LA TAUMATURGIA DELL’INVESTIMENTO SOCIALE, di Giuseppe Germinario

Riprendo un interessante articolo di Luca Ricolfi apparso su il sole 24 ore del 25 settembre scorso dal titolo “Quando a crescere è il lavoro degli immigrati”, le cui conclusioni hanno provocato a suo tempo in me, devo confessarlo, una certa ripulsa ( http://www.pdmeda.it/pd/2016/09/26/quando-a-crescere-e-il-lavoro-degli-immigrati/ ).
Il testo parte dalla considerazione che il divario tra la pesante situazione occupazionale e la percezione di essa ancora più catastrofica derivi dal dato che la perdita in otto anni di quasi due milioni di posti di lavoro di italiani, i cosiddetti facitori di opinione pubblica è in parte mascherata dall’incremento di ottocentomila occupati tra gli immigrati, estranei alla costruzione mediatica. Il sociologo adduce tre ragioni di queste tendenze divaricanti. La prima è fisiologica, legata alla quota crescente di immigrati stanziati in Italia. Le altre due meritano la citazione integrale:”La seconda ragione è che, durante la crisi, la domanda di lavoro è crollata nelle posizioni ad alta qualificazione (tipicamente ricercate dagli italiani) ed è aumentata sensibilmente in quelle a bassa e bassissima qualificazione (tipicamente accettate dagli stranieri). La terza ragione è più generale, e probabilmente più difficile da riconoscere. Anche se molti si lamentano della situazione e della mancanza di prospettive, la realtà è che la maggior parte degli italiani hanno raggiunto un livello di benessere sufficiente a renderli alquanto “choosy” (copyright Elsa Fornero) nella ricerca di un lavoro. In tanti non cercano semplicemente un lavoro, bensì un lavoro adeguato all’opinione che essi si sono fatti di sé stessi, opinione che scuola e università si incaricano di certificare. L’esatto contrario degli stranieri, che sono disposti ad accettare un lavoro anche al di sotto, molto al di sotto, delle qualificazioni acquisite e certificate.” Da qui il giudizio: “Si può deplorare quanto si vuole questa situazione, e immaginare che quelli degli italiani siano diritti negati, e la condizione degli stranieri sia di puro e bieco sfruttamento (come in effetti talora è: vedi le tante Rosarno, vedi la piaga del lavoro nero). E tuttavia c’è anche un altro modo di raccontare le cose. Gli stranieri immigrati in Italia sono esattamente come noi, solo che vivono in un altro tempo, un tempo che noi abbiamo vissuto negli anni ’50 e ’60, quando il nostro livello di istruzione era più basso e non c’erano genitori e nonni disposti a mantenerci finché trovavamo un lavoro coerente con le nostre aspirazioni. Quanto a noi italiani, è certamente vero che i posti sono pochi, troppo pochi (ce ne mancano circa 6 milioni per diventare un paese appena normale, con un tasso di occupazione in media Ocse), ma purtroppo è anche vero che paghiamo lo scotto di aver liceizzato tutto –scuola e università – senza valutarne le conseguenze. In un paese che, colpevolmente, ha scarso bisogno di laureati e continua ad avere bisogno di innumerevoli competenze tecniche e professionali intermedie, aver svuotato di ogni vero saper fare la maggior parte dei diplomi di scuola secondaria superiore non è stata una grande trovata”; quindi la conclusione:” Forse, l’avanzata occupazionale degli immigrati, con la loro umiltà e determinazione, è anche un silenzioso segnale rivolto a noi, un invito a riflettere sullo scarto fra quel che siamo e quello cui crediamo di avere diritto”.
Si direbbe una salutare immersione nella realtà; dopata però a mio parere da dosi eccessive di senso comune dalle scarse prospettive.
• La crisi ha determinato quindi un crollo nelle posizioni ad alta qualificazione. In realtà il crollo riguarda alcuni paesi, tra questi l’Italia, mentre altri vivono un declino, una riorganizzazione o addirittura una espansione. La crisi, la situazione di rottura, quindi, agisce e produce condizioni e tendenze diverse. Non è la crisi di per sé, ma la condizione di un paese in questa situazione di rottura e transizione e la capacità e l’ambizione della sua classe dirigente a determinare il realismo delle aspettative individuali.

