VINCOLO ESTERNO E STRABISMO ECONOMICISTA, di Teodoro Klitsche de la Grange

VINCOLO ESTERNO E STRABISMO ECONOMICISTA

  1. Da almeno un trentennio si parla di vincolo esterno, della necessità del medesimo al fine di assicurare comportamenti economicamente virtuosi della classe dirigente, soprattutto di quella politica. Le c.d. “cessioni di sovranità” a istituzioni sovranazionali, soprattutto quelle europee sono state gli strumenti per favorirli.
  2. In effetti a giudicare il tutto dei risultati, quelli seguenti al c.d. “vincolo esterno” (e cioè soprattutto Maastricht e il “seguito”) sono stati tra i peggiori della storia d’Europa e soprattutto italiana. A fronte di una crescita economica nazionale che nei primi trent’anni del dopoguerra fu tra le migliori del pianeta, ridimensionata dopo la crisi petrolifera degli anni ’70, ma comunque rimasta tra le “mediane” della comunità europea, proprio a partire dagli anni ’90, si è ridotta prima, per poi passare da tracolli (nelle crisi del 2008 e del 2020) del PIL ad incrementi millimetrici, spesso spacciati dalla stampa di regime come grandi successi. Ad attribuire l’intera “responsabilità” da questi risultati al vincolo esterno, si può dire soltanto che è stato un pessimo affare. Né si può replicare, che senza il “vincolo esterno” sarebbe andata peggio: come sarebbe andata nessuno lo sa, perché non è accaduto: e quindi paragonare risultati ad ipotesi immaginarie è un altro dei modi per non applicare l’aureo consiglio di Machiavelli nel XV capitolo del “Principe”.

Piuttosto è interessante notare perché il “vincolo esterno” non potesse funzionare – se non in modo limitato e quindi secondario – e pertanto sia stato – in larga parte – un’illusione.

Occorre in primo luogo intendere come è stato definito il “vincolo esterno”, e cioè il condizionamento virtuoso che avrebbe dovuto ridimensionare le pratiche viziose della classe politica nazionale. La quale era considerata poco incline alle politiche (sostanzialmente) liberali, prevalenti nei paesi occidentali e sostanzialmente vincolanti per l’Italia sia a causa della sudditanza agli U.S.A. (compresi gli accordi di Bretton Woods) sia dell’adesione al processo di costruzione europea. Tali condizioni hanno indubbiamente costituito, in misura probabilmente maggioritaria, la ragione dello straordinario sviluppo del dopoguerra. Del pari è noto che i partiti ciellenisti,  tranne PLI o PRI, non avevano una cultura politica prevalentemente liberista. E gran parte del padronato italiano era avvezzo al protezionismo più che alla concorrenza[1].

Negli auspici dei sostenitori il vincolo (o meglio i vincoli) esterno futuro avrebbe dovuto ripetere (o non sfigurare) col “miracolo” passato. Esito non conseguito.

  1. In effetti il ragionamento a fondamento dell’effetto positivo del vincolo esterno si basava su un insieme di circostanze irripetibili (o difficilmente ripetibili); e sulla sottovalutazione e financo l’omissione della considerazione di presupposti e regolarità influenti sul comportamento collettivo ed individuale.

In primo luogo che l’uomo non è solo homo oeconomicus, ma anche zoon politikon: le essenze (à la Freund) “politico” ed “economico” fanno parte della natura e dell’esistenza umana. Ragionare in base ad una escludendo (o sottovalutando) l’altra è il miglior percorso per valutazioni parziali e perciò errate. Ad esempio: alla ricostruzione europea ha contribuito – secondo quasi tutti gli economisti – il piano Marshall. Con questo – a parte gli altri Stati europei – gli U.S.A. vincitori aiutavano due ex-nemici come Germania ed Italia a ricostruire il proprio tessuto economico. Di per se è un comportamento raro: al nemico sconfitto si chiedono tributi, indennizzi, “riparazioni”: lo si sfrutta, lo si impoverisce, non lo si aiuta a crescere. Lo stesso può dirsi degli accordi sul debito tedesco (da Londra nel 1953 ai successivi): l’America condizionò i due ex nemici servendosi più della carota che del bastone (che a Versailles si era dimostrato addirittura controproducente) rafforzato sia dalla competizione con l’URSS che dal possesso di un potere militare irresistibile (quello nucleare- e non solo) che rendeva impossibile ogni forma di revanscismo.

Dall’altro c’era un calcolo economico: aiutando l’Europa disastrata, si aiutava l’economia americana, nei fatti ripresasi completamente dalla crisi del ’29 solo con la guerra mondiale, e che rischiava di ridurre (o invertire) la crescita. Era quindi l’interesse USA a consigliare l’atteggiamento positivo e “morbido”, sia per  ragioni politiche che economiche. E cioè era la costante politica del perseguimento degli interessi dello Stato a far sì che era il vincolo esterno, con i caratteri premianti per chi lo subiva, a determinare l’effetto positivo (perché soddisfacente sia per l’interesse del vincolante che del vincolato). Era la scelta preferibile per governanti capaci e lungimiranti. Ma che succede se il vincolo è “amministrato” da governanti meno capaci, meno lungimiranti (e spesso) più inclini a interessi di “corto respiro”?

Il vincolo è un rapporto che permette a qualcuno di imporre (o condizionare) la decisione dell’altro, ma nulla dice sulla capacità e volontà del vincolante e del vincolato.

Indubbiamente auspicare il vincolo significa, in concreto, che non si giudica preferibile un governo nazionale la cui classe politica è ritenuta inadatta o comunque peggiore. Ma non è detto che la situazione perduri nel tempo e cambiando le circostanze.

Peraltro il vincolo esterno spesso non è riconducibile alla volontà di Stati e governi stranieri, ma a quelli di soggetti neppure pubblici o ad entità come i “mercati”. Gli uni e gli altri aventi in comune di non avere una responsabilità pubblica, in sostanza politica, ed essere di fatto incontrollabili (o troppo – e indirettamente  – controllabili). Quindi crea potestates indirectae (poteri indiretti) il cui connotato decisivo è di esercitare potere senza (chiara ed apparente) responsabilità; e, a differenza di quanto capita nell’occidente liberaldemocratico, di non rispondere al popolo, ossia di non essere democratici.

Gli anatemi antipopulisti delle elites sono in effetti nient’altro che la negazione del potere del popolo di decidere sul proprio destino.

  1. Dal carattere economicista del vincolo esterno deriva anche la difficoltà a comprendere i comportamenti politici, quando questi – come spesso succede – sono determinati da ragioni non economiche (e non soltanto economiche). Ne abbiamo un esempio attuale nella guerra russo-ucraina che, presentata come assurda perché non se ne comprendono le cause economiche (del tutto secondarie), onde Putin doveva per forza essere un visionario o tarato, un matto, mentre non ha fatto altro che ripetere quanto praticato a partire da Pietro il Grande, da gran parte dei governanti russi: creare sbocchi sui mari caldi, il Mar Nero soprattutto. Onde farlo è un “interesse dello Stato”, come sosteneva Meinecke. Rispondente a considerazioni strategiche (in primo luogo) quindi politiche, ma anche culturali e religiose. Per cui non è detto che il vincolante, nell’ “amministrare” il vincolo esterno, non si faccia prendere la mano da considerazioni non solo economiche. Anzi c’è da aspettarsi che lo faccia.
  2. Il vincolo esterno, così come concepito (da tecnocrati, come Carli) ha un carattere essenzialmente tecnico-economico: è buono ciò che è economicamente valido (come il Piano Marshall). Ma non è detto che lo sia sempre. In realtà, come cennato prima, ciò che rese “buono” il piano suddetto era (la felice) la coincidenza/complementarietà degli interessi.

Ma se questi non lo sono il vincolo diventa solo uno strumento per fare prevalere la volontà (e gli interessi) del vincolante sul vincolato.

Peraltro nell’interpretazione “rigorosa” (ma più che altro ragionieristica) che ha avuto negli ultimi vent’anni di politica economica europea, il vincolo si è qualificato più che tecnico-economico, contabile. Non importa tanto che l’economia cresca, ma che i conti siano in ordine.

  1. Quanto poi alla “beatificazione” del vincolo esterno, con il riferimento a quello applicato nel secondo dopoguerra, appare poco credibile che si ripeta quanto allora capitato. Ma soprattutto non si può fare di un’eccezione una regolarità, e neppure indicarla come probabile. Anzi, come sopra scritto, il comportamento dei vincitori dopo la II guerra mondiale è di per se un’eccezione. E le eccezioni, anche se ripetute, non fanno la regola, e neppure rendono probabile l’esito voluto, ma solo possibile.

Quel che invece può accadere ed è in linea con le regolarità e le probabilità della politica è che il vincolante trovi la collaborazione del governo vincolato, vuoi per timore , vuoi per l’interesse dei governanti subordinati.

