CORONAVIRUS E STATO D’ECCEZIONE, di Teodoro Klitsche de la Grange

CORONAVIRUS E STATO D’ECCEZIONE

Da quando si è profilata l’emergenza sanitaria, la celebre affermazione di Carl Schmitt “sovrano è chi decide dello stato di eccezione” è stata ripetuta tante volte e in modo bipartisan, dalla destra alla sinistra. Qualcuno l’ha fatto – come sempre nelle affermazioni politiche – per sostenere più poteri al governo che alle regioni (per lo più a direzione politica avversa) altri per diverse ragioni.

Approfittando che sta sulla cresta dell’onda, ricordiamo quanto scrive Schmitt, e ancor più il suo allievo Fortsthoff, sul carattere delle “misure” che il sovrano (o comunque i poteri pubblici) prendono in casi di emergenza.

Sostiene Forsthoff che tali misure vanno ricondotte al concetto di “provvedimento”. Citando Schmitt scrive che è “tipico del provvedimento «che il procedimento sia determinato, nel suo contenuto, da un dato di fatto concreto e sia completamente permeato da uno scopo obiettivo». Perciò contrappone il provvedimento alla decisione emessa nella dovuta forma di un regolare procedimento ed alla norma di legge, «se essa esprime essenzialmente un principio di diritto, cioè se essa vuole essere soprattutto giusta, permeata dall’idea di diritto»… Caratteristica del provvedimento è una specifica relazione tra mezzo e scopo. Il provvedimento è diretto ad un determinato scopo, A questo scopo sono adattati e subordinati i mezzi che sono usati per il suo raggiungimento” mentre “la sentenza giudiziaria in quanto è presa «in base al diritto» sta al di sopra della adeguatezza allo scopo e del perseguimento di esso, che distinguono il provvedimento”; mentre nella legge scopo e idea di giustizia sono ambo presenti “La norma giuridica può essere creata per regolare un rapporto della vita in modo adeguato, cioè in conformità ad uno scopo ed in corrispondenza alle idee correnti di giustizia. Una tale legge, nel suo complesso, è sottratta alla determinazione di uno scopo, poiché contiene in se stessa un valore”. Quindi “L’ordinamento non è mai solo mezzo a scopo, esso ha un proprio valore”. Lo scopo, che in altri atti giuridici ha un ruolo di comprimario o subordinato, nelle misure d’eccezioni è determinante; l’idoneità delle stesse è commisurata alla congruità a conseguire lo scopo.

Ne consegue che la “tavola dei valori” o “le idee di giustizia” che informano ogni ordinamento sono qui subordinate. Il perché è chiaro: allorquando è in gioco l’esistenza e/o beni pubblici essenziali come la vita, la sicurezza collettiva, il resto, come l’intendenza di De Gaulle, segue. Dov’è che le misure hanno la propria validità e legittimità? La prima nell’essere adeguate allo scopo (“razionali rispetto allo scopo” avrebbe scritto Max Weber), la seconda nell’essere prese da un’autorità che goda di fiducia e largo consenso.

In questo senso la vicenda del coronavirus è iniziata proprio male. Ai governatori leghisti delle regioni del Nord che chiedono di mettere in quarantena gli studenti, di qualsiasi nazionalità, provenienti dalla Cina, il segretario Dem replicava “Allarmismi ridicoli… il governo ha già sospeso i voli provenienti dalla Cina, dunque non si capisce come i bambini possano arrivare” (fonte “Il Messaggero”); e una loquace deputata Dem “i governatori fomentano panico e intolleranza”; la Ministra Azzolina “Il governo si è mosso immediatamente e voglio tranquillizzare tutti perché la propaganda non fa assolutamente bene: non ci sono motivazioni al momento per pensare di escludere gli alunni dalla scuola” (fonte: “Il Messaggero”).

Il Presidente Conte, forse per non essere tacciato di sovranismo, rimanda tutto a presidi e primari “Ci dobbiamo fidare delle autorità scolastiche e sanitarie, se ci dicono che non ci sono le condizioni per il provvedimento in discussione invito i governatori del nord a fidarsi di chi ha specifica competenza”, senza porsi il problema di cosa succede se i presidi e i primari non avessero la stessa opinione (dato il numero è impossibile che ne abbiano una condivisa da tutti).

È chiaro che tutte queste affermazioni erano condizionate dalla ideologia e dalla lotta politica: accoglienze e frontiere aperte versus sovranismo e frontiere chiuse. Cioè erano proprio il contrario di quello che una misura d’emergenza deve essere. Il fatto che (almeno) dai tempi di Boccaccio e della peste nera è noto che l’isolamento è un efficace strumento di riduzione del contagio e che il virus se ne impipa delle divisioni politiche ed ideologiche, così come i mezzi per combatterlo; l’agente patogeno non è antifascista o anticomunista, ma semplicemente (e banalmente) pericoloso come terremoti, inondazioni (e altro).

Resta il fatto che dopo poche settimane Conte ha chiuso province, regioni, scuole e, da ultimo, tutta Italia dimenticandosi di governatori, presidi e primari: probabilmente ha fatto bene, ma ci sono volute – per farlo – diverse settimane nelle quali il coronavirus non ha trovato ostacoli, o ne ha trovati meno.

E rimane il problema della fiducia che può ispirare ai cittadini una maggioranza ed un governo che fa di una questione essenzialmente “tecnica” (nel senso indicato) una faccenda politico-ideologica: sarebbe meglio che facessero tesoro dell’intera lezione di Schmitt e Forsthoff (e Weber) sul punto.

Teodoro Klitsche de la Grange

CONTRO IL LIBERALISMO 2 – RISPOSTA A GAMBESCIA, di Teodoro Klitsche de la Grange

CONTRO IL LIBERALISMO 2 – RISPOSTA A GAMBESCIA

Caro Carlo,

rispondo al cortese intervento sul tuo blog del 6 marzo u.s..

In primo luogo quando scrivo nella mia recensione di “usuali deprecazioni, anatemi ed esorcismi, come capitato (in Italia da ultimo circa un anno fa)” mi riferivo al noto episodio dell’invito (rivolto se, ben ricordo, dalla Feltrinelli) a De Benoist, poi annullato per le “contestazioni” di insegnanti di sinistra, e non alla Tua recensione, dotta e ragionata, non come quelle dei contestatori “a prescindere”.

Quanto al resto, ritengo di essere da sempre un seguace del liberalismo “triste”, che a me piace chiamare “forte”: ossia quello che non dimentica né la realtà e la storia, né i presupposti del politico, cioè le regolarità, le leggi sociologiche che non solo Miglio ma, come puoi leggere dalla mia recensione, anche il giovane V. E. Orlando (nel 1881) riteneva ineluttabili, che (anche) il giurista non può accantonare.

E venendo ad Orban, Ti posso rimandare per un’analisi più dettagliata al mio articolo “Costituzione ungherese e Stato di diritto” pubblicato da “Italia e il mondo” nel gennaio 2019 e mesi dopo, col titolo: “Attacco alla costituzione ungherese” su stampa da Nova Historica, in cui analizzavo la risoluzione del parlamento UE per la procedura d’infrazione all’Ungheria per violazioni dello “Stato di diritto” (ecc. ecc.).

