IL BICCHIERE MEZZO PIENO, Teodoro Klitsche de la Grange

IL BICCHIERE MEZZO PIENO

Tra le innovazioni del decreto 150/2022, c’è l’estensione dei reati procedibili solo a querela dell’offeso, onde creare un barrage ai processi penali e così ridurne il numero. Il tutto, si sostiene, in linea con gli obiettivi di efficienza del processo e del sistema penale. Ancorché il tutto possa prestarsi ad un’inferiore deterrenza della prescrizione sanzionatoria (e così al di essa effetto dissuasorio) la rimessione alla parte lesa della facoltà di “far partire” il procedimento, ne facilita – a vantaggio della medesima – le condotte risarcitorie e riparatorie del reato, con soddisfazione – almeno parziale – dell’interesse della vittima.

Nello stato in cui versa la giustizia italiana, non possono che essere benvenute disposizioni che consentono una migliore soddisfazione dell’interesse privato, peraltro “alleggerendone” gli oneri per lo Stato. Tuttavia sono i presupposti di soluzioni come questa a dover essere criticati; vediamo perché.

Scriveva Hegel che lo “Stato è la realtà della libertà concreta”, in quanto, brevemente, coniuga gli interessi particolari con l’interesse della generalità così che né l’universale si compie senza l’interesse particolare, né che gli individui vivano solo per questo, senza che vogliano, in pari tempo, l’universale.

Più “tecnicamente”, da giurista, Jhering collegava l’interesse particolare al generale, attraverso i meccanismi giuridici, in particolare la sanzione, che, come Carnelutti avrebbe sottolineato, è un avvaloramento del precetto normativo con la quale si penalizza la condotta conforme o contraria a quella, sacrificando o soddisfacendo l’interesse particolare.

Anche per questo Jhering scrisse quel best seller giuridico che è La lotta per il diritto (Kampf ums Recht) ancora oggi, a circa un secolo e mezzo dalla pubblicazione, continuamente riedito. Nell’edizione Laterza degli anni ’30, con un’avvertenza preliminare di Croce che, sorprendentemente, ne sottolineava l’alto valore etico, scrivendo: “Può far maraviglia che questo elevamento della lotta pel diritto sopra le considerazioni utilitarie sia sostenuto da un pensatore che nella sua speciale trattazione filosofica dell’argomento, Der Zweck im Recht (1877-83), riportò il principio del diritto all’egoismo… Ma tant’è: nel Jhering il sentimento morale era più forte dei suoi presupposti e della sua logica filosofica” e proseguiva che a questa concezione “valse il forte rilievo dato agli individui e ai loro bisogni e ai fini che si propongono nel formare il diritto; se anche gli piacque interpretarli e chiamarli, poco felicemente, egoistici”.

La ragione per cui lottare (Kampf) per il proprio diritto soggettivo, al tempo stesso si risolve nel realizzare  quello oggettivo è che il diritto che non è applicato, per cui non si lotta, è un diritto… teorico. Cioè che nega la propria essenza di attività (ragione) pratica. Come le idee di Platone, confinato in un iperuranio normativo, senza un demiurgo che lo porti in terra.

Se la funzione del demiurgo è rivestita soltanto dalla vittima zelante probabilmente l’effettività dell’attuazione (cioè la soddisfazione dell’interesse pubblico all’ordine sociale) e così l’oggettivazione lascerà a desiderare.

Ciò premesso quel che più sorprende di questa soluzione è che se ne vuole misurare (almeno nella rappresentazione che ne danno molti mass-media) l’efficacia non dal calo dei reati commessi ma da quello dei processi che ne conseguono.

Di per se che non si celebri il processo dopo il reato perché manca la querela, non significa che il reato non sia avvenuto (né che il reo non lo reiteri), ma solo, per l’appunto, che manca la querela. Anzi, sbrigarsela con un risarcimento e non con la detenzione non fa calare le trasgressioni, ma aumentare le possibilità di “farla franca”. In particolare per i rei dotati di disponibilità finanziarie.

C’è da aggiungere che tale modo di ragionare, in particolare se presentato come “momento” decisivo delle riforme, è figlio di una visione burocratica del mondo; è l’universo visto dall’angolo visuale della scrivania, ma tale punto di osservazione non permette una percezione “a giro d’orizzonte” e prenderla per quella principale è frutto di una deformazione professionale, spesso ripetuta. Se invece di centomila processi da iniziare se ne hanno settantamila, onde la durata degli stessi dimezza, non vuol dire (neppure) che l’efficacia dell’amministrazione della giustizia penale è migliorata, ma solo che ha minore lavoro da sbrigare. Tuttavia la funzione della giustizia penale in ispecie, di assicurare l’ordine sociale non ci guadagna un gran che. Ciò non significa che la riforma sia disprezzabile, ma che non è il caso di intonare peana né confidare in grandi risultati da un bicchiere mezzo pieno.

Teodoro Klitsche de la Grange

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SUL “NOMOS” POST-MODERNO(*), di Teodoro Katte Klitsche de la Grange

 

NOTA

Questo articolo è stato pubblicato nel 2003 su “Palomar”. E’ il primo di una serie di saggi che saranno pubblicati sul sito. La problematica che affronta appare tuttora – in gran parte – attuale. Sovranità, jus belli, potere e diritto sono riproposti di continuo in un ordine internazionale in via di trasformazione, di cui il conflitto in Ucraina è una delle conseguenze. 

Teodoro Katte Klitsche de la Grange

SUL “NOMOS” POST-MODERNO(*)

Carl Schmitt, nelle prime pagine del “Der Nomos der Erde”, dopo aver individuato nell’occupazione sia l’atto fondante di un ordinamento che la possibilità di dominio non solo sulla terra, ma anche (sia pure profondamente diverso) sul mare, e i rapporti tra i due tipi, sostiene che queste sono profondamente trasformate “da un nuovo avvenimento spaziale: la possibilità di un dominio sullo spazio aereo. Cambiano non solo le dimensioni della sovranità territoriale, non solo l’efficacia  e la rapidità dei mezzi umani di potere, di comunicazione e informazione, ma anche i contenuti dell’effettività. Quest’ultima possiede sempre un aspetto spaziale e rimane sempre, tanto nel caso delle occupazioni di terra e delle conquiste, quanto nel caso delle barriere e dei blocchi, un importante concetto di diritto internazionale. Muta inoltre, in seguito a ciò, anche la relazione tra protezione e obbedienza, e quindi la struttura del potere politico e sociale stesso, e il rapporto tra questi e altri poteri. Ha inizio così un nuovo stadio della coscienza umana dello spazio e dell’ordinamento globale”.

Tale affermazione, come tutto l’inizio del “Der Nomos der Erde”, si può collegare alla definizione che un altro grande giurista, Maurice Hauriou, da dell’ “idea direttiva” dello Stato ovvero di “attività protettiva di una società civile nazionale svolta da un potere pubblico a base territoriale” e prosegue, chiarendola, “non si deve confondere l’idea dell’opera da realizzare, che merita il nome di “idea direttiva dell’impresa” né con la nozione di scopo né con quella di funzione. L’idea dello Stato, per esempio, è cosa ben diversa dallo scopo dello Stato o dalla sua funzione”[1]. Nel “Précis de droit constitutionnel” Hauriou ricollega l’idea di Stato all’ “ordine  individualista”, conseguente al formarsi di civiltà sedentarie[2]: di guisa che la sedentarietà, cioè il rapporto stabile e ordinato con la terra è il fondamento (tra l’altro) dell’idea di Stato, tipo particolare di ordinamento localizzato.

Lo Stato (e il di esso concetto) si specifica con una serie di distinzioni caratteristiche, tra le quali, particolarmente interessante il tema qui trattato, è quella tra interno ed esterno e la delimitazione tra tali due aree, cioè il confine. Interno ed esterno, intra o extra moenia, non costituisce soltanto una divisione spaziale, né si limita a determinare l’ambito d’esercizio dell’imperium dello Stato, ma è la distinzione tra due diversi “ordinamenti”, fondati su principi e presupposti diversi. All’interno, lo spazio della sovranità statale, dell’imperium basato sul principio che “il sovrano nello Stato ha verso i sudditi soltanto diritti e nessun dovere (coattivo)”[3], la volontà sovrana è, per definizione, irresistibile e non condizionabile con limiti e controlli giuridici.

Corollario di questa illimitatezza è che non vi è alcun potere esterno che possa influire all’interno (dei confini) dell’unità politica. Mentre all’esterno il diritto internazionale (denominazione che Schmitt corregge, con maggiore precisione, in interstatale) si basa su una società di Stati simili e pari, componenti l’ordinamento internazionale: per cui, di converso, nessuno può dettar legge all’altro, ma i rapporti tra gli stessi sono a carattere, in linea di principio, paritario. Tuttavia Spinoza ne coglieva assai chiaramente il senso (e il limite), quando scriveva che “Lo Stato, dunque, in tanto è autonomo in quanto è in grado di provvedere alla propria sussistenza e alla propria difesa dall’aggressione di un altro, e… in tanto è soggetto ad altri, in quanto teme la potenza di un altro Stato o in quanto ne è impedito dal conseguire ciò che vuole o, infine, in quanto ha bisogno del suo aiuto per la propria conservazione o per il proprio incremento”[4]; per cui uno Stato, in diritto uguale e pari agli altri, lo è di fatto nella misura in cui riesca ad avere potentia sufficiente a garantire quel tanto di jus effettivamente esercitabile nel consesso internazionale (o interstatale).

Il rapporto tra jus e potentia, nel pensiero di Spinoza, è simmetrico: nel senso che non c’è il primo senza la seconda, né la seconda senza il primo. Un diritto internazionale che non si fondasse sul potere di fatto dei soggetti dell’ordinamento internazionale di conservare la pace e fare la guerra ma su un legalitarismo normativistico sarebbe un non-senso, una parata inutile di pubbliche impotenze.

Ciò non è senza conseguenze, ovviamente, per lo Stato: se questo non ha potentia sufficiente a garantire la protezione, perché non può, almeno, difendersi, se non aggredire, è la stessa obbligazione politica “principe” verso i sudditi a perdere – anch’essa – di senso. Uno Stato che ha bisogno della protezione di un altro non è libero; e neppure può garantire la protezione dei cittadini, (o lo può, ma solo in parte) per la medesima ragione. In tal modo, a seguire Hobbes, ne viene meno anche la legittimità e la funzione, intesa dal filosofo di Malmesbury come garanzia della protezione cui corrisponde il dovere di obbedienza (con la conseguenza che questa va data a chi effettivamente è in grado di assicurare quella).

Le possibilità di fatto sono, tuttavia, quelle che determinano la possibilità concreta di appropriazione, distribuzione e regolazione di una materia e/o di uno spazio: è la potentia che determina lo jus: il “Nomos” moderno della terra presupponeva la navigazione oceanica (e tecnologia, conoscenze che l’hanno reso possibile), cui conseguiva l’appropriazione e la divisione del continente americano – e di parte degli altri – realizzata dalle potenze europee. Ma anche su un altro versante, quello europeo ed euro-asiatico (continentale), connotato da una pluralità di Stati confinanti (per terra) o vicini, non difesi come l’Inghilterra dal fatto di essere un’isola, le innovazioni tecniche e scientifiche sviluppate tra il finire del medioevo e l’inizio dell’evo moderno non furono neutrali, ma decisive per l’assetto politico-giuridico costituitosi.

Sicuramente il nascere dello Stato moderno dal corpo delle monarchie feudali lo si deve a fattori “ideali”, tra cui non bisogna trascurare l’esigenza di una protezione più efficace di quella assicurata dal pluralismo feudale; ma tra quelli “materiali” appare decisiva la diffusione delle armi da fuoco. Queste decretarono l’obsolescenza, ad un tempo, della cavalleria aristocratica feudale e di quella “guerriera” dei popoli nomadi. A Pavia i tercios spagnoli, a Khazan gli strelizzi russi aprivano un nuovo capitolo della storia (militare e) politica; non nasceva solo lo Stato moderno, ma nelle contese tra questo e i non-Stati (interni ed esterni) – ovvero le altre forme di unità e organizzazione politica – il primo vinceva (quasi) sempre. Le aristocrazie feudali fecero così, essendo divenute più che inutili, d’impaccio alla nuova istituzione, una “fine” politica parallela a quella dei popoli nomadi, che per millenni avevano costituito uno dei principali “motori” della storia del Vecchio Mondo: negli stessi anni in cui la Fronda aristocratica perdeva il conflitto con lo Stato monarchico di Mazzarino e del giovane Luigi XIV, russi e cinesi s’incontravano sull’Amur, e definivano i confini dei rispettivi imperi. I nomadi erano circondati nelle loro tende, come la grande nobiltà francese sorvegliata a Versailles: non vi sarebbe stata più alcuna di quelle eruzioni nelle terre dei popoli stanziali che dalle invasioni indo-europee  protostoriche a Tamerlano avevano periodicamente rimesso in moto la storia del mondo. I popoli nomadi regredivano (nelle possibilità politiche) da Gengis Khan a Pugaciov: dall’imperatore al ribelle.

Così era ridimensionato, e praticamente scompariva, quel “principio fluttuante, vacillante” della storia, che Hegel vedeva nei nomadi[5].

Occorre vedere quanto di questa “chiusura” politico-istituzionale si debba allo spirito del Rinascimento e della Riforma, e quanto al fatto che artiglierie e moschetti erano molto più efficaci nel serrare le frontiere marittime e terrestri degli eserciti feudali, e molto meno condizionanti il potere monarchico. Sicuramente, tuttavia, lo “spirito” della modernità e l’elemento, per così dire, materiale, hanno collaborato allo stesso esito. Si può, a tale proposito, ricordare l’opinione di Marx che l’umanità si pone (e risolve) i problemi quando ne sono mature le soluzioni[6]. Il sistema degli Stati sovrani europei nasceva proprio al momento in cui ne maturavano le condizioni “fattuali”.

Appare decisivo che, comunque, non sarebbe stato possibile realizzare, almeno al grado di efficacia ottenuto, quella “chiusura” se non con i mezzi che la tecnica “moderna” aveva messo a disposizione: pochi moschettieri ed artiglieri ben armati ed addestrati potevano fermare e sconfiggere orde assai più numerose di valorosi guerrieri nomadi, occuparne e presidiarne il territorio (il che, in modo parzialmente inverso, nel senso della conquista e dell’espansione, si ripeterà nel Nord America).