Avviciniamoci dunque al cuore del problema posto da Ricolfi, la schizzinosità (choosy) degli italiani nella ricerca del lavoro. Pur con tutte le tare e le precauzioni da adottare su di un argomento così esposto alla demagogia e al pressapochismo, è indubbio che le dinamiche di sviluppo ed emancipazione del paese degli ultimi trenta/quaranta anni abbiano ingenerato altrettante notevoli aspettative ed aspirazioni individuali, specie in alcune zone e categorie sociali del paese.
Altrettanto vero che tali aspettative siano state alimentate da una concezione della scuola e della università che riduceva spesso e volentieri l’istruzione e la specializzazione ad un sinonimo orientato più verso la prima che la seconda, fermo restando l’indubbio progresso sociale rappresentato da un elevato livello di istruzione.
Le stesse specializzazioni si sono orientate prevalentemente tra l’altro verso ambiti diversi da quelli tecnico-scientifici.
Una combinazione micidiale di orientamenti individuali che hanno distorto pesantemente il mercato del lavoro, spesso sostituito alla professione e alla competenza professionale l’aspirazione all’impiego e concesso prestigio e status a determinati ambiti rivelatisi alla fine pletorici e parassitari.
Da qui l’invito dell’autore a “riflettere sullo scarto fra quel che siamo e quello cui crediamo di avere diritto”.
Si tratta però di un invito che nel migliore dei casi si risolve in un moralismo sterile e inconcludente, giacché una tendenza e un orientamento diffuso se non generalizzato non può essere il mero frutto della sommatoria di scelte individuali. Nel peggiore e purtroppo sempre più corrispondente al clima politico e culturale del paese, non fa che assecondare quel tentativo di salvaguardia della posizione dei ceti intermedi più fortunati nella difesa e preservazione delle proprie prerogative di ceto e di casta le quali stanno bloccando completamente le possibilità di mobilità sociale verso l’alto e soffocando le possibilità di trasformazione e riorganizzazione positiva del paese.
Quegli orientamenti e quelle scelte individuali sono la conseguenza diretta di caratteristiche strutturali del paese e dei suoi ordinamenti che le classi dirigenti succedutesi hanno alimentato e promosso piuttosto che scoraggiato.
A titolo di esempio, l’inflazione di avvocati e commercialisti e il corrispondente alimento di aspettative trova corrispondenza esatta nelle caratteristiche del sistema fiscale e tributario e in quelle del sistema giudiziario e giuridico; una saturazione aggravata dallo scarso peso della grande industria e dal conseguente scarse possibilità di accesso in altri settori di queste professionalità.
L’ambizione all’impiego è solo in parte il riflesso della necessaria natura burocratica delle amministrazioni pubbliche; è soprattutto la conseguenza della particolare e concreta organizzazione burocratica dello Stato Italiano, del suo particolare ordinamento gerarchico, dell’effettivo livello di responsabilità esercitato nelle funzioni, delle procedure di selezione e nomina dei quadri dirigenziali, della sovrapposizione di competenze.
Non siamo giunti però ancora al cuore del problema.
L’errore secondo Ricolfi è “aver liceizzato tutto –scuola e università” “In un paese che, colpevolmente, ha scarso bisogno di laureati e continua ad avere bisogno di innumerevoli competenze tecniche e professionali intermedie”.
Intanto lo stesso autore sembra smentirsi in un altro articolo (http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2016-10-16/il-problema-e-difficolta-non-latino-112506.shtml?uuid=ADC45JdB&fromSearch) perché il problema maggiore della scuola italiana sembra essere, secondo me a ragione, la svalutazione della difficoltà nello studio.
Uno studio della Fondazione Edison del 2012, con il direttore Marco Fortis non ancora pervaso dall’ottimismo oltranzistico legato alla sua partecipazione al Governo Renzi, quantificava la necessità insoddisfatta di personale qualificato nel Nord-Italia in poco più di centomila unità. Una cifra attualmente, secondo me sovrastimata, visto che in questi ultimi due anni la crisi sta decimando ormai anche aziende sane dal punto di vista organizzativo e tecnologico. Una cifra comunque certamente importante, della quale tener conto negli indirizzi scolastici, ma sicuramente poco significativa rispetto ai “sei milioni di posti mancanti” necessari a raggiungere un tasso di occupazione paragonabile a quello dei paesi del Nord-Europa.
Del resto, l’esodo che sta colpendo da alcuni anni il paese non riguarda più soltanto i laureati, specie quelli in materie tecnico-scientifiche, ma anche i diplomati, buona parte dei quali trovano collocazione nei settori produttivi-manufatturieri dei paesi ospitanti.
Alla luce di queste ultime due considerazioni l’affermazione finale dell’autore assume un tono particolarmente inquietante se non funereo.
Rappresenta soprattutto il de profundis ad un altro caposaldo delle politiche di sviluppo e di progresso tipiche del sodalizio progressista di questi ultimi decenni: l’investimento sociale.