Da tale risoluzione risulta che lo Stato di diritto ungherese era messo in pericolo da:

  1. a) l’assenza nei sussidiari ungheresi di immagini di famiglie omosessuali (del tipo Tognazzi e Serrault nel “Vizietto”).
  2. b) Dal fatto che i vigili urbani di un paese ungherese elevavano troppe contravvenzioni ai rom.
  3. c) Dal fatto che la Corte EDU avesse condannato l’Ungheria per la brutalità della polizia nel respingere i migranti.
  4. d) Dall’abolizione del ricorso diretto alla Corte Costituzionale (mentre nel ventennio circa – dopo il crollo del comunismo –era stato in vigore). Ma anche in Italia ai cittadini non è dato adire direttamente la Corte Costituzionale (come avviene per il TAR, p.es.) e all’UE nessuno ne mena scandalo; come neppure del fatto che l’Italia sia stata condannata dalla Corte EDU per la brutalità nella repressione e le torture poliziesche a Genova nel 2001 (e perché non aprono la procedura d’infrazione?). Peraltro, non è stato notato che la Costituzione ungherese prevede oltre a quelle “classiche” un’istituzione di garanzia che manca in quella italiana: il difensore civico.

Penso che risoluzioni come questa non colgono l’obiettivo esternato, ma servono più che altro alla guerra (psicologica) delle elite decadenti.

Più meritatamente una procedura d’infrazione spetterebbe all’Italia della Seconda Repubblica che, tante volte sanzionata dalle Corti europee (sia la Corte EDU che la Corte di Giustizia) ha poco o punto cambiato l’abitudine di conculcare i diritti, anche quelli più elementari, dei cittadini.

Per questi, e altri fatti e i correlativi comportamenti strabici della UE mi chiedevo se quello che dispiaceva tanto della Costituzione Ungherese fosse invece che, nella stessa, era ben chiaro e solennemente affermato la centralità del popolo e ancor più la continuità storica della comunità nazionale, a partire da Santo Stefano d’Ungheria.

Dichiarazioni che, specie la seconda, difficilmente si trovano in documenti analoghi, ma sono nient’altro che l’enunciazione di un fatto: che l’esistenza di una comunità è il presupposto dello Stato, anche quello “borghese di diritto”. Spesso attualmente dimenticato. E che, aimè, contribuisce a spoliticizzare ed emasculare il liberalismo. È esatta, a mio avviso, la critica di Schmitt che questo non fonda un potere, ma lo limita; per cui il liberalismo forte è quello che riconosce il nemico nell’oppressore delle libertà (politica, in primo luogo) e delle garanzie di queste. Ma se il nemico dei liberali non è più chi conculca la libertà ma diventa chi difende la famiglia tradizionale, i rapporti comunitari e la comunità, ciò non significa altro se de-politicizzare il liberalismo (chi difenderà la libertà politica, se neppure i liberali lo fanno?), e, ancor più, compiere l’errore più grave in politica: quello di identificare il nemico sbagliato. Quanto alla mafiosità di Orlando ritengo che la Sicilia abbia dato alla cultura tre dei maggiori esponenti del diritto e della scienza politica a cavallo del XIX e XX secolo: Gaetano Mosca, V.E. Orlando e Santi Romano. Sono orgoglioso che fossero italiani e non mi interessa cosa nelle loro azioni o scritti può essere valutato prossimo all’ “onorata società” (anche qualche affermazione di Santi Romano è imputata di “mafiosità”).

Ricambio i saluti, con immutata stima ed amicizia.

Teodoro Klitsche de la Grange

In calce il testo di riferimento di Carlo Gambescia

https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2020/03/storie-di-liberalismo-e-di-amicizia-una.html?spref=fb&fbclid=IwAR2_qadultF2O4tJ9h5qt8k31lOLjqJpJIIM0Vr3sl4l_LAyEP-vbt8AbNg

Alain De Benoist Critica del liberalismo, a cura di Teodoro Klitsche de la Grange

Alain De Benoist Critica del liberalismo. Arianna editrice, Bologna 2019, pp. 285 € 23,50

Quando un pensatore così acuto e influente come Alain De Benoist giudica il liberalismo che considera (a ragione) come “l’ideologia dominante del nostro tempo”, occorre prenderne atto, senza incorrere nelle usuali deprecazioni, anatemi ed esorcismi, come capitato (in Italia da ultimo circa un anno fa) anche se (parte) delle tesi sostenute non convincono.

Scrive De Benoist “Una società liberale non è esattamente la stessa cosa di un’economia liberale. È invece una società in cui dominano la preminenza dell’individuo, l’ideologia del progresso, l’ideologia dei diritti dell’uomo, l’ossessione della crescita, lo spazio sproporzionato del valore mercantile, l’assoggettamento dell’immaginario simbolico all’assiomatica dell’interesse … è all’origine della mondializzazione, la quale non è altro che la trasformazione del Pianeta in un immenso mercato, e ispira quello che oggi si chiama «pensiero unico». Beninteso, come ogni ideologia dominante, è anche l’ideologia della classe dominante”; ma aggiunge subito dopo “Se “liberale” è sinonimo di persona dalla mente aperta, tollerante, sostenitrice del libero esame e della libertà di opinione, o ancora ostile alla burocrazia e all’assistenzialismo come allo statalismo centralizzatore e invasore, l’autore di queste righe non avrà evidentemente alcuna difficoltà a fare proprio questo termine. Lo storico delle idee, però, sa bene che tali accezioni sono triviali. Il liberalismo è una dottrina filosofica, economica e politica, ed è evidente in quanto tale che deve essere studiato e giudicato”. Studiandolo come dottrina, De Benoist, ne indica i fondamenti, “ossia un’antropologia fondata essenzialmente nell’individualismo e sull’economicismo …  pensiamo infatti che il liberalismo sia anzitutto un “errore antropologico”; perciò parliamo di liberalismo … per designare questa ideologia e per parlare del suo naturale correlato: il capitalismo”; la conseguenza (logica)  ne è che “ l’individuo è divenuto il centro di tutto ed è stato eretto a criterio di valutazione universale. Comprendere la logica liberale vuol dire comprendere ciò che unisce tutti questi elementi fra loro e li fa derivare da una matrice comune”. L’uomo liberale è così connotato da due fondamentali caratteri: l’indipendenza dagli altri e la ricerca del proprio interesse. Ogni struttura politica e sociale che limiti l’individualismo economicista è quindi negata o rigettata. In particolare la dedizione rispetto alla comunità. Se Renan diceva che la nazione è “un’anima, un principio spirituale”, per i liberali contemporanei, Stato, nazione, patria sono qualcosa di non-esistente.

Per cui il bene comune ossia il fine per cui si costruisce l’istituzione politica, viene negato, più spesso, minimizzato o comunque viene dopo la tutela dei diritti individuali.

Né sono sostenibili e coerenti le posizioni dei conservatori-liberali. In effetti è contraddittorio pretendere di regolare “l’immigrazione aderendo al contempo all’ordine economico liberale, che si basa su un ideale di mobilità, di flessibilità, di apertura delle frontiere e di nomadismo generalizzato”; in genere difendere le frontiere, limitative sia del diritto a trasferirsi sia di quello a consumare, è in contrasto all’ “ideal-tipo” liberal-liberista. I liberali conservatori “non vogliono comprendere che il movimento perpetuo della hybris capitalistica non può non provocare sconvolgimenti, che lo rendono incompatibile con ogni vera forma di conservatorismo”. La crisi attuale dipende dall’aver portato alle conseguenze più estreme l’individualismo economicista con la relativa chiusura di senso e la marginalizzazione della politica, del politico e dello Stato, e generato la dialettica nascita del sovranismo, contrario a talE prospettiva.