Governi influenzati, protettorati, colonie, civitates foederatae, governi quisling fanno parte della storia, dato lo squilibrio di potenza tra le sintesi politiche (il Principato di Monaco non ha la potenza della Francia). La Storia e il diritto hanno conosciuto tutto un insieme di rapporti tra sintesi politiche non paritarie, sia che quella disparità trovasse formalizzazione giuridica (come nei protettorati o nelle città legate a Roma con foedera iniqua) o che lo fosse soltanto di fatto.

Ovviamente la forma politica del vincolante, ma soprattutto il vincolato possono aggravare il vincolo esterno; ossia la possibilità che la volontà del vincolante prevalga su quella del vincolato. Un governo debole e instabile, come può capitare (anche) nelle forme politiche moderne, alle Repubbliche parlamentari e/o a larga frammentazione pluralistica può facilitare l’imposizione del vincolo esterno, sfruttando la lotta tra frazioni della classe politica (partiti in primis). Cosa ancora più evidente nelle forme politiche pre-moderne, come il Sacro Romano Impero e il Regno di Polonia. Rousseau scriveva che il liberum veto era causa dell’anarchia e quindi della debolezza polacca, onde per lo più i re di Polonia eletti (nel ‘700) erano “proposti” dalle potenze straniere.

  1. Il vincolo esterno consiste – a concludere – nella speranza che, laddove si ritenga che la classe politica sia inadatta (e spesso lo è), il sistema possa guadagnare da un’influenza straniera.

A patto di sperare anche che questa sia a) animata da buone intenzioni; b) disinteressata; c) e non affetta da manie di dominio. Cioè non agisca politicamente: tutt’e tre le condizioni citate sono in contrasto con altrettante regolarità e presupposti politici: quello della problematicità della natura umana (Machiavelli); dell’interesse degli Stati (Meinecke); della competizione per il dominio (Tucidide).Perché alle buone probabilità di funzionare come auspicato servirebbe un mondo governato da anime, se non proprio belle, almeno corrette e lungimiranti.

Teodoro Klitsche de la Grange

[1] Ciò non toglie che seppe utilizzare lo stimolo concorrenziale del MEC, compresa l’abolizione progressiva delle “tariffe“ doganali.

I soldi per tagliare le tasse e per dare lavoro a tutti ci sono. Se capiamo come funziona la moneta (anche senza uscire dall’euro) di Davide Gionco

Riceviamo e pubblichiamo_Giuseppe Germinario

 

I soldi per tagliare le tasse e per dare lavoro a tutti ci sono.
Se capiamo come funziona la moneta (anche senza uscire dall’euro)

di Davide Gionco
24.10.2021

Cosa fare per rimettere in piedi l’economia italiana? I redditi, al netto dell’inflazione, sono inferiori a quelli del 1990; la disoccupazione è in aumento: la povertà è in aumento; le imprese falliscono; i nostri giovani emigrano; chi resta non si sposa e non fa figli, perché il futuro è troppo incerto.
Chi ci governa ci prende in giro, decantando una strabiliante ripresa del 6,1% nel 2021, dopo che nel 2020 il PIL era sceso del -8,9%.
2020 100 x (1-0,089) = 91,1%
2021 91,1 x (1+0,061) = 96,7%
Significa che in due anni il PIL è sceso di (100-96,7) = -3,3%.
Un disastro in un paese già provato da 20 anni di politiche di austerità.

Cosa fare per rimettere in piedi l’economia italiana?
La risposta è semplice e coincide con la risposta alla domanda: cosa fare per
aumentare la redditività delle imprese, garantendo nello stesso tempo maggiori profitti per il proprietario e migliori retribuzioni per i dipendenti?
1) Abbassare le tasse sugli utili di impresa
2) Abbassare le tasse sui redditi dei lavoratori
3) Mettere più soldi nelle tasche dei clienti, affinché facciano più acquisti
Siccome molte imprese lavorano come fornitori dello stato, dobbiamo aggiungere anche:
4) Aumentare gli investimenti pubblici

L’abbassamento delle tasse sugli utili di impresa lo si può fare riducendo le aliquote. Le imprese avranno più soldi per fare fronte ai nuovi investimenti, oltre che per remunerare l’attività.
Lo stesso dicasi per l’abbassamento delle aliquote di tassazione dei redditi, che consentiranno di aumentare la remunerazione netta dei lavoratori, i quali, a loro volta, avranno più soldi da spendere per le loro necessità, come clienti, il che farà aumentare la produzione delle imprese ed i loro utili. Anche una riduzione dell’IVA sortirebbe l’effetto di ridurre i prezzi di acquisto di beni e servizi e, quindi, di aumentare le vendite, con vantaggio delle imprese e dei loro dipendenti. L’aumento di produzione porterà evidentemente anche a nuove assunzioni.
L’aumento degli investimenti pubblici (manutenzione del territorio, delle strade, degli edifici pubblici, nuove opere, nuovi servizi, ecc.) porterà ad un aumento delle commesse per i fornitori, con nuove assunzioni di personale e maggiore redditività per le imprese.

Fino a qui ci arrivavamo tutti… La domanda che sorge spontanea è: dove trovare i soldi per far quadrare il bilancio di uno stato che taglia le tasse ed aumenta gli investimenti?
Stando alla narrativa dell’informazione “mainstream” non è possibile creare denaro “dal nulla”, motivo per cui nessun governo al mondo si permette di abbassare le tasse e di aumentare gli investimenti per far crescere la propria economia. I più informati sanno che in realtà non è così, perché in paesi che dispongono di una propria banca centrale, come ad esempio gli USA che nel 2020 hanno fatto un deficit di bilancio del 15% sul PIL, totalmente finanziato da nuove emissioni di dollari della Federal Reserve (FED), che hanno appianato le mancate entrate fiscali e gli stimoli per la crescita del governo Trump.
L’informazione “mainstream” continua a supportare gli
inutili tentativi dei vari governi che, da quasi 30 anni, tentano di far ripartire l’economia mantenendo il bilancio in sostanziale equilibrio (se non in attivo). Per contro alcuni economisti di stampo keynesiano, in genere ignorati dai mass-media, richiamano l’importanza per uno stato di disporre di una propria banca centrale in grado di finanziare i deficit di bilancio del governo, necessari per rilanciare l’economia in tempi di crisi. Nel caso dell’Italia, quindi, la soluzione prospettata da questi economisti è l’uscita dall’Eurozona, con il ritorno alla lira e nazionalizzazione della Banca d’Italia.

In realtà la soluzione al problema della crescita economica potrebbe essere, per entrambe le “fazioni”, molto più semplice di quanto immaginiamo.
Per comprendere la soluzione dobbiamo prima di tutto comprendere come funziona una moneta. E’ qualcosa che non si insegna a scuola e, da quanto ho avuto modo di leggere sui testi utilizzati nelle facoltà di economia, neppure agli studenti di economia.

Il funzionamento di una moneta è molto semplice: c’è una centrale di emissione, c’è un meccanismo che ne garantisce la circolazione (per lo scambio di beni e servizi e per il risparmio) e c’è una centrale di ritiro finale, al termine della circolazione.


Funziona cosi per tutte le monete:

Moneta

Centrale di emissione

Meccanismo di circolazione

Centrale di ritiro

Euro

BCE che acquista titoli

scambio beni e servizi

pagamento delle tasse al Tesoro, che rimborsa a BCE i titoli in scadenza

Dollaro

FED che acquista titoli

scambio beni e servizi

pagamento delle tasse al Tesoro, che rimborsa a FED i titoli in scadenza

Sesterzio

Imperatore Augusto conia monete

scambio beni e servizi

pagamento delle tasse all’imperatore

Credito bancario

Banche che fanno credito

scambio beni e servizi

rimborso alle banche del mutuo

Titoli di stato

Tesoro

aste dei titoli, mercato dei titoli

Tesoro paga i titoli in scadenza

Bitcoin

Software crittografico

soprattutto riserva di valuta

convertibilità in dollari/euro

Ticket restaurant

Sodexo li vende a imprese

buono sconto ristorante

Sodexo li converte in euro e paga il ristorante

Fiche del casinò

Casinò

Pagamenti partita di poker

Casinò li converte in euro

Solo una nota tecnica per chi non lo sapesse: oggi i nuovi euro creati dalla BCE vengono messi in circolazione acquistando titoli di stato emessi dal Tesoro. Quando i titoli arrivano alla scadenza, la BCE incassa dal Tesoro il capitale in euro più gli interessi ed emette nuovi per euro per acquistare i nuovi titoli . Lo Stato usa una parte della raccolta fiscale (centrale di ritiro) per pagare gli interessi in euro sui titoli in scadenza, mentre la quota capitale viene finanziata principalmente da nuove emissioni.

