NEMICO, OSTILITA’ E GUERRA, di Teodoro Klitsche de la Grange

NEMICO, OSTILITA’ E GUERRA

  1. La crisi finanziaria che da qualche mese ha colpito l’ “eurozona” pone – di nuovo – il problema di comprendere se si tratti – come in parte è – di un fatto puramente economico – finanziario (dovuto in larga parte – secondo molti – a difetti di costruzione dell’euro, a cominciare dall’essere una moneta senza Stato) ovvero, in buona misura, politico.

Se si giudica dagli effetti finora prodotti, il carattere politico è innegabile: basti ricordare che, in meno di otto mesi, sono stati sostituiti i governi (d’investitura popolare) di due paesi dell’euro-zona (Italia e Grecia) con governi tecnici; mentre in un terzo (Spagna) il governo è stato battuto (e rimpiazzato) dall’opposizione. Fatto comunque in buona parte causato dalla crisi finanziaria. Non è sufficiente comunque giudicare la natura politica di una causa (situazione, fatto) dagli effetti che comporta: anche una malattia può portare – e la Storia ce lo dimostra – conseguenze politiche di grande rilievo[1]. Ciò non toglie che la malattia non sia una causa politica.

Ma del pari, che la causa sia normalmente qualificata come economica non implica che i soggetti che la producono e gli scopi che perseguono non possano essere politici. Un esempio (tra tanti) è la decisione degli Alleati nel 1941 di imporre l’embargo al Giappone sulle esportazioni di petrolio e materiali ferrosi (e altro). Ciò risultava più efficace dell’intero esercito cinese: infatti costrinse il Giappone ad attaccare le potenze anglosassoni prima della fine dell’anno. Se i generali nipponici avessero indugiato qualche altro mese, i giapponesi avrebbero subito una devastante crisi economica che li avrebbe costretti probabilmente a ritirarsi dalla Cina subito dopo. Il che significa che, anche se in quella situazione non si era fatto uso di violenza, non si può ridurre il tutto alla mera constatazione (economica) che il Giappone mancava di ferro e petrolio e che gli Alleati  – che ne abbondavano – avessero il diritto di non rifornirlo (giuridicamente ovvio). A qualificare quella misura come politica erano i soggetti (le potenze anglosassoni e i loro  satelliti) e lo scopo (ottenere la ritirata del Giappone dalla Cina occupata).

Ciò non toglie che, almeno in Italia, ma per quanto ne so, anche in Europa, quasi nessuno abbia dato attenzione al possibile carattere e scopo politico della crisi, e tanto meno all’esistenza di soggetti interessati a provocarla per raggiungere fini di carattere politico.

Il che, per certi aspetti non sorprende: rientra nella tendenza al rifiuto della politica (non solo dell’attività, ma della politica come costante dell’esistenza umana) che ha connotato (in parte prima piccola, ma crescente) la modernità, in particolare dal XVIII secolo e che negli ultimi decenni è diventata di gran lunga prevalente in Europa (e nell’Occidente).

Vent’anni fa era di moda la tesi – espressa da Fukuyama – che la conclusione della guerra fredda fosse la fine della storia: che il pianeta avesse solo una Superpotenza (gli U.S.A.); che non ci fosse nessun nemico, perchè quello esistente (il comunismo) era collassato e niente faceva presagire che il sistema comunista sarebbe risuscitato (valutazione – quest’ultima –  da confermare anche oggi).

Tutte tali tesi (e le altre similari) si fondavano su una convinzione: che il nemico non ci fosse più e neppure un conflitto (politico) estremo, per cui ogni tipo di lotta (residuata dopo la “fine della storia”) fosse gestibile con mezzi giuridici ed economici: governance, tecnocrazia, amministrazione delle cose al posto del governo degli uomini.

L’occidente, così rallegrato, si inoltrava, senza accorgersene, non tanto verso la fine della storia, quanto, probabilmente (e sicuramente l’Europa) nella propria decadenza costituita – sul piano interno – da una variante (peggiore) di quel “dispotismo mite”, profetizzato da Tocqueville nella parte IV della Democratie en Amérique.

Qualche anno fa “Catholica” organizzava un incontro a Parigi: il libro che ne raccoglie le relazioni ha il titolo – quanto mai significativo – de “La culture du refus de l’ennemi”. Difficilmente un titolo ha reso così efficacemente il senso del convegno[2], né poteva essere altrettanto preciso: perché un certo tipo di cultura non si limita a negare la (possibilità) di guerra (anche nel senso limitato che la si possa sempre evitare); ma si spinge assai più lontano, asserendo di possedere il rimedio che evita l’inimicizia e i conflitti.

  1. Tipico esempio ne è Marx (e i marxisti) che, nella fase compiuta del comunismo (la società senza classi), immagina una società umana senza Stato/i (senza politica), armonica e quindi non necessitante né di un apparato di difesa e di repressione: priva di tutti i presupposti del politico, come individuati da Freund, ovvero delle regolarità costanti della politica (Miglio). Quindi senza lotta per il potere (Tucidide), senza autonomia del politico (Machiavelli), senza sovranità (Bodin), senza classe politica (Mosca e Pareto), senza nemico (Hobbes e C. Schmitt), senza conflitti.

Qualcosa di assai simile all’età dell’oro degli antichi, alla terza età di certe riflessioni teologico-storiche cristiane (per lo più eretiche) o al “Paese dei balocchi” descritto in Pinocchio[3].

Ma, a parte l’illusione (prevedibile) teorie siffatte – o similari – sono connotate da un errore e confusione “fattuale” e concettuale: quella tra guerra, nemico, conflitto. Nel senso che evitare la guerra non significa far cessare l’inimicizia (né l’intenzione ostile e neanche il conflitto); affermare non c’è guerra, quindi non c’è nemico (né conflitto) significa confondere soggetti (nemico), presupposti (conflitto), fini (obiettivo politico) e mezzi (tra i quali c’è la guerra). La guerra è (un’attività) e uno status; come la pace essa è un mezzo della politica. La politica non implica (in ogni situazione) necessariamente e ineluttabilmente la guerra; ma non è pensabile senza nemico. Così il conflitto: questo presuppone solo la pluralità di soggetti – e correlative pretese – a uno stesso oggetto (bene). Dato che molti beni sono limitati, ne consegue che il conflitto esiste indipendentemente dai mezzi usati per risolverlo: la concorrenza o la guerra (o altro, come l’accordo)[4]. Mentre conflitto e nemico sono (relativamente o totalmente) indipendenti dalla volontà (perché esistono) la guerra richiede comunque la volontà di aggredire e di difendersi (e quindi due volontà irriducibilmente ostili)[5].

La guerra, in definitiva presuppone il nemico e il conflitto: ma non ne è la conseguenza necessaria. Ne deriva che l’assenza di guerra non significa che non esistono conflitti e nemici: ma solo che questi non hanno deciso di risolvere i conflitti e raggiungere i loro obiettivi politici col mezzo della guerra.

  1. La speranza della fine del nemico (in una con quella della Storia) fu contraddetta subito dopo il crollo del comunismo, dai conflitti che tale collasso generò (Balcani, Cecenia). Passato qualche anno provvide Bin Laden a confermarne l’illusorietà con l’attacco dell’11 settembre 2001. Tra la conclusione del comunismo e l’emergere del terrorismo di Al Quaeda, era pubblicato uno studio dei colonnelli cinesi Qiao Liang e Wang Xiangsui destinato a dare un grosso dispiacere alle speranze e alle illusioni del pacifismo “senza se e senza ma”. Sostenevano i colonnelli che “la nuova situazione creatasi dopo il 1989-1991 facesse sì che “da questo momento in poi la guerra non sarà più ciò che è stata tradizionalmente. Il che significa che, se in futuro l’umanità non avrà altra scelta che entrare in conflitto, non potrà più condurlo nei modi consueti… Quando la gente comincia ad entusiasmarsi e a gioire propendendo per la riduzione di forze militari come mezzo per la risoluzione dei conflitti, la guerra è destinata a rinascere in altre forme e su di un altro scenario… In tal senso esistono fondate ragioni per sostenere che l’attacco finanziario di George Soros all’Asia Orientale, l’attacco terroristico di Osama Bin Laden all’ambasciata militare in Sudan… rappresentano una ‘semi-guerra’, una ‘quasi –guerra’ e una ‘sotto-guerra’, vale a dire la forma embrionale di un altro genere di guerra[6]. Il tutto significava assimilare alla guerra delle situazioni in cui l’ostilità non è riconducibile al concetto classico di questa (atto di forza).

L’acuto giudizio dei colonnelli in effetti non fa che confermare sia il famoso discorso sul potere di Tucidide (l’ambasciata degli ateniesi agli abitanti di Melo) sia, ancor più, il giudizio di Karl von Clausewitz e Giovanni Gentile[7] che la guerra è un atto di forza (comunque un mezzo) per costringere un’altra (potenza) a fare la nostra (di potenza) volontà: se a raggiungere questo fine tuttavia non è necessario mobilitare gli eserciti, ma bastano le scalate in borsa o gli attentati terroristici, ciò non toglie né che questi modifichino i rapporti di forza né che costringano l’aggredito a doversi adeguare alla volontà del nemico, se si arrende; se intende difendersi, al modo di combattere dell’aggressore.

In sostanza i due colonnelli, innovando alla (prima) definizione della guerra data da Clausewitz avevano acutamente posto il problema, prevedendo come l’inimicizia poteva ricorrere a forme inconsuete (ma non del tutto) una volta ritenuto inutile, inopportuno o antieconomico il ricorso alle armi.

Questa concezione dei colonnelli era tributaria dell’antico pensiero strategico cinese (Sun Zu) e indiano (Kautilya).

Scriveva Sun Zu: “Ottenere cento vittorie su cento battaglie non è il massimo dell’abilità: vincere il nemico senza bisogno di combattere, quello è il trionfo massimo[8]: per cui la vittoria è realizzare l’obiettivo politico: i mezzi sono secondari. Se lo si raggiunge senza far uso della forza, risparmiando sangue (e denaro) è meglio.

Nell’Arthasastra, Kautilya distingue vari tipi di guerra: quella aperta; quella dissimulata che consiste nell’infondere paura, nel colpire in modo imprevedibile; silenziosa con pratiche clandestine e complotti suscitati da spie[9].

D’altra parte è ripetuto da Kautilya che la scelta tra pace e guerra è funzionale all’interesse di potenza degli Stati, onde se mantenendo la pace si rovina (o decresce) la potenza – anche economica – del nemico, è meglio non fare guerra; l’inverso se la potenza si accresce[10]. Così anche se la guerra non è in atto, l’ostilità è sempre presente.

Pur nella diversità (inevitabile, anche se parziale) Sun Zu e Kautilya danno due insegnamenti, poi ripetuti in forma diversa e sotto vari profili, e tuttora validi: che il nemico (e il conflitto) non si manifestano sempre nella guerra (l’insopprimibilità dell’ostilità e della competizione di e per il potere), onde la guerra (mezzo) è subordinata alla politica (scopo); e che i tipi di “guerra” possono essere diversi, e non sempre richiedere l’impiego della violenza[11].

