Cosa può fare la diplomazia? una conversazione con Jérôme Bonnafont

Cosa può fare la diplomazia? una conversazione con Jérôme Bonnafont

Mentre la professione sembra essere sempre più indebolita ovunque e dovunque, Jérôme Bonnafont, relatore per gli Stati Generali della Diplomazia, torna in un recente libro sulla vocazione diplomatica. In questa intervista fluviale, cerca di delineare un ritratto del diplomatico nel 21° secolo – tra l’interprete e il messaggero.

Jérôme Bonnafont, diplomatico, per cosa? , Parigi, Odile Jacob, 2022, 380 pagine, ISBN 9782415000844

Jérôme Bonnafont è diplomatico di carriera dal 1986. Dopo aver prestato servizio a Nuova Delhi, Kuwait e New York, è stato consigliere e poi portavoce della Presidenza della Repubblica prima di diventare Ambasciatore in India e Spagna, Direttore per il Nord Africa e il Medio Oriente e Consigliere del Primo Ministro. Attualmente è il rappresentante permanente della Francia presso le Nazioni Unite a Ginevra.

Nel tuo libro Diplomate, pour quoi faire?, offri un’ampia riflessione su questa professione che è affine a una vocazione. Colpisce l’ibridità stessa del genere del tuo libro: pensato in luoghi come esercizio di definizione della diplomazia, con una forte dimensione concettuale, attinge anche dal genere delle Memorie, offrendo così una forma di riflessione sulla somma delle tue esperienze passate …

La diplomazia infatti non è una filosofia ma una pratica, anzi un mestiere, nel senso di quei mestieri in cui il saper fare unisce il sapere libresco e l’esperienza che nasce da una lunga applicazione piuttosto perfezionista.

In questo libro mi sono posta per prima cosa la domanda sul percorso che porta qualcuno a voler diventare un diplomatico. È certamente una professione vocazionale, con una duplice natura: il gusto per il mare aperto, il nomadismo e il desiderio di servire la patria. Per servire il suo Paese, dunque, ma per quanto possibile. 

Volevo anche sfatare miti logori. Ricordiamo Chateaubriand, allora diplomatico a Roma, che scriveva a un amico: “   il mestiere è facile, lo possono fare tutti” . Senza dubbio, come molti nella sua situazione, l’autore di Le Génie du Christianisme non si è nemmeno reso conto che probabilmente non stava facendo il suo lavoro, lo faceva solo in apparenza. 

Volevo anche sfatare alcuni miti logori sulla diplomazia.

GIROLAMO BONNAFONT

Un buon diplomatico deve essere guidato da tre tipi di curiosità, passioni e conoscenze. 

Curiosità per il mondo, soprattutto per l’altrove: sentire il richiamo dell’altro, voler vivere con l’altro, influenzarlo ed esserne influenzati, concepire i rapporti tra Stati come uno scambio, non accettare l’idea della sola guerra come ultima opzione. 

Poi la curiosità, la passione per la cosa pubblica. Si tratta di sviluppare una conoscenza dettagliata della politica: come si costruisce uno Stato e come funziona? Quali sono le sue organizzazioni sociali, economiche e politiche, le sue ambizioni, le minacce che provoca o subisce? E questa curiosità vale per il suo paese quanto per gli altri. 

Infine, è un lavoro estroverso, un lavoro sociale: conoscere – e amare – rappresentare, comunicare, organizzare, reagire alle crisi e ai conflitti, negoziare. Un mestiere di azione e di esteriorità, dove il pensiero è messo al servizio del concreto. 

Per illustrare l’impatto che un diplomatico può avere sull’azione esterna del suo Paese, ho scelto, tra l’altro, il famoso esempio del Long Telegram scritto da Georges Kennan nel 1946. Era allora un giovane diplomatico americano di stanza a Mosca. Il presidente Truman si interroga sulla reazione all’imperialismo sovietico. Kennan scrive che, data la natura dell’URSS, gli Stati Uniti non possono stare a guardare, poiché ciò andrebbe contro i suoi interessi e valori. Tuttavia osserva che Washington non può respingere militarmente l’URSS, perché la guerra è impossibile. È così che concepisce quella che sarà conosciuta come la dottrina del contenimento , del contenimento, adottata dall’amministrazione americana e che ha svolto il ruolo che conosciamo nella Guerra Fredda. 

Tuttavia, se confrontiamo i diversi Paesi, osserviamo anche sistemi in cui l’ambasciatore è spesso nominato tra persone vicine al Presidente della Repubblica, senza necessariamente essere un diplomatico. Potrebbe essere, per esempio, nella tradizione americana, qualcuno che ha contribuito a finanziare la campagna elettorale del presidente. Come spiegare questa differenza di modello, tra un tale sistema e quello trovato in Francia? 

Ogni paese ha la sua tradizione. La Francia vive sul modello di un servizio civile professionale, politicamente neutrale e fedele al governo. Come la maggior parte dei suoi partner europei. Lei è attaccata ad esso. Vengono nominati alcuni ambasciatori tra quelli vicini al Capo dello Stato: questo è raro e il più delle volte contribuisce a far respirare il sistema. Questo è il nostro sistema, ha dato prova di sé anche se deve essere continuamente modernizzato e rinnovato.

Altri paesi, come gli Stati Uniti, favoriscono le nomine politiche. Gli ambasciatori sono il più delle volte persone vicine al presidente, o più precisamente donatori che hanno finanziato la sua elezione e che vengono così premiati. Il risultato sono spesso, non sempre, capi di posto ridotti a una funzione cerimoniale mentre i servizi ruotano intorno a loro. 

È un lavoro estroverso, un lavoro sociale: conoscere – e amare – rappresentare, comunicare, organizzare, reagire alle crisi e ai conflitti, negoziare. Un mestiere di azione e di esteriorità, dove il pensiero è messo al servizio del concreto.

GIROLAMO BONNAFONT

La modella americana non è però priva di interesse: quando Pamela Harriman viene nominata ambasciatrice a Parigi dal presidente Clinton, la sua statura e il suo background le permettono di alzare il telefono per parlare con il presidente o un ministro del momento, che ‘un l’ambasciatore ordinario generalmente non può fare di più. Inoltre, se il vertice è gestito dallo ”  spoiler system  “, al Dipartimento di Stato così come nelle ambasciate, un nutrito corpo di diplomatici di carriera assicura la permanenza con professionalità, in particolare per quanto riguarda la conoscenza delle lingue e civiltà così come le tecniche del mestiere.

Cominciamo parlando della fine del libro, e della sua conclusione, intitolata “Diplomazia immutabile e cangiante”. Questo identifica tutta la difficoltà dell’esercizio in cui sei impegnato: catturare l’essenza di una delle professioni più antiche del mondo, ma che rimane una delle prime a cambiare nel tempo. Scrivi così che “l’essenza dell’arte diplomatica è il movimento, la fluidità, la duttilità”. Come, dal punto di vista del diplomatico, non perdere la sua identità in questi movimenti, e spiegare una professione che fatica a definirsi in poche parole?

L’espressione è di Raymond Aron, che ha intitolato un’opera che ripercorre la genesi delle nostre istituzioni: “  Immutabile e cangiante. Dalla Quarta alla Quinta Repubblica”. 

La galleria di ritratti contenuta nel libro vuole mostrare la varietà di profili, professionalità e tecnicismi, nonché le differenze di carattere e di metodo che distinguono tra loro i diplomatici. 

Quando Proust descrive il vecchio marchese de Norpois come un mondano vuoto e pedante, è preso dall’illusione ottica che è che vede il personaggio – i suoi modelli – nella società solo in un ruolo un po’ futile. . Il narratore incontra Norpois solo nei salotti, mai con i suoi partner stranieri, mai con il suo ministro o il suo presidente, mai alla sua scrivania, insomma mai in azione. 

Chi avrebbe dovuto rappresentare Norpois? Forse un Cambon o un Barrère: un vecchio negli occhi di un giovane. Ed è vero, molti ritratti di diplomatici in letteratura danno questa impressione di vanità. Si pensi al personaggio di Georges de Sarre nei romanzi di Roger Peyrefitte, che lascia nel lettore una spiacevole sensazione di vuoto. 

Contrariamente a queste rappresentazioni, mi sembra che la principale qualità del diplomatico sia, per usare un’espressione di Rimbaud, il voler essere “  risolutamente moderno  ”. Pienamente a suo tempo, allo stesso tempo intriso di storia per agire sul presente e cercare di plasmare il futuro con gli occhi aperti sul mondo così com’è e sta andando, e non come lo sogniamo o crediamo.

Chi avrebbe dovuto rappresentare Norpois? Forse un Cambon o un Barrère: un vecchio negli occhi di un giovane. Ed è vero, molti ritratti di diplomatici in letteratura danno questa impressione di vanità.

GIROLAMO BONNAFONT

Sempre nello stesso brano lei scrive che se il diplomatico “lavora nel presente, hic et nunc  “, deve costantemente “tenere presente l’impermanenza”. Il diplomatico è una specie di dialettico?

Qualsiasi azione pubblica richiede una dialettica, una diplomazia come le altre. Dobbiamo costantemente scegliere: arbitrare, ad esempio, tra il breve e il lungo termine. Le soluzioni immediate possono creare difficoltà per il futuro, anche se devono essere favorite quando l’urgenza lo impone. E spesso si tratta di scegliere tra le seconde migliori opzioni.

Ci sono altri tipi di scelte; tra la guerra o la pace, tra lo spirito di compromesso, indispensabile per raggiungere soluzioni comuni ma frustrante, e lo spirito di autoaffermazione. E, come vediamo oggi, essere troppo assertivi può scuotere i sistemi internazionali, mettendo così in discussione la loro stabilità. Occorre anche distinguere tra “interessi” e “valori”, anche se questa distinzione è in pratica difficile da definire. 

La diplomazia è caratterizzata dalla ricerca permanente di compromessi accettabili con la realtà nel presente. In questo senso non può esistere un’architettura assoluta e permanente. Come diplomatico, cerchi di risolvere il problema del momento, ma anche di costruire qualcosa di stabile, un trattato, un sistema di sicurezza. Tenendo presente che può spostarsi in qualsiasi momento! Se ti lasci andare nello spirito del sistema o dell’ideologia, la fluidità e la complessità della realtà ti sfuggono. L’immutabile e il mutevole, ancora.

I riferimenti storici – e alla mitologia – innervano il tuo lavoro. Una di esse colpisce particolarmente: è il riferimento che fai a Hermes, il Dio messaggero, sotto la cui protezione il diplomatico sembra posto. Tuttavia, l’intera difficoltà del lavoro del messaggero è riuscire a far udire l’inudibile, sia in casa che fuori. A costo di diventare un bersaglio o agire come un parafulmine… 

Nel mondo funzionale in cui viviamo, non è male mettere un po’ di colore, da qui il ricorso all’Antichità. Cito due figure in particolare: quella di Ermete e quella di Gabriele, omaggio alle due fonti principali della nostra civiltà: quella greco-romana e quella giudeo-cristiana. 

Hermès si riferisce alla nostra eredità politeista, Gabriel alla nostra storia monoteistica. Hermes è un messaggero speciale: in quanto dio, gode di grande libertà di azione. Gabriele, invece, arcangelo che deve trasmettere il messaggio di Dio, opera in un certo senso sulle istruzioni. Queste sono le due situazioni tra le quali il diplomatico oscilla costantemente.

Il messaggio è ancora ascoltato? La domanda è vecchia. Prendo nel libro l’esempio di André François-Poncet, ambasciatore a Berlino dal 1931 al 1938 poi a Roma nel 1938-1939. Ha scritto Souvenirs che mostrano chiaramente che ha capito tutto quello che stava succedendo a Roma e Berlino in quel momento. È stato ascoltato dalle sue autorità? Il sistema di vincoli che all’epoca gravava sui nostri dirigenti impediva loro di dare una risposta adeguata ai fenomeni descritti da questo ambasciatore. C’era qualcosa di tragico nella scalata alla guerra.

Un’altra domanda è se il messaggio è ben compreso dal destinatario. Si pensi qui all’esempio dell’ambasciatore americano a Baghdad nel 1991. Ricevuta da Saddam Hussein il giorno prima dell’invasione del Kuwait, si dice — con le dovute riserve — che abbia dato una risposta così ambigua al dittatore che lo interrogava su le conseguenze di un intervento armato che avrebbe visto una sorta di via libera all’invasione. Ciò è stato successivamente smentito, ovviamente, dal corso della storia.

Qual è l’interprete giusto in diplomazia? Mi sembra che il diplomatico debba essere convenzionale e un po’ incrinato allo stesso tempo perché deve oscillare tra i mondi, il suo e quelli degli altri.

GIROLAMO BONNAFONT

Qual è l’interprete giusto in diplomazia? Mi sembra che il diplomatico debba essere convenzionale e un po’ incrinato allo stesso tempo perché deve oscillare tra i mondi, il suo e quelli degli altri. Per fare questo serve una crepa, uno squilibrio, un disagio che metta in moto le cose, il che significa che, pur essendo completamente a casa, lì non ci si trova del tutto a proprio agio e si ha bisogno di questa apertura per respirare.

Roberto Calasso ha scritto un libro magnifico su questo argomento, La Ruine de Kasch , in cui osserva la figura di Talleyrand, traghettatore tra il vecchio e il nuovo mondo. Ora Talleyrand è questo gran signore la cui famiglia gli ruba la primogenitura con il pretesto che, in quanto piede torto, non può essere un soldato.

Coincidenza significativa, zoppia – ricorda cosa ha osservato Dumézil: Efesto, anche Giacobbe zoppicava. I vecchi pensavano che questa infermità, l’handicap in generale, desse delle attitudini, una capacità di accesso a campi dove il normale non può arrivare.

Precisione di giudizio, capacità di farsi capire e ascoltare dalle autorità e dagli interlocutori stranieri, sono qualità che si imparano e maturano nel tempo. Poi, le cose appartengono all’autorità politica, è la regola fondamentale di questo tipo di professione. 

Da lì si passa a un’altra metafora che gioca un ruolo centrale nel tuo lavoro: l’immagine musicale, che fa del diplomatico un interprete. Sotto questo prisma, il ruolo del diplomatico non è semplicemente quello di trasmettere il messaggio, ma di dargli significato, persino incarnarlo, seguendo i limiti prescritti dall’autorità politica – queste istruzioni sono l’equivalente di uno spartito. Come rispettare concretamente questa linea di cresta, assicurando che il messaggero dimostri la necessaria umiltà e moderazione – il che solleva anche una questione democratica? 

L’immagine musicale permette di descrivere il dialogo permanente tra il diplomatico-esecutore e il politico-compositore. Le istruzioni sono come una partitura; durante le trattative, il diplomatico tasta il polso ai suoi omologhi, per poi rientrare nella sua capitale nell’ambito di un dialogo continuo. È vincolato dalla sua partitura, ma gode della libertà dell’interprete.

Il compositore è il politico; con questa particolarità che certi diplomatici – ad esempio i consiglieri diplomatici del Presidente o del Primo Ministro – possono contribuire a scrivere questa partitura, anche se rimane fondamentalmente politica. Secondo questa immagine, si noti che lo stesso compositore è spesso un interprete: questo è il caso in cui gli stessi politici si impegnano direttamente nella diplomazia, in particolare durante i vertici o le visite bilaterali.

Ci sono anche casi in cui il diplomatico deve improvvisare, soprattutto nelle crisi. Deve quindi, per improvvisare bene, aver accumulato una somma di conoscenza ed esperienza, in modo che il riflesso dell’improvvisazione poggi su una base sicura.

L’immagine musicale permette di descrivere il dialogo permanente tra il diplomatico-esecutore e il politico-compositore. Le istruzioni sono come un punteggio.

GIROLAMO BONNAFONT

Nel tuo lavoro noti il ​​contrasto tra il linguaggio delle armi e quello della diplomazia, mentre spieghi che l’uno non può avere un’esistenza duratura senza l’altro. Se la diplomazia può vivere all’ombra della guerra – che risuona dell’attualità più immediata – come fare in modo che i conflitti non la emarginino definitivamente? In pratica, si ha l’impressione che, lungi dall’essere complementari, questi due linguaggi siano spesso opposti…

Sono due facce della stessa medaglia: la diplomazia che svolgi dipende da ciò su cui sei stabilito. Rappresenti un paese potente o in declino? Ricco o povero? In una posizione di vulnerabilità o in una posizione di forza? La guerra è il culmine del confronto, la prova suprema, ma queste domande sorgono anche quando si tratta di finanze, standard tecnici, impegni commerciali. Si negozia prima secondo una realtà e un equilibrio di potere.

Possiamo vivere senza armi? Prendiamo spesso l’esempio del Costa Rica, che non ha esercito. Ma guarda la Svizzera: la sua neutralità si è basata per secoli su forze armate abbastanza forti da scoraggiare gli aggressori. Puoi quindi essere un paese pacifico e basare questa posizione sulla tua forza militare. 

Anche la storia gioca un ruolo importante: dopo il 1945, la Germania era riluttante a intervenire in operazioni militari esterne, a differenza della Francia o del Regno Unito, pur avendo ricostituito un esercito nel quadro della NATO. 

Ne consegue che quando vuoi pesare in diplomazia, devi assicurarti una capacità credibile affinché i tuoi interlocutori capiscano che quello che dici, il tuo Paese è in grado di farlo.  

È anche necessario distinguere in base ai tipi di guerra. Un solo distinguo su questo immenso e complesso argomento. Se si tratta di una guerra civile, la comunità internazionale deve intervenire per trovare una soluzione pacifica e cercare di imporre la cessazione delle ostilità. Di fronte a una guerra di aggressione, come quella che stiamo vedendo oggi in Ucraina, questa è un’altra questione. Alcuni difendono la scelta pacifista, dicendo che la guerra è il male assoluto. Ma cosa significherebbe per l’Ucraina? Che dovrebbe rinunciare alla sua sovranità?

Parlare non significa arrendersi in anticipo, significa mantenere il filo per cercare di prevenire il peggio e prepararsi al futuro.

GIROLAMO BONNAFONT

L’Ucraina dice chiaramente di no. Resiste con tutte le sue forze. È il vecchio concetto di san Tommaso d’Aquino di “guerra giusta”, di legittima difesa, ripreso dalla Carta delle Nazioni Unite che autorizza, in caso di legittima difesa, l’uso della forza. 

Questo significa che non dovrebbe esserci più dialogo? Affatto. Analizzare le dichiarazioni del Presidente della Repubblica. Diceva sempre che doveva esserci spazio per la diplomazia. Guarda le iniziative messe in atto per risolvere la questione alimentare. Parlare non significa arrendersi in anticipo, significa mantenere il filo per cercare di prevenire il peggio e prepararsi al futuro.

Nell’ambito della riforma dello Stato, sono stati modificati i canali di reclutamento per il flusso diplomatico. Di fronte alla mobilitazione di alcuni agenti, il Governo ha deciso di aprire gli “Stati Generali della Diplomazia”, di cui lei è il relatore generale. Questo è un esercizio unico. Potrebbe descrivere a grandi linee questo processo: quale volontà politica riflette questa iniziativa? In che prospettiva sono stati pensati questi Stati Generali, e quali potenziali conseguenze si prospettano rispetto al momento che seguirà a quello della consultazione?

Inizierò dicendo che oggi osserviamo due fenomeni. 

In primo luogo, i processi di europeizzazione e globalizzazione implicano che gli affari internazionali permeano sempre più quasi tutti gli affari pubblici. Questa è un’estensione del dominio diplomatico. 

Poi, da una generazione, il budget e la forza lavoro del Quai d’Orsay sono in calo: è l’unico ministero di Stato ad aver vissuto una situazione del genere così continuamente. La fine di questo declino è stata segnata da un cambio di direzione, iniziato quando era ministro Jean-Yves Le Drian, e confermato dall’attuale ministro degli Esteri, Catherine Colonna.  

In tale contesto, l’applicazione al Ministero degli Affari Esteri della riforma dell’alta funzione pubblica ha rivelato un disagio fortemente espresso. Da qui l’idea degli “Stati Generali della Diplomazia”, ​​ripresa dal Presidente della Repubblica e dal Ministro: dare la parola agli agenti del Quai d’Orsay e ai soci e utenti del “servizio pubblico della diplomazia” per riflettere su tre temi: 

1. Essendo il mondo quello che è, di quale diplomazia ha bisogno la Francia e cosa significa questo per la professione di diplomatico? 

2. In un’amministrazione moderna, come può il Quai d’Orsay assumere al meglio il suo ruolo di capofila dell’azione internazionale? 

3. In questo contesto, come deve evolvere la professione del diplomatico, sia in termini di struttura che di metodo?

In questo contesto, si è costituito un gruppo per organizzare e condurre questo “grande dibattito” applicato alla diplomazia, al fine di fornire alle nostre autorità politiche – Presidente della Repubblica, Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro degli Affari Esteri – una relazione sui risultati e raccomandazioni.

Procediamo in modo classico ma ambizioso: invio di questionari ai nostri 13.000 agenti, organizzazione di workshop e audizioni aperte a tutti coloro che sono interessati, di persona o online, visitando i vari siti francesi del ministero e un rappresentante campione delle nostre ambasciate e missioni . Vogliamo che i colleghi di ogni grado e status si esprimano liberamente sulla loro situazione personale e sulla loro visione della nostra professione e del suo futuro; e che, allo stesso tempo, qualificate personalità del mondo politico, economico, culturale, associativo e mediatico ci guidino con la loro visione.

Il risultato dovrà essere un quadro fedele della situazione, certo, ma soprattutto precise indicazioni sul futuro della professione diplomatica, sulle modalità di esercizio che evolveranno, ma che resteranno una componente importante e peculiare dell’azione pubblica.

Il diplomatico continuerà a fornire ciò che è essenziale per la gestione degli affari internazionali, ma lo farà nelle condizioni del nostro tempo.

GIROLAMO BONNAFONT

Secondo lei, come preservare oggi la specificità di una professione di fronte a situazioni molto diverse da quelle che esistevano qualche decennio fa: l’intensificarsi della costruzione europea, l’emergere di questioni globali ben identificate (clima, terrorismo, Covid- 19), o ancora il ruolo crescente svolto dalle imprese multinazionali nelle relazioni internazionali? 

Questi sviluppi non sono sconosciuti. Guarda il campo degli affari strategici: questi sono gestiti da decenni da coppie di diplomatici e soldati che lavorano insieme su questioni di disarmo e non proliferazione. Queste coppie lavorano al Segretariato Generale per la Difesa e la Sicurezza Nazionale (SGDSN), a Matignon, all’interno della cellula diplomatica dell’Eliseo, nei Ministeri degli Affari Esteri e delle Forze Armate, nelle nostre ambasciate e nelle nostre missioni all’estero. Lo stesso vale nel campo degli affari europei, ad esempio all’interno del Segretariato generale per gli affari europei (SGAE), che opera grazie a tandem di diplomatici e specialisti tematici. 

Si tratta di estendere questi binomi generalizzando questo metodo all’elaborazione di tutti i casi globali. Si tratta di trovare modalità di intervento più trasversali, adeguate all’interdisciplinarietà delle materie e alla rapidità delle crisi. Un esercizio essenziale di adeguamento delle strutture e delle modalità operative dell’amministrazione.

La professione deve essere definita attraverso le sue missioni e la sua vocazione. Non sono preoccupato per il futuro della funzione diplomatica. Il diplomatico continuerà a portare l’essenziale per la gestione degli affari internazionali: conoscenza e “uso del mondo”, per usare la bella espressione di Nicolas Bouvier, ma lo farà nelle condizioni del nostro tempo.

Come vede lo sviluppo della diplomazia europea in questo contesto?  

Il futuro della diplomazia europea dipende semplicemente da come l’Europa si affermerà come potenza nel mondo. In Francia abbiamo l’ambizione di un’Europa sovrana, che controlla i suoi destini, come ha sottolineato in numerose occasioni il Presidente della Repubblica. 

In alcuni settori, ad esempio nella politica commerciale o di sviluppo, esiste già una diplomazia europea completa e consolidata. In materia di salute e ambiente, gli Stati e la Commissione uniscono sempre più le loro capacità diplomatiche. In altri ambiti, ancora in divenire, l’approfondimento di questo percorso dipenderà dall’evoluzione politica dell’Europa.

In particolare, a Ginevra, dove sei attualmente distaccato, ti occupi di molte questioni relative al Consiglio dei diritti umani. Nota divisioni quotidiane tra la concezione occidentale dei diritti umani e le posizioni difese da Stati come la Cina o la Russia? Come descriveresti l’evoluzione delle tue interazioni con russi e cinesi dal 24 febbraio su questi temi?

Il Consiglio dei Diritti Umani è composto da 47 Stati eletti per due anni con una rotazione progressiva. Nell’insieme delle Nazioni Unite esistono schematicamente tre gruppi: Stati di affinità (Paesi europei, America Latina, Stati Uniti, Giappone, Corea e pochi altri, cioè una cinquantina di Paesi), che promuovono una concezione universale e indivisibile dei diritti umani. Un secondo gruppo di Stati (Iran, Cina, Russia, molti paesi con regimi dittatoriali o comunque non democratici), contesta questa universalità, afferma che l’Occidente, nella sua ricerca dell’egemonia, usa questi principi per fondare ingerenze negli affari interni degli Stati sovrani. Infine, 

I diritti umani sono universali? La risposta è nei testi e nella loro elaborazione. La Dichiarazione universale del 1948 e le due Alleanze del 1966 (quella sui diritti civili e politici e quella sui diritti economici e sociali) non sono state scritte da soli occidentali e affermano semplici verità sulla pari dignità di tutti e sulle conseguenze che ne derivano. 

Certo, la Cina, ad esempio, ha ratificato il Patto sui diritti economici e sociali ma non il Patto sui diritti civili e politici: questa è la scelta che deriva da un sistema politico. Tuttavia è interessante vedere che in occasione della visita di Michelle Bachelet in Cina nel maggio scorso, che potrebbe aver dato adito a polemiche, questo Paese si è sentito in dovere di ricordare che stava studiando la questione del Patto sui diritti civili e politici. 

Da francese ed europeo, non ho il minimo dubbio sull’universalità dei diritti, non tanto in pratica, basta guardarsi intorno, quanto in termini assoluti: i testi, a rileggerli, dicono semplicemente che ovunque la libertà è più bella della servitù e dell’oppressione. La nostra stessa storia ci ricorda inoltre che questi diritti sono stati duramente conquistati, mai concessi. Ma occorre, in tutta franchezza, saper ascoltare e sentire ciò che gli altri dicono a questo libero e prospero Occidente. Ci rimandano a un passato bellicoso, coloniale, conquistatore, che ha esercitato una grande influenza, spesso crudele, sul proprio destino. Sottolineano di essere spesso vittime di fenomeni economici o ecologici che non hanno in alcun modo creato e che impediscono loro, almeno in parte, di svilupparsi.

Occorre, in tutta franchezza, saper ascoltare e sentire ciò che gli altri dicono a questo libero e prospero Occidente. Ci rimandano a un passato bellicoso, coloniale, conquistatore, che ha esercitato una grande influenza, spesso crudele, sul proprio destino.

GIROLAMO BONNAFONT

In queste pagine, questo cambiamento nel mondo è stato più volte descritto come un periodo di “interregno”. Questa nozione, ripresa in particolare da Josep Borrell in un testo dottrinale, descrive le grandi riconfigurazioni che stiamo vivendo, ma che non si sono ancora realizzate. Come pensa che il multilateralismo di domani possa adattarsi a questa nuova realtà? 

È una grande domanda. Bisogna stare attenti allo sguardo retrospettivo: nel presente abbiamo sempre l’impressione di vivere in un tempo di sconvolgimenti che non comprendiamo fino in fondo. Dopo , tutto diventa chiaro. Questo è il paradigma della civetta di Minerva: cogliamo solo ciò che abbiamo vissuto a posteriori. 

Quindi, se tu fossi stato un giovane europeo vissuto nel 1945, non saresti stato convinto dall’evidenza della stabilità dell’ordine mondiale. Allo stesso modo, quando vivevi nel 1990, un ordine e un sistema continentali stavano tremando. Certo, si è affermato che è stata la vittoria per sempre della pace, della libertà e della democrazia. Ma è un’illusione pensare che negli anni successivi alla caduta del muro o dell’Urss il mondo fosse stabile. Abbiamo assistito alle guerre nell’ex Jugoslavia, a un genocidio in Rwanda, agli attentati dell’11 settembre 2001: un mondo dove accadevano cose impensabili. 

È vero però che oggi osserviamo nuove linee di forza. In primo luogo, l’instaurazione di una duratura rivalità sino-americana. Poi l’affermazione di alcuni grandi colossi regionali: Brasile, India, Russia, Unione Europea. Decine di paesi medi o piccoli devono trovare un nuovo posto all’interno di questo gruppo. E durante questo periodo si esercitano forze opposte: quelle relative a questioni globali, che riteniamo richiedano un trattamento multilaterale; quelli relativi alla parziale messa in discussione della globalizzazione degli scambi, che pone il rischio di frammentazione e di nuovi scontri.

Questa riconfigurazione è fonte di sfide per l’Europa. Prima sfida: essere un potere che conta. Seconda sfida: costruire un sistema internazionale sufficientemente forte da evitare che la rivalità tra le major si traduca in un sistema senza norme, ordine o prevedibilità. È l’ambizione di mettere in atto quella che il presidente Chirac ha definito una “  globalizzazione umanizzata e controllata  ” o addirittura un “  mondo multipolare armonioso  ”. In quanto europei, abbiamo tutto da guadagnare da un mondo stabile e regolamentato.

Abbiamo parlato oggi dell’ascesa di una “diplomazia al vertice”. Quali progressi concreti consentono questi vertici? Alcuni osservatori ne mettono in dubbio il valore, affermando che i diplomatici sono troppo concentrati sulla creazione di dichiarazioni che non riescono a far avanzare la realtà sul campo. Cosa ne pensi ? 

Se non parli, non risolvi nulla. Diplomazia è il verbo; e la parola deve essere tradotta in azione. Queste versioni sono impegni internazionali. Se non ci parlassimo di cambiamento climatico, migrazioni, lotta alla criminalità organizzata, situazione dei diritti umani, crisi umanitarie, come potremmo affermare di gestire interazioni crescenti e questioni globali? 

Poi, se vuoi costruire gruppi regionali coerenti, devi incontrarti. L’Unione Africana è nata dalla sensazione degli africani che se vogliono affermare la loro influenza e gestire da soli i loro affari regionali, devono interagire di più. Prendiamo anche il caso dell’Unione Europea, dove i 27 Stati membri si incontrano costantemente. Creare interesse generale dalla divergenza degli interessi nazionali è un compito complesso, che richiede tempo.  

I comunicati sono impegni internazionali. Se non ci parlassimo di cambiamento climatico, migrazioni, lotta alla criminalità organizzata, situazione dei diritti umani, crisi umanitarie, come potremmo affermare di gestire interazioni crescenti e questioni globali? 

GIROLAMO BONNAFONT

Più in generale, tornerò su questo, l’evoluzione della globalizzazione richiede l’organizzazione della società internazionale. Non siamo più nel tempo in cui gli Stati potevano pretendere di vivere in una forma di autarchia, di autosufficienza, di regolare i propri rapporti attraverso la guerra e le sue estensioni. Le cosiddette questioni globali saranno meglio affrontate da risposte globali e multilaterali. La scelta è tra un intreccio di regole e organizzazioni che inquadrano l’azione sovrana degli Stati e quella di altri attori internazionali, da un lato, e dall’altro il persistere di una forma di anarchia sovrana in cui risiedono solo i rapporti di forza. 

I diplomatici devono adattarsi a questa realtà che ha, sulla loro azione, almeno tre conseguenze: in primo luogo, devono rimanere capaci di padroneggiare questa grammatica dell’equilibrio di potere senza la quale uno Stato non può difendersi. Quindi, devono estendere la loro tavolozza a tutte queste nuove cosiddette questioni globali, che vanno dall’ecologia alle nuove tecnologie, compresa la salute, la migrazione e i diritti umani. Infine, devono adattarsi a una ginnastica costante per spostarsi costantemente dal nazionale al regionale o globale, dal proprio paese a mondi diversi e lontani per geografia e civiltà, ma più vicini che mai alla nostra vita quotidiana.

Insomma, ben lungi dall’aver perso densità a causa dell’evoluzione del mondo, la professione ha guadagnato in contenuti tanto quanto in portata, ed è davvero una professione del futuro per tutti coloro che amano inscrivere la propria vita nel mondo così com’è. Questo è sostanzialmente il messaggio di questo libro ai giovani francesi che si interrogano sul loro futuro, su quello del loro paese e su una vocazione da diplomatico.

https://legrandcontinent.eu/fr/2022/12/15/que-peut-la-diplomatie-une-conversation-avec-jerome-bonnafont/

L’emergere del paradigma produttivista, una conversazione con Dani Rodrik

Per l’economista di Harvard l’era dell’iperglobalizzazione sta tramontando: gli imperativi della sicurezza nazionale hanno già cominciato a dettare nuove regole economiche globali. Credendo di perseguire gli stessi obiettivi, stiamo coltivando linee di confronto – lo dimostra quello apertosi in questi giorni tra Bruxelles e Washington. Come evitare che il nuovo paradigma sia peggiore del vecchio?

Dalla pandemia di Covid-19, molti esperti, accademici e politici annunciano il declino del neoliberismo e della globalizzazione. Secondo te, quali sono le cause di questo cambiamento di percezioni? 

Il discorso su quella che ho chiamato iperglobalizzazione si è davvero dissipato. Ciò è particolarmente visibile dopo la pandemia e, ancor di più, dopo la guerra in Ucraina, con le sue ramificazioni geopolitiche, e con il rafforzamento della competizione con la Cina. Ma queste cause immediate e molto visibili vanno collocate nel loro contesto, quello di un decennio che già vedeva farsi evidenti le debolezze ei problemi legati al neoliberismo e all’iperglobalizzazione.

Penso che per molti versi la crisi finanziaria globale sia il punto in cui è iniziata. Non ha portato a un cambiamento fondamentale nel discorso, ma ha messo in moto alcune forze che sono all’origine di questa dissoluzione del discorso neoliberista. Questo è veramente il punto di svolta nel commercio e nella finanza globali. Dopo la crisi finanziaria, la Cina, ad esempio, è diventata molto introversa in termini di commercio, e in una certa misura ciò è accaduto anche in India più di recente. Così, se consideriamo i due Paesi che sono stati i veri motori dell’espansione del commercio mondiale e degli investimenti, il loro atteggiamento, le loro politiche e il loro reale orientamento nei confronti dell’economia mondiale hanno subito una netta evoluzione nell’ultimo decennio. Molte cose erano quindi già in movimento prima della pandemia.

Inoltre, il contraccolpo politico del neoliberismo si stava già manifestando, in termini di un significativo calo dei voti per i partiti centristi, l’ascesa del populismo di estrema destra che, secondo molti studi economici, è in parte guidato dall’ansia economica e dalla dislocazione del lavoro mercati. E penso che ci sia stato anche un crescente riconoscimento all’interno della comunità economica che il consenso professionale sul fatto che l’espansione dei mercati in tutto il mondo e la loro integrazione avrebbe giovato a tutti, non si rifletteva nella realtà. Ci siamo quindi allontanati dal neoliberismo e dall’iperglobalizzazione, sia intellettualmente che in termini di reazione della gente comune. Ma è chiaro che gli shock della pandemia,

Dopo la crisi finanziaria, la Cina è diventata sempre più introversa in termini di commercio, e in una certa misura ciò è accaduto anche in India più di recente.

DANI RODRICK

Stiamo assistendo a un crescente interesse per la politica industriale, in particolare per quanto riguarda le industrie verdi , nonché un rinnovato interesse per gli investimenti pubblici. Di recente hai suggerito di chiamare questa tendenza produttivismo1. Quali sono le principali caratteristiche di questo paradigma e quali sono i principali cambiamenti rispetto al neoliberismo?

Questa è una forma di riorientamento rispetto al neoliberismo, nel senso che il produttivismo ripone molta meno fiducia nelle forze di mercato, nell’impresa privata e molto di più nella capacità dello Stato e dell’azione collettiva in generale di essere una forza di trasformazione. Sottolinea il lato dell’offerta dell’economia. Investimenti, produzione e lavoro, posti di lavoro di qualità, piuttosto che il lato della domanda dell’economia, dei consumi, del potere d’acquisto. Si concentra sulle comunità locali e sulla loro rivitalizzazione, in particolare quelle che sono state messe da parte dalla globalizzazione. Questo paradigma è molto più scettico nei confronti della finanza e favorisce gli investimenti reali rispetto ai mercati finanziari.