LA TAUMATURGIA DELL’INVESTIMENTO SOCIALE

Negli ultimi anni l’espressione “INVESTIMENTO SOCIALE” ha assunto il valore taumaturgico di uno slogan. Piuttosto che la spesa sociale ex-post mirante a tappare le falle con criteri assistenziali, piuttosto che la tesi liberista di alleggerimento o soppressione del welfare, ritenuto un mero costo, mirante a ripristinare le condizioni di equilibrio tra domanda e offerta di lavoro, “le politiche sociali andrebbero viste come un investimento che la società mette in campo per garantirsi un miglior ritorno economico e sociale nel futuro” (dal libro di Ranci, Ascoli, Sgrata “Investire nel sociale”); nella fattispecie “la strategia dell’investimento sociale lega, invece, la problematica della disoccupazione innanzitutto alla carenza di adeguate qualificazioni e competenze necessarie per trovare lavoro oggi e in futuro… orientata a privilegiare politiche sociali volte alla crescita del cosiddetto capitale umano” (idem). Politiche, si concede tra i più avveduti, “accompagnate da interventi strutturali”, lungi però questi ultimi da essere definiti nel corso di questi decenni.
Il Governo di Renzi, sostenuto dal suo mentore Gutgeld, è stato il più convinto sostenitore di questo indirizzo. Nell’ambito ad esempio della formazione scolastica, l’autonomia degli istituti scolastici, il ruolo dei finanziatori privati, i progetti di alternanza scuola-lavoro, la riforma dell’apprendistato rientrano coerentemente in questi indirizzi; indirizzi che, a prescindere dal merito e tenuto conto dei necessari tempi di attuazione, immediatamente hanno dovuto scontrarsi con la realtà della struttura produttiva e di servizi del paese.
Così, pochi mesi dopo il varo della legge sono stati aboliti gli obblighi formativi esterni all’azienda degli apprendisti; i casi di alternanza scuola-lavoro sono ancora limitati; l’attenzione del mondo imprenditoriale verso la scuola, in particolare gli istituti tecnici e professionali è “ancora” abbastanza residuale; permane l’enorme problema del ruolo delle scuole tecniche e professionali nelle vaste zone del paese economicamente depresse.
Sono politiche, come pure quelle del job act, mutuate da altri paesi; nel migliore dei casi ignorano il contesto produttivo ed imprenditoriale, nel peggiore ne assecondano le tendenze praticamente ormai irreversibili ad un declassamento “spontaneo” delle strutture produttive nel contesto internazionale.
Si tratta di un contesto profondamente mutato rispetto agli scenari di appena trenta anni fa.
• La grande azienda è praticamente scomparsa e soprattutto è pressoché scomparso il loro controllo strategico. Ne consegue la crescente estraneità degli interessi del paese dalle scelte strategiche delle imprese, dalle pianificazioni di marketing e dalle politiche di innovazioni di prodotto con buona pace della beota euforia per le acquisizioni estere espressa dai vari Renzi e Fassino
• Le stesse aziende capofila delle filiere produttive composte da medie e piccole aziende sono sfuggite anch’esse in gran parte al controllo dell’imprenditoria locale
• La stessa gestione delle reti e della logistica integrata, quest’ultima in via di formazione con anni di ritardo, deve subire profondi condizionamenti esterni e risolvere in diversi casi enormi problemi legati alla frammentazione dell’apparato produttivo
• L’innovazione tecnologica e la miglioria di prodotto, già deficitaria, è in buona parte legata all’iniziativa occasionale interna alle piccole aziende difficilmente trasmissibile nei software indispensabili alla digitalizzazione dei processi
Sono una parte importante dei fattori che subordinano la ricerca e soprattutto il riconoscimento professionale ad altri fattori del tutto estranei.
Arretratezza tecnologica e dei criteri di gestione, struttura proprietaria delle aziende, fuga delle posizioni strategiche, politiche sindacali, specie nelle grandi aziende di servizio, le quali assecondano gli interessi delle grosse concentrazioni di dipendenti piuttosto che la collocazione professionale; tutti aspetti che contribuiscono ad accentuare i processi di precarizzazione già presenti nel mondo del lavoro a livello globale con l’aggravante del disconoscimento massivo delle competenze professionali. Il plus proviene dalla confermata beotitudine di gran parte della nostra classe dirigente, tra questi il nostro “bomba” (Renzi) prontissimo a esaltare il bassissimo livello retributivo dei nostri ingegneri e tecnici e ad avallare ad esempio con le ipotesi di appiattimento delle prestazioni previdenziali a prescindere dalle erogazioni contributive e di reddito di cittadinanza tale disconoscimento.
Si tratta di una classe dirigente che non fa che assecondare le peggiori tendenze prevalenti nel paese e nel mondo imprenditoriale tese a trasformare nel migliore dei casi il nostro apparato produttivo in un opificio e in un cultore di nicchie esposti alla peggiore concorrenza, subordinati alle strategie altrui con scarsissime possibilità, grazie alla cessione degli asset strategici, di partecipare con un qualche ruolo decisionale ai processi di concentrazione ed integrazione. Non si tratta, quindi, di scelte economiche neutre, ma di politiche economiche legate al tipo di collocazione e di autonomia decisionale che una classe dirigente intende subire o scegliere.
Una politica di investimento sociale può essere il giusto corollario di una politica generale minimamente ambiziosa e autonoma; slegata da obbiettivi di recupero delle prerogative di un paese o addirittura complementare e propedeutica a questa politica di subordinazione non fa che alimentare sprechi di risorse, formazione di ceti magari pure colti quanto parassitari, corporativi e istupiditi, formazione di quadri e risorse disponibili per altri paesi e di strutture amministrative autoreferenziali. Una politica storicamente attenta alla redistribuzione ma altrettanto apparentemente indifferente alla modalità e alle finalità di produzione delle risorse. In questo si può racchiudere probabilmente la parabola efficientista di Matteo Renzi.
Le politiche degli ultimi due governi, per ultimo il programma di implementazione di industria 4.0, non fanno altro che sancire irreversibilmente tale tendenza e rendere particolarmente duro e problematico un programma di recupero. Stride il silenzio che circonda un programma così importante. Ne parlerò, appena possibile, in un articolo dedicato.
Per concludere, la chiosa finale dell’articolo di Ricolfi più che una presa d’atto realistica per ripartire, mi pare sia la sanzione complice di una cattiva condizione del paese. Il contributo dell’immigrazione mi pare che si risolva anch’esso in questo. Tanto più che la segnalazione di questi sviluppi occupazionali positivi, nascondono un altro esodo del tutto ignorato; quello di una manodopera immigrata, qualificatasi professionalmente nel corso di questi ultimi lustri nel nostro paese e fuggita all’estero attirata da migliori condizioni.

GEOPOLITICA-SPIETATA ( LUCIDA), ANALISI DI MARCO BERTOLINI

tratto dal sito http://www.congedatifolgore.com/it/geopolitica-spietata-lucida-analisi-di-marco-bertolini/#.WGazcU58Hep.facebook
Mi pare l’ulteriore conferma che nei centri vitali dell’amministazione del paese ci siano personaggi e forze sensibili a un recupero delle prerogative nazionali. Manca una espressione politica che possa dare loro espressione e forza

Pubblicato il 30/12/2016
GEOPOLITICA-SPIETATA ( LUCIDA) ANALISI DI MARCO BERTOLINI
Sicurezza Internazionale:
Intervento del Generale Marco Bertolini

edito da http://www.atlantismagazine.it/

Sicurezza Internazionale: Intervento del Generale Marco Bertolini – ATLANTIS

Italia e “Comunità Internazionale”

analisi di una crisi

Attorno a noi, nell’area euromediterranea della quale rappresentiamo il centro, il punto nel quale dalla società romana prima e cristiana poi è nata l’idea stessa di occidente, si stanno verificando crisi di portata epocale che consegneranno ai nostri figli un mondo diverso e molto più difficile e pericoloso di quello nel quale abbiamo vissuto noi, figli della guerra e spettatori della guerra fredda.

E’ una realtà che ormai si sta imponendo alla consapevolezza generale, anche se spesso prevale la tentazione di limitarsi a una microanalisi delle singole situazioni di crisi, nell’illusione di venirne a capo. Così facendo, però, si perde la visione d’insieme di quello che continua a riproporsi come il solito scontro tra gli interessi statunitensi e russi, di antica memoria, che non ci lascia che il ruolo rassegnato delle comparse, e spesso delle vittime, delle frizioni tra i due giganti.

