, il concetto di stato di eccezione svolga un ruolo fondamentale in La Grassa possiamo leggere: “Inoltre, la razionalità strumentale  del minimo mezzo è subordinata a quella strategica. La prima consente la generalizzazione di alcune “leggi” dell’efficienza e la minuta analisi delle condizioni che rendono possibile il conseguimento di quest’ultima. La seconda non ha leggi,  forse qualche principio, ma sempre da adattare poi alla situazione concreta, che è appunto quella che ho indicato quale singolarità. La ricchezza di mezzi è certo importante per l’attuazione delle categorie vincenti; e nel sistema capitalistico, in cui tutti i prodotti sono merci, i mezzi sono essenzialmente quelli monetari (nelle diverse forme). Tuttavia, la potenza non è solo questione di disponibilità  di mezzi, né bastano – per il loro impiego – le semplici regole dell’efficienza.” (G. La Grassa, Finanza e poteri, Manifestolibri, 2008,  p. 150).

 

8) Il concetto di Lebensraum fu coniato da  Friedrich Ratzel  e, soprattutto attraverso l’altro geopolitico tedesco Karl Haushofer entrò a far parte a pieno titolo dell’ideologia nazista (Karl Haushofer, tramite Rudolf Hess, si recò più volte nella prigione di Landsberg am Lech dove era detenuto Hitler in seguito al fallito putsch di Monaco per dare lezioni di geopolitica al futuro Führer). Quindi damnatio memoriae per tutta la geopolitica e per il termine Lebensraum centrale nella geopolitica stessa. È giunto il momento di rimuovere questa damnatio. Senza tanto dilungarci sull’ammissibilità di rispolverare concetti che il politically correct vorrebbe morti e sepolti, in queste sede diciamo una sola cosa. Al netto dell’uso scopertamente criminale ed ideologico che il nazismo ha fatto della geopolitica e dei suoi ammaestramenti, basti sapere che gli agenti strategici del capitale e i loro centri studi agiscono e programmano la loro azione alla luce del concetto di spazio vitale. E per essere fino in fondo politicamente scorretti, ricordiamo che l’economista austriaco Kurt W. Rothschild affermò che per capire  come funziona l’economia piuttosto che compulsare Adam Smith o i neoclassici, era meglio rivolgersi a Carl  von Clausewitz e studiare il suo Vom Kriege. Speriamo che per questo di non essere tacciati di guerrafondismo e/o criptico neonazismo.

 

TEORIA DELLA DISTRUZIONE DEL VALORE (TEORIA FONDATIVA DEL REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO E PER IL SUPERAMENTO/CONSERVAZIONE DEL MARXISMO), di Massimo Morigi

TEORIA DELLA DISTRUZIONE DEL VALORE (TEORIA FONDATIVA DEL REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO E PER IL SUPERAMENTO/CONSERVAZIONE DEL MARXISMO)

Polemos è di tutte le cose padre, di tutte re, e gli uni rivela dei e gli altri uomini, gli uni fa schiavi e gli altri liberi. Eraclito, Frammento 53