Il produttivismo differisce nettamente dall’economia reaganiana dal lato dell’offerta. In quest’ultimo, l’obiettivo era semplicemente migliorare gli incentivi, ridurre le tasse ed estrarre lo stato dall’economia e dal mercato. Il produttivismo, invece, consiste nel dire che, certo, dobbiamo lavorare dal lato dell’offerta, perché senza posti di lavoro produttivi non possiamo permettere ai nostri concittadini di condurre una vita dignitosa e appagante. Quindi dobbiamo assicurarci che quei posti di lavoro siano disponibili. Ma non possiamo semplicemente fare affidamento sulle aziende per garantire che questi vantaggi siano disponibili e diffusi in tutta la società.

Insisto anche sul fatto che il produttivismo è diverso dal paradigma keynesiano o socialdemocratico. Quest’ultima era essenzialmente incentrata, da un lato, sugli ammortizzatori sociali e sul welfare state. D’altra parte, si è concentrato anche sulla gestione dell’economia attraverso strumenti macroeconomici. Il produttivismo si distingue per sottolineare che se devono essere create società inclusive, sono necessari interventi diretti che diffondano i benefici delle nuove tecnologie produttive a segmenti più ampi dell’economia e a settori del lavoro che non hanno accesso a posti di lavoro produttivi di qualità, come come lavoratori poco qualificati. Questo nuovo paradigma costituzionale afferma che, naturalmente, abbiamo bisogno di protezione sociale e gestione macroeconomica, ma dobbiamo anche garantire che le persone abbiano accesso a posti di lavoro di qualità. Ciò richiede quindi il ricorso a una forma di politica industriale esplicitamente orientata alla creazione e distribuzione di questi posti di lavoro. In questo senso, è molto più focalizzato sulla sfera produttiva dell’economia rispetto al paradigma socialdemocratico keynesiano. Differisce quindi sia dal paradigma neoliberista sia dal paradigma socialdemocratico del passato. è molto più incentrato sulla sfera produttiva dell’economia rispetto al paradigma socialdemocratico keynesiano. Differisce quindi sia dal paradigma neoliberista sia dal paradigma socialdemocratico del passato. è molto più incentrato sulla sfera produttiva dell’economia rispetto al paradigma socialdemocratico keynesiano. Differisce quindi sia dal paradigma neoliberista sia dal paradigma socialdemocratico del passato.

Certo, abbiamo bisogno di protezione sociale e gestione macroeconomica, ma dobbiamo anche garantire che le persone abbiano accesso a posti di lavoro di qualità.

DANI RODRICK

Devo aggiungere che il termine produttivismo è sia un’etichetta descrittiva che prescrittiva. Ho coniato questo termine per descrivere quelli che considero i contorni di questa nuova direzione di politica economica che è probabilmente più sorprendente negli Stati Uniti, ma di cui alcuni elementi sono visibili anche in Europa. Ma è anche in parte prescrittivo, vale a dire che penso che ciò che sta accadendo sul campo in questo momento non si sia ancora cristallizzato attorno a un nuovo modo di pensare all’economia e a una nuova visione di ciò che dovrebbe guidare le nostre politiche economiche, che potrebbe quindi costituire davvero un’alternativa al neoliberismo. Occorre quindi pensarci in modo più sistematico e coerente.

Se guardiamo agli esempi concreti di produttivismo, e in particolare alla politica industriale dell’amministrazione Biden, rimaniamo colpiti dalla molteplicità degli obiettivi prefissati. Nell’IRA, notiamo che alcuni crediti d’imposta, che mirano ad accelerare la diffusione delle energie verdi, mirano anche a sostenere le regioni svantaggiate e creare posti di lavoro di qualità. 

Ciò che mi preoccupa è che abbiamo molti obiettivi e li stiamo raggiungendo con troppo pochi strumenti. I seguenti tre obiettivi sono spesso confusi, ma è importante separarli perché ciò che funziona per uno non funzionerà necessariamente per gli altri due.

Vogliamo una transizione verde. Questo è assolutamente essenziale perché il cambiamento climatico è la minaccia più grave per la nostra esistenza. Vogliamo quindi accelerare la transizione verde, che richiederà un’ampia gamma di politiche industriali incentrate sulle energie rinnovabili e sulle tecnologie verdi. L’obiettivo principale dell’IRA è quindi proprio quello. E sostengo totalmente questo obiettivo. Le critiche europee a questa legge , apparse di recente, mi sembrano al riguardo del tutto fuori luogo.

Il secondo obiettivo è l’imperativo geopolitico della competizione con la Cina. Nota che ho alcune preoccupazioni su come questo viene pensato negli Stati Uniti, ma mettiamolo da parte per ora. Il CHIPS Act, anch’esso recentemente approvato, prevede di dedicare ingenti risorse pubbliche per promuovere la produzione avanzata e gli investimenti nei semiconduttori. Ha principalmente lo scopo di rendere gli Stati Uniti un miglior concorrente della Cina nelle industrie ad alta tecnologia e garantire che laddove gli Stati Uniti hanno un vantaggio, rimanga significativo.

C’è un terzo obiettivo, che non è l’obiettivo esplicito di nulla che l’amministrazione Biden abbia ancora adottato, e quel terzo obiettivo è la creazione e la diffusione di posti di lavoro di qualità. Purtroppo negli Stati Uniti c’è la tendenza a pensare che se perseguiamo il nostro obiettivo geopolitico, cioè investiamo nel manifatturiero e nella transizione verde, abbiamo anche a che fare con il problema di creare un’economia che offra posti di lavoro di qualità. Ma questi sono mezzi molto inefficienti per raggiungere questo scopo, perché questi investimenti non saranno necessariamente diretti verso le aree che consentono di creare un gran numero di posti di lavoro di qualità.

Quindi, mentre sono molto favorevole a garantire che le aziende che ricevono sussidi paghino buoni salari, si prendano cura dei propri lavoratori e, per quanto possibile, si tenga conto anche delle comunità svantaggiate negli investimenti, penso che ciò non possa sostituire le politiche industriali finalizzati esplicitamente alla creazione e diffusione di posti di lavoro di qualità. Questi devono mirare a un segmento molto diverso dell’economia. Dovrebbero essere presi di mira i servizi, l’istruzione, la sanità, l’assistenza a lungo termine, le piccole e medie imprese. Dovremmo sostenere innovazioni molto diverse, che mirano ad aumentare le capacità dei lavoratori meno qualificati. Ho scritto un saggio su una politica industriale per buoni posti di lavoro,

Investire nella produzione avanzata ad alta intensità di capitale e competenze è probabilmente il modo meno efficiente per creare posti di lavoro di qualità.

DANI RODRICK

Lei ha citato il ruolo della concorrenza con la Cina nell’emergere del paradigma produttivista. Questa relativa cartolarizzazione dell’economia le sembra un rischio? 

L’attuale politica degli Stati Uniti nei confronti della Cina mi preoccupa. Penso che la Cina sia effettivamente diventata più autoritaria e il governo cinese stia commettendo molte violazioni dei diritti umani, che devono essere condannate da tutte le nazioni democratiche. Ma penso che dobbiamo capire che abbiamo un’influenza molto limitata su ciò che accade e accadrà in Cina.

Il problema più grave è che oggi gli Stati Uniti considerano il proprio rapporto con la Cina un gioco a somma zero. Si ritiene che se il mondo non continuerà ad essere governato dalle nostre regole, sarà organizzato secondo le regole cinesi. La conclusione quindi è, ovviamente, che deve continuare ad essere disciplinata dalle nostre stesse regole. Gli Stati Uniti devono quindi fare tutto il necessario per garantire il proprio predominio nel mondo. Non si riconosce che il mondo futuro potrebbe essere multipolare. Penso che l’idea di schiacciare la Cina, contenerla o impedirne l’ascesa economica semplicemente per mantenere la supremazia americana sia pericolosa. Penso che questo alla fine confermerà i nostri peggiori timori sulla Cina, perché più la Cina si sente minacciata,

Ho appena scritto un articolo in cui dico che l’errore che abbiamo commesso nel contesto dell’iperglobalizzazione è stato quello di lasciare che le nostre società e le nostre grandi banche scrivessero le regole dell’economia globale. L’errore che stiamo commettendo oggi è lasciare che sia il grande potere dell’establishment della sicurezza nazionale a scrivere le regole dell’economia globale. E quindi penso che in entrambi i casi finiamo per perdere perché abbiamo regole sbagliate.

Dobbiamo capire che abbiamo un’influenza molto limitata su ciò che accade e accadrà in Cina.

DANI RODRICK

Sono quindi molto preoccupato perché penso che abbiamo questa competizione geopolitica globale che rischia di eclissare tutto e non ci porterà verso un mondo più sicuro e certamente non verso un mondo prospero perché allontanerà le società e bloccherà la cooperazione in aree critiche come il cambiamento climatico , salute pubblica globale e questioni economiche.

Proprio per quanto riguarda la cooperazione sui cambiamenti climatici, qual è la sua opinione sulle critiche formulate dall’Unione Europea contro l’ Inflation Reduction Act  ?

Penso che le lamentele degli europei contro gli Stati Uniti riflettano una certa forma di miopia. La lamentela di base, a quanto ho capito, è che la legge statunitense, e in particolare i crediti d’imposta dell’IRA, include molte regole sui contenuti locali, in base alle quali le società che ricevono sussidi dal governo federale devono utilizzare input locali. E naturalmente, in senso stretto, ciò potrebbe costituire una violazione delle regole dell’OMC. Ma il clima è molto più importante dell’OMC e penso che dobbiamo rivedere le nostre priorità. Sai, la gente si lamentava dei sussidi per l’energia solare in Cina. Ma grazie a questi sussidi, che per lo più violavano le regole dell’OMC, il prezzo dell’energia solare è crollato, rendendolo una fonte di energia commercialmente valida. La Cina ha quindi fatto un enorme favore al mondo ignorando le regole dell’OMC sui sussidi. Quindi, se le regole statunitensi che prevedono ingenti investimenti nella tecnologia verde danno i loro frutti, in termini di rallentamento del riscaldamento globale, anche l’Europa ne beneficerà.

I reclami europei rivelano una certa forma di miopia. Se le regole statunitensi che prevedono ingenti investimenti nelle tecnologie verdi danno i loro frutti, in termini di rallentamento del riscaldamento globale, anche l’Europa ne beneficerà.

DANI RODRICK

Penso che anche l’Europa abbia dimenticato di non essere perfettamente liberoscambista. Lei stessa sta discutendo di un meccanismo di aggiustamento del carbonio e quindi affronta lo stesso problema: potrebbe violare le regole del commercio mondiale così come le concepiamo oggi. Perché questo meccanismo comporterebbe la creazione di dazi doganali sulle merci dei Paesi che utilizzano tecnologie inquinanti. E penso che sia perfettamente accettabile, perché consentirà all’Europa di mantenere alti i prezzi interni del carbonio.

Il passaggio a un approccio economico più interventista e dal lato dell’offerta sembra essere meno forte in Europa che negli Stati Uniti. Condividete questa analisi? E hai una spiegazione per questo? 

L’Europa si è comunque evoluta più o meno nella stessa direzione degli Stati Uniti. La politica industriale è riemersa in prima linea nelle discussioni politiche europee. Osserviamo le stesse debolezze di quelle che ho appena esposto per gli Stati Uniti, perché focalizzati sulla digitalizzazione e sulla transizione ecologica. Fondi europei molto significativi sono dedicati all’innovazione e al sostegno in questi ambiti. Ancora una volta, il presupposto è che i posti di lavoro di qualità e la loro diffusione geografica seguiranno meccanicamente. Ma questo mi sembra tutt’altro che certo.

Siamo quindi impegnati nella stessa direzione, ma l’Europa non è stata così ambiziosa come gli Stati Uniti. Penso che manchi una riflessione coerente su ciò che è necessario per creare un’economia che sia produttiva e inclusiva e per trasformare il panorama dell’occupazione produttiva per i lavoratori che sono particolarmente lasciati indietro. In Francia, ad esempio, si tratta di giovani lavoratori che affrontano un tasso di disoccupazione molto elevato. In molti altri paesi, sarebbero gli immigrati recenti ad essere esclusi dalle opportunità di lavoro produttivo ea creare significative tensioni sociali nelle società.

L’Europa manca di un pensiero coerente su ciò che è necessario per creare un’economia che sia al tempo stesso produttiva e inclusiva e per trasformare il panorama dell’occupazione produttiva per i lavoratori che sono particolarmente lasciati indietro.

DANI RODRICK

All’inizio di quest’anno avete lanciato un progetto chiamato “Reimagining the economy”, che mira a “studiare nuove strutture, nuovi meccanismi di governance e nuove forme di economia di mercato e di capitalismo”. Quali sono le principali domande e idee che saranno esplorate da questo programma? 

Le discussioni sulla politica economica tendono a oscillare tra l’idea che il mercato sia la soluzione e che lo Stato sia una minaccia da un lato e la tesi opposta dall’altro. Il nostro progetto “reimmaginare l’economia” si basa sulla premessa che il mercato e lo stato sono complementari. Cerchiamo quindi di capire come lo Stato possa lavorare con il settore privato in uno spirito di collaborazione per aumentare il numero di posti di lavoro produttivi di qualità. La nostra ipotesi è che molte collaborazioni intersettoriali innovative siano già in atto in un certo numero di luoghi. Negli Stati Uniti sono molte le esperienze locali in cui gruppi di imprese si alleano con agenzie locali di sviluppo economico, community college e uffici locali della Small Business Administration per sviluppare una visione comune e investire in aree che creano nuove opportunità di lavoro. Quelli di successo hanno creato processi iterativi di collaborazione in cui le agenzie pubbliche forniscono coordinamento, forniscono finanziamenti, investono in competenze, in cambio dei quali le aziende e altri soggetti del settore privato si impegnano a investire nella creazione di posti di lavoro di qualità. Idealmente, questo modello potrebbe essere esteso a livello federale. Ciò dovrebbe essere accompagnato da investimenti in nuove tecnologie a misura di lavoratore, vale a dire innovazioni che aumentano la produttività del lavoro piuttosto che sostituirla. Quelli di successo hanno creato processi iterativi di collaborazione in cui le agenzie pubbliche forniscono coordinamento, forniscono finanziamenti, investono in competenze, in cambio dei quali le aziende e altri soggetti del settore privato si impegnano a investire nella creazione di posti di lavoro di qualità. Idealmente, questo modello potrebbe essere esteso a livello federale. Ciò dovrebbe essere accompagnato da investimenti in nuove tecnologie a misura di lavoratore, vale a dire innovazioni che aumentano la produttività del lavoro piuttosto che sostituirla. Quelli di successo hanno creato processi iterativi di collaborazione in cui le agenzie pubbliche forniscono coordinamento, forniscono finanziamenti, investono in competenze, in cambio dei quali le aziende e altri soggetti del settore privato si impegnano a investire nella creazione di posti di lavoro di qualità. Idealmente, questo modello potrebbe essere esteso a livello federale. Ciò dovrebbe essere accompagnato da investimenti in nuove tecnologie a misura di lavoratore, vale a dire innovazioni che aumentano la produttività del lavoro piuttosto che sostituirla. in cambio del quale le imprese e gli altri soggetti del settore privato si impegnano a investire nella creazione di posti di lavoro di qualità. Idealmente, questo modello potrebbe essere esteso a livello federale. Ciò dovrebbe essere accompagnato da investimenti in nuove tecnologie a misura di lavoratore, vale a dire innovazioni che aumentano la produttività del lavoro piuttosto che sostituirla. in cambio del quale le imprese e gli altri soggetti del settore privato si impegnano a investire nella creazione di posti di lavoro di qualità. Idealmente, questo modello potrebbe essere esteso a livello federale. Ciò dovrebbe essere accompagnato da investimenti in nuove tecnologie a misura di lavoratore, vale a dire innovazioni che aumentano la produttività del lavoro piuttosto che sostituirla.

Da un lato, abbiamo una sorta di teoria generale secondo cui abbiamo bisogno di meccanismi migliori per la collaborazione tra governo e settore privato. D’altra parte, abbiamo questi germi di esperienza. E quello che vogliamo fare è collegare tutto questo insieme in un modo che allarghi le nostre prospettive e le nostre idee su come possiamo creare economie di successo. Vogliamo arricchire la nostra comprensione di quali collaborazioni funzionano bene e dove no. Perché questo è l’enigma principale. Non si tratta solo di come far decollare queste collaborazioni, ma di come assicurarsi che servano a uno scopo pubblico in modo che non si trasformino in un’istanza di corporativismo che serve solo i bisogni di pochi addetti ai lavori.

LA SINDROME IMPERIALE DELLA RUSSIA SECONDO JIN YAN

Continuiamo a presentare tesi ed analisi di esponenti ed intellettuali cinesi, anche divergenti, ma inseriti nel mondo politico ed accademico di quel paese. Segno del dibattito in corso tra quelle élites a dispetto della dozzinale narrazione occidentale prevalente. I commenti in corsivo sono opera del curatore e non riflettono necessariamente il punto di vista del blog. Buona Lettura, Giuseppe Germinario

Dottrine della Cina di Xi | Episodio 11

L’invasione russa dell’Ucraina ha agitato i circoli intellettuali cinesi. In questo testo, lo storico Jin Yan esprime una posizione piuttosto favorevole a Mosca ma che implicitamente richiama un monito per i cinesi: la Russia ha l’ambizione di “restaurare” il suo impero – è una pessima scelta strategica a livello globale. che crea una situazione potenzialmente più pericolosa della Guerra Fredda.

AUTORE
DAVID OWNBY

 

Jin Yan (nato nel 1954) è professore presso la Facoltà di Lettere e Filosofia, China University of Political Science and Law (中国政法大学). Eminente specialista di storia russa e sovietica, ha pubblicato in particolare numerosi lavori sulla storia della Russia ma anche sulla sua epoca contemporanea e più in generale sull’Europa orientale, scrivendo spesso testi insieme al marito, il famoso storico Qin Hui.

Il testo tradotto qui1è uno dei tanti testi pubblicati da studiosi pubblici cinesi dall’inizio della guerra in Ucraina che cercano di spiegare le radici del conflitto senza schierarsi esplicitamente. In altre parole, non sostengono né criticano la posizione del governo cinese. Non condannano nemmeno apertamente l’aggressione della Russia. Jin riesce comunque a far capire il suo punto di vista, come si evince dal titolo del suo testo, che letteralmente significa “rifare la doratura” in mandarino. Questo è un riferimento alle icone dorate trovate nei templi buddisti in Cina. Sebbene la sfumatura sia difficile da trascrivere in francese, Jin voleva sicuramente paragonare la nozione di “impero” in Russia a un simbolo religioso, e suggerire che la Russia sta solo “restaurando il tempio del proprio impero” e quindi non fa altro che tentare riciclare il proprio passato. Pertanto, anche se l’autore esprime una certa simpatia per la posizione russa e per la guerra,

L’argomento di Jin è fondamentalmente storico: l’Unione Sovietica è crollata, lasciandosi dietro nient’altro che miseria e quasi anarchia. Quando il liberalismo e la democrazia non sono riusciti a fare la loro magia, l’“impero” è venuto a riempire il vuoto e ad offrire una giustificazione per la grandezza passata e futura della Russia. Jin non si sofferma particolarmente su Putin in questo testo, ma fa notare che l’accettazione dell’idea di “impero” è diffusa tra intellettuali e opinione pubblica. Lasciando da parte considerazioni sulla NATO o sulla sicurezza, riprende l’idea spesso mobilitata dai sostenitori del Cremlino che, quando, negli anni ’90 e 2000, la Russia – e Putin – hanno chiesto aiuto all’Occidente ( adesione alla NATO, esenzione dal visto per i viaggi in Europa), l’Occidente avrebbe generalmente rifiutato la Russia. Jin sostiene che l’Occidente avrebbe potuto giocare meglio le sue carte, proponendo un nuovo Piano Marshall per aiutare la Russia in un periodo di grande difficoltà. In assenza di tale assistenza, Putin – e gran parte della Russia – sono diventati ostili nei confronti dell’Occidente e hanno deciso di difendere la loro grande identità di potere in altri modi.

Jin Yan inizia e conclude il suo saggio con un sottile appello ai leader cinesi alla prudenza. Questa non è una nuova Guerra Fredda , insiste, ma Putin rappresenta un’incarnazione della Russia il cui sentimento non scomparirà anche se il leader del Cremlino dovesse lasciare il centro della scena. Il mondo potrebbe quindi finire per dividersi nuovamente in “campi” definiti non dall’ideologia ma dal loro atteggiamento nei confronti della Russia. Jin pone qui una domanda fondamentale: a quale campo vuole aderire la Cina?

La Russia contemporanea ha un’eredità comune con la Russia zarista e l’Unione Sovietica. Tuttavia, si ispira più all’impero zarista che all’esperienza sovietica.

La somiglianza delle politiche di Putin con le politiche interne ed esterne degli Zar non è più in dubbio. Bambole, dipinti e sculture che ricordano l’era zarista possono essere visti in tutte le strade della Russia, e ad ogni attrazione turistica i viaggiatori accorrono per scattare foto con persone vestite da Pietro il Grande o Caterina. Sono tornati i simboli e gli slogan dell’impero, tutti gli zar sono diventati figure positive, Nicola II è stato “canonizzato” ed è ora oggetto di culto. Settant’anni di lavoro ideologico del Partito Comunista dell’Unione Sovietica sono stati spazzati via da un freddo vento siberiano. Attualmente, i “valori imperiali” sono decisamente un’ideologia nazionale positiva in Russia .

Ricostruisci l’Impero

Il nazionalismo è ormai l’unica bandiera sotto la quale la Russia di oggi può radunare le sue truppe , ed è l’arma magica di Putin. Questo vale anche per il mondo intellettuale. Si è notato che pochi intellettuali russi sono riusciti a sfuggire alla trappola dell’eccessivo “statalismo” quando si tratta di questioni nazionali; anche i migliori e i più brillanti smettono di pensare e si allontanano.

Sotto la guida di Putin, l’ intellighenzia russa ha abbracciato uno “slavismo” culturalmente conservatore, e gli individui all’interno e all’esterno del governo si sono affrettati a ridefinire il concetto di “impero” come scienza politica e dargli un nome appropriato. La “febbre dell’impero” era in pieno svolgimento e termini come “impero indipendente”, “impero libero” e “impero nazionale” erano di gran moda, e gli studiosi affermavano che “l’impero è radicato nel DNA della Russia” e discutevano la razionalità di costruire un impero. Il politologo Andrei Saveliyev (nato nel 1962) è arrivato al punto di affermare che “l’impero è il destino della Russia” e che “lo spirito nazionale russo è sempre stato radicato nell’impero. »

Nelle interviste che ha condotto per il suo libro, a Svetlana Alexievich (nata nel 1948), che ha vinto il Premio Nobel per la letteratura 2015 , è stato detto dai suoi intervistati che: “Amo l’impero, e senza di lui la mia vita non avrebbe significato”; “I geni dell’imperialismo e del comunismo sono nelle nostre cellule spirituali”; “La Russia ha bisogno di un’idea che faccia tremare: l’impero”; “La Russia era, è e sarà sempre un impero”; “Comunque, sono un imperialista, e sì, voglio vivere in un impero. »

La Russia iniziò a definirsi un impero durante il regno di Pietro il Grande (1672-1725), che combatté per 21 anni la Grande Guerra del Nord, trasformando la Russia da paese continentale in una grande potenza marittima. Il 22 ottobre 1721, in riconoscimento dei suoi successi, il Senato lo nominò ufficialmente “Grande Imperatore di tutta la Russia”, e da quel momento in poi lo Zar fu ufficialmente chiamato “l’Imperatore russo”. Le caratteristiche più distintive dell’Impero russo sotto Pietro il Grande e Caterina la Grande erano la repressione interna e l’espansione territoriale esterna, mentre combattevano per l’egemonia in Europa. Durante il regno di Caterina, la Russia ha combattuto sei guerre straniere: tre spartizioni della Polonia,

Dopo che i comunisti salirono al potere, la tradizionale visione russa dell’impero fu completamente screditata. La descrizione di Lenin dell’imperialismo come parassitario e morente era ben nota alla gente dell’epoca. Per dirla semplicemente, gli stati imperiali erano parassiti, monopolisti, litigiosi e predatori. La conclusione di Lenin fu che “l’imperialismo annuncia l’alba della rivoluzione sociale proletaria” che ne segnò inevitabilmente il crollo finale. Da quel momento in poi, “impero” divenne un termine peggiorativo, un segnale di rivoluzione nei paesi capitalisti in decadenza. Naturalmente, questi due “imperi” non sono esattamente la stessa cosa.

Grazie alla teoria della rivoluzione mondiale di Lenin e alle sue idee internazionaliste, la rivoluzione russa si è basata sulla negazione dell’impero. Infatti, al tempo di Stalin, molti elementi dell’impero tradizionale erano stati integrati nel sistema del Partito Comunista Sovietico, mentre il pragmatismo ideologico trasformava il marxismo in una copertura degli “interessi russi” sotto la bandiera dell’Unione Sovietica. risolvere alcuni conflitti nella teoria della rivoluzione. Sotto la copertura della retorica rivoluzionaria, “l’impero sovietico ha ereditato e portato avanti completamente gli aspetti interni ed esterni dell’impero zarista” (per inciso, questo era anche il termine usato in Cina per condannare l’URSS negli anni ’70, quando le relazioni diplomatiche tra i due paesi furono degradate). Tutti sapevano che l’Unione Sovietica era un “impero rosso” nella sua carne, anche se il velo della vergogna non era stato ancora apertamente rimosso.

Questo è un commento sulla natura dell’impero sovietico — la forma e, in un certo senso, l’ideologia dell’impero sarebbero state prese dai comunisti — ma anche un commento sulle relazioni sino-sovietiche, che erano pessime durante questo periodo. Oggi la Russia ribalta apertamente il verdetto sull'”impero”. Per volere dell’ideologia ufficiale, gli accademici hanno scritto articoli a destra ea manca per imbiancare il nome dell'”impero” che Lenin avrebbe “distrutto e distorto”. Alcuni credono che il “nuovo nazionalismo” e il “nuovo impero” ora emergenti in Russia rappresentino diverse tendenze del nazionalismo storico e dell’egemonia imperiale.

Eppure questa ideologia imperiale evidenzia la grandezza storica della Russia e la sua influenza sul mondo di oggi. L’obiettivo è quello di integrare la “nuova prospettiva imperiale” nella spiritualità e nell’ideologia nazionale. L’idea è di superare l’instabilità della storia russa e il problema della “scelta di civiltà” creato dalla posizione della Russia tra Oriente e Occidente, che spiega la sua stessa mancanza di valori fondamentali e la natura “discontinuo” della sua storia. Per ovviare a questo problema, è stato spesso necessario mettere in atto forti meccanismi di integrazione.

Per dirla senza mezzi termini, i “valori imperiali” dovrebbero essere la base della coesione nazionale nell’era post-sovietica. La “cortina di ferro” dell’era della guerra fredda è servita a proteggere e isolare in una certa misura l’Unione Sovietica, ma ha anche fissato l’agenda del regime. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, i “valori imperiali” sono diventati di nuovo un nuovo mezzo per identificare i confini esterni, così che il contenuto complessivo del nuovo stato russo includeva questi valori. In passato questi valori erano avvolti dal manto dell’internazionalismo, ma oggi ha senso giocare la “carta impero” per superare le forze centrifughe.

Alcuni studiosi hanno anche sostenuto che la Russia è un paese circondato da nemici e che in termini geopolitici manca di capacità difensive, quindi la sua espansione all’estero non è la stessa del colonialismo occidentale, ma piuttosto un’autoprotezione difensiva. In questo senso, “l’impero” è un soft power al servizio dello sviluppo complessivo e della strategia di potere della Russia.

Le ragioni del ritorno dell’Impero

I sondaggi dopo la Guerra dei cinque giorni con la Georgia del 2008 e dopo il conflitto Russia-Ucraina del 2014 hanno mostrato che quasi il 90% della popolazione riteneva che il dispiegamento di truppe russe in Georgia e la deterrenza in Ucraina fossero pienamente giustificati, il che rappresentava il più alto indice di gradimento governo aveva goduto dal crollo dell’Unione Sovietica, e alcuni media russi hanno persino affermato che il governo sarebbe stato respinto dal popolo se non avesse agito in quel modo.

Nel 2011, l’indice di gradimento di Putin è sceso al 42% prima di salire all’86% dopo la guerra in Ucraina. Le sanzioni occidentali e la rinnovata evocazione da parte di Putin dell’idea che la Russia sia “isolata” e “assediata” lo hanno reso popolare in patria, e la sua popolarità è salita alle stelle. Putin ha affermato che il crollo dell’Unione Sovietica “ha messo in luce le nostre debolezze e le persone deboli vengono ancora picchiate”. Il ritorno del paese all’impero è stato accolto con rara unanimità praticamente da tutti i gruppi. Anche il liberale Anatoly Chubais (nato nel 1955) sostiene che un “impero libero” dovrebbe diventare l’obiettivo nazionale della Russia e l’ideologia post-sovietica.

Il leader del Partito Comunista Russo, Gennady Zyuganov (nato nel 1944), ha dichiarato: “Sin dai tempi antichi, la Russia si è considerata l’erede e il difensore di un’eredità imperiale, e la Russia non dovrebbe rinunciare al sentimento di grandezza che è esistito per molti secoli. »

L’ex presidente Dmitry Medvedev (nato nel 1965) gli disse: “La Russia ha il suo posto nel mondo. Deve avere una sua sfera di interessi, ed è impensabile negarlo. Il 4 novembre 2013, il Congresso mondiale russo ha assegnato a Putin il “Premio per la difesa dello status di grande potenza della Russia”, che è un riconoscimento della sua posizione consolidata.

Sotto titoli come “L’Unione Sovietica non è realmente morta”, i media occidentali hanno notato che è sempre più chiaro che l’ideologia statale russa sta subendo “uno spostamento verso i valori imperiali tradizionali zaristi. Commenti dall’esterno della Russia affermano che la Russia soffre attualmente di una “nuova sindrome imperiale”. Nel 2008, il quotidiano francese Les Echos ha usato il titolo “Le retour de l’empire” per parlare della Russia, dicendo che “il risorgente impero russo potrebbe rappresentare una sfida più difficile della Guerra Fredda” e che questo impero potrebbe essere più pericoloso rispetto all’Unione Sovietica. La diplomazia dovrebbe imparare le lezioni della storia e prenderle sul serio.

Le ragioni del ritorno della Russia nell’Impero sono complesse

In primo luogo, il popolo russo ha un forte senso di orgoglio nazionale, avendo storicamente sconfitto Napoleone e Hitler, ed essendo diventato praticamente da un giorno all’altro una delle due superpotenze mondiali. I russi sono abituati a vedersi come fratelli maggiori, hanno sempre avuto un “complesso salvatore”, e sono estremamente sensibili ai temi della sicurezza territoriale. Come non essere indifferenti alla riduzione del territorio del Paese, al fatto che l’Occidente e gli Stati Uniti ignorino l’esistenza della Russia e facciano pressione sulle “aree di interesse privilegiato” della Russia? Come può questo non infiammare i russi?

L’eredità sovietica è uno degli elementi importanti nella costruzione dell’attuale immagine nazionale della Russia, che mescola temi zaristi con il sentimento di dominio che ha segnato l’era sovietica. In questo senso il tricolore dell’Impero russo e la falce e martello del periodo sovietico si sovrappongono, il risultato è la sintesi di una “nuova sindrome imperiale”.

In secondo luogo, quando negli anni ’90 Boris Eltsin propose i quattro obiettivi principali di “smilitarizzazione, non bolscevizzazione, privatizzazione e liberalizzazione”, l’Occidente non adottò un piano Marshall come dopo la seconda guerra mondiale per aiutare la Russia a superare le sue difficoltà economiche, ma invece ha suggerito che “la Russia sia come la Turchia dopo la caduta dell’Impero ottomano” e “si limiti strettamente al proprio ambiente. »

In un primo momento, la Russia ha esteso un ramoscello d’ulivo all’Occidente: nel 2000 Putin ha invitato a Mosca il segretario generale della NATO George Robertson (nato nel 1946), nel 2001 la NATO ha istituito un’intelligence a Mosca, seguita da una missione militare nel 2002, e le relazioni con la Russia con l’Europa occidentale sono stati molto cordiali. Nel 2002, il presidente Putin ha inviato una lettera al presidente della Commissione europea, parlando dell’intenzione della Russia di approfondire la cooperazione reciproca con l’UE, e Putin ha chiesto di aderire alla NATO.

Ma l’Occidente ha rifiutato, temendo in qualche modo che avere una “volpe nel pollaio” sarebbe stato un disastro. A differenza del caldo russo, la reazione dell’Occidente è stata molto più indifferente e riservata. L’UE era riluttante a cedere sulla questione dell’esenzione reciproca dal visto, lasciando i russi a sentirsi snobbati, portando ad attacchi russi al liberalismo occidentale e provocando una reazione nazionalista/populista.

La maggior parte degli occidentali crede che se alla Russia fosse concesso lo status europeo, l’omogeneità culturale e intellettuale dell’Europa sarebbe minata e le fondamenta della legittimità dell’Unione europea sarebbero scosse. I paesi dell’Europa orientale hanno le loro ragioni per non voler essere coinvolti di nuovo con i russi. Come ha affermato un ex ministro della Difesa polacco2, “La civiltà europea ha dei limiti e la Chiesa ortodossa russa è troppo lontana dalla civiltà europea. La cultura russa è in opposizione alla cultura occidentale”.

Inoltre, Stati Uniti, Germania, Gran Bretagna e Francia hanno fatto marcia indietro sul loro impegno verbale a Gorbachev di non espandere la NATO, cosa che ha scioccato l’élite russa, dopo di che sono arrivate le rivoluzioni colorate, il dispiegamento di sistemi antimissile, la crisi ucraina… Il punto di vista dei russi, il loro cambio unilaterale di strategia non ha ricevuto la risposta attesa, e gli europei hanno continuato a considerarli alla stregua di Churchill, vale a dire come “figli di Gengis Khan venuti dalle regioni selvagge dell’Asia”. . Non avevano mai visto i russi come europei e la loro posizione era “non permettere loro di attraversare il Reno verso l’Europa. »

La categorizzazione delle “rivoluzioni colorate” per designare una serie di rivolte popolari che hanno causato alcuni cambi di governo tra il 2003 e il 2006 in Eurasia e nel Medio Oriente: la Rivoluzione delle rose in Georgia nel 2003, la Rivoluzione arancione in Ucraina nel 2004, la Rivoluzione dei tulipani in Kirghizistan, ecc. — è contestato e tende ad essere utilizzato sempre meno. Nelle tesi cospiratorie, queste rivolte, alcune delle quali sostenute in particolare da ONG americane, sarebbero l’unico atto degli Stati Uniti. Jin Yan sembra usare qui il termine per riferirsi al presunto coinvolgimento degli Stati Uniti – e dell’Occidente in generale – nel cambio di regime in questi paesi.

È chiaro che c’è sempre stata una notevole distanza tra l’immagine di sé della Russia e la percezione della Russia da parte dell’Occidente. La Russia una volta immaginava di entrare nella “corrente principale della civiltà umana” attraverso la trasformazione politica ed economica. Infine, di fronte alla definizione occidentale della Russia come “attore marginale”, la Russia ha fatto una sorta di “ritorno alla storia” in modo molto risoluto. Sembrava che stessero coraggiosamente andando controcorrente.

L’atteggiamento degli Stati Uniti e di altri paesi occidentali ha fortemente stimolato i sentimenti antioccidentali di molte élite russe e del popolo in generale, il che ha rafforzato quegli elementi antioccidentali e antilatini che sono stati a lungo radicati nella psichecittadino russo. Allo stesso tempo, durante il difficile processo di transizione economica, la Russia ha gradualmente preso coscienza della natura distruttiva dell’immagine idealizzata dell’Occidente, comprendendo che, su due fronti fondamentali, i valori occidentali non potevano informare il futuro sviluppo della Russia. In primo luogo, l’Occidente e la Russia non condividono gli stessi interessi e, in secondo luogo, il sistema ideologico occidentale non può essere applicato direttamente alle realtà russe. Occorreva, quindi, restituire alla nazione russa il significato positivo della parola “impero”, e non rifiutarla del tutto, come aveva fatto il Partito Comunista Sovietico.