Questa situazione è particolarmente pericolosa per un paese come l’Italia, esposto geograficamente come nessun altro e che nonostante questo pare avere optato entusiasticamente per il rifiuto di individuare “originali” interessi nazionali da difendere. Al contrario, preferisce di norma appiattirsi su quelli di una Comunità Internazionale (CI) volubile, volatile e difficilissima da definire.

Gioca un ruolo chiave in questo approccio passivo una impostazione costituzionale che sembra fatta apposta per tagliarci fuori dalla realtà.

L’esempio dell’inutile articolo 11 della Costituzione è emblematico: al di là dell’inconsistenza di un “ripudio” (della guerra) che non può che essere solo retorico, tale presa di posizione impedisce all’Italia di fare i conti (almeno a parole) con una costante della storia e toglie dignità agli strumenti militari dei quali continua comunque ad essere dotata (le Forze Armate). Conseguentemente, al nostro paese non resta che mettersi disciplinatamente al seguito di coloro che tali remore non nutrono e che continuano ad essere ben determinati a perseguire i propri interessi – ovviamente travestiti da interessi “comuni” – con tutti i mezzi, inclusi quelli bellici. E non parlo di qualche dispotico regime africano o centro asiatico, ma di paesi come la superpotenza statunitense, nonché di Russia, Gran Bretagna e Francia, per rimanere all’ambito europeo. Quanto alla Germania, non si pronuncia in merito per ovvie ragioni, ma continua da tempo a mantenere in salute e in esercizio uno strumento militare decisamente importante che sta ulteriormente potenziando.

Comunità Internazionale sopra tutti e prima di tutto, quindi. Ma di cosa stiamo parlando? L’idea di Comunità che nei desideri di molti illusi dovrebbe assicurare dignità a una nostra supposta vocazione alla passività in campo internazionale è quella che si dovrebbe concretare in una profonda comunanza di valori e di interessi, primo fra tutti quello della pace. Pace innanzitutto, anzi. Ma è effettivamente così? No, e lo confermano proprio le crisi che ci circondano.

Iniziamo da quella più vicina a noi e per la quale stiamo pagando un prezzo notevolissimo, la Libia. La CI fu quella che, smentendo platealmente tutte le precedenti iniziative italiane in quel paese, nella sua connotazione anglo-francese, pseudo-NATO e para-EU, nel 2011 decise unilateralmente di intervenire, prescindendo assolutamente dai nostri interessi e addirittura dal nostro parere di principale vicino a quell’area. C’è da chiedersi se si sarebbe comportata nella stessa maniera, vale a dire mettendoci di fronte al fatto compiuto, se nello Stivale ci fosse stato un altro Stato, non necessariamente uno di quelli rammentati in precedenza. Ma tant’è: in ogni caso, ci ha poi concesso la grazia di saltare sul suo carro di esportatori di democrazia e progresso fino a renderci compartecipi o complici della creazione della situazione che ci sta deliziando da oltre un lustro. In sostanza, la CI ci ha scalzato da una posizione molto favorevole nel mercato degli idrocarburi libici, ha messo a rischio molte nostre imprese che dopo decenni di buio erano riuscite a reimpiantarsi in Libia e ci espone ora ad un flusso migratorio epocale, dal quale gli ottimi rapporti con Gheddafi ci ponevano al riparo.

Oggi, nella sua rappresentazione europea (EU) ci sta supportando nella ciclopica opera di salvamento delle centinaia di migliaia di migranti economici che prendono mare clandestinamente dalla costa della Tripolitania verso le nostre coste, facendo comunque molta attenzione a farli sbarcare solo da noi e a mantenerli confinati al sud delle Alpi. Gran bella prova di solidarietà!

Quanto alla situazione politica in Libia, nella sua rappresentazione ONUsiana la CI, dopo aver supportato a lungo il parlamento di Tobruk e il suo Generale Haftar (uomo degli USA, si diceva), si è esibita nel classico salto della quaglia, passando all’appoggio di Serraj, neo Primo Ministro a Tripoli, a sua volta supportato dalle milizie simil-islamiste di Misurata. Ed è soprattutto a questo punto che la Comunità ha smesso di essere tale: si è divisa infatti in due, con una parte capeggiata da ONU e USA al fianco di Serraj puntando ad una Libia unita e presumibilmente sotto tutela ONU/USA/NATO (la EU si adeguerà), mentre un’altra parte continua ad appoggiare Tobruk. Quest’ultima non nasconde l’aspettativa di una divisione del paese che apra alla Francia la possibilità di sfruttare i giacimenti della mezzaluna petrolifera, consenta alla Russia di evitare un altro paese sotto tutela americana, magari riservandole un ulteriore sbocco mediterraneo alternativo o complementare a Tartus, e non faccia tramontare le mire territoriali egiziane nell’est del paese, almeno a livello di ingerenza. L’Italia, ovviamente e giustamente, si inquadra nel primo gruppo e c’è da chiedersi quanto questa sua collocazione strategica sia collegata alla strana ostinazione con la quale ha iniziato a cavalcare il caso Regeni dopo un lungo periodo di corte spietata all’Egitto, negandogli ora ogni possibilità di scampo onorevole, stretto come l’ha in un angolo fatto di accuse che se sono difficili da provare lo sono altrettanto da confutare.

Sul fronte europeo, la CI subisce fortemente il peso degli interessi globali degli USA che spingono NATO e conseguentemente la sua rappresentazione virtuale locale, l’EU, a una forte contrapposizione con il loro competitor russo. Da qui, il rafforzamento del fianco nord, con la scusa di tacitare le preoccupazioni delle Repubbliche baltiche e della Polonia ma soprattutto per consentire agli US di spostare molto più a destra la propria presenza in quello che vent’anni fa era il territorio del Patto di Varsavia. Poco più a sud, invece, incombe la spaventosa crisi ucraina, per la quale non si vedono ancora vie d’uscita. In questo paese, infatti, balena da un lato una ghiotta opportunità per gli statunitensi di escludere per sempre la Russia dal Mar Nero, privandola delle basi in Crimea, mentre da parte Russa al contrario continua a materializzarsi il rischio di essere tagliata fuori definitivamente dall’Europa e da ogni forma di presenza nel Mediterraneo. Quindi, uno sviluppo da non farsi sfuggire da parte americana e una opposta minaccia da evitare in campo russo che ha portato alla situazione di stallo armato attuale.