La ‘Teoria della Distruzione del Valore’, pur inserendosi direttamente e a pieno titolo nella tradizione della critica marxiana e marxista all’economia politica classica e neoclassica e all’individualismo metodologico a queste inerente, intende rovesciare la teoria marxiana del plusvalore – viziata alla radice dall’economicismo dell’economia classica di Adam Smith e David Ricardo, economicismo che pur Marx intendeva respingere –, sostenendo, contrariamente alla teoria del plusvalore, che il modo di produzione capitalistico non si caratterizza per una sottrazione del plusvalore generato dal pluslavoro erogato dal lavoratore e di cui si appropria il capitale ma che, bensì, attraverso il nuovo rapporto sociale materializzatosi con l’avvento del capitalismo (“Al possessore di denaro, che trova il mercato del lavoro come particolare reparto del mercato delle merci, non interessa affatto il problema del perché quel libero lavoratore gli compaia dinanzi nella sfera della circolazione. E a questo punto non interessa neanche a noi. Noi, dal punto di vista teorico, ci atteniamo al dato di fatto, come fa il possessore di denaro dal punto di vista pratico. Però una cosa è evidente. La natura non produce da un lato possessori di denaro o di merci e dall’altro semplici possessori della propria forza lavorativa. Tale rapporto non risulta dalla storia naturale né da quella sociale ed esso non è comune a tutti i periodi della storia. È evidente come esso sia il risultato d’uno svolgimento storico precedente, il prodotto di molte rivoluzioni economiche, della caduta di una intera serie di più vecchie formazioni della produzione sociale.”: Karl Marx, Il Capitale, trad. it., Roma, Newton Compton, 1970, I, pp. 199-200; “Ma il capitale non è una cosa, bensì un certo rapporto di produzione sociale che rientra in una determinata formazione storica della società. Questo rapporto si presenta in un oggetto e conferisce ad esso uno specifico carattere sociale. Il capitale non è la somma dei mezzi di produzione materiali e prodotti. Esso è formato dai mezzi di produzione che sono divenuti capitale, che in se stessi non sono capitale, come oro e argento non sono in se stessi denaro. Il capitale è formato dai mezzi di produzione monopolizzati da una certa porzione della società, dai prodotti e dalle condizioni in cui agisce la forza lavorativa, resisi indipendenti nei confronti della viva forza lavorativa che tramite questa contrapposizione si incorporano nel capitale.”: Idem, III, pp.1086-1087), si opera una distruzione reale e concreta del valore del lavoro richiesto al dipendente operaio dell’impresa capitalista. La ‘Teoria della Distruzione del Valore’ si colloca nell’ambito della dottrina filosofico-politica denominata ‘Repubblicanesimo Geopolitico’ (o ‘Lebensraum Repubblicanesimo’) ed è complementare, specialmente per le epoche storiche ed i rapporti sociali precedenti o non riconducibili al primo capitalismo industriale e successive sue evoluzioni, ad una più generale ‘Teoria della Predazione/Distruzione/Equilibrio/Incremento del Valore’, a sua volta afferente alla ‘Teoria Polemodinamica Evolutiva dei Cicli di Creazione/Conservazione/Trasformazione del Conflitto’, teorie anche quest’ultime due costitutive del ‘Repubblicanesimo Geopolitico’. Fondamentale corollario. Alla luce della decisiva categoria di Gianfranco La Grassa degli ‘agenti strategici’, la distruzione del valore del lavoro – distruzione consustanziale alla nascita dell’impresa capitalista che dà forma al nuovo rapporto sociale che vede l’incontro sul mercato, su un piano di formale libertà per entrambi, del lavoratore salariato e dell’agente capitalista, in realtà in un rapporto totalmente Massimo Morigi, Teoria della Distruzione del Valore, p.2 di 3 20 marzo 2015 squilibrato a favore del secondo, il quale proprio per la disparità di forze a suo vantaggio acquista un lavoro ‘svalorizzato’ – deve anche intendersi parallela, concomitante e complementare alla distruzione agente in quell’altro versante del potere, distruzione, cioè, della capacità di agire – seppur in senso lato – politicamente dei ‘non agenti