LA COLPA E LA PAURA, di Teodoro Klitsche de la Grange

LA COLPA E LA PAURA

Da quando il Covid-19 ha riportato il dibattito pubblico alla realtà dell’esistenza, fatta di buona e cattiva sorte, di guerre, pestilenze, terremoti, alluvioni, come di pace, benessere, bel tempo e buona salute, tutte cose ottenute grazie al progresso e al buon governo (??), l’argomento onde spiegare (e addossare) le responsabilità della mala sorte è che i governati sarebbero confusi dal sentimento della paura; quello occultato è che sono condizionabili da quello di colpa. Cose ambedue affermate già da Thomas Hobbes.

La prima, la paura, è nota; l’antropologia del filosofo inglese si basa sul potere dell’uomo di uccidere il proprio simile (e sulla frequenza con la quale avviene) e sulla conseguente necessità di creare un’istituzione che protegga la vita degli associati: contratto sociale, obbligazione politica, sovranità, comando e obbedienza ne sono i derivati coerenti.

Ma di ciò, della coerenza delle conclusioni alla premessa (il sentimento di paura per la propria vita) se ne sta facendo un’arma politica; sia per darla in testa agli avversari, sia per ingannare i governati.

Così il candidato democratico Biden accusa Trump perché ha sottovalutato l’impatto del virus (vero, ma l’hanno fatto quasi tutti i governi della terra, Giuseppi, Macron, Johnson in testa): è, aggiornata, la caccia all’untore dei “Promessi sposi”. Nell’altro, al fine di propiziare i DPCM – comodo tipo di normazione – sostenendo che sono fatti (anche se male) con buone intenzioni (possibile) e con risultati riconosciuti eccellenti nell’ “Universo e in altri siti” come cantava Dulcamara e ripete il nostro Governo.

Ma perché ciò si verifichi, continua la canzone governativa, occorre che i cittadini siano disciplinati, mascherati, tappati in casa, poco deambulanti e mai di notte. Se i risultati non saranno quelli sperati (vivamente da tutti) la colpa sarà dei governati indisciplinati, goderecci, incivili ed insensibili.

E qua torniamo all’altro sentimento, meno noto, ma necessario nell’arte di governo, evidenziato da Hobbes nel “Behemoth”: la colpa, o meglio il senso di colpa. Questo, sostiene il filosofo, è uno strumento necessario per esercitare potere sul comportamento degli altri, instillandone il senso per certe azioni ed intenzioni, ed acquisire così influenza. E lo enuncia a proposito dei predicatori puritani. Scrive: “questi predicatori inveivano spesso con grande zelo e severità contro due peccati, la concupiscenza della carne, ed il parlar profano; il che, senza dubbio, era molto ben fatto. Ma da ciò la gente comune era resa incline a credere che niente fosse peccato, salvo ciò che è proibito dal terzo e dal settimo comandamento… Sia nei sermoni, sia negli scritti, questi ministri sostenevano ed inculcavano l’opinione che i primissimi movimenti della mente, cioè il piacere che uomini e donne provano alla vista del bel corpo d’una persona dell’altro sesso” fosse già peccato “E, così, divennero confessori di quelli che avevano la coscienza turbata per questo motivo, e che obbedivano loro come a direttori spirituali, in tutti i casi di coscienza”. È acuto il filosofo di Malmesbury nel fondare almeno in parte la costituzione di un rapporto di potere (e quindi di comando/obbedienza) sul senso di colpa. Cosa sempre capitata nella storia delle istituzioni.

Ma di ciò i governanti italiani hanno fatto uso continuo e sovrabbondante, sia per sostenere la bontà delle proprie intenzioni e realizzazioni (in altri tempi per salvarli dall’inferno, ora dal virus); sia per trasferirne le responsabilità ai governati. Mentre risuona sempre il ritornello sulle tasse (paghiamone meno, paghiamole tutti), che per aumentarle a chi le paga, da quasi cinquant’anni i governanti ne attribuiscono la causa a chi non le evade. E continuano a farlo ad onta dell’inefficacia del ritornello. Come non fosse nota la pulsione del governanti ad attingere dal portafoglio dei governati.

Così col Covid, se arriverà una seria seconda ondata, la colpa sarà dei passeggiatori smascherati, dei bevitori in compagnia, dei banchettatori nei matrimoni e cresime. Troppo facile: ripensiamo a Hobbes.

Teodoro Klitsche de la Grange

Il lupo nell’ovile, a cura di Teodoro Klitsche de la Grange

Jean-Claude Michéa, Il lupo nell’ovile, Meltemi, Milano 2021, pp. 142, € 14,00.

Scrive l’autore che nel “Capitale” Marx riteneva il mercato liberista (meglio concepito dai liberisti) “l’Eden dei diritti innati dell’uomo”. Oggetto del saggio (rielaborazione di una conferenza, integrata da 35 scolii) è, sviluppando l’affermazione di Marx, da un lato il rapporto tra mercato e diritto; dall’altro quello tra socialismo e progressismo, che ha, secondo Michéa, snaturato la sinistra, subordinandola al capitalismo, quello post-moderno soprattutto.

Michéa prende le mosse dalle guerre di religione del XVI-XVII secolo, che avrebbero generato un modo nuovo borghese di pensare la politica, fondato su due postulati. Il primo è che “l’apparente facilità con cui il legame sociale sembra così potersi spezzare sarà d’ora in poi interpretata dalle correnti dominanti della filosofia moderna come la prova che l’essere umano non è affatto l’animale politico (in altre parole, fatto per vivere in società) descritto da Aristotele e dai pensatori medievali”. L’uomo diventa l’homo homini lupus di Hobbes. Cioè un individuo indipendente, in primo luogo dai legami sociali. Il secondo “consiste nel fatto che è visibilmente impossibile che le persone si trovino d’accordo su qualsiasi definizione comune del Bene, sia essa morale, filosofica o religiosa”; da cui consegue che lo Stato dev’essere “assiologicamente neutro”.

La “superiorità filosofica dei liberali” nel pensiero moderno (rispetto alle teorie assolutistiche dello Stato) è di porre “l’esistenza collettiva sotto l’unica regolamentazione protettiva di processi senza soggetto, ovvero sistemi al tempo stesso anonimi, impersonali e basati su disposizioni puramente meccaniche di pesi e contrappesi”: ossia il mercato e il diritto (inteso à la Weber, come calcolabile e prevedibile). Al contrario cioè del sovrano, personale di Hobbes e del rapporto di comando/obbedienza quale relazione tra persone. Prevale l.’impersonalità della legge (della norma).

Peraltro se il diritto liberale prescinde dai legami comuni (cioè comunitari) è in forse la stessa esistenza della comunità.

Venuto meno ogni altro rapporto, è quello economico a fare da collante “questo perché si tratta semplicemente dell’unica forma di legame sociale (basato sul qui pro quo dello scambio contrattuale) capace di fondersi integralmente con i principi della libertà individuale e della neutralità assiologica del liberalismo politico”. L’accettazione, da parte dei partiti di sinistra dell’ideologia mercatista e dei diritti connessi, è funzionale al capitalismo, ed in particolare a quello contemporaneo.

Una sinistra (e non solo), sostiene Michéa, che omette, infatti, di come “tenere finalmente conto dell’stanza della vita comune e di distinguere quindi le libertà che rafforzano la nostra autonomia individuale e collettiva da quelle che accrescono la nostra atomizzazione”; e così difendere la libertà civile, di guisa che la difesa non possa, al contrario, essere utilizzata contro i popoli, smarrisce la propria funzione. “Non è certo continuando a voltare sistematicamente le spalle (come la sinistra fa ormai da più di trent’anni) e ciò che c’era di buono e fecondo nella tradizione socialista, anarchica e populista dell’Ottocento che un tale lavoro, divenuto oggi più che mai indispensabile, avrà la minima possibilità di essere realizzato con successo”.

Due considerazioni (tra le molte che il saggio, breve, ma ricco di idee, stimola) occorre fare.

La prima; come molti altri negli ultimi decenni, Michéa considera liberali i sedicenti tali contemporanei, moltiplicatisi a dismisura – specie in Italia – dopo l’implosione del comunismo. Il minimo che si possa dire è che tale equivalenza è ampiamente riduttiva, così da diventare fuorviante.