La centrale di ritiro garantisce è ciò che garantisce la spendibilità certa di una moneta. Ad esempio in Albania è obbligatorio pagare le tasse in lek, quindi il popolo abanese effettua la maggior parte dei pagamenti in lek, sapendo di poterli certamente spendere per pagare le tasse (centrale di ritiro).
In Italia non è vietato fare pagamenti in dollari. Se un turista straniero ci paga in dollari, li accettiamo solo perché siamo sicuri di poterli convertire in euro, con cui siamo sicuri che potremo pagare le tasse. Se non fossero convertibili, non li accetteremmo.
L’esistenza della centrale di ritiro fa sì che quella moneta assuma valore anche (e soprattutto) per lo scambio di beni e servizi, la cui produzione, se ci pensiamo bene, è il
valore economico reale (valore di utilità), mentre la moneta ha solo un valore giuridico e finanziario.

Ritornando all’obiettivo della sovranità monetaria, nulla vieta allo Stato di costituire una nuova centrale di emissione di moneta e di creare una propria centrale di ritiro, al fine di dare origine ad una nuova moneta.
Ad esempio l’economista Nino Galloni propone di emettere delle stato-note parallele all’euro. I trattati europei vietano ad altri soggetti di emettere euro (che in fatti ha
nno il segno © del copyright), ma non vietano affatto di emettere altre forme di moneta. Se può farlo, ai sensi delle leggi italiane, la Sardex SpA, se lo possono fare con il Bitcoin e con le fiche del casinò, evidentemente anche lo Stato ha il potere giuridico di farlo. Nulla glielo vieta.
A quel punto, basta creare il meccanismo di ritiro, che potrebbe essere la possibilità di pagare le tasse in quella valuta, ed il gioco è fatto.

La mia opinione sulle stato-note è che, pur essendo una soluzione legittima e tecnicamente funzionale, queste potrebbero suscitare sospetti negli italiani, convinti dell’esistenza di una moneta “di serie A”, l’euro, ed di una moneta “di serie B”, le stato-note, per la sola circolazione interna. Per mettere in atto tale soluzione servirebbe una adeguata campagna di informazione a riguardo.

Una soluzione alternativa la potremmo trovare già nella tabella sopra esposta. Fra le varie monete citate abbiamo incluso anche i titoli di stato. Di per sé le teorie economiche odierne già comprendono i titoli di stato nella massa monetaria “M3”, il che significa che i titoli sono una forma di moneta. L’Italia ha ceduto alla BCE la centrale di emissione e di ritiro finale della moneta-euro, ma non ha ceduto ad altri la centrale di emissione e di ritiro dei titoli di stato.
I titoli sono una forma di moneta che ha delle
regole per cui oggi viene utilizzata solo come strumento di risparmio: oggi spendo 1000 euro per acquistare dei titoli, fra 5 anni converto gli stessi titoli in 1025 euro, mantenendo il valore capitale e guadagnando 25 euro di interessi.
Ma se lo Stato decidesse, cambiando le
regole, di iniziare a pagare (in tutto o in parte) i propri fornitori ed i propri dipendenti in titoli di stato (a tasso zero) e se lo Stato accettasse che le tasse vengano pagate (centrale di ritiro) anche in titoli, oltre che in euro, allora in Italia potremmo usare come forma di moneta per lo scambio di beni e servizi direttamente i titoli di stato, senza il bisogno di emettere nuovi titoli da convertire in euro.

Effettivamente ciò che genera il debito pubblico, che ad oggi costituisce un ingombrante fardello per noi italiani, non è l’emissione di titoli in sé, ma è il contratto che lo Stato stipula al momento in cui vende i titoli in cambio di euro, impegnandosi a rimborsare il capitale in euro più gli interessi.
Ma se i titoli vengono usati per pagare beni e servizi ai fornitori ed ai dipendenti dello Stato, il debito è già saldato nel momento dello scambio lavoro/titoli, non c’è alcun impegno a convertirli in euro non si genera alcun debito pubblico.
I lavoratori useranno i titoli per pagare le tasse (centrale di ritiro) e lo Stato, una volta ritiratili, potrà distruggere i titoli al termine della loro circolazione, prima di emetterne di nuovi.

Il vantaggio di questa soluzione è che lo Stato potrebbe emettere sostanzialmente “dal nulla” una maggiore quantità di titoli per coprire il deficit di bilancio, potendo di conseguenza attuare le riforme necessarie per la ripresa economica del paese (riduzione delle tasse, investimenti, ecc.), il tutto senza generare più debito pubblico.

Naturalmente non si può creare ricchezza dal nulla semplicemente stampando banconote o titoli. La ricchezza viene prodotta dai lavoratori che producono beni e servizi. Ma la maggiore disponibilità di denaro in circolazione consentirà, finalmente, di creare nuove opportunità di lavoro per i disoccupati, consentirà di fornire loro una formazione professionale, consentirà di fare investimenti in ricerca, in infrastrutture, rendendo più produttivi i lavoratori ed aumentando la ricchezza di tutti.
Ovviamente l’emissione di titoli dovrà essere commisurata alle necessità economiche del Paese, dato che una emissione eccessiva potrebbe causare dei fenomeni inflazionistici non desiderabili. Non intendiamo affrontare in questa sede la questione dell’inflazione per eccesso di moneta.

In uno scenario del genere l’euro potrebbe continuare a circolare per gli scambi con gli altri paesi europei, per i pagamenti dei turisti stranieri. Lo Stato potrebbe tranquillamente accettare anche gli euro per il pagamento delle tasse, ma non avrebbe bisogno di euro per finanziare le proprie spese sul mercato interno. Gli euro incamerati dallo Stato potranno essere utilizzati per pagare eventuali fornitori stranieri o per regolare il tasso di cambio che, inevitabilmente, si creerà fra i titoli italiani e l’euro.

In conclusione, abbiamo spiegato come gli obiettivi di benessere economico dell’Italia siano certamente perseguibili con una semplice riforma del sistema di emissione, di circolazione (basterebbe una piattaforma elettronica di scambio) e di ritiro dei titoli di stato.
La permanenza nell’attuale situazione di moneta unica fuori dal controllo pubblico non potrà che continuare ad aggravare la situazione di declino e di impoverimento dell’Italia.
La soluzione “tutto-e-subito” di una uscita secca dell’Italia dall’Eurozona, pur se tecnicamente ineccepibile, dovrebbe fare i conti con obiettive difficoltà politiche, sia in Italia, sia a livello europeo.
Una soluzione “pragmatica” di riforma del debito pubblico come sopra illustrato, introdotta con la necessaria gradualità, consentirebbe invece di risolvere rapidamente le disfunzionalità dell’euro-moneta-unica, con vantaggi economici e politici per tutti.

Come Zuan Francesco Priuli nel 1577 (non) risolse il problema del debito pubblico di Venezia, di Davide Gionco

Come Zuan Francesco Priuli nel 1577 (non) risolse il problema del debito pubblico di Venezia
di Davide Gionco

Nel 1577 le casse della Repubblica di Venezia erano sempre più mal messe. La Serenissima veniva da anni di guerre contro i Turchi Ottomani, con la sconfitta nella guerra di Cipro (1570-1573), ed era appena uscita da una epidemia di peste (1575-1577) che aveva colpito quasi tutti i territori della Repubblica.
Il nobile Zuan Francesco Priuli aveva ricevuto nell’ottobre del 1574 alla nomina di provveditore sopra i beni comunali e da qualche anno si industriava a far quadrare i conti del bilancio pubblico.

Nel 1577 Priuli decise di affrontare una volta per tutte l’annosa questione degli interessi sul debito pubblico, che nel 1577 avevano raggiunto la somma di 514’983 ducati annui per i depositi in zecca, e di quasi 200’000 ducati per il debito consolidato. Al tempo il debito pubblico veneziano veniva denominato come “monte”. C’era i debito più antico, il “Monte Vecchio”, che andava avanti da secoli. C’erano anche il “Monte Nuovo”, il “Monte Novissimo” e “Monte Sussidio”. Oltre a questo c’erano i “Depositi di Zecca”, che erano il debito più cospicuo.
A conti fatti un terzo degli incassi fiscali e delle rendite della Repubblica doveva essere utilizzato per pagare gli interessi ai creditori. Il Priuli, da esperto di finanze, concluse che questo problema doveva essere eliminato alla radice. Era peraltro scandaloso che la Repubblica, tramite questo meccanismo, contribuisse a far diventare i ricchi sempre più ricchi, a spese dei più poveri che pagavano le tasse.
I governanti di Venezia pensavano che fosse in gioco non solo la salute finanziaria della Repubblica, ma anche l’immagine del patriziato veneziano che per secoli aveva sempre garantito la separazione fra l’interesse pubblico e l’utile privato.