Per cui appare logico – e in linea con l’antico pensiero strategico orientale – quanto sostenuto da Quiao Liang e Wang Xiangsi che “se si riconosce  che i nuovi principi della guerra non sono più quelli di «usare la forza delle armi per costringere il nemico a sottomettersi ai propri voleri», quanto piuttosto quelli di «usare tutti i mezzi, inclusa la forza delle armi e sistemi di offesa militari e non-militari e letali – non letali per costringere il nemico ad accettare i propri interessi», tutto ciò costituisce un cambiamento: un cambiamento nella guerra e un cambiamento nelle modalità della guerra da ciò provocato”. Il che comporta un concetto più ampio di guerra che “non può che ridurre l’attaccamento dei soldati alla categoria di «operazioni militari diverse dalla guerra» nella quale, in ultima istanza, essi non saranno in grado di inserire il nuovissimo concetto di «operazioni di guerra non militari»”, in particolare il concetto di “«operazioni di guerra non militari», amplia la nostra percezione di ciò che esattamente costituisce uno stato di guerra a tutti i campi dell’attività umana, ben oltre, dunque, i contenuti racchiusi nell’espressione «operazioni militari». Questo ampliamento è il risultato naturale del fatto che gli esseri umani useranno qualsiasi mezzo per conseguire i loro obiettivi”.

  1. Indubbiamente a far maturare il nuovo/vecchio concetto di guerra, è da un lato la novità della tecnologia, dall’altro il progredire delle ideologie pacifiste.

Quanto alla prima ragione, non si può che rimandare a quanto scrivono i due colonnelli. Ma occorre aggiungere alle precedenti una terza ragione: il  tramonto dello jus publicum europeaum e dello stesso razionalismo occidentale, fondati in larga misura sul realismo e la teologia politica cristiana.

Per l’irenismo, tanto accresciuto dalle straordinarie distruzioni delle guerre del “secolo breve”, si è passati dal rifiuto della guerra – di per se una scelta, per lo più opportuna, la quale va valutata sotto tale profilo – alla negazione “a prescindere” della guerra e ancor più del nemico, in se totalmente irreale. Illusione che si può giudicare con le parole di Tucidide (rivolte dagli ambasciatori ateniesi agli abitanti di Melo) “giudicate il futuro più evidente della realtà concreta, e il desiderio vi fa trattare come cosa salda l’inesistente”[12]. Pretendere che il nemico non esista perché non è gradito e turba i sogni di pace fa parte delle stesse (pericolose) illusioni del non capire che azioni ostili possono compiersi (e ottenere il loro scopo politico) pur senza atti di violenza.

Tuttavia il giudizio di Tucidide, che corrisponde a quello di Machiavelli nel XV capitolo del Principe[13], introduce la terza ragione della “soppressione” del nemico: l’abbandono della concezione realistica cristiana e dello jus publicum europeaum.

É inutile dire che per la teologia politica cristiana la guerra è da evitare, ma essendo sempre possibile, data l’insopprimibilità dell’inimicizia tra uomini (e gruppi umani), non si può escludere né condannare sempre il ricorso a questa[14].

Tale concezione è realistica: parte dall’osservazione della realtà, ovvero l’esistenza di una pluralità di soggetti in grado di far guerra e aventi motivi di conflitto, per identificare le condizioni che consentano di evitare le guerre, e, se inevitabili, ridurne le potenzialità distruttive: i tre (poi quattro) requisiti della guerra giusta (auctoritas, justa causa, recta intentio, debitus modus gerendi bellum) limitavano i soggetti, le occasioni, le modalità e i fini della guerra. Ne contenevano gli effetti più devastanti e le ragioni più discutibili, senza né pretendere di aver trovato il rimedio per l’inimicizia e la guerra. Anche perché, a negare il nemico, ed in presenza di  qualcuno che ci fa comunque la guerra (a dispetto delle nostre buone intenzioni) la conclusione è che si tratta di un criminale, come sosteneva Carl Schmitt[15].

Quei principi passavano nel diritto internazionale westphaliano, con la nota “enfatizzazione” dell’auctoritas, cioè del soggetto legittimato alla guerra e così justus hostis, e il deperimento della justa causa (almeno fino all’inizio del secolo scorso).

Resta il fatto che, fino all’inizio del XX secolo la guerra era un mezzo giuridicamente lecito, il nemico era quel soggetto con cui si faceva la guerra, ma (poi) la pace. Come riteneva Raymond Aron “Il diritto internazionale pubblico europeo non aveva mai avuto lo scopo di mettere fuori legge la guerra, né mai si era attenuto a questo principio”[16]. Ma se quel mezzo è stato già condannato in sedi internazionali[17] e quel che più conta, è rifiutato da gran parte della popolazione, resta tuttavia l’esercizio dell’ostilità tramite mezzi non violenti.

  1. Scrive Max Weber che potenza significa la capacità d’imporre la propria volontà in una relazione sociale[18]; Aron, trasponendo tale definizione nel contesto internazionale sostiene che “la potenza o capacità di una collettività di imporre la sua volontà ad un’altra non va confusa con la sua capacità militare”. Freund elenca, esemplificandoli, i mezzi non violenti dell’ostilità, con cui si cerca di piegare la volontà di una comunità[19].

Correntemente per potere s’intende la capacità “d’un soggetto individuale o collettivo, di conseguire in modo intenzionale e non per accidente determinati scopi in una sfera specifica della vita sociale, ovvero di imporre in essa la propria volontà, nonostante la eventuale volontà contraria o la resistenza attiva o passiva di un altro soggetto o gruppo di soggetti”.

Ne consegue che ai fini della lotta per il potere è del tutto indifferente che l’effetto sia conseguito con l’uso della forza o con altro. L’essenziale è il risultato.

Tuttavia di fronte al conseguimento del risultato è peccato d’ingenuità non solo pensare che non sia un atto ostile, ma anche credere che la fondatezza giuridica (ad esempio, l’embargo all’esportazione di beni propri) escluda l’intenzione politica e l’ostilità: tutt’altro, semmai le occulta[20].

  1. Secondo Schmitt “Pensiero politico ed istinto politico si misurano perciò, sul piano teoretico come su quello pratico, in base alla capacità di distinguere amico e nemico. I punti più alti della grande politica sono anche i momenti in cui il nemico viene visto, con concreta chiarezza, come nemico” e prosegue “dovunque nella storia politica, di politica estera come di politica interna, l’incapacità o la non volontà di compiere questa distinzione appare come sintomo della fine della politica”.

Quello che sta succedendo è qualcosa che viene prima dell’incapacità di non distinguere amico e nemico: è la volontà e prima ancora la convinzione di non poterli distinguere: perché si presuppone che il nemico non esista ove la guerra non sia dichiarata, o perché non è tale in quanto ha ragione sul piano giuridico e/o economico.

Entrambe illusioni: quanto alla prima, stigmatizzata da Freund[21], consegue, come scrive, dalla concezione giuridica dell’ostilità[22]. Anche se il tutto è influenzato dal nominalismo giuridico (conseguente alle correnti neo-positiviste) e dalle sue versioni più modeste e “popolari”; per cui non c’è guerra se non la si dichiara (formalmente) tale. Con la consegueza che chi la dichiara è formalmente e apertamente un guerrafondaio; e per evitare tale nomea – così nociva in una società – spettacolo come quella globalizzata – la si fa evitando di dichiararla[23].

Credere poi che il compimento di atti d’ostilità sia giustificato sul piano giuridico ed economico (e quindi non è guerra, in senso lato, ma è attuazione di un diritto, riscossione di un credito) è anch’esso un truffarsi da soli, per almeno due ragioni: la prima perché sottovaluta che sotto le pretese giuridiche (ed economiche) c’è sempre un interesse (e un effetto) di potere. Il “diritto per il diritto” non è tale neppure nelle procedure giudiziarie (che richiedono, in linea generale, un interesse), tantomeno nei conflitti internazionali di guisa che, come scriveva Suarez il sovrano è legittimato a muovere guerra per i diritti della propria comunità politica non per quelli altrui[24].

D’altra parte se tali atti non sono atti di guerra, non si devono applicare neanche le limitazioni del diritto di guerra: le cui conseguenze possono essere devastanti[25].

Schmitt già nello scritto “Inter pacem et bellum nihil medium[26], giudicando cosa s’intendeva per “guerra” e “pace” negli anni ’30 del secolo scorso riteneva che “dimostra che l’ostilità, l’animus hostilis è divenuto il concetto più importante riguardo alla guerra”; ciò considerando che “In tutti i tempi ci sono state guerre «a metà», «parziali», «incompiute», «dosate», «localizzate», «wars sub modo»”[27].

  1. Se si condivide il giudizio di Schmitt che l’incapacità di operare la distinzione tra amico e nemico è sintomo della fine politica, si deve anche concludere che il capolavoro del nemico è quello di far credere che non esista: non c’è sistema più efficace di esercizio dell’ostilità. Sun Zu sostiene che l’abilità strategica consiste nel disorientare l’avversario “L’attacco migliore è quello che non fa capire dove difendersi, La difesa migliore è quella che non fa capire dove attaccare” di guisa che muovendosi “con rapidità senza lasciare traccia, quasi fossi evanescente, meravigliosamente misterioso, impercettibile: sarai padrone del destino del nemico”; ma gli stratagemmi consigliati dallo stratega cinese sono giochi da bambini rispetto al creare l’illusione che non esiste né ostilità né nemico. La clausewitziana “nebbia della guerra” così non copre solo il campo di battaglia, ma, per intero, lo stato conflittuale.

Il rifiuto dell’inimicizia consegue – come sopra scritto – a quello della guerra; quest’ultimo è il prodotto di un approccio (prevalentemente) di carattere giuridico al fenomeno guerra. Freund nel passo sopra citato si riferisce a concezioni giuridiche e non ad atti, e non fa pertanto riferimento alle costituzioni italiana e giapponese, successive alla fine del secondo conflitto mondiale, dov’è prescritto il rifiuto della guerra anche se con espressioni diverse[28].

Bisogna dar atto che malgrado il dettato pacifista, le due norme costituzionali non si sono spinte a negare l’esistenza e la possibilità dell’ostilità e del nemico, né che lo Stato lo possa individuare. Anzi il fatto che sia legittima la guerra difensiva presuppone che il nemico possa esistere e muovere guerra, e che ci si debba difendere.

Diverso appare il rifiuto del nemico in voga nella società contemporanea globalizzata: questo appare non solo come un residuo d’illusioni ideologiche smentite dalla storia (l’ultima e più conseguente delle quali è stata il comunismo), ma anche come derivato della società-spettacolo e della capacità di manipolare le credenze nella società di massa.