La complessità, poi, della nuova organizzazione militare escludeva – o rendeva altamente improbabile, e quindi marginale – che gruppi poco numerosi o poco organizzati (ovvero non organizzati come Stati) potessero arrecare offese rilevanti alle comunità ordinate in Stati, anche a quelli più piccoli e deboli, come i principati italiani e tedeschi, per via di terra: per mare la situazione era parzialmente diversa. Lo sviluppo della pirateria atlantica ai danni anche delle grandi potenze, e il permanere di quella mediterranea (che colpiva però, come scriveva Montesquieu, essenzialmente i commerci dei piccoli Stati) era dovuto alla minor sproporzione, sul mare, del rapporto tra potenza e vulnerabilità: i commerci marittimi erano più vulnerabili dei confini. E più difficile inseguire e scoprire i pirati negli oceani che i predoni nelle steppe e nelle foreste.

2 L’intuizione di Schmitt che la nuova dimensione acquisita con la navigazione aerea modificava sia la guerra che le forme del “politico” è stato confermata dai nuovi attacchi terroristici.

Il nuovo tipo di terrorismo (tra l’altro realizzato col mezzo aereo) ha in comune con l’offesa dall’aria altre caratteristiche, già individuate chiaramente dal generale italiano Giulio Douhet, teorico – pioniere della guerra aerea “totale”. Non esistono in primo luogo, “linee” di fronte, perché sono impossibili (o pressoché superflue): il terrorista, come l’aereo, le può oltrepassare senza prima essere costretto a combattere per forzarle. Secondariamente, neppure barriere naturali possono concorrere a rinsaldarle: l’aereo quindi, come il terrorista, è “indipendente dalla superficie, capace di muoversi in tutte le direzioni con uguale facilità”.

In terzo luogo così “la guerra può far sentire la sua ripercussione diretta oltre la più lunga gittata delle armi da fuoco impiegate sulla superficie, per centinaia e centinaia di chilometri, su tutto il territorio ed il mare nemico. Non più possono esistere zone in cui la vita possa trascorrere in completa sicurezza e con relativa tranquillità. Non più il campo di battaglia potrà venire limitato: ……  tutti diventano combattenti perché tutti sono soggetti alle dirette offese del nemico: più non può sussistere una divisione fra belligeranti  e non belligeranti”. Un quarto aspetto è che: “la vittoria sulla superficie non preserva dalle offese aeree dell’avversario il popolo che ha conseguito la vittoria”; per cui concludeva Douhet: “Tutto ciò deve, inevitabilmente produrre un profondo mutamento nelle forme della guerra, perché le caratteristiche essenziali vengono ad esserne radicalmente mutate”[7] di guisa che il più forte esercito e la più potente marina non servono ad evitare le offese che il mezzo aereo – e il nuovo terrorismo – sono in grado di produrre.

Neppure determinati jura belli, come quello di preda, che valgono a relativizzare la guerra o almeno l’atto di ostilità, sono concretamente esercitabili in tipi di guerra – e di azioni belliche – come quella aerea o terroristica. Il saccheggio che soddisfa l’avidità dell’aggressore salvando in genere la vita dei vinti, in questo tipo di conflitto non è esercitabile. L’unico obiettivo dell’azione diventa quindi la distruzione della vita e dei beni del nemico, senza riguardo alle distinzioni classiche della guerra “relativizzata” dello jus publicum europaeum.

Tale conclusione mina quindi il ricordato presupposto, fondamento – di fatto – dello Stato moderno; il quale, caratterizzato dalla distinzione tra interno ed esterno, si fonda sulla possibilità concreta di serrare porti e frontiere, riducendo e minimizzando sia gli atti di ostilità non rapportabili alla guerra “classica” sia i soggetti che la possono esercitare. Questo (ulteriore) elemento di novità, è suscettibile di sviluppi impensabili in un sistema di relazioni internazionali dominato dai soggetti “normali” (gli Stati) e costruito con istituti, rapporti (e concetti) sull’idea (classica) di Stato e di conflitto interstatale.

L’ “opposizione” di mare e terra, e la delimitazione che ne deriva, (l’offesa arrecabile per mare si trasforma difficilmente in quella di terra; al punto che le potenze marittime hanno, nelle guerre intereuropee, sempre avuto necessità di almeno una “spada” sul continente) non esiste più per la guerra aerea: questa può colpire indifferentemente sul suolo e sull’acqua, e trasferire l’offesa dall’uno all’altro elemento senza cambiare il mezzo con cui è portata[8].

Analoga è la guerra terroristica, condotta da piccole unità, sfuggenti al controllo ed al regime delle “linee” (di confine, di fronte, di “amicizia”) tipiche dell’ordinamento internazionale classico, guerra compresa, come a tutte le altre distinzioni intrinseche e conseguenti al relativo diritto di guerra (belligeranti e neutrali; civili e militari e così via). Di guisa che come guerra aerea e terrorismo non tollerano o riconoscono “linee” così  affievoliscono o fanno venir meno quelle distinzioni, giuridiche, che costituiscono delle chiusure “ideali”, necessarie per umanizzare la guerra e scongiurarne la peculiare  dinamica dell’ “ascesa agli estremi” cioè alla guerra assoluta.

3 Carl Schmitt, nel passo citato, nota come le nuove forme di guerra e di dominio modificano la relazione tra protezione ed obbedienza, le strutture del potere politico (e sociale) e il rapporto tra poteri: così collega l’esterno all’interno, come sottolinea l’influenza delle situazioni fattuali e concrete sull’assetto normativo. E’ noto che i fattori concreti (geografici, storici, climatici, e così via) condizionano e modellano l’ordinamento (la costituzione) delle comunità umane: da Montesquieu a de Maistre l’hanno rilevato in tanti. Meno noto, anzi spesso trascurato, è che di solito le società si organizzano nella forma la quale meglio permette di condurre la guerra in una determinata epoca storica. Tuttavia il rapporto tra istituzioni e guerra fa parte del pensiero umano, almeno a far data da Polibio di Megalopoli e dalla sua spiegazione dell’ascesa di Roma[9]. Di tutti i (numerosi) fattori che determinano strutture e dimensioni di una società umana, questo, a dispetto di certe astrazioni della “progettualità” politica (praticata da ideologi, costruttori di utopie), è uno dei principali: perché se una società perfetta (sotto il profilo culturale, economico, giuridico) non fosse organizzata in modo da proteggersi efficacemente dai tanti vicini, non altrettanto colti, ricchi, pii o giusti, ma meglio attrezzati a far la guerra, non durerebbe che pochi anni o, al massimo, decenni. Le unità politiche di lunga durata sono state capaci di risolvere quel problema, con delle istituzioni non congrue perché buone, ma buone perché adatte; ed avendo oltretutto il senso politico di cambiarle, anche radicalmente, ove la rei novitas lo richiedesse.

La fortuna, in determinate epoche, di certe forme di aggregazione politica si deve così alla loro capacità di consentire un’esistenza libera alle comunità che in queste si organizzavano; la loro decadenza – e sostituzione con altre forme e tipi – dal non essere più adatte a quella.

Nella storia europea, in particolare mediterranea, vediamo che fino al IV secolo a.C. le comunità hanno la forma della polis o delle tribù; solo nell’Oriente mediterraneo  esistono imperi, le cui caratteristiche – come, ad esempio, l’estremo “decentramento” di quello achemenide – erano tuttavia tali da renderli nemici affrontabili dalle altre unità politiche, come dimostra l’esito delle guerre persiane. A partire dalla fine del IV secolo, i popoli mediterranei si organizzano – per larga parte – in unità politiche regionali: a oriente quelle degli epigoni di Alessandro, a occidente Roma e Cartagine. La fine dell’ultima potenza regionale, l’Egitto dei Tolomei, segnò l’inizio dell’imperium unico mediterraneo. Toynbee nota che nel I secolo d.C. l’area temperata del Vecchio Mondo, dall’Oceano Atlantico al Mar Cinese, era divisa in (solo) quattro grandi imperi, al di fuori dei quali esistevano una miriade di piccole comunità politiche, talvolta clienti degli imperi, ma per lo più indifferenti a questi, perché troppo deboli per muovere loro la guerra. In epoca più recente l’assetto costituzionale e il diritto pubblico interno delle potenze “marittime” (Inghilterra e U.S.A.) sono stati ritenuti tali perchè tipici di due “isole”: in senso geografico (e politico) l’Inghilterra da De Maistre[10]; in senso politico (perchè privi di nemici credibili  ai confini terrestri e grandi guerre da sostenere con questi) gli U.S.A. da Tocqueville e da Hegel[11]. Differente invece, quello degli Stati continentali, per la necessità di eserciti permanenti, sempre potente strumento di difesa e di centralizzazione, ma a volte d’oppressione. Si può affermare pertanto, parafrasando Marx, che il modo di condurre la guerra determina il modo di governare. In questo senso lo jus belli del diritto internazionale dell’Europa moderna era quello peculiare degli Stati, non solo dotati di una (notevole) omogeneità culturale, ma di forme politiche e modi simili di combattere e quindi di danneggiarsi o avvantaggiarsi (reciprocamente). Il che comportava – con l’eccezione, solo relativa, delle potenze marittime – delle regole applicabili (con relativa facilità) perché i soggetti dell’ordinamento internazionale erano simili e se non pari, almeno non troppo impari.

  1. Diversa appare la situazione attuale, per una pluralità di ragioni: riducendo le quali ai limiti del presente scritto, ovvero ai riflessi che possono avere i nuovi modi di condurre la guerra – aerea e aerospaziale in primo luogo, e terroristica – sulle forme ed organizzazioni dell’unità politica, abbiamo diverse conseguenze.

In primo luogo che la “chiusura” dello Stato, sulla cui possibilità si basava l’idea (e l’ideologia) del medesimo, appare più difficile, e così i “beni “ che assicurava alla comunità: ordine, pace, e sicurezza. Il “defensor pacis”, in un mondo in cui gli Stati sono fra loro come nello stato di natura è tale se riesce ad assicurare chiusura e distinzione tra interno ed esterno. Se tra questi spazi viene meno il confine, disordine e insicurezza penetrano all’interno, e non l’inverso. La capacità di garantire “attività protettiva” viene così correlativamente ridotta.

Secondariamente, nel XX secolo si è contribuito in vari modi ad attenuare e/o negare quella “chiusura”. La Weltbürgerkrieg del marxismo-leninismo, con la contrapposizione amicus/hostis tra borghesia e proletariato, e la minaccia – più volte prospettata (e spesso impiegata) di mobilitare, con la guerra rivoluzionaria, i proletari, amici dell’Unione Sovietica e quinta colonna alle spalle degli Stati borghesi, ne è stata quella, ideologicamente più intensa e qualificata[12]. Anche la nuova minaccia terroristica di Al Quaeda, non solo nega qualsiasi distinzione tra interno ed esterno (e le altre peculiari allo jus publicum europaeum), ma, a quanto è dato capire, nega che la distinzione tra amici e nemici corra lungo i confini degli Stati attualmente esistenti, islamici o “non”, e sembra piuttosto contrapporre credenti ad infedeli[13].

In qualche misura , anche se su basi diverse, la stessa aspirazione a leghe di Stati o comunque ad istituzioni internazionali che scongiurino il ricorso alla forza sostituendolo con procedure “giuridiche” (d’ispirazione Kantiana), o meglio para-giudiziarie, concorre ad attenuare quella distinzione, ma senza granchè dei benefici prospettati: anche perché, a ben vedere, non riesce a portare la pace se non attraverso la guerra, che differisce da una “normale” guerra solo perché a dichiararla e condurla è una lega di Stati piuttosto che uno Stato singolo[14]. Il caso del Kosovo ne è stata la conferma più chiara, perché occasione (e motivo) dell’intervento non era un’aggressione esterna (come nella guerra all’Irak per l’occupazione del Kuwait), ma la repressione attuata dallo Stato sovrano sulla popolazione di etnia albanese residente nel proprio territorio. Con ciò si contestava allo Stato l’esercizio della funzione di “polizia” cui è connessa quella di identificare il nemico interno (il ribelle) e anche il criminale. Il principio di non-intervento negli affari interni dello Stato, essenziale alla distinzione tra quelli e gli affari esterni, viene così meno. In termini weberiani le relazioni  chiuse vengono sempre più sostituite da relazioni aperte[15]. Conseguenza di ciò non è tuttavia di sostituire il diritto alla guerra, ma di espropriare lo Stato del diritto d’individuare il nemico , trasferendolo ad un’istituzione internazionale, cui compete il potere anche d’esercitare la “violenza legittima” e garantire la pace, non solo tra Stati, ma anche negli Stati[16].

In questo senso il termine di “operazione di polizia internazionale” spesso dato a quella guerra è in effetti corretto nel sostantivo, ma fuorviante nell’aggettivo: perché costituisce attività di polizia (in quanto interna allo Stato che la subisce), ma proprio per ciò, quanto all’oggetto non è internazionale, nel senso delle relazioni fra più Stati, ma solo con riguardo al soggetto cioè all’istituzione (internazionale) che l’esercita[17]. A una simile concezione vanno ricondotti anche altri organismi (come la Corte penale internazionale di cui al recente Statuto di Roma) che, derogando alle regole (per la verità ripetutamente violate nel XX secolo) dell’esclusività statale dell’esercizio della giustizia la trasferiscono, in determinati casi, all’istituzione internazionale[18].

  1. Dati i rapporti (e le distinzioni) tra interno ed esterno, jus e potentia, modi di guerra e forma politica, occorre vedere in quale guisa i nuovi tipi di ostilità possono modificare il Nomos o, più limitatamente, l’ordinamento internazionale, e di riflesso, e in quale misura, quello interno.

Nella situazione odierna nessuno Stato appare in grado di esercitare appieno lo jus belli, perché nessuno è in grado di condurre una guerra (con qualche possibilità di sopravvivenza) con gli U.S.A., tranne, forse, la Russia e, in futuro, la Cina. Lo jus non corrisponde pertanto alla potentia, limitata alle guerre realmente possibili. E anche tali tipi di ostilità (tra Stati senza eccessivo squilibrio di potenza), sono praticabili nei limiti in cui la superpotenza non se ne ritenesse lesa o minacciata: di fatto quindi sottoposte a un possibile veto U.S.A.. A questo occorre aggiungere il favore al principio di intervento, finalizzato alla salvaguardia di diritti umani che limita la sovranità al contrario, salvaguardata da quello di non-intervento.

In tale situazione è la guerra terroristica, condotta da piccoli – o piccolissimi – gruppi umani, l’unica sempre praticabile. Ciò comporta che questi gruppi sono, paradossalmente, più efficienti ed adatti  dello Stato all’esercizio dello jus belli (malgrado tale diritto non sia loro riconosciuto).

Si verifica così una scissione tra jus e potentia: confermata dal fatto che la maggior parte dei conflitti successivi alla Seconda guerra mondiale non sono guerre tra Stati, ma tra uno Stato e una fazione (partito, etnia, ecc.) o tra fazioni all’interno di uno Stato.