Questo per sintetizzare l’essenza del libro che, in quasi trecento pagine di critiche serrate e coerenti, spazia su tanti temi, come l’Unione Europea, le insorgenze populiste, i regimi “illiberali” della Polonia e dell’Ungheria, il conflitto tra Stato democratico e cosmopolitismo liberista per cui rinviamo alla lettura del saggio, concettoso e ricco quanto chiaro.

Al recensore trarre un paio di osservazioni generali.

De Benoist stigmatizza il liberalismo come ideologia, come tipo ideale (à la Weber); e la critica è particolarmente efficace e coerente. Ma, è appunto quella al “tipo ideale” liberale che tra lo scorcio del XX secolo e l’inizio del XXI secolo, si è preso (da solo) troppo sul serio, pretendendo di fare di una parte del liberalismo pensato e storicamente realizzato in alcuni secoli il tutto. A tal proposito, a ripristinare il carattere concreto del liberalismo ci soccorre un grande giurista come Carl Schmitt, apprezzato dall’autore (e da chi scrive). Sostiene Schmitt nella Verfassungslehre (e in altri scritti) che lo Stato liberale è frutto della ibridazione tra principi di forma politica (identità e rappresentanza) e principi dello Stato borghese (separazione dei poteri e distinzione tra Stato e società civile – id est tutela dei diritti fondamentali).

I primi necessari a costituire la forma politica e legittimare il potere pubblico: i secondi a limitarlo. Senza forma di potere le limitazioni a questo non hanno senso. A tale proposito Schmitt cita quanto sosteneva Mazzini “sulla libertà non si costituisce nulla”; e il patriota italiano aveva ragione: riecheggia in ciò l’affermazione di Hegel che “lo Stato è la realtà della libertà concreta” (prgrf. 260 dei Grundlinien). In altre parole: i teorici dello Stato borghese moderno da Sieyès a Tocqueville, da Hegel a Jellinek da Hamilton a Orlando (tra i tanti) ben capivano che potere pubblico e limiti a quello vanno di pari passo.

Per tenerci all’antropologia, ritenevano necessaria perché naturale sia la sociabilità umana (che genera lo scambio e il droit commun) che la politicità (la zoon politikon di Aristotele e S. Tommaso) che genera il droit disciplinaire, cioè il diritto dell’istituzione politica, come scriveva Hauriou. Se l’uomo dei liberali odierni è solo individualista ed economicista, quello dei “vecchi” era anche comunitario e politicista. Inoltre nel Federalista si afferma che lo Stato borghese si regge su un’antropologia negativa: “Ma cos’è il governo se non la più poderosa analisi dell’umana natura? Se gli uomini fossero angeli non occorrerebbe alcun governo. Se fossero gli angeli a governare gli uomini, ogni controllo interno ed esterno sul governo diverrebbe superfluo.  Ma nell’organizzare un governo di uomini che dovranno reggere altri uomini, qui sorge la grande difficoltà: prima si dovrà mettere il governo in grado di controllare … e quindi obbligarlo ad autocontrollarsi … L’autorità del popolo rappresenta il primo sistema di controllo … ma l’esperienza ha insegnato all’umanità che altre garanzie ausiliarie sono necessarie” (Il Federalista n. 51). Qui di esaltazione della mano invisibile e della governance tecnocratica ce n’è poco o punto, tantomeno di un’antropologia meramente individualista, soprattutto in grado di far a meno dell’autorità politica. Per cui il liberalismo reale e concreto si fonda sulla natura problematica dell’essere umano, sulla conseguente necessità di un potere politico e su quella di controlli perché i governanti realizzino in concreto l’interesse generale (il “bene comune”) e non il proprio.

Ossia proprio l’inverso delle conclusioni cui porta il liberalismo astratto e ideal-tipico propinatoci da un trentennio (almeno) e che De Benoist acutamente critica.

Liberalismo (quello global-mercatista) estraneo a chi recensisce, che, come liberale italiano, appartiene ad una variante tutta nazionale del liberalismo, la quale -.diversamente da altri Stati europei, costruiti dalla plurisecolare e paziente opera dei monarchi (prima feudali poi assoluti) – ha costituito in unione alla monarchia sabauda lo Stato nazionale. Quello Stato liberale che i vecchi maestri del diritto pubblico e della scienza politica italiani come Orlando e Mosca  non chiamavano (pur considerandolo tale) neppure liberale ma “Stato rappresentativo”.

Peraltro, e veniamo al secondo punto essenziale, i (sedicenti) liberali global-mercatisti sono, in grado di realizzare quanto fanno intendere, o non lo sono proprio, perché dovrebbero cambiare le leggi naturali, almeno quelle sociologiche?

In realtà è che su tale punto, decisivo, i liberal, o non parlano (per lo più) o lo presuppongono scontato, in contrasto con l’esperienza storica. Ad esempio l’idea espressa già da B. Constant, che l’esprit de commerce riduce l’ esprit de conquête, è (in parte) condivisibile a condizione di relativizzarla. Perchè è un fatto che proprio nel XIX secolo i due esprits si congiunsero generando guerre imperialiste: il che induce a prendere il giudizio del pensatore di Losanna come tendenziale, utile ma non decisivo. Piuttosto occorre ricordare quanto sosteneva V. E. Orlando “le leggi sociali come le leggi fisiche, hanno una forza tutta propria, sono un portato affatto naturale cui la volontà umana non può che conformarsi. Elles ne se font pas, elles poussent”; per cui sono le regolarità (Miglio), i presupposti del politico (Freund) a condizionare la capacità umana di conformare le istituzioni. Cosa che i liberal contemporanei dimenticano o sottovalutano. C’è da chiedersi se poi  questi “liberali” siano veramente tali. Sempre a seguire Schmitt, i nemici del liberalismo e dello Stato borghese di diritto sono coloro che non ritengono desiderabile uno Stato connotato (anche) dalla divisione dei poteri e dalla tutela della libertà e della proprietà. Osama Bin Laden (tra i tanti) avrebbe sottoscritto con entusiasmo. Ma se il liberalismo si basa sul mercatismo globalista, sulla confusione dei generi, sulla distruzione dei legami comunitari, e così via, il nemico dei liberali non è più il tiranno liberticida, ma il governante che cerca di difendere l’anima di un popolo e il suo modo d’esistenza.

E in effetti se nella prima metà del XX secolo i nemici sono stati Hitler e Stalin, in questo inizio di secolo è diventato Orban (tra i tanti). Quell’Orban il quale ha voluto una costituzione che, ad onta delle decisioni del Parlamento UE, ha più istituti di garanzia di quella italiana, ma il torto imperdonabile di volerli fondare sulla storia e sull’anima della comunità nazionale ungherese.

Resta da vedere se i veri liberali sono quelli che nel Parlamento UE hanno votato l’apertura della procedura d’infrazione all’Ungheria o – piuttosto – gli emergenti governi sovranisti che non hanno dimenticato che la libertà dell’individuo si fonda su quella della comunità cui appartiene; che la libertà dei moderni non è opposta, ma complementare a quella degli antichi.