Al contrario di questi, il liberalismo: a) non minimizza (o annulla) il politico, col privatizzare il pubblico, col sostituire l’ostilità con il commercio, e con la giuridicizzazione o meglio la giurisdizionalizzazione del comando. Piuttosto il costituzionalismo liberale unisce in una sintesi istituzionale principi di forma politica (in particolare quella democratica) e principi dello Stato borghese (Schmitt). b) Non relativizza totalmente i valori in procedure. La libertà (meglio le libertà) fondamentali (tra cui la proprietà) non possono essere relativizzate: così il nemico (ideologico) dei liberali c’è: è quello che nega il carattere irrinunciabile delle libertà (comprimibili nello Stato d’eccezione, ma solo temporaneamente). E così nessuna procedura, giudiziaria o no, può annichilire i diritti (sostanziali) di libertà. Il liberalismo ha comunque un nocciolo duro contenutistico e non meramente procedurale.

La seconda: Michéa rileva, come tanti altri, che il turbo-capitalismo ha aumentato le differenze di reddito. Quel che è peggio, specie nei paesi sviluppati, sta impoverendo la maggior parte della popolazione, in particolare i ceti medi. Se ciò è vero – come pare vero – significa che sta creando, anzi ha creato da se la propria contraddizione: in un sistema “mercatista” la proprietà privata “classica” è nel migliore dei casi irrilevante, nel peggiore un ostacolo da rimuovere; così l’agricoltore, il commerciante, l’artigiano, il professionista sono destinati ad essere ridimensionati (o azzerati) dalle grandi imprese che sottraggono loro il mercato. Così il carico fiscale si è aggravato sui ceti medi e popolari. La spiegazione della crescita dei movimenti sovran-popul-identitari non è solo sovrastrutturale, ma anche strutturale, cioè economica (e sociale).

Un saggio come questo di Michéa contribuisce alla consapevolezza di ciò. E non è poco per raccomandarne la lettura.

Teodoro Klitsche de la Grange

Intrecci schmittiani, a cura di Teodoro Klitsche de la Grange

L. Garofalo, Intrecci schmittiani, Il Mulino, Bologna 2020, pp. 183, € 19,00

Un giurista che da “tecnico” o “esperto” del diritto diventa un maestro anche in altre discipline è un caso tanto raro, quanto segnale di ampiezza e profondità di pensiero. È ciò che è capitato a Schmitt (ma con lui – per rimanere al ‘900, ad Hauriou, Santi Romano, Smend, Kelsen, a tacer d’altri); con la particolarità che, in Italia, a partire dalla rinascita schmittiana degli anni ’70, l’attenzione è stata dedicata agli aspetti filosofici-politologici del suo pensiero, piuttosto che a quelli giuridici. Ma, a tale proposito, ricordiamo che Schmitt, nell’ultima – che ci risulti – intervista, rilasciata proprio ad uno studioso italiano, Lanchester, affermò di essere un giurista al 100%.

Tra la consapevolezza di Schmitt di essere giurista e il carattere “multi disciplinare” delle sue opere, la verità sta, per così dire, nel mezzo: la ricchezza del pensiero (e degli interessi) del giurista di Plettemberg è tale che ha esondato dalle “classificazioni” convenzionali.

E a proposito (anche) degli interessi, scrive l’autore nell’introduzione, che nei saggi raccolti nel libro si parla di Schmitt, ma anche di altre figure “alle quali, per le diverse ragioni di volta in volta invocate, il suo nome è raccordabile più o meno strettamente” e questo con l’auspicio che “portando alla luce i collegamenti del celebre e controverso giurista tedesco con i poeti, letterati, artisti, filosofi e cultori del diritto che vi si avvicendano, oltre a contribuire alla conoscenza del suo proteiforme e mobile pensiero, aprano la vista sull’ambiente in cui questo è venuto a formarsi ed esprimersi e, di rimando, sulla cultura di area germanica ottocentesca”.

Così Garofalo ricorda non solo i rapporti tra Schmitt, Ball e Daübler e col pensiero di Bachofen (poco noti) ma anche quelli – del tutto ignoti – tra la pittura di Kandisky e la concezione teologico-politica di Schmitt, confrontate da Hugo Ball, come accomunati dalla volontà di uscire dalla crisi della modernità.

Quanto alla conferenza di Schmitt sulla situazione della scienza giuridica europea, all’attenzione di tanti e definita “una delle più alte apologie della tradizione giuridica”, scrive Garofalo che “essa è di notevole interesse anche per i cultori del diritto romano: perché restituisce loro l’immagine che di tale diritto ovvero della «Wissenschaft des römischen Rechts»”. Apprezzata da Schmitt malgrado il BGB (il codice civile tedesco), contaminato dallo “spirito liberal-individualista della pandettistica” era perciò avversato dal nazional-socialismo, onde ne era prevista la sostituzione con un nuovo codice “popolare”.

L’ostilità di Schmitt al positivismo, in particolare a quello a lui contemporaneo e alla prassi di normazione “motorizzata”, per cui la stessa “«interpretazione della scienza giuridica positivistica non è in grado di tenerle dietro» ….” , emerge. “E allora non nascono più gli scritti sistematici dei professori di scienza del diritto e al posto loro subentra «il funzionale commento di chi esercita praticamente il diritto». Escluso che la scienza del diritto che accomuna le nazioni europee possa impegnarsi «in una gara di corsa con il metodo del decreto legge e dell’ordinanza», Schmitt ritiene che “essa debba invece prendere coscienza del «suo esser diventata l’ultimo asilo del diritto» e cercare di tutelarne «l’unità e la coerenza» vulnerate appunto dall’eccesso di produzione giuridica”. Il diritto, inteso come ordinamento concreto, non può essere dissociato dalla storia e dall’interpretazione dei giuristi (e dei giudici in particolare). Ceto che ha elaborato per secoli “da sé il diritto, riuscendo a riportare nel suo alveo pure le statuizioni normative a carattere autoritativo: e quindi, anzitutto, della scienza dei giureconsulti romani, trasmessa da Giustiniano; e poi anche della scienza dei giureconsulti che si sono avvicendati dall’età dei glossatori a Savigny”.

Seguono i saggi (capitoli) interessanti su Bachofen, e sul Nomos – che è utilizzato anche per vicende contemporanee – ma che la brevità naturale di una recensione impone di consigliare all’attenzione dei lettori.

Teodoro Klitsche de la Grange

UNIONE EUROPEA E STATO DI DIRITTO II, di Teodoro Klitsche de la Grange

UNIONE EUROPEA E STATO DI DIRITTO II

1. Lo stesso giorno in cui in rete appariva il mio articolo sullo stesso tema http://italiaeilmondo.com/2020/09/30/lunione-europea-e-lo-stato-di-diritto-di-teodoro-klitsche-de-la-grange/ e con uguale titolo, la Commissione Europea pubblicava la “relazione sullo Stato di diritto 2020”, che conferma da un lato e chiarisce dall’altro, alcune e opinioni (anche) da me evidenziate.

In primo luogo: tra i tanti caratteri dello Stato di diritto, che ricordavo nell’articolo precedente, la Commissione, per formulare i propri giudizi sulla “conformità” al Rechtstaat dei 27 Stati dell’Unione ne prende in esame quattro: il sistema giudiziario nazionale, il contrasto alla corruzione, il pluralismo e la libertà dei mezzi di comunicazione, ed altre questioni – di carattere istituzionale – di bilanciamento di poteri. Un’attenzione a parte poi è dedicata alla pandemia e alle situazioni e normative emergenziali indotte (v. ad esempio i DPCM del Governo italiano). La presidente Von der Leyen ha detto che “lo Stato di diritto e i nostri valori condivisi sono alla base delle nostre società. Fanno parte della nostra identità comune di europei. Lo Stato di diritto difende i cittadini dalla legge del più forte. Pur avendo standard molto elevati in materia di Stato di diritto nell’U.E., abbiamo anche diversi problemi da affrontare” (sul che si può concordare).

La vice Presidente Jourovà ha aggiunto “La nuova relazione esamina per la prima volta tutti gli Stati membri allo stesso modo per individuare le tendenze in materia di Stato di diritto e contribuire a prevenire l’insorgere di gravi problemi”.

Il rapporto, dopo una premessa generale, si articola su 27 capitoli, relativi a ciascuno degli Stati membri. La valutazione si basa (anche) sulle decisioni delle Corti europee e sulle raccomandazioni del Consiglio d’Europa.