Zuan Francesco Priuli decise di affrontare prima di tutto il debito dei “Depositi di Zecca” (4 milioni di ducati): predispose un piano ventennale fatto di aumenti di imposte, recuperi di crediti d’imposta e di vendite di proprietà pubbliche (quello che fa l’Italia da 30 anni per ridurre il debito pubblico). Il piano fu convintamente approvato dal “consiglio dei dieci” e messo in atto.
Le cose andarono molto meglio del previsto. il 15 giugno 1584 il Senato dichiarava che tutti i debiti aperti in Zecca (il debito pubblico) erano stati rimborsati. Successivamente, durante il programma di riduzione del debito della Zecca, nel 1579 Zuan Francesco Priuli aveva proposto un altro piano per attaccare anche i debiti dei “monti”. In questo caso, però, il piano non venne approvato, in quanto troppi patrizi veneziani avevano protestato per la perduta possibilità di investire i propri denari in madre patria.
Secondo le previsioni del Priuli il pagamento del debito pubblico avrebbe dovuto consentire di ridurre le tasse, in quanto la Repubblica si sarebbe liberata dall’onere di pagare gli alti interessi.
Il Senato, però, decise che le entrate fiscali che prima venivano usate per pagare gli interessi sul debito, fossero accantonate e depositate presso un “Deposito Grande”, che sarebbe servito come riserva finanziaria della Repubblica in caso di bisogno. Lo Stato veneziano aveva deciso, come ogni buon padre di famiglia, di “risparmiare”.

Successivamente, nel 1595, il patrizio Giacomo Foscarini, convinto sostenitore della linea del predecessore Priuli, fece nominare 3 nuovi provveditori per l’affrancazione dei Monti Novissimo (2,4 milioni di ducati) e Sussidio (1,2 milioni di ducati). Anche in questo caso si diede fondo alla raccolta fiscale ed alle dismissioni di beni pubblici. Nell’anno 1600 si iniziò a ridurre, con gli stessi meccanismi, anche il “Monte Vecchio” (0,9 milioni di ducati).
Pare che intorno all’anno 1620 la restituzione di tutti i debiti fosse stata completata.
Fra il 1574 ed il 1620 Venezia aveva rimesso “sul mercato privato” circa 8,5 milioni di ducati.

Il sogno di tutti i governanti europei del XXI secolo, quello di pagare e di estinguere il debito pubblico, fu attuato concretamente per la prima ed unica volta nella storia proprio dalla Repubblica di Venezia.
Ma non sempre è tutto bene ciò che finisce bene.

I ricchi mercanti veneziani, che da secoli investivano i loro denari depositandoli in Zecca ad interessi (in sostanza acquistando dei titoli di stato, come diremmo oggi). Prima in Zecca affluivano i proventi dei commerci, ma anche le doti delle mogli. E vi venivano depositate le doti delle figlie per il futuro matrimonio.
Viste le crescenti difficoltà dei commerci con l’Oriente, causate dagli ostacoli posti dall’Impero Ottomano, ma anche dalla concorrenza subita dai commerci con le Americhe gestiti da spagnoli, inglesi ed olandesi, sempre più veneziani avevano cercato rifugio negli investimenti senza rischi presso la Zecca pubblica.
Ma ora il servizio pubblico della Zecca non era più disponibile.
Pertanto i ricchi veneziani si videro obbligati ad investire diversamente le proprie ricchezze.
Il Priuli aveva previsto che quei soldi sarebbero stati investiti, come ai vecchi tempi, in attività commerciali. Ma si era sbagliato. Quei tempi stavano finendo.
I ricchi veneziani scelsero, invece, di dedicarsi ad investimenti immobiliari sulla terra ferma. Si cita l’esempio di un  certo stampatore Lucantonio Giunti, dopo essersi per tutta la vita dedicato ad altre attività economiche, fra il 1585 e il 1601 investì nell’acquisto di almeno 225 campi e di immobili urbani, al punto da raddoppiare nel giro di soli 16 anni il patrimonio fondiario che aveva ereditato.

Altri fondi furono semplicemente investiti in altre attività finanziarie. Entrarono in contatto con i banchieri fiorentini e genovesi che lucravano nel mercato dei cambi e del credito “internazionale”, prestando denaro ai vari sovrani di tutta Europa. O semplicemente depositarono i propri denari presso le casse di altre città: Roma, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Vienna. Oppure finirono a finanziare le attività del credito ad usura.
A soffrire maggiormente furono gli enti ecclesiastici, che non erano strutturati per diversificare gli investimenti in denaro, acquistando fondi immobiliari e affidando i loro fondi ad istituti finanziari di altre città.

Questi flussi di capitali al di fuori della Serenissima portarono alla riduzione della liquidità nelle casse dello stato, quindi alla riduzione degli investimenti pubblici e degli affari in città, quindi delle entrate fiscali. Per questo furono via via introdotte nuove tasse per far quadrare il bilancio.
Nessun vantaggio arrivò dall’estinzione del debito pubblico, né ai cittadini veneziani, né ai ricchi della classe patrizia.

Nel frattempo continuavano le pressioni dei ricchi investitori affinché lo stato veneziano non fosse da meno dei “concorrenti” genovesi nel fare prestiti ai sovrani stranieri. Ad esempio negli anni 1616-1617 i soldi del “Deposito Grande” furono utilizzati per fare un prestito di 1,75 milioni di ducati al duca Carlo Emanuele I di Savoia per finanziare la sua guerra contro la Spagna. L’attività si era rivelata piuttosto redditizia, per cui gli stessi ricchi veneziani chiedevano di poter versare i loro fondi nel “Deposito”, affinché venissero usati per fare prestiti ad interesse ai vari sovrani europei.

Per questi motivi, negli anni successivi al 1620, gradualmente, ma a grande richiesta, fu ripristinato il servizio pubblico del debito, che consentiva di mantenere sufficientemente bassa la tassazione e di offrire un servizio pubblico di risparmio apprezzato da molti. Tuttavia il danno era stato fatto. I decenni di “politiche di austerità” (come le chiameremmo oggi) e le grosse perdite di capitali subite da Venezia lasciarono dei segni permanenti, contribuendo all’inevitabile declino della Repubblica che aveva prosperato come città più ricca d’Europa per 1000 anni.

L’esperto di finanze Zuan Francesco Priuli ed il suo successore Giacomo Foscarini non avevano compreso la funzione del debito pubblico in uno stato. Lo stato non è una famiglia che deve rimborsare i debiti. Non è una famiglia che deve risparmiare per i tempi a venire.
Il “debito pubblico” non è altro che una cassa comune nella quale i risparmiatori versano i loro risparmi. Da un lato i cittadini usufruiscono di un servizio pubblico di risparmio privo di rischi, utile per chi non fa l’investitore finanziario di mestiere. Dall’altro lato lo Stato dispone di un fondo cassa comune a cui attingere per finanziare le proprie attività a beneficio della collettività che consente di mantenere basso il carico fiscale.
Per comprendere il concetto è sufficiente guardare al bilancio dello Stato italiano.

Nel 2021 la previsione è di incassare complessivamente 579’980 milioni di euro.
Le spese “utili al popolo”, che sono le spese correnti più le spese in conto capitale, sono pari a 580’095 + 111’860 = 691’956 milioni di euro.
E’ vero che il debito pubblico ci “costa” 81’507 milioni di interessi, ma se non ci fosse il debito pubblico, mancherebbero a bilancio 691’956 – 579’980 = 111’976 milioni di euro che ci arrivano dal “fondo cassa comune” del debito pubblico.
Se non avessimo il debito pubblico, gli italiani dovrebbero pagare 112 miliardi di euro in più di tasse. Se le entrate fiscali oggi sono di 505 miliardi di euro, significherebbe un aumento delle tasse del 22% rispetto ad oggi, sapendo che già l’Italia è fra i primi posti al mondo in termini di pressione fiscale.

Inoltre, se non ci fosse il debito pubblico, gli italiani non saprebbero dove fare investimenti sicuri e privi di rischi.
Se lo Stato Italiano, come lo fu la Repubblica di Venezia per secoli, è un fornitore di servizio pubblico di risparmio, allora la riduzione o la cancellazione del debito pubblico significherebbe la cancellazione del servizio pubblico di risparmio.
Come se tutte le banche presso le quale teniamo i nostri risparmi ce li restituissero dicendo “tenetevi indietro i vostri soldi, fatene cosa volete”. A quel punto i risparmiatori non potrebbero che rivolgersi a banche estere o a nazioni estere per richiedere un simile servizio di risparmio.
In una situazione del genere girerebbero molti meno soldi in Italia per gli investimenti privati supportati dalle banche e perderemmo, di conseguenza, anche tutti i benefici derivanti dalla realizzazione di quei beni e servizi, diventando più poveri.

Quindi chi propone di “ridurre il debito pubblico”, se non proprio di estinguerlo, dimostra di non avere capito che cosa è il debito pubblico, così come non lo aveva capito Zuan Francesco Priuli.
Chi, con nozione di causa, ha proposto ed ottenuto che nei trattati europei fosse prevista la riduzione del debito pubblico, lo ha fatto precisamente per spingere gli investitori a rivolgersi al settore del risparmio e degli investimenti privati ovvero verso le banche private, a tutto vantaggio dei gruppi finanziari che le possiedono.