Se si prende per guerra (per conflitto) solo quello praticato con mezzi violenti, peraltro tanto spettacolari grazie alla tecnologia, è chiaro che dove non c’è spettacolo (la guerra classica con missili, bombe, corazzate e carri armati)  allora non c’è conflitto. Se poi a questo si aggiunge che la società di massa è drogata dai mezzi di comunicazione, è sufficiente un’attenta campagna di disinformazione – che sarebbe stata approvata da Kautylia e Sun Zu – per convincere che non essendoci violenza in atto, non ci sono né atti di ostilità né nemico. Specie se tale disinformazione si basa su notizie che all’uditorio piace sentire e occulta quelle sgradite: l’aspetto psicologico (nella e) della guerra è sempre stato fondamentale. L’aveva già sostenuto Joseph de Maistre, affermando che una battaglia persa è una battaglia che si è convinti di aver perduto. L’aveva ribadito Giovanni Gentile per il quale la guerra era un modo di superare l’opposizione tra volontà umane, e la soluzione della lotta era che il nemico riconosca “come sua la nostra volontà”, e cessi così di essere “volontà avversaria”[29].

Perché cessi di essere tale i modi possono essere tanti, il più efficace dei quali è non farla nascere cioè non far percepire l’esistenza di inimicizia e atti di ostilità a chi subisce (o subirà) l’aggressione.

Neppure il fatto che il nemico abbia ragione sul piano giuridico, lo assolve dall’ostilità politica e dalla conseguente necessità di difendersi. Solo una concezione decadente e limitata del diritto, ridotto a norme (e alle conseguenti decisioni giudiziarie, magari di Corti internazionali) può legittimare una concezione così lesionista. Se ci si richiama al principio romano che salus rei publicae suprema lex, è chiaro che nessun governante della comunità aggredita “a ragione” (normativa) potrebbe sacrificare l’esistenza della comunità, o anche “solo” la vita di molti cittadini, al rispetto dei trattati o comunque delle norme di diritto internazionale, applicando il contrario principio fiat justitia, pereat mundus. La politica, come sosteneva Max Weber, esige un’etica della responsabilità: degli uomini possono (e talvolta devono) decidere di morire per il rispetto delle leggi, e talvolta tale scelta può avere un significato di conservare il vincolo comunitario[30], ma non procurare morte e sofferenza ai propri concittadini in ossequio alla legalità[31].

D’altra parte la politica genera rendite politiche[32] e quindi ne produce la guerra. Un tempo si chiamavano tributi; nel XX secolo spesso “riparazioni”: ambedue i termini presuppongono un rapporto tra unità politiche. Nel XXI secolo dovremo forse chiamarle interesse differenziale, spread o quant’altro: il nomen conta (e dice) poco. Ciò che rileva è che trattasi di spostamento di risorse dal dominato al dominatore, dal vinto al vincitore. Quello che un tempo i primi pagavano ai secondi diventandone schiavi o prestando corvées; ed oggi, meno scomodamente (ma la società moderna è molto più comoda di quelle antiche, per cui la comodità non è merito del dominatore, ma dell’epoca), contraendo i consumi, modificando modi ed abitudini di vita per pagare debiti ed interessi. E in questa strada verso la servitù (e la povertà) ci s’inoltra tranquilli e contenti, per aver perso la guerra senza neanche accorgersene.

Teodoro Klitsche de la Grange

[1] Tra le tante ricordiamo che, a giudizio di molti storici, l’unità d’Italia fu propiziata dalla morte di Ferdinando II di Borbone – Napoli, morto nel 1859 per un’infezione mal curata; l’opinione dei quali è che se Garibaldi avesse dovuto combattere col padre (Ferdinando II) invece che col figlio (Francesco II) l’esito sarebbe stato probabilmente diverso. Ovvero che le imprese dei conquistadores in America siano state assai favorite dall’epidemie di vaiolo e tubercolosi nelle popolazioni amerinde.

[2] Come scritto da G. Dumont nell’Avant-propos “…La première, qui est l’objet du prèsent ouvrage, est le modérantisme, considéré comme recherche du compromis, plus encore que du consensus, c’est-à-dire comme refus a priori de la possibilité même de toute situation conflictuelle”. I lavori sono stati di recente pubblicati in volume dal titolo “La guerre civile perpetuelle” (ed. Artège – Perpignan 2012); sulla guerra economica v. gli interventi di De Lauzun, Bonnet e Mescheriakoff.

[3] E del protagonista della favola di Collodi, tale illusione condivide anche il “naso lungo”:  d’essere una falsa profezia, cioè una menzogna, giacché della società comunista, nel socialismo reale, non s’è visto che il contrario: guerre, campi di concentramento, dittatura, governi totalitari più che polizieschi.

[4] É interessante ricordare, a tal riguardo, le distinzioni che fa Carnelutti in Teoria generale del diritto, Roma 1946, p. 15 e ss..

[5] Freund definisce il conflitto così: “Le conflit consiste en un affrontement ou heurt intentionnel entre deux êtres ou groupes de même espèce qui manifestent les uns à l’égard des autres une intention hostile, en général à propos d’un droit, et qui pour mantenir, affirmer ou rétablir le droit essaient de briser la résistance de l’autre, éventuellement par le recours à la violence, laquelle peut le cas échéant tendre à l’anéantissement physique de l’autreSociologie du conflit, Paris 1983, p. 65.

[6] E proseguono “Comunque si scelga di definirla, questa nuova realtà non può renderci più ottimisti che in passato. Ciò perché la riduzione delle funzioni della guerra in senso stretto non implica affatto che quella guerra abbia cessato di esistere. Anche nella cosiddetta era postmoderna e post-industriale la guerra non sarà mai eliminata del tutto. É solo tornata a invadere la società in modi più complessi, più estesi, più nascosti e sottili… La guerra che ha subito i cambiamenti della moderna tecnologia e del sistema di mercato verrà condotta in forme ancor più atipiche. In altre parole, mentre si assiste a una relativa riduzione della violenza militare, allo stesso tempo si constata una aumento della violenza politica, economica e tecnologica. Tuttavia, indipendentemente dalle forme assunte dalla violenza, la guerra è guerra, e un cambiamento nella sua veste esteriore non le impedisce di mantenere i principi della guerra in sé” v. Guerra senza limiti, Gorizia 2001, p. 39; si può dire, mutuando una frase di Clausewitz, che la guerra ha una grammatica, ma non una logica, cambia la grammatica, ma non la logica.

[7] Il concetto di Gentile è più sfumato, distinguendo tra diverse forme di guerra: v. appresso al punto 7.

[8] La stessa tesi, sotto diversi profili – riecheggia in altri passi di Sun Zu, con “agisci soltanto nell’interesse dello Stato. Se non sei più che sicuro di riuscire, non impiegare uomini. Se non sei in pericolo, non combattere”; o sul calcolo (costo) delle risorse necessarie alle spedizioni militari “Ricorda: quando si mobilita un esercito di centomila uomini per impegnarlo in una campagna militare a mille li dallo Stato, le spese che ne derivano per il popolo, costituite dagli esborsi dell’Erario, ammontano a mille pezzi d’oro al giorno. Possono essere necessari anni di guerra per un giorno di vittoria. Ne nascerà un grande turbamento, sia interno che esterno; il popolo sarà sfibrato dalle imposte, e i bilanci di settecentomila famiglie andranno in dissesto” v. L’arte della guerra, Edizioni Mediterranee, Roma 2005, pp. 49, 143, 145.

[9] v. Kautilya, Arthasastra, trad. fr. Paris 1998, p. 40.

[10] L’esame nell’Arthasastra di cause, presupposti, condizioni della guerra e della pace è assai più articolato, e vi rimandiamo; lo consideriamo qui solo per l’aspetto “economico” che è quanto interessa ai fini dello scritto.

[11] Ad esempio basta appoggiare, anche con mezzi economico-finanziari, uno dei belligeranti. É la linea, tra tanti, seguita dal Cardinal Richelieu nella guerra dei Trent’anni, aiutando i protestanti fino alla (prima) battaglia di Nordlingen (poi si trasformò in guerra aperta agli Asburgo); o di F.D. Roosevelt nell’appoggio finanziario ed economico alla Gran Bretagna, alla Cina (e all’Unione Sovietica), fino a Peral Harbour (dopo di che fu guerra).

[12] La guerra del Peloponneso, V, 113. G. Miglio riconduce il concetto di “pace” intesa come anti-politica a “una tendenza culturale squisitamente borghese”. Ovviamente la pace come situazione permanente dell’umanità non è mai esistita e non può esistere, a meno che non venga meno la costante dell’obbligazione politica (e l’esigenza umana che la fonda). In questo senso intesa, la pace è riconducibile a quelle “anti-realtà” ideologiche che “si contrappongono alla struttura dell’obbligazione politica. Sono valori utopici, la cui permanenza è legata proprio al fatto che contraddicono parti di quella struttura costante; pretendono di contraddire alcune regolarità fondamentali dell’obbligazione politica. La pace nega la realtà indistruttibile della conflittualità e della guerra, sulla quale è basata la sintesi politica; l’eguaglianza nega la struttura articolata delle istituzioni politiche; la libertà nega la stessa struttura delle procedure convenute delle convenzioni pattuite e delle istituzioni politiche”, v. G. Miglio Lezioni di politica, vol. II°, Bologna 2011, p. 419.

[13] “E molti si sono immaginati repubbliche e principati che non si sono mai visti né conosciuti in vero essere. Perché gli è tanto discosto da come si vive a come si dovrebbe vivere, che colui che lascia quello che si fa, per quello che si dovrebbe fare, impara più presto la ruina che la perseverazione sua”.

[14] Evitiamo di ricordare i principali teologi che se ne sono occupati. Rinviamo per questo a Roberto De Mattei, Guerra Santa. Guerra giusta, Casale Monferrato 2002.

[15] La necessità di distinguere nemico e criminale è già nel Digesto: “Hostes’ hi sunt, qui nobis aut quibus nos publice bellum decrevimus: ceteri ‘latrones’ aut ‘praedones’ sunt”, Nemici sono coloro che ci hanno o cui noi abbiamo dichiarato pubblicamente guerra; gli altri sono briganti o pirati (v. D. 118, 50, 16).

[16] Paix et guerre entre les nations, trad. it. Milano 1983, p. 143.

[17] v. C. Schmitt Der Nomos der Erde, trad it. Milano 1991, pp. 335 ss. (sul mutamento di significato della guerra tra le due guerre mondiali).

[18] Wirtschaft und Gesellshaft, vol. I, trad. it. Milano 1980, p. 51.