La prima conferma di quanto emergeva da precedenti documenti dell’Unione è che i quattro pilastri di valutazione della Commissione sono pochi. Il concetto di “Stato di diritto” comprende altri pilastri, anche se, a leggere i documenti, in qualche misura la stessa relazione, in alcuni passi, deborda dal limite dei quattro esaminati. Come, tra i quattro considerati, ve ne sono un paio non proprio tipici del Rechtstaat.

Così vi sono pilastri, in particolare quello sulla lotta alla corruzione che non costituiscono un “fundamentum distincionis” dello Stato di diritto, non solo perché non lo si trova negli scritti di quei pensatori che hanno formulato la/e concezione/i dello “Stato di diritto”, ma perché molti Stati, tranquillamente non riconducibili allo Stato di diritto, perseguono la corruzione, talvolta in misura più energica degli Stati di diritto. Lo Stato di diritto non trasforma i governanti in angeli, come quello non di diritto in demoni; tale giudizio lo si ricava – nella premessa – già dal Federalista.

2. Un capitolo della relazione è dedicato all’Italia.

Sul primo pilastro (cioè sul sistema giudiziario) la Commissione scrive “È in vigore un solido quadro legislativo a salvaguardia dell’indipendenza della magistratura, sia per i giudici che per i pubblici ministeri. Il potere giudiziario è pienamente separato dagli altri poteri costituzionali”; tuttavia i cittadini non la pensano come la Commissione “Il livello di indipendenza della magistratura percepito in Italia è basso. È considerato buono o molto buono soltanto dal 31% dei cittadini e dal 36% delle imprese, percentuali diminuite tra il 2019 e il 2020. Le ragioni principali per cui i cittadini e le imprese avvertono una mancanza di indipendenza sono le interferenze o le pressioni esercitate dal Governo, dai politici e dai rappresentanti di interessi economici o di altri interessi….”. E perché c’è questo divario tra il lusinghiero giudizio della Commissione e quello – assai meno confortante – degli italiani? Qua la Commissione trascura l’aspetto principale: non è che i cittadini sono preoccupati solo delle “interferenze e pressioni” di Governo e prestiti, ma sono parimenti – e forse di più – preoccupati per i processi, per lo più risoltisi in bolle di sapone – contro leaders e politici del centrodestra (e non solo), asseritamente dovuti alla contiguità di certi settori – maggioritari – della magistratura al centrosinistra. Oltretutto tali processi sono stati caratterizzati da una scarsa rilevanza pubblica delle questioni (come le notti di Arcore a casa Berlusconi), fino al “sequestro di persona” a carico del Ministro degli Interni consistito nel fermo in porto (per quattro giorni) di una nave di migranti. In tal caso, peraltro, pare che i sondaggi diano una significativa maggioranza di consensi popolari all’azione del Ministro imputato.

Inoltre, questa “percezione di bassa indipendenza” è stata rafforzata dallo scandalo delle intercettazioni sul cellulare di Palamara, comprovanti sia la contiguità tra magistrati e politici del centrosinistra, sia la “lottizzazione” degli incarichi dirigenziali in Procure e Tribunali.

Sul perché avviene ciò, malgrado le rilevanti garanzie d’indipendenza della magistratura, tra le più tutelate della U.E., dipende anche dal fatto che, se il potere politico non ha il potere di perseguire i magistrati, ha tuttavia quello di premiarli. A parte gli incarichi amministrativi (numerosi) e in qualche caso, anche giudiziari, spesso magistrati in servizio sono presentati alle elezioni nazionali ed amministrative. Se non eletti (raro) o non rieletti (più facile) ritornano a fare i giudici.

Questa permeabilità tra poteri e carriere non pare conforme ai principi dello Stato di diritto. Montesquieu già sosteneva che la distinzione dei poteri esige d’essere non solo oggettiva, ma anche soggettiva. E conseguentemente negava che le repubbliche italiane, dove spesso i poteri erano distinti, ma erano composti e designati dallo stesso “corpo” di magistrati, la libertà fosse garantita; anzi lo era, a suo giudizio, meno che nelle monarchie assolute1. Anche se l’elettorato passivo è un diritto, per evitare ingressi ed uscite dai poteri a “porte girevoli”, occorrerebbe un regime d’incompatibilità più restrittivo di quello vigente.

Ciò che è omesso, tuttavia, in tema di giustizia, è più interessante di quello che la Commissione prende in esame. Se ricorda, come problema, la lentezza della giustizia italiana, omette di ricordare che anche in forza di disposizioni emanate nell’ultimo trentennio, in Italia eseguire una sentenza contro la PA è sempre più difficile, al punto da richiedere spesso 4-5 anni; una durata superiore a quella – media – del processo di cognizione definito con la decisione giudiziaria da eseguire.

Il tutto è stato oggetto dell’attenzione ripetuta della Corte EDU, con arresti non considerati dalla Commissione.

Non si valuta, poi, quel che risulta dalle stesse contestazioni fatte (qualche anno orsono) dalla Commissione U.E. all’Italia sulla disciplina della legge sulla responsabilità dei magistrati (e di riflesso, dello Stato). Nella sentenza2 della Corte di Giustizia UE del 24/11/2011; si accoglieva il ricorso della Commissione condannando l’Italia3 per la relativa legislazione. Questo perché (citiamo da un’altra sentenza della Corte di giustizia) “Considerazioni (…) connesse alla necessità di garantire ai singoli una protezione giurisdizionale effettiva dei diritti che il diritto comunitario conferisce loro, ostano (…) a che la responsabilità dello Stato non possa sorgere per il solo motivo che una violazione del diritto comunitario imputabile ad un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado risulti dall’interpretazione delle norme di diritto effettuata da tale organo giurisdizionale”: qui era valutata dal giudice europeo l’idoneità della normativa nazionale a garantire i diritti fondamentali dei cittadini. Invece è evidente che tale preoccupazione nella relazione della Commissione passa in secondo piano rispetto alla tutela (peraltro neppure esaustiva) delle garanzie istituzionali del potere giudiziario (a quelli – strumentalmente – connessa).

Concludendo su tale pilastro: la valutazione è parziale e peraltro non tiene conto della giurisprudenza delle Corti europee (non la contraddice, ma la dimentica). Più in generale omette di considerare che, perché uno Stato (anche non di diritto), ma a maggior ragione se tale, esista e garantisca una protezione effettiva, è necessario che il diritto sia applicato efficacemente. Il che in Italia, relativamente all’amministrazione pubblica soprattutto, avviene spesso male e sempre in ritardo. Nel paragrafo dedicato nella relazione UE all’efficienza del sistema giuridico manca così l’esame dei dati più sconfortanti.

3. La parte sulla lotta alla corruzione si apre con dati sulla percezione della stessa dai quali si evince che i cittadini italiani ritengono, con percentuali assai superiori alla media UE, che la corruzione sia molto diffusa. Prosegue poi con l’esame delle iniziative anti-corruzione, valutate positivamente. Il dato, comunque, andrebbe “associato” con quello dell’efficienza della giustizia, che incide sull’efficacia di queste misure.

Resta poi da capire quanto l’attenzione dedicati alla “grande” corruzione (con relative autorità, procure, uffici di polizia specializzati) possa incidere sulla “corruzione quotidiana” delle licenze, concezioni, permessi, autorizzazioni: che poi è quella che probabilmente influenza di più la percezione che, della corruzione, hanno gli italiani. Per questo, sarebbe utile più che un’autorità apposita, un miglioramento della tutela giudiziaria, in particolare amministrativa, l’aggravio delle pene (o l’istituzione) per comportamenti elusivi della P.A.; nonché una normativa generale d’applicazione dell’art. 28 della Costituzione sulla responsabilità dei funzionari.

Resta comunque da capire come la lotta anti-corruzione sia un pilastro dello Stato di diritto (un proprium) e non pilastro di ogni Stato. Inoltre realisticamente occorre tener conto della considerazione di Max Weber – relativa alla corruzione politica, che chi fa politica, vive in genere (anche) di politica.

4. Il pilastro del pluralismo dei media offre un quadro sostanzialmente positivo; a giudizio della Commissione; tuttavia “l’indipendenza politica dei media italiani continua a destare preoccupazione, anche a causa delle “relazioni indirette” tra gli interessi degli editori e il Governo (nazionale e non locale). Sul che si può concordare.