Come già era avvenuto a Venezia, il risultato di 30 anni di politiche di riduzione del debito pubblico sono stati un progressivo aumento delle tasse, unito alla dismissione di beni pubblici, alla riduzione dei servizi pubblici ed all’aumento della liquidità circolante nella “finanza estera”.
Se agli inizi del 1600 la “finanza estera” erano altre città rispetto a Venezia, oggi la “finanza estera” sono i mercati finanziari internazionali, i luoghi in cui gli investimenti rendono di più, che sono in genere i luoghi in cui gli investitori non pagano le tasse, non devono rispettare i diritti umani, non devono preoccuparsi di rispettare l’ambiente. Esattamente i fattori che consentono di massimizzare le rendite.
Se, invece, gi investimenti fossero centrati sulla finanza pubblica, avremmo la possibilità di indirizzarli secondo le finalità politiche di redistribuzione delal ricchezza (che è lo scopo delle tasse), di rispetto dei diritti umani e dell’ambiente.

In conclusione il debito pubblico non è quella “cosa cattiva” di cui ci parlano ogni giorno su tv e giornali, ma è un prezioso strumento per la collettività, da salvaguardare e da gestire al meglio, magari con il supporto di una banca centrale pubblica, come lo era la Zecca della Serenissima.

pubblicato anche su https://www.sovranitapopolare.org/2021/05/14/come-zuan-francesco-priuli-nel-1577-non-risolse-il-problema-del-debito-pubblico-di-venezia/

Il debito pubblico è bellissimo!-di Davide Gionco

Riceviamo e pubblichiamo. Gran parte del problema risiede nel moltiplicatore e soprattutto nel grado di indipendenza, sovranità e potenza di un paese che non è determinato soltanto dal controllo della moneta e dalla gestione del risparmio nazionale_Giuseppe Germinario

Il debito pubblico è bellissimo!

di Davide Gionco

In un precedente articolo ci siamo occupati del debito buono e del debito cattivo.
Un debito è generalmente buono quando è sostenibile dal debitore, diventando uno strumento per investimenti produttivi, per la realizzazione di cose utili per il debitore.
Un debito è sempre cattivo quando non è sostenibile dal debitore. In tal caso può generare debiti a catena nella società, creando grave danno (si pensi ai debiti subprime della Lehman Brothers che portarono alla crisi economica del 2008). Oppure il debito insolvibile viene perpetuato nel tempo, trasformandosi in un meccanismo di schiavitù nei confronti di persone, classi sociali o interi popoli.

Nel presente articolo vogliamo occuparci specificamente del debito pubblico.
Come per il debito privato, anche il debito pubblico è una cosa molto utile alla nazione che lo emette, naturalmente.
Possiamo dire che il debito pubblico è bellissimo. A patto che, naturalmente, sia sostenibile.

Quali sono le funzioni utili del debito pubblico sostenibile?

 

Il debito pubblico è uno strumento di risparmio
La prima funzione è consentire ai risparmiatori di investire in modo sicuro, al riparo dei rischi della borsa e della speculazione finanziaria. La Costituzione della Repubblica Italiana cita testualmente “La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito. Favorisce l’accesso del risparmio popolare…”
Quale modo migliore di garantire il risparmio dei cittadini che quello di garantire la restituzione del capitale, con un tasso di interesse stabilito? Lo Stato è a tutti gli effetti una cassa di risparmio pubblica, alla quale i cittadini affidano i propri risparmi e la quale garantisce che vengano restituiti con gli interessi, al tempo pattuito. Mentre nelle banche private questo avviene scrivendo sui libri della banche l’importo versato dal cittadino, nella banca pubblica questo avviene consegnando al cittadino un certificato di deposito, denominato titolo di stato.
Ma non solo questo. Il tasso di interesse riconosciuto sui titoli di stato diventa inevitabilmente un punto di riferimento per tutti gli altri investimenti finanziari.
Se lo Stato garantisce il 3% di interessi sui titoli, chi mai andrebbe ad investire i propri risparmi in azioni in borsa, il cui rendimento viene stimato al massimo al 2%.
Nello stesso tempo se i titoli di stato garantiscono un rendimento netto del 2%, un imprenditore riterrà conveniente investire i propri fondi nella propria azienda in cui si prospetti un rendimento dell’investimento del 3-4%. Ed una banca
Il fatto che lo Stato possa emettere titoli ad un tasso di interesse determinato risponde appieno a quanto richiesto dall’art. 47 della Costituzione.

Il debito pubblico mette in circolazione i capitali a vantaggio degli investimenti pubblici
Una seconda funzione del debito pubblico è mettere in circolazione i capitali dei risparmiatori, che diversamente resterebbero immobili e improduttivi o che verrebbero investiti su mercati esteri.
Questa funzione era particolarmente importante prima del 1971, quando vigeva ancora il gold standard, ovvero quando la quantità di denaro che poteva essere emessa era limitata dalla quantità d’oro delle riserve della banca centrale. In questa situazione tenere delle banconote ferme nella cassaforte era uno “spreco”, in quanto quel denaro avrebbe potuto essere usato per degli investimenti, consentendo di produrre beni e servizi utili, che non sarebbero stati prodotti se quei soldi fossero stati conservati inoperosi nei forzieri.
Un caso storico esemplare è l’unico caso che si ricordi in cui uno stato ha pagato tutto il proprio debito pubblico. Nel 1584 la Repubblica di Venezia decise di estinguere il proprio debito pubblico, con l’obiettivo di risparmiare l’oneroso pagamento degli interessi, che ammontavano al 16% annuo.
Contrariamente alle aspettative del provveditore sopra i beni comunali Zuan Francesco Priuli, i risultati dell’estinzione del debito pubblico furono molto diversi da quelli attesi: i ricchi commercianti veneziani, non avendo più un luogo sicuro “pubblico” in cui investire i propri risparmi, si indirizzarono verso le banche private o verso titoli pubblici emessi in altri stati del tempo (Ducati di Ferrara, Mantova, Modena, Milano; Repubblica di Genova o di Firenze). Se prima la liquidità prestata alla Serenissima veniva utilizzata per investimenti pubblici, come ad esempio la costruzione di navi da guerra per fare fronte all’avanzata dell’Impero Ottomano, ora la liquidità veniva investita secondo gli interessi di altri stati o delle banche private, che erano diversi dall’interesse pubblico.
Le conseguenze della riforma proposta dal Priuli furono il declino politico della Repubblica di Venezia, causa mancanza di investimenti pubblici.

Il debito pubblico consente di diminuire le tasse
Una terza funzione del debito pubblico, quella che il Priuli non aveva compreso, è consentire allo Stato di finanziare il proprio funzionamento raccogliendo meno tasse.
Prendiamo come esempio il bilancio previsionale dello Stato per il 2020, presentato prima della crisi del coronavirus, che ha evidentemente mandato all’aria ogni previsione.

La previsione per il 2020 era di fare fronte 660 miliardi di spesa pubblica avendo delle entrate pari a 536 miliardi di euro. Se avessimo dovuto finanziare tutto il bilancio del 2020 pagando le tasse, avremmo dovuto pagare ben (660-563 =) 124 miliardi di tasse in più sui 512 miliardi di tasse previste, pari al 24% di tasse in più che dovremmo in caso di assenza del debito pubblico.

La sostenibilità del debito pubblico
Da che mondo è mondo i grandi debiti non sono mai stati pagati. Quando il debito è grande, non è più un problema del debitore, ma dei creditori.
Già nel 1339 re Edoardo III d’Inghilterra dichiarò bancarotta e si rifiutò di rimborsare i prestiti che aveva ricevuto dai Bardi, banchieri fiorentini. Il fatto si ripeté molte volte nei secoli successivi, da parte dei vari re di Francia, di Spagna, d’Asburgo. Peraltro i banchieri che cosa avrebbero potuto fare? Armare un esercito e dichiarare guerra ai sovrani? In realtà a volte lo facevano, finanziando le guerre di nazioni avversarie dei loro debitori, ma non sempre la manovra finanziaria funzionava.

Questo vale anche per i grandi debiti privati. E’ noto che i grandi (?) imprenditori italiani (Debenedetti, Montezemolo, Lotito, Benetton, ecc.) abbiano facilità di accesso al credito, anche se sono già molto indebitati, mentre la difficoltà di accesso al credito è in genere un problema che riguarda le piccole e medie imprese o le famiglie. Tanto per fare un esempio, nel caso del fallimento del Monte dei Paschi di Siena, poi salvato con fondi pubblici, Sorgenia di Carlo Debenedetti era debitrice di ben 665 milioni di euro. Uno dei molti grandi debiti mai ripagati.