strategicioperai/lavoratori di bassa fascia/non capitalisti’ (da adesso in poi definiti ‘decisori omegastrategici’ o ‘omega-strategic decisors’). In questo modo, la ‘Teoria della Distruzione del Valore’, affine per molti versi al concetto di Joseph Schumpeter di ‘distruzione creatrice’, è lo strumento fondamentale per completare la messa a fuoco e l’inquadramento teorico dell’operato degli ‘agenti strategici’ lagrassiani (da adesso in poi definiti ‘decisori alfastrategici’ o ‘alpha-strategic decisors’), che agiscono (o, meglio, decidono) costantemente per accrescere il loro potere attraverso mosse strategiche indirizzate sia sul versante – apparentemente solo – economico e mosse – apparentemente solo – politiche, entrambi ambiti che però, se guardati attraverso l’univoca ed unica finalità di conquista della supremazia tipica dei ‘decisori alfa-strategici’, rivelano il loro consustanziale legame, cementato dalla loro comune politicità. Nella presente situazione postdemocratica che accomuna tutte le democrazie occidentali elettoralistico-rappresentative, siamo in presenza di una reale estensione formale dei diritti politici e civili a fronte di una reale distruzione sostanziale della loro efficacia e vigenza politica (l’Italia – more solito – è un caso a parte: in questo paese, l’arretratezza politica è di un tale livello che anche dal punto di vista formale assistiamo ad una contrazione/distruzione non dissimulata, esplicita e smaccata, dello spazio politico di azione dei ‘decisori omega-strategici-lavoratori di bassa fascia/non capitalisti’). Per tornare alle maggiori “democrazie” occidentali, questo significa, per i ‘decisori omega-strategicilavoratori di bassa fascia/non capitalisti’, un’estensione formale dei diritti politici e, soprattutto, dei diritti civili (esemplare, a tal proposito, l’ideologia del “politicamente corretto” e dei “diritti alla diversità” – di genere o culturali che siano – , che trovano la loro massima realizzazione – e simbolo – nel diritto al matrimonio fra omosessuali), una estensione formale del loro ambito di decisione/azione a fronte, però, di una sostanziale distruzione del valore dei loro diritti e tutele lavorativi per opera dei ‘decisori alfa-strategici’, distruzione del valore il cui unico effetto è un’ulteriore contrazione/distruzione dei già miseri ambiti di azione politica reale dei ‘decisori omega-strategici’, fatti salvi, ovviamente, gli “importantissimi” diritti afferenti al “politicamente corretto”, al “diritto alla diversità” – comunque lo si voglia declinare – e alla sfera dell’orientamento sessuale. La ‘Teoria della Distruzione del Valore’ consente così di ripercorrere un filo rosso continuo fra la nascita in Occidente delle prime società industriali/capitaliste (con il contemporaneo affermarsi del summenzionato rapporto sociale, plasmato dal capitalismo, di formale libertà sul mercato e conseguente ingannevole vicendevole autonomia fra capitalisti e ‘decisori omega-strategicilavoratori di bassa fascia/non capitalisti’ afferenti all’ impresa capitalista, formalmente liberi nello scambiare con i ‘decisori alfa strategici-imprenditori capitalisti’ la loro forza lavoro ma con un’incommensurabile disparità di forza contrattuale in questo mercato a causa della distruzione del valore operata dal nuovo rapporto sociale ingenerato dal capitalismo, una distruzione del valore del tutto simile a quella che avviene fra i combattenti nelle guerre armate, dove, per giungere al risultato strategico voluto, la vittoria o la non sconfitta, si distrugge non solo la vita del nemico ma anche di quella carne da cannone che per convenzione si suole chiamare amico: non a caso l’economista austriaco Kurt. W. Rotschild ha affermato che se si vuole comprendere l’economia, piuttosto che studiare Adam Smith e tutti gli altri allegri studiosi della triste scienza, meglio è concentrarsi nella lettura del Vom Kriege di Carl von Clausewitz… e viene facile notare la profonda analogia e legame fra la prima fase del capitalismo e la nascita della guerra assoluta analizzata da Clausewitz, dove in entrambe la distruttività veniva