5. Il quarto pilastro su cui si è appuntata l’attenzione della Commissione sono le “questioni istituzionali relative al bilanciamento dei poteri”. Sostanzialmente la Commissione approva l’ordinamento italiano. Tuttavia registra le preoccupazioni di organizzazioni internazionali in relazione alla campagna denigratoria contro le ONG attive nel settore della migrazione e dell’asilo. Anche in tal caso non è chiara la relazione tra denigrazione delle ONG e Stato di diritto.

6. In conclusione la concezione dello Stato di diritto della Commissione U.E. è una delle tante letture che se ne possono avere.

Quel che più colpisce nella relazione è l’assenza dell’esame dei caratteri non meno influenti di quelli valutati. Nell’articolo precedente ne avevo individuati sei, dei quali, al massimo tre rientrano – almeno parzialmente – nei quattro pilastri della Commissione. Ancor più, degli aspetti assai importanti, non sono per nulla presi in esame, malgrado riconducibili ai pilastri. Per l’Italia, ad esempio, la posizione di parità processuale nei processi contro soggetti pubblici, e ancor più l’eguaglianza di trattamento nell’esecuzione dei provvedimenti giudiziari, così ridotta negli ultimi trent’anni, è stata completamente obliterata.

Il tutto è contrario al principio di “parità delle armi” più volte statuito dalla Corte EDU, perché non solo incide sull’esecuzione delle decisioni (cioè sull’effettività e completezza della tutela giudiziaria), ma anche sulla parità processuale più spesso in fatto che in diritto4.

Al contrario poi di quanto si possa leggere sui media (per lo più) si avverte comunque che, anche se omissiva, la relazione delinea come l’insieme degli Stati dell’U.E. sia sostanzialmente di diritto, pur con qualche menda.

Anche gli Stati come l’Ungheria e la Polonia. Se infatti la UE non ha impostato la relazione su punti qualificanti, anche più di quelli presi in esame, lo si deve probabilmente attribuire al fatto che violazioni gravi, ad esempio alla garanzia dei diritti fondamentali, al principio di legalità, al pluralismo non ve ne sono – o almeno ve ne sono di non gravi.

Il che se da una parte potrebbe essere rassicurante (al netto della necessaria diplomazia e delle emergenze della lotta politica) dall’altro, per le violazioni comunque in essere, difficilmente si troverà un difensore a Bruxelles.

Teodoro Klitsche de la Grange

1 v. Esprit de lois, Lib. XI, cap. 6.

2 v. sentenza punto 6 “In data 10 febbraio 2009 la Commissione inviava una lettera alla Repubblica italiana in cui dichiarava che, escludendo qualsiasi responsabilità dello Stato italiano per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto dell’Unione imputabile a un organo giurisdizionale nazione di ultimo grado… e limitando tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave, ai sensi dell’art. 2, commi 1 e 2, della legge n. 117/88, la Repubblica italiana era venuta meno agli obblighi fa essa incombenti”

3 Peraltro molto simile è il dictum della sentenza 13 giugno 2006, causa C. 173/03.

4 Per esempio con l’esclusione di prove in giudizio, che in fatto limitano la parte privata assai più di quella pubblica, come nel processo tributario.

L’UNIONE EUROPEA E LO STATO DI DIRITTO, di Teodoro Klitsche de la Grange

L’UNIONE EUROPEA E LO STATO DI DIRITTO

1. Dopo essere stato messo (politicamente) in naftalina, lo “Stato di diritto”, grazie, soprattutto, all’Unione Europea, è tornato alla ribalta, non solo nelle procedure d’infrazione attivate (v. Polonia ed Ungheria); ma è celebrato quale “valore fondante” dell’Europa nei discorsi dei politici (e così via). Date le mie convinzioni politiche, di tale revival non posso che essere lieto; ma, tenuto conto a) del concetto e b) della normativa europea, occorre segnalarne l’ampia possibilità di un uso improprio e strumentale.

Cominciamo col dire che dello “stato di diritto” (per non dire di concetti prossimi) i giuristi – e non solo – hanno dato tanti significati, quasi pari al numero di quelli che se ne sono occupati.

Il termine comincia ad essere usato nella dottrina (e nella politica) tedesca dalla prima metà dell’800, per connotare il nuovo tipo di organizzazione statale e di rapporti tra società civile e poteri politici. Il Rechtstaat era contrapposto al Machtstaat (e al Polizeistaat) in quanto (al minimo) limitato dal diritto (e dai diritti).

I caratteri fondamentali di tale nozione erano: la libertà degli individui, titolari di diritti insopprimibili, anche dallo Stato; la certezza (calcolabilità) del diritto; il vincolo dell’attività amministrativa alla legge; il controllo di quella da parte di uffici giurisdizionali indipendenti.

Accanto a ciò si configurava – anche se concettualmente separata – la partecipazione dei cittadini alla gestione statale e in particoilare alla legislazione. Già un coerente liberale come Constant faceva dell’esercizio solerte dei diritti di partecipazione alla formazione della volontà pubblica – la “libertà degli antichi” – il complemento e la garanzia dei diritti di libertà dell’oppressione (anche) dello Stato1. Nello stesso tempo il collegamento tra prevalenza della legge sull’atto amministrativo e partecipazione della rappresentanza nazionale (cioè dei cittadini-elettori) alla formazione della legge, faceva sì che questa fosse “trattata con indulgenza” nel senso che, a differenza degli atti del potere giudiziario ed amministrativo (sentenze e provvedimenti) non fosse assoggettata ad alcun controllo né esterno, ma neppure interno.

Non mancavano comunque concetti, in parte coestensivi, con quello di Stato di diritto. V. E. Orlando, dopo aver distinti tra forme dispotiche, semilibere e libere di governo2, a seconda dei diritti di partecipazione alla cosa pubblica riconosciuti (e non riconosciuti) ai governati, includeva tra i fondamenti della forma di “governo rappresentativo”, la distinzione dei poteri “il governo rappresentativo si fonda principalmente sulla giuridica distinzione dei poteri e sull’appropriazione ad essi di organi determinati” e la tutela giuridica “il governo rappresentativo attua scrupolosamente e pienamente la tutela giuridica fra i consociati (obietto del Diritto amministrativo)”.

Accanto ai quali il giurista siciliano aggiungeva due caratteri: “Il governo rappresentativo moderno si propone di curare ed attuare l’armonia esterna e costante fra i due elementi essenziali, cioè la coscienza popolare e la tradizione, non solo nel fatto, come in ogni forma di governo, ma altresì nel diritto positivo, per mezzo di istituti determinati”; ed anche la “pubblicità è finalizzata al controllo da parte dell’opinione pubblica”. La quale, secondo Schmitt era conseguenza del carattere democratico della Repubblica di Weimar3.

Carré de Malberg, proprio come derivante dell’illimitatezza della legge, negava che, per la Francia, potesse parlarsi di Stato di diritto, ma piuttosto di État legal4. Tra le differenze dell’État legal rispetto all’État de droit, il giurista francese sottolineava l’impossibilità di ricorrere avversi gli atti legislativi violativi di diritti, che nell’Ésprit dello Stato di diritto avrebbero dovuto essere garantiti dalla Costituzione anche nei confronti del potere legislativo5.

Anche M. Hauriou pensava che il controllo giurisdizionale in un paese di diritto amministrativo come la Francia si sarebbe fatta strada, e che Le règime administratif avrebbe evitato che degradasse in un governo di giudici6.-

2. L’introduzione del controllo giudiziario di costituzionalità e delle costituzioni rigide del ‘900 ha attuato l’auspicio/previsione dei giuristi francesi testé citati, ampliando l’ambito dello Stato di diritto. Peraltro, a prescindere dalla tutela giudiziaria, anche sul piano sostanziale con l’includere tra i diritti fondamentali non solo libertà e proprietà, ma anche quelli a carattere sociale. Il Rechstaat diveniva così anche un Sozialstaat.

Con ciò il nuovo stato di diritto assumeva una connotazione (anche) di contenimento (se non di contrapposizione) del capitalismo.

