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Il Pakistan come conseguenza della divisione dell’India britannica nel 1947_di Vladislav Sotirovic

Il Pakistan come conseguenza della divisione dell’India britannica nel 1947

Il Pakistan come paese

Il Pakistan è un paese situato nella parte nord-occidentale del subcontinente indiano. Confina con l’Iran a ovest, l’Afghanistan a nord-ovest, la Cina a nord-est e l’India a est, con sbocco diretto sul Mar Arabico.

Dal punto di vista fisico, il Pakistan è separato dal resto dell’Asia a nord dalle catene montuose dell’Hindu Kush, del Karakorum e dell’Himalaya. Altre catene montuose scendono sul lato occidentale del Pakistan fino al Mar Arabico. Sotto di esse si trova la lunga e ampia valle del fiume Indo. La provincia della Frontiera Nord-Occidentale comprende il Passo Khyber, molto alto e strategicamente importante. Verso sud si trova l’altopiano del Punjab. È irrigato dagli affluenti del fiume Indo, dove si coltiva il grano. Tuttavia, a est si trova il deserto del Thar. È importante sottolineare che tra il deserto del Sind, che copre parte del delta dell’Indo, e il Baluchistan nelle colline occidentali, ci sono grandi riserve di gas naturale e, in una certa misura, di petrolio, che si trova anche nel Punjab.

Il Pakistan ha un’economia prevalentemente agricola. I principali prodotti di esportazione sono il cotone grezzo e lavorato, i tessuti di cotone e il riso. Altri prodotti agricoli includono la canna da zucchero, il grano e il mais. Anche l’allevamento del bestiame è importante. Il settore tessile è una parte importante dell’industria pakistana e contribuisce in modo sostanziale alle esportazioni del Paese. Altre industrie includono quella chimica, la produzione di cemento, i fertilizzanti e la trasformazione alimentare.

Popolazione

Gli abitanti del Pakistan sono per circa l’88% musulmani pakistani, mentre circa l’11% sono indiani (hindi). Tra tutti gli altri gruppi etnici, i baluchistani sono i più numerosi. Il Baluchistan, come provincia, è la meno popolata. Con la divisione dell’India britannica nel 1947 in Pakistan e India, il Pakistan ha ricevuto una popolazione prevalentemente musulmana e un numero maggiore di indiani, e viceversa. Nel periodo dal 1947 al 1950, lo scambio di popolazione tra Pakistan e India, compresa la pulizia etnica, ha raggiunto la scala di diversi milioni di abitanti in entrambe le direzioni. In Pakistan, la lingua ufficiale è l’urdu (la variante musulmana della lingua hindi), che nel 1972 ha sostituito l’inglese come lingua ufficiale. Tuttavia, sono in uso diverse altre lingue locali/regionali. Nel 1970, l’80% degli abitanti del Pakistan era analfabeta, il che causava una carenza di personale professionale e istruito, particolarmente sentita nell’amministrazione e nell’economia.

Per garantire un’istruzione più completa e ridurre l’analfabetismo, nel settembre 1972 furono nazionalizzati 176 college privati. All’epoca in Pakistan c’erano tre università. Circa il 15% della popolazione viveva nelle città, mentre c’erano 10 città con oltre 100.000 abitanti. La capitale del Pakistan era Rawalpindi dal 1959, mentre oggi è Islamabad. Fino al 1959, la città più grande del Pakistan era Karachi. Oggi il Pakistan ha una popolazione di 251 milioni di abitanti su una superficie di 881.913 km². Il PIL è di 373 miliardi di dollari, mentre il PIL pro capite è di quasi 1500 dollari.

Organizzazione dello Stato

Con la divisione della colonia britannica dell’India (britannica) in due Stati, India e Pakistan, il 15 agosto 1947, il Pakistan ottenne lo status di dominio e, secondo la costituzione del 29 febbraio 1956, divenne una repubblica – la Repubblica Islamica del Pakistan, composta da due unità federali: Pakistan occidentale e Pakistan orientale.

Con il colpo di Stato militare dell’ottobre 1958, la costituzione fu abolita e ne fu adottata una nuova nel marzo 1962. Questa nuova costituzione prevedeva un sistema di governo federale, un sistema di governo presidenziale (il presidente deve essere musulmano ed è eletto per 5 anni), un’Assemblea Nazionale di 156 deputati (78 deputati provenienti da ciascuna delle due unità federali) e due capitali: Islamabad nel Pakistan occidentale (sede del governo centrale) e Dhaka nel Pakistan orientale (sede dell’Assemblea Nazionale). Tuttavia, la costituzione del 1962 fu abrogata il 25 marzo 1969 e ripristinata solo parzialmente il 4 aprile 1969.

Una svolta nella storia del Pakistan fu la separazione del Pakistan orientale dal Pakistan occidentale nel dicembre 1971, quando il Pakistan orientale si dichiarò Stato indipendente con il nome di Bangladesh. Pertanto, il nuovo Stato del Pakistan comprendeva solo il territorio dell’ex Pakistan occidentale. Nel gennaio 1972, il Pakistan uscì dal Commonwealth britannico.

Storia moderna del Pakistan fino alla divisione del 1947

Il Pakistan è un paese che è stato sottoposto al controllo coloniale britannico nella prima metà del XIX secolo, quando entrò a far parte della (Grande) India britannica. È interessante notare che il suo nome deriva dalla parola “pak” (ritualmente puro) in lingua urdu. In altre parole, significa “Terra dei puri”. Tuttavia, è anche l’acronimo dei suoi popoli più importanti: punjabi, afghani, kashmiri, sindhi e baluchi.

All’inizio del XX secolo, ci furono solo alcuni tentativi di indipendenza. Uno dei motivi era che le popolazioni che vivevano nel nord, nel Punjab e nel Kashmir, avevano tratto grandi benefici dal Raj britannico e occupavano posizioni importanti nell’amministrazione e nell’esercito dell’India britannica. Fu tra le minoranze musulmane più svantaggiate dell’India centro-settentrionale che cominciò a formarsi un’identità culturale e politica musulmana, principalmente grazie a diversi riformatori e organizzazioni come la Lega Musulmana, un partito fondato il 30 dicembre 1906 a Dacca. In origine, il partito lottava per una rappresentanza musulmana separata a tutti i livelli di governo. Il partito sosteneva di rappresentare le lamentele e le richieste dell’intera comunità musulmana all’interno dell’India britannica.

Sotto la guida del suo leader, Jinnah, la Lega Musulmana avanzò diverse richieste per ottenere maggiori diritti per i musulmani indiani in un vasto paese come l’India britannica, dove all’epoca i musulmani rappresentavano circa un quarto della popolazione totale. Tuttavia, questa richiesta politica divenne ancora più urgente con il crescente slancio del Congresso Nazionale Indiano (INC) guidato da M. Gandhi, che rese inevitabile l’autogoverno o addirittura l’indipendenza sotto un governo dominato dagli indù durante gli anni ’30. Nei primi decenni della sua esistenza, la Lega Musulmana perseguì il duplice obiettivo di ottenere maggiori diritti di autogoverno dal potere coloniale britannico e di ottenere maggiori diritti per i musulmani all’interno di tale sistema britannico. Per raggiungere il primo obiettivo, la Lega Musulmana collaborò con l’INC, con cui si alleò nel Patto di Lucknow del dicembre 1916. Tuttavia, la Lega fu in gran parte inefficace negli anni ’20, quando dichiarò di avere circa 1.000 membri in tutta l’India britannica. Ciò portò a un decennio, negli anni ’30, di una revisione importante degli obiettivi politici della Lega Musulmana e dell’organizzazione stessa, al fine di attrarre la disparata comunità musulmana.