Dal punto di vista di un osservatore, l’errore strategico a breve termine dell’Occidente negli anni ’90 è stato quello di accelerare le condizioni esterne che incoraggiavano il nazionalismo russo, che ha intensificato lo squilibrio psicologico del popolo russo che aveva già perso l’orgoglio di essere una grande potenza. Ciò a sua volta ha stimolato una reazione nazionalista e la “sindrome del nuovo impero” si è rapidamente diffusa tra la gente, quindi l’umore pubblico si è rapidamente spostato verso i tradizionali valori imperiali russi dopo aver fatto l’esperienza della perdita del crollo dell’Unione Sovietica. Si potrebbe dire che l’Occidente non era abbastanza amichevole all’inizio quando erano possibili relazioni amichevoli, e non abbastanza duro oggi quando la durezza è richiesta. In altre parole,

Oggi, quando la Russia danneggia altri paesi, l’Europa deve essere più dura, ma spesso la durezza retorica è inversamente proporzionale all’azione. La Russia di oggi è come la Germania dopo la prima guerra mondiale, quando l’accordo di Versailles era troppo duro per il paese, portando all’ascesa dei nazisti e ad un accresciuto militarismo che ha assunto l’intera nazione. Come la Germania, l’atteggiamento della Russia è che non ha nulla da perdere. È attorno a questo atteggiamento che gioca Putin quando si mostra mentre pilota aerei e combatte contro tigri.

Caratteristiche della sindrome dell’impero russo

Durante il secondo e il terzo mandato di Putin, la “nuova sindrome imperiale” della Russia si è gradualmente evoluta. Le sue caratteristiche sono le seguenti:

In primo luogo, c’è uno stato d’animo in cui “un sentimento di inferiorità si è trasformato in un sentimento di arroganza” che sopravvaluta il grado di sviluppo nazionale. Valery Tishkov (nato nel 1941), che ha servito come ministro delle nazionalità sotto Eltsin, una volta ha osservato che la tradizione imperiale della Russia è molto profonda, che “se l’impero è morto, il gene rimane” e che, specialmente in un momento in cui il potere della Russia ha declinate, le nozioni di impero possono servire agli scopi della coesione nazionale e fornire la mobilitazione sociale necessaria per gli spettacoli politici.

In secondo luogo, c’è anche una sorta di autovalorizzazione che spesso nuoce ai rapporti con i popoli vicini e tende a creare nuove tensioni.

In terzo luogo, c’è una tendenza a esternare i rancori, che si nutre di un’ostilità verso la cultura occidentale/latina, e cercare altrove risposte ai propri problemi è accompagnata da una debole capacità di autoriflessione. Negli anni ’50, Mao Zedong ha osservato che “i leader sovietici hanno sempre pensato di essere i migliori, che tutto ciò che facevano fosse giusto e che gli errori fossero tutti commessi da qualcun altro”. Sembra che ci sia ancora qualcosa da dire su questo.

Durante la nostra visita in Russia nel 2013, il capo della Heinrich Böll Foundation di San Pietroburgo3ha notato che non c’erano assolutamente dubbi sul fatto che Putin avesse rafforzato l’autorità centrale e la capacità di governo, e che in termini di controllo economico e controllo sociale, ci sono stati notevoli miglioramenti rispetto ai suoi primi due mandati. Quindi, dopo che il potere politico dello stato ha visto una serie di fluttuazioni dalla caduta dell’Unione Sovietica, le cose sono ora tornate alla tradizionale situazione russa in cui il potere centralizzato e concentrato ha il controllo. Il governo centrale si distingue ora come principale meccanismo di integrazione, ponendo fine a un periodo di frammentazione. L’attuale governo russo ha quindi maggiori capacità di azione e si sta essenzialmente trasformando in un governo della linea dura.

Il tono politico di base di Putin è diventato gradualmente più chiaro. La situazione passata in cui la sua posizione politica era poco chiara e la sua identità dottrinale ambigua, in cui era una sorta di “variabile sconosciuta”, è ormai un ricordo del passato. Per riassumere sinteticamente la sua posizione, è “sospettoso della globalizzazione, resiste all’occidentalizzazione e limita la democratizzazione”. Persegue gli interessi nazionali, cerca di esercitare un’influenza regionale e globale e pratica il protezionismo e il profitto. Avendo perso la Guerra Fredda, la Russia cercherà di sfruttare ogni possibile opportunità per riscrivere la storia.

Con il calo dei prezzi del petrolio, l’economia russa è in difficoltà, la dipendenza energetica dell’Europa dalla Russia continua a diminuire e la Russia si sta ripiegando verso l’interno. Ciò intensifica lo stato d’animo di accerchiamento da parte di forze esterne ostili, il che rende la Russia ancora più chiusa e isolata. Il numero di persone xenofobe e paranoiche che affermano che “la Russia è infelice” è aumentato drammaticamente, creando un clima sociale di risentimento autoimposto e alienazione dal sistema globale.

Questo passaggio potrebbe fare riferimento per il lettore cinese a una serie di opere ultranazionaliste cinesi pubblicate negli anni ’90 e 2000. Questi libri consistono in forti denunce contro l’Occidente. In questo caso, l’espressione “Russia è infelice” è, per il lettore cinese, un ovvio riferimento al libro “China inhappy” di Song Jiang, pubblicato nel 2009, populista e antioccidentale.

Sia la sinistra che la destra reagiscono in modo eccessivo quando si tratta di questioni nazionali. Putin è rappresentativo di questo clima sociale. Dopo che l’Occidente ha imposto sanzioni economiche alla Russia, Putin si è offerto di tagliare gli stipendi del governo del 10%, ma ha anche insistito sul fatto che la spesa militare non sarebbe diminuita. Il 20% del bilancio è destinato alle spese per la difesa, che rappresentano l’importo più elevato nell’era post-sovietica.

Alcuni dicono che Putin stia fabbricando una nuova guerra fredda e che dopo l’incidente in Ucraina siamo entrati in un “nuovo contesto di guerra fredda”. La Guerra Fredda è stata un prodotto dell’ideologia, uno scontro tra socialismo e capitalismo, e la Russia oggi chiaramente non sta combattendo l’Occidente per scopi ideologici. La Russia non combatte né per il liberalismo né per il socialismo, il che significa che la situazione attuale non è una guerra fredda. Ma è potenzialmente più pericolosa della guerra fredda, perché se da un lato l’ideologia può essere aggressiva, dall’altro l’ideologia può regolare il comportamento dello Stato e quello della popolazione.

I conflitti della Russia contemporanea con i paesi vicini non sono ovviamente legati alla difesa di certe convinzioni, e Putin non crede nel socialismo, ma questo non riduce il pericolo dell’espansionismo russo. La Russia oggi ricorda l’era zarista, quando il patriottismo dello zar russo fece tremare di paura i suoi vicini, cosa che li fece diventare più filo-occidentali e conservatori dal punto di vista della sicurezza nazionale. Il panorama mondiale potrebbe nuovamente essere diviso tra due campi, il cui centro di gravità sarebbe la loro posizione rispetto alla Russia.

FONTI
  1. 金雁, “为帝国重塑金身,俄罗斯的 ‘新帝国综合征”, originariamente pubblicato sul canale WeChat congiunto di Qin Hui e Jin Yan, 秦川雁塔, ripubblicato sul sito web di Dunjiao (parte del gruppo multimediale Fenghua, con sede a Pechino ), 7 marzo 2022.
  2. Jin Yan fornisce il nome del Ministro della Difesa – Nuoshen/诺什.
  3. Jin Yan fornisce il nome del rappresentante-Yanci/晏茨

https://legrandcontinent.eu/fr/2022/10/29/le-syndrome-imperial-de-la-russie-selon-jin-yan/

Lo Stato è la soluzione: la nuova politica industriale americana, di Louis DE CATHEU

Un testo particolarmente importante ed interessante. Necessita, però, di alcune precisazioni che lo depurino, almeno in parte, dai suoi aspetti propagandistici. In primo luogo questo è parte di un programma clonato, nel senso letterale della parola, da quello del ex-Presidente Trump. Di originale rispetto a quello rimane l’eccessivo entusiasmo riservato alla rapidità di attuazione delle tecnologie verdi e alla economicità e alle implicazioni ambientali dell’adozione di queste tecnologie ancora relativamente mature. In secondo luogo sostituisce alla politica contrattualistica di Trump, non sappiamo quanto realistica, ma comunque più pacifica, una azione interventista e proattiva che comporta uno sconvolgimento traumatico del tipo di relazioni sia con gli alleati, che con gli avversari ed i nemici più o meno dichiarati. Le conseguenze, per altro, le stiamo già verificando in Europa con l’esodo di risorse finanziarie e di attività produttive e la supina subordinazione politica. La condizione di successo di questo piano, senza eccessive conseguenze sullo squilibrio delle finanze pubbliche statunitensi e sull’innesco di processi inflattivi incontrollati, è la perdurante condizione di dominio del dollaro, tutt’altro che scontata allo stato attuale e nel prossimo futuro. La scelta di colpire la Russia sancisce la vittoria della opzione più belligerante, non proprio popolare negli stessi Stati Uniti. E’ mossa dal tentativo rischiosissimo di interrompere il processo di formazione multipolare e di ricondurlo ad un sistema unipolare oppure, più realisticamente, bipolare con la Cina in grado di sostenere una qualche condizione egemonica statunitense in maniera più gestibile. Sia la Cina che la gran parte degli stati del mondo sembrano resistere, sino ad ora, al richiamo delle sirene statunitensi e l’accentuazione, più o meno obbligata, del militarismo e dell’arbitrio non fa che aumentare questa diffidenza. Tutto dipenderà dalla capacità di attuare un programma articolato di intervento, sia economico, che culturale oltre che politico e militare più facile da annunciare che da attuare. Ne troviamo traccia in numerosi documenti dei centri decisori americani. Il pesante retaggio del passato e la via stretta da percorrere non lasciano grandi margini di successo in un mondo, con l’eccezione dell’Europa, molto più disincantato di quaranta anni fa. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Per la prima volta tradotto e commentato in francese, pubblichiamo il discorso metodologico di Brian Deese, Direttore del National Economic Council alla Casa Bianca, sulla strategia industriale americana nell’era Biden. Al di là degli effetti dell’annuncio, mostra come l’azione di questa amministrazione intenda trasformare profondamente le strutture produttive negli Stati Uniti.

Durante l’ultima campagna presidenziale, Joe Biden ha posto la ricostruzione dell’America al centro del suo messaggio al popolo americano. Dietro lo slogan “Build Back Better”, si è impegnato a rafforzare i servizi pubblici americani, le infrastrutture e il dinamismo tecnologico. Per raggiungere questi obiettivi mobilitando il bilancio federale, per realizzare questo programma, l’amministrazione Biden ha in particolare creato, con il Congresso, molteplici strumenti di politica industriale: sussidi per la produzione di semiconduttori o elettricità rinnovabile, programmi di ricerca, cooperazione pubblico-privata, ecc. .

Brian Deese, direttore del National Economic Council alla Casa Bianca, svolge un ruolo chiave nel mettere in musica questa strategia industriale di nuova generazione. In particolare, è responsabile del coordinamento della politica economica attraverso il ramo esecutivo e consiglia il Presidente su tali questioni. 

In questo discorso di metodo sulla strategia industriale dell’amministrazione Biden, difende il ruolo trainante degli investimenti pubblici nello sviluppo economico e nella sicurezza nazionale, evidenzia i successi legislativi e presenta le sfide che restano da superare per attuare questo programma e spendere efficacemente le centinaia di miliardi di dollari ad essa assegnati.

Questo discorso costituisce dunque un punto di osservazione privilegiato per comprendere la trasformazione in atto nella dottrina economica democratica. Dopo 25 anni di centrismo, sta emergendo la volontà di adottare politiche più attiviste volte a trasformare le strutture produttive in una direzione progressista.Per la prima volta tradotto e commentato in francese, pubblichiamo l’intervento del metodo di Brian Deese, direttore del National Economic Council alla Casa Bianca, sulla strategia industriale americana nell’era Biden. Al di là degli effetti dell’annuncio, mostra come l’azione di questa amministrazione intenda trasformare profondamente le strutture produttive negli Stati Uniti.

Grazie, Robyn, e grazie al City Club di Cleveland per avermi ospitato. Sono felice di essere qui per parlare della strategia industriale americana.

Circa 6 mesi fa, ho detto che era giunto il momento per l’America di adottare una moderna strategia industriale.

Alla base, l’idea è semplice: gli investimenti pubblici strategici sono essenziali per realizzare il pieno potenziale economico della nostra nazione.

Questa è un’idea vecchia quanto l’America stessa. Il nostro primo Segretario al Tesoro, Alexander Hamilton, affermò che “le finanze pubbliche devono integrare le carenze delle risorse private” per “stimolare… e rafforzare gli sforzi dell’industria. »

Sono lieto di essere qui oggi a Cleveland per rinnovare quella visione. La storia economica di Cleveland illustra una semplice verità: lavorando insieme in collaborazione, governo, industria e lavoratori possono sbloccare un enorme potenziale economico e quindi creare opportunità economiche per le nostre famiglie e le nostre comunità.

Due secoli fa, quando l’America costruì il Canale Erie, la prima autostrada americana, Cleveland si ritrovò improvvisamente collegata al commercio mondiale. Il presidente Lincoln ha poi dato agli stati la possibilità di effettuare investimenti a beneficio dei loro residenti e delle industrie locali, utilizzando terre federali per istituire college per la concessione di terreni, il che ci ha dato la Ohio State University e la Central State University .

Cleveland divenne rapidamente un hub vitale per il trasporto ferroviario, sede di industrie in rapida crescita tra cui petrolio e acciaio. Questa potenza industriale alimenta quindi nuove innovazioni.

Cleveland ha ospitato il primo parco pubblico illuminato elettricamente, il primo tram elettrico e il primo semaforo elettrico, cosa prevedibile, dato che Thomas Edison è nato nelle vicinanze. È stata una casa automobilistica di Cleveland a produrre la prima auto capace di attraversare il paese da costa a costa. Ed è stata un’altra casa automobilistica di Cleveland che un secolo fa ha creato alcuni dei primissimi veicoli elettrici.

L’America ha investito a Cleveland e in tutto l’Ohio. In cambio, la gente dell’Ohio ha innovato, sviluppato e generato benefici per tutta l’America.

Quando la politica americana alla fine si allontanò da questa gloriosa tradizione, furono luoghi come Cleveland a pagarne il prezzo. A partire dai primi anni ’80, la conversione alla teoria del trickle-down ha causato diversi decenni di abbandono di queste fonti di innovazione. E quindi a un declino delle capacità di innovazione industriale e tecnologica del nostro Paese. Man mano che riducevamo i nostri investimenti, altri paesi, in primis la Cina, hanno preso l’iniziativa, investendo in infrastrutture, produzione e tecnologie emergenti.

Queste tendenze pongono evidenti rischi per la sicurezza economica e nazionale americana.

Ma, fortunatamente, un cambiamento fondamentale sta avvenendo in Ohio e in tutti gli Stati Uniti. Sono qui per affermare che questa non è una coincidenza. Sotto la guida del presidente Biden, abbiamo aperto un nuovo capitolo e stiamo realizzando il più grande investimento pubblico nel potenziale industriale americano da decenni. Stiamo facendo rivivere una potente tradizione, incarnata a Cleveland, adattandola a una nuova era.

Contrariamente alla linearità storica messa in scena in questa introduzione, il presunto ricorso alla politica industriale non è evidente negli Stati Uniti. In effetti, a partire dagli anni ’80 e dalla rivoluzione di Reagan, il discorso neoliberista che fa dell’intervento statale il problema piuttosto che la soluzione ha acquisito grande influenza. Il sociologo Fred Block parla così di “fondamentalismo di mercato”. Gli interventi pubblici a sostegno dello sviluppo di alcuni settori ritenuti fondamentali non sono scomparsi, ma sono diventati più discreti – fondi pubblici di venture capital, DARPA, ecc. — oppure, quando diventano troppo visibili, sono spesso oggetto di forti critiche per favoritismi e scarsa efficienza ( scegliere il vincitore). Il fallimento dell’azienda di pannelli solari Solyndra, che aveva beneficiato di un prestito garantito dall’amministrazione Obama, viene così molto spesso ricordato dai commentatori conservatori e libertari.

È quindi interessante vedere come Brian Deese cerchi di legittimare la strategia industriale dell’amministrazione Biden. Di fronte al discorso egemonico che fa del sistema del libero mercato un pilastro dell’identità americana e l’unica fonte del suo dinamismo economico, mobilita i simboli americani – Lincoln, il Canale Erie, Hamilton, che è uno dei padri fondatori – per dimostrare il ruolo del stato federale nello sviluppo del paese. Soprattutto, fa del disimpegno dello Stato e della reaganomica la causa della deindustrializzazione.

La moderna strategia industriale del presidente Biden

Negli ultimi 18 mesi, il presidente Biden ha collaborato con il Congresso per approvare 4 leggi fondamentali: l’ American Rescue Plan , che ha salvato la nostra economia dal precipizio, e più recentemente la legge bipartisan sulle infrastrutture, CHIPS and Science Act , e l’ Inflation Reduction Act .

L’ American Rescue Plan di marzo 2021 prevede, nell’ambito della crisi Covid, numerosi aiuti per le famiglie – assegno da 1400 dollari, proroga degli aiuti ai disoccupati, credito d’imposta alle famiglie, ecc. —, imprese e alcuni servizi pubblici (istruzione, sanità e comunità).

L’ Infrastructure Investment and Jobs Act del novembre 2021 prevede 1,1 trilioni di dollari, di cui 550 miliardi in nuovi crediti, in 10 anni, per infrastrutture stradali, ferroviarie, portuali e digitali (fibra). Include anche alcune misure a favore del clima, tra cui un piano di sostegno al settore dell’idrogeno e un programma per l’acquisto di autobus elettrici.

Il CHIPS and Science Act dell’agosto 2022 stanzia 52 miliardi a un fondo responsabile della distribuzione di sussidi per l’installazione di fabbriche di semiconduttori, ricerca e sviluppo sul campo, e crea un nuovo credito d’imposta per la produzione avanzata. Autorizza inoltre un forte aumento degli stanziamenti per la National Science Foundation e il Dipartimento dell’Energia.

La legge sulla riduzione dell’inflazione dell’agosto 2022 crea numerosi crediti d’imposta sulle energie rinnovabili, un acceleratore per le banche pubbliche verdi ed espande in modo massiccio il programma di prestiti garantiti del Dipartimento dell’Energia.

Queste leggi sono accomunate da una forte visione mobilitante: una moderna strategia industriale americana.

Questo è ciò che realizza una moderna strategia industriale americana. Individua le aree in cui l’iniziativa privata, lasciata a se stessa, non mobiliterà gli investimenti necessari a promuovere i nostri principali interessi economici e di sicurezza nazionale. Ricorre quindi agli investimenti pubblici per stimolare gli investimenti privati ​​e l’innovazione.

Ciò significa che, piuttosto che accettare come destino inevitabile che le decisioni individuali di coloro che si preoccupano solo dei propri profitti privati ​​ci lasceranno indietro in settori chiave, stiamo intraprendendo investimenti nelle aree che costituiranno la spina dorsale della nostra crescita economica nel prossimi decenni, aree in cui dobbiamo aumentare la capacità produttiva della nazione.

Una moderna strategia industriale americana non risponde al rischio di sottoinvestimenti cercando di sostituire o mettere da parte il settore privato: utilizza gli investimenti pubblici per sfruttare più investimenti privati ​​e garantisce che i benefici cumulativi di tali investimenti rafforzino la nostra ricchezza nazionale. Incoraggia la distribuzione di questi investimenti tra tutte le regioni e le comunità. E investe nei lavoratori, le persone dietro tutta quella produttività e innovazione.

Non si tratta dello stato che sceglie vincitori e vinti. Il nostro approccio è diverso. La nostra moderna strategia industriale americana riflette la nostra scelta di fare investimenti coraggiosi in aree chiave, sulle quali c’è consenso tra accademici e imprenditori, per considerarle fondamentali per la crescita economica. Questi investimenti aiutano ad accelerare e dare forma a una rapida innovazione, incoraggiano gli investimenti privati ​​e la concorrenza di mercato, e lo fanno in un modo che sceglie un solo vincitore: il popolo americano, la sua produttività, le sue opportunità e la sua qualità di vita.

Brian Deese cerca qui di rispondere alle critiche comunemente rivolte alla politica industriale: il rischio di frammentazione, l’effetto di spiazzamento — l’idea che gli investimenti pubblici sostituiscano solo gli investimenti privati ​​che avverrebbero in assenza dell’intervento pubblico — e la scelta di vincitori — L’intervento pubblico porterebbe a concedere arbitrariamente vantaggi a determinati attori economici, che prospereranno senza che ciò sia legato alla loro performance economica.

È vero che le leggi citate da Brian Deese si concentrano su pochi settori — semiconduttori, infrastrutture, energie verdi — e adottano una logica incentivante, in particolare attraverso numerosi crediti d’imposta e sovvenzioni, per consentire alle aziende private di prendere decisioni autonome. Si tratta di svolgere un ruolo di catalizzatore ma anche di risolvere problemi di azione collettiva garantendo il coordinamento tra diversi settori interessati dalla stessa sfida tecnologica. 

La prima area è l’infrastruttura di trasporto

Le infrastrutture gettano letteralmente le basi per gli investimenti privati. Con loro, le aziende possono immettere le merci sul mercato in modo più efficiente. Le supply chain possono operare in modo più affidabile. I lavoratori possono accedere a maggiori opportunità e posti di lavoro con una maggiore produttività.

E oggi stiamo compiendo uno sforzo storico per gettare queste basi.

La nostra strategia industriale prevede investimenti nelle nostre infrastrutture ancora maggiori di quelli concessi sotto il presidente Eisenhower per la realizzazione della rete autostradale.

Il secondo ambito su cui c’è accordo generale è l’innovazione tecnologica.

Gli investimenti pubblici in ricerca e innovazione alimentano il motore privato dell’economia statunitense. Mantengono l’America in prima linea, soprattutto quando si tratta di produzione, a causa dei forti circuiti di feedback tra laboratori di ricerca e fabbriche. Una nazione che rinuncia alle proprie capacità produttive rischia anche di rinunciare alla propria leadership tecnologica.

Per decenni abbiamo ceduto questo terreno.

Ma ora, con la nostra strategia industriale, stiamo investendo nell’innovazione più del presidente Kennedy e del programma Apollo che ci ha portato sulla Luna.

Ci impegniamo ad adottare il più grande budget quinquennale per la ricerca e lo sviluppo della storia.

Il CHIPS and Science Act crea nuovi programmi all’interno delle agenzie di ricerca federali: creazione di una direzione per la tecnologia e l’innovazione all’interno della NSF, creazione di una fondazione per la sicurezza energetica all’interno del DOE, ecc. Di conseguenza, i loro limiti di spesa autorizzati sono stati notevolmente aumentati:

— la National Science Foundation (NSF): 81 miliardi di dollari in 5 anni (+36 miliardi);

— l’ufficio scientifico del dipartimento dell’energia: 50 miliardi di dollari in 5 anni (+13 miliardi);

— il National Institute of Standards and Technologies (NIST): 10 miliardi di dollari in 5 anni (+ 5 miliardi).

Tali spese dovranno comunque essere oggetto di una legge di approvazione per la definitiva assegnazione dei crediti.

Stiamo collegando tutta l’America all’economia digitale espandendo l’accesso a Internet ad alta velocità.

E stiamo aprendo nuove opportunità investendo nell’istruzione e nella formazione scientifica e tecnologica, nelle scuole, nelle università e nelle organizzazioni di formazione professionale, al fine di produrre una forza lavoro qualificata e diversificata.

E la terza area è l’energia verde.

A livello globale, la transizione verso un’economia a basse emissioni di carbonio si preannuncia come la più grande trasformazione economica dai tempi della rivoluzione industriale. Ciò non influenzerà solo il modo in cui produciamo e consumiamo energia, ma anche il modo in cui ci muoviamo e viviamo.

Sappiamo che la crisi climatica non può essere risolta solo dalle forze di mercato. Sappiamo che la leadership pubblica e gli investimenti sono fondamentali. Eppure il nostro Paese è rimasto in disparte per decenni.

Ma oggi, con la nostra strategia industriale, stiamo facendo il più grande investimento in energia verde nella storia del nostro Paese.

Fornendo incentivi a lungo termine, incoraggiamo il settore privato a investire su larga scala. Insieme a regolamenti che forniscono certezza agli investitori, questo piano incentiverà il rapido dispiegamento di tecnologie mature, accelererà la commercializzazione di innovazioni emergenti e ridurrà le emissioni di gas serra più velocemente di qualsiasi altro momento della nostra storia. Man mano che le industrie crescono, i prezzi dell’energia per le famiglie scenderanno e verranno creati posti di lavoro di alta qualità per i lavoratori.

Lungi dal soppiantare i mercati o spiazzare gli investimenti privati, gli investimenti fondamentali realizzati in questi tre settori (infrastrutture, innovazione ed energia pulita) forniranno uno straordinario impulso agli investimenti privati.

In effetti, stimiamo che l’agenda legislativa del presidente Biden, tenendo conto sia del capitale pubblico che di quello privato, genererà circa 3,5 trilioni di dollari di investimenti nel prossimo decennio.

Questo numero può sembrare diffuso o distante. Quindi permettetemi di renderlo più concreto. Solo negli ultimi mesi:

Intel ha iniziato la costruzione di un complesso di semiconduttori da 20 miliardi di dollari nella periferia di Columbus.

General Motors ha annunciato quasi 1 miliardo di dollari di investimenti per la produzione di componenti per veicoli elettrici con lavoratori UAW sindacalizzati nel suo stabilimento di Toledo e si è impegnata a espandere un impianto di batterie agli ioni di litio a Youngstown.

First Solar ha annunciato che sta spendendo quasi 200 milioni di dollari per modernizzare ed espandere le sue tre fabbriche di pannelli solari vicino a Toledo.

Ford prevede di spendere 1,5 miliardi di dollari nel suo stabilimento di assemblaggio di Avon Lake, situato appena fuori Cleveland, creando 2.000 nuovi posti di lavoro sindacalizzati.

E questa settimana, Honda e LG hanno annunciato l’intenzione di investire fino a 4,4 miliardi di dollari in un impianto di batterie per veicoli elettrici nella contea di Fayette e altri 700 milioni di dollari per riorganizzare le fabbriche di veicoli elettrici di Honda situate in Ohio.

E questo è solo l’Ohio. Potrei andare avanti all’infinito. In tutto il Paese, le aziende stanno investendo nella produzione per i settori del futuro.

È questo dinamismo che la nostra strategia industriale sta contribuendo a scatenare: l’afflusso di capitale privato, la rinascita della produzione americana, il trasferimento delle catene di approvvigionamento e il rafforzamento della nostra base industriale. Nota che non uso il futuro. Succede qui e ora.

Il settore industriale ha un vero dinamismo nel 2022. La produzione ha superato il livello pre-pandemia alla fine del 2021 e ha continuato a crescere nel 2022 nonostante l’inflazione. Gli investimenti nell’estensione dello strumento di produzione sono in aumento, grazie agli incentivi fiscali, in particolare nei semiconduttori, nelle batterie, ecc. — ma anche in una logica di delocalizzazione produttiva. Di conseguenza, il valore dei progetti di costruzione di fabbriche in corso è aumentato da circa 70 miliardi di dollari prima della pandemia a 113 miliardi di dollari nel settembre 2022. Questo movimento è iniziato dopo la pandemia che ha evidenziato chiaramente i rischi che coinvolgono filiere molto estese e incontrollate. È ulteriormente rafforzato dal deterioramento del contesto geopolitico.

La necessità di una strategia industriale

E tutto questo sta accadendo in un momento economico critico.

Ci troviamo di fronte a una serie complessa di sfide economiche globali. Gli shock seriali della pandemia, le interruzioni della catena di approvvigionamento e la guerra di Putin. Pressioni inflazionistiche globali, disuguaglianza, concorrenza con la Cina e altri paesi, una diffusa rivalutazione della globalizzazione e incertezza sul potenziale produttivo americano.

Anche se affrontiamo l’immediatezza di queste sfide, compreso il nostro lavoro urgente per abbassare i prezzi per le famiglie americane, vediamo dietro di esse una domanda centrale: gli Stati Uniti possono affrontare questa transizione? Una crescita e prosperità ampiamente condivisa? Oppure rischiamo di ricadere in un equilibrio pre-pandemia di bassi investimenti, bassa crescita, disuguaglianze sempre più ampie e perdita del nostro vantaggio competitivo?

Supponiamo di voler disegnare il miglior antidoto a questo scenario, la migliore risposta a chi crede che siamo in pericolo di subire una riduzione della nostra produttività e del nostro potenziale economico nei prossimi anni.

Guarderesti a investimenti strategici a lungo termine in aree che offrono i rendimenti più elevati al potenziale produttivo della nostra economia. Cercheresti luoghi in cui il capitale pubblico potrebbe aiutare ad aumentare la capacità di offerta e ridurre le pressioni sui prezzi. Guarderesti alle aree di crescente domanda globale, dove l’America può ottenere un vantaggio competitivo e aumentare le sue esportazioni.

In altre parole, cercheresti una moderna strategia industriale americana.

L’utilizzo di un approccio più interventista alla politica economica appare ad alcuni decisori democratici la risposta necessaria alla policrisi: sfida geopolitica cinese, crisi climatica, ascesa del populismo e disintegrazione del corpo sociale.

Questa è forse la principale tensione interna in questa “strategia industriale moderna”. Perché per rafforzare la capacità industriale americana saranno necessari ingenti investimenti, e quindi trasferimenti al settore manifatturiero, che sono già iniziati con il CHIPS Act e l’Ira. Questo è il minimo che non si possa dedicare al rafforzamento dello stato sociale e alla riduzione delle disuguaglianze.

Tuttavia, dato il livello che la disuguaglianza ha raggiunto oggi negli Stati Uniti, questa tensione tra reindustrializzazione e lotta alla disuguaglianza può essere risolta finanziando la politica industriale attraverso le tasse sui più ricchi. Si finanzia così l’ Inflation Reduction Act che, nonostante la cospicua spesa che prevede per il clima, dovrebbe ridurre il deficit federale, attraverso la creazione di un’aliquota minima dell’imposta sulle società del 15%, il rafforzamento della lotta all’evasione fiscale e l’eliminazione delle scappatoie fiscali.

In questo contesto, l’enfasi nella sua descrizione della nostra strategia economica da parte del segretario Yellen su “l’offerta moderna [approccio]” è rilevante. E qui stiamo assistendo all’emergere di un consenso bipartisan a favore di un ruolo più forte del governo nello sviluppo industriale americano.

Come ha affermato di recente il senatore Todd Young dell’Indiana, “è davvero importante, non solo per la nostra sicurezza nazionale ma anche per la nostra sicurezza economica e il nostro stile di vita, che abbiamo uno stato efficace e talvolta energico”.

In un momento in cui alcuni sostengono che l’America è troppo divisa e la democrazia non può più fornire risultati efficaci, la nostra strategia industriale dimostra che possiamo unirci e investire in noi stessi e nel nostro futuro.

Se la lotta alla minaccia cinese o il finanziamento delle infrastrutture sono alcuni degli ultimi temi di convergenza bipartisan, non è così per il clima. È così che i progetti di legge sull’investimento e l’occupazione nelle infrastrutture e sui progetti di legge CHIPS e Science Act sono stati approvati in modo bipartisan, mentre l’ Inflation Reduction Act ha dovuto fare affidamento solo sui voti democratici e sul processo di riconciliazione per vedere la giornata. 

Attuare una strategia industriale

Guardando al futuro, ci concentreremo sul duro lavoro di esecuzione di questa moderna strategia industriale. Voglio concentrarmi su tre elementi chiave del nostro piano di esecuzione:

DISTRIBUIRE NUOVI STRUMENTI E NUOVI APPROCCI

In primo luogo, utilizzeremo gli investimenti pubblici in un modo nuovo.

La strada dalla ricerca e sviluppo alla produzione e commercializzazione – dal laboratorio alla fabbrica e al mercato – è spesso lunga e tortuosa. La nostra moderna strategia industriale utilizzerà una serie di strumenti per accelerare questo processo in modi senza precedenti.

Vi faccio un esempio: l’idrogeno verde.

Lo sviluppo del settore dell’idrogeno pone una serie di sfide per l’azione collettiva per le quali gli approcci tradizionali e compatti alle infrastrutture energetiche si stanno rivelando insufficienti. Richiede l’emergere simultaneo di innovazioni all’avanguardia, casi d’uso industriale, produzione su larga scala, massicci investimenti infrastrutturali e una base di consumatori.

Tradizionalmente, l’investimento pubblico è consistito nel sovvenzionare la produzione – come la costruzione di una diga idroelettrica – o la distribuzione – come la costruzione di linee di trasmissione. È quello che abbiamo fatto per l’idrogeno, con crediti di imposta a lungo termine che incentivano le imprese a investire nella produzione.

Ma questo potrebbe non essere sufficiente per cogliere tutte le opportunità con la scala e la velocità necessarie. Ecco perché stiamo lanciando un nuovo sforzo collaborativo nazionale: gli Hydrogen Hub. Questi centri creeranno reti regionali di produttori, distributori, utenti finali e altre parti interessate per realizzare progetti dimostrativi su larga scala.

Questa collaborazione attraverso la catena di approvvigionamento dell’idrogeno sarà la chiave per costruire capacità e risolvere questo problema di azione collettiva. Potrebbe consentire agli Stati Uniti di svolgere un ruolo di primo piano nel fornire carburante pulito ed economico all’Europa e ad altri alleati. Potrebbe persino rimodellare altri settori, come l’acciaio, rendendoli più puliti e più competitivi a livello globale.

Sì, incoraggiamo gli investimenti delle imprese attraverso crediti d’imposta per l’implementazione. Ma attraverso questi hub dell’idrogeno, stiamo anche aiutando le industrie a superare gli ostacoli alla diffusione.

Ecco un altro esempio: i semiconduttori , i chip che alimentano qualsiasi cosa, dai telefoni e gli elettrodomestici alle automobili e ai sistemi di difesa. Riconquistare la nostra leadership è una necessità economica e di sicurezza nazionale.

Ecco perché investiamo nell’intera catena di fornitura della microelettronica per consentire l’invenzione e la produzione di tecnologie all’avanguardia in America. Usiamo sussidi e incentivi fiscali per la produzione. I nostri investimenti in ricerca e sviluppo includono la prototipazione e il supporto delle apparecchiature, per guidare la collaborazione tra industria e ricercatori per progettare e produrre chip di nuova generazione. E come abbiamo mostrato prima, useremo i controlli sulle esportazioni quando necessario per proteggere la nostra sicurezza nazionale e gli interessi di politica estera.

La comprensione delle questioni economiche e tecnologiche in termini di sicurezza è qui direttamente evidente. La politica industriale e tecnologica sta prendendo sempre più spazio nel pensiero strategico e nella politica di potenza. Ciò è particolarmente evidente nella revisione integrata del 2021 della Gran Bretagna o nella recente strategia di sicurezza nazionale dell’amministrazione Biden . Al contrario, la sicurezza nazionale è una preoccupazione chiave dei responsabili delle politiche economiche: il tecno-nazionalismo nelle sue opere.

Questi esempi evidenziano come la nostra strategia industriale possa sfidare vecchie divisioni. Per far avanzare la nostra strategia industriale, dobbiamo ora sostenere lo sviluppo rapido e responsabile delle capacità di prossima generazione. Il che ci porta alla parte successiva del nostro piano.

UN IMPEGNO NAZIONALE PER COSTRUIRE IN MODO EQUO, SU LARGA SCALA E RAPIDAMENTE

In secondo luogo, costruiremo. E lo faremo su scala e velocità.

La nostra strategia industriale è al centro di uno sforzo di mobilitazione nazionale durato diversi anni. Questa impresa combinata – infrastrutture, innovazione, energia verde – non è meno ambiziosa del Canale Erie, della ferrovia transcontinentale, dell’elettrificazione rurale o della rete stradale interstatale.

Parliamo di 950 milioni di pannelli solari e 120.000 turbine eoliche entro la fine del decennio, miliardi di dispositivi alimentati da semiconduttori, milioni di veicoli elettrici e migliaia di chilometri di cavi in ​​fibra ottica e linee di trasmissione.

La portata di questo compito è enorme. Metterà alla prova il nostro Paese e le nostre istituzioni. E dovremo riformare il modo in cui costruiamo in America.

Non si può negare che l’America sia rimasta indietro rispetto ad altri grandi paesi, anche quelli con forti tutele lavorative, ambientali e storiche, quando si tratta di rispettare il budget e le scadenze di costruzione.

Dovremo fare le cose in modo diverso. Dovremo dotarci di una rinnovata capacità di agire rapidamente, non solo a livello federale, ma anche con partner statali, locali e tribali. Anche prima che gran parte di questa legislazione fosse approvata, avevo sottolineato che questa potrebbe essere la parte più difficile di tutto il nostro sforzo. Ecco perché, negli ultimi sei mesi, abbiamo sviluppato un piano il cui elemento centrale è costruire più velocemente e in modo più intelligente.