portata a livelli mai prima conosciuti dall’umanità, fino a giungere ai giorni nostri, nei quali le possibilità di annientamento manu militari e manu scientifica, con la nuova generazione di armi sempre più basate sulla cibernetica – fino ad Massimo Morigi, Teoria della Distruzione del Valore, p.3 di 3 20 marzo 2015 arrivare al computer quantistico e alle sue potenzialmente numinose capacità computazionali e di conseguente produzione/riproduzione/creazione di un potere un tempo solo riservato agli dei olimpici, e alle forme sempre più evolute di intelligenza artificiale e alla possibilità di manipolazioni della pubblica opinione e della natura fisica e biologica, “un lavoro che, lungi dallo sfruttare la natura, è in grado di sgravarla dalle creature che dormono latenti nel suo grembo”–, rendono persino la guerra totale di settanta anni fa, compresa la stessa arma atomica, un gioco da ragazzi e dove il capitalismo del XXI secolo non solo ha eliminato, almeno in tempi commensurabili con l’umana esistenza, ogni realistica possibilità di poter costruire un diverso rapporto sociale ma ha ormai addirittura annientato la stessa memoria storica dei tentativi portati avanti dai ‘decisori omega-strategici’ – o, meglio, dalle burocrazie socialistiche che sostenevano, in parte in buona e in parte in cattiva fede, di agire in nome e per conto del proletariato e per instaurarne l’ossimorica dittatura ma che, a tutti gli effetti, altro non erano che una diversa forma di ‘decisori alfa-strategici’ – per costruire un’alternativa al capitalismo) e le odierne società industriali/capitaliste, caratterizzate quest’ultime – come le prime società industriali/capitaliste – da ‘decisori alfa-strategici’ che costantemente agiscono – e per ora, nonostante tutta la dissimulativa retorica democratica, con grande ed inarrestabile successo e senza alcun reale avversario – per una distruzione del valore del lavoro sull’apparentemente libero mercato e dei diritti dello stesso a livello giuridico dei ‘decisori omega-strategici’. ‘Decisori alfa-strategici’ che – oggi come sempre ed in particolare, per quanto riguarda l’epoca moderna, dall’inizio della rivoluzione industriale, in altre epoche storiche possono essere state prevalenti modalità predatorie, e.g. la schiavitù antica e la servitù della gleba – operano, in definitiva, per annichilire – sfrontatamente o più o meno nascostamente ma sempre con modalità distruttivamente del tutto analoghe a quella dei summenzionati conflitti armati, per una critica dei quali è quindi fondamentale, oltre che per l’economia, la politica e la cultura, la ‘Teoria della Distruzione del Valore’ – i già infimi ed unicamente consolatori spazi di decisione/azione dei ‘decisori omega-strategici’. ‘Decisori omega-strategici’ per i quali, ne siano consapevoli o meno, vale sempre, indipendentemente dall’epoca storica e predazione o distruzione del valore che sia, la condizione vitale ed esistenziale – “dove anche i morti non saranno al sicuro dal nemico, se egli vince. E questo nemico non ha smesso di vincere.”– descritta dall’iperdecisionista Walter Benjamin – l’Angelus Novus per un rinnovamento ab imis della geopolitica e del repubblicanesimo, soteriologicamente ben più radicale e realista del “timido” e katechontico decisionista giuspubblicista nazifascista Carl Schmitt – alla ottava tesi di Tesi di filosofia della storia: la terribile e mortale condizione di ‘stato di eccezione permanente’. Massimo Morigi – Ravenna, 20 marzo 2015 “Massimo Morigi”; “Karl Marx”; “Marx”; “Ant ropos St rategikon”; “Hom o St rategicus”; “Homo S trategicvs”; “Gianf ranco La Grassa”; “Gianfranco la G rassa”; “La Grassa”; “Joseph Alois Schumpeter”; “distruzio ne creatrice”; “ Teoria del plus valore”; “ Teoria del plusvalore”; Teoria del plus-valo re”; “Teo ria del valo re”; “Teo ria marx iana del valo re”; “Theor y of plus value”; Theory o f plus-val ue”; “théorie de plus-value”; “ Theorie des Mehrwerts”; “teor ia do mais- valor”; “teo ria do mais valor”; “théo rie de plus value”; “teoria de p lusvalor”; “plusvalore”; “Theor ien über den Mehrwert”; “ Teorie su l plusvalore”