Ed ecco, a questo punto, ricomparire la stessa CI, nelle sue manifestazioni NATO ed EU, più che mai determinata a tagliare le unghie all’orso russo utilizzando uno dei più classici strumenti di pressione di sempre, le sanzioni. Peccato che con esse, che non intaccano assolutamente l’economia degli USA che le hanno fortissimamente volute, oltre alle unghie dell’orso cadano pure i denti del resto dell’Europa – e soprattutto dell’Italia – legate alla Russia da stretti vincoli economici e commerciali ora messi a rischio, nonché da una continuità territoriale che al contrario non c’è con “l’isola americana” (un oceano a ovest, uno a est e una munitissima recinzione a sud).

A ben vedere, tale situazione è strettamente collegata a quanto accade anche nel Medio Oriente, con particolare riferimento alla Siria, dove la Russia è intervenuta per mettere una pezza ai guai fatti da un’ipocrita idiosincrasia occidentale per le “dittature”, ma soprattutto per mettere al riparo le sue residue possibilità di essere presente nel Mediterraneo dopo i rischi corsi in Ucraina. La base navale di Tartus, infatti, è il punto di approdo tradizionale delle navi della Flotta russa del Mar Nero, basata a Sebastopoli in Crimea, e la sua perdita rappresenterebbe un vulnus micidiale.

Insomma, la Russia non può ritirarsi dalla Siria per buona parte delle ragioni per le quali non può lasciare la Crimea (e l’Ucraina). In tale contesto si inquadra anche l’attivismo russo volto a ricavarsi altri spazi nel bacino, dopo la richiesta statunitense al Montenegro di entrare nella NATO (il Montenegro nella NATO!), riducendole al lumicino la possibilità di trovare altri approdi in paesi non ostili nel Mare Nostrum. La recente apertura egiziana per l’uso a tal fine della base di Sidi el Barrani potrebbe rappresentare un importante punto di svolta a suo favore.

Non c’è quindi dubbio che il punto più dolente di questa epocale tensione politico-militare è rappresentato dal Medio Oriente (o meglio, Vicino Oriente, per noi), con particolare riferimento a Siria e Irak. Per la prima volta dalla crisi di Cuba, infatti, soprattutto in Siria si corre un rischio concreto di scontro diretto tra statunitensi e russi che potrebbe portare ad una conflagrazione generale. La Russia, per i motivi sopraindicati, è infatti intervenuta militarmente, bloccando l’avanzata dell’ISIS e di Jabath Al Nusra (Jabath Fatah al Sham, dopo una recente operazione di cosmesi terminologica per occultarne le antiche radici qaediste) ma soprattutto congelando il tentativo statunitense (e saudita e turco ed emiratino e qatarino e israeliano e francese e ….) di sostituire Assad con un regime favorevole. E ora, di fronte alla prospettiva di una vittoria siriana (e russa e iraniana ed Hezbollah) con la liberazione di Aleppo dai terroristi come in precedenza avvenuto a Palmira (evento importantissimo da un punto di vista non solo simbolico ma stranamente ignorato da tutti i media), compare sgradevole la prospettiva di un Mediterraneo con una forte presenza della Russia, determinata a giocare ancora alla potenza globale. La campagna mediatica (STRATCOM – Strategic Communication) tesa a presentare come crimini di guerra i tentativi russi e siriani di sgomberare Aleppo est dai terroristi e l’improvviso attivismo contro Mosul, dopo anni di souplesse militare, non possono togliere il dubbio che il tutto sia soprattutto finalizzato ad impedire che di qua a qualche mese ci sia un solo vincitore sul campo, la Russia coi suoi alleati, con le conseguenze del caso per “l’Occidente”, costretto da tempo a considerare alcuni di essi “terroristi”.

Tornando agli interessi nazionali, anche in questo caso non sussiste alcuna significativa coincidenza tra quelli italiani e quelli della Coalizione a guida US. Il regime di Assad è notoriamente molto vicino alle numerose comunità cristiane del paese, cosa che non dovrebbe essere indifferente per quella patria del cristianesimo che è ormai a torto considerata l’Italia, e alle Forze Armate siriane, con il significativo contributo di Hezbollah, si deve la liberazione e la messa in sicurezza di numerose e antichissime comunità cristiane locali. Inoltre, non c’è dubbio che la caduta di Assad ad opera dei terroristi non comporterebbe la fine della guerra ma il probabile inizio di una nuova fase, con curdi, turchi, sunniti e sciti tutti in guerra tra di loro, appassionatamente; senza contare le ovvie ingerenze statunitensi, israeliane, francesi e britanniche da mettere in conto. Le conseguenze di una situazione del genere nel vicinissimo Libano, che è appena riuscito a eleggere un Presidente della Repubblica dopo oltre due anni di crisi, sarebbero devastanti e dalla costa orientale del Mediterraneo potrebbe iniziare un traffico migratorio verso le nostre coste capace di far impallidire quello epocale in atto dalla Libia.

Insomma, è proprio un bel pasticcio.

Per concludere, una riflessione sul gran parlare che si fa in Italia di “Esercito Europeo”, trasposizione militare dell’innamoramento per l’idea stessa di Comunità Internazionale che non si capisce da cosa derivi, visti i precedenti. Si tratta di un tentativo per coinvolgere i paesi europei nei problemi di sicurezza continentale, con soluzioni valide per tutti. In realtà si limita ad una discussione sterile, priva di possibilità di realizzazione per la differente percezione che i singoli paesi hanno di se stessi, nel contesto internazionale. Come mettere d’accordo, ad esempio l’attivismo militare francese nel sud Sahara e in Medio Oriente, o quello britannico nell’ambito della Comunità “five eyes” in tutto il mondo, con l’atteggiamento ripiegato sui propri problemi interni del nostro paese?