Come con qualsiasi progetto, inizia con il layout. Un processo di licenza migliore avvantaggia tutti. Gli avvocati e le associazioni locali vogliono certezze tanto quanto gli sviluppatori e gli investitori. Il nostro nuovo piano aumenterà le risorse per le agenzie per fornire tale certezza razionalizzando le loro revisioni ambientali e i processi di autorizzazione.

Abbiamo bisogno di una seria responsabilità per misurare e monitorare i progressi della costruzione. Il nostro piano rivede i sistemi di monitoraggio e gestione dei progetti.

Stiamo espandendo un programma infrastrutturale chiamato “Every Day Counts” che accelera i progetti raggruppando l’approvvigionamento e la costruzione di autostrade o ferrovie correlate, invece di realizzarli uno alla volta. Usiamo un approccio chiamato “Dig Once” per coordinare i progetti, quindi se stiamo espandendo una strada, stiamo aggiornando la fibra e l’energia allo stesso tempo. E stiamo ampliando l’uso di accordi di progetto, che riducono il rischio di costosi ritardi e interruzioni su progetti complessi, garantendo che vengano completati da lavoratori altamente qualificati.

Infatti, oggi alla Casa Bianca, stiamo ospitando un vertice senza precedenti sul miglioramento della consegna dei progetti con partner locali e statali, in modo da poter costruire più velocemente e in modo più intelligente a tutti i livelli del governo.

Prendiamo l’esempio dei minerali essenziali, che costituiscono molte moderne tecnologie, comprese le batterie dei veicoli elettrici. Alcuni dubitano che l’America sia in grado di raccogliere la sfida di sviluppare la propria industria dei minerali critici, un settore dominato dalla Cina, a monte e a valle. Ma la scorsa settimana ha aperto i battenti la prima miniera di cobalto americana, in buoni rapporti con i gruppi ambientalisti locali. Le aziende stanno gareggiando per costruire nuovi impianti per recuperare il litio dalle salamoie della California vicino al Salton Sea, soprannominato la “Lithium Valley” per le sue vaste risorse.

Come parte del nostro piano, questo mese lanceremo uno sforzo specifico sui minerali critici, che riunirà nuovi approcci all’impegno della comunità, sovvenzioni e prestiti a sostegno dell’estrazione, lavorazione e riciclaggio di minerali critici. catene di approvvigionamento.

E il nostro piano di costruzione si concentrerà sulla posizione e sull’equità – dove e come costruiamo – perché questo ci aiuterà a sbloccare più potenziale economico del nostro paese.

Le azioni intraprese dall’amministrazione Biden non si concretizzeranno senza realizzare immense opere sul territorio americano: costruzione di nuove strade e linee ferroviarie, creazione di parchi eolici e pannelli solari, installazione di nuove linee elettriche e costruzione di fabbriche di semiconduttori o batterie.

Tuttavia, il sistema americano di rilascio dei permessi di sviluppo è oggetto di forti critiche per la sua lentezza e per i costi aggiuntivi che comporta per i progetti. Nell’ambito del compromesso tra il senatore Manchin, dell’ala destra del Pd, e il capogruppo del partito al Senato, Chuck Schumer, Manchin aveva ottenuto la promessa dell’adozione in autunno di una legge venuta a riformare tali procedure . La sua proposta di Energy Independence and Security Act del 2022prevede pertanto di fissare scadenze chiare per le procedure di valutazione ambientale del progetto (2 anni o 1 anno, a seconda delle dimensioni del progetto). Quanto all’amministrazione, ha già avviato una serie di azioni volte a migliorare il rilascio delle autorizzazioni da parte delle agenzie federali ea rafforzare le competenze nella gestione dei progetti infrastrutturali.

Il confronto politico sulla riforma delle procedure di rilascio dei permessi edificabili e delle valutazioni ambientali non si sovrappone alla divisione tra repubblicani e democratici. All’interno di quest’ultimo, i leader della sinistra progressista, tra cui Bernie Sanders, hanno reso nota la loro opposizione al progetto di riforma Manchin, che faciliterebbe la realizzazione di progetti sui combustibili fossili. Ma sta ricevendo il sostegno di coloro che sono preoccupati per le difficoltà nella costruzione di nuovi progetti di energia verde e, ancor di più, le linee elettriche necessarie in un sistema elettrico più decentralizzato.

Dietro questo dibattito sembra albeggiare una contrapposizione tra una tradizione più libertaria, in linea con i movimenti ecologisti la cui attività è consistita a lungo, giustamente, nell’opporsi ai progetti sui combustibili fossili, e una tradizione più interventista, più attenta alla trasformazione del sistema energetico. Abbiamo così assistito all’emergere di un movimento pro-costruzione YIMBY ( Yes In My Back Yard ), dominato dai Democratici, che chiede un allentamento delle regole sfavorevoli alla densificazione, alla velocità dei progetti nonché a maggiori sforzi per sviluppare l’edilizia abitativa. sociale pubblico.   

Ancora una volta, Cleveland incarna chiaramente questa impresa. Per coloro che fuggivano dal Jim Crow South, i lavori industriali disponibili a Cleveland rappresentavano un faro di speranza e opportunità economiche, anche se lì continuavano a subire discriminazioni.

Tra loro c’era il grande inventore Garrett Morgan. Nato all’indomani della guerra civile da genitori che erano stati ridotti in schiavitù – e non aveva continuato oltre la prima media – si trasferì a Cleveland e iniziò a riparare macchine da cucire. Ha finito per sviluppare “coperture di sicurezza” per i vigili del fuoco e semafori con un terzo segnale. Li conosciamo oggi come maschere antigas e luci ambrate.

In effetti, ogni volta che la nostra nazione ha intrapreso un nuovo sforzo di costruzione, abbiamo fatto un passo verso il perfezionamento della nostra unione imperfetta. Ora, questa opportunità di ricostruire può essere un’opportunità per riparare.

Perché costruire velocemente e costruire in modo equo non deve essere uno sforzo.

Costruire infrastrutture in tutte le parti del nostro Paese – anche nelle comunità che non hanno raccolto i frutti degli investimenti passati e in quelle danneggiate da progetti realizzati molto tempo fa – è proprio ciò che consente di liberare il potenziale produttivo della nostra economia. Ecco perché uno degli elementi più potenti e importanti del nostro piano è che, per la prima volta, le aziende otterranno un aumento del 10% dei loro crediti d’imposta sull’energia pulita se realizzano progetti in comunità che hanno fatto affidamento su posti di lavoro tradizionali nel settore energetico .

In una logica di economia politica, per far convergere i consensi attorno all’azione dell’Amministrazione, in particolare alla politica climatica, le disposizioni delle recenti leggi prevedono aumenti per alcune comunità fragili e regole di contenuto domestico. Generando nuove industrie in America e nei territori deindustrializzati, i Democratici vogliono rafforzare il loro sostegno politico ed elettorale.

Non dobbiamo farci illusioni: non sarà facile. Né è compito del solo governo. Richiederà la mobilitazione nazionale e lo sviluppo di capacità a tutti i livelli. Ma siamo all’altezza del compito.

UNA PIÙ STRETTA COOPERAZIONE CON ALLEATI E PARTNER

In terzo luogo, ci occuperemo della situazione mondiale, rafforzando nel contempo la forza americana.

Un maggiore impegno con i nostri partner all’estero è una questione di necessità economica e geografica. Non è fattibile né consigliabile per noi produrre tutto internamente. Abbiamo bisogno di coalizioni internazionali di partner affidabili che rafforzino catene di approvvigionamento sicure e amplifichino le nostre fonti di forza.

È anche una questione di necessità geopolitica. La sicurezza nazionale ed economica dell’America è rafforzata da forti alleanze. Questo è ciò che abbiamo avanzato in tutto il mondo. Stiamo sviluppando un nuovo quadro economico per la regione indo-pacifica. Stiamo rafforzando le nostre relazioni economiche con l’Europa. Abbiamo collaborato con i nostri alleati del G7 per l’infrastruttura globale. Stiamo conducendo un accordo globale sull’imposta sulle società.

Siamo anche pienamente impegnati nella “diplomazia della catena di approvvigionamento”. Quest’estate, abbiamo concordato con 18 stretti partner commerciali di rendere le nostre catene di approvvigionamento collettive più sicure, più diversificate, più resilienti e più sostenibili di fronte alle interruzioni. Continueremo questi sforzi, esplorando nuove idee come lo stress test della catena di approvvigionamento per identificare le vulnerabilità prima che diventino crisi.

Sia chiaro: si tratta di impegno strategico, non di isolazionismo.

Alcuni hanno espresso la legittima preoccupazione per il rischio che gli Stati concedano sussidi industriali sempre maggiori per superare i loro concorrenti, il che ne ridurrebbe l’efficienza. Ma gli investimenti che facciamo pagheranno enormi dividendi globali espandendo l’offerta, accelerando l’adozione della tecnologia e riducendo i costi. E per settori come i semiconduttori e l’energia pulita, siamo lontani dall’aver raggiunto il punto di saturazione globale degli investimenti necessari. Dovremmo accogliere con favore le azioni della maggior parte dei paesi se sono strutturate in modo equo e attuate in modo appropriato.

La politica industriale americana iniziò a creare attriti con l’Europa. In particolare, alcuni sussidi e crediti d’imposta ai sensi della legge sulla riduzione dell’inflazione sono soggetti a norme nazionali sui contenuti, in particolare nel caso dei sussidi per i veicoli elettrici. La Commissione Europea e diversi partner europei hanno manifestato le loro critiche . 

Tutta questa costruzione richiederà tempo e vigilanza. Come ha spiegato il Segretario di Stato Blinken, per competere con la Cina dovremo fare “investimenti di vasta portata nelle nostre principali fonti di forza nazionale, a partire da una moderna strategia industriale”.

Conclusione

Ho accennato in precedenza a come gli investimenti pubblici abbiano alimentato la crescita e l’innovazione in luoghi come Cleveland per due secoli.

E quando si tratta di innovazione, la storia può muoversi velocemente. Fu qui in Ohio che i fratelli Wright aprirono un negozio di biciclette che cambiò il mondo. Fecero il loro primo volo a Kitty Hawk, ma fu a Dayton che perfezionarono il loro velivolo. E solo 66 anni dopo, sotto la guida del nativo dell’Ohio Neil Armstrong, gli astronauti americani si lanciarono nello spazio con l’Apollo 11.

Siamo passati da un negozio di biciclette alla Luna in una vita.

L’America ha investito in Ohio e gli abitanti dell’Ohio hanno investito in America.

Oggi la storia si muove di nuovo velocemente. Come nazione, dobbiamo tenere il passo. Con questa moderna strategia industriale americana, ci stiamo imbarcando in una missione che l’America non tenta seriamente da decenni. Dobbiamo alzarci fino a questo momento.

Partecipare a questo sforzo dovrebbe essere fonte di orgoglio nazionale, comunitario e individuale.

Per i leader aziendali presenti oggi: ora che l’America sta facendo questi investimenti, spero che farete tutto il possibile per investire nelle industrie, nei lavoratori e nelle comunità americane.

L’America è sempre stata una nazione di costruttori. Cleveland lo sa così come ovunque in America. Questa città ha già mostrato al mondo come può funzionare una strategia industriale e possiamo farlo di nuovo ai nostri tempi. Andiamo avanti e costruiamo insieme.

https://legrandcontinent.eu/fr/2022/11/14/letat-est-la-solution-la-nouvelle-politique-industrielle-americaine/

Guerra tecnologica: 10 punti sui semiconduttori, di Le Grand Continent

I semiconduttori sono al centro della nostra vita quotidiana, ma cosa sappiamo veramente di loro? Mentre le ultime sanzioni americane nei confronti della Cina fanno rivivere l’importanza di questo terreno strategico competitivo, proponiamo uno studio senza precedenti in 10 punti, 12 grafici e 2 mappe per entrare nella matrice della rivalità tecnologica tra Cina e Stati Uniti che strutturare il mondo.

1 — Cos’è un semiconduttore?

I semiconduttori (indicati anche come circuiti integrati (CI) o microchip) rappresentano la base tecnologica essenziale della microelettronica. Si dividono in due categorie principali: chip analogici (si tratta di prodotti più semplici come sensori, attuatori, oscillatori) e chip digitali. Tra questi ultimi si possono distinguere in particolare i processori, che consentono il funzionamento di un dispositivo elettronico, e la memoria. I semiconduttori si trovano in molti prodotti elettronici della nostra vita quotidiana come smartphone, computer o automobili. Sono inoltre presenti in molti settori cruciali per la difesa e la sicurezza nazionale, compresi i sistemi d’arma e la tecnologia aerospaziale.

Oggi, i principali mercati di consumo per i semiconduttori sono l’IT (computer e server) e le telecomunicazioni (smartphone), che nel 2021 valgono rispettivamente $ 225 miliardi e $ 170 miliardi (quasi ⅔ del mercato mondiale dei semiconduttori). Le proiezioni per il 2030 prevedono che questi due mercati da soli peseranno rispettivamente 350 e 280 miliardi di dollari. Allo stesso modo, le previsioni sulle dimensioni del mercato globale dei semiconduttori prevedono un aumento di quasi il 60% nel 2030 rispetto al 2021.

2 — Perché sono importanti?

La produzione di un microchip implica il passaggio attraverso una serie di passaggi che definiscono la catena del valore dei semiconduttori, che è incentrata su sei attori chiave interdipendenti: Cina, Corea del Sud, Giappone, Stati Uniti, Taiwan ed Europa.

Dagli anni ’70, il numero di transistor nei semiconduttori è raddoppiato ogni due anni. Questo fenomeno è indicato come “legge di Moore”, dal nome dell’ingegnere che ha fatto questa previsione – da allora empiricamente provata – nel 1965. Questi continui sforzi per mantenere questa tendenza di sviluppo tecnologico esponenziale e generare “più Moore” hanno costituito il principale motore di industria microelettronica e crescita del mercato dei semiconduttori negli ultimi anni. Sono possibili riducendo la distanza tra due transistor utilizzando processi di incisione che coinvolgono la tecnologia del tipo 13 micrometri negli anni 2000 (13.10 -6 ) a 20 nanometri nel 2012 e da 5 nanometri (5.10 -9) Oggi. La riduzione delle dimensioni dell’incisione negli ultimi 15 anni è consentita dalla tecnologia di litografia ultravioletta estrema.

Il perseguimento della legge di Moore ha portato a un forte aumento dei costi di progettazione dei chip per renderli più potenti ed efficienti. Inoltre, il costo dei fab a semiconduttori (i fab ) è cresciuto notevolmente con ogni nuova generazione di chip. Ciò ha portato, dall’inizio degli anni ’90, ad una crescente specializzazione degli attori. Mentre alcune aziende continuano a svolgere internamente la progettazione, la produzione e la commercializzazione di chip ( produttori di dispositivi integrati come Intel o Samsung), altre si sono specializzate in attività di progettazione ad alta intensità di ricerca e sviluppo ( fablesscome Nvidia o Qualcomm) e affidare la produzione a fonderie (la più grande delle quali è TSMC), prima di commercializzare i chip.

3 — La catena del valore e l’interdipendenza degli attori chiave

La catena del valore dei semiconduttori è caratterizzata dalla coesistenza di effetti di interdipendenza e tecnologie cosiddette “bottleneck” (tecnologie del punto di strozzatura ). Coloro che controllano queste tecnologie godono di un importante vantaggio strategico. Oltre agli Stati Uniti e alla Cina, gli altri principali attori in questo settore sono Europa, Giappone, Corea del Sud e Taiwan.

Coloro che controllano queste cosiddette tecnologie “collo di bottiglia” godono di un importante vantaggio strategico.

stati Uniti

Gli Stati Uniti svolgono un ruolo ultra-dominante nelle fasi a monte della catena del valore (R&D, progettazione, produzione di software di progettazione) e nel marketing (il 47% dei chip venduti nel 2020 sono stati venduti da aziende americane), che consente loro di produrre 38% del valore aggiunto globale del settore. Ma sul territorio americano non c’è più solo il 13% della produzione mondiale di chip, contro il 37% del 1990. Ciò si spiega con il fatto che molte aziende americane del settore si sono specializzate nella progettazione e commercializzazione di chip, mentre esternalizzano la produzione a fonderie straniere, anche se gli IDM e le fonderie americane hanno ridistribuito la loro produzione nell’Asia orientale.

Molte grandi aziende americane sono quindi ora molto dipendenti da TSMC (Taiwan Semiconductor Manufacturing Company, la fonderia di semiconduttori leader nel mondo). I chip progettati da Apple per equipaggiare iPhone, iPad ed elettrodomestici vari sono così prodotti dai taiwanesi. Questo ruolo essenziale di TSMC nell’approvvigionamento degli Stati Uniti è stato messo in evidenza durante il viaggio di Nancy Pelosi lo scorso agosto  ; Durante una visita di 7 ore a Taiwan, il Presidente della Camera dei Rappresentanti ha avuto il tempo di incontrare alti dirigenti di TSMC.

Gli Stati Uniti sono quindi un attore chiave nella catena del valore dei chip, sebbene stiano perdendo slancio nell’importante fase produttiva. Tuttavia, se guardiamo al consumo finale di chip da parte degli Stati Uniti, sembra che siano ancora il mercato leader mondiale, appena davanti alla Cina.

Cina

La Cina ha compiuto progressi impressionanti negli ultimi due decenni per diventare uno dei primi sei attori mondiali nel settore dei semiconduttori. Questo successo si basa sull’interdipendenza globale che ha caratterizzato la catena del valore fino all’intensificazione delle misure di controllo sui trasferimenti tecnologici.

Date le immense dimensioni della sua industria elettronica, la Cina è il più grande importatore mondiale di semiconduttori. Nel 2021, il Paese ha acquistato più di 430 miliardi di dollari in semiconduttori, il 36% dei quali proveniva da Taiwan, mentre solo il 15,7% della sua domanda è stata prodotta sul suolo cinese. Nel 2020, la bilancia commerciale cinese era in deficit di 233,4 miliardi di dollari in semiconduttori, più del petrolio e di tutte le importazioni dal suo principale partner commerciale, l’Unione Europea.

Tuttavia, va notato che gran parte di questi semiconduttori viene utilizzata come input per prodotti elettronici destinati all’esportazione. Vengono quindi riesportati all’interno di computer, smartphone, ecc. Questo spiega perché la Cina rappresenta solo il 24% della domanda finale di chip ( vedi diagramma sopra).

Tuttavia, l’industria dei semiconduttori ha visto una certa crescita in Cina, inizialmente grazie agli investimenti esteri. Le vendite delle società cinesi di semiconduttori, che nel 2015 ammontavano a soli 13 miliardi di dollari (3,8% del mercato mondiale), ammontano a 39,8 miliardi di dollari nel 2020, ovvero un tasso di crescita annua senza precedenti del 30,6% (9% del mercato globale)1. Ciò è dovuto allo sviluppo di un ecosistema fabless specializzato nel design (filiale Huawei, HiSilicon, ma anche ZTE o Omnivision) ma anche fonderie (principalmente SMIC).

Unione europea

La specializzazione dell’industria europea dei semiconduttori è strettamente legata alle specificità dell’industria europea. I produttori integrati europei, STMicroelectronics, NXP e Infineon sono in gran parte importanti produttori di chip analogici, che soddisfano le esigenze delle industrie europee (automobilistiche, sensori per macchine utensili, ecc.). Infatti, in assenza del settore delle apparecchiature informatiche (computer, server, smartphone), la domanda di processori o chip di memoria rimane limitata. Possiamo quindi osservare che la quota degli investimenti europei nei settori della robotica (28%), dell’automotive (30%) e dell’aerospaziale (14%) è molto più alta che nel resto del mondo. . Al contrario, l’Unione resta indietro in termini di investimenti nelle telecomunicazioni (4,

Tuttavia, ha un asset ultra-strategico: ASML. Questa azienda olandese ha il monopolio della produzione e commercializzazione di macchine per litografia ultravioletta estrema, necessarie per l’incisione di chip di ultima generazione. Questa complessa attrezzatura, che costa più di cento milioni di euro l’una, è particolarmente oggetto della piena attenzione dei servizi dell’amministrazione americana preposta al controllo delle esportazioni. Il governo degli Stati Uniti sta facendo pressioni sull’azienda affinché smetta del tutto di esportare in Cina, cosa che ha già iniziato a fare per i suoi prodotti più sofisticati2.

Taiwan e Corea del Sud

Il peso di Taiwan nei semiconduttori e la dipendenza degli Stati Uniti dall’isola per i chip sono diventati sinonimo di quattro lettere: TSMC — Taiwan Semiconductor Manufacturing Company. L’azienda taiwanese è un peso massimo che da sola rappresenta il 53% del mercato globale delle fonderie di semiconduttori. di produzione dalle fonderie di semiconduttori nel 20203. In un segno del suo dominio sul mercato, TSMC ha fornito il 92% dei chip più avanzati nel 2019, secondo un rapporto del Boston Consulting Group4.

Il peso di Taiwan nei semiconduttori e la dipendenza degli Stati Uniti dall’isola per i chip sono diventati sinonimo di quattro lettere: TSMC — Taiwan Semiconductor Manufacturing Company.

La Corea del Sud, con Samsung e SK Hynix, esercita un monopolio virtuale sul segmento dei chip di memoria. Samsung , infatti, svolge un ruolo strategico nel campo dei semiconduttori poiché è il secondo produttore mondiale  : con il suo connazionale e concorrente SK Hynix, esercita una posizione dominante nel segmento delle schede di memoria, con la Corea che ha raggiunto il 62% delle vendite globali nel 2018 .

Ad oggi, solo TSMC (Taiwan) e Samsung (Corea del Sud) producono semiconduttori basati su una tecnologia sub-7 nanometrica. Gli smartphone di fascia alta richiedono un processo di produzione di almeno 7 nanometri per i loro microprocessori, il che significa che l’economia digitale globale, inclusa la Cina, dipende da Taiwan e dalla Corea del Sud.

4 — Perché Taiwan?

Quest’estate, le navi militari cinesi si stavano addestrando per impostare un blocco navale di Taiwan, simulando uno scenario che preoccupa i leader politici di tutto il mondo: non una guerra aperta, ma una chiusura delle catene di approvvigionamento.5.

Centro di produzione e design TSMC a Nanchino. © CFOTO/Sipa USA/SIPA

Una personalità in particolare ha avuto un ruolo importante nel rendere Taiwan un attore chiave nella catena di produzione dei semiconduttori: l’imprenditore Morris Chang. Presente a cena con Nancy Pelosi durante la visita del Presidente della Camera, il fondatore di TSMC ha avuto un’importanza significativa nello sviluppo dell’industria a Taiwan negli ultimi trent’anni.

Rendendosi conto della grande complessità della filiera di questo settore e della sua configurazione in punti di strozzatura tecnologici , Chang ha reso lo Stretto di Formosa un collo di bottiglia fondamentale nella produzione di semiconduttori.6.

5 — Perché i semiconduttori sono al centro della rivalità geopolitica globale?

Di recente, l’amministrazione Biden ha emesso una serie di sanzioni che portano il confronto globale in quest’area ad un altro livello, impedendo alle aziende di inviare in Cina i processori all’avanguardia necessari per eseguire algoritmi.7. Le sanzioni non si applicano solo alle aziende americane, ma anche a tutti coloro che utilizzano input americani nei propri processi produttivi (proprietà intellettuale, software di progettazione, ecc .). Questa decisione fa seguito a una serie di decisioni che hanno già iniziato a rafforzare i controlli sulle esportazioni di semiconduttori verso la Cina.

Mentre alcuni lo vedono come un ritorno al pensiero della Guerra Fredda, questa decisione è emblematica della centralità dei semiconduttori nella rivalità tecnologica globale. Abbiamo già visto come gli attori coinvolti siano anche grandi attori geopolitici, ma una serie di fattori aiutano a sottolineare ancora di più l’importanza dei semiconduttori  : la trasformazione digitale globale in corso, la pandemia covid con i suoi effetti dirompenti sulle catene di approvvigionamento e la guerra in Ucraina che sta incidendo sull’approvvigionamento di materie prime.

Mentre alcuni lo vedono come un ritorno al pensiero della Guerra Fredda, questa decisione è emblematica della centralità dei semiconduttori nella rivalità tecnologica globale.

6 — Qual è la posizione degli Stati Uniti?

La drastica riduzione della quota degli Stati Uniti nella produzione totale di semiconduttori, passata dal 37% del 1990 al 12% del 2020, è oggi identificata come un rischio. La crisi del Covid e i problemi della filiera hanno infatti avuto un forte impatto sui settori a valle, in particolare nel settore automobilistico, destabilizzando la produzione e contribuendo all’inflazione. Le tensioni intorno a Taiwan rafforzano anche il desiderio americano di autosufficienza.

Il Congresso degli Stati Uniti ha quindi approvato nel luglio 2022, all’interno del Chips and Science Act, il finanziamento dei programmi del CHIPS for America Act , volti a sostenere la sovranità americana in termini di produzione di semiconduttori, la sua competitività e infine la sua sicurezza nazionale. L’aiuto finanziario è al centro di questo programma, con fondi per oltre 50 miliardi di dollari, di cui 39 miliardi di sussidi per investimenti volti a costruire, ampliare o ammodernare strutture e attrezzature nazionali per la produzione, l’assemblaggio, il collaudo e il confezionamento avanzato dei chip . Sono previsti 13 miliardi per sostenere la ricerca e lo sviluppo. La legge prevede anche un nuovo credito d’imposta dedicato.

Per garantire l’obiettivo del Congresso di promuovere la competitività nazionale, la legge istituisce misure di salvaguardia per garantire che i destinatari dei fondi federali non possano produrre semiconduttori in paesi che rappresentano un rischio per la sicurezza nazionale, tra cui Cina o Russia. Uno degli obiettivi principali degli Stati Uniti è quindi quello di limitare il coinvolgimento complessivo delle società di telecomunicazioni con stretti legami con il PCC, tra cui Huawei.

7 — Qual è la posizione dell’Unione europea?

Nella costruzione di una catena di approvvigionamento sempre più incentrata sul Pacifico, il ruolo dell’Unione è diminuito negli ultimi due decenni. Rispetto al suo peso economico (quasi il 23% del PIL mondiale), la quota dell’UE sui ricavi globali dei semiconduttori è di circa il 10% e solo del 6% per l’IT e le comunicazioni. Capacità di produzione limitate per soddisfare la domanda futura, alti costi di ingresso, accesso inadeguato ai finanziamenti e normative diverse rispetto ad altre regioni minacciano la capacità delle aziende europee di rimanere competitive in questo mercato.

La strategia europea per recuperare una certa forma di leadership in questo settore prevede l’adozione dell’European Chips Act . Proposto a febbraio, è il primo strumento che consente all’Unione Europea di entrare nel grande gioco dei semiconduttori – la Commissione Europea ha addirittura dichiarato che l’Unione punta a raggiungere il 20% della produzione mondiale entro il 20308.

Gli obiettivi primari del Chips Act sono sostenere l’innovazione nell’ecosistema europeo dei semiconduttori e la sicurezza della catena di approvvigionamento. Il primo strumento del Chips Act è l’iniziativa “Chips for Europe”, che fungerà da linea guida per le aziende e i centri di ricerca in cerca di sovvenzioni europee e nazionali. La vera novità di questa iniziativa è la creazione di un Chips Fund , destinato a riunire diverse istituzioni e meccanismi europei esistenti rispondendo alle richieste del mondo dell’industria.

Un altro obiettivo del Chips Act è supportare lo sviluppo di stabilimenti europei in grado di produrre in grandi volumi i semiconduttori più avanzati. Il Chips Act fornisce all’Unione lo spazio giuridico per approvare aiuti di Stato a tal fine. Lo scorso luglio, Emmanuel Macron ha annunciato la costruzione di una fabbrica di semiconduttori in Francia il cui progetto di fonderia fa parte dell’European Chips Act .

Tuttavia, se gli obiettivi della Commissione sono ambiziosi e se il Chips Act è solo il primo passo, la posizione dell’Unione Europea resta molto meno ambiziosa rispetto a quella degli altri attori. L’Europa, infatti, ha soprattutto derogato al suo regime di divieto degli aiuti di Stato, ma non ha mobilitato nuovi fondi per sostenere gli industriali. Spetta agli Stati membri sostenere il costo di tali sovvenzioni.

Soprattutto, l’Europa rimane fortemente dipendente dagli Stati Uniti per gli strumenti di progettazione e dall’Asia per la produzione di chip avanzati. Inoltre, rispetto agli Stati Uniti, la debolezza produttiva dell’Europa non è compensata da una maggiore solidità delle attività poste a monte ea valle della filiera.

Centro di produzione e design TSMC a Nanchino. © CFOTO/Sipa USA/SIPA

8 — Cosa si fa o si pianifica per contrastare la carenza di semiconduttori?

Gli Stati Uniti e l’Unione Europea non sono stati gli unici a pianificare potenti investimenti per contrastare i fattori strutturali e ciclici sopra menzionati e per incoraggiare la ricerca e la produzione di semiconduttori. Si tratta di investimenti pubblici, come quelli previsti – e, in alcuni casi, già avviati – per diverse centinaia di miliardi di dollari messi in atto da Cina, India, Giappone e Taiwan (tra il 2014 e il 2018 il governo taiwanese ha fornito sostegno al bilancio a TSMC pari al 3% dei ricavi del gruppo).

Anche questi investimenti sono privati, come quelli previsti dai piani industriali delle principali aziende del settore: tra questi Intel (che prevede di investire 80 miliardi in un decennio solo in Europa) e la società taiwanese TSMC (che prevede di investire tra 40 e 44 miliardi di dollari nei prossimi cinque anni, in parte in Europa). In Estremo Oriente principalmente – ma non esclusivamente – gli investimenti pubblici e privati ​​non si sovrappongono né competono tra loro, ma tendono alla realizzazione di programmi sinergici.

In Estremo Oriente principalmente – ma non esclusivamente – gli investimenti pubblici e privati ​​non si sovrappongono né competono tra loro, ma tendono alla realizzazione di programmi sinergici.

Ma ci sono anche ragioni e motivazioni, non meno importanti, legate agli imperativi di sicurezza e difesa nazionale, acuite dalle forti tensioni che attualmente attraversano il contesto geopolitico. Si può giustamente parlare di investimenti strategici perché contribuiscono a questo processo di ristrutturazione delle catene globali del valore che tende a garantire “  autonomia strategica  ”. Gli attori coinvolti sono in primis gli States (e, in Europa, l’Unione Europea), ma anche aziende, e in particolare Big Tech , come dimostra la scelta di Apple di progettare internamente i chip di cui ha bisogno.

9 — Quale impatto hanno avuto le nuove restrizioni statunitensi sul mercato globale dei semiconduttori?

Le misure recentemente annunciate dal governo statunitense avranno un impatto sulla configurazione globale del mercato dei semiconduttori. Queste nuove misure di controllo delle esportazioni mirano a limitare le aziende che inviano chip e apparecchiature per la produzione di semiconduttori in Cina. Queste sono le misure più significative che gli Stati Uniti hanno adottato nei confronti dell’industria cinese dei semiconduttori, mentre le misure precedenti hanno preso di mira più spesso singole aziende e un insieme più ristretto di tecnologie. Concretamente, i fornitori americani hanno interrotto il supporto delle apparecchiature già installate presso YMTC (Yangtze Memory Technologies, produttore cinese di semiconduttori), interrotto l’installazione di nuovi strumenti e ritirato il personale americano di base a YMTC.

La linea guida di questa manovra tende a ostacolare la capacità della Cina di sviluppare autonomamente i chip più avanzati e di equipaggiare il proprio esercito, e soprattutto di evitare un’escalation verso una nuova guerra fredda.

Ciò avrà un evidente impatto commerciale per gli Stati Uniti. Mercoledì Applied Materials Inc, produttore leader di apparecchiature per la produzione di chip, ha tagliato le sue previsioni per il quarto trimestre, avvertendo che le nuove normative sulle esportazioni taglierebbero le vendite di circa $ 400 milioni in questo trimestre. Questa società ha realizzato oltre il 27% delle sue vendite in Cina nel secondo trimestre, ovvero quasi 1,8 miliardi di dollari. Da parte cinese, l’azienda YMTC sta affrontando un blocco del supporto da parte dei suoi principali fornitori.

La Cina sta spendendo miliardi di dollari per sviluppare un’industria nazionale dei semiconduttori meno dipendente dal resto del mondo, ma questi produttori di chip hanno ancora bisogno di acquistare apparecchiature altamente specializzate da fornitori negli Stati Uniti, in Europa e in altre parti dell’Asia. Gli Stati Uniti ne sono consapevoli e stanno intensificando la loro strategia per soffocare lo sviluppo di un’industria indipendente dei semiconduttori in Cina.

10 — Cosa succede in caso di carenza di semiconduttori?

I semiconduttori sono al centro dello sforzo bellico della Russia. Gli occidentali sono consapevoli che l’esito della guerra dipenderà in parte dal fatto che la Russia troverà o meno un modo per riottenere l’accesso a questi chip e vogliono assicurarsi che non sia così. La Russia è alla ricerca di semiconduttori, trasformatori, connettori, alloggiamenti, transistor, isolanti e altri componenti di cui il paese ha bisogno per alimentare il suo sforzo bellico. La maggior parte sono prodotti da giganti elettronici americani (Marvell, Intel, Holt tra gli altri).

Nella lista delle priorità della Russia c’è il 10M04DCF256I7G FGPA (Field-Programmable Gate Array), prodotto da Intel, che può essere acquistato per 66.000 rubli, o più di $ 1.100 per unità. Prima della carenza di chip, la parte sarebbe costata meno di € 20.

I fornitori militari russi hanno diversi modi per acquisire questi semiconduttori, che vanno dall’acquisto da mercati online non regolamentati all’utilizzo di cassette postali per contrabbandare componenti tecnologici nel paese. Non è da escludere nemmeno l’istituzione di canali e intermediari con Iran, Corea del Nord o persino con la Cina. La strategia delle sanzioni occidentali, tuttavia, sembra funzionare per ora, poiché le forniture russe continuano a diminuire.

La sfida per gli occidentali è sfruttare il deficit tecnologico della Russia e la sua mancanza di semiconduttori, necessari per far funzionare i moderni sistemi di combattimento così come i dispositivi di sorveglianza o di immagini satellitari. Come risultato di queste misure, la Russia è ora alla disperata ricerca dei semiconduttori più sofisticati per supportare la sua industria delle armi.

In una certa misura, l’inasprimento delle sanzioni statunitensi nei confronti dell’industria dei semiconduttori contro la Cina, ampiamente esemplificato di recente dal nuovo round di sanzioni statunitensi imposto il 7 ottobre, ha uno scopo simile. Iscrivendo nell’elenco dei prodotti controllati ( regole dirette sui prodotti esteri ) nuovi beni utili alla fabbricazione di supercomputer, queste misure mirano principalmente a prevenire l’importazione oltre che lo sviluppo di chip avanzati, particolarmente utili per applicazioni di intelligenza artificiale.
In un keynote speech pronunciato il 16 settembre in occasione della pubblicazione del rapporto del Progetto Speciale Studi Competitivi,il consigliere per la sicurezza nazionale del presidente degli Stati Uniti, Jake Sullivan, ha integrato il posto dato alla concorrenza tecnologica tra Washington e Pechino nella dottrina cinese dell’amministrazione Biden e, più in generale, nella politica estera statunitense. In questo, la logica difensiva lascia il posto a un desiderio più esplicito di rallentare il progresso economico e tecnologico di alcune potenze straniere ritenute minacciose – la Cina è in testa a queste minacce.

“Non c’è bisogno di combattere come un guerriero lupo”, una conversazione con Xiang Lanxin

Proseguiamo con la serie di articoli di analisti cinesi, presenti in Cina, ma con posizioni divergenti, rispetto alla linea al momento largamente maggioritaria e dominante espressa da Xi Jinping. La finalità di questa pubblicazione è, ancora una volta, di avvalorare che il confronto e lo scontro geopolitico si realizza attraverso il conflitto tra centri decisori e di influenza i quali si intersecano, nelle proprie relazioni, all’interno e all’esterno delle formazioni sociali. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Come si è trovato un giornalista britannico all’origine di una nuova dottrina diplomatica cinese? L’ascesa pacifica è ancora un paradigma rilevante per i pensatori geopolitici cinesi? La Cina dovrebbe assolutamente pretendere di imporre una nuova governance globale? Traduciamo e pubblichiamo questa intervista chiave con uno dei più originali e importanti specialisti della diplomazia di Pechino. Una nuova puntata della nostra serie “Dottrine nella Cina di Xi Jinping” — introdotta e commentata da David Ownby.