Donald Trump e la rivolta dei cani al sole (commento di Massimo Morigi all’articolo di Gianfranco Campa “T-Rex il Mastino di Trump”)

Donald Trump e la rivolta dei cani al sole (commento di Massimo Morigi all’articolo di Gianfranco Campa “T-Rex il Mastino di Trump”)

Scrive Francis Fukuyama nel più famoso passaggio della Fine della Storia e l’Ultimo Uomo: «The end of history would mean the end of wars and bloody revolutions. Agreeing on ends, men would have no large causes for which to fight. They would satisfy their needs through economic activity, but they would no longer have to risk their lives in battle. They would, in other words, become animals again, as they were before the bloody battle that began history. A dog is content to sleep in the sun all day provided he is fed, because he is not dissatisfied with what he is. He does not worry that other dogs are doing better than him, or that his career as a dog has stagnated, or that dogs are being oppressed in a distant part of the world. If man reaches a society in which he has succeeded in abolishing injustice, his life will come to resemble that of the dog. Human life, then, involves a curious paradox: it seems to require injustice, for the struggle against injustice is what calls forth what is highest in man.» (Fukuyama 1992: 311). Nell’articolo di Gianfranco Campa “T-Rex il Mastino di Trump” l’analista, soffermandosi su un importante aspetto della nuova amministrazione Trump, la nomina a Segretario di Stato di Rex Tillerson, va oltre la rappresentazione dei dati biografici e del probabile modus operandi del neonominato segretario di stato ma fornisce anche importanti spunti sia su quella che possiamo definire la stimmung della nuova amministrazione Trump sia sul vero motivo per cui questa nuova amministrazione entra nel pieno dei poteri dovendo affrontare all’interno un vero e proprio clima di guerra civile (e al livello internazione una palese e feroce ostilità il cui unico obiettivo è di allearsi con i facitori della guerra civile interna americana al fine di rovesciare la nuova amministrazione). Quali sono le caratteristiche di Rex Tillerson? Rex Tillerson non è un politico nel senso peggiorativo della parola, Rex Tillerson non è cioè un politico uso a vellicare il popolo in nome di principi universalistici ma nonostante ciò (cioè nonostante la pesante e negativa semantica che si trascina il termine in questione) è un politico perché sa da grande responsabile e dirigente della massima multinazionale petrolifera statunitense che un accordo e/o una decisione non è mai frutto né di un puro calcolo tecnico né del rigido attenersi ad astratti parametri tecnici (in politica i principi universalistici dei diritti dell’uomo o simili, in economia le mitologiche leggi dell’economia, come vorrebbe il liberalismo) ma del sapiente bilanciamento di tutti questi fattori (illusioni politiche universalistiche comprese) al fine di comporre una linea politica e/o di azione/conflitto strategico coerente, razionale e, in ultima istanza, intimamente pacifici perché presuppone non un interlocutore demonizzato ma una controparte in possesso dei medesimi orientamenti e strumenti di analisi realistici. Ora essendo queste caratteristiche/modus operandi di Tillerson profondamente rappresentativi dell’amministrazione Trump, si spiega così da un lato il feroce clima di guerra civile scatenato all’interno degli Stati uniti da quegli agenti strategici, prima dell’amministrazione Trump totalmente prevalenti, che sotto il ridicolo vestito dei diritti universalistici liberal-liberisti avevano dichiarato guerra a tutti coloro che al di fuori degli Stati uniti si opponevano alla truffa democraticistica e al totalitarismo della globalizzazione mercatistica sia il fatto che in questa guerra civile le truppe d’assalto siano costituite dal tipo umano-politico che Fukuyama (non si capisce bene se con disprezzo e fatalismo o vedendoli come un fenomeno in sé positivo) definisce cane al sole, dove con cane “content to sleep in the sun” Fukuyama delinea l’idealtipo dell’uomo democratico, un incrocio fra indolenza fisica, pigrizia intellettuale e finte alte idealità che gli dovrebbero essere garantite dai politici democratici (a tutto disposti nelle loro concessioni demagogiche) e a livello di costruzione sistemica dello stato, dagli universalistici diritti politici formalmente garantiti dalle carte costituzionali liberal-liberiste. Ora Trump (e tutta la sua amministrazione) sono il più esplicito proclama che le cose non stanno per niente così, sono la dimostrazione che è iniziata una “vera rivoluzione” dove al posto dei fantasmagorici diritti universalistici e della loro ultima miserrima traduzione politically correct del diritto alle varie diversità più o meno di genere si cerca di costruire e di mettere in azione l’unico vero diritto che veramente conta (e che, in ultima istanza, è il motore del lagrassiano conflitto strategico), e cioè il diritto ad avere la possibilità di essere protagonisti ed efficaci all’interno del conflitto strategico stesso (detto in altri termini: quello che veramente conta è il diritto/dovere, se non si vuole essere scippati del proprio futuro, a non essere presi per i fondelli dai turiferari dei diritti umani e politici universalistici). E da qui la rivolta di piazza dei poveri pasdaran mossi dai grandi agenti strategici del vecchio sistema di potere, la rivolta, cioè dei cani al sole, povere anime eterodirette e che nel loro irrazionale terrore verso la nuova amministrazione Trump non sono che il sintomo di un più razionale terrore da parte del vecchio sistema di potere che non risparmierà alcun mezzo lecito od illecito per fermare questa rivoluzione (aizzare i cani al sole è solo uno stadio di una guerra che potrà essere combattuta anche con ben altri mezzi…). E, molto più modestamente per quanto riguarda le vicende di un paese periferico come l’Italia, anche da acuti osservatori come Gianfranco Campa, il compito di tenerci accuratamente e scientificamente informati su questa importantissima – e lo ripetiamo, autenticamente rivoluzionaria – vicenda americana nella speranza chi i nostrani “cani al sole” scoprano che i conti non tornano (il riferimento al movimento stellare è puramente non casuale) e che in un giorno fausto per noi e per loro riescano veramente a vedere (e quindi a realizzare) la loro vera natura di Zoon Politikon (animale notoriamente che non si scalda pigramente al sole ma trova conforto in una comunità politica che gli garantisca dialetticamente, cioè realmente e conflittualmente, tutti quei diritti e possibilità che le retoriche universalistiche proclamano truffaldinamente solo sotto forma di mito).