[19]De tout temps on a essayé de menacer l’existence politique d’une collectivité par d’autres moyens que la guerre: affamer la population, soudoyer un parti politique et favoriser sa prise du pouvoir afin d’opérer ensuite, avec son accord, le rattachement de ce pays à une autre collectivité… mettre l’embargo sur des produits de première nécessité, faire un blocus, etc. Que sont les moyens dits pacifiques comme l’encerclement diplomatique ou les sanctions que l’on prend contre un pays récalcitrant, sinon des mesures d’hostilité destinées à menacer l’existence de ce dernier ? Bref, il existe toutes sortes d’agressions. A côté de la conquête militaire, il y a les moyens psychologiques de la propagande, de la mise en condition, de la subversion, les aggressions économiques, sociales et thecniques ou encore les armes biologiques. Les ressources de l’inimitié sont donc extrêmement variables”, v. Freund L’essence du politique, Paris 1965, p. 507.

[20] Al riguardo è opportuno ricordare in questo caso il rapporto che Hauriou vedeva tra teologia e diritto: l’una il nocciolo, l’altro l’involucro. O il giudizio di Freund che l’obbligazione giuridica è eteronoma: suppone una volontà diversa da quella del giurista.

[21] Op. cit. p. 507.

[22] “… qui a empêché la plupart des auteurs ayant écrit sur la politique de voir dans la relation ami-ennemi un présupposé du politique, en quoi ils se sont trompés et sur la nature de la politique et sur celle de la guerre” Freund Op. loc. cit.

[23] Per i giuristi più attenti al pensiero realista, la guerra è un fatto: dichiararla è un obbligo giuridico. Farla senza dichiarazione non è un merito: è semplicemente la violazione di una regola di diritto internazionale.

[24] De charitate, disp. 13 De Bello, sectio IV. E’ chiaro che, senza la limitazione dell’interesse proprio (anche quindi nel rinunciare all’attuazione d’interessi propri) le cause di guerra si moltiplicherebbero geometricamente.

[25] Ad esempio l’embargo su prodotti alimentari. Se ciò provoca carestie (ed epidemie) è soprattutto a carico della popolazione civile, e della fazione più debole della stessa. Così si viola la limitazione a non coinvolgere nella guerra gli innocentes: se si può credere che il progresso tecnologico abbia prodotto delle bombe “intelligenti” tali da ridurre al minimo i c.d. “danni collaterali”, non ci risulta che esistano delle carestie “intelligenti”. Sull’embargo dell’IRAQ è interessante leggere l’appello consegnato da 54 vescovi cattolici al Presidente Clinton nel gennaio del 1998; i quali giudicavano “Questa campagna di bombardamenti, assieme all’embargo totale in vigore dall’agosto 1990, era, ed è, un attacco contro la popolazione civile dell’Iraq. Una tale guerra contro la popolazione è stata condannata in maniera inequivocabile dal corpus magisteriale più autoritativo della Chiesa cattolica, il Concilio Vaticano II (1962-1965). Agenzie indipendenti continuano a documentare il devastante impatto delle sanzioni sulla popolazione civile … qualunque sia l’intento di queste sanzioni, siamo costretti da questa valutazione a giudicarle una violazione dell’insegnamento morale, segnatamente come è formulato nella tradizione cattolica”.

[26] in “Schriften der Akademie für Deutsches RechtGruppe Völkerrecht, n. 7, Berlin, 1939, trad. it. in Lo Stato X (1939), pp. 541-548.

[27] e prosegue “l’espressione usata dalla relazione Lytton sull’avanzata dei giapponesi «war disguised» non presenterebbe in sé alcunché di nuovo. Il nuovo era lo stato intermedio fra pace e guerra, elaborato giuridicamente e reso istituzione dalla Lega delle Nazioni e dal patto Kellogg”. D’altra parte quando Schmitt, sottolineando l’incongruenza dei concetti di guerra e pace applicati dalla Lega delle nazioni (determinati a contrario per cui non era guerra l’aggressione giapponese alla Cina ma lo era quella italiana all’Abissinia) rispetto a quello di vera pace ricorda da vicino la concezione della pace come “tranquillità dell’ordine” di S. Agostino.

[28] L’art. 9 della Costituzione giapponese prescrive “Aspirando sinceramente ad una pace internazionale fondata sulla giustizia e sull’ordine, il popolo giapponese rinunzia per sempre alla guerra, quale diritto sovrano della Nazione, ed alla minaccia o all’uso della forza. quale mezzo per risolvere le controversie internazionali.

Per conseguire l’obiettivo proclamato nel comma precedente, non saranno mantenute forze di terra, del mare e dell’aria, e nemmeno altri mezzi bellici. Il diritto di belligeranza dello Stato non sarà riconosciuto”; l’art. 11 di quella italiana dispone che “l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”. Le due espressioni normative non vanno prese troppo alla lettera: né la rinuncia della guerra ha impedito al Giappone di riarmarsi, né il ripudio italiano della stessa era totale (perché era ammessa quella di difesa) né del tutto efficace, perché non ha impedito di mandare corpi di spedizione all’estero per “pacificare” sotto comando straniero popolazioni riluttanti.

[29] In effetti il concetto di guerra di Gentile è anch’esso più esteso di quello usuale di guerra come atto di forza “Tra i modi di superare l’opposizione è la guerra: della quale il filosofo non può ignorare che ci sono mille forme, e si vengono moltiplicando col moltiplicarsi dei modi in cui si esplica l’espressione del pensiero umano e la volontà si sforza di farsi valere. C’è la guerra a punte di spillo, e c’è la guerra a colpi di cannone. Le punte di spillo sono parole: parole però che tendono a scopi sostanzialmente affini a quelli perseguiti dal cannone: l’annientamento dell’avversario. Ma la guerra propriamente detta è quella che gli Stati combattono con tutte le armi più micidiali per aver ragione l’uno dell’altro, quando l’uno sia d’impedimento all’altro nel raggiungimento di fini essenziali alla sua esistenza”  (i corsivi sono nostri) Genesi e struttura della Società, rist. Firenze 1983, p. 104.

[30] Come per Socrate nel “Critone”, nel noto passo della prosopopea delle Leggi (le quali però non sono le “norme” dei neo-positivisti).

[31] Cosa che è assai chiara nella concezione dei giuristi istituzionisti. Per Maurice Hauriou l’istituzione – per la modernità lo Stato – ha la funzione principale di “Protéger la société individualiste par son gouvernement, lui assurer la paix et l’ordre au dedans et au dehors par sa force armée, par sa diplomatie, par sa police, par sa législation, par ses tribunaux”, Précis de droit constitutionnel, Paris 1929, p. 49. La funzione di protezione è l’obbligo principale dell’istituzione nei confronti della comunità (e così dei governanti verso i governati). Per Santi Romano la necessità è fonte di diritto superiore alla legge. Se la necessità (il cui concetto nel giurista siciliano non è molto distante dal Ausnahmezustand di Carl Schmitt) impone di violare la legge, la “violazione” della norma è legittima, in quanto salvaguarda l’ordinamento. Sia in Hauriou che in Romano e Carl Schmitt è evidente la lezione di Hobbes, per cui il protego ergo obligo è la sostanza dell’obbligazione politica (v. Leviathan, Esame critico e conclusione, rist. Bari 1974, in particolare p. 661). Pretendere di obbligare senza proteggere, o viceversa di essere protetti senza essere obbligati è un inganno e un’assurdità.

[32] Sul punto v. Gianfranco Miglio, Lezioni di scienza della politica, Bologna 2011, pp. 320 ss.

ISTITUZIONE, NORME, VALORI E NUOVE FORME DI OSTILITA’ , di Teodoro Klitsche de la Grange

ISTITUZIONE, NORME, VALORI E NUOVE FORME DI OSTILITA’ *

A Paul Piccone In memoriam

 

Nella Theorie des partisanen Schmitt collega i nuovi tipi d’inimicizia all’aspirazione a valori più alti: “l’inimicizia…. non si rivolge più contro un nemico ma serve ormai solo una presunta imposizione oggettiva di valori più alti per i quali, notoriamente, nessun prezzo è troppo alto. Il disconoscimento della inimicizia reale apre la strada all’opera di annientamento di quella  assoluta”. Qualche anno dopo, nel saggio Die Tyrannei der Werte ritornava sull’argomento “la teoria dei valori celebra i suoi trionfi, come abbiamo visto, nel dibattito sulla questione della guerra giusta. Ciò appartiene alla natura della cosa. Ogni riguardo al nemico viene meno anzi si trasforma in un non valore, quando la battaglia contro questo nemico è una battaglia per i valori supremi. Il non valore non ha nessun diritto di fronte al valore, e nessun prezzo è troppo alto per l’imposizione del valore supremo”[1]. Tale affermazione può destare una certa sorpresa, perché le relative modificazioni nel diritto internazionale possono altrettanto, e più direttamente, ricondursi alle grandi rivoluzioni del XVIII (e XX secolo), in particolare a quelle francese e russa (come, d’altra parte sostenuto da Schmitt).

Proprio, ad esempio, nella prima, si teorizzò prima, e praticò subito dopo che la guerra, e il suo esito, non dovevano essere indifferenti (e senza effetti) sull’ordinamento “interno” del vinto. Con la votazione del decreto             La Révellière – Lépeaux e della proposta di Cambon alla Convenzione la guerra rivoluzionaria era qualificata come guerre aux chateaux, paix aux chaumières, per cui il nuovo ordine doveva essere esportato sulla  punta delle baionette, e le relative spese coperte dall’espropriazione dei patrimoni delle classi privilegiate, diversamente dalle guerre dell’ancien régime che lasciavano inalterato l’ordinamento politico e sociale dei vinti. Tuttavia l’approccio di Schmitt, più generale  e meno diretto,  alla teoria dei valori quale motore delle nuove – e più intense- forme d’inimicizia può essere correlato alla costante – almeno dagli anni ‘30- contrapposizione che il grande giurista sviluppa tra istituzione e norma e da quella tra soggettività ed oggettività nel diritto.