A questo punto si pone anche il problema se può considerarsi Stato, nel senso dello jus publicum europaeum un’entità politica largamente (o totalmente) di fatto priva dello jus belli. Ai giuristi – ma non solo a loro – è familiare giudicare che, se a un istituto – e al concetto corrispondente – si sottrae un carattere (un attributo) essenziale, questo non è riconducibile a quello normalmente considerato e definito. A sottrarre (o ridurre) lo jus belli  allo Stato, se ne azzera (o si riduce) la capacità di protezione. E’ possibile, poi, ricondurre, al genere “Stato” un’istituzione, connotandola, per fare un esempio (tra i molti), secondo la definizione “funzionale” di Hauriou: “Protéger la société individualiste par son gouvernement, lui assurer la paix et l’ordre au dedans et au dehors par sa force armée, par sa diplomatie, par sa police, par sa législation, par ses tribunaux[19]”, di cui la protezione è l’elemento essenziale? E lo stesso potremmo ripetere paragonandolo ad altre definizioni o concetti di Stato elaborati. Certo si può chiamare “Stato” un ente privo dello jus belli, analogamente a come l’eufemismo prima ricordato definisce “operazioni di polizia internazionale” delle guerre tout-court, ma occorre intendersi, prescindendo dal tasso d’ipocrisia o d’illusione di certe operazioni da vocabolario, che quanto ne risulta non è uno Stato né qualcosa di diverso dalla guerra.

Il tutto non è indifferente all’altro aspetto della sovranità, così limitata dalla (parziale) inidoneità del ricorso alla forza, cioè quello interno. Invero il rapporto hobbesiano tra protezione ed obbedienza e l’effettività della decisione sovrana poggiano sul monopolio statale della violenza legittima, che appare doppiamente eroso: in primo luogo dalla (parziale) inidoneità prima ricordata e, secondariamente, dal ruolo delle istituzioni internazionali.

Ma se lo Stato non è più idoneo, se non è più la “gran macchina” della pace e della sicurezza, se non riesce a tenere al di fuori dai confini lo “stato di natura”, a chi si dovrà dare obbedienza? Un sostituto dello Stato moderno non è all’orizzonte, e ciò ch’è visibile è piuttosto un ritorno, mutatis mutandis, a forme politiche pre-moderne, di volta in volta imperiali, feudali, particolaristiche, corporative, comunque contrapposte allo Stato e all’ordine interstatale dello jus publicum europaeum, perché non basate su quella chiusura (e distinzione) e sull’assolutezza della decisione sovrana. A un mondo in cui lo jus è determinato da quel tanto di potentia esercitabile in una situazione concreta e in continuo movimento, meno o poco “calcolabile” e prevedibile; e quindi tendenzialmente non comparabile con ordine concreto in se concluso, come quello determinato dallo Stato.

La non coincidenza tra Stato, sovranità e jus belli fa, di converso, intravedere, in futuro, forme politiche di confusione e sovrapposizione tra quelli: con Stati non sovrani, sovrani senza Stato, belligeranti non statali e così via. Lo stesso Impero, ordine politico assai differenziato nelle varie situazioni storiche, non ha escluso sia forme “interne” di ostilità (come le guerre “tribali” nelle colonie extraeuropee o i conflitti tra feudatari  nel Sacro Romano Impero), sia, di conseguenza situazioni di “pace” interna non comparabile a quella assicurata dallo Stato europeo “classico”, e, in taluni casi financo, autorità “locali” che praticano una politica all’esterno (quindi estera) non coincidente né compatibile con quella dell’Impero[20].

In effetti l’impero è un ordinamento politico che, al contrario dello Stato, ha conosciuto forme diversissime, in cui le variabili prevalgono largamente nelle costanti. Tuttavia uno dei caratteri tipici (quasi sempre) degli imperi è di consentire forme – più o meno limitate – di ostilità all’interno (e all’esterno) dell’unità politica, cui corrisponde spesso una “competenza” in politica estera, riconosciuta (o tollerata) alle unità politiche “minori” o “vassalle”. In questo contesto si può immaginare – ma di fatto l’immaginazione è divenuta, in parte, già realtà – che possano esservi forme di ostilità limitate sia nei soggetti (accanto agli Stati, movimenti e partiti di liberazione, forme in futuro anche gilde armate e compagnie di ventura) sia nel motivo e nei modi di guerra, secondo distinzioni che ricalcano la dottrina della “guerra giusta” di S. Tommaso e dei teorici della controriforma. Per cui certi motivi e modi di guerra sarebbero consentiti: come (nei modi) l’uso di armi convenzionali, la eliminazione degli obiettivi militari, al contrario dell’impiego di armi “NBC” e, in genere, la sistematica distruzione di bersagli civili. Nei motivi sarebbero consentite guerre per la tutela dei “diritti umani”, probabilmente l’autodeterminazione di popoli e regioni, forse guerre limitate per diritti determinati. A una moltiplicazione  dei soggetti ( lo justus hostis, limitato fino a tutto il XIX secolo allo Stato, diviene un concetto “elastico”) corrisponderebbe una casistica dei modi e dei motivi (justa causa e justus modus), con un solo limite: l’illiceità di nuova guerra (giusta) alla potenza egemone, d’altra parte già esclusa di fatto, che lo sarebbe così anche – e conseguentemente – di diritto. Al di sotto di questo, le guerre – entro una “soglia” determinata – sarebbero consentite e tollerate.

Inter pacem et bellum nihil medium: questa frase di Cicerone era ripresa da Schmitt (come titolo di un breve saggio) a denotare uno dei principi del diritto internazionale classico, da Schmitt considerato ormai tramontato per i vistosi vulnera subiti nel primo dopoguerra[21], e dovuti alla prassi di azioni ostili non militari o senza dichiarazione di guerra. Tuttavia sempre condotte da Stati contro Stati. Nel secondo dopoguerra (e già durante la seconda guerra mondiale) lo sviluppo inconsueto di nuovi soggetti politici belligeranti, con i movimenti partigiani, aggiungeva allo Stato un “nuovo” soggetto politico[22].

Il successivo sviluppo è costituito proprio da Al Quaeda, il cui principale carattere differenziale rispetto ai movimenti partigiani e ai partiti rivoluzionari è di non avere come quelli, seppure in forma fluida, gli elementi di Stato “in embrione”[23], ma prescinde (almeno apparentemente) in modo completo dalla “statalità”. Ciò non ha impedito a un’organizzazione avulsa da un popolo e da un territorio (cioè da due dei tre elementi-base dello Stato) di condurre un’operazione “bellica”[24].

La presenza, pertanto di soggetti politici non statali e il carattere “illimitato” e “irregolare” delle guerre da questi condotte, contrapposto alla “guerra in forma” fra Stati dello  jus publicum europaeum, appare non inquadrabile in un ordinamento che, come quello classico, costituisce un sistema di relazioni fondate su un contesto di pace e sicurezza reciproca. Il nuovo Nomos post-moderno che si intravede al tramonto dello Stato e dell’ordinamento “classico” appare quindi assai meno rassicurante di quello formatosi nell’età moderna.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

(*) Questo articolo è la rielaborazione di un contributo scritto per la rivista nordamericana “Telos”, destinata ad un “Symposium” internazionale sul “Der Nomos der Erde” di Carl Schmitt.

[1] V.M. Hauriou, La théorie de l’institution et de la fondation (essai de vitalisme social), trad. it. in Teoria dell’istituzione e della fondazione, Milano 1967, pp. 15-15.

[2] M. Hauriou op. cit., P. Iª, cap. 1, Sez. II, Paris 1929 p. 41 ss..

[3] E’ la definizione di I. Kant in “Die Metaphysik der Sitten”, p. II, sez. I.

[4] Trattato politico, Torino 1958 p. 196.

[5] V. Vorlesungen über die Philosophie der Geschichte, trad. it., Firenze 1941 p. 212. Hegel prosegue con considerazioni sul diritto “Non sono legati al suolo, e non conoscono niente dei diritti che la convivenza, insieme con l’agricoltura, rende di natura obbligatoria. Questo principio incostante ha costituzione patriarcale, ma prorompe in guerre e rapine interne, ed anche in aggressioni contro altri popoli”.

[6] Nella prefazione alla Zur Kritik der Politischen Ökonomie, trad. It., Roma 1974, pp. 5-6.

[7] Giulio Douhet, Il dominio dell’aria, rist. Roma 1955, p. 9-10.

[8] Scrive Schmitt che i conquistadores (ma lo stesso vale per i coloni inglesi) si spostavano velocemente e per questo sottomisero gli Amerindi: sui vascelli per mare e sui cavalli per terra. La guerra aerea evita anche l’inconveniente di dover cambiare mezzo di trasporto.

[9] VI libro delle Storie.

[10] Du Pape, II, 2.

[11] La démocratie en Amérique, Lib. I°, p. 1, cap. VIII°. Una considerazione analoga faceva Hegel, secondo il quale “L’America del nord…va considerata come uno Stato tuttora in divenire: esso non è ancora tanto progredito da aver bisogno della monarchia. E’ uno Stato federativo: ma questi, per quel che concerne i loro rapporti con l’estero, sono gli Stati peggiori. Solo la sua particolare posizione ha impedito che questa circostanza non causasse la sua totale rovina. Ciò si è visto nell’ultima guerra con l’Inghilterra” e prosegue: “ gli Stati liberi nordamericani non hanno nessuno Stato confinante, rispetto a cui siano nella situazione in cui gli Stati europei sono reciprocamente, uno Stato cioè che debbano considerare con sospetto e contro cui debbano mantenere un esercito stanziale. Il Canada e il Messico non incutono loro timore”. Vorlesungen über die Philosophie der Geschichte, trad. it., Firenze 1941 p. 231. Si noti che sia Hegel che Tocqueville prendono lo spunto per queste considerazioni dal rifiuto di alcuni Stati del New England d’inviare i loro contingenti militari nella guerra del 1812 contro l’Inghilterra.

[12] Ne è un esempio chiaro ed argomentato, tra tanti, il discorso di Stalin al XVII congresso del PCUS (nel 1934): “la guerra si svolgerebbe non unicamente sul fronte, ma pure nell’interno dei paesi dei nostri nemici. La borghesia può essere sicurissima che i numerosi amici della classe operaia dell’U.R.S.S. nell’Europa e nell’Asia tenterebbero di colpire alle spalle i loro  oppressori che avessero ordito una guerra delittuosa contro la patria della classe operaia di tutti i paesi…”. Tale minaccia di Stalin era indirizzata (prevalentemente) alle democrazie liberali. Fu attuata, com’è noto, in tutt’altra direzione.

[13] Il tratto comune tra marxismo-leninismo e fondamentalismo islamico appare non solo quello di prescindere degli Stati (e dei confini) al fine di scriminare amici e nemici, ma anche di depotenziare o negare l’idea di Stato. Se nel marxismo questo è destinato ad estinguersi con l’avvento della società senza classi, nell’Islam – più o meno fondamentalista – appare negata la distinzione tra potere  spirituale e temporale, che nell’idea di Stato dell’Europa moderna è il carattere fondamentale.

[14] Quando poi s’intende applicare un diritto a carattere universalistico (diritti umani) ci s’imbatte  in una contraddizione con i principi dell’ordinamento internazionale. Non solo, il che è evidente con la “chiusura” per cui è lo Stato a decidere cos’è che deve valere come diritto all’interno dell’unità politica; ma anche col principio che, a determinare la “legittimità” di uno Stato non è la conformità delle sue leggi (o comportamenti) a un sistema ideale o anche positivo di norme, ma l’effettività del potere sul (proprio) territorio. Che questo sia un criterio non solo realistico ma anche opportuno è dimostrato dal fatto che riconoscimenti e trattati hanno un senso solo con chi può garantire la pace o minacciare la guerra: ove non sia in grado di fare queste due cose, un trattato con lo stesso è del tutto inutile, e talvolta farsesco.

[15] V. Max Weber Wirtshaft und Gesellshaft, Vol. I°, p. 1, cap. I, prgrf. 10.

[16] A sviluppare coerentemente  certe posizioni di “pacifismo giudiziario” si ha l’impressione si creda di aver risolto l’enigma della storia (e della Provvidenza) invertendo il detto di Hegel Die weltgeschichte ist das weltgericht, e cioè trovato il weltgericht adatto a giudicare e financo a fare la storia del mondo. Ma non è questo il reale rapporto tra Storia e Tribunali (anche autorevoli). Lo prova il fatto che nella veste di giudici stanno sempre i vincitori, in quella d’imputati, i vinti.

[17] In effetti si potrebbe sostenere, a sostegno dell’intervento nel Kosovo, che, di fatto nella regione lo Stato iugoslavo non esisteva più, essendovi una guerra civile. In tal caso, a seguire Kant, non varrebbe più il principio di non intervento v. in “Per la pace perpetua” in Antologia degli scritti politici, Bologna 1961, p. 110; sul tema, ci sia consentito richiamare il nostro scritto “Breve Storia della guerra giusta” in Palomar 2/2002.

[18] Com’è noto tale trattato non è stato ratificato  dagli Stati militarmente più forti del pianeta come gli USA, la Russia e la Cina, e neppure da quelli che verosimilmente avrebbero più occasioni (e tentazioni) per violare le regole istituite dal Trattato, come Israele, l’India o il Pakistan. E’ dubbio quale consistente beneficio per la pace ed il diritto possano apportare norme non applicabili ai (più) probabili trasgressori

[19] V. Précis de droit Constitutionnel  cit. p. 49, Paris 1929, in cui ne descrive le funzioni essenziali (quella riportata nel testo è la prima).

[20] Un esempio classico ne costituisce, a leggere l’Anabasi, quella del satrapo Tissaferne contro i mercenari greci; ovvero come scrive Otto Brunner in “Land und Herrshaft. Grundfragen der territorialen Verfassungsgeschichte Österreichs in Mittelater„ (trad. It. Milano 1983, p. 7) quella dei feudatari nel medioevo: “si da politica – politica spinta sino all’estrema conseguenza della guerra – non solo fra gli “Stati” medievali ma anche al loro interno … i regni medievali  si articolano in poteri locali ai quali competono il diritto ed il dovere di svolgere, entro determinati confini, una politica autonoma sia all’interno che dall’esterno del territorio. Anzi, questa politica, in certe circostanze, può perfino volgersi contro i poteri superiori”.

[21] Inter pacem et bellum nihil medium trad. it. ne lo Stato, X, 1939, pp. 541-548.