Nel 1930, la Lega tenne la sua conferenza annuale per chiedere, per la prima volta, uno Stato musulmano separato nella parte occidentale dell’India britannica. Questa richiesta fu gradualmente accettata, in particolare dopo il risultato catastrofico ottenuto dalla Lega Musulmana nelle elezioni del 1937, quando conquistò solo 104 dei 489 seggi musulmani. Pertanto, il suo leader, Jinnah, cercò di ampliare la sua base popolare. Il 23 marzo 1940, la richiesta di uno Stato musulmano separato fu accettata come politica ufficiale del partito per gli anni a venire. Fu conosciuta come la Risoluzione del Pakistan o la Risoluzione di Lahore, che, di fatto, avvertiva che se le condizioni dei musulmani, specialmente nelle aree con una minoranza musulmana, non fossero migliorate, i musulmani avrebbero rivendicato Stati separati come loro patria. L’idea stessa di Stati musulmani separati si riferiva alle province occidentali dell’India britannica e del Bengala orientale. Nel 1944 la Lega Musulmana contava oltre 2.000.000 di membri. Nelle elezioni del 1945-1946 la Lega ottenne il 75% dei voti musulmani. Pertanto, la Lega Musulmana ottenne un mandato popolare per la creazione di uno Stato musulmano separato nelle regioni occidentali dell’India britannica. Questo obiettivo fu finalmente raggiunto con la creazione del Pakistan indipendente il 15 agosto 1947. Tuttavia, inizialmente dominante nella politica pakistana, dopo la morte del leader del partito, Jinnah, la Lega Musulmana mancava di una forza integrativa e nel decennio successivo si dissolse rapidamente in vari gruppi.

Tutti i paesi dell’Asia meridionale sono stati turbati dalla posizione speciale delle minoranze e dei gruppi regionali. Il tentativo del governo indiano di promuovere l’hindi si è presto scontrato con le richieste di una nuova struttura degli stati basata su criteri linguistici e, a partire dagli anni ’50, i confini degli stati sono stati ridisegnati. Tuttavia, il sentimento linguistico è rimasto forte, soprattutto nell’India meridionale, nello stato di Madras, che è stato ribattezzato Tamil Nadu. Prima del 1947, il Pakistan faceva parte dell’India britannica, ma in seguito al ritiro britannico dal subcontinente indiano nel 1947, il Pakistan fu creato come Stato separato, comprendente il territorio a nord-est e nord-ovest dell’ex India britannica, in cui la popolazione era prevalentemente musulmana. In Pakistan, le richieste linguistiche e regionali furono inizialmente respinte e le province separate del Pakistan occidentale furono fuse in un’unica unità. Tuttavia, le lealtà regionali costrinsero nel 1970 a un ritorno alle vecchie province, che rappresentavano le regioni linguistiche. Nel Pakistan orientale, la forza della cultura bengalese e le lamentele contro l’élite dominante del Pakistan occidentale alimentarono la richiesta di autonomia e, successivamente, di indipendenza.

La divisione del 1947

Poiché non fu possibile raggiungere un accordo su una forma unificata di indipendenza, fu necessario prendere una decisione sulla divisione del subcontinente indiano. Le aree del nord-ovest a maggioranza musulmana furono autorizzate a scegliere la separazione e la formazione di un nuovo Stato, il Pakistan. Le province dell’India britannica interessate votarono tramite i loro rappresentanti eletti o con un plebiscito. I governanti dei principati dell’India britannica scelsero se unirsi allo Stato indipendente dell’India o, laddove i loro confini coincidevano con la nuova linea di divisione, al Pakistan. Il Punjab e il Bengala furono divisi separatamente. L’indipendenza arrivò in India e Pakistan nell’agosto 1947, in Birmania nel gennaio 1948 e a Ceylon nel febbraio 1948.

In India, fin dall’inizio ci furono molti problemi. La maggior parte del subcontinente indiano desiderava rimanere unita sotto la guida di Nehru e del Congresso Nazionale Indiano. Tuttavia, la situazione esplosiva e l’impossibilità di raggiungere un accordo tra il Congresso e la Lega Musulmana guidata da Jinnah costrinsero il viceré Lord Mountbatten a intervenire e il 14 agosto 1947 il subcontinente fu diviso e nacque il nuovo Stato del Pakistan (composto fisicamente da due parti). Gli Stati principeschi (oltre 500) furono lasciati alle decisioni individuali dei loro governanti, che potevano, in effetti, unirsi all’India o al Pakistan se i loro confini coincidevano con le nuove linee di divisione.

Sia per l’India che per il Pakistan, la prima questione era la delimitazione delle frontiere tra i nuovi Stati. Tuttavia, questa questione riguardava in particolare le province del Punjab e del Bengala, dove le popolazioni erano così mescolate che la divisione sembrava l’unica soluzione praticabile (come in Bosnia-Erzegovina negli anni ’90). Ma la delimitazione dei confini attraversava aree che nel Punjab erano occupate da ricchi terreni agricoli popolati da sikh, musulmani e indù come vicini.

Ciononostante, la divisione dell’India britannica portò ben presto a violenti scontri tra indù e musulmani, seguiti da rivolte comunitarie, e iniziò un esodo in entrambe le direzioni, con i musulmani che si spostavano verso ovest e i sikh e gli indù verso est, causando la morte di oltre un milione di persone. Circa 7,5 milioni di rifugiati musulmani fuggirono dall’India verso entrambe le parti del Pakistan, mentre circa 10 milioni di indù e sikh lasciarono il Pakistan per l’India. La divisione del Bengala produsse risultati simili. Complessivamente, circa 500.000 persone persero la vita. Muhammad Ali Jinnah, presidente della Lega Musulmana, divenne il primo governatore generale (presidente) del Pakistan. Il nuovo Stato era composto dalle province occidentali del Baluchistan, del Sind, del Punjab e della Frontiera Nord-Occidentale (nota anche come Pakistan occidentale). Separata dal territorio indiano era la metà orientale del Bengala, che apparteneva anch’essa al Pakistan appena proclamato indipendente (noto come Pakistan orientale).

Oltre al reinsediamento dei rifugiati, i governi dovettero integrare gli oltre 500 stati principeschi. La maggior parte dei principi fu persuasa ad aderire prontamente all’India o al Pakistan. Hyderabad resistette e fu assorbita solo dopo l’intervento delle forze di sicurezza (polizia). Anche il sovrano del Kashmir esitò, e ne seguì un’invasione da parte delle tribù della Provincia della Frontiera Nord-Occidentale pakistana. Il Maharaja aderì quindi all’India, previa consultazione popolare del popolo del Kashmir, ma il Pakistan sostenne gli invasori tribali. La situazione fu stabilizzata solo grazie alla mediazione dell’ONU nel 1949.