I grandi debiti possono quindi essere cancellati, con grande sventura dei creditori, oppure rinnovati in modo da renderli sostenibili e garantire quantomeno la rendita (gli interessi) ai creditori.

Il debito pubblico, trattandosi di un grande debito, non è quindi qualcosa destinato ad essere ripagato (anche ricordando la sfortunata decisione di Zuan Francesco Priuli del 1584), ma qualcosa destinato ad essere rinnovato. La sostenibilità del debito, quindi, non dipende dal suo importo, né dal rapporto fra i debito ed il prodotto interno lordo (PIL).
Non è un caso che i debiti pubblici più alti del mondo, come quello statunitense e quello giapponese, siano considerati unanimemente sostenibili e quotati con la “tripla A” dalle società di rating. Viceversa vi sono debiti pubblici molto bassi, come quello del Venezuela, che sono considerati a maggior rischio.

La solvibilità di un debito pubblico dipende dalla facilità di un paese di procurarsi il denaro necessario per rinnovare il debito ovvero di pagare gli interessi. In teoria uno stato deve anche essere in grado di rimborsare il capitale dei titoli che ha emesso, ma, statisticamente parlando, se il servizio di risparmio fornito è affidabile, sempre ci saranno degli investitori interessati ad acquistare le nuove emissioni di titoli. L’importante è garantire la possibilità di convertire i titoli in scadenza nel denaro versato per acquistarli, con l’aggiunta degli interessi.

Moneta sovrana e non sovrana
Ora, vi sono sostanzialmente due tipi di debito pubblico: il debito pubblico denominato in moneta non sovrana e il debito pubblico denominato in moneta sovrana.
Per “moneta sovrana” si intende una moneta di cui uno stato è in grado di controllare l’emissione ovvero di emettere nuova moneta nella quantità e nei tempi desiderati, senza vincoli. Uno stato con moneta sovrana non potrà mai restare a corto di moneta, al limite ne potrà stampare troppa.
Viceversa per “moneta non sovrana” si intende un mezzo di pagamento di cui lo stato non può disporre a proprio piacimento. Era ad esempio il caso di Edoardo III d’Inghilterra, che non aveva alcun modo di procurarsi i fiorini d’oro necessari per rimborsare i Bardi. Oppure è stato a più riprese il caso di paesi latinoamericani come l’Argentina, indebitati in dollari con le banche americane. Oppure di molte ex colonie francesi, indebitate in franchi CFA con le due banche centrali controllate dal governo francese, quindi in una valuta fuori dal controllo dei loro governi.
Ed è il caso dell’Italia, indebitata in euro, moneta emessa dalla BCE, fuori dal controllo del governo italiano.
Sono invece paesi a moneta sovrana i paesi in cui la banca centrale, che emette denaro, è controllata ufficialmente, o sostanzialmente, dal governo: Cina, USA, Giappone, Canada, Corea (del Nord e del Sud), Iran, Cuba, Svizzera, ecc.
In realtà vi sono anche delle situazioni “intermedie” in cui la banca centrale è “indipendente” dal potere politico, pur emettendo la moneta ufficiale dalle nazione in cui si trova, per cui non collabora pienamente con il governo nel garantire le emissioni di moneta ritenute politicamente necessarie.

Uno stato a moneta a sovrana, per intenderci, è uno stato ha la “macchina che stampa i soldi”, il quale sempre sarà in grado di stampare il denaro sufficiente a pagare gli interessi ed eventualmente i capitali in scadenza. Ed è risibile la contestazione di chi sostiene che “stampare denaro genera sempre inflazione”, in quanto il nuovo denaro stampato viene destinato a ripagare i risparmiatori (denaro che non destinato ad acquistare beni e servizi, ma a risparmiare) e in quanto un governo accorto sa regolare la spesa pubblica in modo da evitare eccessi di inflazione.

Se il debito pubblico non è espresso in moneta sovrana, diventa un “debito cattivo”, in quanto i creditori, pur non avendo l’interesse che venga tutto ripagato (perché ci vogliono guadagnare gli interessi per lungo tempo), avranno un forte potere contrattuale verso uno stato che si può finanziare solo tramite i creditori ed i contribuenti, senza poter stampare una propria moneta. E questo potere contrattuale lo utilizzeranno per trarre i massimi benefici per loro, naturalmente ai danni dei cittadini, che pagheranno più tasse, per garantire il pagamento di interessi più elevati.
In questo caso, come in quello del debito privato impagabile, il debito pubblico impagabile diventa un meccanismo permanente di sfruttamento, da parte dei creditori, nei confronti della nazione che lo detiene.

A dire il vero ci sono nazioni povere del mondo che hanno la necessità di indebitarsi in valuta estera per poter acquistare tecnologie e competenze estere di cui non dispongono. In questi casi deve valere sempre la stessa regola: il debito deve essere sostenibile, diversamente diventa uno strumento di imperialismo

 

E’ solo una scelta politica
Se il debito pubblico sia uno strumento utile ai cittadini, per le ragioni sopra espresse, oppure se sia un meccanismo di sfruttamento del popolo, dipende unicamente da due fattori: la denominazione del debito (in moneta sovrana o non sovrana) e dal controllo pubblico sulla banca centrale che la emette.
Si tratta di due scelte a costo zero, puramente politiche. Infatti un paese libero e democratico ha tutto il potere di scegliere se emettere titoli di stato nella propria valuta o se emetterli in una valuta fuori dal proprio controllo. Ed ha tutto il potere giuridico di stabilire il controllo pubblico della banca centrale, affinché stampi il denaro necessario a garantire la sostenibilità del debito.

Dopo di che, evidentemente, non tutti i paesi sono liberi e democratici. Un paese sotto il controllo di una potenza straniera (una colonia) emetterà debito in una valuta confacente agli interessi della potenza straniera, garantendole un potente meccanismo di controllo, come lo è il debito pubblico estero della maggior parte dei paesi del Terzo Mondo, costantemente impagabile, costantemente nelle mani di stati/banche dei paesi più ricchi del mondo.
Un paese che emette titoli di stato in euro, moneta emessa da una banca centrale di cui non ha il controllo, sarà sottoposto ad un meccanismo di potere da parte di chi controlla la BCE, che si imporrà sulle decisioni del Parlamento.

Si tratta solo di una decisione politica: se l’Italia desidera essere un paese libero e democratico, dove il debito pubblico è un servizio di risparmio per i cittadini, questo deve essere denominato in valuta nazionale e la Banca d’Italia deve essere posta sotto controllo pubblico (oggi non lo è). Diversamente l’Italia continuerà ad essere soggetta al potere di coloro che controllano la banca centrale che emette gli euro, la BCE, i quali sono sempre più ricchi, proprio mentre il popolo italiano è sempre più povero, secondo lo stesso meccanismo applicato da decenni ai paesi poveri del Terzo Mondo.
E’ quanto spiega Guido Grossi nel suo video Il furto del debito pubblico.

C’è anche chi sostiene che il problema lo si potrebbe risolvere imponendo il controllo pubblico degli “stati europei” sulla Banca Centrale Europea. Da punto di visto tecnico-economico si tratta certamente di una soluzione funzionale. Il problema, però, è la fattibilità politica. Si tratta di una decisione che dovrebbe essere presa all’unanimità da 27 governi, molti dei quali sottoposti ai ricatti ed alle infiltrazioni da parte dei poteri finanziari che controllano la stessa BCE e ne traggono profitto.
Le probabilità che una riforma del genere avvenga in pochi anni sono prossime allo zero, mentre gli effetti di impoverimento dell’Italia sono già in corso da anni e continuano pesantemente.
La via più percorribile, quindi, è che lo stato italiano cominci ad emettere titoli espressi in una valuta parallela all’euro, emettendo esso stesso questa valuta. In questo modo il debito pubblico ritornerebbe a svolgere la funzione “buona” di supporto al risparmio e cesserebbe di essere uno strumento di potere della finanza internazionale sull’Italia.

Il debito buono e il debito cattivo, di Davide Gionco

riceviamo e pubblichiamo_Giuseppe Germinario

Il debito buono e il debito cattivo

di Davide Gionco

L’antropologo David Graeber aveva dedicato un intero saggio (Debito. I primi 5000 anni) al ruolo del debito nella storia dell’umanità, dalle prime civiltà mesopotamiche di cui abbiamo notizia fino alla crisi della Lehman Brothers del 2008.
Il debito è il principale motore dell’economia e, probabilmente, anche della storia dell’umanità. Per fare un esempio, ci eravamo già occupati dell’importanza fondamentale dei prestiti delle banche estere nella storia dell’unificazione dell’Italia sotto la corona dei Savoia. Senza i debiti contratti dal Regno di Sardegna verso le banche, non ci sarebbero stati i fondi per finanziare le guerre di indipendenza ed il corso della storia d’Italia sarebbe stato differente da quello che conosciamo.
Senza il debito gran parte delle case in cui abitiamo non sarebbe stata costruita.
Ma è anche vero che senza il debito molti paesi del Terzo Mondo non sarebbero ridotti in povertà e probabilmente non ci sarebbero i flussi migratori dal Sud del mondo verso il Nord del mondo.
Ci sono persone rovinate dai debiti, ma anche persone che sui debiti hanno costruito la loro fortuna.