Peraltro i diritti “sociali” aventi un carattere (prevalente) d’obbligo e richiedenti un’apposita organizzazione – pubblica o, almeno, regolata e controllata pubblicamente – determinavano l’espansione della presenza dello Stato; e data la “contraddittorietà” tra i diritti garantiti, la composizione del tutto richiedeva tecniche interpretative che ne conciliassero le antinomie (come il “bilanciamento”) e valorizzassero i principi costituzionali. Dallo Stato di diritto si passava così allo “Stato costituzionale di diritto”. Come scrive un acuto giurista argentino, Luis Bandieri, analizzando la dottrina costituzionalista italiana più recente, riconducibile a quella concezione, si è passati così da un positivismo di norme (kelseniano) a un positivismo di valori.

Inoltre, a seguito delle dichiarazioni internazionali sui diritti dell’uomo (v. La dichiarazione ONU dei diritti dell’uomo del 1948; Convenzione europea dei diritti dell’uomo – tra le più importanti) alcuni dei fondamenti dello Stato di diritto sono stati internazionalizzati (dandone luogo ad una “globalizzazione”). Lo Stato di diritto inotre è stato esplicitamente richiamato nel TUE (art. 2 e 21), tra i principi e i valori fondamentali dell’Unione; si legge all’art. 2 “L’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini” e all’art. 21 “L’azione dell’Unione sulla scena internazionale si fonda sui principi che ne hanno informato la creazione, lo sviluppo e l’allargamento e che essa si prefigge di promuovere nel resto del mondo: democrazia, Stato di diritto, universalità e indivisibilità dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, rispetto della dignità umana, principi di uguaglianza e di solidarietà e rispetto dei principi della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale” (I comma); al comma II “L’unione definisce e attua politiche comuni e azioni e opera per assicurare un elevato livello di cooperazione in tutti i settori delle relazioni internazionali al fine di….b) consolidare e sostenere la democrazia, lo Stato di diritto, i diritti dell’uomo e i principi del diritto internazionale”. Con ciò lo Stato di diritto si trova in sovrabbondante compagnia (talvolta anche ridondante).

3. Da tale necessariamente breve – e limitata – esposizione consegue che a denotare il concetto di Stato di diritto (e delimitarne così l’estensione) e ricondurre al di esso schema ideale un ordinameno statale concreto sono:

a) la garanzia dei diritti fondamentali, sia quelli “borghesi” che quelli “sociali” (almeno in parte)

b) la distinzione dei poteri. Si noti che la distinzione è attuata dalle costituzioni in modi e forme assai diverse

c) in particolare, tra le garanzie, vi sono quelle giurisdizionali, che Salandra già distingueva in dirette e indirette

d) in tale contesto rientrano anche le institutionnellegarantien, come quelle sull’indipendenza del potere giudiziario e del giudice

e) le garanzie giudiziarie (v. punto c) sono complete. Ossia nel XXI secolo, anche sugli atti legislativi, col controllo di costituzionalità; esse, per quanto possibile, devono svolgersi in condizioni di parità7.

f) l’osservanza di condizioni eque nella formazione di organi di governo e dell’opinione pubblica.

Anche si potrebbe osservare che non rientrano in un concetto “stretto” dello Stato di diritto, ma piuttosto in quello di democrazia, appare corretta l’impostazione condivisa, tra gli altri, da Constant e Orlando (ma anche da Gneist) che la corretta partecipazione dei cittadini alla funzione pubblica è carattere determinante dello Stato di diritto.

Tralasciamo altri aspetti, di minimo rilievo.

4. È noto che lo Stato di diritto è stato declinato in tanti modi quante sono le costituzioni che ne hanno adottato il modello o, almeno, alcuni caratteri fondamentali; ne deriva che a seconda dell’importanza che si da all’uno o all’altro profilo si rischia di escludere che un ordinamento costituzionale concreto sia uno Stato di diritto. Ad esempio nella procedura U.E. d’infrazione alla Polonia è stata contestata le limitazioni all’indipendenza dei giudici polacchi dopo le innovazioni degli ultimi anni8. Nella risoluzione del Parlamento europeo del 17/09/2020 si stigmatizzano varie violazioni allo Stato di diritto per lo più per l’invadenza del potere governativo sul giudiziario, che compromette l’indipendenza di quest’ultimo, soprattutto per la nomina (politica) di quasi tutto il CSM polacco. Tuttavia negli USA tutti i giudici della Corte Suprema, e molti di quelle “inferiori” sono di nomina (o elezione) politica, ma pare assai difficile sostenere che gli USA non sono uno Stato di diritto, ma anche che quel modo di nominare comprometta gravemente lo Stato di diritto (come scritto – per le meno influenti innovazioni polacche – nell’epigrafe della risoluzione del Parlamento europeo per la procedura d’infrazione alla Polonia).

Oltretutto, come cennato, alcuni di quei fondamenti del Rechtstaat non sono complementari o sovrapponibili senza problemi, ma potenzialmente confliggenti, in specie quando riguardano la democrazia e l’uguaglianza, le quali, oltretutto, oltre a essere parzialmente coincidenti con il concetto di Stato di diritto, sono anche esse indicate tra i “valori fondanti” dell’UE (v. art. 2 T. U.E.).

La contrapposizione tra Stati di diritto, o meglio Stati di democrazia liberali e Stati di non democrazia liberale, come i defunti Stati del socialismo reale era – per altri ordinamenti – facile, perché le differenze erano plurime.

L’assenza, in quest’ultimi, di distinzione di poteri, la garanzia di solo alcuni dei diritti fondamentali (in genere a rimetterci erano la libertà e, in larga misura, la proprietà); la dipendenza della magistratura dal potere politico, la selezione ed elezione della rappresentanza parlamentare; il ruolo di questa, e quello dirigente del Partito comunista; l’imperfetto – o totalmente carente, pluralismo politico; la mancanza di istituzioni giudiziarie di garanzia contro gli atti del potere politico-amministrativo (giustizia amministrativa e costituzionale) rendevano di inconfutabile evidenza che si trattava di forme di stato e di governo radicalmente diverse. Giudizio corroborato dalle dichiarazioni e preamboli a alle di essi costituzioni che – di solito – contrapponevano esplicitamente il loro ordinamento a quello liberal-democatico.

Il che non ricorre affatto nella procedura d’infrazione a carico di Polonia ed, ancor più, Ungheria. Qua la stessa UE scrive non di Stati non di diritto, ma di gravi violazioni dello Stato di diritto (a intenderla in un senso, sono ordinamenti in complesso accettabili ma con dei vulnera). Diversamente da quel che si legge sulla stampa antipopulista in s.p.e. ed eurolirica dalla quale si potrebbe credere che i suddetti Stati siano sintesi politiche per nulla liberali e anche non del tutto democratiche. Mentre invece, tenuto conto dell’elasticità del concetto di Stato di diritto, occorre dare un giudizio complessivo e avere la prudenza consigliata da Machiavelli che, in politica, occorre prendere “il men tristo per buono”. In effetti se pure – ad esempio – alcune innovazioni al rapporto governo/giurisdizione incidono negativamente sull’indipendenza dei giudici polacchi, e possono essere considerate violazioni gravi, oltre, come quelle elencate nei punti 54-63 della citata risoluzione del Parlamento UE sulla libertà e l’educazione sessuale, sull’intolleranza verso minoranze (soprattutto LGBT) non appaiono gravemente compromettenti lo Stato di diritto.

Piuttosto provano che l’Unione Europea, sotto l’involucro “Stato di diritto” cela una propria concezione della società e dei rapporti sociali e politici che dello Stato di diritto può essere considerata una specie (in parte); in altra estranea. D’altronde ciò emerge esplicitamente dalla risoluzione del 17 settembre 2020 sulla Polonia, laddove il Parlamento (v. punto 66) “invita il Consiglio e la Commissione ad astenersi da un’interpretazione restrittiva dello Stato di diritto…”, cioè da quella (meglio da quelle) interpretazione che non soddisfano la maggioranza parlamentare che l’ha votata.

Teodoro Klitsche de la Grange

1 v. B. Constant, La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni, Liberilibri, Macerata 2020, pp. 26 ss.

2 v. Principi di diritto costituzionale, Barbera, 1904, pp. 63 ss.

3 v. Verfassungslehre, trad. it., di A. Caracciolo, Milano 1984, pp. 319 ss. Infatti Schmitt afferma “Il popolo appare solo nella pubblicità: esso produce anzi la pubblicità. Popolo e pubblicità coesistono; nessun popolo senza pubblicità e nessuna pubblicità senza popolo”.