[22] In effetti “vecchio” dato che risaliva alle guerre napoleoniche, come ricordato da Schmitt nella Theorie des Partisanen (1963), che lo fa risalire ai guerilleros spagnoli antinapoleonici del 1808-1812. In realtà le prime forme della moderna guerra partigiana devono essere fatte risalire agli insorgenti italiani del 1796-1799 e all’esercito della “Santa Fede” guidato dal Cardinal Ruffo, che riconquistò il Regno di Napoli nel 1799.

[23] Come notato da un grande giurista italiano, Santi Romano, nel 1946, in uno scritto sul partito rivoluzionario: “si tratta di un’organizzazione, la quale, tendendo a sostituirsi a quella dello Stato, consta di autorità, di poteri, di funzioni più o meno corrispondenti e analoghi a quelli di quest’ultimo: è un’organizzazione statale in embrione, che, a mano mano,, se il movimento è vittorioso si sviluppa sempre più in tal senso”, Santi Romano Frammenti di un dizionario giuridico, p. 224, rist. Milano 1983.

[24] Sul che ci permettiamo di rinviare a quanto scritto in Osservazioni sul terrorismo post-moderno in Behemoth n. 30, luglio-dicembre 2001.

saggio del 2003, pubblicato su “Palomar” n. 14 (4/2003)

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NOMINE E AIUTANTATO, di Teodoro Klitsche de la Grange

NOMINE E AIUTANTATO

Nell’imminenza dello scadere del termine  entro il quale la vigente legislazione prescrive che debbano essere confermati o sostituiti i grands-commis statali dopo l’insediamento del governo post-elettorale, si è acceso il dibattito su conferma o ricambio dei suddetti servitori dello Stato.

Ovviamente il PD, il quale a dispetto del fatto di non aver mai ottenuto una maggioranza dei votanti è stato sempre al governo (o nell’area di governo) negli ultimi dieci anni – fatta eccezione per il Governo Conte 1 -, con relative nomine, accusa il governo di voler fare lo stesso: di ricoprire le caselle dei personaggi ossequienti alla nuova maggioranza quanto i loro predecessori a PD (e sodali). Condendo il tutto con l’usuale ricorso alla megliocrazia: che i loro nominati erano bravi, colti, esperti, educati, buoni, umanitari (ecc. ecc.). Mentre quelli nominandi dal governo Meloni sono mediocri, ignoranti, dilettanti, ecc. ecc. Argomento involontariamente comico: se l’Italia avesse avuto una tecno-burocrazia così eccellente non si capisce come – da trent’anni – sia ferma, anzi in decadenza. O meglio la spiegazione è meno confortante per il PD di quanto lo sia ritenerne corresponsabile la dirigenza burocratica.

Ma, a parte la propaganda, il rapporto tra potere burocratico, potere politico, ma soprattutto democrazia è uno dei principali dello Stato moderno. Già agli albori, durante la rivoluzione francese (cioè nello Stato allora “forse” il più burocratizzato del pianeta) i rivoluzionari lo avvertivano ampiamente. Sia nelle correnti (e soluzioni) più moderate; ma più chiaramente e decisamente alla Convenzione la tensione tra dirigenza eletta dal popolo e civils servants è percepita e “risolta” dai giacobini. Saint-Just diceva alla Convenzione “Tutti coloro che il governo impiega sono parassiti… e la Repubblica diventa preda di ventimila persone che la corrompono, la osteggiano, la dissanguano… gli uffici hanno preso il posto delle monarchie… il servizio pubblico, come è esercitato, non è  virtù, è mestiere… C’è un’altra classe corruttrice, è la categoria dei funzionari

Del pari Robespierre riteneva “L’interesse del popolo è il bene pubblico; l’interesse di un uomo che ha una carica è un interesse privato. Per essere buono il popolo non ha bisogno d’altro che di anteporre se stesso a ciò che gli è estraneo, il magistrato, per essere buono, deve sacrificare se stesso al popolo”. Da ciò la necessità di controllarli.

È inutile continuare col ricordare tutti i pensatori che hanno giudicato come antitetiche burocrazia e democrazia. La soluzione – nelle varie applicazioni che ha avuto –  come osservava Max Weber, è stata di sottoporre gli apparati burocratici all’indirizzo, nomina e controllo di un vertice politico, responsabile verso il corpo elettorale e quindi “rimovibile” a scadenza fissa. Un vertice non necessariamente fornito delle caratteristiche fondamentali della burocrazia (sapere specializzato, durata del rapporto, selezione “dall’alto”, professionalità) proprio perché di designazione e conferma “dal basso”.

Se non fosse così, o si dovrebbe ricorrere alle istituzioni delle poleis democratiche, dove tutte – o quasi – le cariche erano elettive, ovvero se i burocrati apicali non fossero responsabili verso il vertice politico (e conservassero i propri connotati tipici) dire addio alla democrazia possibile.

Max Weber nel distinguere la figura del capo e del funzionario da un particolare valore alla “specie di responsabilità dell’uno e dell’altro”. Il funzionario ha come dovere di eseguire un ordine, anche se non lo condivide “come se esso corrispondesse alla sua intima convinzione, mostrando con ciò che il suo sentimento del dovere di ufficio è superiore alla sua volontà personale”; di converso, prosegue Weber «Un capo politico che agisse in questo modo meriterebbe disprezzo… se egli non trova il modo di dire al suo superiore – sia esso il monarca o il demos – “o ricevo adesso questa istruzione o me ne vado”, vuol dire che è un “rammollito” come Bismarck ha battezzato il tipo». Questo se capo e funzionario seguono l’ethos del rispettivo ruolo.

Ma se non lo seguono la questione cambia; in Italia vige il nicodemismo ma soprattutto la sfrontatezza coniugata all’ambizione di voler occupare posizioni pubbliche pur riservandosi il diritto di sindacare o mal eseguire le direttive “dall’alto”. Delle quali la pretesa ad esercitare la funzione senza la fiducia del vertice politico è l’aspetto più eclatante. Che è poi un “capitolo” della mentalità consociativa tutt’altro che sminuita dalla “bipolarizzazione” la quale ha ispirato la legislazione elettorale dell’ultimo trentennio.

Cambiare i vertici amministrativi della pubblica amministrazione non è così una lesione alla democrazia, ma il rispetto della volontà popolare espressa nelle votazioni e della responsabilità che ne consegue. Anche perché il ruolo della dirigenza generale e del vertice politico è ordinato (tra l’altro) dall’art. 4 del D.lgs. 165/2000 il quale per il vertice dispone “Gli organi di governo esercitano le funzioni di indirizzo politico-amministrativo, definendo gli obiettivi ed i programmi ad attuare ed adottando gli altri atti rientranti nello svolgimento di tali funzioni, e verificano la corrispondenza dei risultati dell’attività amministrativa e della gestione agli indirizzi impartiti. Ad essi spettano in particolare:… e) le nomine, designazioni ed atti analoghi ad essi attribuiti da specifiche disposizioni”; mentre “Ai dirigenti spetta l’adozione degli atti e provvedimenti amministrativi, compresi tutti gli atti che impegnano l’amministrazione verso l’esterno, nonché la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa… Essi sono responsabili in via esclusiva dell’attività amministrativa, della gestione e dei relativi risultati”.

Il fatto che diverse norme di legge dispongono la “conferma” (o la sostituzione) dell’apice della dirigenza burocratica al cambiamento del vertice politico risponde al “circuito” democratico: per il quale chi governa deve avere il consenso dei governati, attuarne la volontà e avere la responsabilità verso i medesimi. E quindi il potere di controllare, sostituire e confermare coloro che – non essendo “funzionari onorari” ma di carriera, non sono nominati né confermabili dal corpo elettorale. Verso il quale quello di nominare gli apici dirigenziali non è un diritto ma un dovere. Una responsabilità cui non ci si può sottrarre.

Teodoro Klitsche de la Grange

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PIÚ DIKE TIMIDAMENTE, di Teodoro Klitsche de la Grange

PIÚ DIKE TIMIDAMENTE

Ha suscitato un discreto dibattito la riforma della giustizia tributaria impostata e realizzata dalla ministra Cartabia. Molti ne hanno evidenziato la timidezza, altri la congruità, non pochi l’hanno considerata un’occasione mancata.

A mio avviso per valutarne la portata “ordinamentale” (che brutta espressione!) occorre risalire sia a principi e norme costituzionali, sia alle innovazioni in materia di giustizia tra pubbliche amministrazioni e cittadino, in particolare nell’ultimo trentennio.

Al riguardo ho sostenuto più volte (v. da ultimo “Temi e Dike nel tramonto della Repubblica”) riprendendo così delle tesi di Maurice Hauriou, che in ogni Stato vi sono due giustizie: una paritaria e intergroupale, che il grande giurista chiamava Dike, l’altra non paritaria (e intra)istituzionale, che denominava Temi. Le quali corrispondevano al diritto (sostanziale) comune la prima e a quello istituzionale la seconda.

Nessuna istituzione politica ne può prescinderne, nel senso che in ogni ordinamento, anche il più liberale o, all’opposto, il più autoritario, v’è comunque un po’ dell’una e dell’altra (come del diritto sostanziale corrispondente).

L’una e l’altra rientrano nel rapporto (presupposto del “politico”) tra comando e obbedienza, autorità e libertà (secondo una definizione fortunata e ripetuta, anche se un po’ imprecisa).

Facevo notare in quei lavori che nell’ultimo trentennio, il rapporto tra potere pubblico e cittadini aveva preso una piega tale da aumentare la disparità (a favore del primo), ad onta del fatto che la novella all’art. 111 della Costituzione aveva disposto che le parti stanno in giudizio in condizione di parità. Anzi l’aver affermato solennemente con la modificazione costituzionale il principio di parità aveva incentivato il proliferare di norme legislative che di diritto o di fatto lo riducevano, così come di comportamenti amministrativi contrari alla “parità”.

Sotto tale profilo indubbiamente la riforma Cartabia, senza avere nulla di travolgente, ha un suo indiscutibile pregio: che ha invertito la tendenza ad aumentare la disparità, anzi riducendola. Le norme – ancorché non chiarissime, sull’onere della prova e sull’ammissibilità di quella testimoniale (scritta) nonché quella sull’aumento delle spese (per rifiuto ingiustificato di conciliazione) riducono la disparità tra amministrazione e contribuenti (in lite). In senso opposto è la previsione del rapporto tra Giudici tributari e Ministero dell’Economia, che è una delle parti (sostanziale) del processo.

C’è un altro aspetto in cui l’intervento risulta positivo: l’aver “professionalizzato” la nomina dei magistrati tributari, prevedendo per quelli da assumere il possesso della laurea (magistrale) in giurisprudenza o economia. Se si  vanno a leggere gli artt. 4 e 5 del D.Lgs. 545/92 (abrogati) nelle commissioni potevano essere nominati anche: ragionieri, periti commerciali, revisori dei conti, abilitati all’insegnamento in materie giuridiche, economiche e ragionieristiche, ingegneri, architetti, agronomi (e altro).

Era stato anche notato che il 47% dei ricorsi in Cassazione avverso le sentenze dei giudici tributari era accolto ed era interpretato nel senso di una scarsa capacità di agronomi, ragionieri, ecc. ecc. ad applicare il diritto (il dato era tuttavia contestato quale sintomo di…scarsa perizia). Resta il fatto che prescrivere dei requisiti più “stringenti” per la nomina, dovrebbe portare ad un miglioramento della competenza professionale dei magistrati; ma potrebbe concorrervi anche la previsione del concorso (invece che della precedente nomina su elenchi).

È comunque incontestabile che, pur nella sua timidezza, la riforma ha capovolto l’andazzo trentennale voluto soprattutto dal centrosinistra, onde i diritti da proteggere erano quelli che avevano meno occasioni di essere esercitati: così quello  all’eutanasia, al matrimonio tra omosessuali, all’adozione “allargata”, alla gravidanza a pagamento, ecc. ecc. E per questo anche quelli che hanno meno possibilità che ne fosse richiesta la tutela in giudizio. Per gli altri, di converso, oggetto di contenzioso, di cui costituiscono la stragrande maggioranza delle liti, come i rapporti di lavoro (pubblico e privato), i contratti, la proprietà, ecc. ecc., le obbligazioni della P.A., le imposte, ecc. ecc., si faceva poco o niente per rendere più agibile la giustizia.

Anzi, se controparte ne erano le pubbliche amministrazioni si aumentavano deroghe e privilegi della parte pubblica. Resta comunque molto lavoro da fare, nello steso senso e in termini più generali. Un controllo giudiziario fiacco e ostacolato è uno dei migliori sostegni di un’amministrazione inefficiente e predatoria.

C’è da chiedersi perché proprio alla fine del trentennio della seconda repubblica è stata emanata questa norma di segno contrario alla pratica filo-statalista seguita prima. Forse per l’evidenza che norme come quelle modificate stridevano con principi e testo della costituzione, onde se ne sacrificano alcune per conservarne altre, facendo tuttavia “bella figura”, come per la modifica dell’art. 111, rimasto disapplicato o poco applicato.

L’importante è procedere nella strada appena iniziata anche resistendo alle critiche (usuali e prevedibili) di chi dirà che colpa dell’evasione è d’aver ripartito paritariamente l’onere della prova. Cui si può fin d’ora replicare che se per sostenere un fatto basta affermarlo (senza provarlo), un precetto del genere legittima qualsiasi abuso.

Teodoro Klitsche de la Grange

EUROTARTUFO II, di Teodoro Klitsche de la Grange

Tra i tanti commenti, rivelazioni, dichiarazioni (e anche confessioni) in relazione al Qatargate, mi ha colpito l’intervista ad un giovane eurodeputato del PD. Ciò perché sosteneva che gli esponenti del PD  (“campo largo”, cioè anche i passati ad articolo 1) erano stati finanziati dal paese arabo, in quanto erano i più decisi difensori dei “diritti umani”. Dove la necessità, per gli emiri, che fossero tali paladini ad asseverare la maturità liberale del Qatar.

Il ragionamento che ha una qualche consistenza (chi chiederebbe a Cicciolina di certificare l’illibatezza della figlia da maritare?) ha però tanti altri punti deboli. Ci aiuta a capirli il personaggio di Fra Timoteo nella “Mandragola”. Machiavelli descrive alla perfezione il “tipo” dell’:a) ipocrita b) in vendita. In primo luogo il frate è scelto per convincere Lucrezia all’adulterio perché è il confessore della donna e della madre: le quali hanno pertanto fiducia nella di esso santità e dottrina. E in effetti il primo requisito per essere corrotti è proprio quello di ottenere fiducia: un sant’uomo (o che pare tale) è quindi il prescelto per… far peccare Lucrezia.