II

Nel saggio Űber die drei Arten des rechtwissenschatflichen Denkens Schmitt rende omaggio ai grandi giuristi (istituzionalisti) Maurice Hauriou e Santi Romano. In particolare osserva che malgrado la concezione istituzionista  del diritto risalga ad Aristotele e S. Tommaso “la distinzione qui accennata fra pensiero fondato sulle norme e pensiero fondato sull’ordinamento è sorta ed è divenuta pienamente consapevole solo nel corso degli ultimi decenni. Negli autori precedenti, non è possibile rintracciare un’antitesi come quella contenuta nel passo appena citato di Santi Romano. Le antitesi precedenti non riguardano la contrapposizione di norme e ordinamento, ma piuttosto quella di norma e decisione oppure di norma e comando” [2]. Sia in Hauriou che in Santi Romano, pur ritenendo entrambi  che il diritto consista tanto di norme che di istituzioni, il presupposto ( e la condizione d’esistenza ) ne è l’istituzione, e non le norme. Sono quelle – scrive Hauriou- “a fare le regole di diritto, non sono le regole a fare le istituzioni”[3]; e Santi Romano: “l’ordinamento giuridico, così comprensivamente inteso, è un’entità che si muove in parte secondo le norme , ma, soprattutto, muove, quasi come pedine in uno scacchiere, le norme medesime, che così rappresentano piuttosto l’oggetto e anche il mezzo della sua attività, che non un elemento della sua struttura”[4]. La stessa tesi è ripetuta da Schmitt [5], secondo il quale, per il pensiero fondato sull’ordinamento “la norma o regola non fonda l’ordinamento, essa svolge soltanto, sulla base o nell’ambito  di un ordinamento dato, una certa funzione dotata solo in misura modesta di validità autonoma, indipendente dalla situazione oggettiva”. Ed è proprio la necessaria oggettività del diritto a rendere preferibile un tipo di pensiero giuridico fondato sull’istituzione a quello normativistico. Hauriou, in polemica con Duguit sostiene: “il vero elemento oggettivo del sistema giuridico è l’istituzione; è vero che contiene un germe di soggettività che si sviluppa col fenomeno della personificazione, ma l’elemento oggettivo sussiste nel corpus della istituzione, e questo solo corpus, con la sua idea direttiva e il suo potere organizzato, è molto superiore per forza giuridica alla regola di diritto”[6]; Santi Romano afferma che “diritto non è e non è soltanto la norma che così si pone, ma l’entità stessa che pone tale norma. Il processo di obbiettivazione, che dà luogo al fenomeno giuridico, non si inizia con l’emanazione di una regola, ma in un momento anteriore: le norme non ne sono che una manifestazione” e prosegue “obbiettiva non si dice la norma giuridica solo perché scritta o altrimenti formulata con esattezza: se così fosse, essa non si distinguerebbe da molte altre norme, che sono capaci di quest’estrinseca formulazione”; invece  “il carattere dell’obiettività è quello che si ricollega all’impersonalità del potere che elabora e fissa la regola, al fatto che questo potere è qualche cosa che trascende e s’innalza sugli individui, che è esso medesimo diritto. Se si prescinde da questo concetto, il c. d. carattere dell’obiettività o non dice più nulla o. peggio, implica degli errori” [7]. Considerazioni simili svolge Schmitt, secondo il quale l’ “oggettività delle norme” è solo il riflesso dell’oggettività e della stabilità dell’ordine che le stesse concorrono a creare; la stessa aspirazione “borghese” alla sicurezza, normalità, prevedibilità, alla base del positivismo giuridico, è la conseguenza della sicurezza, normalità, prevedibilità  dell’ordine assicurato dai grandi Stati europei – in particolare Germania e Francia- nel XIX secolo; questi avevano creato una situazione di pace e sicurezza in cui le norme erano concretamente (e generalmente) applicabili.

In tutti e tre i giuristi la preoccupazione (e la critica) principale al normativismo era di ridurre il diritto a qualcosa di astratto, avulso dalla sua (principale) funzione: regolare effettivamente  ed efficacemente la vita sociale. L’obbiettivizzazione si realizza non – o non solo- in un corretto ragionamento logico,  con il quale un determinato fatto o azione è sussunta alle norme che la disciplinano; ma piuttosto nel fatto che la normativa vigente sia generalmente applicata e osservata sia dai cittadini che dai pubblici funzionari. Far rispettare la legge, creare e mantenere a tal fine una situazione normale, richiede autorità e consenso, potenza ed efficacia, comando e obbedienza, più che sillogismi ed implicazioni. Espungendo, come fa il normativismo, il problema ( in sé distinto) dell’applicazione delle norme e della loro effettiva vigenza nell’ambito sociale, (perché “sociologico” e non riconducibile alla Reine rechtslehre), e separandolo da quello dello jus dicere, la purezza e l’astrattezza del medesimo risultano tali solo perché sottraggono al diritto gran parte del suo ambito (e delle sue problematiche).

Così l’oggettività di una corretta applicazione delle norme si riduce alla validità e correttezza di una operazione logica e intellettuale (verificabile in base a Barbara e Darii, cioè a parametri di rigore logico), mentre l’oggettività, per giuristi come  Hauriou, Schmitt e Romano, consiste nell’incidenza reale del diritto vigente sui comportamenti sociali. Se questa è consistente il diritto ( e l’istituzione) è oggettivizzata; se scarsa e  episodica, non lo è.

III

Ed è proprio questo il criterio con cui è stato costruito uno dei più importanti istituti dello jus publicum europaeum; ovvero il riconoscimento.

Questo prescinde dalla legalità della costituzione del nuovo Stato che è riconosciuto. Requisito che sarebbe assai difficile da avere, perché nella totalità ( o quasi) dei casi un nuovo Stato si costituisce con il distacco di parte del territorio e della popolazione da un altro Stato, che difficilmente  vi acconsente; e un nuovo governo – intendendo con ciò un governo rivoluzionario – per definizione nega di derivare legalità e legittimità da quello che ha rovesciato. Il caso più problematico è il riconoscimento di uno Stato ribelle, in pendenza di una guerra civile: come capitato agli Stati Uniti nella guerra di Secessione, quando la Confederazione fu riconosciuta dalla Gran Bretagna e dalla Francia, cioè dalle più grandi potenze dell’epoca, appena pochi mesi dopo l’inizio delle ostilità. Come scrive Schmitt, il riconoscimento, in tal caso, si può configurare come un’ingerenza negli affari interni, contraria al diritto internazionale e comunque un grave torto al governo legale [8]. È da notare che in quella occasione il ministro degli esteri inglesi Lord Russel, del tutto in linea con la prassi del diritto internazionale, dichiarò che solo le dimensioni e la forza delle fazioni in lotta e non la bontà della loro causa dava loro diritto al carattere di belligeranti[9].

A prescindere dal significato politico (contingente)  del riconoscimento è consuetudine che si riconosca solo chi esercita un potere su territorio e popolazione determinati con un comando responsabile e un’organizzazione (relativamente) stabile, e non colui che può vantare un titolo, valido e regolare in base a norme, all’esercizio di quel potere (tantomeno quindi a chi sostiene valori positivi). Comando, organizzazione, territorio, popolazione sono gli elementi dell’istituzione statale; la loro presenza, anche se in forma fluttuante ed imperfetta in un movimento o partito rivoluzionario fa si, come scriveva Santi Romano, che lo stesso sia già un ordinamento giuridico[10] ; e ordinamento giuridico, secondo il giurista siciliano, è sinonimo d’istituzione. Per cui  nello jus publicum europaeum è l’effettività di un comando responsabile in uno spazio e su una popolazione determinata il presupposto per essere istituzione – Stato, quindi soggetto di diritto internazionale, ed esser riconosciuti come tale. In questo contesto la conformità o meno di quell’ordinamento a norme interne –ed anche internazionali- è di nullo (o scarso) rilievo rispetto al dato concreto di un comando effettivo. Solo chi lo esercita ha carattere rappresentativo, nel senso di potestà non solo di agire ed esercitare dei diritti, ma anche di obbligarsi ed eseguire le obbligazioni per la comunità: ch’è la condizione minima ed essenziale perché possa esistere un diritto internazionale. L’oggettività è qui intesa, pertanto, nel senso –realistico- dei giuristi ricordati.

IV

Se passiamo a considerare cosa s’intende per “valore”, questo è stato solitamente associato alla sfera economica. Hobbes definisce “il valore di un uomo” sulla base del “ prezzo che si pagherebbe per l’uso del suo potere”. Il problema di come si potesse legare a parametri oggettivi il “valore” di una cosa o di una prestazione è stato uno dei problemi più dibattuti nella scienza economica: ma per lo più le prospettazioni “oggettiviste” ( ovvero che prescindono da una scelta o valutazione soggettiva) hanno avuto minor successo[11]. Max Weber nel saggio Il senso dell’ “avalutatività” delle scienze sociologiche ed economiche rifiuta la trascendenza metafisica dei valori; piuttosto indica il “riconoscimento di un politeismo assoluto come la sola forma di metafisica ad essi corrispondente”. E il punto cruciale della questione è che “tra i valori, cioè, si tratta in ultima analisi, ovunque e sempre, non già di semplici alternative, ma di una lotta mortale senza possibilità di conciliazione, come tra <<dio>> e il <<demonio>>. Tra di loro non è possibile nessuna relativizzazione e nessun compromesso”[12]. Anche Schmitt si chiede se “il passaggio alle teorie oggettive dei valori, ha gettato nel frattempo un ponte sull’abisso, che divide la scientificità libera dai valori dalla libertà di decisione degli uomini? I nuovi valori oggettivi hanno rimosso l’incubo, che ha provocato in noi la descrizione della lotta delle valutazioni di Max Weber?”, per rispondere “non lo hanno fatto, e non lo potrebbero neanche fare. Senza aumentare neanche  minimamente l’evidenza oggettiva per coloro che la pensano diversamente, essi, mediante la loro asserzione del carattere oggettivo dei valori da essi posti, non hanno fatto altro che introdurre un nuovo momento dell’autocorazzarsi nella lotta delle valutazioni, un nuovo veicolo della pretesa di avere sempre ragione, il quale aizza e intensifica soltanto la lotta” perché “la teoria soggettiva dei valori non è superata, ed i valori oggettivi non sono già guadagnati,  nascondendo i soggetti e i portatori dei valori, i cui interessi forniscono i punti di osservazione, i punti di vista e i punti di attacco della valutazione. Nessuno può valutare senza svalutare, innalzare il valore, e valorizzare. Chi pone i valori, si è messo con ciò contro i non valori. La tolleranza e la neutralità sconfinate dei punti di osservazione e dei punti di vista scambiabili  a piacere si rovescia nel contrario, nell’inimicizia, non appena si impongono e si fanno valere seriamente i valori”[13].

Né  la logica dei valori evita i presupposti del politico, sia quello dell’amico-nemico, sia del comando-obbedienza[14]; scrive Schmitt “chi dice valore, vuol far valere e imporre. Le virtù vengono praticate; le norme vengono applicate; i comandi vengono eseguiti; ma i valori vengono posti e imposti. Chi sostiene la loro validità, li deve far valere. Chi dice che essi valgono, senza che qualcuno li faccia valere, vuole ingannare[15].

La spiegazione che ne dà il giurista di Plettenberg è: “la filosofia dei valori è sorta in una situazione storico-filosofica molto pregnante, come risposta ad una domanda minacciosa, che si era posta come crisi nihilistica del XIX secolo”; a tale proposito, condivide la considerazione di Heidegger che nel XIX secolo parlare e pensare per valori divenne usuale, e dopo Nietzsche addirittura popolare “si parla di valori vitali, di valori culturali, di valori eterni , di gerarchia dei valori, di valori spirituali, che si credeva per esempio di trovare nell’antichità. Attraverso l’esercizio erudito della filosofia e la rielaborazione del neokantismo, si arriva alla filosofia dei valori. Si costruiscono sistemi di valori, e si perseguono nell’etica le stratificazioni dei valori. Perfino nella teologia cristiana si qualifica Dio, il summum ens summum bonum, come il valore supremo. Si considera la scienza come libera dai valori e si gettano le valutazioni dalla parte delle concezioni del mondo. Il valore e ciò in cui esso appare diviene il surrogato positivistico del metafisico[16].

