LIBERALI SENZA NEMICO?, di Teodoro Klitsche de la Grange

LIBERALI SENZA NEMICO?

Se qualche (politologo) marziano sbarcasse oggi sulla terra avrebbe l’impressione dal dibattito pubblico, che liberale significa: a) essere cosmopoliti; b) non volere – o rendere permeabili – le frontiere; c) essere individualisti, ma soprattutto anticomunitari; d) essere egualitari, indipendentemente dai (specifici) caratteri naturali; e) operare perché siano promossi a diritti e tutelati dal potere pubblico desideri e pulsioni individuali. Ciò, in aggiunta – ma non sempre – che i suddetti liberali sarebbero anche neo – liberisti (spesso è vero). E anche altro di minor rilievo. Tale giudizio è, in negativo, condiviso anche da coloro che ai liberali si oppongono. Orban ad esempio si oppone ad un “liberalismo” cui attribuisce – in gran parte – i connotati sopra ricordati.

  1. Ma è corretto qualificare liberale e movimento politico (in senso proprio) chi pensa così?

Ad esaminare cosa si intendeva per liberale (con la e finale) si deve rispondere che tale nuovo concetto ha alcuni tratti – e non sempre i più qualificanti – del liberalismo, ma gliene mancano altri.

Tra i primi indubbiamente i nuovi liberali hanno in comune con i “vecchi” l’individualismo (ma solo fino a un certo punto l’anticomunitarismo); in qualche misura anche l’egualitarismo, ma con la differenza essenziale che è un egualitarismo (quello dei “vecchi”) che tratta realtà eguali in modo uguale, mentre quello dei “nuovi” quasi sempre realtà diverse allo stesso modo. Quanto a cosmopolitismo e frontiere, se è vera l’avversione (tendenziale) dei liberali all’”ésprit de conquéte” è pur vera che, storicamente, non hanno difeso la comunità nazionale meno di governanti di diverso orientamento.

Relativamente ai “diritti” è il caso di ricordare che, spesso, per i liberali classici questi hanno il carattere di “libertà da”, ossia di protezione della sfera individuale dall’invadenza pubblica (in primo luogo) ma anche privata. Mentre per i “liberali” odierni hanno spesso le strutture di “libertà di” e spesso comportano la compressione (e talvolta la penalizzazione) d’opinioni diverse.

Ad esempio il matrimonio tra omosessuali, che significa conferire una facoltà (lo jus connubi) tutelato e riconosciuto a creare un nuovo status, secondo molti un’istituzione (la famiglia).

Peraltro tali diritti sono spesso soggetti ad interpretazioni quanto mai estensive, equivocando sulla rubrica della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (del 1789), confondendo “uomo” e “cittadino” ed attribuendo anche al primo i diritti del secondo. Per loro natura i diritti spettanti al civis sono libertà di, ossia di partecipazione alla vita, alla decisione ed alla funzione pubblica (voto, accesso, partecipazione – v. art. 6-11-14); ancora più spesso, si facilita l’acquisizione della cittadinanza agli immigrati, basandola sulla durata di residenza, su quella del lavoro, sullo jus soli (e così via), facendo acquisire così lo status per esercitarli.

È evidente inoltre che nella narrazione dei “nuovi” liberali, la tutela di diritti cui i “vecchi” tenevano molto è (largamente) depotenziata; se un tempo ciò che era tipico della constitution sociale era la garanzia della “libertà e proprietà”, ora spesso libertà (nel senso dei vecchi) e proprietà viene sottovaluta dai nuovi. Basti ricordare la diffusione di norme contro opinioni culturali: dal revisionismo storico alle fake-news, ossia la libertà di dire anche sciocchezze sulla rete. Il che, tenuto conto del ruolo che la libertà di opinione ha nel sistema delle libertà liberali – è storicamente la prima ad emergere nel mondo moderno nella libertà di coscienza e la tolleranza religiosa  – è un vulnus niente male. E cui le èlite dirigenti peraltro non sono affatto estranee, data la mole (quantitativa ma anche qualitativa) delle bufale (fake-news) dalle stesse diffuse, anche nell’ultimo trentennio. O la scarso interesse delle stesse per il diritto di proprietà, specie se lo si confronta con l’attenzione riservata alla libertà di commercio e a quella d’iniziativa economica.