Il secondo è che Ligurio e Callimaco sanno che è un corrotto, disposto a sostenere qualsiasi tesi, purché a pagamento. Per cui santità e dottrina sono strumenti  dell’arricchimento del frate. Il quale tra se e se meditando sull’incarico – accettato – di persuadere Lucrezia, dice “Messer Nicia e Callimaco sono ricchi, e da ciascuno, per diversi rispetti, sono per trarre assai” e proseguendo “perché madonna Lucrezia è savia e buona: ma io la giugnerò (convincerò) in sulla bontà”. Abusare della fiducia e ingenuità dell’interlocutore è la risorsa di frate Timoteo. Nel caso del Qatargate, e del carattere pubblico delle attività  da ingannare e l’opinione pubblica, presentando come opere di bene quelle che sono opere di soldi. Va da se che in tempo di secolarizzazione si ridimensiona (ma non del tutto) la giustificazione di fra Timoteo di usare il compenso della corruzione per fare “limosine”. Giustificazione che ricorre in tanti altri casi (attuali). E non è escluso che parte di quei soldi vadano alle ong messe su dal (principale) accusato. Anzi dal Sudafrica sono in arrivo novità sul punto. Aspettiamo, fiduciosi nell’intuito di Machiavelli.

Teodoro Klitsche de la Grange

L’EUROTARTUFO, di Teodoro Klitsche de la Grange

L’EUROTARTUFO

Colpisce la sorpresa per quanto accade all’Europarlamento, alcuni dei membri del quale sono accusati – e trovati dagli inquirenti letteralmente con le mani nel sacco – per aver caldeggiato, dietro compenso – il campionato di calcio nel Qatar. Sorprende non solo perché tanti dimenticano quanto scritto da Max Weber che, in genere i governanti non vivono solo per la politica, ma anche di politica (con quel che ne può conseguire sotto il profilo penale); ma anche perché a leggere Sallustio gli stessi mezzi erano adoperati da  Giugurta per influire sulla decisione del Senato e dei magistrati romani. Racconta Sallustio che più sulle capacità e potenza militare del pur valoroso re numida, i romani dovettero guardarsi dalla sua perizia di corruttore, attraverso la quale riusciva a conseguire ciò che voleva e a evitare le conseguenze delle proprie azioni, alterando i processi decisionali della repubblica egemone. Così un potentato medio-piccolo come quello di Giugurta resistette per oltre sei anni alla potenza di Roma. Per cui orientare le decisioni politiche della potenza superiore è, da almeno venti secoli, una risorsa da utilizzare proficuamente dai potentati minori.

Ma quel che maggiormente colpisce è che, nelle istituzioni europee usano i buoni propositi (diritti umani, migranti) per occultare le cattive azioni (le tangenti), come abitualmente e prevalentemente dalla sinistra italiana (e non solo).

Anche questo è un vecchio espediente. Ne diede una straordinaria rappresentazione Moliére nel Tartufo, quasi quattro secoli fa. Nella commedia c’è in primo luogo, ma poco notato, un aspetto politico evidenziato da Moliére stesso: il quale nella prefazione scrive “L’ipocrita, è per lo Stato, un pericolo più grave di tutti gli altri”: per lo Stato quindi, ancor più (o alla pari) che per la religione. Nel primo “placet” rivolto al Re perché revocasse la proibizione di rappresentare in pubblico la commedia, ribadiva che “l’ipocrisia è sicuramente uno dei vizi più diffusi, dei più scomodi e dei più pericolosi”. Onde è un servizio descrivere “gli ipocriti…che vogliono far cadere in trappola gli uomini con un falso zelo ed una sofisticata carità”. In effetti i connotati di Tartufo sono i più pericolosi per lo Stato. Gli ipocriti pubblici nascondono progetti ed intenzioni inutili al pubblico interesse, e talvolta delittuose, finalizzate ai propri interessi privati e personali, con il richiamo a opinioni ed interessi condivisi e generali. I diritti umani, la pace, l’assistenza ai migranti sono le buone intenzioni usate per nascondere interessi concreti.

Al riguardo nella commedia Dorine (cioè la cameriera) commenta i discorsi edificanti di Tartufo così: “come sa bene con modi traditori, farsi un bel mantello con tutto ciò che è venerato”.

Il bello è che Tartufo lo giustifica anche. Nel dialogo con Elmire, la moglie del di esso benefattore, che vuole sedurre ma la quale gli fa notare che quanto desidera è contrario alla legge divina, argomenta “Se non è che il cielo che viene opposto ai miei desideri…, con lui si possono trovare degli accomodamenti… col rettificare la malvagità dell’azione con la purezza della nostra intenzione”. Così l’intenzione buona “purifica” l’azione cattiva. È un’assoluzione preventiva.

La quale svuota la stessa azione politica, che è (soprattutto) una fase in virtù di risultati, e solo in seconda battuta un predicare del bene. Così il criterio principale per giudicare se un’azione è politicamente proficua o meno, non è verificare se corrisponde a buoni propositi, largamente condivisi, ma se ottiene risultati positivi.

D’altra parte è evidente che col richiamo continuo e prevalente alle buone intenzioni oltre che assolversi dalle cattive opere, i politici tendono ad assomigliare ai sacerdoti. Hobbes (tra i tanti) sosteneva che funzione dei quali è predicare il bene (la parola di Cristo, oggi, per lo più, quella più facilmente condivisa) e non di comandare (e costringere).

E fin qui nulla di male. Ma se il bene predicato si converte in cattive azioni, la santità che dovrebbe produrre si converte in una via comoda per l’arricchimento a spese di chi paga. Cioè dei contribuenti, i quali contribuiscono, a differenza di chi spontaneamente dona il proprio per le buone cause, per il comando di chi predica. Volontario nel primo caso, frutto di coazione nell’altro.

Teodoro Klitsche de la Grange

COLPA DI LETTA?_di Teodoro Klitsche de la Grange

COLPA DI LETTA?

È diventato un esercizio normale già da alcuni mesi prima delle elezioni politiche, prendersela con il segretario Letta, per il loro prevedibilissimo esito, disastroso per il PD, puntualmente verificatosi.

Intendiamoci: Letta ci ha messo del suo. Dalla proposta di aumento dell’imposta di successione per la “dote” ai giovani, al campo largo, che invece era, come prevedibile, stretto, ecc. ecc. Tuttavia farne carico al segretario appare viziato da un errore di valutazione sul quale è opportuno spendere qualche riga.

Partiamo da una considerazione: vi sono due modi estremi e opposti di valutare gli eventi storici: il primo è farne una conseguenza di fattori non individuali né dipendenti da scelte soggettive. Un esempio classico è la filosofia della Storia di Hegel per il quale questa è l’attuazione del piano della provvidenza. Lo spirito del mondo genera la storia; il ruolo dell’azione umana è così secondario, i protagonisti hanno successo in quanto attuano il piano della provvidenza. In questo senso il pensiero di Hegel è il tipo ideale della concezione “determinista”. L’altro è rapportare gli eventi a cause per lo più consistenti in attività (e passioni) umane. Così è stato interpretato come causa principale della caduta dell’Impero romano d’occidente il contrasto tra Ezio e Bonifacio e la conseguente perdita dell’Africa romana. In termini mediani, come nel pensiero di Machiavelli, si può pensare che se da una parte c’è l’influenza della fortuna, (quindi non riconducibile a una volontà di coloro che la subiscono) dall’altra c’è la virtù con la quale si limitano e s’indirizzano (almeno in parte) gli eventi causati dalla fortuna. E proprio quando la fortuna è avversa, occorre che i governanti siano più dotati di virtù.

A servirsi di tali strumenti interpretativi la tesi della scarsa fortuna del PD come dipendente dalla “colpa” di Letta non regge o regge come concausa limitata: un po’ perché tutti i suoi recenti predecessori quali Segretari hanno fatto altrettanti buchi nell’acqua; un po’ perché anche da questo, è confortata l’opinione opposta che sia la proposta politica del PD (ed i relativi mezzi) ad essere inadeguati e contrari alla “corrente” della storia contemporanea.

Come mi è capitato di scrivere più volte, con il crollo del comunismo è venuta meno la contrapposizione borghesia/proletariato con i relativi sentimenti politici.

La cui conseguenza è stata l’eclissarsi del senso politico (cioè dell’opposizione amico-nemico) e della funzione politica delle conseguenti istituzioni anche economiche e sociali. Come i partiti comunisti i quali o scompaiono e/o si mimetizzano o cambiano radicalmente (come quello cinese); od anche di istituzioni come la NATO e il Patto di Varsavia (logicamente sciolto) delle quali si capisce che ci stiano a fare: sicuramente a comunismo imploso non hanno la funzione di prima.

Tuttavia il sentimento politico cioè in primo luogo la percezione del nemico (anche come differenza etica) è elemento necessario non solo della guerra (Clausewitz) ma anche della politica (Schmitt). Senza di quello la politica (e il rapporto tra vertice e base) perde di tensione. Ed è progressivamente sostituito da un’altra contrapposizione amico-nemico: quella vecchia viene neutralizzata e ne diminuisce così la capacità di suscitare opposizioni decisive e primarie; tutt’al più conserva quella di suscitare conflitti relativi e secondari. E chi lo interpreta ne subisce la sorte: dal ruolo di protagonista decade a quello di comparsa.

La risposta del PD (e antecedenti) a questa cesura storica è stata quella di cambiare nome (anzi nomi): escamotage poco remunerativo perché da una parte i dirigenti erano gli stessi (quindi poco credibili) dall’altra elementi della vecchia opposizione erano conservati – soprattutto i più utili a tenersi il potere.

Dato però che un nemico era necessario e così delle idee da sventolare in sostituzione delle vecchie, o almeno di alcune (l’antifascismo ha resistito alla rottamazione) il nemico è diventato chi si oppone all’ideologia gender, alla famiglia nouvelle vague, chi è convinto delle radici giudaico-cristiane dell’Europa, ecc. ecc. Rispetto al vecchio nemico, cioè l’imperialismo capitalistico, il minimo che si possa dire è che è un po’ poco: più che mettere paura, spesso fa ridere. Ovvero, come l’antifascismo – e l’anticomunismo – è depotenziato in se.

Tale situazione dipende dalla storia e gli uomini, in particolare i dirigenti italiani di sinistra, l’hanno subita e non causata. In relazione alla quale poco si può fare. Anche se il PD fosse stato guidato non da Fassino, Letta o Bersani ma da Cavour o da Bismarck (o come scriveva Hegel da Cesare o da Napoleone) l’esito difficilmente sarebbe stato diverso. Perché, come sostiene il filosofo, carattere distintivo degli individui cosmico-storici è di attuare lo spirito del mondo: è questo a renderli differenti dagli altri e capaci di padroneggiare i cambiamenti.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

LA SOCIETÁ DEI DIRITTI E IL DILAGARE DEI DIVIETI, di Teodoro Klitsche de la Grange

PREFAZIONE

Sottopongo ai lettori di Italia e il Mondo un mio intervento svolto ad un congresso del PLI nel 2005, perché la tematica ivi trattata appare ancora – anzi forse di più – di attualità. Sostenevo lì che: a) la visione dello Stato come “oppressivo” e “conculcatore” di diritti era non errata ma parziale b) questo perché lo Stato sociale come sviluppatosi nel ‘900 era connotato anche dall’aver assunto, quale proprio compito, l’erogazione di prestazioni assai superiori a quelle dello Stato ottocentesco c) e così aveva esteso il proprio obbligo di protezione non solo all’esistenza collettiva ed individuale (al “vivere” crociano) ma anche al “ben vivere”: la c.d. “libertà dal bisogno”.

Diritti relativamente ai quali la Repubblica italiana dimostrava un’incapacità gestionale non meno inferiore a quella dimostrata nel compito di protezione “tradizionale”.

Ne indicavo alcune delle cause, in particolare il malvezzo di fare leggi – manifesto, presentate con lessico accattivante, e soprattutto gratificante per i legislatori e l’uso a tal fine di sanzioni afflittive, ripristinatrici di legalità (e perfino di moralità) offesa.

Sanzioni afflittive poste (quasi) sempre a carico dei cittadini. Con l’inconveniente – data la scarsa capacità dell’amministrazione di gestirne l’esecuzione – di essere poco efficaci al fine, esternato e “legittimo” di promuovere la legalità. Meglio sarebbe stato accompagnarle con sanzioni premiali (come ad esempio i condoni): i quali però non sono “remunerativi” per la probità (o la santità) di chi li impone. Pochissime poi le sanzioni a chi la legge non la fa rispettare. È cambiato molto?

“LA SOCIETÁ DEI DIRITTI E IL DILAGARE DEI DIVIETI”

di Teodoro Klitsche de la Grange

Il tema di oggi, evidentemente riferito alla società italiana odierna, è riduttivo, nel senso che dà per scontato che carenze e difficoltà attuali siano riferibili ad un eccesso di divieti e ad una compressione continua e crescente delle libertà pazientemente costruite in Europa negli ultimi secoli, in particolare quelle riferite alla sfera economica.

Non è così: contribuisce infatti a questa formulazione (che non è in se errata, ma parziale) sia una generale e progressiva svalutazione dello Stato contemporaneo, cui contribuiscono solidaristi cattolici, leghisti, liberals, da cui lo Stato è visto come conculcatore sia di diritti individuali, che delle comunità intermedie e in cui si nota come abbiano preso del termine Stato solo uno dei significati correnti, anche se il più frequente. In effetti con tale termine si può intendere (come fanno i critici) l’apparato amministrativo (in senso lato) per cui lo Stato è il carabiniere, il Procuratore della repubblica o l’esattore delle imposte; ovvero l’entità che da forma e “personalità” alla comunità; o anche l’istituzione che protegge l’esistenza di quella. E si può parlare di un’idea e anche di un’ideologia dello Stato, come forma politica basantesi su propri presupposti ed esigenze, in particolare quelli fatti propri dal razionalismo moderno, e prodotto (secolarizzato) del cristianesimo occidentale.