Il nuovo Stato del Pakistan dovette affrontare fin dall’inizio numerosi problemi. Il più immediato fu la massiccia migrazione (circa 17,5 milioni di persone) causata dalla divisione dell’India britannica in uno Stato indù e uno musulmano. Inoltre, il Pakistan contestò i propri confini, entrando in competizione con l’India per il controllo del Kashmir. Questo scontro ha portato a relazioni ostili con l’India fino ad oggi e allo scoppio di tre guerre indo-pakistane. Inoltre, il Pakistan ha sofferto anche delle tensioni tra la maggioranza della popolazione che viveva nel Pakistan orientale e le cariche importanti nel governo, nell’amministrazione e nell’esercito occupate da funzionari provenienti dal Pakistan occidentale, più ricco e con un livello di istruzione più elevato. Questi problemi sono stati aggravati dalla totale mancanza di una tradizione o di una storia come Stato unico e unitario. Da un lato, il Pakistan orientale (o Bengala orientale) era relativamente omogeneo, ma dall’altro lato, il Pakistan occidentale era composto da regioni con economie ed etnie molto diverse e con diversi gradi di osservanza religiosa. Alcune tribù della Frontiera Nord-Occidentale osservavano devotamente l’Islam e avevano una storia di autonomia all’interno dell’ex sistema coloniale britannico. Esse erano in contrasto con l’élite più laica del Punjab, che era stata ben integrata nell’amministrazione coloniale britannica.

Una storia contemporanea del Pakistan dalla Partizione del 1947 fino all’11 settembre

Il problema di trovare un compromesso che creasse un’entità vitale, integrata e costituzionale ha tormentato il Pakistan durante la sua esistenza. Il Pakistan continuò ad essere formalmente governato dal Government of India Act del 1935 fino al 1956. La costituzione liberale del Paese fu osteggiata dai musulmani fondamentalisti e nel 1951 il primo ministro Liaqat Ali Khan fu assassinato da un fondamentalista afghano. Nel 1954 fu dichiarato lo stato di emergenza e nel 1956 fu adottata una nuova costituzione. Tuttavia, il nuovo assetto politico non riuscì a stabilizzare il Paese in modo sufficiente da impedire il colpo di Stato militare del 1958, guidato da Ayub Khan. Si trattò di un tentativo di adottare un sistema multipartitico, ma fallì e, di conseguenza, Ayub Khan impose la legge marziale nel 1958. Egli, infatti, abolì la democrazia recentemente instaurata senza incontrare molta resistenza e elaborò una seconda costituzione nel 1962.

D’altra parte, il decennio di potere di Ayub Khan produsse una crescita economica, seguita però da risentimento politico, poiché le due parti dello Stato pakistano erano fisicamente separate da mille chilometri di territorio della Repubblica indiana, indipendente e ostile. Le accuse dei bengalesi del Pakistan orientale contro la quota sproporzionata del Pakistan occidentale nelle risorse dello Stato portarono alla richiesta di autonomia regionale da parte della Lega Awami, guidata da Mujibur Rahman. Ciononostante, nella successiva guerra civile del 1971, i dissidenti bengalesi sconfissero l’esercito pakistano, con l’aiuto dell’India. Ciò portò alla creazione del nuovo Stato del Bangladesh nello stesso anno.

Nel 1965 il Pakistan tentò di infiltrare truppe nel Kashmir. Nei combattimenti che ne seguirono, l’India ottenne alcuni successi, ma nell’accordo raggiunto in seguito a Tashkent sotto l’egida sovietica, entrambi i paesi concordarono di tornare allo status quo. La sua precipitazione in una guerra costosa e infruttuosa con l’India per il Kashmir nel 1965 e le crescenti difficoltà economiche in Pakistan portarono infine alle sue dimissioni nel 1969. Le relazioni tra Pakistan e India continuarono tuttavia a essere tese e peggiorarono rapidamente nel 1971, quando il presidente militare pakistano Yahya Khan represse crudelmente le richieste di autonomia del Pakistan orientale (Bengala orientale, poi Bangladesh), che portarono 10 milioni di rifugiati a varcare il confine con l’India.

Nel 1970 furono organizzate le prime elezioni democratiche generali, che portarono al potere in Pakistan Zulfikar Ali Bhutto, leader del Partito Popolare Pakistano. Tuttavia, queste elezioni furono vinte dalla Lega Awami nel Pakistan orientale. Pertanto, l’establishment politico del Pakistan occidentale, guidato da Yahya Khan, rifiutò di cedere il potere e inviò truppe militari per assicurarsi il controllo del Pakistan orientale. Questa azione causò una breve ma estremamente violenta guerra civile e portò, dopo l’intervento militare indiano nel dicembre 1971, che sostenne la guerriglia del Bangladesh con potenti forze militari, che sconfissero l’esercito pakistano in due settimane, all’indipendenza del Pakistan orientale come Bangladesh. Zulfikar Bhutto, nuovo presidente dal 1971, creò un regime populista e socialista. Il suo programma di nazionalizzazione, opere pubbliche e indipendenza dall’aiuto finanziario degli Stati Uniti non riuscì a superare gli effetti negativi dello shock petrolifero del 1973, portando il Pakistan in una crisi economica. Introdusse riforme costituzionali, sociali ed economiche, ma nel 1977 fu deposto da un colpo di Stato militare guidato da Zia-ul-Haq e successivamente giustiziato.

Zia-ul-Haq migliorò le relazioni del Pakistan con gli Stati Uniti dopo l’invasione sovietica del vicino Afghanistan nel 1979, quando il Pakistan arrivò ad ospitare fino a tre milioni di rifugiati afghani, seguiti da basi per i guerriglieri afghani. L’assistenza militare e civile degli Stati Uniti portò a un’elevata crescita economica negli anni ’80. Tuttavia, Zia-ul-Haq morì in un incidente aereo nel 1988. Il suo successore, Ishaq Khan, supervisionò la transizione verso la democrazia, con le elezioni del 1988 vinte dalla figlia di Zulfikar Ali Bhutto, Benazir Bhutto. Lei non riuscì a stabilire il controllo sul Paese e fu destituita da Khan nel 1990 con l’accusa di corruzione. Tuttavia, fu rieletta nel 1993, ma ancora una volta faticò a mantenere il controllo in un Paese afflitto dalla criminalità, dal traffico internazionale di droga e dalla crescente assertività di alcune province pakistane (Baluchistan e Sind) e tribù (Provincia della Frontiera Nord-Occidentale).

Benazir Bhutto fu nuovamente destituita dal presidente Leghari con l’accusa formale di corruzione e cattiva amministrazione nel 1996 e fu infine sostituita da Mian Muhammad Nawaz Sharif (leader dell’Alleanza Democratica Islamica) nel 1997, che procedette a rafforzare la sua posizione modificando la costituzione, che limitava il potere del primo ministro (PM). Tuttavia, anche lui si scontrò con la magistratura, che cercò di conciliare con le sue politiche. Alla fine, nel 1999, cercò di introdurre la legge islamica in Pakistan, ma questo tentativo portò a manifestazioni diffuse, mentre allo stesso tempo il deterioramento della situazione economica aveva già eroso il sostegno popolare a Sharif, anche a causa della sua posizione filo-occidentale durante la prima guerra del Golfo/Desert Storm, 1990-1991. Il suo ordine all’esercito di ritirare le forze dal Kashmir e il licenziamento di Musharraf portarono a un colpo di Stato militare riuscito, guidato dallo stesso Musharraf, che sospese la costituzione, mise le istituzioni politiche e giudiziarie pakistane sotto il controllo militare e cercò di stabilizzare l’economia per placare i creditori internazionali. Dopo aver stabilito il controllo, il regime di Musharraf divenne più liberale. Tuttavia, solo dopo l’11 settembre 2001 il suo regime è stato accolto favorevolmente nell’arena internazionale occidentale. Il suo deciso sostegno alla guerra al terrorismo degli Stati Uniti ha portato grandi vantaggi in termini di politica estera e gli ha permesso di ottenere i tanto necessari prestiti internazionali occidentali. Tuttavia, la sua posizione filo-statunitense è stata criticata da molti fondamentalisti e radicali islamici in Pakistan, tanto da costringerlo a moderare la sua posizione nei confronti dei gruppi islamici radicali in Kashmir. Nel 1998, il Pakistan ha effettuato una serie di test nucleari sotterranei in risposta a un programma simile del principale nemico regionale, l’India.