Xiang Lanxin (nato nel 1956) è un famoso studioso cinese di relazioni internazionali che ha trascorso gran parte della sua carriera negli Stati Uniti e poi in Europa. Dopo aver conseguito la laurea presso la Fudan University di Shanghai, ha conseguito il master e il dottorato presso la Johns Hopkins School of Advanced International Studies. Ha insegnato alla Clemson University fino al 1996, quando è entrato a far parte del Graduate Institute of International Studies di Ginevra (IHEID). Come molti intellettuali cinesi della sua generazione, ha un piede in diversi mondi: se la maggior parte degli articoli accademici di Xiang sono stati pubblicati in inglese, fa ad esempio parte della redazione di Dushu1ed è ben noto in Cina. Ma Guochuan, il giornalista che conduce l’intervista, è il direttore del quotidiano liberale Caijing.2.

Questa intervista3, pubblicato all’inizio della pandemia, nell’aprile 2020, si distingue principalmente per le aspre critiche di Xiang alla “diplomazia dei guerrieri lupo”, termine usato per descrivere le risposte molto combattive della Cina agli attacchi stranieri sulla gestione della pandemia di coronavirus. Il termine “guerriero lupo” si riferisce a due film di guerra d’azione, Wolf Warrior (2015) e Wolf Warrior 2 (2017), che presentano battaglie tra un’unità d’élite dell’Esercito popolare di liberazione (chiamata, appunto, i lupi guerrieri) e vari gruppi di mercenari, tra i quali spiccano gli americani.

Questi film hanno avuto un immenso successo popolare in Cina, paragonabile ai successi di Hollywood che celebrano la guerra e il patriottismo negli Stati Uniti. Uno dei rappresentanti emblematici di questa diplomazia guerriera-lupo è il portavoce del Ministero degli Affari Esteri, Zhao Lijian赵立坚 (classe 1972), che è arrivato a diffondere l’idea che sia l’esercito americano a diffondere il virus a Wuhan. Questi stessi guerrieri lupo hanno più recentemente fatto un passo indietro in risposta alle richieste di responsabilità, persino di rettifica, che sono arrivate da più parti.4.

La diplomazia dei guerrieri lupo, secondo Xiang, sta contribuendo alla destabilizzazione dell’ordine mondiale in un momento in cui la Cina si è in qualche modo convinta, attraverso affermazioni propagandistiche del Partito, della superiorità del “cinese modello”. Xiang ne attribuisce la maggiore responsabilità al giornalista britannico di sinistra Martin Jacques, il cui bestseller del 2009, Quando la Cina governa il mondo, ha entusiasmato i lettori cinesi, soprattutto perché è stato scritto da un occidentale. La responsabilità è in realtà condivisa con l'”accademico” cinese Zhang Weiwei 张维为 (nato nel 1957), che ha riconfezionato l’idea di Jacques per diventare il campione ufficiale delle virtù dello “Stato di civiltà” unico della Cina. Il disprezzo di Xiang per Zhang (che non cita nell’intervista) è palpabile e sembra condiviso da molti altri intellettuali liberali cinesi. Comunque sia, il punto di vista di Xiang è questo: continuare su questa strada corre il rischio che la Cina distrugga l’ordine mondiale che ha consentito la realizzazione del “sogno cinese”, apparentemente senza riguardo alle conseguenze, militari o economiche che questo comporterebbe.

Le osservazioni di Xiang sono interessanti perché la sua posizione di cinese che lavora all’estero gli consente un candore che i suoi compatrioti nella Cina continentale non possono permettersi. Altrimenti, le sue opinioni concordano ampiamente con quelle di altri liberali cinesi della sua generazione, che sono orgogliosi dell’ascesa della Cina ma continuano ad aderire a molti dei valori universali dell’Illuminismo. In una delle sue prime risposte all’intervista, Xiang ha osservato: “Ho lasciato la Cina 37 anni fa e non ho mai preso un nome straniero o acquisito un passaporto straniero. Oltre allo studio e all’insegnamento, ho dedicato tutti i miei sforzi al miglioramento delle relazioni tra Cina e Stati Uniti, Cina ed Europa.

NON C’È BISOGNO DI COMBATTERE COME UN “GUERRIERO LUPO”

La diffusione del coronavirus nel mondo ha suscitato molte riflessioni. In un articolo pubblicato all’inizio di aprile 2020, Henry Kissinger ha predetto che la pandemia avrebbe cambiato per sempre l’ordine mondiale.5. Come accademico che ha studiato a lungo le relazioni internazionali, condividi la sua opinione?

Xiang Lanxin

Per un certo periodo sono stato Henry Kissinger Fellow presso la Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti e ho discusso molte volte con lui la complessa questione delle relazioni USA-Cina. Kissinger è un grande pensatore strategico e ha una visione unica dei cambiamenti e delle tendenze in via di sviluppo nel sistema globale. Sono sostanzialmente d’accordo con lui su questo punto. Ma in sintesi, ciò che più mi preoccupa non sono le istituzioni dell’ordine internazionale esistente, quanto piuttosto la tendenza al calo della fiducia tra le principali nazioni, e in particolare tra Cina e Stati Uniti, che raggiunge un punto di non ritorno.

A mio parere, l’osservazione di Kissinger è un riflesso del suo modo di pensare generale. Il suo primo lavoro accademico, A World Restored (1957), si è concentrato sul pacifico nuovo ordine mondiale costruito dal Congresso di Vienna nel 18156. Anche se il capo di questo nuovo ordine internazionale non era la superpotenza mondiale (gli Stati Uniti), ma l’impero austro-ungarico, l’accordo durò comunque un secolo. Il fattore chiave di questo successo è stata l’attenta progettazione dell’ordine mondiale, costruito sulla base di un equilibrio di potere tra le maggiori potenze, che ha favorito la fiducia reciproca, tanto che tutte desideravano che questo ordine fosse mantenuto. Questo libro ci permette di vedere i principi guida del pensiero di Kissinger.

Kissinger ha trascorso mezzo secolo cercando di costruire un rapporto armonioso tra gli Stati Uniti e la Cina. Dalla fine della guerra di Corea (1950-1953), non c’è stata praticamente nessuna guerra tra le grandi potenze. Questa guerra contro il coronavirus ha messo in luce gravi distorsioni nella natura umana e la diplomazia irrazionale tra le grandi potenze è diventata la nuova normalità. Già prima della fine della pandemia è iniziata una guerra di “passaggio di palla (甩锅战)” tra le grandi potenze. Discussioni simili a Versailles su “colpa e responsabilità di guerra” hanno indebolito la nostra attenzione sulla lotta contro il coronavirus e discussioni ridicole sulle “riparazioni” sono state persino espresse nei circoli diplomatici. Da appassionato storico e pensatore, Kissinger deve essere estremamente rattristato. Senza la fiducia tra le grandi potenze, qualsiasi sistema pacifico è molto difficile da mantenere. È una scommessa sicura che le tensioni tra Cina e Stati Uniti non faranno che aumentare.

Attualmente, sulla scena internazionale, e in particolare negli Stati Uniti, le persone cercano di “ritenere la Cina responsabile” e persino di pretendere che paghi dei “danni”. Come dobbiamo capire questo?

Dal punto di vista del diritto internazionale, tenere conto di un paese sovrano non ha senso, perché quel paese gode dell’immunità sovrana. È vero che la mancanza di trasparenza nel sistema cinese ha portato all’inizio alla soppressione degli informatori, che di fatto ha rallentato la lotta al virus7. Ma il mondo intero ha assistito agli enormi sforzi e sacrifici fatti dalla Cina dopo la chiusura di Wuhan. Nel complesso, la lotta della Cina contro il virus ha avuto successo. Questa è una tattica politica comune per i leader stranieri che non riescono a trovare capri espiatori. Dovremmo quindi affidarci al giudizio della maggioranza dell’opinione pubblica, e non lasciarci trascinare in dibattiti sulla questione.

La Cina dovrebbe sfruttare il periodo in cui la pandemia continua a imperversare per raccogliere la sfida di riassumere l’esperienza del Paese con il coronavirus. Chiunque riesca prima a produrre un white paper (o una guida pratica) credibile e basato sull’evidenza può quindi trasmettere questa esperienza di lotta al virus ad altri paesi, il che sarebbe un grande vantaggio nella lotta internazionale per la libertà di espressione in il mondo post-pandemia.

Kissinger ha trascorso mezzo secolo cercando di costruire un rapporto armonioso tra gli Stati Uniti e la Cina.

XIANG LANXIN

Tutti i tipi di teorie del complotto sull’origine del virus sono strettamente legate alla questione della “responsabilità”. Tutte le discussioni che sono fiorite su questo argomento sono diventate terreno fertile per controversie diplomatiche.

Sulla questione dell’origine del virus, la Cina non deve essere troppo sulla difensiva, perché è una questione puramente scientifica e nessun altro punto di vista è credibile. Non importa quante teorie del complotto ci siano, nessuna ha credibilità internazionale. In un momento in cui non c’è una risposta definitiva alla domanda sull’origine del virus, la Cina dovrebbe rimanere estremamente cauta, e non c’è assolutamente bisogno di difendersi adottando la postura offensiva del “lupo guerriero”.”. Quanto ai diplomatici, dovrebbero capire come comunicare con la gente comune sulla scena internazionale, e dovrebbero sapere che non si può abusare del diritto internazionale per esprimersi per diffamazione tit for tat (以谤止谤).

Eppure, negli ultimi anni, sembra essere diventato normale che i diplomatici cinesi rispondano immediatamente con parole molto dure, come se non farlo fosse una prova di mancanza di “patriottismo”. Cosa ne pensi di questa diplomazia del “lupo guerriero”?

La maggior parte dei diplomatici cinesi è stata formata in lingue straniere, il che ci dà questa straordinaria immagine dell’Istituto di Lingue Straniere di Pechino come culla della diplomazia cinese. Se i traduttori si prendono cura dei nostri affari esteri, incontreremo sicuramente dei problemi. Anche quando la dinastia Qing (1636-1911) era sull’orlo del collasso, i traduttori non potevano guidare lo Zongli yamen[Ministro degli Affari Esteri]. Le abilità di un traduttore sono determinate dalle abilità linguistiche e dalle reazioni rapide, mentre la diplomazia di grande potere richiede un pensiero strategico a lungo termine e un’attenta capacità di pianificazione. Sarebbe abbastanza facile correggere la cultura del guerriero lupo nel campo della diplomazia: ciò che sarà più difficile correggere è questa stessa cultura nel campo della propaganda straniera.

LE ORIGINI DELLA CULTURA DEL LUPO GUERRIERO

Dal 1989, quando Deng Xiaoping disse che dovevamo ‘tenere basso’8, i diplomatici cinesi hanno adottato una posizione più calma. Perché allora vediamo l’emergere di questa cultura del lupo guerriero? Da dove viene ?

Ciò che ha dato origine alla cultura del guerriero lupo è la “teoria della superiorità del modello cinese”. Questa teoria non ha avuto origine in Cina, ma è stata copiata da un “guerriero lupo straniero”, il famoso giornalista britannico di sinistra Martin Jacques (nato nel 1945). Dieci anni fa Jacques pubblicò un libro intitolato Quando la Cina governa il mondo , che è la fonte dell’arroganza mostrata oggi da alcuni cinesi. All’epoca, la Cina era ancora in una fase in cui prevaleva l’atteggiamento di “tenere un profilo basso”, ma da quando la crescita economica della Cina ha superato quella dell’Occidente, la fiducia del popolo cinese ha iniziato a crescere.

Jacques è un personaggio dei media e un autoproclamato studioso. Molte persone in Cina pensano che ci capisca e la traduzione cinese di Quando la Cina governa il mondo è diventata un bestseller.

Questo libro ha ricevuto molta attenzione ad un livello molto alto, ma la sua base teorica è sbagliata. La sua idea di “la Cina che governa il mondo” è stata in realtà copiata da altre persone. È una versione della teoria dell'”ascesa e caduta delle grandi potenze” o della teoria dell'”evoluzione delle egemonie” che esiste da tempo in Inghilterra e negli Stati Uniti.

A prima vista, molte delle argomentazioni avanzate da James assomigliano a quelle dei missionari gesuiti che vennero in Cina molto tempo fa. Ad esempio, Matteo Ricci (1552-1610) ha elogiato il governo e la cultura cinese durante la dinastia Ming (1368-1644), affermando che la Cina “non è solo un regno, ma un intero mondo a sé stante”. Ma Matteo Ricci ha insistito sul fatto che la cultura cinese e quella occidentale potessero capirsi e coesistere e, appena arrivato in Cina, ha lavorato duramente per imparare la lingua e le tradizioni cinesi. Martin Jacques, invece, non parla cinese e conosce poco la storia e le tradizioni cinesi. Nel suo libro stabilisce un dualismo tra bene e male, in cui la Cina viene presentata come un modello per l’Occidente.

A prima vista, molte delle argomentazioni avanzate da James assomigliano a quelle dei missionari gesuiti che vennero in Cina molto tempo fa.

XIANG LANXIN

Pertanto, l’elogio di Jacques alla Cina e al modello cinese si basa sugli attacchi contro il sistema occidentale.

Durante l’Illuminismo in Europa, nel XVIII secolo, apparve una nuova teoria basata su un antagonismo assoluto tra il bene e il male, il bianco e il nero. Questa teoria, con sfumature profondamente teologiche, rifiutava ogni sistema politico diverso da quello che difendeva, e subordinava la legittimità di un sistema al rovesciamento della legittimità di un altro. L’argomentazione di Jacques rientra in questo stesso paradigma.

La tradizione cinese non ha rifiutato altre tradizioni e sistemi culturali , ma ha invece sottolineato l’importanza delle condizioni locali, come nel detto “L’arancia è un’arancia quando cresce a Huainan, ed è un limone quando cresce”. cresce a Huaibei ” (橘生淮南则为橘, 生于淮北则为枳)9. La tradizione cinese non distingueva tra superiore e inferiore, né c’era l’idea di “colpire l’Occidente per promuovere la Cina (抑西扬中). Questo è il motivo per cui, nel corso della storia cinese, confuciani, buddisti e taoisti hanno convissuto pacificamente per lunghi periodi di tempo e praticamente non ci sono state guerre di religione.

Per quanto riguarda la Cina di oggi, ancora in ascesa, la cosa più importante da coltivare è un’immagine internazionale di tolleranza. Tuttavia, all’interno della Cina, alcuni opportunisti politicamente esperti vedevano la “teoria del dominio della Cina” di Jacques come un nuovo modo per acquisire notorietà. Secondo loro, poiché la Cina è destinata a sostituire gli Stati Uniti come egemone mondiale , il modo migliore per proteggere gli interessi del Paese è resistere all’Occidente adottando la postura del guerriero lupo, e cantare le lodi della superiorità di il modello cinese per “denigrare l’Occidente e promuovere la Cina”. Non si rendono conto che questo modo di pensare non ha nulla a che fare con la realtà, e allo stesso tempo tradisce la tradizione cinese.

NON DISTRUGGERE PUBBLICAMENTE IL TUO NEMICO (棒杀) E NON “AUTODISTRUGGERSI ATTRAVERSO UN’ECCESSIVA AUTOPROMOZIONE” (捧杀)10

Jacques sviluppò una “teoria dello stato di civiltà” e divise le nazioni sovrane odierne in due campi: “civilizzato” e “nazionale”. In questo paradigma esisterebbe solo la Cina sia come “civiltà” che come “stato-nazione”11. Ha affermato che i problemi che devono affrontare questi due tipi di paesi sono fondamentalmente diversi. 

La “teoria della civiltà-stato-nazione” è una finzione totale e non regge affatto a livello scientifico. Jacques afferma che la Cina è l’unico “stato-nazione” e “civiltà” esistente e che deve quindi beneficiare di un trattamento culturale privilegiato nel mondo. Infatti, nel mondo di oggi, è impossibile dividere i paesi in “civiltà” e “stato-nazione”. In qualunque modo la si guardi, la Cina è una combinazione dei due. Inoltre, questa teoria distorce lo spirito di base della tradizione cinese. Non c’erano “valori universali” nella tradizione cinese e questa tradizione non distingueva tra culture superiori e inferiori.

Nell’ultimo decennio, alcuni uffici governativi hanno attivamente promosso una cultura del guerriero lupo nei loro rapporti con gli stranieri e hanno formato un corpo di “guerrieri lupo propagandistico”. La base della teoria della superiorità del modello cinese che promuovono è la stessa assurdità dell’idea di una “civiltà stato-nazione”. Dal momento che dicono senza mezzi termini che la Cina è l’unico vero “stato-nazione”, l’unica vera civiltà, ciò significa che i paesi occidentali possono essere solo delle semplici “forme meno avanzate di stato-nazione”. In realtà, la ricchezza della civiltà umana beneficia dello scambio e del dialogo tra le culture. Se tutto l’Occidente risulta essere senza “civiltà”, allora la logica impone che tutto al di fuori della Cina sarebbe territorio barbaro,

Martin Jacques elogia il modello cinese e cerca anche di definirlo, affermando che è sorto sullo sfondo della crisi finanziaria globale del 2008.

In termini di metodologia, questo argomento è l’esatto opposto del pensiero alla base della riforma e dell’apertura della Cina del 1978, che consiste nell’aderire alla tradizione e “cercare la verità dai fatti”12, come in detti come “attraversare il fiume sentendo i sassi”13e l’argomento del “gatto” di Deng Xiaoping14. Questa argomentazione rende i cinesi aderenti all’ontologia dello stesso tipo degli occidentali.

La Cina non ha una tradizione ontologica, e non è così che i cinesi vedono le cose. Una classica formulazione cinese sarebbe piuttosto “dov’è la via?” »15. L’obiettivo del gioco di Jacques, che dipinge la Cina come una “civiltà-stato-nazione”, è infatti quello di condurre le discussioni sulla Cina nell’impasse dell’ontologia occidentale. Quando i cinesi iniziano a pensare ontologicamente, discutendo “qual è il modello cinese”, hanno già perso la strada ( dao o tao nella filosofia cinese). Perché una volta che un “modello” ha una definizione, allora devi supportare il modello, il che porta necessariamente all’autopromozione.

Tuttavia, non si può ignorare che la teoria di Jacques era molto popolare in Cina ed è stata accreditata da molti uffici governativi e università.

Per i cinesi, la “novità” di Jacques era che l’idea del “dominio cinese” proveniva da un Occidente egocentrico. È un ragionamento che gli piaceva, ma rimane uno stile di analisi che ritrae l’Occidente e la Cina come antagonisti. Il fatto che Jacques, venendo da sinistra, lanci l’idea che “la Cina sfida l’ordine mondiale” farà danni infiniti.

C’è una tradizione in Occidente di mettere alla gogna la Cina nella pubblica piazza. Questo continua oggi nonostante il potere della Cina. I neoconservatori americani non hanno mai abbandonato l’idea della “minaccia cinese”. Ma da un’altra prospettiva, ciò che è più difficile da affrontare è che la Cina si fa male promuovendosi eccessivamente. Essere attaccati in pubblico non è un problema, perché tutto è noto e la verità verrà alla luce. Ma indulgere in fantasie di auto-glorificazione non è la stessa cosa, poiché coloro che sono elogiati dimenticano facilmente chi sono, o addirittura si perdono in sogni irrealizzabili. Attualmente, ci sono un certo numero di cinesi che stanno “rileggendo” con entusiasmo la cultura cinese con l’obiettivo di reinventare il “modello cinese”. Sono tutti manipolatori

I neoconservatori americani non hanno mai abbandonato l’idea della “minaccia cinese”. Ma da un’altra prospettiva, ciò che è più difficile da affrontare è che la Cina si fa male promuovendosi eccessivamente.

XIANG LANXIN

Da quello che vedo, non sono solo “lupi guerrieri alieni”. Abbiamo anche il nostro…

I lupi guerrieri di qui e altrove hanno una cosa in comune: sono molto tecnici e non hanno niente nella testa. Con ‘tecnico’ intendo che sono specializzati nell’opportunismo, che sanno sempre da che parte tira il vento e che hanno occhi solo per i loro superiori. Quando parlano del mondo esterno attaccano le culture straniere e quando parlano di affari interni usano il nazionalismo estremo per frodare le masse popolari. Ma nonostante tutto il rumore che fanno, sono sempliciotti. Non portano nulla di nuovo, non hanno posto sulla scena internazionale e sono odiati dagli accademici tradizionali. Questo perché non hanno basi scientifiche, moralità o background.

Ad esempio, l’opinione pubblica cinese ha scambiato Martin Jacques per qualcuno di grande influenza internazionale, quando in realtà è solo una figura marginale che ha scritto un bestseller e non ha posto nel mondo accademico. Quando i giornali cinesi lo hanno chiamato pubblicamente professore di scienze politiche a Cambridge, penso che lo stesso Jacques fosse probabilmente imbarazzato. C’è un altro individuo cinese che è stato un interprete di lunga data per le Nazioni Unite a Ginevra, e che è stato il primo a copiare la teoria della civiltà di Jacques, che ha usato per esaltare la superiorità della Cina sui cieli, e che ha cercato di dimostrare con resoconti di viaggi all’estero che nessuno poteva verificare16. Tale persona, il cui curriculum include un lavoro part-time presso una scuola straniera non riconosciuta dal sistema di istruzione superiore (nota come “scuola del pollo selvatico”17), divenne tuttavia un famoso professore in una famosa università cinese18 !

Allora, qual è la tua opinione su questa “autodistruzione attraverso un’eccessiva autopromozione”?

Sia dal punto di vista della metodologia che dell’opinione pubblica internazionale, “l’autodistruzione attraverso un’eccessiva autopromozione” è stupidità di alto livello (高级黑). Danneggia l’immagine internazionale della Cina e il popolo cinese dovrebbe mantenere un alto grado di vigilanza nei suoi confronti. Dovresti sapere che nella tradizione cinese, la legittimità politica era un concetto dinamico, sempre in evoluzione, un processo di movimento continuo, e non aveva nulla a che fare con una definizione ontologica occidentale. Nel contesto attuale, la legittimità del PCC è definita dalle sue conquiste politiche e non ha nulla a che fare con alcun modello.

Il tentativo di costruire un cosiddetto “modello cinese”, per promuovere teorie sull’unicità della cultura cinese o sulla superiorità del sistema tra le persone, è contrario alla tradizione cinese e non è coerente con i fatti. Prendendo come esempio la lotta contro il coronavirus, nessuno può negare l’enorme impresa che il popolo cinese ha realizzato sconfiggendo il virus, ma le parole e il comportamento dei diplomatici e dei propagandisti cinesi hanno suscitato il disprezzo dell’opinione pubblica mondiale. Da un lato, questi guerrieri lupo hanno colto l’occasione per propagandare il “modello cinese” al mondo, pubblicizzando pubblicamente la sua superiorità e insistendo sul fatto che il modello di governo dei paesi occidentali è allo stremo e sarà presto rovesciato, e che la vera natura degli Stati Uniti,

Questo tipo di arroganza è privo di fatti e manca di umanità; danneggia gravemente l’immagine internazionale della Cina. D’altra parte, usano i social media e le conferenze stampa per impegnarsi in attacchi e critiche invettive e indiscriminate dal mondo esterno, e persino i siti web del governo diffondono pubblicamente teorie del complotto. Il terzo problema è quello delle parole e dei comportamenti arroganti e del disaccordo con le misure del coronavirus adottate da altri Paesi. Quando i diplomatici cinesi chiedono costantemente, direttamente o indirettamente, al resto del mondo di ringraziare la Cina, non sorprende quindi che crei una cattiva impressione.

UNA “TEORIA DELL’ASCENSIONE PACIFICA” DIFFICILE DA SOSTENERE

Al di fuori del governo, molte persone sono interessate alle questioni diplomatiche. Ma altri pensano che queste questioni dovrebbero essere lasciate agli specialisti delle relazioni internazionali. Qual è la tua opinione su questo spartito?

In passato, su questi temi facevamo affidamento sull'”opinione pubblica (舆论)”; il popolo non faceva commenti oltraggiosi sugli affari internazionali perché questi argomenti non erano considerati “banali”, e questo era ancor più vero per la diplomazia e importanti questioni militari. La società si è evoluta e negli ultimi anni la posizione internazionale della Cina ha guadagnato slancio e il grado di trasparenza riguardo alla politica internazionale non è più lo stesso. Ad un certo punto, i commentatori di affari internazionali hanno cominciato a moltiplicarsi come torte calde. Negli ultimi vent’anni, il “commento internazionale” in Cina è diventato un esercizio popolare a cui tutti partecipano.

Certo, è positivo che tutti siano interessati alle questioni internazionali, ma sembra difficile elevare il “commento internazionale” al di sopra di qualcosa come la “selezione dei titoli”. In Cina, il “commento internazionale” di massa è condotto principalmente da un quotidiano sensazionalista chiamato Global Times . Purtroppo, io stesso ho già scritto per questo giornale. Ma allora c’erano dibattiti e discussioni accademiche, mentre oggi è una pubblicazione completamente populista. Questo giornale guida da tempo la vendetta della folla in una direzione nazionalista e le conseguenze che ciò avrà non devono essere prese alla leggera.

Man mano che il “commento internazionale” si è infiammato, anche il campo accademico delle relazioni internazionali si è trasformato, diventando improvvisamente un argomento popolare.

Dobbiamo ammettere che il campo delle “relazioni internazionali” in Cina, come le scienze politiche o l’economia, sono “alberi senza radici, un fiume senza una fonte”. Gli studiosi cinesi non avevano basi teoriche e quindi nessun modo per distinguersi. E quando questo campo, per sempre incuneato tra giornalismo e scienze umane, è diventato improvvisamente un “campo di studio popolare”, è stato solo per via della parola “internazionale”.

In effetti, il campo delle relazioni internazionali rimane alquanto problematico, poiché le fonti di informazione degli specialisti sono di gran lunga inferiori a quelle dei diplomatici in prima linea e, nella loro torre d’avorio, le relazioni internazionali mancano del rigore accademico di altre discipline. Quindi, a livello accademico, hanno difficoltà a trovare il loro posto e, a livello internazionale, hanno solo poca influenza: sono solo la ripresa di altri lavori accademici occidentali. È un paradosso: nel contesto storico dell’ascesa al potere della Cina, le relazioni internazionali sono diventate per essa sempre più importanti; eppure è rimasto al livello di riciclare le teorie occidentali sulle relazioni internazionali, copiando concetti e discorsi occidentali,

Sullo sfondo della rapida ascesa della Cina, ci sono quelli nel campo delle relazioni internazionali che sostengono che la diplomazia cinese dovrebbe essere più dura, mentre altri sostengono la dottrina di Deng Xiaoping del “fare di basso profilo”. I dibattiti su questo tema nella società cinese sono piuttosto vivaci. Come vedi questo dibattito?

In effetti, al momento, la questione non è se essere duri o meno, ma piuttosto presentare bene il caso della Cina. Tutti conoscono la storia della Cina dall’attuazione della politica di riforma e apertura, non c’è bisogno di soffermarci su di essa. Ma la conoscenza della Cina del mondo esterno rimane parziale e finiamo per sollevare dubbi sulle nostre intenzioni all’estero.

In questo momento, la domanda non è se essere duri o meno, ma piuttosto presentare bene il caso della Cina.

XIANG LANXIN

Ad esempio, i ministri del Partito hanno promosso attivamente la teoria dello “shock cinese”, che ha causato una sorpresa globale.19. Che colpo ? Non è altro che giocare con le regole dell’attuale sistema mondiale. Che lo “shock” sia un evento naturale o un tentativo attivo di sovversione, dobbiamo renderci conto che l’ascesa della Cina è il risultato dello sforzo collettivo del popolo cinese che ha costruito decenni di un ambiente esterno pacifico. Non c’è assolutamente bisogno di sconvolgere il sistema mondiale. Anche dal punto di vista della politica nazionale, tali discorsi sono estremamente pericolosi. Abbiamo appena raggiunto lo status di superpotenza e tuttavia stiamo pubblicamente abbandonando il nostro atteggiamento di “tenere un basso profilo”. Il nostro esercito è impreparato, eppure ci presentiamo come la potenza dominante. Come potrebbe il resto del mondo non avere paura?

Forse la teoria dell'”ascesa pacifica” della Cina è più rilevante della teoria dello “shock cinese”?

Quando si discute di concorrenza tra grandi potenze, non dovremmo concentrarci su scambi e dibattiti all’interno del quadro teorico di altre potenze (occidentali). La nostra preoccupazione non dovrebbe essere la “trappola di Tucidide”, ma piuttosto la “trappola del concetto” – e la “teoria dell’ascensione pacifica” è una di queste. Quando la teoria dell'”ascensione pacifica” era di gran moda, accettai l’invito del Washington Post e scrissi un lungo editoriale che sottolineava i difetti significativi della teoria.

Da un punto di vista scientifico, “pacifico” è un avverbio che modifica l’azione di “sorgere”, ma la parola “sorgere” in cinese è in contraddizione con “pace” e ha il significato di “rompere il sistema esistente”, come l’ascesa di una montagna dopo un terremoto. In altre parole, “pace” e “elevazione” si contraddicono a vicenda.20. Questa teoria riflette la psicologia di un piccolo paese, che erroneamente immagina che un grande paese plasmi la propria politica estera in modo indipendente, illustrando la mancanza di una comprensione fondamentale della logica della geopolitica internazionale.

L’idea di una pacifica ascesa non potrebbe essere utile a livello puramente strategico?

Strategicamente, ogni grande potenza che sta vivendo cambiamenti significativi nel suo status internazionale dovrebbe astenersi dal parlare di “ascesa”. Da un punto di vista storico, nessun grande potere ha dato grande importanza alla discussione dei mezzi con cui è sorto al momento della sua ascensione. In primo luogo, se elabori i mezzi con cui “rialzi”, inevitabilmente ti troverai di fronte a domande sulle politiche che utilizzerai quando sarai in declino. In secondo luogo, proclamare unilateralmente che non utilizzerai mai la forza militare per risolvere alcun conflitto internazionale non solo non convince i partner stranieri, ma crea anche dilemmi per te stesso.

Il motivo per cui ho detto che la teoria dell'”ascesa pacifica” riflette la mentalità di un piccolo paese è che presuppone che ci sia una soluzione diplomatica a qualsiasi conflitto internazionale. È veramente l’ideale più alto della visione del mondo [espresso da Laozi, padre fondatore del taoismo, in Il classico della via e del potere ], ovvero che “sebbene i suoni di galli e cani siano uditi da un [villaggio] all’altro, il gli abitanti dell’uno non visiteranno mai l’altro, anche se invecchiano e muoiono”21. L’idea di una “ascesa pacifica” non è sostenibile né ora né in futuro, e la Cina non può evitare la realtà o persuadere il mondo con argomentazioni “pacifiche” su come opera all’interno della governance globale.

L’idea di una “ascesa pacifica” non è sostenibile né ora né in futuro, e la Cina non può evitare la realtà o persuadere il mondo con argomentazioni “pacifiche” su come opera all’interno della governance globale.

XIANG LANXIN

Come vede il dibattito sullo scontro di civiltà nel contesto delle relazioni Cina-USA. Questo conflitto è necessario?

Alcuni anni fa, lo “scontro di civiltà” di Huntington non aveva posto nel mainstream delle relazioni estere americane. Il fatto che alcuni americani ne parlino di nuovo è in realtà una forte risposta ad argomenti come quello cinese sulle “grandi e piccole civiltà”.

Il dibattito non è una brutta cosa. Perché non è solo un dibattito accademico, ma piuttosto idee di governance globale. Ciò che dovrebbe essere chiaro è che le idee cinesi e straniere sulla governance interna e internazionale sono in realtà diverse, ma ciò non dovrebbe dar luogo a conflitti. Se vogliamo chiarire la visione cinese della governance globale, la questione chiave è la differenza tra la concezione cinese e quella straniera dell’ordine mondiale.

Nel mondo anglosassone, attualmente governato dagli Stati Uniti, le discussioni sull’ordine mondiale tornano sempre alle teorie dell'”ascesa e caduta delle grandi potenze”, che ebbe origine nel 19° secolo con lo storico Edward Gibbons e la sua opera The Ascesa e caduta dell’Impero Romano . Ha sottolineato che la distribuzione del potere era basata sulla forza nazionale, il che significa che ciò che determina se l’ordine mondiale è stabile o meno è meccanico e immutabile. Ciò ha avuto un enorme impatto sulla politica estera americana. Dopo la seconda guerra mondiale, gli americani adottarono la teoria dell ‘”egemonia stabile” e promossero la “pace americana”. La “trappola di Tucidide” è una versione più recente.

[Il mondo sta cambiando. Trovi utile il nostro lavoro e desideri contribuire a mantenere il Grande Continente una pubblicazione aperta: scopri le nostre offerte di abbonamento  qui .]

Qual è la versione tradizionale cinese della governance?

Se diciamo che la visione occidentale dell’ordine mondiale si basa sulla distribuzione del potere nazionale, ciò che il sistema vestfaliano chiama “ordine” in opposizione a “disordine” e nel senso di dover scegliere tra l’uno e l’altro, allora il tradizionale La visione cinese della governance si basa su una logica in cui “ordine” e “caos” convivono in un reciproco rapporto di scambio.

Prendi l’esempio del controllo dell’acqua. Ci sono fondamentalmente due modi per controllare l’acqua. Il primo è costruire dighe sempre più alte per evitare che l’acqua trabocchi, che è l’idea di base della politica americana della Guerra Fredda [contenimento ] . Il secondo è cambiare la direzione della corrente. Le dighe hanno sempre, alla fine, un limite. Lavorare sulla direzione della corrente è la migliore strategia a lungo termine.

Pertanto, la tradizionale strategia di governance cinese contraddice sia la teoria dell'”ascesa e caduta delle grandi potenze” sia la teoria dell'”egemonia stabile”. La Cina deve implementare sistematicamente la propria visione della governance globale. La missione più importante della Cina, che cerca di integrare pacificamente l’attuale ordine mondiale, è quella di fornire una visione relativamente chiara e positiva del suo modo di pensare. Da una prospettiva a lungo termine, il tema principale delle relazioni estere della Cina dovrebbe essere la comprensione interculturale e la comunicazione di civiltà.

FONTI
  1. Dushu (读书, letteralmente “leggere”) è una rivista letteraria mensile influente nei circoli intellettuali cinesi.
  2. Caijing (财经) è una rivista indipendente con sede a Pechino che copre fenomeni politici, sociali, ecc.
  3. 相蓝欣, intervista di 马国川, “著名国际政治专家 相蓝欣教授:反思战狼文化,呼唤文明沟通”, 30 aprile 2020.
  4. Vedi in particolare le dichiarazioni degli ambasciatori cinesi nei paesi europei, ad esempio l’ intervista a Lu Shaye su BFMTV .
  5. Henry Kissinger, “La pandemia di coronavirus altererà per sempre l’ordine mondiale”, Wall Street Journal , 3 aprile 2020
  6. Henry Kissinger, Un mondo restaurato: Metternich, Castlereagh e i problemi della pace, 1812–22, 1957.
  7. Si fa qui riferimento al caso del primo famoso informatore del dicembre 2019, il dottor Li Wenliang.
  8.  Letteralmente “tieni la luce sotto il moggio” (韬光养晦). Nel contesto del dopo Guerra Fredda e del dopo Tienanmen, queste sono le parole pronunciate da Deng Xiaoping nel 1992 che sono all’origine della sua strategia diplomatica di “tenere basso il profilo”. Agli occhi della Cina, è meglio che il Paese nasconda i propri beni, soprattutto in risposta alle “interferenze” degli Stati Uniti che avevano deciso di sospendere le vendite di equipaggiamenti militari dalla Cina dopo gli eventi di Tienanmen, per reagire meglio in seguito.
  9. Huaibei e Huainan sono due grandi città nell’entroterra della provincia dell’Anhui, situate a nord ea sud l’una dall’altra. La loro vicinanza geografica evidenzia l’importanza delle condizioni microlocali in Cina: sebbene i frutti che crescono in queste due città geograficamente vicine sembrino simili, il sapore dei frutti è diverso.
  10.  棒杀: picchiare a morte qualcuno, 捧杀: letteralmente lusingare a morte qualcuno facendolo sentire compiacente
  11.  Nota dell’autore: in effetti, ci sarebbe una civiltà, la Cina, e il resto del mondo sarebbe versioni meno evolute dello stato-nazione. In altre parole, agli occhi della Cina, è l’unico paese al mondo in cui la civiltà coincide ancora con un moderno stato-nazione.
  12. “Cercare la verità dai fatti” (实事求是) è uno dei principali slogan del periodo maoista che promuove una visione realistica delle riforme ed è alla base dell’ideologia socialista cinese.
  13.  Questo proverbio cinese è un riferimento alla politica sperimentale della Cina durante il decennio di apertura che inizia dal 1978 con l’attuazione di misure graduali sugli investimenti esteri, sulle privatizzazioni e sull’apertura del mercato in generale. .
  14. Riferimento alla famosa citazione di Deng Xiaoping (1961) “Non importa se un gatto è bianco o nero, se cattura i topi, è un buon gatto”. In altre parole, non importa l’ideologia o la nazionalità degli imprenditori purché contribuiscano allo sviluppo economico della Cina. Ciò rientra nel contesto delle riforme di apertura difese da Deng già nel 1978.
  15. Concetto maestro del taoismo, la via si traduce in Dao o tao (道). Il taoismo è una delle tre grandi filosofie cinesi (con Buddismo e Confucianesimo) che pone al centro la via, il sentiero come principio fondante all’origine di tutto.
  16. Xiang fa riferimento a Zhang Weiwei, che iniziò la sua carriera di interprete prima di diventare un noto studioso nella trilogia di opere sull’ascesa della Cina degli anni ’90 (i primi due volumi sono stati tradotti in inglese), in cui prende liberamente in prestito da Martin Jacques . Zhang viaggia anche per il mondo per difendere il modello cinese; molte delle sue conferenze e dibattiti sono disponibili in inglese su Youtube.
  17. Xiang si riferisce alla Scuola di diplomazia e relazioni internazionali di Ginevra , un parente povero dell’Istituto universitario di Ginevra dove insegna Xiang. “Wild Chicken 野鸡” è un termine ampiamente utilizzato per qualcosa che non è brevettato.
  18. Zhang ricopre una posizione presso la Fudan University di Shanghai, l’ alma mater di Xiang , ed è anche preside dell’Istituto di studi cinesi all’interno della stessa università.
  19. Questo è un altro riferimento a Zhang Weiwei. Il titolo del secondo volume della sua trilogia è The China Shock (中国震撼).
  20. Un altro significato di “pace” (平) in mandarino è piatto, che contraddice anche il sorgere.
  21. Traduzione tratta da http://www.fang.ece.ufl.edu/daodejing.pdf , testo numero 80.

https://legrandcontinent.eu/fr/2022/09/10/il-ny-a-pas-besoin-de-se-battre-comme-un-loup-guerrier-une-conversation-avec-xiang-lanxin/?mc_cid=84212e0658&mc_eid=4c8205a2e9

LA NUOVA TIANXIA: RICOSTRUIRE L’ORDINE INTERNO ED ESTERNO DELLA CINA, a cura di DAVID OWNBY

Xu Jilin (nato nel 1957) è un importante storico e intellettuale pubblico che insegna alla East China Normal University di Shanghai. Come accademico, è specializzato nella storia intellettuale della Cina moderna e contemporanea, ma si occupa anche dei dibattiti che si svolgono all’interno della comunità intellettuale cinese. Come si evince dal testo qui tradotto, Xu scrive come un liberale dalla mentalità aperta, turbato dall’aumento dei sentimenti ultranazionalisti in Cina che accompagna l’ascesa della Cina. Questi sentimenti sottolineano il fatto che solo la Cina sarebbe una vera “civiltà”, alla quale non potrebbero applicarsi i cosiddetti valori “universali” promossi dall’Occidente.