Per cui che lo Stato sia sinonimo di oppressione appare affermazione azzardata perché parziale, anche se non (del tutto) infondata: in fondo è quella forma di organizzazione del potere con cui si è cercato da un lato di dare effettività e certezza alla tutela dei diritti e alla protezione dell’esistenza (individuale e) collettiva (cosa che le monarchie feudali non facevano o facevano in modo approssimativo, parziale e imprevedibile). Per cui appare vero che “Lo Stato è la realtà della libertà concreta” (v. G.G.F. Hegel prgr. 260, Grundlinien der Philosophie des rechts trad. di V. Cicero) e come scrive Hegel subito dopo “la libertà concreta consiste nel fatto che la singolarità personale ed i suoi interessi particolari, per un verso, hanno il loro sviluppo completo e il riconoscimento del loro diritto per sé (nel sistema della famiglia e della società civile); per altro verso, invece, essi in parte passano da se stessi nell’interesse dell’universale, e in parte, con il loro sapere e volere, riconoscono l’universale stesso: precisamente, lo riconoscono come loro proprio Spirito sostanziale, e sono attivi in vista di esso come in vista del loro fine ultimo. Per cui “Il principio degli Stati moderni ha questa immane forza e profondità: esso fa sì che il principio della soggettività si compia fino all’estremo autonomo della particolarità personale, e, a un tempo, lo riconduce nell’unità sostanziale, conservando così quest’ultima in quel principio stesso”.

In altre parole allo Stato è connesso un compito (ed un valore) di libertà (oltre che di razionalità) nella protezione e nello sviluppo dei diritti particolari e non solo collettivi.
Ripeto questo anche perché tra i “Sacri testi” del liberalismo ve n’è uno, Il “Discorso sulla libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni” di B. Constant, più volte ripreso dal pensiero politico moderno che si può interpretare e da molti è stato interpretato (in parte a ragione) – come contrapponente il concetto di libertà degli antichi, consistente nel diritto dei cives a partecipare alla formazione della volontà pubblica (cosiddette libertà di), cioè una concezione partecipativa e politica della libertà, all’altra moderna, che vede la libertà consistere essenzialmente nelle garanzie dei diritti individuali e privati dei cittadini dal potere, cioè soprattutto dalla più potente espressione del potere pubblico: quello statale (libertà da). Anche se le libertà di o da, in particolare le prime, hanno un carattere essenzialmente politico lo Stato (in genere) e quello moderno, in particolare, ha sviluppato tutta una serie di diritti (non politici), a carattere pretensivo nei confronti dell’apparato pubblico: per cui accanto a dei doveri, consistenti nel non conculcare libertà (personali, economiche, religiose) coesistono degli obblighi a carico dell’apparato a soddisfare delle pretese riconosciute ai cittadini. E questi obblighi sono non meno importanti, anzi forse di più, di quei doveri.

 

  1. Ho fatto tale premessa perché il tema di questa giornata che contrappone diritti e divieti sembra più adatto a caratterizzare una discussione sulla difesa dal potere pubblico che quella sulla attuazione-realizzazione degli obblighi dello Stato nei confronti dei cittadini. Come se quella fosse più importante di questi.

Non è così: la categoria delle inadempienze della Repubblica italiana è (purtroppo) assai più vasta di quanto potrebbe desumersi dall’abbondanza dei divieti, e dai prelievi imposti da questo apparato pubblico più famelico che efficiente, il quale può definirsi parafrasando il verso di Leopardi sulla natura “non rende poi quel che preleva allor”. E questo assetto concreto non è l’attuazione del concetto (dell’idea) di Stato, ma la di esso perversione, perché contraddice ai connotati dell’idea: per citare Hegel invece che di compito di “sviluppo” dei diritti si può parlare tranquillamente di “freno” e “compressione”; quanto all’ “unità sostanziale” e alla “protezione” (Hobbes, Hauriou) la Repubblica ha fatto il possibile per ridurre l’una e conferire la seconda, in gran parte, ad altri (in particolare gli USA).

Stiamo parlando di diritti e di divieti. I “divieti” possono operare in due modi: esplicito o implicito. Il secondo più diffuso e pericoloso del primo perché sabota in concreto ciò che riconosce in astratto. Vediamo come, partendo da un settore particolarmente importante come la giustizia penale.

Se la giustizia civile arriva, per lo più, con grande ritardo, quella penale ha un difetto anche peggiore: quello di non riuscire (quasi sempre) a partire. Il fatto che oltre l’80% dei procedimenti penali siano archiviati in istruttoria significa che, tranne, in alcuni casi, modeste investigazioni della polizia giudiziaria, le “notitiae criminis” non sono istruite e passano direttamente dalla scrivania degli istruttori (cioè i P.M.) agli archivi delle Procure. Se in Italia la giustizia civile (e anche quella amministrativa) richiamano alla mente l’immagine di un treno accelerato, quella penale, invece, le automobili nei cortometraggi degli anni ’20, che facevano disperare gli autisti per mettersi in moto a forza di giri (inutili) di manovella.
Infatti i dati più recenti (sostanzialmente poco peggiorativi di quelli degli anni ’90) indicano che dell’87% delle notitiae criminis pervenute al P.M. viene chiesta l’archiviazione in istruttoria (cioè non si arriva né all’individuazione di un responsabile né di un reato perseguibile); che le notitiae criminis denunciate sono il 36% dei reati commessi (cioè il più basso indice tra gli Stati sviluppati, dal Giappone all’Europa occidentale agli USA, dove oscilla tra il 65 e l’80%) onde in definitiva la percentuale della condanne definitive rispetto ai reati commessi è (con buona approssimazione) intorno all’1% dei reati. Percentuale da prefisso teleselettivo. Con l’aggravante che incide su un compito “classico” e non “privatizzabile” dello Stato, cioè la protezione, e la garanzia dei diritti, tra cui quello alla vita.
Per cui tale compito dello Stato, uno dei più importanti per legittimare, come scriveva Hobbes, la pretesa all’obbedienza, diventa attuato e concreto in circa l’1% dei casi. È solo il carattere mansueto del popolo italiano che fa sopportare una situazione del genere.
Se dalla giustizia passiamo ad altri settori, in particolare a quelli incidenti sui rapporti economici, lo scenario è – spesso – simile. Anni fa fu pubblicata una statistica per cui il tempo medio di rilascio di una concessione edilizia (nel Comune di Roma) era di trenta mesi; oltre al fatto che, prima di alcune semplificazioni del procedimento di rilascio, apportate negli anni ’80, praticamente ogni attività edilizia era soggetta a concessione. Diceva uno spirito laico e libero come il defunto amico Caianiello, illustre magistrato e giurista, che sarebbe stato necessario il consenso del Comune anche per appendere in salotto un quadro di Fantuzzi al posto di quello di Omiccioli.

Per entrare nell’“euro” i governi di centro-sinistra italiani hanno, con una serie di norme, reso più lenta e complicata l’esecuzione per somme pecuniarie nei confronti delle P.P.A.A.: una moratoria surrettizia. E si potrebbe continuare per ore a citare casi del genere. Ma dov’è il comune denominatore di tutte queste (volute) vessazioni dei diritti del cittadino? E l’assenza o l’inefficienza dei controlli sui funzionari e in genere sulle amministrazioni; per cui il potere pubblico è benigno con amministratori e funzionari quanto arcigno con i cittadini. Facciamo un esempio tra tanti: l’art. 14 del D.D.L. 31/12/1996. Tale norma s’intitola “esecuzione forzata nei confronti delle pubbliche amministrazioni”, ed è inserita in un provvedimento legislativo di “accompagnamento” della finanziaria ’96, quella che, più di ogni altra, doveva produrre il risanamento dei conti pubblici e consentire l’ingresso nel sistema monetario europeo. Tale disposizione di legge prescriveva l’obbligo per le P.P.A.A. di pagare i creditori muniti di titolo esecutivo giudiziale entro 60 giorni (successivamente portati a 120). Poco male, se nella stessa norma non fosse anche disposto “Prima di tale termine il creditore non ha diritto di procedere ad esecuzione forzata nei confronti delle suddette amministrazioni ed enti, né possono essere posti in essere atti esecutivi”: con ciò l’obbligo prescritto alla P.A., di pagare entro sessanta giorni, diventava il dovere, per il creditore, di attendere, senza poter concretamente eseguire quanto, si noti, comandato a suo favore da sentenze e atti dell’autorità giudiziaria. Dilazione che era, come detto, sei volte superiore a quella prescritta al creditore di un privato. Ma quel che soprattutto rende tale norma una “zeppa” concepita per dilazionare i pagamenti senza alcuna considerazione per i diritti sacrificati, è l’assenza di una sanzione (specifica) per l’inadempimento. All’istituzione di una (nuova) dilazione di 60 giorni, non corrisponde la prescrizione di alcuna conseguenza pregiudizievole per l’amministrazione (e il funzionario) inadempiente: né civile, né amministrativa, né contabile, né penale. In altri termini, una “grida” in perfetto stile manzoniano, il cui fine, in tutta evidenza, è solo quello di ritardare l’esecuzione di obblighi giudizialmente statuiti: con l’aggravante che, di solito, chi realizza un proprio credito dopo un processo, sta aspettando da cinque – dieci anni, come risulta dalle statistiche sulla durata dei processi civili; e, se è stato costretto a rivolgersi al Giudice, in genere lo è perché non ha “buone entrature” nella pubblica amministrazione. In questo (e tanti altri casi) il tutto poteva e può migliorarsi istituendo sanzioni personali, miti ma di sicura applicazione a carico del funzionario responsabile dell’omissione, al posto o accanto a quelle che presupponevano l’esistenza di uno Stato funzionante (come quelle penali o quelle civili e contabili in vigore, ormai largamente desuete e/o inefficaci): ma è chiaro che un’amministrazione e una burocrazia che risponde solo all’autorità superiore è da un lato portata a temere solo quella; dall’altro a condividere i profitti del sistema, diventandone complice.

  1. Una delle soluzioni che più piacciono in particolare al centro-sinistra, fornito largamente di una mentalità giustizialista e (sedicente) moralista (ma più che la morale di Kant, vi si notano gli ultimi sprazzi di quella di Viscinsky) è di far leggi che sanzionano istituendo talvolta reati, talaltra pene pecuniarie, (oltre a sequestri, confische, fermi e via sanzionando l’amministrato).
    Chi non crede alla legittimità e opportunità di tale armamentario sanzionatorio è indicato come pubblico peccatore, nonché pervertitore della morale, della legalità e dei buoni costumi.
    In effetti dubitare di tale apparato è non solo legittimo, ma anche generalmente fondato, atteso i dati sull’efficienza non solo della giustizia penale, ma in genere di (quasi) tutte le amministrazioni. Tuttavia quando si ricorre, anche a causa di quella modestissima efficienza, allo strumento del condono, lai ed anatemi sulla legalità tradita s’intensificano.
    Occorre invece ricordare che ogni sistema giuridico – ogni ordinamento – si fonda sul coniugare e far cooperare interessi pubblici e privati (Jhering) con varie tecniche, principale quella di applicare sanzioni; ma queste sono di due tipi: quelle afflittive e quelle premiali (oltre a una terza categoria, ch’è il misto delle precedenti).

È chiaro che i politici del centro-sinistra privilegia la prima: quale miglior occasione per fare “passerella” nel presentarsi (pubblicamente) come il difensore dei “valori”, della morale, della legalità ecc. ecc.; e quale prova migliore che portare a sostegno di tali sermoni autoreferenziali qualche legge criminalizzante? Od opporsi a condonare qualche reato? Anche perché un simile “operare” è, per lo più, innocuo: dato il tasso di efficienza della giustizia penale, queste leggi non sono altro che “grida” di manzoniana memoria. Per cui si fa bella figura con i benpensanti, strizzando l’occhio ai rei: che male vi fo, facendo norme destinate a non applicarsi quasi mai, quindi quasi tutte innocue? Aventi lo stesso carattere di quelle dell’ancien règime: in cui a norme severe si accompagnava una pratica fiacca, secondo il giudizio di Tocqueville.
Norme del genere sono destinate alla disapplicazione, e talvolta all’applicazione selettiva (con buona pace dell’isonomia). Perché come scriveva Max Stirner “Nessun’idea, nessun sistema, nessuna causa santa è tanto grande da non dover mai venire superata e modificata da …. interessi personali. Anche se essi tacciono per un certo tempo e tacciono nei momenti di furore e fanatismo, ritornano tuttavia presto a galla grazie al “buon senso del popolo”. Molto meglio, specie in presenza di un apparato amministrativo disastrato, far leva sulle sanzioni premiali o quelle miste, cioè sulla collaborazione con i cittadini. Come per l’appunto i condoni, dove si fa leva sull’interesse del cittadino alla chiusura di una vertenza (attuale o possibile) col pagamento di una “ammenda” ridotta. E i condoni sono solo uno dei tanti modi con cui si può incentivare l’obbedienza alle leggi: perché l’interesse primario del legislatore non è di applicare sanzioni, ma ottenere un ragionevole tasso d’obbedienza alle leggi da applicare. Cosa che gli ulivisti fanno mostra di non capire (e talvolta forse non capiscono) e che non li qualifica quali vestali della morale e della giustizia: ma come avrebbero fatto i nostri antenati nel Risorgimento, come forcaioli. Termine che adesso è loro risparmiato, perché al contrario degli Stati pre-unitari, di tale strumento di “alte opere di giustizia” la Repubblica non fa uso.

 

  1. Quando in una società si coniuga un diritto severo, cui corrisponde scarsa applicazione ed obbedienza, e diffuso malessere che parte dai governati, state sicuri che quella è in decadenza e probabilmente prossima al crollo. Lo sosteneva non solo Tocqueville, ma anche i Padri della Chiesa, ai tempi della decadenza dell’impero d’Occidente. Ad esempio Salviano di Marsiglia scriveva nel V secolo d.C.: “Passiamo ora a un’altra mostruosità inqualificabile che ha origine da quella empietà appena accennata e che, sconosciuta ai barbari, è di casa per i Romani: costoro con l’esazione delle tasse si confiscano i beni a vicenda. Ma che dico! Non a vicenda, perché sarebbe sicuramente più sopportabile se ognuno patisse di ritorno ciò che ha fatto patire agli altri. Più grave è il fatto che sono poche persone a confiscare i beni di una massa di gente: per quegli esattori le imposte statali sono come bottino personale, visto che fanno delle cartelle esattoriali una fonte di profitto privato. E a farlo non sono soltanto alti papaveri, ma anche i più bassi funzionari; non soltanto i giudici, ma anche i loro tirapiedi! Ci sono forse non dico città, ma anche municipi o villaggi, dove tutti quanti i decurioni non siano altrettanti tiranni? E probabilmente se ne vantano anche, di questo nome, che gli dà l’idea di potenza e onorabilità. Tutti i pirati, del resto, gongolano d’orgoglio quando vengono creduti molto più brutali di quanto lo siano effettivamente. Nessuno, pertanto, è al sicuro; nessuno, fatta eccezione dei pezzi grossi, si salva dalla razzia di quei ladri che ti spolpano, a meno che uno sia un pirata loro pari .Si è arrivati a questa situazione, o meglio a questo livello di criminalità, che uno non ce la fa a cavarsela se non è un brigante pure lui.….E intanto i poveri vengono depredati, le vedove gemono, gli orfani vengono oppressi, al punto che un buon numero di tutti costoro, che discendono da famiglie conosciute e che sono stati educati come persone libere, per non morire sotto la martoriante persecuzione pubblica si rifugiano presso popoli nemici. E migrano perciò da ogni parte verso i Goti o i Bacaudi o altri popoli barbari, ovunque siano essi a governare, e non si rammaricano affatto d’aver emigrato, poiché preferiscono vivere liberi sotto una apparente schiavitù che non schiavi in un sedicente paese libero”. Tale descrizione è sicuramente cruda e vivace e si riferisce ad una crisi infinitamente più acuta di quella attuale, ma mostra come le cause che le provocano spesso, almeno in parte, coincidono.
    Diritto non eseguito perché non obbedito né “autorevole”; burocrazia vorace, incapace e priva di senso dello Stato; riduzione fino alla scomparsa dell’idem sentire de republica; durezza verso i concittadini e incapacità progressiva di difendere l’esistenza collettiva ed individuale.
    Gli ingredienti della crisi, anche se in misura, grazie al cielo, assai più limitsta, ci sono tutti.
    Con un’ultima notazione voglio concludere questo punto. Una delle più celebri frasi di Cavour, che cito a memoria (scusatemi l’inesattezza), è: “a governare con lo stato d’assedio è capace qualsiasi c…”. E questo è l’epitaffio che un grande liberale potrebbe dedicare ai pomposi giustizialisti, variante da rotocalco dell’ autoritarismo eterno quanto inutile, che fanno della “legalità” e della “morale” degli strumenti di lotta politica (e di carriera personale).