4 Scrive infatti “Tandis que la législation est libre, l’administration est constitutionnellement liée ; elle ne peut s’exercer que sous l’empire des lois, qui la dominent et la limitent juridiquement ; elle est donc tenue d’obeir aux lois et de s’y conformer. C’est là une consequénce de la supériorité, en particulier de la superiorité statutaire, de la loi” Contribution à la théorie général de l’État, Tome 1, Paris 1924, p. 486 e ss; nel diritto francese la subordinazione dell’amministrazione alla legge arriva a un punto che non può esercitarsi che secundum legem (la legge è non solo il limite, ma anche la condizione di esercizio del potere amministrativo). Lo Stato di diritto è quello che “assure aux administrés, comme sanction de ces règles, un pouvoir juridique d’agir devant une autorité juridictionnelle à l’effet d’obtenir l’annullation, la réformation ou en tout cas la non-application des actes administratifs qui les auraient enfreintes” (oltre s’intende alla regolamentazione legislativa dell’amministrazione). Ma “Toute autre est le système établi par la mConstitution française en ce qui concerne la subordination de la puissance administrative à la législation » per cui compete alla repubblica francese essere denominata État legal, ossia « un État dans lequel tout acte de puissance administrative présuppose une loi à laquelle il se rattache et dont il soit destiné à assurer l’exécution”.

5 Op. cit., p. 492.

6 v. Précis de droit constitutionnel, Paris 1929, pp. 266 ss. e pp. 279 ss.

7 Com’è noto non è sempre del tutto possibile. V. sul punto rimando al mio scritto Temi e dike nel tramonto della Repubblica in Rivoluzione liberale 17/07/2018.

8 v. La risoluzione del Parlamento europeo del 17/09/2020 sulla proposta di decisione del Consiglio sulla constatazione dell’esistenza di un evidente rischio di violazione grave dello Stato di diritto da parte della Repubblica di Polonia (COM(“2017)0835-2017/0360R(NLE)); in particolare i punti da 16 a 37, sul potere giudiziario.

MES. L’Europa e il Trattato impossibile, a cura di Teodoro Klitsche de la Grange

A.A.V.V. (a cura di Alessandro Mangia), MES. L’Europa e il Trattato impossibile, Scholé, Brescia 2020, pp. 243, € 18,00.

Un gruppo di giuristi, coordinato da Alessandro Mangia, s’interroga su cosa (e e che effetto debba e possa avere) il MES. Scrive Alessandro Mangia, ripetendo – ironicamente – un frammento del Digesto che nel diritto ogni definizione è pericolosa: c’è poco che non possa essere smentito o capovolto. «E questo appare tanto più vero per il MES, che è un oggetto misterioso dal punto di vista del diritto. Del MES, di ciò che può fare e non fare, di che cosa sia e a cosa serva, hanno parlato in tanti. Ma ne hanno parlato soprattutto economisti che si sono beati della ‘potenza di fuoco’ di un oggetto che galleggia nell’indistinto che sta fra diritto internazionale, diritto bancario, diritto costituzionale senza essere in grado di coglierne le pericolose anomalie. Se a questo si aggiunge la polemica politica, e la cattiva informazione, si capisce perché del MES si sia potuto dire tutto e il contrario di tutto». Peraltro «del MES non hanno parlato i giuristi, se non incidentalmente»; la conseguenza è che «del MES hanno parlato soprattutto economisti, politici e funzionari vari», spesso anche per andare su un giornale o in televisione. E il risultato è di «affidarsi a chi non ha né addestramento né forma mentale a cogliere le impressionanti implicazioni di ordine giuridico e istituzionale che derivano dall’essersi affidati ad un Trattato internazionale per regolamentare attraverso le forme del diritto privato i rapporti tra Stati sovrani» e ciò equivale a «farsi spiegare il Codice Civile o il diritto romano da un ingegnere. O un manuale di Tecnica delle Costruzioni da un giurista».

Mentre ha un’importanza decisiva parlarne e valutarlo in termini giuridici perché «il diritto è una tecnica antica di ricoscimento, analisi, e composizione di interessi confliggenti». E qua gli interessi confliggenti non mancano e sono di enorme rilievo. Per capire come il MES è bisogna partire dal fatto che è un’istituzione e cioè «una realtà che di per sé non è né giuridica, né economica, ma è, prima di tutto, una struttura fatta di regole giuridiche e comportamenti materiali», che interagiscono tra loro e con altre istituzioni. Pertanto vedere il MES solo dal punto di vista del Trattato, senza analizzare gli interessi concreti che lo hanno creato, se ne capisce molto poco. Il MES è stato istituito «per cercare di colmare un buco di progettazione originario del Trattato di Maastricht del 1992: una Banca Centrale che non fa le cose che normalmente fanno le Banche Centrali di tutto il mondo». Per rimediarvi, e, a seguito della crisi del 2007, che rese evidente l’inadeguatezza della BCE ad affrontare e superare le emergenze, s’istituzionalizzò il MES come strumento temporaneo (e quindi eccezionale) d’intervento.

A tale istituzione (e ai suoi funzionari) sono stati concessi privilegi da Stato sovrano e il che, tra l’altro, viola le costituzioni degli Stati aderenti «sul versante di pienezza e generalità della tutela giurisdizionale» (v. art. 24 Costituzione italiana). Così se per le dovute forme e regole speciali è processabile da un Tribunale un Ministro degli Interni, non lo è una dattilografa del MES. Inoltre il consiglio dei Governatori del MES è composto dai Ministri economici dei governi aderenti, che sono tenuti al “segreto professionale” «Non si tratterebbe di un grande problema se il MES fosse una normale istituzione bancaria»; lo diventa se poi i Ministri devono rispondere – com’è – al Parlamento; per cui il «segreto professionale» entra in conflitto con le procedure della rappresentanza parlamentare. Questo mescolare principi, istituti e procedure di diritto pubblico e privato ne ha fatto un ircocervo, peraltro zoppo. E, come qualcuno dice, anche “stupido”. Ma, spesso la disciplina europea non è così stupida come descritta, spesso intenzionalmente, quando serve da base argomentativa al ritornello “ce lo chiede l’Europa”. Infatti il difetto fondamentale della BCE, nata anch’essa claudicante, era di non prevedere per essa tutti poteri attribuiti alle Banche centrali, magari poco rilevanti in tempi normali, ma decisivi in situazioni eccezionali; e a questo “errore di progettazione” dovrebbe rimediare il MES, anch’esso zoppo. Tuttavia una via d’uscita c’è: l’art. 122 del TFUE consente all’UE di dare assistenza finanziaria ad uno Stato membro in difficoltà “seriamente minacciato da gravi difficoltà a causa di calamità naturali o di circostanze eccezionali che sfuggono al suo controllo”. Norma che non “sana” le spese allegre dello Stato membro, ma è la classica eccezione non riconducibile ad azioni o omissioni dei governi.

Strada che, secondo gli autori di questi saggi è la migliore e la più percorribile. Ma non sembra che in Europa (e in Italia la maggioranza di governo) ne abbia l’intenzione

Teodoro Klitsche de la Grange

REFERENDUM E RAPPRESENTANZA, di Teodoro Klitsche de la Grange

REFERENDUM E RAPPRESENTANZA

Il dibattito sul referendum d’approvazione del taglio del numero dei parlamentari mi ha indotto a pubblicare nuovamente un mio lungo articolo sulla rappresentanza politica, apparso nel 1984 su “IlConsiglio di Stato”.

In effetti il dibattito attuale, complici anche alcune (meno recenti) affermazioni degli esponenti dei “5 Stelle” sulla sostituzione della democrazia rappresentativa con quella diretta (grazie alla rete) ha riportato l’attenzione e la polemica sulla funzione e il carattere della rappresentanza politica, come sul vario significato attribuito al termine – a seconda non solo delle convinzioni oggettive, ma dell’angolo visuale e dal campo da cui (e in cui) lo si esamina.

È stato ripetutamente affermato ad esempio che la riduzione del numero dei parlamentari ridimensiona la rappresentanza (meglio sarebbe dire che rende più difficile la rappresentatività).

Ma, dato che rappresentante politico può essere anche un organo monocratico (il Re o il Presidente della Repubblica), e che il carattere rappresentativo dei Capi di Stato è riconosciuto dalla dottrina e – esplicitamente – dalle costituzioni degli Stati, in particolare borghesi (v. articolo) non si capisce come ridurre il numero dei parlamentari possa ridimensionare la rappresentanza politica. La quale nella sua (prima) formulazione moderna – che è di Thomas Hobbes – si riferisce (anche se non esclusivamente) proprio al monarca, cioè a un organo monocratico.

