Quale futuro, dopo il Covid-19, di Angelo Perrone

 

Quale futuro, dopo il Covid-19

 

Nessun’altra epidemia ha mostrato le caratteristiche invasive e globali del Covid-19: abitudini stravolte, mente impaurita, smarrite antiche certezze. Una fase, pur gravissima, ma di passaggio, verso un futuro ancora da immaginare. Da dove ripartire? Là dove ci eravamo fermati: scuola e sanità, lavoro, infrastrutture, giustizia, istituzioni. Mettendo a frutto la lezione di umiltà e impegno civile che il presente suggerisce. Il cambiamento epocale non riguarderà i problemi da affrontare ma il modo di risolverli

 

di Angelo Perrone *

 

Non si parla che di coronavirus. E come fare diversamente?, verrebbe da domandarsi. C’è apprensione, sgomento, paura del futuro. Ci scambiamo telefonate e messaggi in cui ci chiediamo, a volte trattenendo il fiato: “come stai?, tutto bene?” Temiamo una risposta negativa, ma, poi, cerchiamo anche di darci così un po’ di conforto. Con stati d’animo alterni, apriamo il giornale, guardiamo la tv, vediamo dipanarsi giornate, che non sono più come prima.

 

Un susseguirsi di notizie, in Italia, Europa, nel mondo. Per lo più tragiche: i morti, i contagiati. Leggiamo che non c’è più posto nelle camere mortuarie, molti vengono caricati sui camion militari in cerca di un luogo dove essere cremati e trovare sepoltura. Senza parenti, perché non si può fare il funerale. Se ne vanno ad uno ad uno i ragazzini che erano su quell’altra trincea, nel ‘18. Ancora lenta la curva che indica la diminuzione dei contagi. Solo piccole incrinature nella lotta al virus: studi, sperimentazioni, prove sul campo, rese affannose dal tempo che manca.

 

Tabelle, diagrammi, e tante dissertazioni. Più o meno scientifiche, talvolta digressioni inutili, ripetizioni. L’insidia onnipresente della faciloneria in tante dichiarazioni. L’insopportabile uso delle polemiche per tornaconto politico. Come vanno realmente le cose e quando ne usciremo? Come sarà l’esistenza domani? Non riescono a dircelo né i decreti del governo né le statistiche degli scienziati. Nessuno lo sa, l’incertezza spaventa e allarma ancora di più, rendendo il futuro incerto.

 

Il sovvertimento delle abitudini ha già introdotto un cambiamento non solo negli stili di vita, ma nella mente. I riti di cui era fatta la giornata, non importa se piacevoli o stressanti, erano a modo loro tranquillizzanti. Creavano un routine, un ordine, uno spartito. Ci troviamo oggi spiazzati dalla mancanza di riferimenti. Dobbiamo costruircene di nuovi, in fretta. Ne siamo capaci?

 

Quello che abbiamo sotto gli occhi è che, in un tempo così breve, si è consumato un dramma: sono già migliaia i morti per il virus, la maggior parte tra i più deboli, anziani o gravemente malati. Se ne sta andando una generazione. 70 sono i medici, alcuni richiamati in servizio dalla pensione, che hanno già lasciato la pelle mentre provavano a salvare quella degli altri. Non è l’unico dato che tocchiamo con mano. Molte famiglie già non ce la fanno ad andare avanti. Sono milioni le domande di sussidio all’Inps. Nelle strade di alcune città sono apparse ceste ricolme di alimenti. “Chi ha bisogno prenda, chi può lasci”. Un soccorso spontaneo, alla buona.

 

Non c’è attività che non debba fare i conti con lui, il virus. Impossibile prescinderne. Che ne è del nostro lavoro, della scuola per i figli, oppure del divertimento o dello sport? Al tempo del coronavirus, nulla è più come prima, tutto è rimandato, perso, annullato, almeno modificato in peggio. Senza termini o scadenze prevedibili che indichino la via di uscita.