 

  1. Per cui in sostanza, e tornando all’inizio, la crisi del diritto, il dilagare dei divieti, l’inefficienza progressiva non sono il prodotto dello Stato, bensì della crisi dello Stato. Perché questo prima di essere un’istituzione, o un apparato, è un’idea, come scrivevano Maurice Hauriou e Giovanni Gentile, un’idea d’esistenza collettiva ed individuale, che si realizza col comando e col consenso, attraverso il potere e l’obbedienza. Quando perde questo, perde l’anima e diviene una macchina. E di questa crisi è parte causa (e parte effetto) lo spirito burocratico che lo pervade (oltre s’intende, alla burocrazia stessa). Su questo scriveva pagine interessanti il giovane Marx: “Il “formalismo di Stato”, ch’è la burocrazia, è lo “Stato come formalismo”, e Hegel l’ha descritta come un tale formalismo. In quanto questo “formalismo di Stato” si costituisce in potenza reale e diventa esso stesso il suo proprio contenuto materiale, s’intende da sé che la “burocrazia” è un tessuto d’illusioni pratiche ossia la “illusione dello Stato”. Lo spirito burocratico è fin nel midollo uno spirito gesuitico, teologico. I burocrati sono i gesuiti di Stato, i teologi di Stato. La burocrazia è la république prêtre” e proseguiva a lungo, ma vi risparmio per motivi di tempo il resto. Ma è sicuro che senza anima, senza cioè la politica, coi suoi presupposti (e le sue categorie) lo Stato, che è un’entità vivente, fatta di uomini, rapporti e (da ultimo) norme, non regge. E’ questa la principale ragione della crisi del diritto. I vari Dottori più o meno sottili, poco possono fare per ovviarvi: serve un idem sentire, una nuova legittimità e non una tecnocrazia di piagnoni. Come serve di capire la vera natura e causa della crisi, e non prendersela con uno Stato assai riduttivamente considerato. Da liberale italiano ricordo le nostre tradizioni, simili ma diverse da quelle dei liberali di altri paesi: in quelli lo Stato nazionale è stato edificato dalle monarchie barocche, e riformato dai liberali trasformandolo da assoluto a costituzionale. In Italia i liberali hanno fatto il Risorgimento e con ciò, lo Stato Nazionale e liberale insieme. Adempiendo dopo oltre tre secoli all’auspicio di Macchiavelli nell’ultimo capitolo del “Principe”. Lo Stato nazionale, anche in tempi di Impero mondiale è l’unica garanzia di esistenza collettiva e di libertà civile. Di fronte ai poteri forti, alle varie potestates indirectae, economiche, burocratiche, sindacali, è l’unico potere realmente democratico perché risponde al popolo, ora più di qualche decennio fa E’ degenerato nella pratica ma valido nell’idea. E non bisogna confondere la patologia (peraltro essenzialmente italiana), con l’idea stessa.

Teodoro Katte Klitsche de la Grange

Coordinatore Romano P.L.I.

 

INTERESSE NAZIONALE. COS’È?_di Teodoro Klitsche de la Grange

INTERESSE NAZIONALE. COS’È?

  1. Qualche tempo fa mi capitò di scrivere che le dichiarazioni della Meloni davano uno spazio – poco consueto in Italia – al perseguimento dell’interesse nazionale come bussola dell’azione politica e di governo.

Il che è un problema classico della teoria, segnatamente di quella moderna dello Stato, ove non ci si rifaccia a forme di legittimazione teocratiche, carismatiche o tradizionalistiche del potere pubblico: trovare un fondamento razionale ed immanente per l’associazione politica, le potestà di governo e la sovranità. Tale ricerca è conseguenza diretta della laicizzazione del pensiero politico; un attento osservatore come de Bonald, l’attribuiva a una concezione atea del mondo e della società, perché privato questo e quella di una presenza o di una istituzione divina, non rimane che fondarne l’assetto sugli interessi umani.

  1. Il pensiero della dottrina moderna dello Stato è così chiaramente orientato fin dall’inizio e almeno nei suoi esponenti più seguiti a dare (e darsi) una dimostrazione della necessità del dominio politico in base a presupposti realistici. In tale contesto emergono le spiegazioni in termini utilitaristici dell’assetto dei poteri pubblici e della modellazione degli stessi in vista del raggiungimento dei fini della comunità politica, denominati di volta in volta “bene comune” “pubblico bene”, “interesse generale”, “interesse pubblico”, al fine di sottolinearne, talvolta polemicamente, la strumentalità rispetto alle utilità degli associati; e di pari passo, della considerazione correlativa degli interessi (particolari) degli esercenti (e non) le potestà pubbliche, di cui si mostra la conflittualità, effettiva o potenziale, col primo.

Spinoza distingueva, con una intuizione destinata a notevole fortuna (e comune ad altri pensatori), la (classica) differenza dei tre tipi di potere a seconda dell’interesse tutelato. Il padre ha un potere sui figli per fare il loro interesse; il padrone perché i servi procurino l’utilità propria; l’autorità pubblica per provvedere l’interesse dei sudditi, non uti singoli ma uti cives..

  1. Locke teorizzava lo Stato limitato dall’intangibilità di alcuni diritti fondamentali; è stato considerato con minore attenzione che il filosofo inglese, funzionalizzando l’esercizio delle potestà pubbliche all’interesse generale, individuava un limite interno, anche nell’area delle stesse prerogative sovrane, che è base non secondaria della strutturazione dello Stato costituzionale moderno; e con pari chiarezza Locke avvertiva la situazione di potenziale ed effettivo contrasto tra pubblico bene e fini privati dei governanti.

Scriveva Rousseau che la volonté générale è corretta solo quando si applica su oggetti d’interesse comune; laddove vengono in considerazione oggetti ed interessi particolari, di cui spesso sono portatrici le fazioni, la volontà generale viene meno, e il parere predominante, anche se di una fazione maggioritaria, è tuttavia opinione e volontà particolare.

Anche gli autori di “The Federalist” si pongono lo stesso problema. Nel saggio n.10 Madison si interrogava su come far prevalere, in una repubblica ben ordinata, l’interesse generale su quelli particolari.

Alla fine del XVIII secolo si consolida l’idea di ridurre al diritto (e col diritto) l’obbligazione politica. Le potestà pubbliche, anche quelle ritenute peculiari del sovrano, sono concepite come non solo limitate dal diritto, ma anche organizzate per mezzo di norme giuridiche di guisa da assicurare il conseguimento degli scopi della società (politica e) civile.

Così nel “costituzionalizzare” il perseguimento dell’interesse generale: nella dichiarazione dei diritti dell’89 si afferma che “il fine di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali ed imprescrittibili dell’uomo” ed all’art. 12 “la garanzia dei diritti dell’uomo e del cittadino rende necessaria  una forza pubblica; questa è dunque istituita per il vantaggio di tutti, e non per l’utilità di coloro ai quali è affidata”. Con ciò era anche evidenziato e vietato l’uso ai fini d’interessi privati della funzione pubblica.

Assai scettico sull’attitudine di governanti e funzionari a perseguire l’interesse generale era anche Romagnosi il quale sosteneva che «di costituzione c’è bisogno laddove non si pensi che gli amministratori siano “naturalmente illuminati” e fedeli all’ordine”. E, dato che è principio di ragione che “l’interesse dell’amministrato deve essere assolutamente procurato dall’amministratore”, ma “egli è pure principio di fatto, che l’amministratore libero da ogni freno si presume prevalersi sempre del suo potere per far servire la cosa dei suoi amministrati all’interesse proprio”, lo scopo della garanzia costituzionale è “impedire che la volontà dell’uomo corrompa la volontà del monarca”»[1]. Anche negli elitisti italiani il problema del conflitto tra interessi privati dei governanti è oggetto di analisi basate sulla considerazione dell’antinomia degli interessi delle èlite politiche rispetto a quelli del corpo sociale[2].

La convinzione, maturata particolarmente  nel XVIII secolo, che ogni potere di governo dovesse essere esercitato allo scopo di attingere il bene comune ne comportava la generale funzionalizzazione. Ove invece si fosse concepito, secondo il modello tradizionale e pre-borghese, i poteri pubblici (prevalentemente) come diritti attribuiti in forza di investitura divina, consuetudine od atto insindacabile a determinate persone, ceti o comunità territoriali e tramandati secondo il principio ereditario od acquisiti per appartenenza a ceti e comunità (e talvolta negoziabili), in misura inferiore si sarebbe potuta sviluppare l’idea delle potestà “nazionalizzate”[3].

Carl Schmitt ritiene principi fondamentali dello Stato di diritto quello di divisione (cioè la tutela, anche del potere pubblico, dei diritti fondamentali ) e quello di distinzione dei poteri (concetto diversamente connotato, e denominato). Ma c’è almeno un terzo principio essenziale: quello, sopra cennato, della funzionalizzazione dei poteri “nazionalizzati” all’interesse “pubblico”. Di per sé è tipico di una forma di potere razionale-legale, in cui si pretende (tra l’altro) la giustificazione dell’esercizio della potestà nella sua conformità ad una norma, e (quindi) ad un valore ovvero ad uno scopo (ovviamente la descrizione weberiana del tipo legale-razionale di potere è enormemente più complessa, e vi rinviamo completamente); e, onde acquisire evidenza utilitaristica e, sotto un certo profilo, legittimità, deve corrispondere agli interessi di tutti i consociati. All’importanza di tale principio si potrebbe replicare che anche ad altre forme di organizzazione politica non manca l’elemento teleologico di funzionalizzazione dei poteri pubblici all’interesse di tutti. Invero in altri ordinamenti politici mancano o sono incompleti o episodici, norme ed istituti presupponenti una tensione dialettica tra interessi generali e non, tra classe di governo e governati, che sono tipici dell’attuazione completa del medesimo, com’è (o come dovrebbe essere) nello Stato borghese. Concludendo tale sintetico excursus di dottrine politica e giuridica, il dovere di perseguire l’interesse generale è carattere di ogni istituzione politica; ma nello Stato borghese si connota per una estesa e articolata realizzazione in istituti, organi e norme.

  1. L’immanenza di tale principio ad ogni forma d’istituzione politica è stata sempre espressa in termini indefiniti. La stessa formula romana che salus rei publicae suprema lex sicuramente ci dice che la salvezza dello Stato prevale sull’osservanza del diritto, ma non indica in nessun modo cosa debba fare chi governa: tutt’al più nelle applicazioni, ossia nei testi costituzionali, designa chi possa deciderlo. Santi Romano, nel solco di una tradizione plurisecolare riteneva la necessità fonte di diritto superiore alla legge: che è un altro modo di esprimere lo stesso concetto in termini moderni e più “tecnici”.

Tale genericità ha contribuito a far sì che qualunque politico (e altro) vesta gli interessi privati propri e del di esso seguito dei solenni panni dell’interesse generale. Così qualche settimana fa un settimanale di centrosinistra ha ritenuto d’interesse nazionale, gradatamente: a) l’emancipazione delle donne; b) l’allargamento dei diritti; c) l’equità (espressione che senza l’ausilio della dottrina giuridica, è non meno vaga di quella d’interesse nazionale): d) una nuova giustizia sociale ed economica (v. equità); e) un’idea ecosostenibile d’innovazione; f) il rispetto dei trattati internazionali finalizzati alla tutela dei diritti umani. Inoltre l’interesse nazionale (alias generale) deve tener conto di quello del pianeta. A margine si legge che la famiglia tradizionale, difesa dalla Meloni è “cominciata con la discriminazione della maggior parte (??) delle “famiglie” fatte da diverse forme di unione”. A parte vaghezza ed affermazioni apodittiche è difficile da credere (e a prescindere dal dettato costituzionale) che la maggior parte delle famiglie non sia costituito dalle unioni tra uomo e donna, ma da quelle tra uomo e uomo, donna e donna (e altro).

Ciò malgrado è interessante approfondire comunque se il concetto suddetto, così importante, e richiamato in diversi termini da più norme della nostra Costituzione, possa essere – almeno in una certa misura – determinato di guisa da escludere che almeno certi obiettivi possano essere d’interesse generale, e di converso, che altri sicuramente lo sono.

  1. In primo luogo nazionale o generale che sia, l’interesse deve riguardare aspirazioni, situazioni, oggetti che siano comuni agli appartenenti alle comunità; se riguardano piccoli gruppi o minoranze non lo sono.

Possono diventarlo però se tutelare determinati interessi delle minoranze serva a mantenere l’unità politica e la concordia sociale. Cioè sono d’interesse nazionale indiretto. Altri lo sono in modo diretto: così quello (disciplinato dalla Costituzione vigente) di conservazione della sintesi politica, e di conseguenza del dovere di difesa della patria (art. 52).

In secondo luogo l’interesse generale appare delimitato dalla qualità di cives dei soggetti del medesimo. Generale così indica i cittadini, per il bene dei quali devono essere esercitate le potestà pubbliche e che sono (ma non solo loro) soggetti alle leggi: ha carattere essenzialmente politico, ed è difficilmente pensabile disgiunto dal concetto moderno di democrazia. É da collegare all’interesse della comunità, prima che a quelli singoli individui; la norma appena citata, del dovere di difendere (e morire) per la patria ne è la conferma.