Teodoro Klitsche de la Grange

Nadia Urbinati, Io, il popolo, a cura di Teodoro Klitsche de la Grange

Nadia Urbinati, Io, il popolo, Il Mulino, Bologna 2019, pp. 339, € 24,00

 

Nella messe di libri pubblicati sul populismo, spesso esorcizzanti – per conto delle élite – i nuovi soggetti politici, questo lavoro si distingue perché, secondo l’autrice “il populismo non è un’ideologia, ma una forma di rappresentanza politica e di governo democratico, Questo lo rende rischioso e difficile da contrastare e, soprattutto, ne fa un fattore di successo molto remunerativo nell’età della politica dell’audience”; così “Questo libro prende sul serio tale concettualizzazione e cerca di capire che tipo di democrazia è la democrazia populista. Unire le più diverse rivendicazioni, anche quelle trasversali alle ideologie della destra e della sinistra, comporta superare la rappresentanza per mezzo dei partiti e creare un’unica frontiera: quella che separa chi esercita il potere e chi non lo esercita, l’establishment e tutti gli altri”. Il che non è altro che ricondurre al “criterio del politico” la lotta tra popolo ed establishment. Il populismo è contro i partiti (e soprattutto contro la partitocrazia), ma non è antidemocratico: “è lo specchio della democrazia rappresentativa”. Anche in tal senso, ma soprattutto perché i populisti stanno progressivamente conquistando il governo di molti Stati, non lo si può identificare con movimenti di pura protesta (di opposizione), giacché lì sono al governo. La Urbinati scrive che quella che critica è una debolezza concettuale: “La mia idea è che dovremmo abbandonare l’atteggiamento polemico e considerare il populismo alla stregua di un processo politico inteso a conquistare il governo. Suggerisco di vederlo come l’esito di una trasformazione dei tre pilastri sui quali si regge la democrazia moderna – il popolo, il principio di maggioranza e la rappresentanza… prendo in seria considerazione la capacità che i movimenti populisti hanno di costruire un particolare loro regime dall’interno della democrazia costituzionale. Il populismo è rappresentativo: ma una forma sfigurata, che si situa entro la categoria della deformazione”.

Al contrario della narrazione prevalente nei media “di regime” Urbinati ritiene che il populismo è “incompatibile con i regimi politici non democratici” e tuttavia, sfigura la democrazia rappresentativa.

L’autrice ritiene che la democrazia rappresentativa è diarchica: “La diarchia sta a significare che le elezioni e il forum delle opinioni fanno delle istituzioni al contempo il luogo del potere legittimo e però anche un oggetto di discussione, di controllo e di contestazione. Una costituzione democratica deve regolare e proteggere entrambi i poteri”; il populismo tende a svalutare/ridurre il momento del formarsi dell’opinione rispetto all’esercizio della volontà pubblica; con ciò sono anche svalutati gli “intermediari” d’opinione (partiti e mezzi di comunicazione), rispetto al rapporto tra capo e popolo. Scrive “Il cardine della mia analisi del populismo è la relazione diretta con il popolo che il leader stabilisce e mantiene. È questa la dinamica che sfuoca i confini della diarchia democratica. Tale dinamica consiste nell’accentuare il dualismo tra «i molti» e «i pochi» e nell’espandere il potere del pubblico fino a mettere in discussione la democrazia costituzionale”.

Così il populismo col suo insistere sul momento della decisione, sul principio maggioritario e sulla contrapposizione tra il popolo (in effetti la “sua” parte di popolo) e l’establishment “non è il compimento, né la norma, del principio di maggioranza e della democrazia, ma il suo sfiguramento… le cui «conseguenze illiberali non sono necessariamente conseguenti a una crisi del liberalismo in uno stato democratico», ma si possono sviluppare dalla pratica stessa della democrazia, dall’uso della libertà”.

Il populismo è pericoloso, ma non anti-democratico tuttavia, come scrive l’autrice è anti-liberale e ne individua quattro inevitabili tendenze: 1) è refrattario alle tradizionali divisioni partigiane e contempla solo il dualismo di base tra la gente comune e l’establishment; è insofferente del pluralismo 2) Il populismo conquista il potere attraverso la competizione elettorale, ma usa le elezioni come plebisciti per dimostrare la forza del vincitore; il voto serve a confermare l’esistenza del “popolo vero” 3) Il populismo opera questa trasformazione dopo aver respinto l’idea della rappresentanza come articolazione elettorale di rivendicazioni e interpretazioni 4) Il populismo interpreta la democrazia come maggioritarismo radicale… L’esito finale è un radicale fazionalismo, un’ammissione senza infingimenti del fatto che la politica è una guerra più che un gioco… Rappresenta la vittoria di una visione iperrealista e relativistica della politica come costruzione ed esercizio del potere che ha nella vittoria la sua legittimità (v. p. 302-303).

Il saggio, pur così articolato, presente due punti dolenti. Da un lato accomuna sotto il concetto e il termine “populismo” fenomeni che, sviluppandosi in contesti assai differenti, hanno caratteristiche comuni poco rilevanti se non marginali. L’Argentina di Peron a poco a che fare con l’Ungheria di Orban, la Gran Bretagna della Brexit o l’Italia del XX secolo.

La seconda è che a restringere l’esame al populismo contemporaneo, il carattere “illiberale” emerge poco o nulla, se si passa da una valutazione basata su impressioni, esternazioni, proclami polemici a quella sulle realizzazioni, sul piano istituzionale soprattutto.

Esame omesso. Perché, se si va a guardare gli USA di Trump, la Gran Bretagna post-Brexit o l’Ungheria di Orban, tutti gli istituti dello Stato di diritto non sono stati toccati. Non risulta, tra le realizzazioni dei leaders populisti qualcosa  che somigli, neanche lontanamente, alla legge sui pieni poteri votata dal Reichstag nel marzo 1933 (in sostanza l’abolizione della costituzione di Weimar), né alcuna significativa riduzione dei principi di separazione dei poteri o di tutela dei diritti fondamentali che sono, dalla solenne enunciazione nell’art. 16 della Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e del cittadino del 26 agosto 1789 i principi del costituzionalismo liberale.

Anzi in taluni casi le garanzie sono state se non rafforzate, almeno estese.

Lo stesso parlamento europeo nell’approvare l’apertura della procedura d’infrazione all’Ungheria nel 2018, non ha saputo trovare altro (di rilevante) che “violazioni” analoghe a quanto regolato analogamente in altri Stati dell’UE (ad esempio l’assenza di azione popolare alla Corte Costituzionale, come anche in Italia), e/o praticato come le attitudini “manesche” della polizia – anche qui condanne all’Ungheria e all’Italia da parte della CEDU – ed altro che i limiti di una recensione non consentono di ricordare. Gli è che, malgrado lo sforzo dell’autrice di non cadere negli esorcismi anti-populisti, le lesioni alla diarchia opinione-volontà appaiono poco non solo per considerarli attentati allo Stato di diritto ed ai suoi istituti, ma anche cambiamenti di qualche sostanza, perché si limitano alle modalità di propaganda ad aspetti marginali della formazione dell’opinione pubblica. Per fortuna.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

Orazio M. Gnerre, Prima che il mondo fosse, recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Orazio M. Gnerre, Prima che il mondo fosse , Mimesis Ed. 2018, pp. 106, € 10,00.

“Alle radici del decisionismo novecentesco” è il sottotitolo di questo denso saggio, che non rende poi tutto ciò che vi si legge, dato che analizza, sotto l’aspetto decisionistico, la concezione antropologica dell’uomo moderno e, di conseguenza, il pensiero politico della modernità, connotato dal processo di secolarizzazione, dal divorzio tra cielo e terra, tra sacro e potere.