Quando un debito è “buono” e quando un debito è “cattivo”?

Il debito non è qualche cosa che esiste in natura, è qualche cosa che nasce dalle relazioni umane. Il concetto di debito, evidentemente, precede l’economia. Ogni volta che diamo la nostra parola promettendo qualche cosa, ci indebitiamo verso l’altra persona, nel senso che ci impegniamo a dare a quella persona quanto pattuito: un oggetto che possediamo, un po’ del nostro tempo e del nostro lavoro o il nostro amore eterno.

Il giudizio sulla bontà del debito lo si dà a partire dalle conseguenze sulla vita reale delle persone. Ho fatto bene a promettere amore eterno a quella persona? Che cosa ci ho guadagnato?
Ho fatto bene a farmi prestare del denaro per acquistare quel macchinario o per prendere casa in centro città?

Il debito economico, di per sé, è solo una registrazione contabile astratta, derivante da un contratto economico, l’impegno a restituire una certa somma denaro in cambio di un bene reale ricevuto (acquisto) o di un prestito ricevuto. Sono pezzi di carta, numeri su dei computers.
Se il debito contratto sia cosa buona o cattiva lo si può giudicare solo dalle conseguenze sulla vita reale delle persone. Non è corretto un approccio etico del tipo “mai indebitarsi”, perché senza indebitamento si fermerebbe il mondo.
Non si potrebbe, ad esempio, ordinare un’automobile: io sono debitore di 20 mila euro verso concessionario, ma il concessionario è debitore verso di me di un’automobile.
Non si potrebbe stipulare un contratto di affitto: io sono debitore mensilmente dell’importo dell’affitto, il proprietario è debitore verso di me nel concedere l’uso del suo appartamento per un mese.
Non si potrebbe stipulare un contratto di lavoro: io sono debitore di 21 giorni al mese del mio lavoro verso l’impresa che mi ha assunto, l’impresa è debitrice verso di me dello stipendio mensile.

Si potrebbe discutere dell’opportunità di indebitarsi prendendo del denaro in prestito, ad esempio da una banca. Se prendo in prestito un credito da 150 mila euro per l’acquisto della casa in cui vivo, che comporta l’esborso di una rata mensile di 400 euro ed il mio lavoro mi consente agevolmente di vivere e di pagare le rate del mutuo, il debito contratto è una cosa buona, in quanto mi consente di acquistare una casa in cui vivere, la quale ha un valore reale. In sostanza quel debito è stato lo strumento per barattare la mia capacità lavorativa con la casa che ho acquistato.
Ovviamente se la casa che ho acquistato non è stato un buon affare, nel senso che era in pessimo stato, da ristrutturare, in un quartiere pieno di criminalità e privo di servizi, non si è trattato di un buon affare. In questo caso, però, la colpa non è dello strumento-debito, ma del mio errore di scelta della casa da acquistare.

I problemi legati alla contrazione del debito li si hanno quando il debito risulta non sostenibile, per cui l’impegno di restituzione ci porta a doverci privare di cose vitali. Il debito inizia ad essere un problema se per mettere insieme i 400 euro al mese della rata del mutuo mi trovo obbligato a rinunciare alle spese non essenziali che costituiscono il mio benessere. Ma il debito diventa un vero problema (“cattivo”) quando per rimborsarlo devo privarmi di beni essenziali per la mima esistenza, quali la casa in cui vivere, i vestiti, il cibo e, magari, il debito impagabile mi precipita in una situazione umana che mi fa perdere anche gli affetti più cari.
Nell’antichità la mancata restituzione del debito poteva portare non solo alla perdita di tutti i propri beni, ma anche alla riduzione in schiavitù del debitore, con moglie e figli, fino a che, lavorando, non avessero restituito quanto dovuto. Oggi le conseguenze del non pagamento del debito non arrivato a questi livelli. Il tutto dipende da come la questione viene gestita a livello giuridico.

La questione centrale del debito è dunque la sostenibilità.
Quando il debito non è sostenibile, porta sempre il debitore a cadere in situazioni umanamente inaccettabili: povertà, anche estrema, e forme di schiavitù.
Per quanto riguarda il creditore, in alcuni casi subirà anch’esso delle conseguenze a causa del mancato rimborso, che gli comporterà come minimo delle perdite finanziarie (denaro prestato e non restituito), ma anche conseguenze più gravi se quel denaro prestato doveva a sua volta essere restituito ad altri. In questi casi l’insolvenza del debitore si propaga coinvolgendo la catena dei creditori.

Ci sono anche casi nei quali il creditore non teme il mancato rimborso, vuoi perché dispone di ampie riserve di ricchezza, vuoi perché dispone del diritto giuridico di creare dal nulla, a certe condizioni, il denaro che presta ai debitori.
Un caso classico è quello degli usurai, degli strozzini, i quali dispongono di molto denaro, che prestano ai debitori a condizioni particolarmente vantaggiose per il creditore e svantaggiose per il debitore, il quale non dispone di sufficiente potere contrattuale per esigere delle condizioni più accettabili.
Una persona che abbia assoluto bisogno di denaro per sopravvivere sarà sempre disposta ad accettare delle condizioni capestro ed anche a rivolgersi a prestatori che operano al di fuori dal quadro giuridico ovvero dalle tutele che la legge riconosce ai debitori nei confronti dei creditori. Sono situazioni in cui chi dispone del denaro da prestare ha il potere contrattuale di imporre condizioni legalmente e umanamente non accettabili. Ad esempio la condizione per cui se il debito non viene ripagato sono previsti danni fisici al debitore ed ai suoi famigliari.
Una situazione simile la si ha anche quando i prestatori sono le banche che operano (almeno dovrebbero farlo) dentro il quadro giuridico vigente. Se il debitore è un piccolo artigiano che ha bisogno di credito per pagare le troppe tasse impostegli dal Fisco, è molto probabile che anche la banca approfitti della situazione per quanto le è possibile, dato che quel debitore ha un basso potere contrattuale.
Se, invece, colui che chiede credito è una grande azienda di livello nazionale o internazionale, di cui magari la banca dispone della proprietà di quote ingenti del pacchetto azionario, state certi che le condizioni del credito saranno molto più agevolate, in quanto il debitore ha un forte potere contrattuale.

Da che mondo è mondo, i piccoli debiti sono sempre stati rimborsati o hanno a portato a situazioni di sfruttamento, mentre i grandi debiti sono sempre stati rinegoziati, rifinanziati, eventualmente scaricati su soggetti più deboli (piccoli risparmiatori, si pensi al caso dei Tango Bonds) o eventualmente scaricati nel calderone del debito pubblico (si pensi al caso del Monte dei Paschi di Siena).

Quando un debito a carico di soggetti deboli, a basso potere contrattuale, risulta impagabile ed il soggetto creditore non ha la necessità di essere rimborsato (perché non ha bisogno di denaro), il creditore userà il proprio potere contrattuale per trarre altri vantaggi economici, tentando di trasformare una momentanea situazione di insolvenza in una permanente e perpetua situazione di potere sul debitore, imponendo su di esso delle condizioni per il rinnovo del debito. Il debitore non avrà scelta, non essendo in grado di rimborsare il debito contratto
Il caso tipico è quello di molti paesi de Terzo Mondo, i quali hanno nei decenni passati ricevuto prestiti da parte del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Mondiale o da parte di gestori di grandi fondi di investimento internazionali. Quando il debito arrivato in scadenza non può essere rimborsato, i creditori lo rinnovano alle seguenti condizioni:
1) Che alla prossima scadenza il debito sia certamente non ripagabile, obiettivo che viene raggiunto imponendo tassi di interesse sufficientemente alti.
2) Che il debitore metta in atto delle azioni che consentiranno ai creditori di trarre altri tipi di profitti, azioni del tipo: privatizzazioni di servizi pubblici e concessioni esclusive su risorse naturali (minerarie, agricole, turistiche, ecc.)
In questo mondo il rapporto creditore-debitore cessa di essere un rapporto di cooperazione economica (caso del debito “buono” in cui il prestito porta sviluppo) e diventa un meccanismo di sfruttamento perenne da parte dei (pochi) creditori nei confronti dei (molti) debitori.