 

Proviamo a divagare quando ci sembra di soffocare, è naturale, ma si ritorna sempre lì. Molti musei o teatri, tanto per dire, sono accessibili gratuitamente da parte di chiunque, e così si possono vedere capolavori, ascoltare musiche, assistere a spettacoli senza spendere un cent. Una bella notizia in sé. Senonché, accade, bisogna dirlo?, perché questi luoghi sono chiusi al pubblico per il virus, e allora, al posto delle visite, sono stati creati tour virtuali. E così tante altre cose. Che il virus rende difficili o esclude. Come far prendere una boccata d’aria ai bambini chiusi in casa? Come curare malattie croniche o ottenere dei ricoveri, se gli ospedali sono impegnati con il virus? E se a prendere il Covid-19 sono donne in gravidanza?

 

Ci siamo dimenticati d’un botto quello che accadeva ieri? Ci siamo fatti trascinare altrove dalla musica assordante suonata sui balconi, dal silenzio fascinoso e stordente delle città vuote? Se fosse accaduto, saremmo entrati in una bolla d’aria. Lontani dalla realtà, non immersi in essa sino al collo come sta avvenendo. Impossibile trascurare tutto quello che prima animava le nostre discussioni. Sono problemi che pesano sempre sull’esistenza.

 

Alla svelta. L’Ilva: il dramma della salute in un’intera città, è sempre in stallo, come quello del futuro della siderurgia. Continua l’enorme spreco di denaro pubblico nelle casse di Alitalia, senza un piano industriale. La fuga all’estero dei giovani è ancora una perdita secca per il paese. La qualità della politica e il prestigio dei suoi rappresentati rimangono un problema irrisolto, dopo la crisi dei partiti, la svalutazione delle formazioni intermedie, il discredito della competenza e della professionalità.

 

Confrontarsi con il passato è utile, anzi necessario. A che punto eravamo quando è scoppiato tutto questo sconquasso? Cosa abbiamo lasciato in sospeso, o deve essere abbandonato? Proprio da lì si deve partire per capire cosa si deve cambiare oggi. Come eravamo e come saremo. Voltarsi indietro serve ad andare avanti.

 

Però, la bussola imprescindibile per orientarci è il presente, cioè l’esperienza che facciamo oggi di noi stessi, la valutazione dei problemi, la stima delle possibilità. E’ sempre problematico confrontare le epoche e le situazioni. Stabilire quale sia più gravida di conseguenze. Quali sfide siano complicate. Difficile equiparare il presente al passato. O indugiare a chiedersi, proprio ora, con il virus in casa, non sulla porta, perché non si parli d’altro. O se sia appropriato il linguaggio fatto di parole come guerra, battaglia, nemico, che evoca altri scenari. Non è il momento, non è il caso.

 

Ma poi è davvero così? Non si parla d’altro che di una malattia? Il Covid-19 ci ha messo a nudo nel profondo. Ha mostrato le nostre fragilità, la permeabilità dei confini da parte del male, la globalità mortale della sfida. Ma ha anche stimolato la nostra capacità di reazione. La necessità di solidarietà.  Un problema di tutti e per ciascuno. Questo virus ci fa da specchio, in pieno, rispetto alle scelte di vita, ai problemi da risolvere. All’esistenza intera in questo momento storico.

 

Il confronto con il passato nasconde l’insidia di una semplificazione involontaria e controproducente. Il nuovo è l’eterna ripetizione del già visto? Altri problemi, ma non più gravi di quelli del passato, rimasti irrisolti. Si rischia, mettendo il nuovo al posto del vecchio, di mistificare semplicemente la realtà? Come dire: mentre tutto cambia, tutto rimane com’era. Spostiamo l’attenzione altrove, ne rimaniamo invischiati, e cadiamo così in un inganno?

 

Il nuovo non ci proietta in una dimensione alienante se non lo vogliamo. La storia non si ripete uguale, e non è priva di senso: la precarietà della vita, l’insicurezza, la difficoltà di realizzazione personale attraversano tutte le epoche, ma in forme diverse. Necessariamente differenti sono e devono essere le risposte. Si rischia altrimenti di non apprezzare ciascun tempo in ciò che gli è proprio ed esclusivo. Di valutarne le esatte caratteristiche, difetti, ma anche aperture.