La ricerca di senso, anche in carenza del sacro tuttavia non si arresta: l’uomo moderno  cerca e trova dei surrogati, nella nazione, nel popolo, nella classe proletaria, nel Führer. Il Dio onnipotente, cui corrisponde l’onnipotenza giuridica del sovrano, è “messo tra parentesi” da Sieyès il quale ne dà la formula “La Nazione è tutto ciò che può essere per il solo fatto di esistere”, la quale contiene lo spinoziano “tantum juris quantum potentiae”. Proprio l’abate sosteneva che la Nazione non può essere sottomessa ad alcun vincolo giuridico o forma positiva “una nazione è indipendente da qualunque forma; e in qualunque modo essa voglia, è sufficiente che questa sua volontà si manifesti, perché ogni diritto positivo venga meno dinanzi ad essa che è la fonte e l’arbitro supremo di ogni diritto positivo”. La volontà nazionale si muove in uno spazio vuoto dal diritto, il quale ne è il prodotto ma non il limite.  Non è – in questo senso – vincolata da nulla. Ma che cos’è “il nulla”? La risposta è che “il nulla è l’estremo oblio del mondo reale nella posizione formale di un ordinamento. Il nulla è l’irrazionalismo del fondamento che Kelsen pone all’apice del proprio Stufenbau internazionale” (dalla prefazione di A. Sandri). Così la dottrina giuridica del XX secolo innova al giusnaturalismo dei secoli precedenti, un ordine razionale astratto “non scalfito dalla politica durante il secolo XIX”. Mentre nella prima metà del secolo scorso nasce “l’idea che l’unità reale del popolo e la sua immediata connessione con il leader costituiscano il nuovo presupposto, difficilmente inquadrabile nelle regolarità della legge dello Stato liberale di diritto, della decisione politica, dell’organizzazione amministrativa dello Stato”, idea la quale si diffonde nelle dottrine politiche e costituzionali, dal nazionalsocialismo al comunismo, ma lambisce anche le teorie socialdemocratiche; in Italia, la concezione di Costantino Mortati.

Così il decisionismo ha avuto un ruolo non esclusivamente giuridico: “Il decisionismo è stata la declinazione di una temperie generale, da un lato, e dall’altro la formalizzazione di una nuova teoria giuridica che potesse fornire alcune risposte… a una definizione dell’immagine di una modernità che, per l’uomo dell’epoca, risultava sempre più asfissiante”. Tale periodo storico – scrive Gnerre rifacendosi a Del Noce – è dal filosofo torinese “identificato come il periodo sacrale della secolarizzazione, in contrapposizione all’epoca seguente, da lui chiamata invece l’epoca secolare profana, che coinciderebbe con l’avvento (anche in campo sovietico) di una società che dava preminenza al consumo ed al benessere e che, con il crollo del Blocco Est ha visto la nascita di una société consumériste mondiale”.

Ma, in detta epoca (prima della guerra fredda, poi del post-comunismo) occorreva rimuovere il periodo “sacrale” “Questo grande rimosso è il fenomeno totalitario, che ha rappresentato senza alcun dubbio una modalità diversa di immaginazione della modernità, una modalità che ha perso ogni legittimità ed è stata cancellata dalle possibilità storiche, avendo perduto la sfida all’edificazione del futuro dell’umanità in un più vasto momento di una guerra mondiale, combattutasi anche sui fronti culturali, economici e giuridici e conclusasi col collasso dell’esperimento comunista sovietico”. Tuttavia, scrive l’autore: “il periodo sacrale della secolarizzazione non è ancora un capitolo chiuso della storia dell’umanità”.

La tecnica, la macchina, lo “spirito rappreso” del XX secolo non soddisfano – ieri, come ancora oggi – la domanda di senso. Ma, con ciò, e con il progressivo prevalere dell’economico sul politico, non si attinge solo la pace ossia la fine del polemos, ma, proseguendo conseguenzialmente, anche della Polis. E così arriviamo ai giorni nostri dove è in corso il tentativo – già in parte riuscito – di depotenziare lo Stato nazionale a favore dell’economia e della governance globale.

La tesi di Gnerre ricorda quelle esposte da Karl Löwith nel saggio (pubblicata in Italia con lo pseudonimo di U. Fiala) dal titolo Decisionismo politico sul pensiero di Carl Schmitt, per cui “Schmitt, con riferimento a ciò, dice che l’essenza dello Stato si riduce necessariamente ad una decisione assoluta, creata dal nulla e non giustificabile; e che questo “attivo nichilismo è invece peculiare solo allo Schmitt e a quei tedeschi del XX secolo che gli sono spiritualmente affini”.

E nel concetto di dittatura sovrana cui Schmitt riconduce le concezioni dei giacobini e, soprattutto, dei bolscevichi è riassunta l’opera di innovazione radicale del totalitarismo, che azzera l’esistente e crea una nuova comunità umana, attraverso lo strumento di una dittatura che, al contrario di quella classica romana, non è istituita “per serbare gli ordini” (Machiavelli) ma per rompergli. In funzione di una società nuova, per un uomo nuovo; cioè fondata (anche) su una diversa concezione antropologica.

Questo e molto altro c’è nel saggio di Gnerre; dati i limiti di una recensione ci si contiene a una breve considerazione sul pensiero politico-giuridico della modernità classica e di quella tarda (o post)moderna, in relazione sia al rapporto tra ideale e reale, sia a quella tra esistente e  normativo. Nella “prima” modernità, ossia quella del liberalismo ottocentesco, la concezione dell’uomo rimane quella “classica” cioè di un’antropologia (relativamente) pessimistica, ossia realista, onde la necessità di governi – e di controlli sui governi, come scritto nel Federalista (la novità in ciò è quella del controllo sui governi). Nella modernità “totalitaria” c’è un passo decisivo: il comunismo proclama di avere scoperto la formula per cambiare la natura umana. Da qui la necessità di una dittatura sovrana per metterla in opera. Nel pensiero post-moderno, poi, il problema antropologico è messo in sordina; tuttavia lo si considera risolto con la governance, la tecnocrazia e soprattutto l’obliterazione/negazione del politico. Anche qui, in modo indiretto, si crede di risolvere il problema del dominio politico, negandolo. Solo che l’uomo è Zoon politikon a dispetto della governance, e continua ad esserlo. E la realtà prevale sulle aspirazioni (esternate).

L’altra che, s’inverte il rapporto tra esistente e normativo. Se alla prima modernità era evidente (v. Sieyès) che era l’esistente a legittimare il normativo, nella tarda modernità è questo a legittimare quello. Ad Hegel tesi consimili sembravano riempire le teste di vento (id est aria fritta): nella post-modernità le gonfiano senza limite. Finché, e se ne hanno le avvisaglie, almeno quelle dei governati scoppiano.

Teodoro Klitsche de la Grange

LA REPUBBLICA DIMEZZATA, di Teodoro Klitsche de la Grange

LA REPUBBLICA DIMEZZATA

Ha suscitato un modesto interesse che la Corte di giustizia UE abbia condannato la Repubblica italiana perché (cito testualmente)  “Non assicurando che le sue pubbliche amministrazioni rispettino effettivamente i termini di pagamento stabiliti all’articolo 4, paragrafi 3 e 4, della direttiva 2011/7/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 febbraio 2011, relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza di tali disposizioni”.

Che l’interesse sia stato modesto lo si deve probabilmente da un lato al fatto che tutti sanno – anche se nei mass-media se ne legge poco – che i ritardi nei pagamenti dei creditori del settore pubblico sono enormi, molto peggiori di quanto risulti dagli atti citati dal Giudice europeo nella sentenza, dall’altro che le decisioni giudiziarie sui ritardi sono tante che non “fanno più notizia”.

