Talvolta qualcuno può avere la tentazione di porsi dal punto di vista (ovviamente inaccessibile) delle generazioni future che vedranno retrospettivamente il disastro contemporaneo.
Cosa vedranno?
È un gioco impossibile. Dunque giochiamolo.
Vedranno un’epoca permeata di censure inapparenti e di condizionamento sistematico, di cancellazione del passato e di ogni forma culturale ‘inappropriata’, di insofferenza per il rischio del ragionamento e del dialogo;
vedranno un’epoca in cui nel nome del Bene Universale si è schiacciata ogni decenza particolare;
un’epoca in cui nel nome del progresso tecnoscientifico si sono estinte ogni etica e deontologia della scienza;
in cui nel nome della retorica della libertà astratta si è prodotta la più grande forma di eradicazione della libertà reale, partecipativa, vissuta, di sempre;
in cui nel nome di un anticonformismo preautorizzato si sono create le condizioni per il più ottuso e punitivo dei conformismi: l’istinto di gregge delle pecore carnivore.
Ma per quest’epoca manca ancora un nome.
Candidati possibili, ma forzati sono: “L’epoca dei fascismi progressisti” o “L’epoca delle dittature progressiste”.
Ma si tratta di espressioni inadeguate, perché qui non avremo riedizioni di eventi storici noti (la storia non si ripete mai uguale) e perché non ci sarà bisogno di stravolgimenti istituzionali troppo smaccati.
No, non c’è davvero ancora un nome per quel che ci sta accadendo (che sta accadendo da almeno mezzo secolo, che dal 2008 sta accelerando, e che dall’anno scorso è in ulteriore accelerazione).
Il progresso, incarnato nell’idea di un “avanti” perfettamente vuoto, di un “di più” perfettamente inutile, è già da tempo insediato come idolo egemone. In suo nome ogni sacrificio può essere preteso.
Ed ora, in quanto idolo che chiede sottomissione, esso manifesta una crescente insofferenza per tutto ciò che è umano, troppo umano, e che perciò lo rallenta, lo impaccia (la “Antiquiertheit des Menschen” di cui parlava Anders).
Esseri umani ancora fastidiosamente vincolati ad antichi riti come la sessualità e la procreazione naturale.
Persone che ancora resistono la propria metamorfosi in pulegge e ruote liberamente trasferibili in qualunque anfratto della macchina planetaria, ove si richieda la loro manovalanza.
Comunità che non si rassegnano all’ottimizzazione di diventare centri commerciali o villaggi turistici.
Individui che invece di accettare di esprimersi facendo shopping compulsivo di gadget e uniformi firmate, manifestano ancora l’inquietante desiderio di venerare il cielo stellato sopra di noi e la vita brulicante in noi.
Tutto questo è un freno, è segno di arretratezza, è qualcosa verso cui ci viene insegnato a non aver più tolleranza: non abbiamo più tempo da perdere perché il domani ci attende, un po’ più disinfettato e un po’ più schiavo di oggi.