La situazione politica in Pakistan è rimasta turbolenta, con violenze interetniche a Karachi, seguite da problemi economici nazionali. L’espansione industriale pakistana ha privilegiato il settore privato e i beni di consumo. Ciononostante, la disoccupazione è aumentata più rapidamente della nuova produzione e fino al 70% della popolazione dipende ancora dall’agricoltura. Sia il governo indiano che quello pakistano hanno posto maggiore enfasi sul miglioramento dei raccolti. Sebbene il tasso di crescita rimanga lento, sia l’India che il Pakistan sono riusciti a raggiungere l’autosufficienza alimentare. Tuttavia, circa il 40% della popolazione rurale rimane denutrita a causa del reddito molto basso.

Infine, dal 1947 al 1971, ci sono state tre guerre tra Pakistan e India: la prima (1947-1948), la seconda (1-23 settembre 1965) e la terza (3-16 dicembre 1971). Queste guerre indo-pakistane furono il risultato di questioni irrisolte, ma soprattutto territoriali, tra Pakistan e India, emerse dopo la divisione britannica del subcontinente indiano, ovvero dell’India britannica, nell’agosto 1947 tra questi due Stati. Come conseguenza della terza guerra, il Pakistan perse i suoi territori orientali, sui quali fu formato il nuovo Stato del Bangladesh. Dopo la guerra, l’equilibrio generale di potere nel subcontinente indiano cambiò a favore dell’India. L’India migliorò anche la sua posizione strategica e geopolitica. Tuttavia, la regione del Kashmir è rimasta fino ad oggi motivo di discordia tra Pakistan e India.

Dr. Vladislav B. Sotirovic

Ex professore universitario

Ricercatore presso il Centro di studi geostrategici

Belgrado, Serbia

© Vladislav B. Sotirovic 2025

www.geostrategy.rs

sotirovic1967@gmail.com

La doppia Kansas PNL: eretici nel ventre del sistema_di Cesare Semovigo

La doppia Kansas PNL: eretici nel ventre del sistema

Quando il dogma si incrina sotto il peso della realtà, nascono le conversioni più radicali. Jeffrey D. Sachs e Alessandro Orsini rappresentano il raro caso di insider che, dopo aver plasmato e servito l’establishment atlanticista, ne hanno smascherato le contraddizioni mortali con il rigore di chi conosce i meccanismi dall’interno. Le loro storie non sono semplici pentimenti, ma veri tradimenti intellettuali — i più pericolosi, quelli che costringono il potere a guardarsi allo specchio.

Sachs, l’enfant prodige di Harvard, per anni è stato il sacerdote della shock therapy: Bolivia, Polonia, Russia. Dietro i trionfalismi delle privatizzazioni lampo si nascondeva un bilancio di sangue. Milioni di morti premature, sistemi sanitari devastati, aspettative di vita crollate. I dati veri — non quelli dei report ottimisti — raccontano una verità scomoda: quando il dogma del mercato viene applicato senza pietà, le conseguenze sono genocide economiche.

La dissonanza sachsiana emerge crudamente dai suoi scritti e dichiarazioni recenti. Lo stesso uomo che nel 1994 dichiarava che “la terapia d’urto in Russia è necessaria e funziona”, nel suo *A New Foreign Policy* (2018) attacca frontalmente “l’eccezionalismo americano che ha creato instabilità globale”. Dalla cattedra della Columbia, nella sua pagina su Project Syndicate, non usa mezzi termini: “L’allargamento NATO è stato un errore strategico che ha portato direttamente al conflitto ucraino”. Non è una posizione di rottura casuale ma il ritratto di un tecnocrate che, pur restando dentro le istituzioni che lo hanno formato, trasforma la contrizione in metodo critico. Dall’analisi delle guerre in Iraq e Afghanistan all’ammissione dell’errore sulla gestione della Russia postsovietica, Sachs denuncia il fallimento morale delle politiche di cui è stato architect — la distruzione degli stati, il saccheggio delle economie, la cooptazione delle élite locali, la creazione di oligarchie mafiose. L’uomo che ha formato quadri e dirigenti politici ora attacca il sistema che li ha plasmati, ma sempre giocando dentro le regole, evitando un’uscita radicale.

Dall’altra parte dell’Atlantico, Alessandro Orsini ha vissuto un percorso speculare, benché in scala e registro diversi. Docente alla LUISS e voce mediatica rassicurante del mainstream euro-atlantico in tema di sicurezza, ha costruito una narrativa allineata alle strategie antiterrorismo e interventiste globaliste, interpretando il terrorismo internazionale come minaccia da annientare senza concessioni e criticando apertamente gli stati accusati di sostenerlo.

Ma con l’esplosione del conflitto ucraino nel 2022, Orsini si trasforma. Nel suo libro *Ucraina. Critica della politica internazionale* denuncia che “l’Occidente ha ignorato le legittime preoccupazioni di sicurezza russe, provocando il conflitto”. Scopre il realismo geopolitico, ricacciando indietro la retorica moralistica dei talk show. Il risultato è una frattura relazionale intensa: la LUISS interrompe i rapporti con l’associazione che gestiva l’Osservatorio sulla Sicurezza Internazionale e il portale viene chiuso. Ma Orsini non si arrende, moltiplica le pubblicazioni e gli interventi, diventando una voce sgradita che ricorda come la sicurezza collettiva si costruisca con l’equilibrio diplomatico, non con l’espansionismo militare.

Il punto destabilizzante che lega le due figure è il loro passato: Sachs non è un outsider, ma l’architetto delle politiche neoliberali di shock; Orsini non è un ingenuo pacifista, ma l’esperto che per anni ha costruito la narrativa securitaria mainstream. Il loro “dietrofront” assume un valore particolare perché proviene da chi quelle strade le ha progettate e battute, percorrendo e plasmando i sentieri del dogma che oggi mettono in discussione.

Cadranno le maschere se ricordiamo che entrambi operavano in un sistema che George Kennan, già nel 1997, definiva “un errore fatale” nel contestare l’allargamento NATO, e John Mearsheimer, nel 2014, aveva analizzato come profezia autoavverante quella dinamica che stava generando reazioni russe inevitabili e prevedibili. Nel frattempo, il Project for the New American Century teorizzava senza remore la supremazia militare globale preventiva. Proprio quelle ricette sono state messe in pratica mentre loro ne reclamavano le virtù, convinti di costruire un mondo migliore.

La peggiore cecità non è non vedere, ma portare in tasca quei testi fondativi fingendo che non significhino ciò che dicono.

Parallelamente, emergono convergenze e differenze emblematiche. Entrambi hanno goduto di piena cittadinanza al centro del sistema: Sachs a Harvard, Columbia e ONU; Orsini nel circuito LUISS, think tank e media mainstream. Entrambi hanno costruito e praticato narrazioni compatibili con l’ordine dominante. Entrambi, dopo la rottura, non sono fuggiti ai margini, ma hanno scelto la critica dall’interno, rimanendo in ambienti accademici o para-istituzionali.