È vero che meno sono i rappresentanti nelle assemblee, più difficile garantire non la rappresentanza ma la rappresentatività cioè in qualche modo, la “carta geografica” di Mirabeau. Ma è arduo affermare che una riduzione di un terzo possa compromettere la rappresentatività: in fondo ci sono grandi Stati – gli USA in primo luogo, che hanno meno di seicento parlamentari per trecento milioni di abitanti, e non sembra che la capacità decisionale e l’influenza del Congresso ne risenta.

Altro argomento è che, riducendone il numero, lavorerebbero meglio (o peggio a seconda dei punti di vista). Pare anche in tal caso difficile sostenere che un taglio così limitato possa compromettere la “capacità di lavorare”. Forse se la qualità dei rappresentanti migliorasse, quella ne risentirebbe in positivo. Resta comunque plausibile l’argomento contrario – alle origini poi della rappresentanza politica moderna che proprio la limitazione del numero era un vantaggio per deliberare. Onde un grande Stato non si poteva governare se non mediante organi rappresentativi. E così via, non considerando che la rappresentanza è un principio di forma politica, la cui funzione è di dar capacità d’esistenza e azione alla comunità e all’istituzione in cui s’organizza.

Rispetto alla quale tutto il dibattere sulla riduzione appare come un’ “arma di distrazione di massa”: si dibatte su un problema piccolo piccolo e si evita di risolvere – e perfino di porre quelli grandi e decisivi. Per cui non vale la pena di rinunciare ad una scampagnata, e non solo per paura del Covid.

Teodoro Klitsche de la Grange

Note sulla rappresentanza politica

MEGLIO GLI EUROCATTIVI, di Teodoro Klitsche de la Grange

MEGLIO GLI EUROCATTIVI

È confermativa dell’andazzo (e delle “costanti”) del governo giallorosso e della sua componente piddina ciò che la stampa ha riportato come affermato da Gentiloni (e confermato da Conte), che la U.E. non gradisce che gli aiuti europei del c.d. “recovery fund” vadano in riduzioni fiscali. Lo è per due motivi principali: il primo è che Gentiloni è esponente di un partito il quale, da sempre, ha come programma elettorale credere, obbedire (ma soprattutto) pagare e ciò (anche e soprattutto) allo scopo di accrescere il potere di chi poi dovrà spendere quei quattrini.

La seconda, a sentire questi statolatri (non solo piddini, dato che – tra i tanti – lo disse, rapito, Padoa Schioppa “pagare le tasse è bellissimo”) perché gli aiuti dell’U.E. saranno usati per le cause più condivise e commoventi: per far del bene, perché il modello di società fiscobulimica è il migliore dei mondi possibili, i tecnici (o simili) sanno più del popolo, per realizzare la “giustizia sociale” (quale?) e via affabulando.

Senza chiarire perché – negli ultimi venticinque anni – alla stagnazione dell’economia italiana sia corrisposto un aumento della pressione fiscale. Per cui la percezione del volgo ignorante è che stagnazione e tassazione sono due gemelli siamesi: non possono vivere lontani.

La spiegazione che sempre più, anche il popolo, tende a darne è che da decenni gli statolatri non abbiano in testa un modello produttivo, bensì un modello distributivo. e che questo sia in funzione degli interessi di chi governa. Il quale ha il vantaggio di distribuire le carte (bonus, esenzioni, agevolazioni, ecc.) in funzione del proprio interesse di governante: durare. O andreottianamente tirare a campare.

Ma c’è un terzo motivo, meno evidente, delle parole di Gentiloni: che tutte le élite decadenti – e quella cui appartiene Gentiloni lo è da decenni – tendono a celarsi dietro un entità “terza” o anche “neutra”. In particolare, in questo frangente, la U.E. Quante volte abbiamo ascoltato il grave e solenne richiamo “ce lo chiede l’Europa?”. E invece, più che l’Europa, ce lo impongono le élite burocratico-governative nostrane. Un caso eclatante, tra i tanti, fu il chiarimento di Bolkestein, il quale, giustamente, alcuni anni fa fece notare (ma fu subito dimenticato) come la normativa che aveva generato in Italia tante agitazioni non c’era nella direttiva europea la quale dallo stesso prendeva il nome, ma era stata introdotta nella “attuazione” nazionale da qualche misteriosa “manina” ministeriale.

E questa volta un aiuto ce lo può dare (perfino) sua cattiveria la signora Merkel. All’inizio di luglio Frau Merkel disse che tra le misure per la ripresa tedesca dopo il Covid, avrebbe ridotto temporaneamente di tre punti l’IVA tedesca, la quale è già di tre punti inferiore a quella italiana. Così che per circa un anno i tedeschi pagheranno sei punti di imposta in meno degli italiani: uno stimolo enorme all’aumento della domanda interna, crollata – con la produzione – a seguito del lock down. A fronte del quale green economy, monopattini e bici elettriche fanno sorridere.

E che somiglia, anche se più “avanzata” alla proposta di tregua fiscale fatta, al momento, più di rinvii di scadenze che di riduzioni d’imposte, caldeggiata dai capi dell’opposizione di centrodestra, i cattivissimi Salvini, Meloni e Berlusconi. I quali così sono dei merkeliani nei fatti, almeno quanto gli statolatri nostrani dicono di esserlo a parole.

Gli è che, a guardare i comportamenti, i cattivissimi governanti europei da Juncker alla Merkel (ed altri) hanno badato sempre agli interessi dei loro paesi (e cittadini): sono stati i mediocri governanti nostrani, soprattutto quelli della seconda repubblica, a non sapere e voler fare i nostri, perché troppo indaffarati a curare i propri.

Teodoro Klitsche de la Grange

Per una nuova Costituente, recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Carlo Lottieri, Per una nuova Costituente, Liberilibri, Macerata 2020, pp. XV+86, € 12,00.

Questo saggio di Lottieri, preceduto dall’introduzione di Luigi Marco Bassani, si domanda se l’attuale sistema politico italiano potrà reggere all’impatto della crisi da Coronavirus. E risponde no. Già, come scrive Bassani nell’introduzione, l’Italia era un calabrone economico: come l’insetto, malgrado la forma non aerodinamica e le ali piccole riesce a volare, così il paese “andava, seppur lentamente, avanti”. Non è credibile che prosegua perché in autunno verranno al pettine i nodi irrisolti.

Contrariamente a una parte dei critici dell’attuale “sistema”, di chi pensa sia “colpa della finanza, del Bildelberg o della cattivissima Merkel” il tutto è dovuto alle prebende pubbliche e alle rendite parassitarie organizzate (spesso) e dovute (sempre) al potere politico. Per cui “è del tutto chiaro che o si riforma profondamente la struttura politica e istituzionale, oppure nessuno riuscirà a metter mano a nulla: spesa pubblica, debito e rapina fiscale (ai danni dei singoli, delle imprese e di alcuni territori)”. Il prelievo fiscale tra il 1974 ad oggi è, in rapporto al reddito nazionale, più che raddoppiato; fino a quando (cioè all’inizio degli anni ’90 del secolo scorso) il PIL aumentava, l’incremento del prelievo era “compensato” – almeno in parte – dall’aumento del reddito. Ma dalla crisi del Covid-19 – che si aggiunge a quella del 2008, ancora gravante sull’Italia la quale, dal governo Monti in poi è “cresciuta” con percentuale annua da prefisso telefonico – e al relativo crollo del reddito, non si esce, sostengono Bottieri e Bassani se non cambiando il sistema radicalmente.

Mentre per l’analisi si può concordare anche se il ruolo dei poteri forti e/od occulti (quelli in crociera sul “Britannia”) non è sottovalutabile, ma sicuramente non è la sola causa dei guai nazionali, diverso è per la soluzione che propone il seggio.