In terzo luogo – ma in effetti è il primo – occorre ricordare all’uopo la regola di Croce “prima vivere e poi filosofare, prima essere e poi essere morale”. E in altri passi il filoso lo specifica “Quando si parla di senso politico, si pensa subito al senso della convenienza, dell’opportunità, della realtà, di ciò che è adatto allo scopo, e simili[4]; perché “L’azione politica non solo è azione utile, ma questi due concetti sono coestensivi”.

A confortare quanto scritto da molti, tra cui ho citato solo Croce, è il dato storico e giuridico che l’istituzione di protezione della comunità, cioè lo Stato, perdura malgrado cambi la “tavola dei valori” (come scrivono per lo più i giuristi contemporanei); lo Stato nazionale italiano ne ha cambiate almeno tre, tuttavia esso e la comunità nazionale hanno continuato in suo esse perseverari. Confondere e ancor più far prevalere il normativo – di qualunque genere – sull’esistente è un errore, che, a seguire la logica di Croce, può portare a cessare di esistere; e se non si esiste, come comunità, non ci sono valori da perseguire.

In quarto luogo, la dottrina delle ragion di Stato, come scrive Meinecke (in ossequio alla salvaguardia dell’esistenza) si sviluppa anche come dottrina degli interessi degli Stati, intendendo con ciò quegli interessi costanti che sono di ogni comunità politica concreta. Così per la Francia evitare con ogni mezzo che alla destra del Reno vi sia uno Stato più forte – o forte quanto la Francia. Almeno da Richelieu e Mazzarino fino (sostengono in tanti) a Mitterand, tutti i governanti francesi l’hanno perseguito. O la tendenza della Russia (e prima della Moscovia) a espandersi verso i mari caldi (in particolare il mar Nero), che spiega – almeno in parte – il comportamento odierno di Putin.

Il quale non ha fatto altro che continuare quanto fatto da Ivan il Terribile, Pietro il Grande, Caterina la Grande e tanti altri governanti russi.

  1. Ma non è dato comprendere quanto contribuisca all’esistenza politica, al vivere e al buon vivere della comunità, e così all’interesse nazionale o generale, il trattamento uguale delle famiglie normali e no, dell’equità (quale?) e così via. Con ciò si difende non l’esistenza politica, né la potenza – in senso weberiano – dell’istituzione, cioè la possibilità di far valere con successo la propria volontà, ma una determinata visione del vivere sociale ed economico. Ovviamente subordinata all’esistenza perché solo chi esiste ha la capacità di realizzare una propria visione della convivenza sociale. Perciò è legittimo cercare di far valere la propria visione, ma è fuori dalla realtà ritenerla necessaria all’esistenza comunitaria quale interesse nazionale.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

 

 

[1] Nel saggio “On Liberty” anche John Stuart Mill faceva derivare proprio dalla distinzione d’interessi tra governanti e governati e dalla volontà di superarla, le richieste di democrazia politica e di governo rappresentativo e responsabile di fronte agli elettori. Stuart Mill giudicava che questa era, a giudizio di chi la sosteneva, una risorsa contro i Governi i cui interessi ritenevansi di consueto opposti a quelli del popolo.

[2] Mosca scrive della “naturale tendenza che hanno coloro che stanno a capo della gerarchia sociale ad abusare dei loro poteri” e ne ravvede i temperamenti in forme d’autorità non fondate sul carisma e la religione, e nella divisione dei poteri. Ma la propensione di Mosca, come anche di Pareto, a considerare gli aspetti sociologici e politico-logici più di quelli giuridici, ne rendono meno pertinenti ai nostri fini le pur interessanti analisi e prospettazioni

[3] V. M. Hauriou, Précis de droit constitutionnel, Paris 1929, pp. 174 ss.

[4] E prosegue “E si considerano forniti di senso politico coloro che a quel modo operano o a quel modo giudicano l’altrui operare, e, per contrario, privi di senso politico quegli altri, che diversamente si comportano, ancorché abbondino di morali intenzioni e si accendano a nobilissimi ideali”.

QUALCHE NOTA SULLE ELEZIONI, di Teodoro Klitsche de la Grange

QUALCHE NOTA SULLE ELEZIONI

Sull’esito elettorale più scontato, previsto e prevedibile della storia della Repubblica italiana (prima e seconda) occorre fare qualche considerazione, selezionandole tra le meno frequentate dai giornali di regime.

La prima è che, come capita da oltre 5 anni, la larga maggioranza dei votanti, si è orientata verso partiti anti-establishment. Dalle politiche del 2018 (ma in effetti dalle ultime amministrative ad esse precedenti) la somma dei voti conseguito da M5S, Lega, FDL e partitini popul-sovranisti è largamente superiore al 50%.

Da ultimo abbiamo avuto il 26% a FDI, il 16% al M5S, il 9% alla Lega, più circa il 4% ad Italexit, Italia sovrana e popolare, ecc. ecc., cioè sommando il 55%. Che è, decimale più o meno, quanto conseguivano gli stessi sia alle politiche 2018 che alle europee 2019. Una robusta maggioranza anti-establishment che ha acquisito stabilità. Si potrebbe replicare che è una maggioranza frazionata in più soggetti politici e quindi priva di compattezza.

Sicuramente in tale obiezione c’è del vero, ma a patto di considerare anche come da un lato, lo scambio dei voti tra partiti è stato soprattutto all’interno dello “schieramento”: per cui i voti persi dal M5S alle politiche 2018 sono passati (circa la metà) alle europee 2019, a favore quasi totale della Lega e FDI, del pari tali voti sono transitati alle politiche 2022 dalla Lega a FDI. A parte comunque qualche decimale restituito, alla differente distribuzione tra i partiti corrisponde una scarsa permeabilità tra gli schieramenti (filo establishment/anti-establishment). Di voti ritornati dal M5S al PD o dalla Lega a FI ce ne sono stati, dai risultati, assai pochi, una frazione minima di quelli transitati all’ “interno”. Ad essere esaurienti anche lo schieramento filo-establishment ha avuto un andamento analogo: lo scambio è quasi tutto avvenuto al proprio interno, peraltro per cifre percentuali meno imponenti che in quello maggioritario.

Qualche anno fa mi capitò di scrivere come la situazione ricordava la tesi di Gramsci del “blocco storico” che il pensatore sardo vedeva realizzato dalla convergenza (rivoluzionaria) di operai del nord e contadini del sud, ripetuta oggi, nel XXI secolo, dall’alleanza tra ceti medi (prevalentemente rappresentati dalla Lega) e strati popolari (M5S), tutti consapevoli che la deriva economica infausta della seconda Repubblica li stava impoverendo (in economia) ed emarginando (in politica). Da cui la necessità di pensionare/privatizzare la vecchia classe dirigente (il momento del “vaffa”), connotata (negativamente) dall’idoneità, confermata in circa 20 anni, di tenere l’Italia ferma al più modesto (sotto)sviluppo d’Europa, di cui lo stivale è l’ultima ruota (dopo esserne stata per tanti anni – precedenti la “seconda Repubblica” – uno dei motori).

Il nuovo blocco, imputabile principalmente a detto tasso di (sotto)sviluppo si è realizzato in molti anni, ma con una particolare accelerazione a partire dal governo Monti. Questo, facendo peraltro aumentare assai il rapporto debito pubblico/PIL prese alcune misure particolarmente significative per l’ascesa delle forze anti-estabishment: l’IMU, la Legge Fornero, il blocco della rivalutazione delle pensioni “alte”. Malgrado i sacrifici imposti a contribuenti e lavoratori, ottenendo risultati negativi. Il tutto tra gli osanna dei media mainstream.

Dopo un insuccesso di tale portata, partite IVA, pensionati prorogati, pensionati d’oro e d’argento (v. stampa mainstream) ecc. ecc. capirono che l’interesse che li univa era quello di liberarsi di una classe dirigente rapace ed incapace, e che tutto il resto, in particolare gli interessi in conflitto tra loro era – ed è – secondario.

E che quindi il nemico (interno) era lo stesso. Si sa da millenni il nemico è un elemento unificante di ogni soggetto (o coalizione) politica. Di fronte alla sfida da esso rappresentata cessano i conflitti (v. Eschilo) o meglio si relativizzano, e si incrementa coesione e consistenza del soggetto (o della coalizione) che gli si contrappone. È il nemico il sicuro cemento anche delle alleanze, perfino le più eterogenee (v. il capitalismo anglosassone e il comunismo sovietico nella II guerra mondiale), come delle coalizioni interne (v. i governi di salute pubblica in guerra, come quello di Churchill-Atlee). Inoltre l’elettorato di schieramento privilegia tra i partiti anti-establishment quello che appare come il più contrapposto alle élite: nel 2018 il M5S, da sempre all’opposizione, nel 2019 la Lega di Salvini anti-migranti ed anti-Fornero, nel 2022 FdI unico partito d’opposizione al governo Draghi, filo-europeo e filo-atlantico. Il sentimento politico funziona anche all’interno dello schieramento. Onde il “blocco” nato nel secondo decennio di questo secolo è poco scalfibile. Almeno a livello di base.

Per cui anche la piroetta fatta col governo Conte-bis (l’alleanza col partito simbolo dell’establishment, cioè il PD) accentuava il ridimensionamento del M5S, ma non faceva perdere un voto al “blocco”. E soprattutto – e logicamente – non ne faceva guadagnare al PD. Anzi la caduta del governo Draghi da una parte, e la difesa del reddito di cittadinanza – contrastato da gran parte degli altri partiti – dall’altra rianimavano il M5S il quale recuperava all’ultimo momento gran parte dei voti persi tra il 2019 e il 2022. A conferma della forza attrattiva della collocazione anti-establishment (o meglio anti-sistema), capace di far recuperare anche incoerenze, trasformismi (e diffidenze).

Resta da vedere in che modo il M5S riuscirà a gestire l’evitato disastro. Populizzando la sinistra, dato che il PD, tallonato nelle percentuali dai grillini, è in serie difficolta? O spingendo sulla crisi e diventando il Melenchon italiano? O facendosi egemonizzare dal PD (e satelliti) e probabilmente candidarsi all’estinzione per anoressia elettorale?

La seconda, peraltro, non silenziata dai media di regime, è la bassa affluenza alle urne. Ma ad essere silenziato non è tanto il fatto (incontestabile) ma la di esso interpretazione più probabile.

Aspettiamoci anzi che venga utilizzato per delegittimare il governo futuro, sostenendo che, avendo il centrodestra il consenso di circa il 30% degli elettori, non sia rappresentativo della maggioranza del “paese reale”. A cui è facile rispondere che è sempre meglio ottenere il consenso di una grossa minoranza del corpo elettorale, che quello dei “poteri forti”, di natura non elettivi ed espressione di assai ristrette minoranze.

Ma non è questo il dato essenziale: l’astensionismo diffuso un tempo – quaranta o cinquant’anni fa, era giustificato con l’omogeneità delle società che ne erano affette, soprattutto gli USA (all’epoca votavano, alle presidenziali, circa il 60% degli aventi diritto al voto); non c’erano tra repubblicani e democratici, “scelta di civiltà” sulla quale decidere e/o contrapposizioni di sistema come percepito in Italia.

Nel caso dell’Italia di oggi tuttavia la spiegazione più probabile di tale disaffezione al voto è un un’altra – e peggiore per la salute delle istituzioni -: è che è aumentato lo iato tra volontà espressa dagli elettori, e concrete decisioni conseguenti alle elezioni. Interventi per la composizione del governo a carico di candidati ministri scomodi, governanti mai eletti neanche in un consiglio scolastico, partiti che cambiano schieramento, parlamentari che migrano da un partito all’altro, pressioni da governanti e/o istituzioni straniere hanno aumentato a dismisura il fossato tra volontà popolare e azione di governo. Per cui andare a votare appare un inutile perdita di tempo e una presa in giro. Ma è certo che ogni regime politico si fonda sul consenso (dal basso all’alto) e sul potere (dall’alto al basso): se manca il primo il sistema è zoppo; può durare per tempo limitato, per poi entrare in crisi e sfociare a prezzo di un grosso scossone (dalla rivoluzione in giù) in un governo legittimo (opposto se non diverso). Va da se che gli astensionisti di tale tipo sono non degli indifferenti, ma dei disperati. Sono la disperazione 2.0; ma in quanto tali più propensi a cambiare il sistema che a conservarlo. Sicuramente questo a quota (crescente) di disperati non esaurisce né occupa l’intero serbatoio dell’astensione elettorale, ma una buona parte.

C’è da chiedersi peraltro il senso che avrebbe una manifestazione di indifferenza nel momento in cui tutta la stampa (di regime o meno) e tutti i politici sottolineano che siamo nella peggiore crisi dal dopoguerra; e ciò corrisponde alla percezione della maggioranza degli italiani. Essere indifferenti in una situazione del genere è pericoloso per sé e per gli altri.

In terzo luogo uno degli effetti della crisi è – in genere – l’intensificarsi del sentimento politico, cioè della contrapposizione amico-nemico, nonché della violenza interna ed esterna alla comunità.

Clausewitz riteneva il sentimento politico uno dei componenti la triade della guerra; Girard faceva notare che la violenza si accompagna ad ogni crisi come mezzo (reale od immaginario) di soluzione. Anche le epidemie che provocarono esecuzioni pogrom, disordini, linciaggi (a farne le spese, durante la peste nera, soprattutto gli ebrei). Non è facile che oggigiorno si ripetano scenari di violenza collettiva; ma l’innalzarsi della temperatura del sentimento politico è visibile proprio dal carattere coeso, durevole e (poco) permeabile del blocco maggioritario.

La coesione del gruppo sociale in lotta è proprio uno degli effetti della contrapposizione ad un nemico. Onde è il maggiore sintomo del rafforzamento della medesima.

Da ciò deriva che tale coesione può essere mantenuta a patto di non trascurare il presupposto: ossia l’identificazione del nemico che, al fine di non cadere nell’accusa di guerrafondaio, sarebbe meglio definire colui che è animato da un’intenzione ostile e che è riconosciuto come tale. Verso il quale non è necessario muovere guerra, ma prendere atto dei contrapposti interessi. Trattare anche, perché anche l’inimicizia è una relazione sociale e proprio quella con il nemico – compresi gli accordi – ha un’importanza decisiva. Tutt’è non illudersi e non illudere. Perché la prima via porta alla sconfitta, la seconda alla disgregazione (tra vertice e base).

Compito difficile ma non impossibile, che è il segno distintivo degli statisti; merce assai rara negli ultimi trent’anni.

Teodoro Klitsche de la Grange

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