Sul piano istituzionale non danno grande attenzione né al principio di distinzione dei poteri (né alle garanzie dei diritti), che richiede istituzioni apposite, pensate e realizzate dai “vecchi” liberali. E che negli ultimi decenni almeno in Italia, hanno fatto consistenti passi indietro[1]; e quel che parimenti conta, nella generale indifferenza.

Quanto all’altro caposaldo del costituzionalismo liberale, cioè la tutela dei diritti fondamentali e con ciò del principio di separazione tra Stato e società civile (Schmitt) ha anch’esso fatto passi indietro, un po’ perché alcuni diritti fondamentali sono più belli di altri (v. sopra), e, in genere, perché le limitazioni alle istituzioni di garanzia li riducono tutti.

  1. Se si dovesse cercare il “punto d’Archimede” del liberalismo, ovvero ciò che lo distingue essenzialmente e fa si che sia quello che è e non qualcosa di diverso (come Lassalle sosteneva per le costituzioni) è che il liberalismo, o più limitatamente la concezione liberale dello Stato, non è una concezione che istituisce un potere, ma i controlli al potere stesso. Un sistema di valori, d’interesse, d’idee, nel linguaggio di “recente” modernità un’ideologia, legittima il potere. Così è legittimata una monarchia tradizionale, una democrazia, un’aristocrazia, anche un regime tirannico o totalitario, o uno status mixtus. Ma tuttavia le forme di Stato e di governo possono essere liberali o no – forse l’unica che non può esserlo, tra quelle praticate nella storia del cristianesimo occidentale è, per incompatibilità totale, il totalitarismo comunista o nazista. Se hanno tutela dei diritti fondamentali, separazione dei poteri, possono essere qualificate come liberali, se no, non lo sono. Scrive Schmitt “Il moderno Stato costituzionale nella sua struttura è composto di due diversi elementi: di una serie di intralci al potere statale propri dello Stato borghese di diritto e di un sistema sia esso monocratico o democratico di attività politica[2].

Riprendendo la nota espressione del “Federalista”, perché vi sia uno Stato liberale è necessario che, oltre ai governi, esistano anche i controlli sui governi. Per cui il punto essenziale del liberalismo è che il potere politico sia limitato (almeno nello stato normale e, in qualche misura anche nella situazione eccezionale); così d’altra parte, come sostiene Schmitt, non esiste uno Stato liberale “puro” ma solo delle forme politiche limitate da un sistema liberale di garanzie e controlli.

Una monarchia rappresentativa del XIX secolo, in cui il potere monarchico richiedeva, per alcuni atti, la deliberazione di parlamenti eletti da un elettorato assai ristretto (nell’Italia appena unita circa il 5% degli uomini maggiorenni) era qualificato liberale sia perché era prevista la tutela dei diritti fondamentali sia la separazione dei poteri. Questo pur essendo un regime riconducibile ad uno Status mixtus aristo-monarchico. Così come la democrazia “compiuta” del XX secolo, col suo apparato di garanzie, controllo di costituzionalità compreso. e l’elettorato universale, è una democrazia liberale.

  1. Se essenziale è la tutela dei diritti, in primo luogo dell’individuo, e delle istituzioni che consentono di farlo, ne deriva che è nemico chi impedisce di esercitare tali diritti e conformare conseguentemente l’ordinamento.

Indipendentemente dall’insorgere di un nemico per altre ragioni (controversie territoriali, economiche, giuridiche e così via) questo può essere configurato hegelianamente, anche come differenza etica, ossia come negazione dei principi fondamentali dell’ethos condiviso nella comunità (come durante il XX secolo uno Stato borghese per i comunisti e viceversa) e conformato nelle sue istituzioni[3].

Quindi tra i tanti nemici possibili e reali ce n’è uno – o qualcuno – che è tale perché è una “differenza etica”; è la stessa identificazione di tale nemico a chiarire connotati essenziali (e fini) del liberalismo.