Lottieri parte dall’Unità d’Italia, realizzata secondo un modello centralistico e statalista, accompagnato dalla voluta rappresentazione propagandistica volta a trasformare il Risorgimento in fiaba, mentre “la costruzione dell’Italia unita sia stata l’opera di una minoranza che s’è imposta anche a costo di sacrificare le aspirazioni dei più”. Data tale premessa ne è conseguente che “per proteggere un ordine politico artificioso e un’unità decisa dagli eserciti le classi di governo hanno dovuto a più riprese iniettare quantità massicce di veleno ideologico nelle vene degli italiani…Il controllo materiale sulle esistenze ha dovuto presto essere accompagnato da una progressiva manipolazione delle coscienze. Ma se le cose stanno così, deve essere chiaro che per salvare gli italiani bisogna affrancarli dall’Italia”.

Ora che lo Stato nazionale è fallito, occorre ricostruirlo dalle comunità territoriali con un procedimento federalistico-consensuale. Le comunità che non aderiranno alla federazione saranno libere di starne fuori, scrive Lottieri.

È qui che la tesi presta il fianco a critica. Funzione (dell’istituzione e) dell’autorità è offrire protezione politica. Il che vuol dire in primo luogo, difendere l’esistenza della comunità e dei cittadini. Anche se è assai importante, assicurare la certezza dei rapporti giuridici, attraverso un apparato di coazione è comunque l’aspetto secondario. In ogni fase storica (o anche geo-storica) per dare protezione all’esistenza comunitaria occorreva una massa critica idonea. Se le polis antiche, fino ad Alessandro Magno, riuscivano ad assicurarla, già dopo il macedone il mondo mediterraneo si organizzò progressivamente in sintesi politiche regionali (Roma, Cartagine, i regni dei diadochi) cui succedette un impero unico.

Secoli dopo il declino del feudalesimo – con i suoi poteri locali non (o poco) subordinati al Papa e all’Imperatore, succedettero i più piccoli, ma più centralizzati Stati moderni, I quali esercitavano realmente e pienamente, cioè di fatto, la sovranità ove raggiungessero certe dimensioni. Che nessuno degli Stati pre-unitari sia italiani che tedeschi (a parte la Prussia e fino a un certo tempo, Venezia) avevano. Il risultato fu che le guerre europee si facevano soprattutto in Germania ed Italia perché erano, politicamente, degli open space. L’indipendenza politica esterna degli italiani e dei tedeschi arriva solo con l’unificazione nazionale .

Se pure la formula proposta da Lottieri come soluzione al populismo, ossia “mercati globali, governi locali” è seducente, non è detto che, di fatto, sia capace di conservare l’esistenza delle comunità locali, in una fase storica in cui il potere è concentrato in entità, statali e non, di enormi dimensioni, capaci di far valere con successo le proprie volontà.

Le quali possono essere contenute solo se costrette a confrontarsi con soggetti di pari forza – o di forza non dissimile. Par in parem non habet jurisdictionem, non è solo un principio giuridico; è anche la conseguenza di una parità (o di una non eccessiva disparità) di fatto.

Teodoro Klitsche de la Grange

La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni, recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Benjamin Constant, La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni, Liberilibri, Macerata 2020, pp. XLI + 66, € 8,00.

È opportuna e tempestiva l’iniziativa di una nuova edizione di questi saggi di Constant (la prima è del 2001) con introduzione di Luca Arnaudo.

Questo perché in tempi di cambiamenti radicali, di democrazie liberali e illiberali, i saggi inclusi nel volume, soprattutto il primo, famoso, danno un contributo decisivo, tanto alla risposta a cosa sia la libertà politica e, in certa misura, anche la democrazia.

Com’è noto Constant distingue la concezione della libertà degli antichi da quella dei moderni, distinzione poco o punto chiara a molti teorici e politici del XVIII secolo e della rivoluzione francese. Quella degli antichi “consisteva nell’esercizio, in maniera collettiva ma diretta, di molteplici funzioni della sovranità presa nella sua interezza, funzioni quali la deliberazione sulla pubblica piazza della guerra e della pace… ma se tutto ciò gli antichi chiamavano libertà, al tempo stesso ammettevano come compatibile con questa libertà collettiva l’assoggettamento completo dell’individuo all’autorità dell’insieme… In tal modo, presso gli antichi, l’individuo, praticamente sovrano negli affari pubblici, è schiavo all’interno dei rapporti privati”. Al contrario “tra i moderni, al contrario l’individuo, indipendente nella vita privata, anche negli Stati più democratici non è sovrano che in apparenza”; “Scopo degli antichi era la divisione del potere sociale tra tutti i cittadini di una medesima patria; questo essi consideravano la libertà. Scopo dei moderni è la sicurezza nelle gioie private, ed essi chiamano libertà la garanzie accordate da parte delle istituzioni a tali gioie”.

Il crollo delle istituzioni rivoluzionarie, che nella concezione della libertà degli antichi trovano il pilastro, è stato causato proprio dalla diversità dalla libertà come condivisa dai moderni.

La distinzione tra diritti-libertà di partecipazione al potere politico, e diritti-libertà dal potere politico è stata tra le più fortunate. Riecheggia in tanti teorici successivi del diritto pubblico e della politica: ricordiamo, tra i tanti, quella di M. Hauriou tra Droit statutaire e Droit commun; di I. Berlin tra libertà di e libertà da, di C. Schmitt tra principi di forma politica, (democrazia) e principi dello Stato borghese (uno dei quali è quello di separazione tra Stato e società civile).

Su come coniugare la libertà degli antichi a quella dei moderni Constant propone la soluzione, debitrice di quella esposta da Sieyés nel discorso all’Assemblea costituente sul “veto reale”. Alla libertà dei moderni conviene “un’altra organizzazione rispetto a quella che poteva andar bene alla libertà antica…all’interno del tipo di libertà di cui noi siamo gelosi, più l’esercizio dei nostri diritti politici ci lascerà tempo per dedicarci ai nostri interessi privati, più la libertà ci diverrà preziosa. Da ciò deriva, Signori, la necessità del sistema rappresentativo. Il sistema rappresentativo altro non è che un’organizzazione per mezzo della quale una nazione scarica su alcuni individui ciò che non può e non vuole fare da sé”. L’acume di Constant vede anche il pericolo di tale organizzazione del potere “il rischio della libertà moderna è che, assorbiti dal piacere della nostra indipendenza privata e dall’inseguimento dei nostri interessi particolari, noi rinunciamo troppo facilmente al nostro diritto di partecipare al potere politico”; trascurare questo può compromettere quello.

Non è vero che i cittadini non sanno decidere sulle questioni politiche “Guardate i nostri concittadini, di tutte le classi e professioni, che staccandosi dalla sfera dei loro lavori abituali e delle loro faccende private si trovano improvvisamente a occuparsi delle importanti funzioni che la Costituzione demanda loro: decidono con discernimento, resistono con energia, sconcertano l’astuzia, sfidano il pericolo, resistono nobilmente alla seduzione”. Per cui Constant conclude “Ben lungi, Signori, dal rinunciare ad alcuna delle due specie di libertà di cui vi ho parlato, occorre piuttosto, come ho dimostrato, imparare a combinarle tra loro…Occorre che le istituzioni si occupino dell’educazione morale dei cittadini. Nel rispetto dei loro diritti, avendo riguardo della loro indipendenza, senza ostacolare le loro occupazioni, esse devono comunque consacrare l’influenza di cui dispongono alla cosa pubblica, chiamare i cittadini a concorrere con le loro decisioni e i loro suffragi all’esercizio del potere; esse devono garantire loro un diritto di controllo e di sorveglianza con la manifestazione delle loro opinioni, e formandoli in tal modo, per mezzo della pratica, a queste elevate funzioni, donar loro al contempo il desiderio e la possibilità di adempierle”. Altro che tecnocrazia e “ce lo chiede l’Europa”. Il secondo saggio (Note sulla sovranità del popolo e i suoi limiti) verte su un argomento quanto mai difficile dato che, come scriveva (tra i molti) V. E. Orlando la sovranità è per sua essenza assoluta; a farla relativa la si distrugge. E per risolvere tale antinomia Constant sostiene che garante ne è l’opinione pubblica (che intendeva come il common sense di T. Paine): “La limitazione della sovranità è dunque esatta, ed è possibile: essa sarà garantita inizialmente dalla forza che garantisce tutte le verità riconosciute dall’opinione, in seguito lo sarà in maniera più precisa dalla distribuzione e dal bilancio dei poteri”. Il che significa che il limite, prima che giuridico, è politico e meta-giuridico. Cosa ancora non compresa da tanti.

Teodoro Klitsche de la Grange

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