Ciò stante, dall’arresto suddetto della Corte risulta che l’argomentazione dell’Italia per difendere la prassi (costante e reiterata) del ritardato adempimento (spesso di anni e talvolta di lustri) consisteva in ciò che (cito testualmente) “le direttive europee…non impongono, invece, agli stati membri di garantire l’effettiva osservanza, in qualsiasi circostanza, dei suddetti termini da parte delle loro pubbliche amministrazioni. La direttiva 2011/7 mirerebbe ad uniformare non i tempi entro i quali le pubbliche  amministrazioni devono effettivamente procedere al pagamento… ma unicamente tempi entro i quali essi devono adempiere alle loro obbligazioni senza incorrere nelle penalità automatiche di mora”. Cioè non conta se il creditore è stato pagato, perché ad avviso della nostra Repubblica “non implicherebbe uno stato membro sia tenuto ad assicurare in concreto il rispetto di detti termini”… perché le “direttive non assoggettano…. lo Stato membro… ad obblighi di risultato, ma, tutt’al più ad obblighi di mezzi”. Traducendo tali espressioni tecniche in linguaggio più corrente, lo Stato membro europeo avrebbe l’obbligo di tradurre in norme nazionali le direttive U.E., ma se poi queste vengono aggirate o di fatto disapplicate dalle pubbliche amministrazioni o dai giudici, col lasciare i creditori “a becco asciutto” il tutto non darebbe adito ad alcun dovere né responsabilità dello Stato. Cioè i creditori dovrebbero essere appagati che il (loro) diritto al (sollecito) pagamento sia stato pubblicato sulla Gazzetta ufficiale, che magari  sia stato anche statuito in altra sede, tuttavia, senza poter pretendere che lo Stato si attivi perché il pagamento sia effettuato. A parte la sottile quanto involontaria comicità di tale impianto argomentativo, dato che per i creditori veder riconoscere il proprio diritto al pagamento è qualcosa, ma essere pagati è tutto (mentre per la Repubblica italiana è il contrario), va esaminato non solo perché la prassi è reiterata, ma perché rientra nel dibattito sul sovranismo (o meglio sulla sovranità) tanto demonizzata.

Lo stato moderno è responsabile in linea generale dell’applicazione del diritto sul proprio territorio. Scriveva (tra i tanti) un maestro del diritto internazionale come Triepel che, in caso di violazione di un diritto garantito da norme internazionali “per quanto lo Stato col mantenersi inattivo verso chi lede un altro Stato non diventi complice di costui, è tuttavia esatto dire che è responsabile se non procede contro di lui”. E ciò avviene perché “la responsabilità ha nel nostro caso un carattere schiettamente territoriale, essa è conseguenza necessaria della sovranità territoriale… tale responsabilità è giustificata dal fatto che determinati interessi furono lesi entro la cerchia cui si estende la esclusiva sovranità di uno Stato”.

Onde lo Stato è responsabile anche per gli atti dei suoi organi; degli enti pubblici e comunque “per la condotta delle persone che ha investito di una pubblica funzione” sia che abbiano commesso atti illeciti che leciti (secondo il diritto internazionale). Le norme che consentono di sanzionare i funzionari che li abbiano commessi secondo il giurista tedesco “costituiscono diritto internazionalmente indispensabile”.

Diversamente da quello che pensano gli adepti del “politicamente corretto” è proprio la sovranità territoriale a garantire non solo l’esistenza politica delle comunità umane, ma anche l’effettiva applicazione del diritto; e così a prendersi carico dei relativi obblighi e responsabilità, sia che derivino da fonti del diritto interne che internazionali. Scriveva Hegel che “lo Stato è la realtà della libertà concreta”. È questo un aspetto peculiare dello Stato moderno che consiste anche di un’organizzazione di applicazione del diritto, la cui funzione è di rendere reali e concreti i diritti enunciati nella legislazione o comunque vigenti. Diversamente dalle monarchie feudali in cui la realizzazione delle pretese era spesso rimessa agli interessati medesimi (così, in genere, come nelle forme arcaiche di ordinamenti politico-sociali).

Situazione pericolosa. Lo Stato moderno, anche per questo, conquistò oltre al monopolio della violenza legittima, quello dell’applicazione del diritto (ne cives ne arma ruant). che non è il monopolio del diritto, giacché questo è generato in parte considerevole, spesso la più importante, non da organi statali: ma è quello della sua concreta esecuzione e realizzazione.

Se la Repubblica si difende in giudizio sostenendo che non è suo compito assicurare che il diritto sia realizzato, vuol dire che sta regredendo verso forme pre-moderne di ordinamento: o meglio che è in de-composizione. Come, in effetti, è ogni Stato che non pretende di essere sovrano.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

Antonino Galloni L’altra moneta Womanesimo e Natura, recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Antonino Galloni L’altra moneta Womanesimo e Natura (dall’avere all’essere), Ed. Arianna 2019, pp. 159 € 15,00

È inconsueto leggere nel “proemio” del libro che “Al liceo e all’Università mi hanno insegnato che la guerra è la continuazione della politica, con altri mezzi; adesso insegno che l’economia può essere la continuazione della guerra, con vari mezzi”. Il che significa: a) che la politica – e il politico – è determinante; b) che l’economia riproduce – e spesso serve – le stesse distinzioni e finalità del politico. Cioè crea (e supporta) inimicizia ed amicizia, situazioni di comando ed obbedienza. Cosa ovviamente nota al pensiero moderno da Marx a Weber, Schmitt o Wittvogel, ma dimenticata da quello contemporaneo per cui l’economia (lo sviluppo economico) dovrebbe avere come effetto di eliminare il dominio, pacificare, e così subordinare il politico.

L’esprit de commerce limita l’esprit de comquete: che la considerazione di Constant non fosse una regolarità, ma solo una possibilità, più probabile dopo la rivoluzione francese che qualche secolo prima, lo provano, dopo la morte del pensatore di Losanna, le guerre imperialistiche che hanno connotato – in parte – il XIX e XX secolo. Nello stesso periodo, il raggruppamento amico/nemico è stato, almeno fino al collasso del comunismo, determinato (per lo più) da una scriminante economica: la proprietà o meno dei mezzi di produzione.

In tale prospettiva è chiaro che servirsi sempre di moneta a debito – com’è quella che l’istituto d’emissione presta allo Stato – può non essere opportuno, specie in situazioni di crisi. Ricorda Galloni “durante la Prima Guerra Mondiale il Ministro del Tesoro del Regno Unito, trovandosi in difficoltà, scelse di emettere sterline non a debito (non fornite dalla Banca d’Inghilterra), così risolvendo un enorme problema per il suo Paese (e non si può negare che ciò abbia contribuito alla conclusione positiva delle belligeranze per il suo Paese … eppure funzionò” e potrebbe ancora funzionare.

Onde l’economista propone di emettere moneta a sola circolazione nazionale, non convertibile, come mezzo per uscire dalla crisi. Mesi fa, polemizzando con Draghi il quale aveva sostenuto – mal applicando l’albero di Porfirio (la c.d. “divisione esauriente”) e riferendosi ai mini-Bot proposti dalla Lega che questi o sono illegali o generano ulteriore debito – che non era vero né l’uno né l’altro. Infatti perché fossero illegali occorrerebbe che fossero vietati da una legge o un Trattato: ma il Trattato di Lisbona non li vieta. Che aumentino lo stock di debito non è neanche vero, nella proposta leghista, perché da un lato sono liberamente accettati dal creditore, il quale lo fa perché opta di essere pagato subito con quelli e non anni dopo con l’euro. D’altra parte se il creditore li gira in pagamento a qualche (proprio) creditore, anche in tal caso il terzo può liberamente accettarli o meno. Il tutto fu (ampiamente) sperimentato in Germania negli anni ’30 con un mezzo simile: le cambiali MEFO (garantite dallo Stato). Scriveva Schacht, il quale tale sistema aveva ideato e realizzato, che data la garanzia del Reich e il buon saggio d’interesse, gran parte delle cambiali finirono per essere girate a terzi o detenute in attesa della scadenza, piuttosto che presentate per lo sconto alla Reichsbank.