In realtà, i valori non sfuggono, come cennato, alle   costanti del politico (e della politica), in particolare al rapporto tra metafisica e organizzazione dello Stato[17] cioè alla teologia politica. In tal senso la teologia cristiana fondata su un Dio (unico e) onnipotente, trova l’analogia nella struttura sistematica del concetto del sovrano che ha il diritto di fare tutto quanto è nella propria potenza (Spinoza); che è soggetto solo attivo – e mai passivo- di rapporti giuridici (Kant); o nella Nazione sovrana che “è tutto ciò che può essere per il solo fatto di esistere” (Sieyès).

L’istituzione-Stato del diritto pubblico moderno si basa sul concetto della Sovranità: senza cui non c’è né un diritto costituzionale né un diritto internazionale moderno. Ed il Sovrano è come il Dio delle religioni monoteiste: ma se, riprendendo la metafora di Max Weber, nella realtà sociale c’è (è diffuso) un politeismo dei valori, una metafisica (o un suo surrogato)  che si fondi su un tale politeismo, difficilmente può supportare un diritto statale (interno) ed internazionale basato su istituzioni monoteiste.

D’altro canto la trasformazione in valore non è altro che “un trasferimento in un sistema di gradi nella scala dei valori. Essa rende possibili continui capovolgimenti sia dei sistemi di valori, sia anche dei singoli valori nell’ambito di un sistema di valori, mediante continui spostamenti nella scala dei valori”[18], che è quanto di più lontano dalla stabilità – sia pur relativa – intrinseca (al termine e) al concetto di Stato. Nella teoria istituzionalista lo Stato è in effetti un sistema sociale in movimento “lento e uniforme”, analogo a un organismo vivente, in cui la materia (gli uomini) muta di continuo, mentre la forma è stabile. E questa forma è costituita da un “governo e dagli equilibri essenziali della materia stessa”[19]. Ma se alle relazioni sociali istituzionalizzate sostituiamo scale di valori soggettivamente apprezzate la stabilità diventa una chimera. D’altro canto, secondo lo jus publicum europaeum un mutamento, anche della costituzione (e perfino del potere costituente) non modifica, nei rapporti internazionali, l’istituzione-Stato. Questa permane, anche se l’intero sistema normativo (ed a maggior ragione i valori di riferimento) venga cambiato. L’esigenza di stabilità ed oggettività è così salvaguardata dall’istituzione che dura anche in presenza di mutamenti rivoluzionari. La funzione oggettivante e stabilizzante di quella ne è confermata.

V

Vale cioè per i valori – anche se parzialmente – una delle critiche che i giuristi istituzionalisti rivolgono al normativismo: d’essere cioè da un canto estremamente statico, e dall’altro di sostituire il potere di dominazione dello Stato con quello di un “imperativo categorico, che equivale ad un ordine sociale essenzialmente coattivo”[20].  Hauriou con questo, in sostanza, contrapponeva la stabilità dell’istituzione (cioè il mutare pur conservando forma ed elementi fondamentali), alla staticità di un sistema normativo impersonale. Nella prima l’essenziale  dura, mentre l’elemento secondario (le norme) mutano; se si è, di converso, conseguenti alla seconda ne risulta o un ordinamento statico – e perciò poco adatto alla vita – o, al limite, di dover applicare le norme anche al prezzo della fine dell’istituzione. Adeguandosi così al detto fiat justitia, pereat mundus, ch’è proprio quanto rifiutato da tanti giuristi e filosofi, da Jhering ad Hegel, da Machiavelli a Santi Romano. Ciò che s’intende per “ordinamento giuridico” varia poi a seconda del tipo di pensiero (normativista o istituzionalista): per esempio con riguardo alla “completezza”. Mentre per completezza un normativista intende che ogni fatto può essere qualificato (sussunto) in base ad una norma, (e quindi, in tal caso, l’ordinamento è completo); per un istituzionista coerente l’ordinamento è completo quando l’organizzazione sociale rende possibile la decisione e risoluzione di ogni conflitto d’interessi[21].

Riguardo ad un altro (ed essenziale) aspetto Schmitt ritiene che il normativismo non riesca a risolvere il problema dell’unità dell’ordinamento giuridico: “Come può accadere che una quantità di disposizioni positive possa essere ricondotta con il medesimo punto di riferimento ad una unità, se si tratta non dell’unità di un sistema di diritto naturale o di una teoria giuridica generale, ma dell’unità di un ordinamento avente efficacia positiva?” e prosegue “Per Kelsen, l’unità sistematica è una «libera azione (Tat) della conoscenza giuridica». Prescindiamo per un momento dall’interessante mitologia matematica, secondo la quale un punto deve essere un ordinamento e un sistema e deve identificarsi con una norma, e chiediamoci invece su che cosa riposa la necessità ed obiettività concettuale dei differenti riferimenti ai diversi punti di riferimento, se non su una disposizione positiva, cioè su un comando. Come se fosse la cosa più naturale di questo mondo, si parla continuamente di una progressiva unità di ordinamento; come se sussistesse un’armonia prestabilita fra il risultato di una libera conoscenza giuridica ed un complesso legato in unità solo nella realtà politica”, per cui “La scienza normativa alla quale Kelsen vuole elevare, in tutta purezza, la giurisprudenza non può essere normativa nel senso che il giurista valuta in base ad una propria azione libera: egli può riferirsi solo a valori che gli vengono dati (positivamente). In tal modo sembra essere possibile un’obiettività, ma senza un nesso necessario con una positività. I valori ai quali si riferisce il giurista gli vengono dati, ma egli si comporta nei loro confronti con una superiorità relativistica”[22].

In realtà il problema dell’unità, partendo dal punto di vista normativistico, appare irrisolubile: come scrive Schmitt “chiunque potrebbe appellarsi alla giustezza del contenuto, se non ci fosse un’ultima istanza”[23], cioè il comando e la decisione sovrana. Per cui l’uno e l’altra, espunti dalla concezione normativista, rientrano per garantire l’unità dell’ordinamento. In effetti un appello al (contenuto di una) norma, se non c’è una decisione in ultima istanza, genera, anche in uno Stato moderno (pluralista), un soggettivismo e un pluralismo interpretativo contrastante con l’esigenza di unità dell’ordinamento (e con l’eguaglianza di fronte alla legge). Per il conflitto sui valori, a maggior ragione che per quello sulle norme o sulla giustizia, vale – nel caso estremo – quanto scriveva Locke, che non c’è giudice su questa terra che possa giudicarlo, ma comunque è dato l’appello al cielo. E ciò significa la guerra.

VI

Negli ordinamenti interni, il richiamo ai valori fatto da alcune Corti di giustizia ha per lo più il medesimo (o assai simile) significato, anche se enfatizzato, di principio o di norma-principio[24].

I costituenti, enunciando dei principi fondamentali, compiono in effetti delle valorizzazioni, connotate dall’essere tali valori tutelati con norme “rafforzate” come quelle costituzionali. Non si può negare che, garantendo degli interessi con norme costituzionali e anche ordinarie, il legislatore compie (anche) delle scelte di valore[25].

In questo senso, è chiaro che ogni comunità politica ha dei valori di riferimento, per lo più tutelati nella Carta costituzionale. Il che non significa che tali valori abbiano una validità (giuridica) ex se. Quello che conferisce loro validità è, per l’appunto,  il fatto di essere tutelati dall’ordinamento (e, per così dire incorporati). Ad oggettivizzarli è, in altri termini, il consenso formatosi  – e istituzionalizzato – sui medesimi da parte dei consociati: chi ritiene, invece, i valori validi ed evidenti ex se, mette il carro davanti ai buoi. Sono il consenso ed il comando ad avere funzione preponderante nell’ “oggettivizzare” i valori e non la pretesa qualità intrinseca: è cioè l’istituzione a valorizzare, molto più di quanto i valori possano istituzionalizzare[26]. Smend, che riteneva fondamentale per la vita dello Stato il processo d’integrazione, ne distingueva i tipi in tre classi: personale, funzionale, materiale. Con quest’ultimo, cioè “l’integrazione tramite partecipazione a contenuti di valori materiali”[27] compaiono nella concezione di Smend i valori. Questi costituiscono una delle componenti del sistema di integrazione, non esclusiva e prevalente più nelle unità politiche pre-moderne che nello Stato (moderno)[28]. Nello Stato moderno è, di converso, particolarmente importante sia la co-operazione dei tre tipi sia il coinvolgimento dei cittadini attraverso le procedure d’integrazione funzionale. Con la conseguenza che cambiare i “valori di riferimento” non implica una nuova istituzione o una nuova forma.

Un altro esempio di non-identificazione tra l’idea d’istituzione-Stato e compiti (scopi) dello stesso offre Hauriou, secondo il quale l’elemento più importante di ogni istituzione corporativa consiste nell’idea dell’opera da realizzare “non si deve confondere l’idea dell’opera da realizzare, che merita il nome di «idea direttiva dell’impresa», né con la nozione di scopo né con quella di funzione. L’idea dello Stato, per esempio, è cosa ben diversa dallo scopo dello Stato o della sua funzione”. E quanto scrive su scopo e funzione vale, a ratione maius, per il valore, che non rientra nella “formula” della direttiva dello Stato (come non vi rientrano scopo, funzione e norma[29].

Ma il problema si presenta più interessante nel diritto internazionale, che, come cennato, presuppone una pluralità di Stati sovrani. L’evoluzione della dottrina dello jus belli e dello justum bellum, dalla seconda Scolastica (Vitoria, Suarez, Bellarmino) ha visto, almeno fino al secolo scorso, il deperimento del requisito della justa causa belli e il ruolo preponderante dello justus hostis. Tale “deperimento” è attribuito al dubbio sui diritti e le ragioni degli Stati belligeranti: per cui la guerra è ritenuta legittima per ambedue le parti, purché titolari dello jus belli. Scrive Vattel “dans une cause douteuse, il est encore incertain de quel côté se trouve le droit. Puis donc que les Nations sont égales et indépendantes, et ne peuvent s’ériger en juges les unes des autres, il s’ensuit que dans toute cause susceptible de doute, les armes des deux parties qui se font la guerre doivent passer également pour légitimes”[30].