 

Non dobbiamo aver paura di fronte al nuovo che avanza e che, qualche volta, ci apporta anche del buono. Ci sono già abbastanza ragioni per essere perplessi. Chissà se riusciremo davvero a venirne fuori, a recuperare il tempo perso, a sanare tante falle: nella sanità, nella scuola, nella giustizia, nel lavoro, nelle istituzioni. E chissà quando potremo uscirne con dei risultati. Tuttavia, non dobbiamo temere di immergerci nel presente, di comprenderlo, di analizzarne i caratteri. Anche per evidenziarne limiti e negatività. Pericoli. Potrebbe accaderci, se lo facciamo, di scoprire qualcosa di noi stessi, che ci possa tornare utile nel futuro. Come stiamo reagendo alle difficoltà, come stiamo giocando la nostra vita?

 

La disciplina, la solidarietà, la capacità di fare rinunce, la percezione del bene comune: forse sono tutte cose che potremmo mettere da parte, nel bagaglio individuale e collettivo, quando si tratterà di ricominciare, facendole fruttare domani. Perché allora non aggiungere un ultimo elemento, piccolo forse, ma non di poco conto? E’ il senso di commozione che ci accompagna in questi giorni di forzato isolamento e di brutte notizie, in cui cerchiamo di coltivare un po’ di speranza e fiducia. Abbiamo bisogno di tornare a emozionarci per una causa. Dietro la suggestione per le canzoni suonate sui balconi, lo sventolio di bandiere, le immagini dei luoghi famosi d’Italia avvolti dal silenzio e i camici bianchi negli ospedali, c’è solo questo: la sincerità, forse un po’ ingenua ma autentica, dei sentimenti, che chiedono di essere liberati.

 

* Giurista, si occupa di diritto penale, politica della giustizia e delle istituzioni. Dirige Pagine letterarie, rivista online di cultura, arte, fotografia.

 

La solitudine di Papa Francesco, di Angelo Perrone

La solitudine di Papa Francesco

 

Le immagini di papa Francesco da solo nelle piazze e nelle strade di Roma, deserte per il coronavirus, sono il simbolo di un’epoca impaurita dal pericolo che il contagio passi attraverso la vicinanza umana. Se il contatto fisico è demonizzato, tutte le abitudini sociali sono sconvolte. Eppure la presenza solitaria del papa nella città vuota ricorda che ci sono molti modi per essere vicini agli altri, e che c’è una distanza dalle persone che è segno di solidarietà e partecipazione

 

di Angelo Perrone *

 

Papa Francesco, solo nella grande piazza di San Pietro a Roma, svuotata dal virus. Un’immagine piena di suggestione, che racchiude i significati più sconvolgenti di questa epidemia. Il pericolo del contagio, la necessità della lontananza fisica per sfuggire alla contaminazione, e provare così a venirne a capo. Un colpo d’occhio sorprendente, che il 27 marzo arriva nelle nostre case, attraverso lo schermo, e che rimane a lungo nella mente.

 

Lui era lì, in piedi sul palco a impartire la benedizione, a invocare il Signore che non ci lasci soli nella tempesta. Come se fosse davvero presente la gente, come se stesse rivolgendosi proprio a persone fisiche a poca distanza, guardandole negli occhi. Ma c’era solo un operatore della tv a riprendere la scena, a renderla persino struggente e malinconica in un’epoca di continua mescolanza di popoli.

 

Più lontano, oltre il margine del colonnato di San Pietro, che segna i confini del piccolo Stato e ora il divieto di avvicinamento a causa del virus, i lampeggianti della polizia. Tutti erano a casa, nessuno poteva avvicinarsi. Ancora più inquietante, nel buio silenzioso, la notte romana di inizio primavera. Nessuno è potuto entrare, ascoltare da vicino quelle parole di incoraggiamento e conforto.

 

Scena surreale, un uomo che parla accoratamente e però si rivolge al vuoto, al niente, perché la piazza che siamo abituati a vedere ricolma di gente attenta e festante, ora è desolata e silenziosa. Nessun rumore: vociare delle persone, traffico. Solo le gocce di una leggera pioggerellina di marzo, il crepitio di qualche braciere acceso a fare compagnia all’uomo anziano al centro della scena.

 

La prima volta nella storia della chiesa doveva accadere per questa epidemia da Covid, non per una guerra, un bombardamento, un assalto armato. Né per difetto di persone interessate, desiderose di ascoltare quelle parole: una mancanza di fedeli.