LA TAUMATURGIA DELL’INVESTIMENTO SOCIALE; una chiosa di Massimo Morigi

L’articolo di Giuseppe Germinario “La Taumaturgia dell’Investimento Sociale” potrebbe essere riassunto con una semplice domanda controfattuale: “se i giovani italiani fossero meno schizzinosi e se la pressione degli immigrati per i posti di lavoro meno qualificati fosse meno forte e quindi se attraverso l’occupazione da parte degli indigeni dello stivale di queste nicchie residuali si fosse riusciti a raggiungere più o meno soddisfacenti livelli di occupazione, si potrebbe dire che la situazione economico-sociale del nostro paese avrebbe raggiunto una condizione, diciamo, tranquillizzante?” La risposta è ovviamente no e questo no ha due aspetti. Il primo è che un paese che basa la sua economia su attività residuali è destinato inevitabilmente ad un brutale, e sottolineo brutale, declino dovuto a rapporti di forza sempre più sfavorevoli nello scenario internazionale. Il secondo deriva dall’elementare dato di fatto che un paese con falangi di lavoratori sempre più debilitati (non solo economicamente ma anche dal punto di vista del conflitto strategico, quindi dal punto di vista del conflitto economico-politico contro i grandi decisori strategici) è destinato ad una sorta di implosione sociale, la quale a sua volta viene esponenzialmente moltiplicata (e che in una sorta di micidiale feedback esponenzialmente moltiplica) il già lesionato ruolo del paese nell’arena internazionale. In realtà, il vero problema è – come ci indica Germinario e come assolutamente non riesce a comprendere Ricolfi – non tanto se si abbia più o meno diritto a, come direbbe Paperino, un posto di lavoro adeguato alle proprie capacità, il problema è quello della dislocazione e ricollocazione del potere decisionale-strategico a seguito di precise e dissennate scelte formativo-scolastiche che apparentemente erano il massimo della democrazia ma che, in realtà hanno oscenamente favorito la verticalizzazione del potere . Ricolfi, è vero, è nel giusto quando coglie la dissennatezza di queste scelte ma ahimè egli è completamente sordo verso l’aspetto polemologico di tutta la questione e quindi egli risolve il tutto dando dei “choosy” (orribile modo di esprimersi che indica il disgustoso livello di colonizzazione che ha raggiunto la nostra “intellighenzia”) a chi rifiuta posti di lavoro meno qualificati, risolvendo, quindi, la questione in un sciocco e sterile moralismo. Tuttavia non sono nemmeno nel giusto, e qui tocchiamo veramente il nocciolo della questione che non è tanto politica ma di fondazione delle “categorie del politico”, coloro che rifiutando lavori depotenzianti la propria capacità di incidere nel conflitto strategico politico-economico lo fanno in nome di una vecchia e castrante (castrante per i poveri cristi che con questa mentalità leggono le cose del mondo) mitologia dei diritti. Un rifiuto della propria condizione che ha come presupposto la puerile credenza nella possibilità di un paese dei balocchi il cui diritto a fruirne viene negato dai “cattivi” alla Ricolfi o da un indicibile uomo nero, il vero crumiro del terzo millenio, disposto a tutto pur di sopravvivere, soprattutto disposto ad infischiarsene delle regole e delle convenzioni dello stato sociale con tutta la sua panoplia di diritti dei lavoratori inscritti nel regno dei cieli (mentre in realtà questi diritti non erano altro che la formulazione poetico-politico-simbolica di precisi rapporti di forza). In realtà, il problema non è che i giovani (e in extenso, tutti gli italiani e, volendo allargare l’orizzonte, tutte le classi operaie ed impiegatizie delle cosiddette democrazie industriali) siano choosy: il problema è che lo sono troppo poco e si sono abituati a trangugiare come verità rivelate quelle che sono solo favole di fate e racconti mitologici, una mitologia i cui capisaldi sono che la cosiddetta democrazia sia una sorta di festa di gala garantita all’infinito da un sempre progressivo incedere della storia e che, in ultima analisi, si abbia un diritto supremo: il diritto ad avere dei diritti. Per sbugiardare quindi tutte le “ricolferie” (e di conseguenza per dare un reale impulso energetico e a una nazione bistrattata a livello internazionale e alla sua popolazione che non sa più veramente a che santo votarsi, o, ancor peggio, ha dimenticato sia il nome di quei santi che potrebbero veramente aiutarla e ha anche dimenticato le fondamentali preghiere) si ritorni quindi ai fondamentali: un certo Machiavelli, un certo Mazzini, un certo Marx, un certo Gramsci. Non quindi facili formulette, non certo, quindi, progetti irenicamente liberal-liberisti non contraddittori ma al cui interno nascondono paurose voragini ma alla consapevolezza che il conflitto è il vero nerbo della società (e ovviamente il ritorno alla consapevolezza che se conflitto deve essere, a questo conflitto bisogna prepararsi: e qui torniamo all’unico aspetto che condividiamo del ragionamento di Ricolfi sui diplomifici e laurefici nazionali). À suivre …