Sebbene i temi principali di questo saggio pubblicato nel 2015 si possano ritrovare in molti altri testi di Xu, sono qui intrecciati in modo originale per affrontare un argomento che Xu non tratta spesso: la politica estera cinese contemporanea. Inizia con una presentazione abbastanza familiare della nozione tradizionale di tianxia 天下 (letteralmente “Tutto ciò che è sotto il cielo”) che, nelle parole di Xu, connotava sia “un ordine di civiltà ideale, sia un immaginario spaziale globale le cui pianure centrali della Cina formare il nucleo. “In un certo senso, quindi, la Cina era la tianxia, ​​cioè l’incarnazione, quando il sistema funzionava al meglio, dell’insieme dei principi che giustificavano il dominio imperiale confuciano. Ma il tianxia era aperto, non chiuso; come il sogno americano del 20° secolo, tianxia era intesa dai cinesi come una sorta di universalismo a cui altre culture potevano aspirare. Xu illustra il suo punto di vista non tanto con una discussione sul tradizionale sistema di tributi della Cina quanto con un’esplorazione delle relazioni storiche tra il popolo Han e i vari “gruppi barbari” non Han alla periferia della Cina. 

Secondo il suo punto di vista, i processi di assimilazione, prestito e integrazione erano molteplici, complessi e non ponevano problemi a livello ideologico. In altre parole, prima dell’avvento della nozione di stato-nazione, “cinese” e “barbaro” non erano intesi in termini di razza ma in termini di civiltà. La tianxia, ​​aperta e universale, accoglieva le “masse ammassate” dell’Asia, a condizione che riconoscessero lo splendore della tianxia.

Xu usa quindi questa lezione di storia per ribaltare la situazione contro i suoi avversari: in questo caso, gli ultranazionalisti cinesi e quelli, come Zhang Weiwei 张维为 (classe 1957) o Pan Wei 潘維 (classe 1964)1, che mobilitano il concetto di “unicità” della Cina per sostenere che dovrebbe ignorare l’Occidente e tornare alla sua unica civiltà. Sostiene che il loro patriottismo e orgoglio nazionale si basano su un’errata interpretazione della storia della Cina: quando la Cina era grande in passato, era aperta, non chiusa. Se la Cina vuole tornare grande, deve adottare lo stesso atteggiamento, perché le civiltà devono per definizione essere universali. Afferma inoltre che anche il patriottismo e l’orgoglio nazionale di coloro che predicano un angusto sogno cinese sono i prodotti della conversione della Cina al modello di stato-nazione e agli obiettivi di ricchezza e potere di quest’ultimo. In altre parole, l’orgoglio ispirato dall’ascesa della Cina sarebbe in gran parte un orgoglio derivante dal suo successo nel gioco dell’Occidente. Il vero “gioco” della Cina resta dimenticato.

Xu tenta quindi di immaginare un mondo in cui una qualche versione di tianxia sostituisca la posizione dello stato contemporaneo cinese. Nel contesto delle relazioni problematiche della Cina con i popoli non Han della periferia – principalmente, ma non esclusivamente, i tibetani e i popoli musulmani dello Xinjiang – Xu suggerisce che la politica di “multiculturalismo” della dinastia Qing che riconosceva l’autonomia dei gruppi minoritari all’interno determinati limiti, hanno funzionato meglio delle politiche attuali, che combinano sia l’integrazione forzata che la modernizzazione. Per quanto riguarda la geopolitica dell’Asia orientale, Xu immagina un mondo basato su valori condivisi derivanti da tianxia piuttosto che su alleanze o antagonismi basati su interessi. E nel mondo in generale,

Infine, va notato che Xu Jilin, che usa un gran numero di riferimenti occidentali in questo testo, legge a malapena l’inglese. È la massiccia industria della traduzione in Cina che rende disponibile quasi da un giorno all’altro tutto ciò che viene da altrove e sembra rilevante in cinese. Si tratta di un notevole vantaggio strategico rispetto al minore sforzo generalmente compiuto in Occidente per comprendere la Cina. Questa serie è un tentativo di innescare una dinamica simmetrica e virtuosa  : capire la Cina leggendo i suoi pensatori.

L’ascesa della Cina potrebbe essere l’evento che avrà il maggiore impatto sul 21° secolo. Eppure, nonostante il potere in espansione della Cina, gli ordini interni ed esterni del Paese sono diventati sempre più rigidi. Sul piano interno, la grandezza nazionale non ha generato una forza centripeta che attrae al centro le diverse nazionalità minoritarie delle regioni di confine. Al contrario, in Tibet e nello Xinjiang esplodono continuamente conflitti etnici e religiosi, tanto che oggi assistiamo a un separatismo estremo e ad attività terroristiche. A livello internazionale, l’ascesa della Cina ha reso nervosi i suoi vicini. I conflitti per le isole del Mar Cinese Meridionale e Orientale rappresentano la minaccia di una guerra in Asia orientale, e lo scoppio delle ostilità militari è un pericolo permanente. Il nazionalismo ha raggiunto nuove vette, non solo in Cina ma anche in tutta l’Asia orientale, in una spirale di reciproco antagonismo. Aumenta la possibilità di una guerra regionale, in un clima simile a quello dell’Europa del XIX secolo.

Ma con l’avvicinarsi della crisi, abbiamo un piano? È abbastanza facile stilare un elenco delle misure adottate a livello nazionale per alleviare la situazione, ma l’importante è scavare alle radici della crisi. E l’origine della crisi non è altro che la mentalità che concede il primato assoluto alla nazione, una mentalità che è stata introdotta in Cina alla fine dell’800 e che da allora è diventata il modo di pensare dominante tra i dipendenti pubblici e la gente comune . Il nazionalismo è sempre stato parte integrante della modernità, ma quando diventa il valore supremo dell’arte di governo può infliggere calamità distruttive al mondo, come nelle guerre mondiali europee.

Per affrontare veramente il problema alla radice, abbiamo bisogno di una forma di pensiero che possa fungere da contrappunto al nazionalismo. Io chiamo questo pensiero la “nuova tianxia”, una saggezza assiale di civiltà della tradizione premoderna cinese, reinterpretata secondo criteri moderni.

I valori universali di Tianxia

Cos’è tianxia? Nella tradizione cinese, il termine tianxia ha due significati essenziali: un ordine di civiltà ideale e un immaginario spaziale globale di cui le pianure centrali della Cina costituiscono il nucleo.

Il sinologo americano Joseph Levenson (1920-1969) sosteneva che all’inizio della storia della Cina “la nozione di “Stato” si riferiva a una struttura di potere, mentre la nozione di tianxia designava una struttura di valori. »2In quanto sistema di valori, il tianxia era un insieme di principi di civiltà a cui corrispondeva un sistema istituzionale. Lo studioso della dinastia Ming Gu Yanwu 顾炎武 (1613-1682) distinse “perdita di stato e perdita di tianxia”. Secondo lui, lo stato era solo l’ordine politico della dinastia, mentre il tianxia era un ordine di civiltà di applicazione universale. Non si riferiva solo a una particolare dinastia o stato, ma soprattutto a valori eterni, assoluti e universali. Lo stato potrebbe essere distrutto senza che la tianxia venga distrutta. Altrimenti, l’umanità si divorerebbe, scomparendo in una giungla hobbesiana.

Se, oggi, il nazionalismo e lo statalismo cinesi hanno raggiunto picchi, dietro queste ideologie si nasconde un sistema di valori che enfatizza il particolarismo cinese. Come se l’Occidente avesse valori occidentali e la Cina avesse valori cinesi, il che significa che la Cina non potrebbe seguire il percorso “tortuoso” dell’Occidente ma dovrebbe seguire il proprio percorso verso la modernità. A prima vista, questo argomento sembra molto patriottico, con una forte attenzione alla Cina, ma in realtà è molto “non cinese” e non tradizionale. In effetti, la tradizione di civiltà cinese non era nazionalista, ma piuttosto basata su un modello di tianxia i cui valori erano universali e umanistici piuttosto che particolari.

I tianxia non appartenevano a nessun popolo o nazione in particolare. Confucianesimo, taoismo e buddismo sono tutte quelle che il filosofo tedesco-svizzero Karl Jaspers (1883-1969) chiamava le “civiltà assiali” del mondo premoderno. Come il cristianesimo o la civiltà dell’antica Roma, la civiltà cinese ha preso come punto di partenza la preoccupazione universale per tutta l’umanità, utilizzando i valori degli altri popoli come una sorta di criterio di autogiudizio. Dopo il periodo moderno3, quando il nazionalismo è entrato in Cina dall’Europa, la visione della Cina è stata notevolmente ristretta e la sua civiltà è stata sminuita. Dalla grandezza di tianxia, ​​dove tutti gli esseri umani possono essere integrati nel cosmo, la civiltà cinese si è ridotta alla meschinità di “questo è occidentale, e questo è cinese”. Mao Zedong una volta ha parlato della “necessità che la Cina dia un contributo maggiore all’umanità”, affermando che “solo quando il proletariato libera tutta l’umanità può liberare se stessa”, rivelando un’ampia visione dell’internazionalismo dietro il suo nazionalismo. Ma tutto ciò che traspare oggi dal Sogno Cinese è il grande rinnovamento della nazione cinese.

In tutto il testo, notiamo i riferimenti su cui Xu Jilin fa affidamento per costruire la sua argomentazione: la maggior parte sono autori occidentali, alcuni dei quali sono ben noti come Karl Jaspers e altri meno. Ciò testimonia la notevole influenza dell’universo concettuale occidentale in Cina, poiché la stessa vita intellettuale cinese è stata ampiamente “globalizzata” durante il periodo di riforma e apertura. Questo è ovviamente particolarmente vero per liberali come Xu Jilin, ma le figure della Nuova Sinistra o dei Nuovi Confuciani non fanno eccezione in questo senso.

Naturalmente, i cinesi premoderni non parlavano solo di tianxia ma anche della differenza tra barbari (yi 夷) e cinesi (xia 夏). Tuttavia, la nozione premoderna di cinese e barbaro era completamente diversa dal discorso binario Cina/Occidente, noi/loro che si trova oggi sulle labbra dei nazionalisti estremisti. Il pensiero binario di oggi è il risultato dell’influenza del razzismo moderno, della coscienza etnica e dello statalismo: cinesi e barbari, noi e altri, esistiamo in un rapporto di assoluta inimicizia, senza spazio di comunicazione o integrazione tra loro.

Nella Cina tradizionale, la distinzione tra cinesi e barbari non era un concetto fisso e razzializzato, ma piuttosto un concetto culturale relativo che conteneva la possibilità di comunicazione e trasformazione. La differenza tra barbaro e cinese è stata determinata esclusivamente sulla base dell’esistenza di una connessione con i valori di tianxia. Mentre tianxia era assoluta, le etichette di barbaro e cinese erano relative. Mentre il sangue e la razza erano innati e immutabili, la civiltà poteva essere studiata e imitata. Come ha affermato lo storico cinese-americano Hsu Cho-yun (nato nel 1930), nella cultura cinese “non ci sono ‘altri’ assoluti, ci sono semplicemente ‘sé’ relazionali”4.

La storia è ricca di esempi della trasformazione dei cinesi in barbari, come quando i cinesi furono equiparati ai “barbari del sud” conosciuti come il popolo Man蛮. Allo stesso modo, la storia fornisce molti esempi del processo inverso, in cui i barbari vengono trasformati in cinesi, come la trasformazione del popolo nomade occidentale Hu胡 in Hua华, o coloro che abbracciarono il tianxia.

Il popolo Han era originariamente un popolo contadino, mentre la maggioranza del popolo Hu era un popolo che viveva nei pascoli: durante i periodi delle Sei Dinastie (222-589), i Sui-Tang (589-907) e gli Yuan- Qing (1271-1911), la Cina agricola e la Cina dei pascoli hanno sperimentato un processo di integrazione a due vie. La cultura cinese ha assorbito gran parte della cultura del popolo Hu. Il buddismo, per esempio, era originariamente la religione del popolo Hu; il sangue del popolo Han ha mescolato al suo interno elementi di popoli barbari; dall’abbigliamento alle abitudini quotidiane, non c’è una sola area in cui la gente delle pianure centrali non sia stata influenzata dai popoli Hu. Nei primi periodi, il popolo Han era persino solito sedersi su stuoie. Più tardi, adottarono gli sgabelli pieghevoli degli Hus, e da sgabelli pieghevoli si evolvettero in sedie con schienali: finirono per cambiare completamente i loro costumi.

Se la civiltà cinese non è ridimensionata in cinquemila anni, è proprio perché non era chiusa e angusta. Al contrario, ha beneficiato della sua apertura e della sua inclusione, e non ha mai smesso di assimilare i contributi delle civiltà esterne nelle proprie tradizioni. Adottando la prospettiva universale di tianxia, ​​la Cina si è occupata solo della questione del carattere di questi valori. Non ha posto domande etniche sul “mio” o sul “tuo”, ma ha assorbito tutto ciò che era “buono”, collegando “tu” e “me” in un tutto integrato che è diventato la “nostra” civiltà. .

Ma i nazionalisti estremisti di oggi vedono la Cina e l’Occidente come nemici assoluti e naturali. Usano distinzioni assolute di razza ed etnia per resistere a tutte le civiltà aliene. Esiste persino una “teoria del peccato originale della conoscenza occidentale” nel mondo accademico, secondo la quale qualsiasi cosa creata dagli occidentali dovrebbe essere respinta. I giudizi di questi estremisti nazionalisti riguardo agli standard di verità, bontà e bellezza non mostrano più l’universalismo della Cina tradizionale. Non resta che la prospettiva ristretta del “mio”: come se, finché una cosa è “mia”, deve essere “buona”, e finché è “cinese”, è un bene assoluto che non devono essere dimostrati.

In apparenza, questo tipo di nazionalismo “politically correct” sembra esaltare la civiltà cinese; in effetti, fa esattamente il contrario: prende l’universalità della civiltà cinese e la svilisce nella cultura particolare di una nazione e di un popolo. C’è una differenza importante tra civiltà e cultura. La civiltà si occupa di “ciò che è buono”, mentre la cultura si occupa semplicemente di “ciò che è nostro”. La cultura distingue il sé dall’altro, definendo l’identità culturale del sé. La civiltà è diversa perché cerca di rispondere alla domanda “che cosa è buono?” da una prospettiva universale che trascende quella di una nazione e di un popolo. Questo “bene” non fa bene solo a “noi”, fa bene anche a “loro” ea tutta l’umanità. All’interno della civiltà universale non c’è distinzione tra “noi” e “l’altro”, solo valori umani universalmente rispettati.

Se l’obiettivo della Cina non è solo rafforzare lo stato-nazione, ma diventare ancora una volta una potenza di civiltà con una grande influenza negli affari mondiali, allora deve adottare in ogni parola e azione la propria comprensione della civiltà universale. Questa comprensione non può essere culturalista. Non può essere basato su argomenti secondo cui “questo è il carattere nazionale speciale della Cina”, o “questo riguarda la sovranità della Cina e nessun altro è autorizzato a discuterne”. Deve usare i valori della civiltà universale per persuadere il mondo e dimostrarne la legittimità.

In quanto grande potenza con influenza globale, la Cina non dovrebbe solo ringiovanire la sua nazione e il suo stato, ma anche reindirizzare il suo spirito nazionalista al mondo. La Cina non deve solo ricostruire una cultura adattata alla sua gente, ma piuttosto una civiltà che porti valori universali. I valori fondamentali della Cina, che toccano la nostra comune natura umana, dovrebbero essere considerati “buoni” da tutta l’umanità. La natura universale della civiltà cinese può essere costruita solo dal punto di vista di tutta l’umanità e non può basarsi esclusivamente sugli interessi e sui valori particolari dello stato-nazione cinese. Storicamente parlando, la civiltà cinese era tianxia. Trasformare tianxia, ​​nell’era della globalizzazione, in un internazionalismo integrato nella civiltà universale è l’obiettivo principale di una potenza di civiltà.

La Cina è una potenza cosmopolita, una nazione globale che incarna lo “spirito del mondo” di Hegel. Deve assumersi la sua responsabilità per il mondo e per lo “spirito del mondo” che ha ereditato. Questo “spirito del mondo” è la nuova tianxia che emergerà sotto forma di valori universali.

Quando i cinesi menzionano il tianxia, ​​i suoi vicini reagiscono con una certa diffidenza ereditata dalla storia e dalle esperienze passate. Gli stati vicini temono che l’ascesa della Cina segnerà il ritorno dell’impero cinese, violento, autoritario e dominante. Questa preoccupazione non è infondata. Accanto ai valori universali, il tianxia tradizionale si riferiva anche a un’espressione spaziale: una “modalità di associazione differenziale 差序格局”, per usare un’espressione del sociologo Fei Xiaotong费孝通 (1910-2005) basata sulle pianure centrali della Cina. Tianxia era organizzata in tre cerchi concentrici: il primo era il cerchio interno, le aree centrali governate direttamente dall’imperatore attraverso il sistema burocratico; il secondo era il cerchio centrale, le regioni di frontiera che erano indirettamente governate dall’imperatore attraverso il sistema dei titoli ereditari, degli stati vassalli e dei capi tribù; e il terzo cerchio corrispondeva al sistema tributario, che stabiliva un ordine gerarchico internazionale che portava molti paesi alla corte imperiale della Cina. Dal centro alle zone di frontiera, dall’interno all’esterno, la tradizionale tianxia stabiliva un mondo concentrico tripartito con la Cina al centro, in cui i popoli barbari si sottomettevano all’autorità centrale.

Xu usa qui l’espressione 谈虎色变 che significa che “chiunque sia stato effettivamente morso da una tigre impallidirà alla menzione di questa parola, mentre altri parlano di tigri senza paura. »

Nel corso della storia della Cina, il processo di espansione dell’impero cinese ha portato religione e civiltà avanzate nelle regioni e nei paesi vicini, pur essendo caratterizzato da violenza, sottomissione e schiavitù. Questo era il caso delle dinastie Han, Tang, Song e Ming, governate dagli imperatori Han, Mongol Yuan e Manchurian Qing, i cui governanti provenivano dalle regioni di frontiera. Oggi, nell’era dello stato-nazione, con il nostro rispetto per l’uguaglianza dei popoli e il loro diritto all’indipendenza e all’autodeterminazione, qualsiasi piano per tornare all’ordine gerarchico tianxia, ​​con la Cina al centro, sarebbe non solo reazionario ma anche illusorio. Per questo, tianxia deve rivitalizzarsi nel contesto della modernità,

In che modo il nuovo tianxia è “innovativo”? Rispetto al concetto tradizionale, la sua novità si esprime attraverso due aspetti: da un lato, la sua natura decentralizzata e non gerarchica; dall’altro, la sua capacità di creare un nuovo senso di universalità.

La tradizionale tianxia costituiva un ordine politico-civiltà concentrico e gerarchico il cui nucleo era la Cina. Ciò che la nuova tianxia dovrebbe rifiutare in primo luogo è proprio questo ordine centralizzato e gerarchico. La nuova tianxia deve rispondere al principio di uguaglianza tra gli stati-nazione. Nel nuovo ordine tianxia non ci sarà più un centro ma solo popoli e Stati indipendenti e pacifici che si rispettano. Il potere gerarchico e le nozioni di dominio e asservimento, protezione e sottomissione non prevarranno più. Emergerà un ordine pacifico di convivenza egualitaria, che rifiuta l’autorità e il dominio.

Ancora più importante, il soggetto del nuovo ordine tianxia ha già subito una trasformazione: non c’è più alcuna distinzione tra cinesi e barbari, né tra soggetti e oggetti. Gli anziani affermarono che “Tianxia è la tianxia del popolo di Tianxia”. Nell’ordine interno della nuova tianxia, ​​il popolo Han e le varie minoranze nazionali godranno dell’uguaglianza reciproca in termini di diritti e status, e l’unicità culturale e il pluralismo delle diverse nazionalità saranno rispettati e protetti. Nell’ordine internazionale esterno, le relazioni della Cina con i suoi vicini e tutte le nazioni del mondo, grandi o piccole che siano, saranno definite dai principi del rispetto dell’indipendenza sovrana, dell’uguaglianza e della pacifica convivenza.

Il principio dell’eguaglianza sovrana degli Stati-nazione è infatti una sorta di “politica del riconoscimento” in cui tutte le parti ammettono reciprocamente l’autonomia e l’unicità dell’altro e accettano l’autenticità di tutti i popoli. La nuova tianxia, ​​che si basa sulla “politica del riconoscimento”, differisce dalla vecchia tianxia. Il motivo per cui l’antica tianxia aveva un centro era dovuto alla convinzione del popolo cinese di aver ricevuto un mandato dal cielo, e quindi la loro legittimità a governare il mondo proveniva da una volontà divina trascendente. Per questo c’era una distinzione tra il centro e le periferie.

Nell’attuale epoca secolare, la legittimità delle nazioni e degli stati non deriva più dall’autorità divina (che sia chiamata “Dio” o “cielo”), ma dal loro carattere intrinseco. La natura autentica di ogni Stato-nazione significa che ognuno ha i suoi valori specifici. Un sano ordine internazionale deve prima richiedere a ciascuna nazione di mostrare rispetto e apprezzamento reciproci verso tutte le altre nazioni. Se accettiamo che la tradizionale tianxia, ​​con fondamento del Mandato del Cielo, si basava sul rapporto gerarchico tra centro e periferia, allora nella nuova tianxia, ​​nell’era secolare della “politica di riconoscimento”, questo rapporto sarà regolato dai principi di uguaglianza sovrana e di rispetto reciproco tra tutti gli Stati nazionali.

La nuova tianxia è una trascendenza della tradizionale tianxia e dello stato-nazione. Va oltre il principio di centralità della tradizionale tianxia, ​​pur conservando i suoi attributi universalistici. Inoltre, incorpora il principio dell’uguaglianza sovrana degli stati-nazione, mentre va oltre la prospettiva ristretta che pone l’interesse nazionale al primo posto, utilizzando l’universalismo per bilanciare i particolarismi. La legittimità e la sovranità dello stato-nazione non sono assolute, ma soggette a vincoli esterni. Il principio della civiltà universale rappresenta questo vincolo integrato nella nuova tianxia. La sua dimensione passiva deriva dalla sua natura decentralizzata e non gerarchica; la sua dimensione attiva cerca di costruire un nuovo universalismo tianxia, ​​che possa essere condiviso da tutti.

Se la tradizionale tianxia era una civiltà universale per l’intera umanità, era come altre civiltà assiali come l’ebraismo, il cristianesimo, l’islam, le antiche religioni dell’India e le civiltà della Grecia e dell’antica Roma: il suo carattere universale prese forma in un momento nella storia per un popolo particolare, quando il senso della santa missione si è espresso attraverso il principio “Il Cielo ha affidato a questo popolo una responsabilità” di salvare un mondo decaduto. È così che la cultura particolare di un popolo è cresciuta fino a diventare una civiltà umana universale.

L’universalità delle antiche civiltà è nata da un popolo e da una regione particolari che sono stati in grado di trascendere la loro unicità facendo affidamento su una fonte santa trascendente (Dio o cielo), creando così un’universalità astratta. Il valore universale espresso dalla tradizionale tianxia cinese trova la sua fonte nell’universalità trascendente della via del cielo, il principio del cielo e il mandato del cielo. La differenza tra la civiltà cinese e l’Occidente è che in Cina sacro e secolare, trascendente e reale non hanno confini assoluti: l’universalità della sacra tianxia è espressa nel mondo reale dalla volontà secolare della gente comune .

Tuttavia, la tianxia cinese era simile ad altre civiltà in quanto tutte centrate su un popolo scelto dal cielo. Quindi la tianxia si è diffusa nelle aree periferiche. La civiltà moderna, che il sociologo israeliano Shmuel Eisenstadt (1923-2010) ha descritto come la “seconda civiltà assiale”, è apparsa prima nell’Europa occidentale e poi si è diffusa nel resto del mondo. Come la tianxia, ​​aveva un carattere assiale: si spostava dal centro ai margini, da un popolo centrale al resto del mondo.

Ciò che la nuova tianxia vuole disfare è proprio questa struttura di civiltà assiale, condivisa sia dalla tradizionale tianxia sia dalle altre civiltà fondatrici, che si muovono tutte dal centro ai margini, di un particolarismo singolare verso un universalismo omogeneo. Il valore universale che persegue la nuova tianxia è una nuova civiltà universale. Questo tipo di civiltà non emerge dalla declinazione di una civiltà particolare; piuttosto, è una civiltà universale che può essere condivisa reciprocamente da molte civiltà diverse.

La civiltà moderna è emersa nell’Europa occidentale, ma nel processo di espansione nel resto del mondo ha subito una diversificazione, stimolando la modernizzazione culturale di vari popoli e civiltà assiali. Nella seconda metà del XX secolo, dopo l’ascesa dell’Asia orientale, lo sviluppo dell’India, le rivoluzioni in Medio Oriente e la democratizzazione dell’America Latina, molte varianti della civiltà moderna hanno visto il giorno. D’ora in poi, la modernità non appartiene più alla civiltà cristiana. Piuttosto, è una modernità polimorfa che si integra con molte civiltà assiali e culture locali. La civiltà universale che cerca la nuova tianxia è proprio quella civiltà moderna che può essere condivisa collettivamente da nazioni e popoli diversi.

Il politologo americano Samuel P. Huntington (1927-2008) ha distinto chiaramente tra due distinte narrazioni della civiltà universale: la prima è apparsa nel quadro analitico binario di “tradizione e modernità”, che ha prevalso durante la Guerra Fredda. In questo quadro, l’Occidente era considerato lo standard della civiltà universale e meritava di essere emulato da tutti i paesi non occidentali. L’altro resoconto utilizzava il quadro analitico delle civiltà plurali, che intendevano il concetto come un insieme di valori comuni e strutture sociali e culturali accumulate che potevano essere reciprocamente riconosciute da varie entità di civiltà e comunità culturali. Questa nuova civiltà universale fa di ciò che è comunemente condiviso la sua caratteristica fondante.

La nuova universalità ricercata dalla nuova tianxia è un’universalità condivisa. In questo senso differisce dall’universalità delle antiche civiltà assiali. I tianxia tradizionali e le antiche civiltà assiali avevano ideali che si sviluppavano dal particolarismo di un dato popolo, in connessione con le credenze di ciascuno di questi popoli. Ora, il carattere universale della nuova tianxia non si fonda su una particolarità, ma su molte particolarità. In quanto tale, non possiede più il carattere trascendentale del tradizionale tianxia e non ha più bisogno dell’approvazione del mandato del cielo, della volontà degli dei o della metafisica morale.

[Il mondo sta cambiando. Con la nostra serie “Dottrine della Cina di Xi Jinping”, delineiamo un tentativo di comprendere le profonde dinamiche che animano i pensatori cinesi contemporanei leggendole, traducendole. Se trovi utile il nostro lavoro e pensi che meriti supporto, puoi iscriverti  qui .]

L’universalità della nuova tianxia poggia sul “sapere comune accumulato” di ogni civiltà e di ogni cultura. In un certo senso, questo è un ritorno all’ideale confuciano mondano dell’“uomo superiore 君子”: “L’uomo superiore agisce in armonia con gli altri ma non cerca di somigliare a loro. I diversi sistemi di valori e perseguimenti materiali di varie civiltà e culture si adattano allo stesso mondo utilizzando metodi rispettosi e condividendo il consenso più fondamentale sui valori reciproci da rispettare.

L'”uomo superiore ( junzi )” è un concetto chiave negli Analetti di Confucio, che rappresenta il risultato finale della cultura confuciana. La citazione completa, nella traduzione di Robert Eno disponibile online , recita: “Il junzi agisce in armonia con gli altri ma non cerca di somigliare a loro; l’omino cerca di essere come gli altri e non agisce in armonia. (13, 23)

L’universalità ricercata dalla nuova tianxia trascende sia il sinocentrismo che l’eurocentrismo. Non cerca di creare un’egemonia di civiltà sulla base di una civiltà assiale e di una cultura nazionale. Non immagina che una particolare civiltà possa rappresentare il 21° secolo, senza nemmeno evocare il futuro dell’umanità. La nuova tianxia comprende razionalmente i limiti interni di tutte le civiltà e culture e accetta che il mondo sia plurale e multipolare. Nonostante i discorsi sul potere e sull’egemonia dell’impero, il vero desiderio dell’umanità non è il dominio di una singola civiltà o sistema, per quanto ideale o grandioso.

Quello che lo studioso russo-francese Alexandre Kojève (1902-1968) ha descritto come uno “stato universalmente omogeneo” è ancora così spaventoso. Il vero ideale, descritto dall’intellettuale illuminista tedesco Johann Herder (1744-1803), era profumato con l’aroma di fiori di varie varietà. Ma perché un mondo pluralistico sfugga ai massacri tra civiltà, sono necessari un universalismo kantiano e un eterno ordine pacifico.

Il principio universale dell’ordine mondiale non può prendere a norma le regole del gioco della civiltà occidentale, né può fondarsi sulla logica della resistenza all’Occidente. Il nuovo universalismo è quello di cui tutti i popoli possono beneficiare e che è emerso da civiltà e culture diverse: il “consenso sovrapposto”, nelle parole dello studioso americano John Rawls (1921-2002).

Nel suo saggio “Come affronta il soggetto l’altro? », il filosofo taiwanese Qian Yongxiang 钱永祥 (nato nel 1949) distingue tre tipi di universalità. La prima sottolinea la lotta tra dominio e asservimento, vita e morte, dove attraverso la conquista si raggiunge l’“universalità della negazione dell’altro”. Il secondo usa l’evitamento per trascendere l’altro, perseguendo una sorta di neutralità tra sé e l’altro e raggiungendo una “universalità che trascende l’altro”. Il terzo è prodotto dal riconoscimento reciproco di sé e dell’altro, basato sul rispetto della differenza e sulla ricerca attiva del dialogo e del consenso, una “universalità che riconosce l’altro”5.

Un universalismo che abbia come centro la Cina o l’Occidente appartiene alla prima categoria del dominio e della “negazione dell’altro”, mentre i “valori universali” promossi dal liberalismo non tengono conto delle differenze interne che esistono tra culture e civiltà diverse . Il liberalismo mira a trascendere il particolarismo del sé e dell’altro per costruire un “universalismo trascendente”. Tuttavia, il liberalismo può portare a una mancanza di riconoscimento e rispetto per l’unicità dell’altro.

L’“universalità reciprocamente condivisa” della nuova tianxia è simile alla terza categoria definita da Qian Yongxiang: una “universalità basata sul riconoscimento dell’altro”. Questa universalità non cerca di stabilire l’egemonia di una particolare civiltà sulle altre, né di denunciare i percorsi intrapresi da altre civiltà. Piuttosto, cerca il dialogo e la definizione di punti in comune attraverso scambi egualitari tra diverse civiltà.

John Rawls ha immaginato un sistema di giustizia universale per gli stati costituzionali e un sistema globale di “diritti dei popoli”, titolo che ha dato al suo libro del 1999 sull’argomento. Secondo lui, lo stato costituzionale potrebbe stabilire un ordinamento interno politicamente liberale basato su una “comprensione” risultante dal “consenso sovrapposto” derivante da diversi sistemi religiosi, filosofici e morali. Negli affari internazionali, un ordine globalmente giusto potrebbe essere costruito sui diritti umani universali.

In questo caso, Rawls potrebbe commettere un errore invertendo l’ordine dei percorsi da seguire. La solidità di un sistema giudiziario nazionale deve basarsi su valori comunemente condivisi e di contenuto sostanziale; un consenso artificiale non può funzionare. Ma per molte civiltà, gli elementi della comunità internazionale che convivono con la cultura nazionale, e l’uso degli standard occidentali sui diritti umani, sono apparsi troppo soggettivi e vincolanti per costituire il valore fondamentale del “diritto”. Popoli”. Internamente, lo stato-nazione richiede una razionalità comune, mentre la società internazionale può stabilire solo un’etica minimalista. Questa etica minimalista può basarsi solo sul “consenso sovrapposto” di diverse civiltà e culture:

L’ordine interno di Tianxia: l’unità nella diversità come principio di governance nazionale

La tianxia era l’anima della Cina premoderna. Il corpo istituzionale di quest’anima era l’impero cinese. L’impero cinese premoderno differisce notevolmente dalla forma di stato-nazione di cui gode oggi la Cina. Lo stato-nazione si basa sull’idea di una nazione per un popolo, con un mercato e un sistema istituzionale internamente unificati, e un’identità e cultura nazionale unificate. I metodi di governo di un impero sono più diversi e flessibili: non richiede uniformità tra le regioni interne dell’impero e le sue aree di confine. Finché le regioni di frontiera mostrano la loro fedeltà al governo centrale, l’impero può consentire ai popoli e alle regioni sotto la sua amministrazione di mantenere le loro religioni e culture,

Tutti gli imperi di successo nella storia, inclusi gli antichi imperi macedone, romano, persiano o islamico, così come il moderno impero britannico, hanno condiviso caratteristiche comuni quando si tratta dei loro principi di governo. L’impero cinese, la cui storia bimillenaria va dal periodo Qin-Han alla fine del periodo Qing, ci ha lasciato in eredità una ricca esperienza di tentativi di governo che merita di essere analizzata.

Sebbene la Cina si sia trasformata in un moderno stato-nazione europeo dopo la fine della dinastia Qing, la vastità della sua popolazione e la diversità dei territori che la componevano (vaste pianure, altopiani, praterie e foreste), fecero sì che la Cina rimanesse un impero, anche se ha preso la forma di un moderno stato-nazione. Dalla Repubblica di Cina alla Repubblica popolare cinese, generazioni di governi centrali hanno cercato di costruire un sistema amministrativo e un’identità unificati, in modo che il popolo cinese si percepisse come un gruppo nazionale omogeneo.