 

Si è concretizzato in quello spazio il paradosso di un uomo che sa dire parole di speranza, e di gente che vorrebbe venire a ascoltarle, per trovarvi conforto, ma è impedita a farlo. Un cortocircuito che rispecchia l’abnormità del coronavirus, lo sconvolgimento delle abitudini di vita. Nessun contatto tra le persone, nessun dialogo diretto e personale, tutti alla larga, lontani, la distanza è ciò che ci salverà. Forse.

 

Un messaggio di separazione umana che si replica ovunque nelle città, nei luoghi di lavoro, in quelli di divertimento; dunque anche e soprattutto in quella piazza, che diventa così simbolo tragico e allarmante di questa epoca, dei pericoli che stiamo attraversando.

 

Il papa che viene dalla strada, “pastore con l’odore delle pecore”, immagine di una Chiesa rivolta verso l’esterno, non poteva mancare di essere presente proprio nei luoghi dove si svolge la vita. Sono qui, tra voi, tra chi ha paura e chi continua a sperare. Lo aveva già fatto, in modo emblematico, il 15 marzo scorso sempre a Roma: il papa percorse un tratto di via del Corso a piedi e da solo.

 

Era un pellegrinaggio tra le chiese che custodiscono l’icona bizantina della Madonna e il crocifisso che aveva accanto a San Pietro, per manifestare il suo essere vicino alla città e a tutti coloro che patiscono in questo momento. Un gesto emblematico di solidarietà, in totale solitudine. Senza la folla a stringersi intorno, a implorare una stretta di mano.

 

Eppure, quella di papa Francesco è insieme una sfida ed un messaggio. Un segno, nel frastuono della vita. Avevamo bisogno del coronavirus per dirci che dovremmo spenderci nella solidarietà, specie davanti al dolore e alla sofferenza? Che è importante selezionare le cose dell’esistenza, scoprire il confine sottile tra l’inutile e il necessario? Dare una risposta collettiva ai problemi? La solitudine della parola sta lì, nella piazza vuota e nelle strade deserte, a rammentarci che si può essere vicini in tanti modi, e di alcuni può riuscire difficile percepire l’utilità.

 

Infatti, sembra privo di senso parlare nel buio della notte e nel silenzio dei luoghi deserti. Specie in quest’epoca che misura continuamente il consenso, che è in cerca di plauso, che mira a suscitare abbagli. Ma sarebbe sbagliato pensare che la gente non ci fosse per nulla a San Pietro o in via del Corso. Che quell’uomo predicasse davvero al vento, in angosciante e inutile solitudine.

 

Era chiusa nelle proprie case, per convinzione, oltre che per ordine delle autorità, per difendere sé stessa ma anche gli altri. Mossa non da intenti asociali, ma al contrario dalla riscoperta del senso di appartenenza ad una comunità. Dunque affatto lontana dai luoghi, piazze o strade, in cui il papa era presente. C’è una lontananza, che è segno di amore e di partecipazione.

 

* Di formazione giuridica, si occupa di diritto e politica giudiziaria. Dirige Pagine letterarie, rivista online di cultura, arte, fotografia.

 

La scoperta di un diverso paesaggio urbano, di Angelo Perrone

La scoperta di un diverso paesaggio urbano

Il coronavirus ha mostrato un tessuto urbano sconosciuto. E’ cambiato per necessità il “paesaggio” del lavoro, del divertimento, persino della sofferenza. Strade deserte, piazze vuote. Distanze nei rapporti umani. Luoghi d’arte liberati dall’assedio del turismo di massa. In poche parole, il vuoto e il silenzio al posto della folla e del rumore. Così il non visto è diventato di colpo visibile e ammirabile. Accanto alla novità e allo stupore, potremmo persino pensare che, superato il virus, sia utile un diverso rapporto con l’ambiente che ci circonda

 

di Angelo Perrone *

 

Ha anche effetti positivi il coronavirus? Siamo a questo paradosso? Proviamo a guardarci intorno, allora. Non si parla soltanto delle condizioni sanitarie delle persone, di cui sappiamo tutto o quasi. Un problema, in cima alle preoccupazioni di istituzioni e cittadini. Siamo monitorati in tempo reale. Per fortuna, anche se a volte ci lamentiamo degli eccessi. Cifre, statistiche, diagrammi.