È indubbio che il nemico “etico” per un liberale “classico” era così colui che non accetta (o riduce) limiti e controlli all’esercizio del potere. Già col periodo rivoluzionario la palma passò dai sostenitori dell’ancien regime agli estremisti giacobini. Durante la restaurazione divenne nuovamente la Santa Alleanza. Dopo la comune il movimento socialista, e poi i bolscevichi. La caduta del “socialismo” reale ha privato i liberali del nemico dichiarato (ma una nuova antitesi è andata emergendo).

Tuttavia in tale disorientamento, è cresciuto un “nemico” (poco credibile e) poco o punto simile a quello “classico”. Se il “nemico” dei (sedicenti) liberali post-moderni è l’omofobo, il “razzista” (declinato in tutte le sue gradazioni, da quella seria, ma fortunatamente consegnata alla storia, dei campi di sterminio, via via scendendo fino alle troppe contravvenzioni stradali inflitte ai rom dai vigili di un comune ungherese – UE.dixit); il creatore di fake-news e via salendo (ma non troppo) in politicità, l’inquinatore e soprattutto il sovran-populista, allora i nemici (nuovi) non hanno la grandezza demoniaca dei nemici di un tempo. Da Robespierre a Stalin, da Hitler a Metternich, da Lenin a Mao.

Si potrebbe osservare che ognuno ha  il nemico che si merita: la vittoria sul “grande” nemico garantisce una fama grande e imperitura, quella su un nemico piccolo piccolo assicura al vincitore solo di poter dominare qualche anno di più.

  1. Nel nemico depotenziato e ridotto a misura di contendente, c’è comunque un pericolo: di spoliticizzare, più ancor di quanto sia già, il liberalismo. La cui funzione principale era di creare istituzioni limitative del potere. Se i liberali sono quelli che difendono le scelte (privatissime) di preferenze sessuali, e così via, chi difenderà gli uomini dagli abusi del potere? Se poi perché un potere sia “liberale” basta che assicuri la libertà di consumo, di scelta del partner, di migrazione, allora accettabilmente liberale è anche il PC cinese (che di strada dai tempi di Mao ne ha fatta, tuttavia, tanta) malgrado Tien-a-men e i Lao-gai (tuttora, si dice, esistenti, almeno nel Xin-Iang). In effetti in Cina c’è libertà di consumo, Xi-in.ping difende a ogni piè sospinto la libertà di mercato, non risultano discriminazioni nei confronti di omosessuali. Che sia comunque un regime a partito unico, con minoranze (spesso religiose) represse, diritti umani poco protetti, separazione dei poteri poco trascurata (a dir poco) tutte cose che avrebbero indotto un “vecchio” liberale ad essere critico e circospetto, non pare muovano granché un liberale post-moderno.

Ma così il liberalismo perde la propria politicità (e funzione) che nell’età moderna è stata (anche) quella di neutralizzare le antitesi del politico, e così di permettere una convivenza pacifica all’interno delle comunità politiche, oltre allo sviluppo delle libertà fondamentali. Per far questo occorreva politicamente identificare il nemico in colui che conculcava quella libertà e i principi dello Stato borghese di diritto cioè nel contrapporvisi. Ma ora che i “liberali” si occupano d’altro, chi ci salverà da quel nemico?

Teodoro Klitsche de la Grange

 

[1] Rinvio per un’analisi più articolata al mio lavoro Temi e Dike nel tramonto della Repubblica in Rivoluzione liberale on.line 17/07/2018)

[2] v. C. Schmitt Verfassungslehre, trad. it. di A. Caracciolo, Milano 1984, p. 154 (il corsivo è mio).

[3] Scriveva Hegel a tale proposito “Una differenza siffatta è il nemico; e la differenza, posta in relazione, sussiste nel contempo come  il proprio contrario, come il contrario dell’essere degli opposti, come il nulla del nemico, e questo nulla equivalente da entrambi i lati è il pericolo della lotta. Questo nemico può essere, per l’elemento etico, soltanto un nemico del popolo ed esso stesso un popolo. Presentandosi qui la singolarità, è per il popolo che il singolo si espone al pericolo della morte” ora in Scritti politici, Roma…., p. 174.