Diversamente, Sachs lavora su scala globale, nella macroeconomia e nella governance; Orsini dal suo canto si muove nel circuito della sicurezza tra Italia ed Europa, passando da un registro istituzional-tecnocratico a un confronto polemico e televisivo. Sachs ha messo insieme anni di contrizione analitica, Orsini invece è stato travolto dallo shock immediato e dilagante della guerra in Ucraina.

Aneddoti emblematici gettano luce su queste diverse traiettorie: la Bolivia 1985 è il primissimo laboratorio di quella terapia anti-inflazione rapida che, sebbene vincente in termini puramente macroeconomici, aprì un vasto capitolo di costi umani evitabili; la corsa contro il tempo in Polonia con il pacchetto Balcerowicz mostra come la “velocità” delle riforme sia scelta politica e mai neutralmente scientifica; la Russia ha vissuto un trauma privo di ammortizzatori sociali, con milioni di morti premature legate al vuoto istituzionale e alle privatizzazioni rapide: negare questa catastrofe è mala fede.

Analogamente, sul versante italiano, la chiusura improvvisa del portale “Sicurezza Internazionale” LUISS nel 2022 segna il restringersi disciplinare del campo intellettuale quando la cornice dominante crolla, un segnale di come il dissenso interno venga silenziato con mezzi amministrativi e politici. Infine, New York, la doppia vita di Sachs — quale guida di network ONU per la sostenibilità e nello stesso tempo critico della geopolitica che ostacola quegli stessi obiettivi — racconta la dialettica interna alle stesse istituzioni: dentro e fuori, contro e con, sempre però nel recinto del consenso possibile.

Qui si separano i cammini: il lettore smaliziato coglie il paradosso e accetta che due insider oggi critici non siano “puri”, e per questo sono preziosi; chi invece transita per conformismo, quieto vivere o mestiere scambia il monitoraggio dei sentiment per la comprensione storica reale. L’analisi senza memoria è un eterno A/B test sterile che non produce apprendimento. La malafede si traduce in un ritornello stanco: “non è successo”, “non è provato”, “non è rilevante”, mentre atti, carte e libri sono ben lì, disponibili.

Questo doppio tradimento intellettuale smaschera il gioco polarizzante della sedicente democrazia liberale: si celebra il dissenso solo se è decorativo, mentre la critica che colpisce il cuore viene travolta dalle furie istituzionali. Quando è l’insider a dire che il re è nudo, la risposta non è mai il confronto, ma la scomunica e l’espulsione.

La lezione è limpida: il potere tollera il dissenso sui dettagli ma non quello che minaccia i fondamenti. Eppure sono proprio queste abiure radicali, nate dalle ceneri del dogma, a dimostrare che la verità può emergere anche tra le sue stesse viscere. Sachs e Orsini ci insegnano che l’eresia più pericolosa nasce dall’ortodossia, e che la critica più efficace arriva da chi il sistema lo conosce perché ne ha fatto parte.

Come ricordano Bruno e Pasolini, patroni spirituali di ogni eresia intellettuale, la verità non ha bisogno di consenso ma di coraggio. A volte quel coraggio abita proprio dentro il cuore del sistema che pretende di domarla e addomesticarla.

Le parole di Sachs riecheggiano profetiche: *“La terapia d’urto non fu solo un errore tecnico, ma un fallimento morale. Abbiamo trattato le nazioni come laboratori, dimenticando che l’economia è fatta di persone.”* E ancora: *“L’espansionismo NATO è una nuova forma di imperialismo, più pericolosa perché velata da idealismo.”*

Orsini completa il quadro con un taglio altrettanto netto: *“Il terrorismo va combattuto senza compromessi, ma oggi la NATO ha creato più terrorismo di quanto ne abbia mai sradicato. Siamo diventati il motore dell’instabilità che dicevamo di voler fermare.”*

La parabola di Sachs non è quella di un uomo qualunque, ma del macellaio di Mosca. L’uomo che teorizzò e impose la “liberalizzazione” che nei fatti fu un’olocausto sociale; scout e former delle classi dirigenti future — quelle di Eltsin, di Gorbačëv, di decine di capi di stato post-sovietici — che diventavano così pedine di un disegno più grande.

Il suo passato è solido, intenso, insindacabile: la “shock therapy” non fu solo teoria ma pratica di devastazione sociale, a cui partecipò con spirito e determinazione da inquisitore economico. Poi una metamorfosi repentina: oggi urla che “l’imperatore è nudo”, smonta le menzogne della NATO e l’eccezionalismo americano, invoca una diplomazia che lo stesso establishment considera eresia imperdonabile.

La domanda allora sorge spontanea: di fronte alla potenza della sua autorevolezza e alla forza del ragionamento nel contesto più propizio, è davvero possibile sacrificare le categorie analitiche imprescindibili che fino a ieri sostenevano l’ordine? Oppure si tratta piuttosto di un riciclo astuto, di un’opera studiata per modulare la critica, adattarla e contenerla?

La risposta risiede nella perdita della memoria storica: tallone d’Achille di ogni vera analisi geopolitica. Non un dettaglio o una curiosità, ma la prova lampante che negli ultimi decenni le narrazioni dominanti hanno contaminato quasi ogni ambito intellettuale. Quando la complessità si riduce al relativismo autoreferenziale, quando il dibattito si cinge nel recinto delle “verità parallele”, allora non stiamo più indagando la realtà, ma recitando un copione imposto e mai davvero sfidato.

Nei conflitti, la memoria storica — fragile ma imprescindibile — stratifica identità, confini e rivendicazioni. Ignorarla significa perdere l’essenza stessa della geopolitica. Quello che oggi constatiamo è invece un suo azzeramento sistematico, sostituito da narrazioni piatte, semplificate, manipolatorie, che alimentano una spirale di “noi contro loro” e impediscono qualsiasi sguardo realmente obiettivo.

Populismi e nazionalismi non nascono per caso, né sono figli esclusivi della crisi economica. Sono invece figli manipolati di una memoria mutilata o abusata, strumento di stratagemmi politici che riscrivono la storia per orientare masse e giustificare guerre e dominazioni, con la complicità di un’egemonia culturale trasversalmente funzionale a questo scopo.

Il risultato è disperante: l’analisi geopolitica precipita in una girandola di opinioni soggettive, dove l’indagine perde la sua efficacia e diventa propaganda. Gli analisti stessi, per mantenere posizioni e finanziamenti, si piegano al sistema dominante. Senza radici storiche condivise, la critica perde mordente e resta intrappolata nelle stesse formule simboliche che vuole contrastare.

Non a caso, le crisi contemporanee—dalla dissoluzione post-sovietica alla guerra in Ucraina—vengono raccontate come eventi deflagrati e scollegati dal passato, quando sono invece il prodotto di dinamiche di lungo corso e memorie che nessuno vuole riconoscere. Chi tenta di riportarle alla luce viene marginalizzato o demonizzato.

Solo riscoprendo e rispettando la memoria storica è possibile uscire dal ciclo infinito di conflitti, comprese le loro radici identitarie, e costruire una pace fondata sulla consapevolezza condivisa degli errori commessi e delle responsabilità di tutti.

Senonché, senza memoria e con narrazioni inconsce e superficiali, qualsiasi analisi profonda è destinata a diventare tautologia sterile o strumento degli stessi poteri che dovrebbe criticare. Chiudere l’analisi nel relativismo è la prova più chiara di un gioco truccato: non per astuzia del banco, ma per conformismo dei giocatori.