Si tratta, a mio modesto avviso, di un tentativo ingenuo e maldestro di conferire dignità al nostro “costituzionale” disinteresse per le questioni militari e inerenti alla difesa; una specie di disperata offerta ad altri della nostra “sovranità militare”, visto il fastidio col quale per mille motivi (tutti assurdi) non ce ne vogliamo far carico da decenni. Si tratta, infine, di un modo per rinforzare una vocazione allo “stare in gruppo” che al contrario non ci possiamo più permettere, vista la pervicacia con la quale “gli altri” pensano prima di tutto ai fatti loro. Ci accontenteranno, magari, con un Comando multinazionale in Italia, come già fatto in passato a Firenze, nel quale fare svernare a rotazione qualche Generale o Colonnello a fine carriera. Ma sulle questioni sostanziali, che incidono sul futuro delle prossime generazioni, le loro generazioni, certamente tutti terranno le carte ben coperte, come sempre.

Invece, è necessaria una riflessione sulla peculiarità dei nostri interessi, selezionando attentamente i paesi in grado di condividerli, se necessario riconsiderando i dettagli di alleanze come la NATO e l’EU se si dimostreranno eccessivamente a trazione atlantica e nord europea. Ciò si renderà necessario e di vitale importanza qualora tali alleanze continuino a non dimostrarsi sensibili alle nostre particolari esigenze, come avvenuto anche nel passato recente, con particolare riferimento a Libia, Siria e Ucraina in primis, senza dimenticare i Balcani, trasformati in un coacervo di staterelli ostili tra di loro e alla mercè dei movimenti jihadisti che durante la guerra alla Serbia si sono radicati nell’area. Oggetto di particolare riflessione dovrebbero essere anche i rapporti con la Russia, come noi interessata, anche semplicemente per mere questioni geografiche, ad avere stabilità nel Mediterraneo e nel Medio Oriente e a prevenire processi migratori dall’Africa come quelli che stiamo subendo. Non si tratta di tradire l’alleanza atlantica, ma di convincerla che gli interessi del nostro continente non possono essere definiti e decisi solo da 6000 km di distanza, oltreatlantico.

Ma la vedo dura!

I PARADOSSI DEL REFERENDUM, di Giuseppe Germinario

I PARADOSSI DEL REFERENDUM, di Giuseppe Germinario
Il referendum sulle riforme istituzionali sta diventando il catalizzatore degli equivoci, dei trasformismi e delle debolezze che caratterizzano il dibattito tra le forze politiche in Italia.
Una confusione in una certa misura creata ad arte; dovuta soprattutto alla estrema difficoltà di emersione di una nuova classe dirigente capace di indirizzare il paese verso scelte che quantomeno allentino l’attuale stato di subordinazione e supina accondiscendenza non solo alle strategie di fondo dell’Alleanza Atlantica ma anche a quelle mediazioni tra la potenza egemone, gli Stati Uniti e le potenze intermedie in Europa, Germania e Francia che consentono il mantenimento del sodalizio eleggendo a vittime sacrificali designate i paesi nel bacino mediterraneo praticamente ridotti a teste di ponte delle avventure destabilizzatrici nell’intera area.
Scelte, è bene ribadirlo, che non intaccano ormai soltanto la dignità di un paese e della sua classe dirigente ma che compromettono pesantemente la condizione economica nonché l’equilibrio e l’equità della formazione sociale. Una novità di rilievo rispetto al compromesso raggiunto ai tempi della Guerra Fredda.
Il referendum, non ostante il giudizio di valore apparentemente oscillante del nostro premier, rappresenta un momento cruciale, ma non decisivo, della battaglia politica perché sancirà l’epilogo più o meno vittorioso su due dei quattro punti fondativi di questo Governo e ne determinerà le modalità future di sviluppo: la ricostituzione della verticale di potere tra Stato Centrale e Regioni, il ribilanciamento dei rapporti tra Governo e Parlamento a favore del primo; gli altri due punti essendo la riforma elettorale e la riforma della Pubblica Amministrazione, compresa quella dell’ordinamento giudiziario.
Tralascio, in questo articolo, la politica economica; un corollario nell’attività dell’attuale governo utile a garantire un minimo di coesione politica e sociale anche se fondamentale, con l’attuale indirizzo, nel compromettere le potenzialità strategiche di azione del paese.