L’effetto (anche) delle cambiali Mefo fu di finanziare gli enormi investimenti pubblici del Terzo Reich (compreso il riarmo). Anche in tal caso “funzionò”. Ma contro tali strumenti alternativi si ricorre ad ogni genere di esorcismo anche a quello della logica.

Dimenticando quello che l’Europa (tanto amata) ci ricorda sempre, da ultimo con la sentenza della Corte UE del 28 gennaio: che i debiti vanno pagati. e alla scadenza. L’inverso di quanto praticato dalla finanza (piddina soprattutto) della seconda repubblica.

Peraltro nascondendo che di tali – o simili – mezzi alternativi d’estinzione delle obbligazioni si era fatto uso con risultati positivi. Dato però che l’assetto di potere economico oggi prevalente è diverso, occorre non intaccarlo. E con buona pace dell’ “ottimo” economico, torniamo così al rapporto di dominio.

Teodoro Klitsche de la Grange

DAGLI AMICI MI GUARDI IDDIO…., di Teodoro Klitsche de la Grange

DAGLI AMICI MI GUARDI IDDIO….

Da quando è in sella il governo giallorosso i suoi sostenitori decantano che i rapporti con l’Europa sono tornati al bello stabile, che il governo è tra i più considerati a Bruxelles e così via.

Nessuno, che mi risulti, ha notato, all’apertura di tali cori, che l’Unione Europea aveva concesso all’Italia un incremento del rapporto deficit/PIL del di 2,2% per il corrente anno, a fronte del 2,04% assicurato al governo “nemico” Lega-M5S.

Questo (misero) 0,16% del PIL, pari a poco più di 2,5 miliardi di euro, ci ha dato la misura dell’amicizia nutrita dall’establishment europeo nei confronti del nuovo governo. Per fare un paragone è assai meno del deficit concesso alla Francia e comunque inferiore a quello realizzato dalla Spagna (2,5%) che non sembrano preoccupare granché i vertici europei. Anche in passato sono stati tollerati rapporti deficit/PIL superiori al 10% senza ansie eccessive. Vero è che per l’Italia – a differenza di altri Stati (come l’Irlanda e il Portogallo) – le dimensioni economiche e il complesso del debito pubblico rende l’incremento più rischioso.

Ciò stante resta il fatto che laddove esiste un rapporto d’amicizia politica o quanto meno un interesse comune degli Stati i rapporti economici non si misurano col bilancino e la partita doppia, ma seguono esigenze e criteri di carattere politico. Facciamo due esempi di questa costante nel secolo scorso.

Il primo: quando la Gran Bretagna, già in guerra con il III Reich, si trovò a corto di contante, Roosvelt ne finanziò l’armamento con la legge “affitti e prestiti” con cui praticamente concesse un credito amplissimo alla Gran Bretagna (e non solo). Rischiando grosso, perché questa era esposta all’invasione delle Panzer Divisionen, per cui i creditori americani correvano il rischio di ritrovarsi il debitore inglese “al gabbio” tedesco.

Qualche anno dopo, di fronte ad un’Europa distrutta dalla guerra, il Presidente Truman col piano Marshall decise di aiutarne la ricostruzione con copiosi aiuti economici. Anche in tal caso determinante fu l’esigenza politica di bloccare l’espansionismo sovietico e di consolidare il rapporto con i governi amici dell’Europa occidentale; comunque il piano si rivelò una mossa azzeccata anche economicamente, perché consentì di accelerare il recupero delle economie europee con notevoli benefici anche per quella USA.

Se i Presidenti USA avessero valutato le situazioni ricordate in base al giornalmastro, forse l’Inghilterra sarebbe finita sotto un Gauleiter o qualche paese europeo-occidentale sotto un governo comunista o para-comunista (di “larghe intese”) con notevole ridimensionamento della potenza USA (e probabilmente, anche  dell’economia). Quindi era stata una scelta corretta e provvida quella di aiutare gli amici politici, anche correndo un rischio elevato.

Se questo è vero, occorre capire perché i governanti europei sono così avari nei confronti dei loro “alleati” italiani e lesinino loro anche gli zerovirgola.

La prima spiegazione è che gli eurocrati pensino che l’economia debba prevalere sulla politica; ma l’ipotesi non è del tutto credibile – anche se in linea col pensiero prevalente (oggi al tramonto). Questo perché l’ascesa del popul-sovranisti rischia di mandare a casa gran parte degli attuali governanti europei (in particolare quelli di centrosinistra, debilitati dalla disaffezione del loro elettorato); e in politica, l’obiettivo di conservazione del potere è primario onde non è credibile che, per  qualche zerovirgola si ripeta quanto già successo nel 2018: che l’Italia è stata il primo paese dell’Europa occidentale ad avere un governo popul-sovranista.

Tenuto conto che comunque c’è un interesse a dare una mano al governo giallorosso, occorre cercare i motivi perché, a Bruxelles si limitino alla falange del mignolo. All’uopo possono formularsi due ipotesi.

La prima è che si considera il governo giallorosso poco o punto affidabile, per due ragioni concorrenti. L’una che tutti i governi italiani dal 2008 ad oggi, pur applicando, spesso con zelo, le direttive europee, non hanno fatto altro che aumentare l’indice deficit/PIL.

Per cui il PD che di quei governi (con l’eccezione del Conte 1) e dell’attuale è il sostegno più qualificante è considerato poco affidabile. Alla fin fine coniuga le direttive europee con la conservazione degli assetti vintage e la strategia delle mance (alle banche, alle concessionarie “privatizzate”, ai tax-consommers) per cui l’aumento del deficit e della spesa non ha alcun effetto politico gratificante. La crescita dei consensi, anche rispetto alle politiche 2018, dei partiti sovranisti (LEGA e          FDS) lo comprova. Come parimenti il crollo rovinoso dei 5S, aumentato dopo il varo del governo Conte-bis. E qua veniamo alla seconda ragione: se il governo attuale, già minoritario, continua a perdere consensi, l’aiuto è politicamente inutile. Meglio trattare con chi ha una reale legittimazione democratica, e cioè il consenso del potere maggioritario, perché quanto meno, ha più autorità nel far valere poi gli accordi stipulati e mantenerli.

Insomma c’è un grave sospetto che quello 0,16% in più di deficit sia dovuto alla scarsa considerazione che “la dove si puote ciò che si vuole” si ha delle declinanti élite italiane. Altre ragioni si potrebbero enumerare, ma paiono d’impatto minore. La sostanza è che in Europa si aspettano l’imminente tracollo – se non definitivo, almeno per un decennio – degli “amici” italiani.

Per cui come succede in guerra dove gli ascari o gli auxilia erano i primi ad essere sacrificati, così lo saranno gli “amici” italiani, a prova di un rapporto ineguale più che di amicizia, di sudditanza. Politicamente normale per chi la accetta.

Teodoro Klitsche de la Grange

CHI DECIDE PER SALVINI?, di Teodoro Klitsche de la Grange

CHI DECIDE PER SALVINI?

Ha suscitato un vivace dibattito la richiesta di autorizzazione a processare Salvini sulla quale si deve pronunciare la camera d’appartenenza.

Ovviamente il ritornello più battuto dalla maggioranza parlamentare è quello solito: eguaglianza versus privilegio; giustizia versus politica; in minor misura umanità versus sicurezza nazionale.