Eppure, dopo cento anni, non solo non è stata raggiunta l’unificazione sistemica, culturale e nazionale, ma al contrario, negli ultimi dieci anni, le questioni religiose ed etniche nelle regioni di confine come il Tibet e lo Xinjiang sono peggiorate, al punto che il separatismo e il terrorismo è apparso. Qual è la causa di questo fenomeno? Com’è possibile che, sotto l’impero tradizionale, i popoli minoritari delle regioni di frontiera abbiano potuto vivere in relativa pace, mentre nel quadro del moderno stato-nazione si manifestano crisi multiformi? L’esperienza del governo sotto l’impero può servire da guida per il moderno stato-nazione cinese?

In termini di concettualizzazione dello spazio, la tianxia costituiva una modalità gerarchica di associazione, con al centro le pianure centrali della Cina. La modalità di governo dell’impero cinese era basata su una serie di sfere concentriche che si sostenevano a vicenda. Nella sfera interna, dove viveva il popolo Han, veniva applicato un sistema burocratico sviluppato dal primo imperatore Qin. Nella sfera esterna, le regioni di confine abitate da minoranze, è stata istituita una varietà di governance locale. I sistemi di titoli ereditari, gli stati vassalli e i leader tribali erano basati su tradizioni storiche, caratteristiche etniche e situazioni territoriali specifiche.

Finché i popoli minoritari erano disposti a riconoscere l’autorità della dinastia centrale, potevano godere di una significativa autonomia e mantenere i loro costumi culturali, credenze religiose e politiche locali che erano state tramandate nel corso della storia. Il concetto di “un paese, due sistemi” proposto da Deng Xiaoping (1904-1997) negli anni ’80 per Macao, Hong Kong e Taiwan ha le sue origini nella saggezza di governo pluralista della tradizione imperiale premoderna.

Nella storia cinese ci sono stati due tipi di monarchie centralizzate: le dinastie Han delle pianure centrali, che videro una successione di Han (206 a.C. – 220 d.C.), i Tang (618-907), i Song (960-1279) ei Ming (1368-1644); e le dinastie dei popoli di frontiera, che includevano i Liao (907-1125), Jin (1115-1234), Yuan (1271-1368) e Qing (1644-1911). Gli Han erano un popolo agricolo che controllava vaste pianure coltivabili. Con l’eccezione di brevi periodi sotto gli Han occidentali e l’altezza del Tang, gli Han non riuscirono mai a stabilire un dominio duraturo, pacifico e stabile sui popoli nomadi delle praterie. Questo perché i modi di vita e le credenze religiose dei popoli agricoli e nomadi differivano ampiamente.

Eppure gli Han non furono in grado di sfruttare il loro successo con la civiltà delle pianure centrali per conquistare i popoli nomadi del nord e dell’ovest. Infatti, solo le dinastie stabilite dai popoli di confine riuscirono a unificare le regioni agricole e le regioni nomadi in un unico impero, formando così il vasto territorio della Cina contemporanea. La dinastia mongola Yuan durò appena 90 anni. La dinastia Manchu Qing, invece, costituiva un impero unificato, multicentrico e multietnico, molto diverso dalle dinastie Han. I Qing riuscirono a integrare in un ordine imperiale i popoli agricoli e i popoli delle praterie che, fino ad allora, erano riusciti a malapena a convivere in pace. Per la prima volta, il potere del governo centrale si estese con successo alle foreste e alle praterie del nord e agli altopiani e ai bacini dell’ovest, ottenendo così una struttura unificata senza precedenti.

Sebbene il popolo Manchu provenisse dalle remote foreste della catena montuosa del Greater Khingan in quella che oggi è la provincia settentrionale dell’Heilongjiang, possedeva un’intelligenza politica di prim’ordine. Per molti anni i Manciù vissero tra i popoli contadini e i popoli delle praterie. Erano stati sconfitti e avevano sconfitto anche altri popoli. Hanno mostrato una profonda comprensione delle differenze tra le civiltà. Una volta entrati nelle pianure e assunto il governo centrale, si misero a ricostruire un grande impero unificato e la loro esperienza storica si trasformò in intelligenza politica impiegata per governare la tianxia. La grande unità stabilita dai Qing era molto diversa da quella stabilita dal primo imperatore Qin.

Sebbene il passaggio citato da Xu sia spesso interpretato come una descrizione degli sforzi di unificazione compiuti dai Qin, in realtà deriva dal Libro dei Riti, che è stato scritto prima dell’unificazione dei Qin.

Nelle diciotto province che costituivano il territorio originario degli Han, la dinastia Qing perpetuò il sistema storico dei riti confuciani, utilizzando la civiltà cinese per governare la Cina. Nelle regioni di frontiera dei popoli manciuriani, mongoli e tibetani, ha usato il buddismo dei lama come un legame spirituale comune e ha impiegato metodi di governo diversi, morbidi e flessibili al fine di preservare una tradizione storica. Gli imperi dinastici conquistatori Mongol-Yuan e Manchu-Qing erano molto diversi dalle dinastie Han-Tang delle pianure centrali. Gli imperi Mongol-Yuan e Manchu-Qing non formarono una tianxia religiosa, culturale e politica unificata. Piuttosto, hanno cercato di costruire un sistema politico di convivenza reciproca basato sulla diversità culturale.

Le differenze inconciliabili nello stile di vita e nella religione tra i popoli agricoli e i popoli nomadi sono stati conciliati, come parte dell’esperienza di governo dell’Impero Qing, attraverso questo doppio sistema. Nella Cina odierna, il popolo agricolo Han e le minoranze nomadi di frontiera si scontrano con una civiltà industriale più potente e secolare. Le conquiste economiche e politiche dei popoli marittimi europei hanno trasformato radicalmente il popolo agricolo Han in modo che ora somiglino agli europei del 19° secolo, con il loro inesauribile desiderio di ricchezza materiale e concorrenza.

Inoltre, il secolarismo fu introdotto nei territori nomadi della Cina occidentale e settentrionale allo stesso modo in cui le potenze imperiali lo avevano portato in Cina. Eppure tendiamo a dimenticare che i popoli nomadi delle praterie sono diversi dai popoli agricoli; la loro concezione della felicità è completamente diversa da quella degli Han secolari. Per un popolo con profonde credenze religiose, la vera felicità non si trova nella soddisfazione dei desideri materiali o nei piaceri della vita secolare; anzi, si trova nella protezione degli dèi e nella trascendenza della sua anima. Quando il governo centrale utilizza la visione unitaria dello Stato-nazione per diffondere i principi dell’economia di mercato, dell’uniformità della gestione burocratica e della cultura laica nelle regioni di confine, incontra una forte reazione da parte di alcuni membri di gruppi minoritari, che resistono ferocemente alla secolarizzazione, simile alla resistenza vista in alcune parti del mondo islamico dell’Asia sudoccidentale e orientale.Nord Africa.

Da un’altra prospettiva, una delle principali differenze tra il moderno stato-nazione e il tradizionale impero cinese è che lo stato-nazione cerca di creare una cittadinanza unificata: il popolo cinese. Costituiti da oltre il 90% della popolazione, gli Han sono l’etnia dominante e principale, e per questo spesso immaginano, consciamente o inconsciamente, che la loro storia e le loro tradizioni culturali rappresentino quelle del popolo cinese. Come gruppo etnico principale, cercano di assimilare gli altri gruppi etnici in nome dello “Stato” o della “cittadinanza”.

Tuttavia, il significato moderno della parola “nazione” non è quello che intendiamo con il senso comune della parola “popolo”, gruppo di persone con usi, costumi e tradizioni religiose, come gli Han, i Manciù, i Tibetani, gli Uiguri , Mongoli, Miao, Dai, ecc. L’idea di “nazione” è intimamente legata al concetto di “stato”. Il popolo riunisce tradizioni storiche e culturali, ma ha anche elementi più recenti che sono emersi contemporaneamente al moderno stato-nazione e sono i suoi prodotti. Questa è la differenza fondamentale tra i cittadini moderni e le persone storiche.

Il “popolo cinese” non è un “popolo” nel senso in cui di solito si intende questo termine. La cittadinanza cinese è stata forgiata, come negli Stati Uniti, con l’apparizione dello stato moderno. Sebbene la nozione di popolo cinese definisca gli Han come soggetti, non sono l’equivalente del popolo cinese. La dinastia Qing creò uno stato multietnico più o meno nei contorni della Cina moderna, ma non tentò di forgiare un popolo cinese uniforme. L’emergere del concetto di popolo cinese arriva solo dopo la fine del periodo Qing, prima nelle discussioni di politici come Yang Du 杨度 (1875-1931) e intellettuali come Liang Qichao 梁启超 (1873-1929).

La Repubblica di Cina fondata nel 1911 era uno stato-nazione basato sul modello di una “repubblica dei cinque popoli”. Ciò significava che il popolo cinese non era limitato agli Han, né le tradizioni culturali storiche degli Han potevano essere utilizzate per creare una narrativa commemorativa e impostarle come standard per il futuro. La Cina premoderna era una Cina diversificata. C’era la Cina della civiltà Han, centrata sulle pianure centrali; c’era anche la Cina delle minoranze etniche delle praterie, delle foreste e degli altipiani. Insieme hanno plasmato la storia della Cina premoderna. I cinquemila anni di storia della Cina sono la storia di interazioni permanenti tra i popoli delle pianure e delle frontiere, i popoli agricoli e i popoli nomadi. Durante questa storia, i cinesi sono diventati barbari ei barbari sono diventati cinesi. Alla fine, cinesi e barbari si fusero in un flusso comune e, durante l’era Qing, permisero l’emergere di un moderno stato-nazione. Cominciarono a riunirsi come un corpo di cittadini noto come il popolo cinese.

È molto più difficile forgiare una cittadinanza multietnica che costruire uno Stato moderno. Il problema non sta nell’atteggiamento dell’etnia dominante, ma nel grado di identificazione delle etnie minoritarie con l’identità dei cittadini. Il professor Yao Dali 姚大力 (n. 1949), studioso delle aree di confine della Cina, ha osservato: “Apparentemente, le richieste estreme del nazionalismo etnico minoritario e del nazionalismo statale sembrano essere completamente antitetiche, ma in realtà sono quasi certamente le stessa cosa. La storia ci ricorda spesso che il nazionalismo statale nasconde il nazionalismo etnico del principale gruppo comunale in un dato stato.6.

Dai primi tentativi di costruire la cittadinanza durante la dinastia Qing fino ad oggi, gli Han sono stati spesso visti come l’equivalente del popolo cinese. L’Imperatore Giallo è considerato il padre della civiltà cinese. Dietro questo nazionalismo cittadino si nasconde il vero volto del nazionalismo etnico. La costruzione di una cittadinanza sulla base di un’unica etnia è destinata al fallimento, perché appena un Paese vive una crisi politica, le minoranze etniche oppresse si ribellano. Il crollo dell’impero sovietico è l’esempio più recente.

Fei Xiaotong ha sviluppato una concezione tradizionale del popolo cinese; lo caratterizza per una “unità nella diversità”. L’unità dei cittadini unisce il popolo cinese. “Diversità” si riferisce all’autonomia culturale reciprocamente riconosciuta e ai diritti all’autonomia politica posseduti da tutte le nazionalità e minoranze etniche. Sebbene l’Impero Manchu Qing non abbia cercato di creare una popolazione unificata, è riuscito a mantenere questa “unità nella diversità”. Ha reso possibile la diversità attraverso il rispetto della pluralità delle religioni e dei modi di governo. Ha raggiunto “l’unità” attraverso un’identità dinastica multietnica condivisa.

Questa “unità” non si basava sull’identificazione civica, ma piuttosto su una dinastia universale. Intellettuali Han, duchi mongoli, lama tibetani e capi tribù del sud-ovest riconobbero tutti il ​​monarca della dinastia Qing. L’unico simbolo di stato, l’imperatore Qing è stato chiamato con nomi diversi da popoli diversi. Gli Han lo chiamavano imperatore, i duchi mongoli lo chiamavano il Gran Khan, il capo dell’alleanza delle praterie, ei tibetani lo chiamavano Manjusri, il Bodhisattva vivente. Il nucleo dell’identità statale dell’Impero Qing poggiava su un’identità politica il cui simbolo era il potere monarchico. Questo potere si basava non solo sulla violenza, ma anche su una cultura multiforme. Quindi c’era davvero un monarca e molteplici espressioni culturali.

L'”unità” cinese creata dalla dinastia Qing della Manciuria non è più adatta all’era dello stato-nazione. Oggi la Cina ha bisogno di un’identità civica unificata. Eppure i problemi che emergono nelle regioni di confine e con le minoranze illustrano il fatto che non abbiamo ancora trovato il giusto equilibrio nella nostra politica di “unità nella diversità”. Nelle aree in cui avevamo bisogno di “unità”, abbiamo definito troppe eccezioni. Ad esempio, nel far rispettare la legge sulle minoranze etniche, siamo stati troppo indulgenti, il che ha generato risentimento tra gli Han che vivono nelle zone di confine. Nelle aree in cui avevamo bisogno di “diversità”, eravamo troppo “rigidi”. Per esempio, non abbiamo sufficientemente rispettato le credenze religiose e le tradizioni culturali delle minoranze etniche e non abbiamo applicato abbastanza il diritto all’autonomia nelle regioni minoritarie. Tutti questi comportamenti testimoniano una propensione allo sciovinismo Han.

Le minoranze etniche non erano obbligate a seguire la “politica del figlio unico” con la quale la Cina sperava di limitare la crescita della popolazione. Alcuni cinesi Han lo trovarono ingiusto.

La tensione tra diversità e unità è una preoccupazione comune a tutte le nazioni multietniche. Sono domande complesse a cui i sistemi democratici non offrono risposte semplici. Secondo alcuni liberali, la questione etnica è una falsa questione. Ritengono che finché le regioni minoritarie godranno di una reale autonomia e un sistema federale si sostituirà al potere politico centralizzato, la questione etnica sarà immediatamente risolta. Tuttavia, sappiamo dagli esempi passati in Cina e in altri paesi che le minoranze etniche a lungo oppresse, in caso di rivolte, utilizzeranno l’indebolimento del potere centralizzato per liberarsi e chiedere l’indipendenza. La nazione unita affronterà così una crisi di disintegrazione.

Va sottolineato che la nuova tianxia qui proposta da Xu Jilin ha per oggetto non il sistema “occidentale” che governerebbe il mondo attuale, ma il nuovo nazionalismo propugnato da molti intellettuali cinesi, nonché il Partito-Stato, che a lui cerca di recuperare il discorso tradizionale su basi errate. Pertanto, Xu Jilin ammette che la Cina gioca un ruolo più importante sulla scena internazionale, ma non come “l’unica civiltà” tra gli stati-nazione minori. La Cina è ormai parte della civiltà moderna (o postmoderna) e deve mostrarsi come tale e assumersi le proprie responsabilità.

In che modo, nel processo di democratizzazione, un Paese può prevenire il separatismo che porta alla disgregazione della nazione, pur garantendo rigorosamente l’autonomia culturale e politica delle minoranze? Chiaramente, un modello di governance nazionale unificata che ponga troppa enfasi sull’integrazione economica, politica e culturale farà fatica a risolvere questo problema intrattabile. Le esperienze di successo degli imperi premoderni con un sistema pluralistico di religione e governo possono ispirarci.

In Cina, il “patriottismo costituzionale” può garantire l’uguaglianza e il rispetto della legge per tutti gli individui, indipendentemente dalla nazionalità o dalla regione di origine. L’affermazione di questi principi rafforzerà l’identità nazionale di ogni gruppo etnico minoritario. L’identità dinastica tradizionale, che era basata sul simbolo del potere monarchico, deve trasformarsi in un’identità nazionale basata su uno Stato-nazione che ne rispetti la Costituzione.

Allo stesso tempo, dovremmo essere ispirati dalla tolleranza religiosa e dal tradizionale sistema di governo dell’impero, consentendo al confucianesimo di simboleggiare l’identità culturale del popolo Han, proteggendo al contempo le particolarità religiose, linguistiche e culturali delle minoranze. diritti e offrendo loro garanzie. L’espressione “un paese, due sistemi” non dovrebbe essere usata solo nei confronti di Hong Kong, Macao e Taiwan. Dovrebbe essere ampliato per diventare un principio guida di governance per le aree di confine autonome. Solo attraverso tali misure si può costruire l’ordine interno della nuova tianxia. Bisogna immaginare una nuova cittadinanza per il popolo cinese che sia insieme “unita” e “diversa”.

Dal 19° secolo, abbiamo assistito all’ascesa degli stati nazionali. La conservazione della sovranità nazionale è stata eretta come un interesse centrale. I confini sono stati chiaramente delineati sulla terra e nel mare… Il primato della sovranità nazionale che sta prendendo piede nella mentalità cinese dei cittadini e dei leader è molto diverso dal tradizionale pensiero tianxia. In Europa, i politici hanno imparato dalle lezioni delle due guerre mondiali e hanno cercato di ridurre il potere dello Stato. Le prime conquiste dell’Unione Europea hanno poi visto la luce nel contesto della globalizzazione. Al contrario, in Asia orientale (compresa la Cina) il nazionalismo ha conosciuto una rinascita senza precedenti con il rischio che emergano nuovi conflitti militari.

La nuova tianxia può servire da antidoto all’ascesa del nazionalismo? Lucien Pye (1921-2008), studioso cinese e politologo americano, una volta disse che la Cina era un impero di civiltà travestito da stato-nazione. Se siamo d’accordo con questo commento, la Cina oggi rimane un impero monarchico tradizionale nella misura in cui lo stato cinese riconosce la diversità culturale delle regioni e delle nazioni di confine. La Cina oggi usa i metodi dello stato-nazione per governare un enorme impero. Negli affari internazionali e nei conflitti in cui sono in gioco i suoi interessi, la Cina fa affidamento su una retorica che attribuisce il primato assoluto alla conservazione della propria sovranità nazionale.

L’ascesa della Cina ha sollevato preoccupazioni tra i suoi vicini. Temono che l’impero cinese rinasca e cercano di esercitare il dominio sulla regione. Gli stati dell’Asia orientale hanno così paura delle ambizioni cinesi che hanno chiesto agli Stati Uniti, uno stato imperialista, di essere coinvolti nell’Asia orientale per bilanciare il crescente potere della Cina. Di recente, in un articolo intitolato “Il significato dell’Asia orientale della teoria dell’impero cinese”, il professore coreano Yông-sô Paek ha osservato che: “L’impero premoderno della Cina non era suddiviso in diversi stati nazione. La Cina contemporanea ha mantenuto le caratteristiche dell’imperialismo medievale fino ad oggi. Allo stesso tempo, se consideriamo che il periodo moderno è caratterizzato da una rapida trasformazione da stato-nazione a impero, allora, in un certo senso si può dire che il carattere imperiale originario della Cina non solo non scomparirà, ma si rafforzerà. »7Anche se la Cina ripete che la sua ascesa è pacifica, perché non riesce a convincere i suoi vicini? Una delle ragioni principali è che l’ente imperiale cinese apprezza soprattutto il rispetto della propria sovranità nazionale. È un impero senza coscienza tianxia.

Sotto l’impero cinese tradizionale e la coscienza tianxia, ​​è stato promosso un intero insieme di valori universali che trascendevano l’interesse individuale. Questa coscienza universale traeva la sua fonte da un’etica morale e serviva da standard per misurare il bene e il male, limitando l’estensione del potere dei governanti e determinando la legittimità di una dinastia a governare. Al contrario, un impero senza coscienza tianxia significa che il corpo imperiale non è più guidato da valori universali. Esistono invece solo calcoli strategici che rispondono ad interessi esclusivamente nazionali.

Il concetto di modernità dall’Europa ha due dimensioni. Il primo, tecnico, mira a rafforzare e arricchire la nazione. Il secondo è legato ai valori, che sono al centro la libertà, lo Stato di diritto e la democrazia. Il primo riguarda la forza, il secondo la civiltà. Se guardi la pagella della Cina dopo mezzo secolo di emulare l’Occidente, si sta praticamente comportando come un bambino prodigio quando si tratta della dimensione tecnica. Ma quando si tratta di valori democratici, ha fallito. Ha persino completamente dimenticato il tradizionale discorso tianxia.

I portavoce del ministero degli Esteri cinese usano spesso le seguenti espressioni per descrivere le politiche interne della Cina: “Questa è una questione di politica interna, non permettiamo agli stranieri di interferire” o “Riguarda la sovranità e gli interessi fondamentali della Cina, come possiamo consentire ai paesi stranieri di intervenire?” In una società internazionale basata su principi comuni, la Cina resta estranea al discorso universalistico e si protegge invocando il primato della sua sovranità nazionale. L’impero cinese tradizionale ha accolto molti paesi alla sua corte nel corso degli anni, non perché i paesi vicini temessero la forza militare dell’impero, ma perché erano attratti dalla sua civiltà e istituzioni avanzate.

Il primato dell’interesse nazionale convincerà solo chi ne trarrà vantaggio; non ha mezzi per convincere l'”altro”. La grandezza del confucianesimo deriva proprio dalla sua capacità di trascendere gli interessi del singolo “piccolo personaggio” o di una dinastia. È al di sopra dello stato e porta i valori universali di tianxia, ​​che è il più grande dei “grandi sé”, il “grande sé” dell’umanità. Gli intellettuali cinesi del periodo del 4 maggio hanno perpetuato lo spirito tianxia che lega l’individuo all’umanità attraverso lo spirito internazionalista dell’era moderna.

Il ricercatore e linguista Fu Sinian 傅斯年 (1896-1950) formulò una nota espressione che riflette la filosofia degli intellettuali del 4 maggio: “Ad alto livello, riconosco solo l’esistenza dell’umanità. Certo, ‘io’ esiste nel mio piccolo mondo, ma le cose che mediano tra me e l’umanità, come le classi, le famiglie, le regioni e lo stato, sono solo idoli. »8Anche Liang Qichao, che fu il primo a introdurre il concetto di stato-nazione in Cina, e che alla fine della dinastia Qing difese ferocemente la supremazia assoluta dello stato-nazione, si arrese improvvisamente durante il Movimento del 4 maggio che ” il nostro patriottismo non può abbracciare la nazione e ignorare l’individuo, né abbracciare la nazione e ignorare il mondo. Dobbiamo fare affidamento sulla protezione della nazione per sviluppare al massimo le capacità innate di ciascuno e di tutti, in modo da dare un grande contributo alla civiltà globale dell’umanità”9.

Il movimento dei cittadini del 4 maggio era basato sull’internazionalismo. Gli studenti sono scesi in piazza non per combattere per ristretti interessi nazionali, ma piuttosto per difendere i valori universali. Piuttosto che usare la forza per far sentire le loro richieste, hanno basato la loro lotta sull’appello al rispetto dei principi universali. Era il cuore della coscienza patriottica tianxia del 4 maggio. Il concetto di stato-nazione arrivò in Cina dall’Europa attraverso il Giappone, e si intrecciava con il principio darwiniano della “sopravvivenza del più adatto”, tanto che alla fine della dinastia Qing era penetrato profondamente nella mentalità dei cinesi . Al contrario, gli intellettuali del 4 maggio hanno cercato di mettere in guardia dalle devastazioni della prima guerra mondiale e hanno cercato di usare l’internazionalismo come rimedio.

Mentre il nazionalismo avanza nell’Asia orientale, guidato dai politici e dall’opinione pubblica, la domanda è come superare la supremazia dello stato-nazione e trovare un nuovo universalismo per l’Asia orientale. L’instaurazione di un nuovo ordine pacifico è diventata una delle principali preoccupazioni di tutti gli intellettuali impegnati nell’Asia orientale. Il centro del mondo del 21° secolo si è già spostato dall’Atlantico al Pacifico. L’Asia orientale che si trova sulla sponda occidentale del Pacifico non può essere divisa. Deve trovare i mezzi per definire una comunità di destino condiviso.

La comunità del destino comune dell’Asia orientale era già visibile, dal XV al XVIII secolo, nella forma del sistema tributario centrato sulla Cina. Lo specialista mondiale dei sistemi Andre Gunder Frank (1929-2005), ha spiegato nel suo libro Re-orient: The Global Economy in the Asian Age, che un'”era asiatica” era prevalsa prima della rivoluzione industriale in Europa. Il tianxia e il sistema affluente cinese attorno al quale erano organizzate le sfere concentriche definivano l’ordine imperiale cinese.

Nel 21° secolo, nell’era della nuova tianxia, ​​bisogna immaginare un nuovo universalismo condiviso, decentrato e non gerarchico. Il sistema affluente ovviamente non è più idoneo. Tuttavia, alcuni fattori del sistema tributario possono essere integrati nel quadro delle relazioni interstatali della nuova tianxia, ​​a condizione che siano decentrati e non gerarchici. Il sistema tributario ha agito come una sorta di complessa rete etica, politica e commerciale. Era totalmente diverso dal dominio a senso unico che definiva l’imperialismo europeo. Nel sistema tributario non c’erano padroni o schiavi, sfruttatori e sfruttati, predoni e depredati. Il sistema cinese ha posto maggiore enfasi sugli interessi condivisi tra i paesi.

Storicamente, l’impero cinese ha utilizzato i vantaggi reciproci del sistema tributario per stringere alleanze con molti paesi, fino a quando non è riuscito a stringere relazioni pacifiche con ex nemici. Tianxia ha una sua civiltà, con la comprensione e il perseguimento di un ordine etico universale. L’impero cinese non aveva bisogno di nemici. Il suo obiettivo era limitare gli antagonismi al fine di costruire relazioni commerciali reciprocamente vantaggiose.

Se l’impero cinese aveva molti alleati, la Cina ora ha nemici ovunque. Alcuni conservatori dell’esercito cinese considerano addirittura che “la Cina è circondata da tutti i lati”. Resta da vedere se questi nemici sono reali o immaginari. Poiché la Cina eleva la propria sovranità nazionale a valore fondamentale, immagina di essere costantemente sotto attacco. Un’altra dimensione del problema è che, sebbene la “supremazia nazionale prima di tutto” sia ora una mentalità universale condivisa dai funzionari cinesi e dal popolo, e la gravità della crisi interna cinese richiede effettivamente la costruzione di una nuova identità nazionale comune, il nazionalismo cinese contemporaneo è stato svuotato del suo significato di civiltà, e non rimane altro che un simbolo enorme e vuoto. È quindi necessario creare nemici esterni per riempire questo vuoto interiore. Il fragile “noi” può così essere protetto dalla minaccia del minaccioso “altro”. È così che si stabilisce l’identità nazionale e statale cinese. Ciò ha reso le relazioni della Cina con i suoi vicini e con il mondo sempre più tese. In passato, Mao Zedong ha proclamato con orgoglio che “abbiamo amici in tutto il mondo”. Oggi la Cina si trova nella situazione opposta: aumentano le controversie con gli altri Paesi. In passato, Mao Zedong ha proclamato con orgoglio che “abbiamo amici in tutto il mondo”. Oggi la Cina si trova nella situazione opposta: aumentano le controversie con gli altri Paesi. In passato, Mao Zedong ha proclamato con orgoglio che “abbiamo amici in tutto il mondo”. Oggi la Cina si trova nella situazione opposta: aumentano le controversie con gli altri Paesi.

Nelle odierne società dell’Asia orientale, in particolare in Cina e Giappone, il sentimento nazionalista è in aumento. Le controversie su varie isole del Mar Cinese Orientale e Meridionale sono diventate aree strategiche che potrebbero scatenare una guerra in caso di incidente. La sovranità è chiaramente definita negli oceani? Nel mondo premoderno dell’Asia orientale, questo non era semplicemente un problema. Il professor Takeshi Hamashita 滨下武志 (n. 1943), un’autorità giapponese sul sistema dei tributi, ha osservato che: “Nella storia dell’Asia orientale, dal punto di vista della cooperazione territoriale, il mare doveva essere utilizzato da tutti. Il mare non poteva essere tagliato e doveva essere accessibile a tutti i marinai. Tuttavia, la prospettiva occidentale riguardo al mare era completamente diversa. I portoghesi e gli spagnoli consideravano il mare un’estensione della terraferma. Tuttavia, le normative occidentali non sono le uniche che esistono e sono state fonte di molti conflitti dall’inizio del periodo moderno.

Nell’Asia orientale storica, mentre il mare separava i paesi l’uno dall’altro, le acque erano comuni a tutti ed erano soggette a reciproco godimento. Il mare e le sue isole erano proprietà collettiva di tutti i paesi che vi avevano accesso. Così i popoli contadini percepivano il mare: solo in epoca moderna, quando i popoli marittimi dell’Europa in espansione cercarono di controllare le risorse del mare per interessi commerciali, imponendo così la loro egemonia sul mondo, che il mare era considerato come un’estensione della terra, come elemento di sovranità nazionale. Così il mare era scolpito e ogni centimetro quadrato di ogni isola era oggetto di conflitto. La logica dei popoli del mare europei ha determinato le regole delle relazioni tra i paesi.

Se consideriamo la sovranità rivendicata dagli Stati che hanno un lungomare in una prospettiva storica, questa affermazione non ha legittimità perché il mare non ha confini. Il diritto marittimo internazionale si basa ovviamente su una logica di potere, che consente e incoraggia la violenza per il controllo del mare, ma se usiamo un altro modo di pensare e ci affidiamo alla concezione tradizionale di mare comune di tianxia, ​​l’intelligenza ‘arretrata’ degli agricoltori può infatti fornire un metodo del tutto innovativo per risolvere i conflitti causati dalle regole dei popoli di mare ‘avanzati’. Nella proposta avanzata da Deng Xiaoping negli anni ’80 per risolvere il conflitto nell’isola di Diaoyutai (chiamata Senkaku in giapponese), “Evitare il conflitto, sviluppare collettivamente”, vediamo l’intelligenza del tianxia tradizionale. Tuttavia, sembra essere stato mantenuto solo il significato strategico della proposta. Tuttavia, la saggezza orientale che si nasconde dietro la tianxia fornisce nuovi principi per risolvere i conflitti internazionali che si svolgono negli oceani.

Sulla possibilità di una comunità di destino condiviso nell’Asia orientale

La costruzione della Cina come nazione di civiltà era intimamente legata all’ordine dell’Asia orientale. Il professor Yông-sô Paek ha osservato che: “se la Cina non fa affidamento sulla democrazia, ma cerca piuttosto di legittimare il proprio potere facendo rivivere la memoria storica di una grande unità, allora ciò che avrà fatto, c sarà seguire il moderno modello di modernizzazione in cui la forza trainante è il nazionalismo. Non sarà stata in grado di creare un nuovo modello in grado di superare questo limite. Quindi, sebbene la Cina voglia guidare un ordine nell’Asia orientale, ha difficoltà a ottenere la partecipazione volontaria dei paesi vicini”10.

Se la Cina riuscirà a stabilire un regime democratico e lo stato di diritto, come applicato negli Stati Uniti o in Inghilterra, ciò consentirà ai paesi vicini di avere più fiducia? Data la potenza e le dimensioni della popolazione cinese, diventerà una grande potenza in grado di dominare. Anche se diventa un “impero di libertà”, spaventerà i paesi vicini, soprattutto quelli piccoli. Corea e Vietnam sono due paesi indipendenti che si sono staccati dal sistema tributario dell’impero cinese. In quanto tali, sono particolarmente diffidenti nei confronti della Cina, che storicamente era il loro signore supremo. In nessun caso sarà disposto a diventare di nuovo uno stato vassallo della Cina, anche se la Cina si trasforma in una nazione democratica.

Tutto ciò suggerisce che ricostruire un ordine pacifico nell’Asia orientale non può essere così semplice come hanno suggerito alcuni liberali cinesi: non tutto può essere ridotto a una questione di riforma politica interna in Cina. Il desiderio di stabilire un ordine pacifico nell’Asia orientale è di per sé una degna causa. Il prerequisito per la sua realizzazione non è che la Cina diventi una democrazia in stile occidentale. Nonostante la Cina sia un Paese non democratico, con un ordine interno basato sullo stato di diritto e un fondamentale rispetto delle regole internazionali, è possibile che possa partecipare alla ricostruzione di un nuovo ordine in Asia orientale.

Nel suo saggio intitolato “Asia’s Territorial Order: Overcoming Empire, Towards an East Asian Community”, Yông-sô Paek sottolinea che storicamente l’Asia orientale ha conosciuto tre ordini imperiali: il primo era il tradizionale sistema tributario con al centro l’impero cinese ; la seconda è stata la Sfera di Co-Prosperità giapponese che ha sostituito la Cina come egemone nella prima metà del 20° secolo; il terzo era l’ordine della Guerra Fredda del dopoguerra stabilito nell’Asia orientale dalla Guerra Fredda11.

[Il mondo sta cambiando. Con la nostra serie “Dottrine della Cina di Xi Jinping”, delineiamo un tentativo di comprendere le profonde dinamiche che animano i pensatori cinesi contemporanei leggendole, traducendole. Se trovi utile il nostro lavoro e pensi che meriti supporto, puoi iscriverti  qui .]

Di recente, con l’ascesa della Cina, il “perno” americano verso l’Asia, ei tentativi del Giappone di ristabilire la sua posizione strategica, nell’Asia orientale è nuovamente sorto un conflitto imperialista per l’egemonia. Questo è il motivo per cui non è improbabile che negli anni a venire emerga un nuovo conflitto nell’Asia orientale. Come suggerisce il professor Paek, la missione comune di tutti i paesi della regione dovrebbe essere quella di rifiutare il centralismo dell’impero e stabilire una comunità con un futuro condiviso nell’Asia orientale basata sull’uguaglianza. Un moderno impero basato sulla supremazia dello stato-nazione, in cui la sovranità domina tutto, si basa su una logica egemonica, considerando i paesi vicini come sudditi. Imparare la pacifica convivenza e riconoscere la soggettività dell’altro è l’obiettivo della nuova tianxia. In effetti, questo obiettivo è il nuovo internazionalismo su cui dovrebbe essere costruita la comunità del destino comune nell’Asia orientale.

Un nuovo ordine di pace nell’Asia orientale richiede l’istituzione di un nuovo insieme di valori universali dell’Asia orientale. Con la fine della Guerra Fredda, l’Asia orientale ha perso ogni senso di identità, anche di tipo oppositivo. Sono rimaste solo alleanze o antagonismi basati su interessi nazionali. Le alleanze non erano basate sulla consapevolezza di valori comunemente condivisi ma su logiche opportunistiche. Da questi conflitti di interesse sono scaturiti gli antagonismi tra gli stati dell’Asia orientale: la lotta per il potere sulle risorse, il commercio e il controllo delle isole ne sono testimonianza. Poiché il mondo dell’Asia orientale non ha più valori universali, alleanze e conflitti sono tutti caratterizzati da disordine, variabilità e instabilità. I nemici di oggi sono gli alleati di ieri, e gli alleati di oggi potrebbero essere i nemici di domani. Dal punto di vista degli interessi, non ci sono nemici eterni, né amici eterni. Questo dramma dei “Tre Regni”, questi giochi infiniti, aumenta solo il rischio di guerra, rendendo l’Asia orientale una delle regioni più instabili del mondo.

Il riferimento è al celebre romanzo, Il romanzo dei tre regni三国演义, attribuito a Luo Guanzhong罗贯中, che ripercorre la storia dei conflitti e delle macchinazioni all’indomani della caduta della dinastia Han.

Il mondo dell’Asia orientale di oggi ricorda l’Europa della prima metà del XX secolo. L’apice degli interessi nazionali, in cui molti paesi hanno intrapreso strategie di confronto, ha portato allo scoppio di due guerre mondiali. L’Europa dopo la seconda guerra mondiale è stata segnata dalla riconciliazione di Francia e Germania, seguita dal lungo periodo della Guerra Fredda, per raggiungere finalmente l’integrazione europea all’inizio del XXI secolo. L’istituzione di una comunità in Europa si basava su due valori universali: la civiltà cristiana storicamente condivisa e i valori dell’Illuminismo del periodo moderno. Senza la civiltà cristiana e i valori universalisti dell’Illuminismo, sarebbe molto difficile immaginare un’Unione europea praticabile. Qualsiasi comunità costituita unicamente sulla base di interessi è sempre temporanea e instabile. Solo la condivisione di valori comuni consente l’instaurazione di un consenso e di una comunità duratura. Anche in presenza di conflitti di interesse, la negoziazione può portare a compromessi e scambi.

Per creare una vera comunità di destino comune nell’Asia orientale, non si possono usare interessi a breve termine, né vedere l’Occidente come l’altro attraverso il quale viene riconosciuto il sé. Questa comunità deve avere una dimensione storica ed essere istituzionalizzata. Da un punto di vista storico, la nozione di ordine comune dell’Asia orientale non è una nozione vuota. Il sistema storico tributario, i movimenti dei popoli, la sfera culturale definita dalla diffusione dei caratteri cinesi, il buddismo e il confucianesimo che si diffondono in tutta l’Asia orientale… tutti questi elementi danno legittimità storica alla comunità dell’Asia orientale.