Quanti i contagiati, i ricoverati, i sotto osservazione, i guariti. Regione per regione, e poi nelle macro aree: il nord rispetto al sud senza trascurare il centro. Aspetti più di dettaglio: l’incidenza per età, o attività lavorative. Perfino le new entry che – chissà perché – ci sorprendono, come se non potesse capitare anche a loro: ci sono anche giudici e politici tra gli infettati. Tutti nella stessa barca, il virus non fa sconti a nessuno.

Nemmeno si discorre soltanto delle conseguenze economiche del virus, che minacciano d’essere devastanti. Un colpo di grazia all’economia che già di suo non va affatto bene. L’occupazione, i dati sulla produzione e le vendite, l’export, il turismo: sono i settori sott’occhio, mentre si teme il tracollo da un momento all’altro e si pensa: ci mancava solo questo. E poi la questione delle forniture per l’industria: molte materie prime vengono da fuori, da est, esattamente proprio dalla Cina, la più “infetta” delle nazioni. A breve potrebbero non bastare più le scorte, cosa si fa?

Ce n’è abbastanza fin qui, potremmo fermarci a riflettere, se non a lamentarci per la mala sorte. Invece percepiamo anche conseguenze di altro tipo, che non avremmo immaginato. E che proprio per questo ci sembrano stupefacenti. Destano sorrisi, e lasciano intravedere qualcosa di utile. Di che si tratta? Tra le tante novità, viene da chiedersi: non sarà che il coronavirus riesce anche a mostrarci una dimensione diversa e più positiva del vivere quotidiano?

È cambiato d’un tratto il “paesaggio” urbano, l’ambiente nel quale svolgiamo le nostre attività: dove lavoriamo, con più o meno soddisfazione, e quando il lavoro c’è, si intende. Dove ci divertiamo, passiamo il tempo. Dove magari soffriamo. Per la cattiveria del prossimo, una delusione d’amore, una disavventura economica. Il contesto che spesso ci accompagna nelle tribolazioni, o nelle più rare gioie.

Eravamo abituati a città intasate: uomini e mezzi, ovunque. Davanti, accanto, dietro. Alla guida della nostra scatola di metallo, o sui mezzi pubblici, in mezzo a tanti altri con la nostra stessa faccia. Scontenta e abbrutita dallo stress. Magari l’insoddisfazione non dipendeva tutta dall’affollamento, ma era lo stesso, a qualcuno dovevamo pur dare la colpa. Non era un’impressione da poco: le piazze affollate di gente, i monumenti presi d’assalto da turisti multicolori, i musei delle principali città d’arte assediati da code inverosimili di visitatori, accaldati anche in pieno inverno.

Ora, strade deserte, eventi rinviati, attività pubbliche sospese, locali chiusi. Luoghi irriconoscibili. Perché così non li avevamo mai visti, nemmeno in qualche scolorita fotografia del dopoguerra. Una trasformazione radicale da far dubitare persino di aver mai conosciuto quei luoghi per come appaiono oggi. Ma quando hanno fatto quel complesso monumentale che chiamano Colosseo? E chi è quel Brunelleschi, il giovane di belle speranze (dicono si dia tante arie sui social)  che sta costruendo la meraviglia della cupola del Duomo a Firenze?

Così si rivede Fontana di Trevi, splendente dopo il restauro di alcuni anni fa (mai apprezzato a dovere, nessuno era riuscito ad ammirarlo con calma), all’improvviso libera dalle torme di turisti che si accalcano sui bordi, non per ammirarne la bellezza, ma per farsi i selfie, e dunque tutti rivolti con le spalle alle sculture, intenti sono a guardare sé stessi nelle immagini. A chi interessa: la Torre a Pisa ha smesso d’essere sorretta, sul lato della pendenza, dai volonterosi stranieri che, ogni giorno, si alternano nell’arduo ma essenziale compito, supponendo che, così storta, abbia bisogno di sostegno; stiamo a vedere se ora, senza quell’aiutino, si ammoscia e viene giù.

La Galleria a Milano è percorribile al riparo del timore di pestarsi i piedi, qualcuno è riuscito anche ad andare dallo stellato Gracco ad assaggiare la pizza fenomenale senza prenotare mesi prima; uscendo, ha potuto fare una passeggiata arrivando in breve sulle guglie del Duomo, che spettacolo da lì.