Massimo Morigi – 5 gennaio 2017

UNA ANALISI DETTAGLIATA del voto statunitense, una chiosa di Massimo Morigi

Al netto del lucido ragionamento di Gianfranco Campa – il quale, sia detto per inciso, denota una conoscenza diretta dell’odierno scenario politico statunitense, una conoscenza di prima mano e non ridicolmente libresca come quella di molti italici e professorali tromboni che vanno per la maggiore e che inquinano le fonti di una sempre più sprovveduta pubblica opinione e tanto sono graditi al ceto dei “semicolti di sinistra, ma per essere equanimi anche di destra – l’ “Analisi dettagliata del voto statunitense” non è solo un ottimo rapporto di servizio su come sono andate effettivamente le cose in questa elezione e sul perché Trump è stato eletto ma in questa analisi traslùce anche una lezione di teoria (e prassi) politica. Scrive Campa in relazione della vittoria di Trump ottenuta tramite la prevalenza dei voti dei collegi elettorali ma non attraverso la maggioranza dei voti degli elettori (i quali con un buon margine hanno favorita la sua rivale Clinton): “In Italia è difficile da concepire l’idea del collegio elettorale poiché il sistema politico americano, voluto dai suoi padri fondatori, si basa più sul concetto di repubblica federale rispetto ad una democrazia pura. Il collegio elettorale è stato concepito per due motivi: il primo scopo era quello di creare un cuscinetto tra la popolazione e la selezione di un presidente. I padri fondatori avevano paura di una elezione diretta del presidente. Temevano un tiranno che avrebbe potuto arrivare al potere. Il maggior proponente del sistema a collegio elettorale, Alexander Hamilton e il resto dei Padri Fondatori vedevano nel collegio elettorale un baluardo contro l’avvento di un personaggio in grado di manipolare la massa dei cittadini a proprio vantaggio.” Con queste poche righe sono così demolite tutta l’attuale retorica politica italiana che, indifferentemente da destra come da sinistra, indica come uno dei peggiori mali in assoluto il fatto che l’Italia non sia un paese democratico perché la mediazione fra corpo elettorale e ceto politico impedisce l’espressione delle migliori energie del paese e la retorica che ha come sottotitolo la seguente scritta: “bisogna imitare le istituzioni politiche degli Stati uniti, che è il vero paese dove il potere viene espresso direttamente dal popolo”. Nella realtà, non ci potrebbe essere più grande mistificazione; nella realtà, anche non volendo tener conto dell’elementare fatto che nella democrazia americana, in misura immensamente maggiore di tutte quelle che si sono affacciate nell’epoca moderna, sono i grandi apparati e le grandi corporation ad essere i veri decisivi elettori e che il popolo non conta un emerito …, si ignora l’elementare fatto che i padri costituenti di quel paese non vollero costruire una democrazia, che ritenevano potesse cadere in mano della dittatura di una maggioranza o di una minoranza, ma vollero costruire una repubblica che in virtù della presenza nel suo corpo politico di diversi e configgenti interessi – e in virtù del fatto che questi diversi e configgenti interessi erano sparsi su un grande territorio, gli Stati uniti appunto – molto difficilmente sarebbe scivolata in una dittatura, che per la maggior parte di questi padri costituenti era la naturale evoluzione della democrazia. La più significativa espressione di questa modalità di pensiero è la teoria dell’ “extended republic” di James Madison, il quale nel Federalista n. 10 scriveva a proposito dei pericoli della dittatura di una parte politica, non importa se questa parte sia, rispetto alla popolazione, una minoranza od una maggioranza. “A republic, by which I mean a government in which the scheme of representation takes place, opens a different prospect, and promises the cure for which we are seeking. Let us examine the points in which it varies from pure democracy, and we shall comprehend both the nature of the cure and the efficacy which it must derive from the Union. The two great points of difference between a democracy and a republic are: first, the delegation of the government, in the latter, to a small number of citizens elected by the rest; secondly, the greater number of citizens, and greater sphere of country, over which the latter may be extended.” Quindi per Madison repubblica è da contrapporsi a democrazia (potenzialmente illiberale), e deve essere una repubblica basata sulla delega della rappresentanza piuttosto che una democrazia (nella descrizione che ne fa Madison noi diremmo una democrazia diretta, ma, alla luce dell’insoddisfazione non molto meditata delle odierne masse per una democrazia avvertita distante, siamo sicuri che Madison non cogliesse nel segno nella sua critica alla democrazia?) : “A republic, by which I mean a government in which the scheme of representation takes place, opens a different prospect, and promises the cure for which we are seeking. Let us