Da una parte si vuole che la giustizia faccia il suo corso, dall’altra che la politica lo interrompa. Chi ha ragione?

Si può rispondere, in prima battuta: entrambi. Questo perché se una condotta è illecita (giudizio giuridico) o se è politicamente opportuna (giudizio politico) si valutano in base a parametri diversi, hanno corsi differenti e sono entrambi necessari all’esistenza comunitaria. Per cui il fatto che un’azione sia illecita non implica che non sia opportuna e viceversa. Anzi già nella Farsaglia (14 secoli prima di Machiavelli) il contrasto tra norma e opportunità politica è così descritto da Lucano: “Sidera terra ut distant et flamma mari, sic utile recto.Sceptrorum vis tota perit, si pendere iusta incipit, evertitque arces respectus honesti”[1]

Onde nel Principe, dove si legge a proposito del contrasto tra (norma) morale e opportunità politica “è necessario a un principe, volendosi mantenere, imparare a poter essere non buono e usarlo e non usarlo secondo la necessità”, il Segretario fiorentino non faceva che esprimere mutatis mutandis l’esigenza di autonomia della politica. E ancora della prevalenza dell’istituzione politica la cui funzione è la protezione dell’esistenza della comunità.

Dato che, in uno Stato, la protezione comporta anche, sia pure in subordine, di assicurare l’ordine (anche) con l’applicazione del diritto, occorre trovare dei meccanismi in grado di garantire che, nei punti di frizione tra opportunità e politica ed applicazione della legge, si prenda una decisione, necessariamente derogativa del corso normale della giustizia. E così è, anche nei moderni Stati democratici-liberali, nei quali, quando sono in gioco responsabilità politiche, si prescrivono deroghe alla giurisdizione ordinaria. Nel caso dei ministri in Italia la norma relativa (l’autorizzazione a procedere), espressa nella brevità della disposizione è che: a) la camera valuta con giudizio insindacabile; b) se il ministro abbia agito per la tutela di un interesse (ripetuto due volte) pubblico. La camera così non giudica se vi sia illecito, ma soltanto se l’eventuale illecito, anche se commesso, era comunque in funzione di un interesse generale (prevalente). La responsabilità è tutta politica: se l’elettorato non condivide la decisione della Camera, alle prime elezioni può rimandare a casa politici sgraditi.

Così Salvini non sbaglia nel sostenere che aver chiuso i porti era volontà maggioritaria degli italiani (v. risultati elettorali); che rincorrendo interpretazioni, anche ove non peregrine, è voler sopraffare quella volontà: e se proprio gli italiani fossero di opinione diversa dalla Lega, hanno il potere di ridurla alle dimensioni pre-Salvini. La questione è tutta politica e, in una democrazia, rimessa al popolo e non a un collegio di funzionari, i quali per quanto stimabili e giusperiti, non hanno il potere di derogare alle leggi, ma solo di applicarle.

E se anche giuridicamente fondato e condivisibile, la decisione relativa potrebbe essere politicamente inopportuna o contraria alla volontà del “potere maggioritario”: cioè quella del popolo.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

[1] “L’utile dista dall’equo come gli astri dalla terra e il fuoco dal mare. Tutta la forza degli scettri perisce se considera il giusto; il rispetto dell’onestà abbatte i castelli” Pharsalia, VIII, 487-490

UN NUOVO CAPITOLO PER L’OPERA DI PUVIANI, di Teodoro Klitsche de la Grange

UN NUOVO CAPITOLO PER L’OPERA DI PUVIANI

Quando Amilcare Puviani scrisse “L’illusione finanziaria” era, ovviamente, orientato e attento a bilanci e spese dei grandi Stati dell’epoca. Nell’elencare le varie forme assunte dall’illusione ad esempio ritorna quella delle spese militari che all’epoca, assorbivano buona parte dei bilanci pubblici. Scriveva “Si ha l’illusione nell’impiego o nel motivo della spesa se s’ignori in genere l’acquisto di corazzate…; si ha invece illusione nel fine della spesa se s’ignori che la esistenza del nostro naviglio o di certe sue unità vale o valse in una data contingenza ad impedire l’attacco delle nostre coste”; quanto alle entrate sosteneva poi che “Noi possiamo dunque concludere che le specie fondamentali di illusione sulle entrate pubbliche attenuano il costo contributivo mercé…” e continuava ricordando i relativi espedienti: nascondimento di ricchezze prelevate, effetti penosi (sui contribuenti) sia immediati che mediati e così via.

Un nuovo capitolo bisogna aggiungere al lavoro di Puviani, dopo l’ultima legge di bilancio, dato che l’economista non poteva prevedere come, in uno Stato del XXI secolo, si sarebbe giustificato un aumento delle imposte; e le novità non mancano.

La prima giustificazione, ed è il presupposto della manovra, è che l’Europa vuole che non aumenti il debito pubblico. Ossia la colpa (e la responsabilità) non è dei governanti. Ci siamo abituati a tale argomento ormai da (almeno) un decennio. Quello che i nostri governanti – quasi tutti – non dicono è che l’indebitamento può ridursi o contenendo le spese o aumentando le entrate. Che la seconda strada  sia quella perseguita in misura preferenziale dalla classe dominante è altrettanto chiaro. A chi non volesse vedere questa realtà, ricordate che qualche decennio orsono l’IVA era al 19%, ora al 22%; che non c’era l’IMU e, fino al 1992 neppure l’ICI e così via. Per non parlare delle aliquote IRPEF e del loro (mancato) aggiornamento o delle rivalutazioni catastali. Per cui più che volontà della Merkel, la preferenza dei governanti nostrani per la spremitura dei contribuenti è frutto di una libera interpretazione “nazionale” delle direttive europee.

A parte ciò la giustificazione prevalente degli aumenti delle imposte, sparse qua e là, è frutto di due (principali) motivi. Il primo è che i governanti ci vogliono bene e desiderano fare il nostro bene.

Ad esempio la tassa sulle merendine e le bibite gassate (se non si sono perse per strada) è dovuta non dalla propensione degli stessi per i nostri portafogli, ma dalla loro intenzione di avere cura della nostra linea e salute. Per cui dovremmo ringraziarli per cotanto affetto.

L’altro che corrispondono a degli idola diffusi almeno in parte dell’elettorato.

Non sappiamo la fine della questione assorbenti. Anche qua la giustificazione data (da un ministro) era che si poteva evitare lo spreco di carta sostituendoli con quelli di stoffa, riusabili. Salvaguardando così le foreste (Amazzonica e del pianeta in genere) usate, anche, per produrre carta.

Così per gli imballaggi e, in genere, i contenitori di plastica; così nocivi per lo smaltimento, l’inquinamento diffuso, la salute delle tartarughe marine (e pare anche dei delfini). Onde Greta sicuramente li approva.

In sostanza la giustificazione delle imposizioni presenta un carattere eudemonistico associato, spesso, all’andare al seguito di esigenze di rilievo mediatico.

Come il tutto riesca ad occultare il fatto che da decenni con questa politica non si è fatto altro che sfruttare gli italiani (ingessando la società) e che, anche per questo l’Italia è progressivamente arretrata e sorpassata da nazioni in crescita, è cosa che non si può prevedere.

Ma, nel concludere il suo libro, proprio Puviani notava che storicamente, può avvenire che a un certo punto la disillusione finanziaria dei governanti prevalga sulle tecniche prestigiatorie dei governanti: così – ricordava –                                                                                                    fu per la rivoluzione francese. Vedremo.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

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