Il problema è noto fin dagli albori delle società umane. Se ne era già occupato intorno al 1’700 a.C. il re sumero di Lagash con la legge AMA-GI che affrancava tutti i debitori dai creditori, restituendo loro la libertà. Se ne erano già occupati gli antichi Israeliti, le cui leggi prevedevano ogni 50 anni il Giubileo ovvero la cancellazione di tutti i debiti. Se ne era occupato, nell’antica Repubblica di Roma, anche il tribuno della plebe Licinio Sextio, quando il meccanismo dei debiti era quello che consentiva ai ricchi patrizi di imporre costantemente i loro interessi sopra quelli dei poveri plebei.
Sarebbe bene che anche oggi ci si occupasse della questione in modo umano e intelligente, ricordandosi che il denaro prestato non è un valore in sé, mentre un valore in sé è la vita delle persone. La cancellazione dei debiti, a determinate condizioni, è una soluzione da prendere in considerazione, se questi sono diventati un meccanismo di sfruttamento di pochi nei confronti di molti, sapendo che quei pochi non hanno affatto bisogno di quel denaro per vivere.
Non stiamo parlando di “giustizia sociale”, ma stiamo parlando di umanità nei rapporti sociali, nei quali lo sfruttamento non deve mai essere consentito, neppure se il creditore ha delle ragioni giuridiche, in quanto il diritto alla vita delle persone è più importante (anche economicamente parlando) dei diritti dei creditori nei confronti dei debitori.

Abbiamo accennato sopra ai creditori che hanno il potere, a certe condizioni, di creare da nulla il denaro che prestano. Questo è il caso delle banche commerciali che, oggi, possono creare il denaro che prestano a fronte di certe garanzie presentate alla banca centrale e, naturalmente, a fronte di certe garanzie che il denaro prestato venga restituito. Se il denaro creato viene restituito, scompare dal bilancio, lasciando al prestatore solo gli utili, che sono gli interessi. Si tratta di un meccanismo simile a quello rappresentato dal comico Erminio Macario in un suo famoso sketch.
La cosa importante è che la restituzione del prestito sia garantita. O, se non è garantita in modo totale, che l’imposizione delle successive condizioni di rinnovo del debito (ad esempio lo sfruttamento a proprio vantaggio di risorse minerarie) consentano al prestatore di far rientrare i capitali prestati insieme a degli utili.

Questo meccanismo del debito perenne sta alla base delle maggiori forme di sfruttamento oggi esistenti nel Pianeta, sia nei confronti della fasce povere della popolazione (i ricchi sfruttano i poveri, dai tempi del re di Lagash ad oggi), sia nei confronti delle nazioni povere del mondo.

In questo articolo non ci siamo occupati delle questione relative al debito pubblico, ne parleremo in un prossimo articolo.

Il Grafico Definitivo, di Giuseppe Masala

Qui sotto un post dell’economista Giuseppe Masala tratto da https://www.facebook.com/bud.fox.58/posts/2352245748167070

Il dibattito pubblico da diversi decenni è incentrato sul problema del deficit e del debito pubblico. Più volte abbiamo sottolineato che il modo di porre un problema e stabilire priorità dipende da precise finalità politiche nella fattispecie italiana lesive degli interessi e dell’autonomia politica del paese. In realtà più che di debito si dovrebbe discutere delle modalità di utilizzo del risparmio nazionale. Molti aspetti riguardanti la qualità della nostra classe dirigente risulterebbero evidenti.Giuseppe Germinario

Il Grafico Definitivo.

Se guardate il grafichetto sotto che rappresenta il saldo Target2 della BCE sommata al saldo cumulato della Bilancia dei Pagamenti italiana potete apprezzare come in Italia siano impiegati quasi 300 miliardi di capitali esteri a fronte di quasi 800 miliardi di capitali italiani impiegati all’estero. Ciò significa chiaramente che siamo di fronte alla più grande fuga di capitali dal Sistema-Italia della storia. Quasi 500 miliardi di risparmi italiani utilizzati all’estero. Come mai questi danari sono impiegati all’estero e non Italia? Semplice, perché lo stato italiano non può indebitarsi in ossequio ai parametri di Maastricht. O meglio ancora, chiamiamo le cose con il significato proprio: lo Stato italiano non può mobilitare il risparmio degli italiani per erogare beni e servizi agli stessi italiani. Il debito pubblico così va inteso (e così andrebbe chiamato): “Risparmio interno mobilitato dallo Stato”. Il debito pubblico non è il debito del bottegaio.
Dunque, si può dire senza tema di essere smentiti che il debito pubblico (o le “risorse italiane mobilitate dallo stato italiano”) potrebbe essere più alto di quasi 500 miliardi senza che lo stato italiano assorba neanche un centesimo dal risparmio dei nostri “amici” stranieri. [Ovviamente semplifico, perché è chiaro che se lo stato italiano desse una spinta poderosa alla spesa pubblica, agli investimenti, dovrebbe mobilitare meno perché una determinata quantità Q della cifra in questione verrebbe mobilitata dalle imprese private e dalle famiglie]. Abbiamo dunque margini enormi. Eh, ma il debito pubblico al 60% del Pil? Semplice, non significa nulla. Nulla. Nulla. Il 60% è troppo per il Venezuela e l’Argentina che rispettivamente hanno un rapporto debito/pil pari al 30% e al 50% ma non riescono a sostenerlo perché hanno i conti con l’estero totalmente scassati ed è pochissimo per il Giappone che ha un rapporto debito/pil pari al 250% perché ha dei conti con l’estero (e risparmi dei giapponesi) floridissimi.
E allora perché gli “amici” europei ci sottopongono da anni a water bording fiscale all’inseguimento di un rapporto debito/pil del 60% che non significa nulla pur sapendo che abbiamo la possibilità di mobilitare risorse italiane fino a 500 miliardi di euro? Semplice, perché hanno trovato la Cuccagna nelle formichine italiane. Se non è il nostro stato a mobilitare per noi queste risorse [Perché gli è impedito da regole folli e senza senso in valore assoluto ma valide solo se viste in relazione ai conti con l’estero] le mobiliteranno loro: se qui nessuno le può impiegare il risparmio italiano corre all’estero.
Perché la Cuccagna? Semplice, pensiamo ai nostri fraterni amici tedeschi che ci impongono austerità: ci danno tassi negativi sui loro Bund decennali: ciò significa che lo stato tedesco mobilita risparmio italiano facendo pagare gli italiani (tasso negativo) per dare miglior istruzione, miglior cultura, miglior infrastrutture, miglior ricerca, migliore sanità… ai tedeschi. Si, si, avete capito bene, noi italiani riceviamo tassi negativi dai tedeschi per consentire ai tedeschi di godere della vita e soprattutto di darci pubbliche lezioni su come si sta al mondo sottoponendoci a pubblica gogna e facendoci passare per cialtroni.
Questo è il perverso meccanismo di Maastricht e del Fiscal Compact e delle folli e insignificanti regole quali l’output gap [che è un non sense applicato a cose macroeconomiche] e l’applicazione di stupidi modelli econometrici. Scoppiamo di soldi e ci fanno la lesina sugli 0,1% di spesa calcolati sulla base di un modello econometrico che come tutti questi modelli del menga lasciano il tempo che trovano.
Perché la classe dirigente italiana [mi riferisco a quella che capisce e capiva, non al diplomato in dentiere Zingaretti. Sia detto senza offesa] accetta tutto questo? Un Padoa Schioppa è ovvio che conosceva le identità della Contabilità Economica Nazionale e lo stesso un Monti ma erano e sono accecati dall’idea dello Stato Minimo, dello Stato Sentinella: bisogna affamare “la Bestia” [lo Stato] per costringerlo a uscire dalle cose economiche per concentrarsi in quelle poche cose che secondo i dogmi liberisti lo stato deve fare: Difesa, Giustizia, Pubblica Sicurezza e Stop.
Altri come Prodi, semplicemente perché di economia non capiscono nulla: si si, l’hanno fatto professore, lo chiamano “economista” ma questo non capisce una beata mazza. Proprio non conosce le identità contabili. Non sa nulla. Se no come lo spieghi uno che farnetica di necessità “di attrarre i capitali stranieri in italia” quando i dati ci dicono che scoppiamo di risparmi nostri che non possiamo utilizzare in ossequio a parametri folli e siamo costretti a impiegarli a tassi negativi per esempio in Germania? Solo un cretino può dire cose del genere, e se cretino non è fate voi le ipotesi che preferite.
E nel frattempo in Italia ci crollano i ponti in testa. Stanno per andare in pensione 50000 medici e non possiamo sostituirli perché – nonostante i nostri giovani fanno a pugni per riuscire ad entrale in una Facoltà di Medicina – formarli costa soldi e lo stato non può spendere. Una follia.

E qui la finisco, perché se inizio a scrivere tutto quello che dovrei scrivere Céline sarebbe un dilettante dell’insulto. Batterei anche il suo virtuosismo nell’Arte Sublime.

Un’ultima cosa. Il grafico che vi propongo non viene da chissà quale sito complottista ma direttamente dal Bollettino Economico 1/2019 della Banca d’Italia (pag. 24). Una prece e sipario. Amen.

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