Tale evoluzione (poi invertitasi nel secolo scorso) può essere letta, in parte, come conseguenza del prevalere del carattere (giuridico) “istituzione” rispetto a quello “norma”. Anche se la justa causa di Suarez o Bellarmino non può identificarsi sbrigativamente con le nozioni di “violazione di norma”, o di “presupposto per l’applicazione della sanzione bellica”, dato anche il carattere istituzionalista del pensiero          giuridico cristiano e tomista in particolare (semmai sarebbe più esatto parlare di “violazione del diritto”)[31], tuttavia il concetto di justa causa è denotato principalmente dagli iniurarium genera, cioè dai torti, dalle violazioni del diritto. Ciò non esclude l’esattezza della considerazione di Schmitt che il concetto di justa causa introduce nella dottrina dello justum bellum degli elementi normativistici e contenutistici dubbi (se non assai difficili) da applicare in concreto, anche tenuto conto degli arcana imperii[32]; per cui, come scrive: “il carattere giuridico di una guerra viene trasferito da considerazioni contenutistiche di giustizia nel senso della justa causa alle qualità formali di una guerra interstatale di diritto pubblico, condotta da sovrani portatori della summa potestas[33] e il concetto di guerra giusta “è formalizzato in quello di nemico giusto. A sua volta il concetto di nemico viene orientato completamente, nello justus hostis, attorno alla qualità di Stato sovrano, per cui – senza alcun riferimento alla justa o injusta causa – viene stabilità la parità e l’eguaglianza tra le potenze belligeranti e raggiunto un concetto non discriminante di guerra, poiché anche lo Stato sovrano belligerante senza justa causa rimane, in quanto Stato, uno justus hostis”[34].

L’insistenza con cui Schmitt insiste sia sugli elementi tipici e necessari dello Stato (che permettono di relativizzare la guerra) e in particolare sulla “forma”, è conseguenza, per l’appunto, della possibilità di applicazione più sicura e meno foriera di danni di un diritto basato su istituzioni statali, con rappresentanti, organi, confini e responsabilità, rispetto ad un “sistema” di norme, e, ancor più, di valori.

Nel senso che gli da Schmitt il concetto (politico e giuridico) di forma  appare strettamente connesso a quello di ordine. Ciò che è in forma è ordinato per definizione; una guerra in forma tra due contendenti in forma permette anche in una situazione dinamica e tendenzialmente dis-ordinata come il conflitto bellico, di ridurre danni e identificare responsabilità. Ciò è permesso dall’ordinamento “gerarchico” dell’istituzione statale e, in particolare, dalla sovranità. Vale, in tal senso, ancora la definizione di S. Agostino che “l’ordine è la disposizione degli esseri uguali e disuguali che assegna a ciascuno il posto che gli conviene”[35].

È vero che avere una forma, significa anche avere delle norme (e delle relazioni). Ma che sia prevalente l’aspetto della forma nel senso, cennato, di autorità certa e responsabile, capace di comando efficace, cioè della prevalenza, ai fini del mantenimento di una situazione ordinata, di ciò che risponde alla domanda: chi decide? rispetto a quello della giustezza della decisione, lo dimostra proprio immaginare l’inverso. Se non vi fosse chi decide, e tutto il problema consistesse nella giustizia (contenutistica) delle decisioni, ognuno, come sopra cennato, potrebbe appellarsi contro (o invocare) la pretesa ingiustizia: e il disordine, causato da discussioni, lotte e querele interminabili non avrebbe fine. La limitazione dello jus belli a soggetti  in forma consente, peraltro, di ridurre i contendenti legittimi e gli effetti dei conflitti. E parlare di forma, a seguire Schmitt e Hauriou, significa parlare di istituzione. In effetti il problema del quis judicabit era posto proprio dai tardo-scolastici, per cui lo justum bellum era l’unico rimedio possibile dato che tra i contendenti non c’è un “terzo” superiore, provvisto dell’autorità di decidere[36]. E soprattutto quel “terzo superiore” deve necessariamente essere (incorporato in) un’istituzione. Anche se nel pensiero occidentale da Suarez a Locke, da Vattel ad Hegel, si ricorre all’immagine del Giudice come “terzo superiore”, onde la mancanza di quello, legittima (in certi casi) il ricorso alla guerra, tale richiamo è, in effetti, da intendere come quello della mancanza di un’istituzione “terzo superiore”. Non è l’esistenza di Tribunali, come sia le vicende del Medioevo e gli istituti del Sacro Romano Impero sia i processi ai vinti e i Tribunali internazionali diffusisi nel XX secolo dimostrano, a evitare la guerra e, soprattutto, a applicare efficacemente il diritto, ma l’istituzione-Stato, in grado di esercitare un comando effettivo ed eseguito[37].

VII

La sovranità e la rigorosa limitazione tra interno ed esterno (all’unità politica) hanno fatto si che, salvo eccezioni, la lotta tra valori, come i conflitti su norme e forme istituzionali, fossero confinati all’interno dell’unità politica. Tuttavia l’evoluzione del secolo scorso manifesta l’inversione di tale tendenza: la forma, le norme e i valori di una comunità organizzata in Stato non sono più indifferenti agli altri; d’altro canto la semi-legittimazione dei movimenti di resistenza ha moltiplicato i soggetti dello jus belli.

Il richiamo poi a diritti e valori, come l’istituzione di Tribunali internazionali deputati a tutelarli non serve a cambiare la realtà, ma semmai a occultarla.

La politica, e quella estera non meno dell’interna, ha la propria realtà nella volontà e nel comando. Hegel, esponendo il diritto internazionale classico, riteneva che “gli Stati sono l’uno verso l’altro nello stato di natura, e i loro diritti hanno la loro realtà non in una volontà universale costituita a potere sopra di essi, bensì soltanto nella loro volontà particolare” per cui “non c’è nessun Pretore tra gli Stati” e criticava la concezione Kantiana della pace perpetua[38]: “La volontà particolare del tutto, è…, in generale il benessere del tutto. Di conseguenza, questo benessere è la legge suprema nel comportamento di uno Stato verso altri Stati”[39]. E proseguiva che il benessere sostanziale è quello di uno Stato particolare, nei suoi interessi e situazioni concrete; per cui “il principio per la giustizia delle guerre e dei trattati, non è un pensiero universale (filantropico), ma è il benessere realmente offeso o minacciato nella sua particolarità determinata[40]. Il criterio di giustizia della guerra, coincide così, in Hegel, con quello della protezione dell’esistenza e della potenza dello Stato; quanto all’obiezione del conflitto tra morale e politica aggiunge: “la sostanza etica, lo Stato, si dà immediatamente – cioè, ha il suo diritto – non in un’esistenza astratta, bensì concreta: solo questa esistenza concreta, e non uno dei molti pensieri universali reputati come precetti morali, può essere principio delle sue azioni e dei suoi comportamenti”. D’altra parte, dato che una comunità organizzata in Stato, parafrasando Sieyès “è tutto ciò che può essere per il solo fatto di esistere”, ciò significa in primo luogo che non ha nessuna necessità di legittimazione etica o giuridica, ossia di corrispondere ad un modello ideale di valori o di procedimento. Per cui i “valori” cui si ispira sono un fatto interno all’unità politica, ne è possibile giudicare dalla conformità etica o giuridica il diritto – o meno – ad un’esistenza indipendente.

In questo contesto il richiamo ai valori, ancor più di quello al diritto, appare un potente moltiplicatore della conflittualità ed un promotore d’irregolarità, perché la ripresa della justa causa e l’affievolirsi dello justus hostis è la duplice ragione della de-istituzionalizzazione (de-statalizzazione) del diritto internazionale; e l’istituzione, più che la norma, è ciò che assicura normalità e regolarità effettive. Già Montesquieu sottolineava che “le droit de la guerre dérive donc de la nécessité et du juste rigide”. Ma se, di converso, lo si fonda su “principes arbitraires” di gloria, etichetta, (o attualmente su valori o diritti umani), “des flots de sang inonderont la terre[41]. La lotta per l’esistenza è sempre legittima: quella per dei valori non altrettanto.

Se la causa belli è costituita dalla volontà di diffondere (od imporre) diritti, istituti, valori che appaiono naturali (perché condivisi) da alcuni Stati, ma estranei ad altri – o assai meno condivisi – i “valori” (come le altre causae belli) sono, da un lato, la ragione per aggirare e superare i limiti (confini), attraverso un “diritto d’ingerenza” dell’istituzione – Stato, e, nel caso estremo, distruggerla: il tutto senza che un’imposizione dall’ “esterno” dei valori abbia un sicuro (e necessario) consenso, e, peraltro, senza che questo possa, in ogni caso, supplire, come strumento integrativo esclusivo, la pluralità dei “tipi” d’integrazione (cioè, in sintesi, quelli dell’istituzione – Stato debellanda).

Dall’altro una lotta per dei valori, diviene, in ogni caso, per necessità logica e storica, una lotta per l’affermazione (e il dominio) di una istituzione rispetto a un’altra. In particolare il tentativo di esportare l’ideologia occidentale – con mezzi bellici – appare il primo passo per costituire un nuovo assetto (istituzionale) di potere. Un impero che sostituisca il concerto pluralistico degli Stati[42].

Peraltro, come cennato, l’agire per dei “valori” non sfugge affatto alla logica del  politico: in realtà chi sostiene di rappresentare un valore più alto, rivendica per ciò di avere titolo per comandare chi preferisce quello più basso. La logica “gerarchica” dei valori si trasforma perciò in una dinamica di potere, particolarmente apprezzata in un periodo della storia umana in cui il potere deve render conto ad un’opinione pubblica, spesso de-politicizzata, ed ornarsi all’uopo di buone e commendevoli intenzioni. Sotto le quali nascondere o edulcorare la realtà della potenza e del comando, che non è un rapporto tra valori ma tra volontà, una delle quali prevale sulle altre. A confronto di ciò, il (notissimo) discorso degli ambasciatori ateniesi agli abitanti dell’isola di Melo, con la sua realistica e, a tratti, spudorata franchezza, è quanto di più onesto si possa immaginare[43].

Teodoro Klitsche de la Grange

 

* Questo articolo è stato scritto su sollecitazione di Paul Piccone, nell’ultimo colloquio che abbiamo avuto nel giugno 2004. E’ dedicato quindi, essendo anche suo, alla memoria dell’amico scomparso. E’ il “seguito” della Teoria del partigiano, oggi pubblicato su Telos n. 27 (Spring 2004), Ciudad de los Césares n. 69 (junio 2004) e su Imperi (n. 3 del 2004).

[1] V. Die Tyrannei der Werte,trad. it., Roma 1987 p.71(i corsivi sono nostri).

[2] Trad. it. ne Le categorie del politico. Bologna 1972 p. 260.

[3] La thèorie de l’institution et de la fondation (Essai de vitalisme social) , Paris, 1925, trad. it. Milano 1967 p. 45.

[4] L’ordinamento giuridico 1918, 2ª ed. Sansoni Firenze 1947 p. 130 e proseguiva: “sotto certi punti di vista , si può anzi ben dire che ai tratti essenziali di un ordinamento giuridico le norme conferiscono quasi per riflesso: esse, almeno alcune, possono anche variare senza che quei tratti si mutino, e, molto spesso, la sostituzione di certe norme con altre è piuttosto l’effetto anziché la causa di una modificazione sostanziale dell’ordinamento”.