In questo teatro di ipocrisie, il nostro compito non è certamente beatificare figure come Sachs e Orsini — che siano convertiti sinceri o strateghi dell’ultimo minuto poco importa — ma utilizzare le loro parabole per decostruire il dogma, ricostruire le cause, accettare i conti umani e diffidare delle parole salvifiche.

Pentitevi, prima che ritorni Nibiru: non il pianeta fantasma, ma la rotazione inevitabile e periodica della realtà che travolge retoriche e mistificazioni e riporta alla luce ciò che i manuali preferirebbero ignorare.

La verità non ha bisogno di urlare; le basta di esistere. Per rispetto, almeno leggiamola.

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Dalle feste ai follower privati_di Spenglarian Perspective

Dalle feste ai follower privati

spenglarian perspective 2 ottobre
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Il post precedente ha trattato di come gli stati cedano il passo ai partiti, che rappresentano la principale forma di leadership minoritaria durante la transizione alla civiltà. Gli stati sono unità inconsce di leader, coltivate dalla razza, mentre i partiti sono gruppi di intellettuali che si uniscono con un piano elaborato consapevolmente per plasmare idealisticamente la società. Quest’epoca di partiti dura circa 200 anni prima di sfociare nel cesarismo. Questo post ne documenterà il crollo.

La fine della democrazia e l’ascesa del cesarismo non sono indicate dalla scomparsa dei liberali e dei conservatori, ma dalla scomparsa dei partiti come forma di politica. I partiti sono caratterizzati dai loro sentimenti, dall’attenzione popolare e dagli ideali astratti, ma vengono gradualmente sostituiti da un seguito personale. Questo seguito può emergere, e di solito emergerà, inizialmente nel contesto di un partito, ma col tempo crescerà oltre la necessità di fingere di esserlo. Una classe dirigente ha istinti che la spingono ad affermare il simbolo della nobiltà, un partito ha un programma che la motiva a rendere il mondo un posto migliore, ma un seguito ha un maestro il cui carisma guida il gregge; l’elemento chiave in questo caso è il riemergere di una politica basata sulla lealtà.

Il primo esempio a Roma di un seguito organizzato fu Scipione il Giovane (185-129 a.C.). Il “Circolo Scipionico” o “Cohors Amicorum” comprendeva filosofi, poeti e giovani aristocratici amici o ammiratori di Scipione, e fu una delle prime organizzazioni di questo tipo in un’epoca in cui la struttura partitica dei Populares e dei Patrizi stava sgretolandosi. Questo avvenne anche in concomitanza con le riforme agrarie di Tiberio Gracco, che furono promosse e distrutte proprio sotto la sua guida.

Spengler contrappone questo nella nostra civiltà all’emergere di club e comitati elettorali americani all’inizio del XX secolo , ma se ci prendiamo la libertà di considerare il declino dell’Occidente, l’apice della carriera di Scipione e Gracco fu il 146 a.C. e il 133 a.C., che corrispondono al periodo della civiltà faustiana, rispettivamente il 2004 e il 2017, se si considerano gli inizi di entrambi i periodi della nostra civiltà (350 a.C. e 1800 d.C.). Donald Trump si è infiltrato nel Partito Repubblicano e, con la sola personalità, ha conquistato il Partito Repubblicano e ne ha cambiato il metodo di approccio. Nigel Farage nel Regno Unito ha condotto una campagna elettorale per diversi partiti senza riguardo per un programma, pur di perseguire i propri interessi. Ha quasi abbandonato la politica britannica finché non ha iniziato a emergere il movimento riformista, dove si è infiltrato anche lui. Al momento è divertente considerarli momenti storici, ma saranno ricordati così per le loro sfide dirette, non solo ai dogmi dell’establishment, ma anche alla struttura del partito. Questo senza menzionare l’enorme cultura degli influencer su Internet, dove chiunque abbia un microfono può raggiungere i vertici del potere grazie al numero dei suoi “follower”.

Questi quattro personaggi sono “pre-Cesari”. Si può dire che minino la democrazia, ma in realtà sono la democrazia nella sua forma più pura. La loro opposizione è sempre rappresentata dagli idealisti che vedono il loro ottimismo distrutto dalla durezza della storia, da qui la posizione dei Democratici come rappresentanti di un governo burocratico senza leader che bilancia il potere esecutivo.

L’era della politica di partito è un’era di teoria politico-sociale: piani e manifesti di partito per organizzare il mondo come dovrebbe essere. In Occidente abbiamo una linea di teoria sociale che va dall’Illuminismo, come Rousseau, all’età del materialismo spirituale, come Marx, che corrisponde alla linea da Platone a Zenone in Grecia. Queste teorie possono essere dibattute in termini di verità che postulano, ma nel contesto politico servono solo a organizzare un repertorio di slogan e grida di battaglia per movimenti ideologici che necessitano di armi efficaci. Possiamo discutere della teoria del valore-lavoro o dell’esistenza dei valori giudaico-cristiani, ma la sua applicazione pratica sarà sempre diversa da come appare nel dibattito accademico.

L’era della politica di partito è l’età dell’oro di idee come libertà, giustizia, umanità comune, progresso e, soprattutto, verità come strumenti efficaci nel discorso politico. Questo riserva la politica alla popolazione istruita e urbana. Sulla classe contadina non ha alcun effetto di default, e l’effetto che ha sugli abitanti delle città è limitato al lasso di tempo in cui le persone diventano apatiche all’idea che verità e giustizia possano manifestarsi nella sfera politica. Questo lasso di tempo dura circa due secoli prima che le persone gestiscano la situazione così com’è, anziché come dovrebbe essere .

All’inizio, abbiamo la follia dell’idealismo che porta le nazioni nelle mani di figure napoleoniche, come la Siracusa di Platone che cade in grembo a Dionisio I e la tirannia francese che cade in grembo al Direttorio francese e al Consolato di Napoleone. Dopo duecento anni di tentativi ed errori, il risultato finale è un ateismo verso le idee come qualsiasi tipo di miglioramento della politica. Dopo il II secolo a.C. – nell’età dei Cesari, dei Pompeo e dei triumvirati – solo il potere personale contava fino alla fine della storia della civiltà.

Spengler notò che ai suoi tempi non esisteva un vero successore del marxismo o del nazionalismo. Non spiegò l’ascesa delle tirannie ideologiche nel XX secolo , ma sia la Germania che la Russia dimostrarono la loro condizione temporanea prima che le ambizioni comuniste di quest’ultima si dissolvessero in un sobrio stato di sicurezza.

Grazie per aver letto Spenglarian.Perspective! Questo post è pubblico, quindi sentiti libero di condividerlo.

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Come il multiculturalismo consuma tutto_di Morgoth

Come il multiculturalismo consuma tutto

Sulla forza di gravità sotto la quale tutto si piega

Morgoth4 ottobre
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La prima volta che ho visto il termine “multiculturalismo” è stato in un articolo del Sunday Times intorno al 2003, scritto da Gordon Brown o che lo vedeva protagonista, e ho capito intuitivamente che mi stavano mentendo. Non mi piaceva la vaghezza del termine, che sembrava completamente inventato. Foneticamente, era brutto, con troppe consonanti troppo vicine tra loro. La frase che conteneva il termine affermava con insistenza che il multiculturalismo era un fatto, una realtà oggettiva e vissuta, e che lo era da molto tempo. Il multiculturalismo non era qualcosa che sarebbe arrivato, ma qualcosa che era già presente. La Gran Bretagna era multiculturale e non lo sarebbe diventata in futuro. Sapevo che questo era falso. Avendo trascorso quasi tutta la mia vita nel Nord-Est dell’Inghilterra, sapevo che non c’erano molte culture o popoli; c’eravamo solo noi.