examine the points in which it varies from pure democracy, and we shall comprehend both the nature of the cure and the efficacy which it must derive from the Union. The two great points of difference between a democracy and a republic are: first, the delegation of the government, in the latter, to a small number of citizens elected by the rest; secondly, the greater number of citizens, and greater sphere of country, over which the latter may be extended.”, e deve essere per Madison una repubblica che per estensione di territorio abbia come costituzione materiale il bilanciamento effettivo delle varie forze politiche, economiche e sociali: “The other point of difference is, the greater number of citizens and extent of territory which may be brought within the compass of republican than of democratic government; and it is this circumstance principally which renders factious combinations less to be dreaded in the former than in the latter. The smaller the society, the fewer probably will be the distinct parties and interests composing it; the fewer the distinct parties and interests, the more frequently will a majority be found of the same party; and the smaller the number of individuals composing a majority, and the smaller the compass within which they are placed, the more easily will they concert and execute their plans of oppression. Extend the sphere, and you take in a greater variety of parties and interests; you make it less probable that a majority of the whole will have a common motive to invade the rights of other citizens; or if such a common motive exists, it will be more difficult for all who feel it to discover their own strength, and to act in unison with each other. Besides other impediments, it may be remarked that, where there is a consciousness of unjust or dishonorable purposes, communication is always checked by distrust in proportion to the number whose concurrence is necessary.” L’attuale “extended republic” statunitense ha fatto sì che venisse eletto un uomo che non ha ricevuto la maggioranza dei voti popolari ma, quale che sia il giudizio sul personaggio, ha fatto sì che una maggioranza che per ignoranza si suole definire di sinistra ma che in realtà viene turlupinata con una ideologia (e pratica operativa) composta da un feroce mercatismo e dall’esaltazione di farlocchi diritti non attinenti ai rapporti di forza e/o di collaborazione fra le varie classi ma al pubblico riconoscimento delle proprie intime pulsioni (che proprio perché intime, dovrebbero accuratamente rimanere fuori dalla sfera pubblica) sia rimasta a bocca asciutta facendo invece prevalere rozzi contadini, piccoli proprietari, operai, casalinghe, persone certamente con poca cultura libresca ma con grande cultura per quanto riguarda il senso di responsabilità e la comprensione che una “vita buona” non può certo venire dal proclamare il proprio orientamento sessuale (il quale è una cosa che va praticata e non certo declamata) e facendosi invadere da esotiche masse di disperati ma cercando di costruire col lavoro la propria esistenza. Saprà Trump tenere fede, seppur in minima misura, alle promesse fatte e riorientare nel senso dei padri fondatori, la vecchia “extended republic” che col magnate sta cercando di ottenere una sua reviviscenza? Difficile dirlo, Campa in proposito non è ottimista ma al di là di previsioni sempre molto difficili da formulare, bisogna riconoscere che Trump, nolens volens, ha innestato un processo con grandi potenzialità rivoluzionarie. Ma tornando alla lezione che l’America ha saputo dare in questa occasione al Vecchio continente e all’Italia in particolare, non si può pretendere che ciò venga oggi compreso dai ceti semicolti di sinistra e di destra e tantomeno dalle masse instupidite da settant’anni di pseudodemocrazia (e, ancor peggio, di pseudocomprensione del significato della stessa). Forse la lezione dovrebbe però essere compresa da coloro (molto pochi per la verità, temo) che un tempo furono ammiratori di un tale che sosteneva in politica valeva la massima dell’ “analisi concreta della situazione concreta”. Leniniana “analisi concreta della situazione concreta” che ha permesso a Trump di ottenere la presidenza degli Stati Uniti d’America e rifiuto della quale che fa sì che i ceti semicolti di destra e sinistra possano fare i cani da guardia delle masse sempre anonime e conculcate (brutto sogno quelle della moltitudine negriana!). Anche da Trump e dell’ “extended republic” statunitense (per carità, non dalla democrazia americana, mai esistita, nemmeno nei sogni dei maggiori fra i fondatori di quella nazione) bisogna quindi ripartire per impostare ex novo un discorso ed una pratica rivoluzionaria che basata sul lagrassiano conflitto strategico getti nella pattumiera della storia gli ultimi settant’anni di primitivismo teorico e pratico della politica italiana e dei cosiddetti paesi democratici occidentali.
Massimo Morigi – 15 dicembre 2016

1 9 10 11 12