[5] Op. ult. cit.

[6] op.cit. (trad. it.), Milano 1967, p.45 (i corsivi sono nostri).

[7] op-cit. pp 16-17 (i corsivi sono nostri).

[8] V. Der Nomos der erde, trad. it. Milano 1991, pp400-403.

[9] V. Schmitt op. ult. cit. p.400. Cioè, in sostanza, l’effettività del comando (e del consenso). Si noti, che, nel caso, fu riconosciuta la Confederazione degli Stati schiavisti, malgrado il “valore” della libertà personale fosse da secoli patrimonio degli Stati europei e del pensiero occidentale.

[10] v. Santi Romano Frammenti di un dizionario giuridico, Milano 1947, p.224.

[11] Per una sintesi del concetto e delle teorie del valore, si rimanda alla voce “Valore” redatta da Ugo Spirito in Enciclopedia Italiana vol. XXXIV, p. 944, Roma 1937.

[12] V. trad. it. di P. Rossi ne “Il metodo delle scienze storico-sociali” Milano 1980, p. 332.

[13] Die Tyrannei der Werte, tra. it. cit., pp. 65-66

[14] v. J. Freund, L’essence du  politique, Paris 1965

[15] op. ult. cit.p.61 (i corsivi sono nostri).

[16] op.ult. cit. pp.57-58 (il corsivo è nostro).

[17] v. C. Schmitt Politische Theologie trad it. P. Schiera ne “Le categorie del politico”, Bologna 1972

[18] Schmitt, Die Tiranney der Werte, p. 36.

[19] v. M. Hauriou Précis de droit constitutionnel, Paris 1929, p. 71

[20] M. Hauriou op. ult. cit. p. 11; e prosegue: Le primat de la liberté est remplacé par celui  de l’ordre et de l’autorité. La maxime fondamentale n’est plus: “Tout ce qui n’est pas défendu est permis jusqu’à la limite” elle est: “Tout ce qui n’est pas conforme à la constitution hypothétique est sans valeur juridique”.

[21] Santi Romano ne “L’ordinamento giuridico”, scrive, facendo l’esempio del giudice, che è possibile concepire un ordinamento “che non faccia posto alla figura del legislatore, ma solo a quella del giudice”. Da tale affermazione consegue che per essere completo, non gli occorrono norme che regolino ogni possibile caso, ma autorità che lo decidano. Ed è la risposta più conseguente al problema  del quis judicabit? v. op. cit. p. 20

[22] Politische Theologie trad. it. ne Le categorie del politico, Bologna 1972 pp. 46-47 (il corsivo è nostro).

[23] op. ult. cit. p. 57

[24] V. per la Corte Costituzionale italiana tra le più recenti 18 ottobre 2002 n. 422; idem 9 luglio 2002 n. 333; idem 7 febbraio 2000 n. 39.

[25] Il che non significa che tali scelte possano essere tranquillamente fatte anche dal giudice. Un giudice che invece di essere bouche de la loi, come nello Stato di diritto, diventi bouche de la valeur, con ciò giudicando di comportamenti (e anche di norme) in base a valori e non ad altre norme, sconta il fatto di divenire, nel migliore dei casi, assai impreciso. Nel peggiore, di surrogare il legislatore, o di sostituirlo. Ma ambedue gli esiti sono in aperto ed espresso contrasto con i principi dello Stato di diritto.

[26] Il pensiero (politico e) gius-pubblicistico “classico” ha come canone fondamentale quello dell’esistenza e non della normatività. È orientato dal dasein e non dal sollen.

Il problema (e l’imperativo) della politica e del costituzionalismo “classico” è come far esistere, vivere (e prosperare) la comunità politica, e solo in secondo luogo, secondo quali norme e valori.

L’aspetto “tecnico” del pensiero di Machiavelli, notato da Schmitt, come la secolarizzazione (cioè la separazione tra potere temporale e spirituale) ne sono i segni (e i fenomeni) più antichi. E il tutto era sviluppato nella concezione della ragion di Stato e nel diritto pubblico “classico”, partendo dal presupposto razionale che ciò che non esiste (o non è in grado di esistere) non può neanche darsi delle norme o dei valori (comunitari): ancora Croce scriveva “non vita normale, se prima non sia posta la vita economica e politica: prima il “vivere” (dicevano gli antichi) e poi il “ben vivere” (v. Etica e politica, Bari 1945, p. 228). A chi non è in grado di esistere politicamente, i valori secondo i quali vivere sono dettati da altri: è così sollevato dal peso della decisione di sceglierli.

[27] V. R. Smend Verfassung und verfassungrecht München-Leipzig 1928, Duncker and Humblot, trad. it., Milano 1988, p. 102.

[28]Se la realtà della vita dello Stato si presenta come la produzione continua della sua realtà in quanto unione sovrana di volontà, la sua realtà consisterà nel suo sistema di integrazione. E questo, cioè la realtà dello Stato in generale è compreso correttamente solo se concepito come l’effetto unitario di tutti i fattori di integrazione che, conformemente alla legislatività dello spirito rispetto al valore, si congiungono sempre di nuovo e automaticamente in un effetto d’insieme unitario”. Op. cit. p. 111; e poco dopo “La dissoluzione del sistema di valori medioevale significa nel contempo la dissoluzione della comunità di valori organica, naturale, non problematica, della “comunità” anche nel senso di Tönnies, cioè la fine dell’epoca in cui l’integrazione è prevalentemente materiale. L’uomo moderno spiritualmente atomizzato, desostanzializzato e funzionalizzato non è l’uomo senza valori e sostanza, ma l’uomo privo di valori costitutivi di comunità, soprattutto di quelli tradizionali, che sono ad un tempo valori necessari di un ordine culturale e sociale di tipo statico. Nei suoi confronti, perciò, il processo di formazione della comunità ricorre più di prima a tecniche di integrazione funzionale”op. cit. p. 112 (i corsivi sono nostri).

[29] La Théorie…, trad. it. cit., p. 15.

[30] Droit des gens, Liv. II, cap. III, § 40; altrove ritorna sull’argomento “La première règle de ce droit, dans la matière dont nous traitons, est que la guerre en forme, quant à ses effets, droit être regardée comme juste de part et d’autre. Cela est absolument nécessaire, comme nous venons de le fair voir, si l’on veut apporter quelque ordre, quelque règle, dans un moyen aussi violent que celui des armes, mettre des bornes aux calamités qu’il produit, et laisser une porte toujours ouverte au retour de la paix. Il est même impraticable d’agir autrement de Nation à Nation, puisqu’elles ne reconnaissent point de juge. Ainsi les droits fondés sur l’état de guerre, la légitimité de ses effets, la validité des acquisitions faites par les hommes, ne dèpendent point, extérieurement et parmi les hommes, de la justice de la cause, mais de la légitimité des moyens en eux-mêmes; c’est-à-dire de tout ce qui est requis pour constituer une guerre en forme” (i corsivi sono nostri), (liv. III, cap. XII, § 190).

[31] Tuttavia era ritenuto che anche se sussisteva la justa causa muovere guerra senza averne autorità, la rendeva ingiusta v. Suarez De charitate disp. 13 De bello: bellum quod…sine legitima auctoritate indicitur, non solum est contra charitatem, sed etiam contra iustitiam, etiamsi adsit legitima causa. Poco dopo ribadisce “nullum potest esse justum bellum sin subsit causa legitima et necessaria. Est conclusio certa et evidens..”

[32] C. Schmitt Der nomos der erde trad. it. Milano 1991 pp. 182 e ss.

[33] op. ult. cit. p. 182

[34] op. loc. cit. (il corsivo è nostro).

[35] De Civitate Dei, lib. XIX, 13

[36] V. Suarez op. cit. “Sicut supremus princeps potest punire sibi subditos quando aliis nocent, ita potest se vindicare de alio principe, vel republica, quae ratione delicti ei subditur; haec autem vindicta non potest peti ab alio iudice, quia princeps, de quo loquimur, non habet superiorem in temporalibus”; all’obiezione che è contro lo jus naturae che in questo modo nella stessa controversia la parte sia attore e giudice replicava “non posse negari, quin in hoc negotio eadem persona quodammondo subeat munus actoris et iudicis, sicut etiam in Deo conspicimus, cui potestas publica similis est; causa vero alia non est, quam quia actus hic iustitiae vendicativae fuit necessarius humano generi, et naturaliter atque humano modo non potuit via ulla dari convenientior”.

[37] Che il problema sia, per l’appunto, quello dell’esecuzione, e non – o non tanto – dello jus dicere è evidente. Hegel, criticando Kant scrive che il tutto presuppone la concordia tra gli Stati. Il problema vero si pone, tuttavia, quando c’è la discordia. (v. nota 37). In realtà l’antitesi tra diritto senza forza e forza senza diritto è verbale, dato che, in concreto, entrambe portano a situazioni di anarchia e conflittualità diffusa. L’antitesi reale all’anarchia è l’istituzione, che non nega né l’esigenza del diritto né la necessità della forza, ma regolarizza la seconda attraverso il primo, istituzionalizzandoli.

[38] “La rappresentazione kantiana di una pace perpetua, da attuare mediante una lega di Stati che appiani ogni controversia e che, in quanto potere riconosciuto da ogni singolo Stato, componga ogni discordia rendendo quindi impossibile la decisione per via bellica, presuppone la concordia tra gli Stati. Tale concordia, però, si baserebbe su fondamenti e aspetti morali, religiosi o quali che siano: in generale, avrebbe pur sempre per base delle volontà sovrane particolari, e perciò rimarrebbe affetta da accidentalità”. V. Lineamenti di filosofia del diritto, § 333, trad. it. di V. Cicero, Milano, 1995.

[39] Op. cit. § 336.

[40] Op. cit. 337.

[41] Esprit des lois, lib. X, Cap. II.

[42] V. sul tema il saggio di J. C. Paye Lotta antiterrorista, un atto costituente (Behemoth n. 36).

[43] La guerra del Peloponneso V, 84-113: il punto decisivo delle argomentazioni ateniesi è allorchè esprimono la “costante” politica del dominio: “ la nostra opinione sugli Dei, la nostra sicura scienza degli uomini ci insegnano che da sempre, per invincibile impulso naturale, ove essi, uomini o Dei, sono più forti, dominano. Non siamo noi ad aver stabilito questa legge, non siamo noi che questa legge imposta abbiamo applicata per primi. Era in vigore quando ce l’hanno trasmessa, e per sempre valida la lasceremo noi che la osserviamo con la coscienza che anche voi, come altri, ci imitereste se vi trovaste al nostro grado di potenza”; e l’inutilità del ricorso ad argomenti di giustizia: “ gli uni e gli altri sappiamo che nel linguaggio della vita reale le ragioni della giustizia vengono prese in considerazione solo quando la necessità preme ugualmente sull’una o sull’altra parte; se no, ci si adatta: i più forti agendo e i deboli cedendo”.