L’impressione generale che avevo era che l’Inghilterra fosse in procinto di essere terraformata da qualcosa di simile a un Motore del Mondo fantascientifico. Inoltre, sapevo che non ci era mai stato chiesto nulla, e che non se ne era nemmeno parlato molto. Una domanda mi tormentava la mente: se la Gran Bretagna dovesse diventare una multiculturalità, cosa ne sarebbe di noi?

Ero un uomo adulto sulla ventina, e questo significava che avevo già accumulato decenni di esperienza di vita prima che il termine “multiculturalismo” venisse formalizzato. Vidi la band britpop Pulp al Gateshead Stadium nel 1995, e la Gran Bretagna non era così multiculturale a quei tempi. Avevo passato anni a bere a Newcastle e in tutto il Nord Est, e da nessuna parte c’era multiculturalità. I ​​lunedì di festa a Whitley Bay non erano multiculturali, e il lavoro orribile e massacrante che avevo a North Shields, circondato da gregari violenti, non era multiculturale.

C’eravamo solo noi.

Non abbiamo dovuto discutere molto di multiculturalismo o immigrazione perché non ci interessavano. Luoghi come Londra e Birmingham erano noti per la presenza di immigrati, ma la percezione era che fossero statici, un’eccezione di cui non preoccuparsi eccessivamente. Le minoranze etniche erano vere e proprie minoranze, rappresentando il 5% dell’intera popolazione, e anche in quel caso erano concentrate in poche aree.

Nella mia età adulta, siamo passati da una situazione in cui l’immigrazione e il multiculturalismo venivano appena discussi o addirittura presi in considerazione, a una situazione in cui non si discute quasi di nient’altro. La trasformazione dell’Inghilterra ha oscurato ogni altro aspetto della vita; non c’è via di fuga, non c’è via d’uscita. È diventata così onnicomprensiva, così normalizzata, che a malapena ricordiamo cosa significasse non doverci confrontarci quotidianamente.

Un Paese ha a disposizione solo una certa quantità di energia mentale e di dinamismo psichico, e in Gran Bretagna il multiculturalismo e l’immigrazione di massa ne assorbono quasi tutta la massa. I conservatori di destra spendono energie per attaccarlo, i progressisti per difenderlo. La struttura di potere investe risorse colossali per gestirlo, proteggerlo ed espanderlo.

In nome del multiculturalismo, abbiamo riscritto la nostra storia per collocare le persone di colore nel nostro passato, ci siamo soffocati con la censura e ci siamo strozzati con la regolamentazione per garantire che gli ingranaggi del progetto continuassero a girare. C’è la questione fondamentale dei numeri grezzi in arrivo e dei loro risultati in senso fisico nel mondo reale. Poi c’è l’energia riversata negli effetti secondari e nell’infinita distesa di soluzioni manageriali ai problemi creati dall’atto iniziale.

Un problema come la polizia a due livelli esiste perché esiste il multiculturalismo. Le leggi sull’uguaglianza razziale che costituiscono il fondamento su cui si basa la polizia a due livelli esistono perché esiste il multiculturalismo. Questa disparità innesca quindi un dibattito intellettuale sul problema, o addirittura sulla sua esistenza. Sono necessarie statistiche per dimostrare la tesi in un modo o nell’altro, e quindi l’affidabilità delle statistiche viene messa in discussione.

L’ingiustizia percepita del sistema di polizia a due livelli erode la legittimità della governance, creando così ulteriori problemi e dinamiche discorsive sulla natura del governo.

Un’organizzazione come la BBC potrebbe nascondere l’etnia di un assassino o di uno stupratore. La sua logica nel farlo è quella di continuare a oliare gli ingranaggi del progetto, ma così facendo non fa che aprire un’altra strada alla sfiducia e alla rabbia. Affermare con audacia che un immigrato, ad esempio, dall’Africa, abbia commesso un crimine terribile farebbe il gioco dell'”estrema destra”, quindi manipolano i fatti in modo superficiale per mantenere stabile la metanarrativa. Questo crea quindi un nuovo dialogo.

Ogni giorno, la vita politica del Paese è consumata da una questione o dall’altra legata al multiculturalismo. Un’intera conversazione può svolgersi sulla cronica mancanza di alloggi, con una parte che sostiene che ci siano troppe regolamentazioni e l’altra che ci siano troppe persone nel Paese. Gli stessi dibattiti si verificano sui posti letto del Servizio Sanitario Nazionale, sul traffico sulle strade, sulle scuole disponibili, sul mercato del lavoro o sulla sua mancanza.

Cosa può o non può essere detto o rivelato. Chi può o non può apparire in un dramma storico, o di cosa tratta il dramma, e chi offende.

Il nucleo del regime, i suoi portavoce e i suoi portatori d’acqua, fingono di ignorare questi sviluppi. Secondo loro, la Gran Bretagna se la cava bene, a parte qualche anomalia qua e là. Nulla è cambiato, e se si sottolinea una discrepanza, come l’etnia di Anna Bolena, si sta gonfiando una questione di poco conto e di nessuna importanza.

La morte della satira

Il comico inglese Harry Enfield è tornato alla BBC tra il 2007 e il 2012. Rispetto alla sua comicità più basata sull’osservazione dei primi anni ’90, nei suoi lavori degli anni 2000 si nota chiaramente una svolta più reazionaria. Tra i suoi bersagli figuravano una moltitudine di celebrità dell’establishment e presentatori televisivi pomposi, immigrati dell’Europa orientale, la band U2 e, più brutalmente di tutti, i progressisti della classe medio-alta.

Enfield stava facendo ciò che tutti i buffoni di corte dovrebbero fare: rivelare verità scomode a chi deteneva il potere. Le frecciatine, spesso dolorose o imbarazzanti, del buffone possono essere prese in buona fede e attuate, ignorate o peggio. L’idea è quella di trasmettere ciò che tutti coloro che sono al di fuori della corte pensano e come la gente comune percepisce coloro che detengono potere e influenza. Sebbene l’opera di Enfield di quest’epoca meriti certamente un’analisi più approfondita, qui vorrei soffermarmi su uno sketch basato su uno dei suoi bersagli preferiti, la serie televisiva Dragons’ Den .

Enfield critica aspramente il gruppo di ricchi imprenditori di alto rango, ridicolmente pomposi, e il loro apparente diritto a un’arroganza suprema giustificata semplicemente dalla loro ricchezza. In uno sketch, Enfield e Paul Whitehouse arrivano per proporre un’idea, in cui due maldestri imprenditori inglesi cercano di convincere i “Draghi” a investire nel loro concetto chiamato “Non posso credere che non sia crema pasticcera”. I Draghi, interpretati sempre da Enfield e Whitehouse, sogghignano e sputano veleno contro gli inglesi e la loro stupida idea, mandandoli via rapidamente senza alcun investimento.

I due uomini bianchi tornano più tardi, con la faccia dipinta di nero e l’accento giamaicano, e cantano un ritornello chiamato “Me kyan believe it nat custard” (Me kyan credeteci, non è crema pasticcera). I Dragons cadono ai loro piedi, inondandoli di denaro. Poi iniziano a competere tra loro in servili servilismi, temendo che il meno entusiasta di loro venga considerato razzista.