LA FORZA DEL Sì

La forza della ragione del sì risiede nella necessità intrinseca delle due riforme sottoposte a giudizio.
L’attuale assetto delle Regioni, le loro funzioni e competenze, la loro frammentazione hanno portato ad un incremento esponenziale del contenzioso con lo Stato Centrale dovuto alla condivisione di competenze.
Non è questo però il principale aspetto negativo.
Ha portato alla dispersione del patrimonio di competenze tecniche e finanziarie presenti nelle grandi agenzie nazionali liquidate assieme a gran parte della grande industria pubblica entro la metà degli anni ’90, riducendo drasticamente la possibilità e la capacità di progettare e porre in opera attività ed infrastrutture strategiche.
Ha portato ad una frammentazione e ad una dispersione della spesa pubblica, in particolare quella di investimento e di ricostituzione e sviluppo del patrimonio produttivo ed infrastrutturale.
Ha consentito l’azione diretta degli apparati dell’Unione Europea sulle realtà regionali aggirando le competenze e le capacità di controllo di quegli stati nazionali, tra i quali l’Italia, dalle strutture amministrative più deboli, con l’obbiettivo dichiarato, nella sua opzione funzionalista, di procedere al processo unitario attraverso l’indebolimento surrettizio di quegli apparati.
Ha concentrato la maggior parte delle risorse finanziarie ed amministrative delle Regioni in settori di servizio, in particolare sanità e formazione, fortemente connotati da intenti distributivi ed assistenziali piuttosto che da investimento.
Le Regioni e gli enti locali sono diventati di conseguenza sempre più il principale luogo di formazione e radicamento di ceti politici segnati da localismo e limitata capacità strategica e gestionale dai quali però hanno attinto sempre più, in mancanza di alternative, le formazioni politiche nazionali o extraregionali.
La ridefinizione dei rapporti tra Governo e Parlamento e delle competenze e della rappresentatività all’interno di quest’ultimo è l’altro punto importante.
Il conflitto politico generale (strategico) è un aspetto che pervade tutti gli ambiti della società; per potersi esprimere e poter esprimere la propria forza ha bisogno di simboli, strutture ed istituzioni che in qualche maniera lo inquadrano, gli danno forma, determinano le modalità di emersione, formazione e successo di alcune élites rispetto ad altre.
Il conflitto politico nelle istituzioni pubbliche, un particolare ambito di quello generale, è ulteriormente costretto da questa dinamica. La loro inadeguatezza conduce a forzature e distorsioni interne che alla lunga influiscono sull’esito, sui risultati e sulla formazione stessa di nuovi centri decisionali. L’uso dei decreti legge, il ricorso alla fiducia, i governi di emergenza, il trasformismo politico sono alcune delle modalità e degli strumenti di adeguamento surrettizio delle istituzioni pubbliche governative e rappresentative. Nelle fasi di svolta, quando le istituzioni preposte si rivelano inadeguate soprattutto rispetto al contesto internazionale, spesso il conflitto cruciale si sposta in e vede prevalere altri ambiti istituzionali con ulteriori distorsioni negli esiti.
Il ruolo dei magistrati inquirenti nell’Italia dell’ultimo quasi trentennio, sono un esempio lampante.
La conferma referendaria dell’accentuazione del ruolo del Governo, della primazia della Camera sul Senato sancisce il tentativo di ricondurre nell’alveo originario questo particolare conflitto politico

LE VACUITA’ DEL Sì

Lo scotto pagato da Renzi è stato però particolarmente pesante e soprattutto lungi dall’essere saldato completamente.
L’eventuale nuova composizione del Senato renderà altamente problematiche la riduzione del numero delle regioni e la definizione delle funzioni di orientamento, di controllo e di subentro del Governo Centrale.
Il rilevante numero di procedure di regolazione dei rapporti tra Camera e Senato lascia presagire il mantenimento di un contenzioso comunque importante rispetto alla situazione attuale anche se si fa finta di ignorare che in una situazione di cambiamento istituzionale è comunque necessaria una fase di transizione e di adeguamento.
Sono solo due delle tante incongruenze evidenziate con certosino accanimento dal Fronte del No.
In realtà la debolezza dell’impianto generale in parte è il frutto di una nuova classe dirigente poco preparata e soprattutto poco avvezza, a differenza dei primi costituenti, alle grandi battaglie politiche; di un errore di valutazione sul presunto carattere effimero, almeno nel breve periodo, del M5S (Movimento 5 Stelle); soprattutto di una complessa operazione di trasformismo politico gestita con l’ancora insostituibile comprimario Silvio Berlusconi tesa a garantire contemporaneamente la permanenza di Matteo Renzi e la definitiva irreversibile trasformazione del PD da una parte e contestualmente a impedire, in una fase di declino governato, l’affermazione nell’area del centrodestra di forze più attente ad una collocazione più autonoma del paese.
In pratica si sta affidando un processo di centralizzazione, di ridefinizione di competenze e procedure decisionali, di riprofilazione dei quadri dirigenti pubblici a forze che in realtà hanno interesse a mantenere il più possibile la propria autonomia e visibilità politica e in tanti casi il proprio riferimento territoriale. Le modifiche in corso d’opera dei testi di legge originari e l’impegno di revisione della legge elettorale sono solo i primi cedimenti rispetto a quello che accadrà nel prossimo futuro comunque sia l’esito referendario e ammesso che si riesca a tenerlo. Passi che daranno spazio a colpi di mano e situazioni di stallo.