A Firenze, non si è interrotto, ma ha avuto una bella battuta d’arresto, il dotto dibattito surreale sulla basilica di Santo Spirito, sì proprio il gioiello rinascimentale (sul sagrato, meglio una cancellata o il sudiciume dei bivacchi notturni con spaccio di droga?). Che non si siano fermati del tutto nemmeno in quest’occasione tragica, glielo perdoniamo ai fiorentini, animi focosi ma d’ingegno: da Dante in poi, sempre litigiosi, il virus non poteva trattenerli.

Nulla è più come prima, c’è un cambiamento di prospettiva: il vuoto e il silenzio hanno preso il posto della folla e del rumore. Improvvisamente è mutata la dimensione dello spazio intorno a noi. La diversa visuale ci mostra un’altra realtà. Il cambiamento si accompagna a sorpresa e a smarrimento. E ci lascia senza fiato. Non ce ne siamo ancora ripresi. Anziché andare da un posto all’altro seguendo gli stretti corridoi che le moltitudini ci lasciavano, vaghiamo confusi nelle strade di sempre, inebriati da una libertà sconosciuta. Manca solo che, nel dubbio, ci si fermi agli angoli per leggere le targhe stradali.

Magari questo stravolgimento solleva quesiti stravaganti. Discussioni che fino a ieri nemmeno la fantasia più sfrenata avrebbe immaginato. Per esempio, il “paesaggio” urbano ha un significato diverso in città come Milano, Roma o Firenze? Ovvero, la natura di questi posti esige per caso scenografie differenti? Come dire: in ogni città, quote differenti di folla + auto, per rispettarne l’anima. Quasi che l’arte, i costumi, le tradizioni non esigano ovunque la stessa attenzione.

Detto in modo più dotto. Cosa conta di più per cogliere la bellezza di una città: l’assenza o la presenza? E’ necessario il vuoto per rimarcare il fascino di una piazza, di una chiesa, di un locale di qualità? Oppure è proprio la vitalità della gente a rendere gli stessi ineguagliabili? Che ruolo hanno allora la folla e l’animazione sociale, semplice fondale o parte integrante della recita?

La discussione non poteva che sintetizzarsi alla fine nel solito derby Milano – Roma. Tra chi, nel confronto, ritiene più bella la capitale (della storia) ora che è deserta e chi lamenta che l’altra capitale (quella della moda, dell’impresa, della cultura) sia più affascinante con tanta gente in giro. Tradotto nel conteggio finale: Roma avvantaggiata dal virus, Milano danneggiata. La partita è in corso e sull’esito è bene non scommetterci: la grande bellezza non è contestabile nemmeno dai milanesi, ma i romani peggiorano le cose: è lo zelo dei loro amministratori, oggi addirittura stellati, a far perdere alla città il campionato.

Invece, oggettivamente incerta è la questione, tutta lagunare, delle conseguenze del virus su Venezia. Il carnevale è stato un po’ triste e deprimente da che era esaltante e ricco, quante maschere in meno, quanti turisti persi sugli aerei rimasti negli aeroporti europei e americani per non parlare di quelli orientali, quanti tavolini vuoti in piazza san Marco. Ma, quando la bilancia nel misurare l’allegria lagunare sta per pendere contro il virus, ecco a rimettere in gioco il risultato la notizia: alle navi da crociera è stato sì finalmente vietato di avvicinarsi, però, come per tutti, il divieto è fissato solo in un metro e non è detto che basti a salvare la città.

Per contrastare l’epidemia paghiamo un prezzo pesante in termini di incertezza e di restrizione delle nostre abitudini, ma c’è anche un effetto sorprendentemente positivo. Ora che nuove regole ci impongono altri ritmi, potremmo scoprirne pure il lato utile. Un diverso rapporto con l’ambiente che ci circonda.

Abbiamo la possibilità di vedere finalmente quanto è a portata di mano. E anche di ammirare, usare, gustare, approfondire le cose che abitano il nostro orizzonte. Finora tutto questo ci sfuggiva, perché oscurato dalle cose che gli facevano velo. Possiamo riappropriarci dell’invisibile. Ora lo sappiamo: serve una misura di tempo, spazio, silenzio, per farlo davvero.

 

* Di formazione giuridica, si occupa di diritto e politica giudiziaria. Dirige Pagine letterarie, rivista online di cultura, arte, fotografia.