Lo sketch colpisce come un fulmine a ciel sereno perché Enfield mette uno specchio davanti a una particolare categoria di persone, dicendo: “Ecco cosa sei!”. Noi, gente comune, proviamo grande piacere in questa presa in giro perché sappiamo che si tratta di una verità dolorosa, a tratti grottesca. In un oceano di rumore, è un segnale chiaro e lampante che qualcosa non va.

È sia un commento sul multiculturalismo che una critica a chi detiene potere e influenza. Eppure, per qualche ragione, questo sketch colpisce più duramente di, per esempio, uno sketch di Spitting Image degli anni ’80 che prendeva di mira le politiche economiche di Margaret Thatcher. Si ha la sensazione che una menzogna concordata venga smascherata alla luce del sole e smascherata e presa a calci senza tante cerimonie. La moralità dei pretenziosi Draghi è una farsa e, in quanto tale, il loro status viene sminuito ai nostri occhi.

Enfield ha rivelato, in quella singola clip, l’intrinseca fragilità delle classi manageriali dedite a propagare attraverso “segnali di virtù” i valori dello stato multiculturale. I milionari del panel del Dragons’ Den adottano gli atteggiamenti e la visione del mondo dei brutali meritocratici del libero mercato, con l’unico argomento di loro interesse che è se un prodotto o un servizio sia degno o meno di investimento. Enfield ha insinuato che questa visione del mondo fosse una menzogna, una farsa, e che loro non fossero più estranei alla metanarrazione multiculturale centrale di quanto lo fosse un giornalista del Guardian . Il panel del Dragons’ Den , e quindi il neoliberismo, non era un’alternativa o un concorrente, ma piuttosto subordinato al dogma politicamente corretto dell’epoca.

Dal punto di vista dell’élite progressista britannica, Enfield commise una moltitudine di peccati contro di loro e i loro valori, il che probabilmente spiega perché, dopo che il suo programma fu spostato su BBC 2 per essere cancellato, non si permisero mai più di essere confrontati con simili prese in giro. La cornice esterna da cui le persone potevano osservare la narrazione generale sarebbe rimasta permanentemente esclusa.

Tuttavia, ciò segnò anche una transizione dal neoliberismo blairiano, in cui la giustificazione per l’immigrazione di massa era quella di infondere nuova energia e dinamismo nella società britannica, a una forma più stagnante in cui il mantenimento dell’ordine multiculturale divenne la sua stessa giustificazione.

Forza nella divisione

Quasi vent’anni dopo la messa in onda dello show di Harry Enfield, la narrazione è rimasta ermeticamente sigillata per una generazione e può fare riferimento solo a se stessa quando si cerca di dare un senso alla società britannica.

La nostra diversità è la nostra forza, ma dobbiamo essere sempre vigili contro coloro che cercano di dividerci.

Dopo il recente attacco terroristico a Manchester, in cui un estremista islamico ha attaccato una sinagoga, il Ministro degli Interni Shabana Mahmood ha messo in guardia il Paese dal dividersi eccessivamente sulla questione. Eppure, solo pochi giorni prima dell’attacco terroristico, Shabana Mahmood era al centro della discussione perché insisteva di essere inglese. Molti non erano d’accordo.

In effetti, l’intera settimana precedente aveva visto il Partito Laburista pronunciare duri discorsi sull'”estrema destra” e sul partito Reform di Nigel Farage. La settimana prima, tutti discutevano se i migranti stessero mangiando cigni, e la settimana prima ancora, la macchina mediatica si era scatenata incredula nel vedere Farage cambiare le regole sull’insediamento dei migranti e proporre di deportare fino a 600.000 persone. La settimana prima ancora, un gigantesco raduno di Tommy Robinson aveva invaso Londra per protestare a favore della libertà di parola e della fine dell’immigrazione di massa.

Prima del raduno di Robinson, una campagna di bandiere inglesi fu issata in tutto il paese, a simboleggiare una sorta di marcatura territoriale etnica. C’era stata la storia della ragazza scozzese che brandiva un’ascia e, prima ancora, la lunga e interminabile saga di proteste e tradimenti dell’hotel per migranti di Epping.

Si trattava di notizie di cronaca nazionale che si discostavano nettamente dalla cronologia di Xitter.

Lo Stato e i media istituzionali amano dipingere un quadro in cui disordini, atti di barbarie o controversie sono piccole eccezioni rispetto a un’esperienza per lo più positiva.

Ovviamente non è così.

Non ci limitiamo a “stare a guardare” mentre uno Stato distaccato si occupa di economia e politica estera; l’attività principale dello Stato e dei media è il disperato tentativo di tenere unita la società che hanno creato. Il multiculturalismo è diventato l’asse attorno al quale tutto ruota e si trasforma.

Possiamo immaginare la società olandese del Medioevo, spinta dall’impulso di ridurre le inondazioni marine, di arginare il flusso, di bonificare ossessivamente le paludi e di scavare dighe. L’acqua, il mare, avrebbe occupato i pensieri di ogni borghese e contadino, contadino e pittore. La società sarebbe stata deformata e piegata dalla minaccia, e spinta da una volontà faustiana di superarla gradualmente.

Anche la sfortunata posizione del Giappone, in cima a faglie tettoniche che regolarmente provocano terremoti che distruggono le sue città, potrebbe essere paragonabile.

Mi viene spesso in mente un curioso anime giapponese del 1995 intitolato ” Carne da cannone” . La storia è ambientata in una città immaginaria, interamente cinta da mura, che si dedica a sparare con i cannoni attraverso le sue linee difensive, verso la landa desolata al di là di esse. La base dell’intero ordine sociale e di tutta la sua gestione delle risorse è mantenere i cannoni in funzione alla stessa velocità, per sempre. La necessità di mantenere i cannoni in funzione è alla base del suo sistema educativo, dei suoi percorsi di carriera e della sua vita intellettuale. Non esiste un limite al fuoco dei cannoni, solo discussioni su come mantenerli in funzione al meglio. Allo stesso modo, non c’è alcuna reale indicazione che un nemico venga colpito, o addirittura se un nemico esista. È una società costruita su un’assurdità. Eppure l’assurdità è diventata così normalizzata e radicata nella vita della città che nessuno riesce a ricordare nient’altro.

Ci saranno più atrocità in Gran Bretagna a causa del multiculturalismo. Ci saranno più persone che andranno in prigione per aver espresso la loro opinione. Ci saranno più dichiarazioni vuote sull’unità che si trova nella divisione, mentre la divisione è anche una minaccia per la società. E ogni volta che accadrà, il regime insisterà che va tutto bene, e che dovremo affrontare qualche ostacolo prima di poter procedere verso la normalità.

Ma la normalità non arriva mai. O meglio, l’inquietudine, l’angoscia esistenziale degli indigeni, la censura, gli stupri, i crimini con armi da taglio e l’alienazione sono lo stato normativo delle cose, non, come ci viene detto, ostacoli lungo il cammino.

Una linea temporale alternativa era possibile. Ci sarebbero stati troppi anziani rispetto ai giovani lavoratori; il prezioso PIL sarebbe crollato. Ci sarebbero state abitazioni in abbondanza, il che avrebbe potuto alleviare la pressione sulla formazione delle famiglie. Con ogni probabilità, sarebbe diventato necessario un modello economico diverso. Ci sarebbe stata comunque una forza di attrazione sulla società, con ogni probabilità incentrata sull’invecchiamento della popolazione.

Tuttavia, qui e ora, nella nostra linea temporale, ci viene chiesto di continuare a sparare quei cannoni.

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