berlusconi-renzi-3LE TROPPE RAGIONI DEI NO

Disegnare una mappa degli oppositori è impresa ardua. Più che una mappa aiuta tracciare un itinerario con i diversi piloti succedutisi sino ad ora al volante.
Inizialmente la guida del fronte dei NO è stata assunta dai difensori della Costituzione e dai fautori di un ritorno ad essa. Un proclama, in realtà, ricorrente nella storia della Repubblica Italiana che però sta esaurendo progressivamente la propria forza evocativa man mano che il carattere antifascista è servito progressivamente ad esorcizzare gli avversari politici del momento e a mascherare l’attuale condizione di sudditanza politica e militare con la condanna della occupazione militare tedesca. La novità legata allo scontro sui referendum riguarda il tentativo di alcune forze di legare la difesa della Costituzione al recupero di sovranità nazionale e popolare.
In realtà la parte dei principi costituzionali non è cambiata nel corso di questi settanta anni; a partire dagli anni ’70 sono cambiati alcuni articoli delle parti successive di essa. Mi sembra evidente che il richiamo alle origini si riduca quindi ad un appello strumentale teso a delegittimare avversari che andrebbero combattuti con ben altre e potenti argomentazioni; la sua difesa oltranzistica conduce ad un atteggiamento conservatore che impedisce tra l’altro l’introduzione di quelle modifiche tese a contestare l’insindacabilità di scelte politiche fondamentali riguardanti la politica estera e quella economica e a regolare al meglio il funzionamento dello Stato e della Comunità in funzione degli obbiettivi di fondo.
La debolezza di questa impostazione si è rivelata clamorosamente con l’incapacità di raccogliere le cinquecentomila firme necessarie ad acquisire il diritto di partecipazione agli spazi pubblici di dibattito e propaganda; si era del resto già manifestata affidando la conduzione del dibattito ad intellettuali e costituzionalisti abili a distruggere la costruzione giuridica sottoposta a voto solo sino a quando però hanno potuto evitare il confronto politico con i sostenitori del sì, in particolare con Renzi. La latitanza di veri leader politici ha evidenziato l’assenza o al meglio l’estrema frammentazione ed approssimazione di linee politiche propositive.
Lo stesso argomento del recupero della sovranità popolare, nella sua ambiguità, ha fornito una chiave di ingresso a quei morituri costretti all’angolo da Renzi, destinati a conquistare gli spazi pubblici residui offerti dal sistema mediatico e ad assumere presumibilmente la guida del movimento di opposizione.
In realtà, a proposito di volontà e sovranità popolare, faccio fatica ad individuare in questo mondo una qualsivoglia modalità di governo del popolo, nè riesco ad intravederne una qualche possibilità.
Vedo piuttosto centri decisionali, gruppi dirigenti agire, cooperare e confliggere tra loro in nome di qualcuno e qualcosa i quali per poter operare devono riuscire a coartare le volizioni dei gruppi in un rapporto circolare in cui l’iniziativa parte e torna da questi centri nuovi e vecchi anche in quei regimi come la democrazia dove la volontà popolare viene riconosciuta sovrana. Non significa certamente che la diversità di regime sia un fattore insignificante; semplicemente le loro modalità di conduzione del conflitto politico sono regolate diversamente, con diversa flessibilità ed efficacia secondo le congiunture politiche e diversa modalità di espressione delle pulsioni dal basso.
Il richiamo alla volontà popolare può servire ad un appello solenne in uno scontro politico dirimente; quando diventa un programma politico nasconde di solito la debolezza e l’inconcludenza di un nucleo dirigente.
Sta di fatto che l’argomento è servito alla riemersione temporanea della vecchia classe dirigente, l’attuale sinistra del PD, ormai messa all’angolo e corresponsabile diretta dell’attuale condizione del paese; a ridare forza alle aspirazioni di autonomia e sopravvivenza di piccoli potentati politici rispetto al tentativo di ricondurli nell’alveo di due grosse formazioni, ormai per altro ricondotte a tre; a mantenere nell’equivoco piuttosto che nel Limbo formazioni politiche, in particolare la Lega la quale a fronte di alcune posizioni interessanti in politica estera, non riesce nè può a mio avviso assurgere a forza nazionale, tanto più a forza mirante al recupero delle prerogative nazionali perché ostaggio del proprio vizio di origine localistico e secessionistico e vittima di conseguenza del miraggio di una Italia dei popoli e di risulta delle regioni.
Tutte condizioni che se dovessero affermarsi, riporteranno in auge il vero dominus destinato in qualche maniera a prendere le redini e a pilotare la scuderia variegata del NO e a porsi ancora una volta come reale interlocutore di Renzi. Abbiamo già visto la discesa in campo di Mario Monti e Massimo D’Alema, quest’ultimo saggiamente rimasto nell’ombra in questi tre anni e quindi non compromesso dalle costrizioni del voto parlamentare dei recalcitranti. Manca ancora l’ingresso in zona Cesarini di Silvio Berlusconi, il vero interlocutore e sostenitore del nostro Capo di Governo e destabilizzatore di ogni realtà politica più accettabile. Anche se di mala voglia non mancherà eventualmente all’appuntamento.
Dovrà procrastinare l’agognato pensionamento; in cambio potrà ottenere qualche garanzia in più sul futuro della propria famiglia per meriti sul campo.

LA SAGGEZZA DEL Nì

Per poter scegliere con maggior discernimento, in conclusione occorre a mio avviso porsi due domande esecrabili dal “politicamente corretto” ma decisive secondo l’approccio del “realismo politico”:
• È possibile separare l’obbiettivo dell’efficacia delle riforme istituzionali dall’obbiettivo strategico di una forza politica, in particolare i centri che esprimono e sostengono Matteo Renzi? La mia risposta è no in quanto il successo dell’intento funzionale contribuirebbe al successo della finalità strategica; in particolare il nostro sta contribuendo al pari dei suoi predecessori a peggiorare la condizione di sottomissione politica e di depauperamento economico e nel vano tentativo di resistere alle brame dei propri simili di pari rango in realtà sta consegnando mani e piedi il paese alle mene dell’attuale leadership della potenza di rango superiore, riducendolo così ad un mero campo di azione e predazione. Un argomento che meriterà lo spazio di altri articoli. È lo stesso obbiettivo funzionale in realtà ad essere compromesso significativamente, proprio perché quella strategia deve necessariamente fare a meno e scoraggiare le forze più dinamiche del paese e appoggiarsi, non ostante i proclami e magari concedendo qualcosa alla volontà velleitaria di Renzi, a forze parassitarie e remissive.
• Il conseguimento dell’obbiettivo funzionale delle riforme istituzionali contribuirà in maniera decisiva a concedere a Renzi e alle forze che lo esprimono la forza necessaria ad un assetto stabile? Secondo me, per meglio dire secondo la mia sensazione no perché comunque l’obbiettivo strategico, più o meno consapevole, impedisce comunque la formazione di una base solida e motivata su cui poggiare l’azione politica e contribuisce piuttosto a creare una oligarchia arrogante ma dalla base fragile e da una estensione del potere limitata. Una condizione idonea a continui colpi di mano e fibrillazioni in una palude stagnante. Un minimo di riorganizzazione, d’altro canto, potrebbe agevolare l’azione di future forze politiche sovraniste di là ancora da venire. Ho la sensazione che per maturare nel nostro paese, tale svolta dovrà verificarsi e consolidarsi prima nei nostri vicini di casa. Una affermazione negli attuali termini del no, contribuirebbe ad accentuare la palude e l’immobilismo. Vedremo gli sviluppi delle prossime settimane.

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