Il filosofo e critico letterario giapponese Karatani Kôjin 柄谷行人 (n. 1941) ha sottolineato che “anche se le nazioni emerse da un impero comune possono avere forti antagonismi, possiedono comunque punti di convergenza religiosa e culturale. In generale, tutti i paesi moderni sono nati dalla dislocazione degli imperi globali. Così, quando minacciati da altri imperi mondiali, gli stati si sforzano di preservare l’unità che un tempo li legava nel vecchio impero. Questo è chiamato il “ritorno imperiale”12.

Tuttavia, questo non è un semplice ritorno al passato. Nell’era dello stato-nazione, sono necessari nuovi elementi per tentare di stabilire una comunità decentralizzata, persino anti-imperiale, di nazioni pacifiche. L’universalismo dell’Asia orientale deve essere ricostruito sulla base del patrimonio storico della regione. La nuova tianxia è precisamente un nuovo programma universalista che abbraccia e trascende la storia. Sviluppato dalla tradizione imperiale, ha caratteristiche culturali universali. Allo stesso tempo, si sforza di rifiutare il centralismo e la gerarchia dell’impero, preservando la diversità interna religiosa, istituzionale e culturale. Si potrebbe dire che è la rinascita di un impero deimperializzato, di una comunità interna pacifica, multietnica e transnazionale.

La comunità dell’Asia orientale del destino condiviso deve avere un’anima, un valore universale in attesa di essere inventato. Deve avere anche un organo istituzionale. La comunità non può semplicemente fare affidamento sulle alleanze tra le nazioni per formare un’unione pacifica che trascende lo stato-nazione. Ciò che è ancora più necessario è che gli intellettuali ei cittadini dell’Asia orientale si impegnino in un dialogo per consentire l’emergere di un “Asia orientale popolare”, che sarà più in grado degli Stati di superare le barriere tra i diversi Stati nazione. Questa “Asia orientale popolare” supererà la centralizzazione e le gerarchie, perché possederà essa stessa un comune senso di uguaglianza, diventando così la base sociale da cui emergeranno i nuovi valori universali dell’Asia orientale.

Rifiutando ogni forma di gerarchia e ponendo l’uguaglianza al centro delle sue preoccupazioni, la tianxia cerca di stabilire un nuovo universalismo “comunemente condiviso”. La tianxia storica ricorse ai metodi di governo imperiali per formare il suo corpo istituzionale. L’impero tradizionale è diverso dal moderno stato-nazione, che cerca di omogeneizzare e incorporare le popolazioni in un unico sistema. Nell’impero tradizionale, l’ordine interno onorava la diversità nella religione e nel governo istituzionale, e l’ordine esterno costituiva una rete politica, commerciale ed etica integrata, che poneva al centro i vantaggi reciproci del sistema retributivo, partecipando al commercio internazionale.

La tradizionale saggezza tianxia dell’impero può gettare luce sullo stato cinese contemporaneo: la logica unificata dello stato-nazione deve essere combinata con la diversità dei sistemi dell’impero, per garantire l’equilibrio. In sintesi, nelle regioni centrali della Cina dovrebbe essere attuata la politica di “un sistema, diversi modelli”; nelle regioni di confine si dovrebbe applicare “una nazione, culture diverse”; a Hong Kong, Macao e Taiwan si dovrebbe sperimentare “una civiltà, diversi sistemi”; nella società dell’Asia orientale si dovrebbe riconoscere “una regione, interessi diversi”; nella società internazionale dovrebbe essere sviluppato “un mondo, diverse civiltà”. In questo modo si può stabilire l’ordine interno ed esterno della nuova tianxia,

FONTI
  1. Per le opere in inglese di Zhang Weiwei, si veda, tra gli altri, China Wave: Rise of a Civilizational State (Hackensack, NJ: World Century Pub Corp, 2012); per Pan Wei, vedi Sistema occidentale contro sistema cinese (Singapore: East Asian Institute, National University of Singapore, 2010).
  2. Joseph Levenson, La Cina confuciana e il suo destino moderno . Xu cita la traduzione cinese.
  3. “滨下武志谈从朝贡体系到东亚一体化” (Takeshi Hamashi discute del sistema tributario di integrazione dell’Asia orientale) in Ge Jianxiong 葛剑雄, ed., 谁来决定我们是谁? (Chi decide chi siamo?), (Nanchino: Yilin chubanshe, 2013), p. 124.
  4. Vedi Xu Zhuoyun (Cho-yun Hsu) 许倬云, 我者与他者:中国历史上的内外分布 ( Sé e altro: Distinzioni tra interno ed esterno nella storia cinese ), (Pechino: Sanlian shudian, 2010).
  5. Qian Yongxiang 钱永祥, “主体如何面对他者:普遍主义的三种类型” (Come il soggetto tratta gli altri? Tre tipi di universalismo), in Qian Yongxiang, 普遍与牼殊的~政沩辩普遍与牼殊的~政沩辩普政沩辩发掘 (La dialettica dell’universale e del particolare: l’esplorazione del pensiero politico), (Taibei: Taiwan yanjiuyuan renwen shehui kexue yanjiu zhongxin zhengzhi sixiang yanjiu zhuanti zhongxin, 2012), pp. 30-31.
  6. Huang Xiaofeng黄晓峰, “姚大力谈民族关系和中国认同” (Yao Dali discute le relazioni etiche e l’identità cinese), 东方早报, 4 dicembre 2011.
  7. Yông-sô Paek, “Il significato dell’imperialismo cinese nell’Asia orientale”, Open Times 2014: 1.
  8. Fu Sinian 傅斯年, “新潮之回顾与前瞻” (Recensione e prospettive future per la “New Wave”) in Fu Sinian, 傅斯年全集 (Gli scritti completi di Fu Sinian), (Changsha: Hunan jiaoyu chubanshe, 2003), p. 297.
  9. Liang Qichao 梁启超, “欧游心影录” (Record di impressioni da un viaggio in Europa) in Liang Qichao, 梁启超全集 (Gli scritti completi di Liang Qichao), (Pechino: Beijing chubanshe, 1999), vol 5, p. 2978.
  10. Yông-sô Paek, “Regionalismo dell’Asia orientale: trascendendo l’impero, muovendosi verso una comunità dell’Asia orientale”, Ideas 3 (2006). comunità), Idee 3 (2006).
  11. Ibidem .
  12. Estratto dalla conferenza di Karatani Kojin all’Università di Shanghai “世界史之结构性反复” (L’inversione della struttura della storia mondiale), presentata l’8 novembre 2012.
CREDITI

Xu Jilin, “Nuova Tianxia: Ricostruire l’ordine interno ed esterno della Cina”, in Xu Jilin许纪霖 e Liu Qing刘擎, eds. Shanghai: Shanghai renmin chubanshe, 2015), disponibile anche online.

La traduzione inglese originale del testo è stata eseguita da Tang Xiaobing e David Ownby con Mark McConaghy. Può essere trovato nel libro Xu Jilin, Rethinking China’s Rise: A Liberal Critique, David Ownby , tradotto e curato da David Ownby, New York, Cambridge University Press, 2018 o sul sito web di Reading the China Dream .

Capire la dottrina della Cina di Xi Jinping, una conversazione con David Ownby, di DAVID OWNBY

La rivalità fra la Cina e gli Stati Uniti organizza il mondo. La Cina è ovunque e noi non ne sappiamo praticamente nulla. La struttura del nostro dibattito pubblico fa in modo che noi siamo molto più informati sulle dinamiche interne al partito socialista francese rispetto a come funziona il più grande partito al mondo, il Partito comunista cinese. L’ignoranza quasi assoluta del sistema politico cinese, della sua dottrina e delle sue tensioni ci impediscono di riflettere collettivamente a come posizionarci nel mondo che Xi Jinping ha intenzione di creare. Questo è un problema. 

Con la pandemia, la Repubblica popolare Cinese sembra essersi allontanata ancora di più e aver tagliato i ponti con il resto del mondo. A novembre, il XX° Congresso del Partito Comunista Cinese dovrebbe rieleggere Xi Jinping al potere. Mentre l’invasione dell’Ucraina concentra l’attenzione dei media sulla Russia, la vita intellettuale e politica cinese resta sconosciuta. 

Con il Grand Continent, abbiamo deciso di dedicare una nuova serie settimanale – La dottrina della Cina di Xi Jinping – coordinata dal sinologo David Ownby, professore all’Università di Montréal che ha appena tenuto una serie di corsi al Collège de France1, direttore di Voices from the Chinese Century2 e di Reading the China Dream3.

Una volta a settimana, pubblicheremo dei testi chiave, inediti in italiano, contestualizzati e commentati. Come spiega David Ownby: “La Cina è diventata una grande potenza, le idee cinesi sono importanti, quale che sia la loro qualità di fondo. Questa serie ha come scopo di aiutare il pubblico europeo a capirle.”

In questa serie pubblicheremo dei testi, inediti in italiano, tradotti e commentati da lei di “intellettuali pubblici” influenti nella Cina di Xi Jinping. Che cosa intende con questa formula?

Il concetto di intellettuale pubblico – establishment intellettuale secondo la formulazione inglese – può essere inteso in molte maniere. In questa serie, ci concentreremo soprattutto sugli accademici, spesso professori all’università, che, oltre alle loro pubblicazioni specifiche nell’ambito dei loro studi, scrivono anche con l’obiettivo di influenzare la politica del governo e l’opinione pubblica.

Questi intellettuali pubblici in Cina accettano le regole del gioco politico che vengono definite dalle autorità cinesi, il che non significa che fanno da pappagalli alla propaganda del Partito-Stato; al di fuori degli argomenti tabù – lo Xinjiang, Taiwan, Hong Kong, Tibet – c’è un forte dibattito, senza esclusione di colpi, che si svolge costantemente in CIna, e il mondo intellettuale non è poi così “armonioso” come desidererebbero lo autorità cinesi, ma neppure così totalitario come i media occidentali sembrano suggerire.

Ovviamente gli intellettuali pubblici molto raramente sono dei dissidenti, parola che per le autorità cinesi designa chi cerca attivamente di sovvertire il regime. Trovarsi fuori dal sistema i Cina porta a conseguenze severe: la prigione o l’esilio, la perdita quasi totale dell’influenza in Cina. Quindi, utilizzando diverse strategie di scrittura, gli intellettuali pubblici devono trovare dei metodi per segnalare alle autorità la loro fedeltà al progetto del Partito-Stato, pur essendo, con i loro interventi, dei fornitori di contenuti per un regime che molti vorrebbero vedere evolversi in un senso più democratico.

Che relazione hanno gli intellettuali pubblici cinesi con l’Europa e l’Occidente?

Anche se agli inizi del XX° secolo ci fu una grande rottura con la tradizione confuciana, l’immagine che gli intellettuali cinesi hanno di loro stessi rimanda sempre a una forma di continuità e di fierezza con una lunga tradizione percepita come specificatamente cinese.

Con l’allontanamento della Cina dall’ideologia e dalla rivoluzione e il rivolgersi verso il pragmatismo e lo sviluppo economico, lo status degli intellettuali dell’establishment cinese è passato da quello di “preti” al servizio della “chiesa” ortodossa del marxismo-leninismo in chiave maoista a quello di “professionisti” impegnati nel loro ambito, come avviene per gli intellettuali di tutto il mondo.

Gli intellettuali cinesi hanno cominciato a essere influenzati dalle correnti di pensiero esterne. Ormai molto spesso hanno ricevuto una parte della loro educazione in Occidente, specialmente nelle grandi università degli Stati Uniti. Oggi in Cina quasi tutti gli intellettuali pubblici pensano con concetti, categorie o riferimenti che vengono dall’Occidente. Anche chi sostiene il regime di Xi Jinping utilizza le nostre categorie e cita autori occidentali.

Possiamo sorprenderci di come una parte di questi intellettuali usi Carl Schmitt… Carl Schmitt è diventato un riferimento, soprattutto per la Nuova Sinistra, ma l’influenza delle idee occidentali è allo stesso tempo più vasta e più anodina. I Liberali analizzano il movimento Black Lives Matter con dei libri di Samuel Huntington, come “L’incontro delle civiltà”, un libro del 2004 dove dice che gli Stati Uniti perdono la loro identità anglosassone e quindi il loro consenso politico a causa dell’immigrazione di massa, Gan Yang rivisita i testi originali in Greco e in Latino per commentare la trappola di Tucidide, Yao Tang costruisce un “liberalismo confuciano” in risposta alle teorie di Rawls. Non si tratta quindi di riferimenti di nicchia o di autori citati solo per mostrare l’erudizione degli intellettuali cinesi. Ne hanno assorbito il canone…

Questo movimento fa parte della relazione della Cina con l’Occidente dalla fine del XIX° secolo, ma il tutto ha acquisito velocità dopo la stagione di riforme e di apertura.

Questo movimento è abbastanza nuovo. Al punto che talvolta diventa difficile identificare negli scritti dei più importanti intellettuali cinesi contemporanei gli elementi specificatamente cinesi. Anche chi oggi difende un marxismo-leninismo ortodosse, passa da concetti occidentali. Un buon numero di intellettuali cinesi parlano e soprattutto leggono correntemente l’inglese. Essere un buon intellettuale nella Cina di oggi significa essere cresciuto in un mondo globalizzato.

Si tratta di un cambiamento radicale rispetto alla guerra fredda…

Durante la guerra fredda, eravamo abituati a vedere la relazione fra gli intellettuali e le autorità nei regimi comunisti come qualcosa di conflittuale. Ogni intellettuale degno di questo nome era contro il regime e a favore della democrazia, il che ha dato un ruolo fondamentale alla storia della dissidenza e ai dissidenti.

Questa storia esiste ancora in Cina: i soli intellettuali conosciuti fuori dalla Cina sono dei dissidenti come Ai Weiwei e Liu Xiaobo. Ma oltre questo mondo – piuttosto ristretto – dei dissidenti esiste un altro vasto mondo di intellettuali pubblici che sono più importanti dei dissidenti, per la Cina stessa e per i nostri tentativi di capire la Cina.

Per quale motivo?

Gli intellettuali e le idee sono importanti perché la Cina è alla ricerca di una nuova fonte di legittimità politica dopo la morte di Mao e la sua adesione alle “rivoluzione continua”.

Deng Xiaoping ha portato come bandiera il progresso materiale, le riforme, l’apertura e lo sviluppo economico stupefacente della Cina dopo gli anni 1980 sono testimoni della “saggezza” della sua visione. Tuttavia, malgrado le centinaia di milioni di cinesi che non vivono più in povertà negli ultimi decenni, malgrado la trasformazione completa del paesaggio urbano cinese, dei dubbi profondi persistono sull’identità e sul futuro della Cina. Sempre più ci si chiede: quando la Cina avrà sconfitto l’Occidente al suo proprio gioco, diventando la nuova superpotenza planetaria, che cosa ne sarà della “Cina” e della “civiltà cinese”? Gli intellettuali pubblici hanno un ruolo importante nel cercare di rispondere a queste domande.

In che senso?

Negli anni 1980, nonostante delle importanti divergenze di opinioni nello spettro intellettuale e politico, la maggior parte degli intellettuali, anche in Cina, si aspettava che la Cina divenisse una sorta di democrazia. Forse non una democrazia liberale, forse non una democrazia che avrebbe seguito il principio di “una persona, un voto”, ma qualcosa di molto diverso dal modello autoritario/totalitario che caratterizzava la politica cinese dalla rivoluzione del 1949.

Il massacro di Tienanmen e la dissoluzione dell’Unione sovietica hanno posto in dubbio la fede nell’ineluttabilità della democrazia, poiché hanno fatto intravedere che inseguire libertà e democrazia potevano condurre al caos. Il Partito-Stato ha risposto a questa sfida con una serie di misure che hanno come obiettivo una riforma del mercato e della competitività mondiale e, allo stesso tempo, il rafforzamento del regime autoritario. Queste decisioni hanno distrutto il debole consenso “liberale” che aveva caratterizzato gli anni 1980, aprendo al contempo la finestra per un dibattito serio nella comunità degli intellettuali pubblici.

Come si è configurato il dibattito cinese dopo il massacro di Tienanmen?

I “liberali” che avevano dominato le discussioni negli anni 1980 si sono divisi in più gruppi in concorrenza. Alcuni sostenevano che la riforma del mercato non avrebbe solamente reso l’economia più dinamica, ma avrebbe anche fatto scomparire le vestigia dell’autocrazia feudale (e maoista) della Cina, sul piano politico e sociale.

Altri temevano che le forze di mercato avrebbero creato un nuovo capitalismo di convivenza, principalmente oligarchico, che avrebbe arricchito lo Stato e i grandi capitalisti alle spese del popolo. Simili preoccupazioni avevano fatto nascere la “Nuova Sinistra”, un gruppo di intellettuali non liberali che si proponevano di rinnovare il socialismo tramite una lettura creativa  delle tradizioni socialiste e maoiste, unite a un’adesione al post-modernismo occidentale e alla teoria critica.

A destra, un gruppo di intellettuali conservatori dal punto di vista culturale, conosciuti sotto il nome di “nuovi confuciani” denunciava insieme i liberali e la nuova sinistra, insistendo sul fatto che la tradizione cinese, reinventata correttamente, forniva già tutte le risposte che la Cina aveva bisogno per trovare una via stabile per il suo futuro sviluppo. Questi gruppi hanno preso parte a dibattiti dai tratti feroci duranti tutti gli anni 1990.

Questo dibattito continua anche quando Xi Jinping arriva al potere nel 2012?

Assolutamente sì. Anche se i temi e il contesto politico sono cambiati in Cina e a livello mondiale. Agli inizi del XXI° secolo, le riforme e l’apertura hanno prodotto la crescita impressionante della Cina, e si è diffusa l’idea che il ritorno della Cina allo status di grande potenza era un evento mondiale di proporzioni storiche, che avrebbe inaugurato un’era di cambiamenti fondamentali, equivalenti a quando le monarchie hanno fatto spazio alle democrazie o a quando gli Stati Uniti hanno ereditato dalla Gran Bretagna la leadership mondiale. Questo ha spinto gli intellettuali a ripensare i miti fondatori della loro comprensione del passato, del presente e del futuro della Cina e del mondo.

La fiducia nascente della Cina è stata rinforzata dal declino apparente della democrazia liberale occidentale: il blocco del Congresso americano, la crisi finanziaria mondiale del 2008 (come risultato dell’incapacità del governo americano a regolare il settore finanziario), la Brexit e la crescita del populismo in Europa, l’elezione di Donald Trump, il fallimento delle guerre senza fine in Medio Oriente…

E in questo contesto che il presidente cinese Xi Jinping, all’inizio del suo mandato nel 2012, ha parlato di “sogno cinese” (zhongguo meng), insistendo sul rinascimento del grande popolo – la nazione cinese -, come obiettivo strategico di lungo periodo del Partito comunista sotto la sua direzione.

Non si tratta invece di uno strumento di propaganda, di uno vuoto slogan politico?

Il “sogno cinese” è uno slogan politico. Se sembra uno slogan vuoto, è perché il contenuto di questo sogno non è stato specificato e molti intellettuali sono stati più che felici di proporre ciò che mancava.

Da un lato, “il sogno cinese” vuole sfidare “il sogno americano” e suggerire che la crescita della Cina le farà superare gli Stati Uniti, restituendole lo spazio che le appartiene di diritto in quanto potenza mondiale. Tenendo conto dei progressi materiali spettacolari della Cina nell’ultimo decennio, la realizzazione del “sogno cinese” sembra un orizzonte di prosperità possibile per la classe media cinese.

D’altra parte, Xi Jinping vuole che il “sogno cinese” sia specificatamente cinese – anche se può essere un modello per il resto del mondo. Consolidando il suo potere, Xi ha fatto appello a un ritorno all’ideologia che disciplini il partito e motivi il popolo. Questa ideologia deve fondere lo spirito comunista con la ricchezza della civiltà confuciana tradizionale.

Che risposta danno gli intellettuali pubblici a questa proposta?

Gli intellettuali pubblici cinesi hanno risposto con entusiasmo allo sviluppo della Cina e, con poche eccezioni, al “sogno cinese”. La possibilità che la Cina potesse ritrovare il suo status di grande potenza senza essere completamente occidentalizzata è stata, per molti, un’idea elettrizzante, ricca di potenziale per ripensare le basi della modernità.

Il sospetto, nato nel “secolo dell’umiliazione” della Cina, secondo il quale la Cina potrebbe essere inferiore all’Occidente, si fa sempre più raro, rimpiazzato dalla speranza che la legittimità che la Cina cerca dall’era delle riforme e dell’apertura è a portata di mano. Di conseguenza, e malgrado le misure di repressione di Xi Jinping rispetto alla diversità ideologica, la vita intellettuale cinese dallo sviluppo della Cina in poi è particolarmente dinamica, poiché i pensatori concorrono per fornire un contenuto al sogno cinese di Xi Jinping.

Come si è trasformato il ruolo degli intellettuali nel corso di questo periodo? Che ruolo viene lasciato loro da Xi Jinping, dal momento in cui il “pensiero di Xi Jinping” è scolpito dal 2017 nella Carta del Partito comunista cinese, vicino al pensiero di Mao Zedong e alla teoria di Deng Xiaoping?

Dal suo arrivo al potere, Xi Jinping si è trovato confrontato con un pluralismo intellettuale pericoloso per lui, perché si poteva coniugare pluralismo intellettuale e pluralismo politico? Dall’inizio del suo mandato cerca di imporre una disciplina ideologica e intellettuale che ricorda un po’ l’epoca di Mao. Ma il partito non ha più lo stesso livello di controllo, ed esiste tutto un mondo di giornali, riviste, libri e siti web in Cina che sono alla costante ricerca di contenuto “da vendere”.

Se quindi da un lato la vita delle idee in Cina ristagna un po’ rispetto agli anni 2000 e che molti intellettuali si sono fatti più moderati, la maggior parte continua a scrivere senza menzionare Xi Jinping e il suo pensiero. Allo stesso modo, lo sviluppo della Cina nel corso degli ultimi decenni ha creato delle forze economiche che rischiano di sfuggire al controllo del Partito-Stato, anche le “forze intellettuali” hanno la loro indipendenza.

Come si è evoluta la definizione del sogno cinese durante la pandemia da Covid-19?

Come sappiamo, le origini della pandemia si trovano in Cina. Ma il modo in cui la Cina ha messo in campo risorse per controllare la pandemia ha confortato i cinesi nell’idea che il loro governo sia superiore a quello che si può trovare altrove. La gestione della prima ondata da parte di XI Jinping ha aumentato la legittimità del partito. I Cinesi hanno potuto vedere con i loro occhi il costo disastroso della libertà. Il loro regime era superiore, più efficace.

Da meno di un anno, il resto del mondo ha però preso un’altra decisione, quella di vivere con il virus. La Cina, per ragioni largamente politiche, è rimasta sulla politica di tolleranza zero, che diventa sempre più difficile da difendere per più ragioni. La Cina vive del commercio estero. Di conseguenza, quando chiude le sue frontiere e limita il numero di persone che possono essere accolte, si da la zappa sui piedi, mettendosi in difficoltà. I Cinesi sono coscienti del terribile impatto della pandemia sulla loro economia. I coprifuoco molto stretti come quello che si è svolto a Shanghai sono sempre più difficili da far accettare dalla popolazione cinese.

La politica zero-covid è un disastro economico, sembra sempre meno giustificata per delle ragioni sanitarie e ha un costo politico sempre più evidente. Perché allora gode di un’inerzia così grande?

Qualche mese fa, la politica di tolleranza zero verso il Covid era giustificata dal governo cinese per il fatto che molti anziani in Cina non avevano il vaccino. C’era dunque un rischio che numerosi Cinesi morissero. Se negli Stati Uniti di Donald Trump l’idea di lasciar morire centinaia di migliaia di persone a causa del Covid era comprensibile nel discorso pubblico o in un contesto liberale o libertario, in Cina il governo ha una forte responsabilità nel proteggere la salute della popolazione. Se si immagina che la Cina abbandoni la sua politica zero-covid e che il Covid faccia disastri come ha fatto nel mondo negli ultimi anni, lo svolgimento del Congresso potrebbe essere messo in discussione. Xi Jinping però vuole a tutti i costi ottenere il suo terzo mandato. Il suo potere è abbastanza solido ma se dovesse esserci un aumento del numero dei morti, questo indebolirebbe la sua posizione e dovrebbe risponderne alla popolazione cinese. Sicuramente ciò non sarebbe sufficiente a indebolirlo a tal punto da lasciare il suo posto, ma potrebbe avere conseguenze abbastanza difficili da gestire in un momento delicato per lui. Si tratta quindi di una questione molto politica. E’ facile pensare che dopo il XX° Congresso del Partito comunista cinese in autunno il regime abbandonerà progressivamente la politica zero-Covid.

Il XX° Congresso del partito comunista a novembre sarà un momento cruciale dei prossimi mesi. La riconferma di Xi Jinping le sembra probabile? Che cosa significa la soppressione del limite di mandati riguardo ai progetti di Xi Jinping e più in generale per il regime politico cinese?

E’ una questione molto importante. Ammetto di non conoscere esattamente quali assi politici Xi Jinping abbia nella manica. Pensavo che la Cina avesse imparato la lezione della storia e dell’esperienza di Mao Zedong. Per altro, non sono davvero convinto che l’insieme della popolazione cinese pensi che la sua riconferma sia una buona idea. Gli intellettuali pubblici non mostrano alcuna forma di resistenza ma c’è chiaramente poco entusiasmo.

Come si esprimono queste esitazioni?

Xi Jinping ha investito molto sul suo pensiero e sugli sforzi per imporre più disciplina. La maggior parte degli intellettuali cinesi però non sono troppo convinti e continuano a proporre piste alternative, come per esempio un liberalismo-confuciano. Ci sono molti dibattiti. Se Xi Jinping lascia intendere che la linea è chiara e il quadro ben definito, gli intellettuali non sembrano così convinti.

La Cina è molto meno libera rispetto a prima dell’ascesa di Xi Jinping. Nei primi anni del XXI° secolo si poteva leggere, in pubblicazioni importanti, che la rivoluzione aveva perso il suo significato e che bisognava inventare qualcosa di nuovo. Gli stessi dibattiti presenti prima dell’arrivo di Xi Jinping continuano ma sono più moderati e discreti. Xi Jinping crede di aver trovato la formula che determinerà la direzione della Cina e del mondo. Tuttavia, non sono sicuro che riuscirà a convincere il semplice cittadino cinese.

Per quali motivi?

Credo che riguardi gli effetti della politica di riforme e di apertura sulla mentalità degli intellettuali cinesi. Pensano con categorie e concetti occidentali. Sotto Mao Zedong, c’era un solo linguaggio: quello dello Stato-Partito. Gli intellettuali dovevano utilizzarlo nei loro scritti. Dalla politica di riforma e apertura in poi, hanno imparato a parlare e a pensare diversamente, come gli occidentali. Un buon numero di intellettuali è giunto alla conclusione che l’ideologia di Xi Jinping sia obsoleta. La Cina è divenuta ricca e potente grazie alla mondializzazione. Tuttavia, il regime continua a impiegare un vocabolario marxista-leninista. Mi è capitato di tradurre diversi testi di un intellettuale cinese, Yuan Peng, grande specialista delle relazioni internazionali, soprattutto sino-americane. Quando scrive in quanto intellettuale pubblico, scrive più o meno come tutti, in uno stile accessibile. Poi un giorno scopro un testo in cui parla di sicurezza nazionale, un concetto veicolato costantemente da Xi Jinping dal suo arrivo al potere. In esso, Yuan Peng ha dovuto esprimersi in un registro differente, scrivendo in quanto membro del partito comunista cinese con lo stile e la lingua della propaganda. Per me, quel testo era quasi illeggibile. Ci sono uno stile e un vocabolario che sono propri della lingua del Partito-Stato e una lingua propria degli intellettuali. Gli slogan scompaiono nella lingua degli intellettuali. A volta, la lingua del Partito-Stato mi ricorda le messe in latino. Pur avendo i cattolici abbandonato l’uso del latino, la Chiesa ha continuato a utilizzarlo. In Cina c’è una situazione simile. Penso che la maggior parte degli intellettuali cinesi che sostengono il regime in maniera generale preferiscano di gran lunga che il regime volti pagina in termini di ideologia, sia per la sopravvivenza del regime, sia per il resto del mondo.

Molti intellettuali si rammaricarono dell’innalzamento della tensione fra Cina e Stati Uniti all’inizio della pandemia. Il fatto che la Cina continui a presentarsi come un regime comunista non gli permette di farsi molti alleati nel mondo. Di fatto, tutti gli Stati che sono favorevoli alla Cina non lo sono per delle ragioni ideologiche ma per delle ragioni materiali. Anche se gli intellettuali cinesi aderiscono al messaggio dietro la parola politica di Xi Jinping, pensano sovente che bisognerebbe trovare una nuova formulazione. Bisognerebbe rivedere il marketing del linguaggio di Xi Jinping per far sì che i Cinesi possano capire il messaggio politico dei loro dirigenti.

La guerra in Ucraina ha dato nuova linfa al fronte occidentale che sembrava sempre più disunito. La Cina da parte sua occupa una posizione ambigua di sostegno più o meno implicito rispetto alla Russia. Come viene interpretata questa dinamica in Cina?

Appena dopo l’invasione russa dell’Ucraina, decine di testi sono stati pubblicati per appoggiare la posizione del governo cinese, secondo la considerazione che la minaccia della NATO giustificava questa guerra. Tuttavia altri testi, che scopriremo in questa serie di pubblicazioni, hanno sollevato dei dubbi sul gesto russo. Questo ragionamento mi interessa. Molti intellettuali considerano che l’intervento in Ucraina non abbia alcun senso strategico. Putin è riuscito a ricostruire un’alleanza della maggior parte dei paesi sviluppati contro di lui. Si tratta di un potere in declino. La domanda che viene posta è quella del sostegno cinese. Una parte degli intellettuali avrebbe senza dubbio preferito che la Cina si fosse distanziata dalla Russia, ma si tratta di una questione abbastanza delicata. Non possono dire a chiare lettere che il sostegno della Cina alla Russia non ha senso ma pongono diverse domande. Penso però che la popolazione cinese sposi la linea del regime.

Vede dei paragoni con la situazione di Taiwan?

Assolutamente sì. Gli intellettuali non parlano di Taiwan. E’ un argomento tabù ed è raro vedere degli intellettuali scrivere delle cose interessanti su Taiwan. Io penso che la maggior parte dei Cinesi siano d’accordo con l’idea che Taiwan sia parte della Cina. Se però pochi sostengono l’indipendenza di Taiwan, questo non vuol dire che la maggior parte sia favorevole a una campagna militare. La maggior parte dei nazionalisti in Cina pensano che la fine dell’indipendenza di Taiwan sia inevitabile perché la considerano una verità storica. Tuttavia, sono altrettanto convinti che un simile intervento rischi di mettere in pericolo tutto ciò che la Cina ha raggiunto negli ultimi quarant’anni. Molti pensano che l’alleanza contro la Russia possa ricostruirsi se la Cina agisse contro Taiwan. La mia impressione è che gli intellettuali siano ampiamente convinti che la Cina debba adottare una postura moderata a proposito di Taiwan e dell’Ucraina. Se non ci fosse stata nessuna reazione europea dopo l’invasione russa, se i russi fossero arrivati a Kyiv, penso che la Cina avrebbe potuto farsi altre idee. Ma i risultati sono molto più ambigui – il che sembra incitare a essere moderati.

NOTE
  1. “La montée en puissance de la Chine et la réponse des intellectuels publics chinois”, Cours au Collège de France, Année 2021-2022 https://www.college-de-france.fr/site/anne-cheng/p482230892072591_content.htm
  2. Voices from the Chinese Century, Public Intellectual Debate from Contemporary China Edited by Timothy Cheek, David Ownby, and Joshua A. Fogel, New York, Columbia University Press, 2019
  3. https://www.readingthechinadream.com/about.html

https://legrandcontinent.eu/fr/2022/08/22/comprendre-les-doctrines-de-la-chine-de-xi-jinping-une-conversation-avec-david-ownby/

I cinesi sono ora alla testa della locomotiva. E non hanno intenzione di perdere di nuovo, di Simone Pieranni

I cinesi sono ora alla testa della locomotiva. E non hanno intenzione di perdere di nuovo l’appuntamento con la storia.

Cos’è WeChat?

Dopo anni in cui la Cina ha imitato tutto ciò che è prodotto in Occidente, ora è l’Occidente che guarda alla Cina per nuove idee.

Mentre faccio colazione a casa, controllo WeChat per le notizie del giorno. Quindi esco e, attraversato l’ hutong (nome dato ai vecchi vicoli della capitale sopravvissuti ai tanti cambiamenti in atto in città) prenoto un taxi con WeChat per andare a un incontro in un bar in cinese quartiere dello shopping di elettronica della capitale. All’interno del bar, utilizzando il WeChat ID, metto in carica il mio smartphone in apposite cabine all’ingresso del locale, e incontro la persona con cui ho appuntamento. Poi prendo il mio smartphone e pago i miei consumi con WeChat. Ho fame. Non appena esco dal bar, cerco nell’app un ristorante mongolo nelle vicinanze, uno dei miei piccoli piaceri a Pechino. WeChat me ne mostra uno a poche centinaia di metri dalla mia posizione, all’interno di un centro commerciale. Quando arrivo, mi infilo in coda.

Nel frattempo compro online i biglietti del cinema per il giorno dopo, e pago a qualcuno quello che gli devo, sempre con WeChat. Dopo l’appuntamento esco e mi fermo davanti a un piccolo baracchino gestito da una coppia di cinesi del sud, compro i ravioli che pago con WeChat, grazie al QRcode appeso accanto alla porta che porta in cucina. Poi, con WeChat, prenoto un biglietto del treno per Shanghai e una stanza in hotel. Infine, vado a un evento in uno dei grattacieli Jianguomen, che si trovano su entrambi i lati della strada che porta a Piazza Tienanmen . L’invito mi è stato inviato da un amico tramite WeChat, mentre ero ancora in Italia: nella nostra chat, posso trovare il luogo del nostro incontro, il biglietto elettronico e la ricevuta di pagamento (che ho salvato apposta, sempre su WeChat – che ti aiuta anche a gestire i tuoi account). Arrivato sul posto, scannerizzo il QRcode e ricevo tutta la documentazione relativa all’evento (una conferenza sui rapporti tra Cina e Stati Uniti). Oltre alla documentazione, mi ritrovo automaticamente aggiunto ad una conversazione di gruppo con tutti i presenti (inserisco i contatti grazie ad una funzione speciale di WeChat, che rende più semplice la gestione di tutte queste informazioni).

Al termine della conferenza, cenerò con alcuni dei partecipanti. Improvvisamente, tutti i nostri occhi sono sugli schermi dei nostri cellulari: WeChat richiede un aggiornamento per le nostre informazioni. Ed eccoci qui: un intero tavolo impegnato nella loro migliore posa selfie per consentire a WeChat di aggiornare i propri dati biometrici. Alla fine della cena, WeChat divide il conto per noi. Sulla via del ritorno, ripenso al mio incontro mattutino: nel quartiere dei negozi di elettronica, nell’area delle start-up di intelligenza artificiale, ho incontrato un giovane manager cinese. Ad un certo punto della nostra conversazione, toccando l’ennesimo esempio di come WeChat fa risparmiare tempo e denaro (file in banca, uffici statali, cinema e molti altri luoghi), gli ho chiesto in cosa secondo lui si spendeva tutto quel tempo. “Probabilmente al cellulare,” rispose con un sorriso. In effetti, in un’intera giornata, non ho usato una volta un portafoglio, un’e-mail o un browser Internet. Quando trovo il mio computer a casa, appoggiato sul tavolo della cucina, per me è solo una semplice macchina da scrivere, ma meno rumorosa. Prima di addormentarmi, un’ultima cosa: ordino una tazza di tè (consuetudine di tutte le case cinesi) per il giorno dopo, ovviamente tramite WeChat . Tutto il giorno, non ho mai lasciato WeChat. E questo per un semplice motivo: in Cina lo smartphone è WeChat.

WeChat (“  Weixin  ” in mandarino) è un’applicazione, una “super-app” come viene spesso definita, grazie alla quale in Cina, come mostra il corso della giornata appena descritto, è possibile fare di tutto. È diventata una presenza totalmente pervasiva nella vita quotidiana dei cinesi. Grazie alla sua massiccia diffusione, la super-app cinese ha iniziato a diventare interessante, per la quantità di dati che produce e contiene, non solo per il Partito Comunista Cinese (PCC), ma anche per Facebook, il social network più famoso. e più diffuso nel mondo occidentale. Secondo The Economist , non ci sarebbero dubbi: Facebook aspirerebbe a diventare la “WeChat of the West”. Zuckerberg, che parla un ottimo mandarino, e la cui moglie, Priscilla…Chan, nata da genitori di etnia Hoa, minoranza sino-vietnamita di lingua cantonese, non ha solo un interesse personale e culturale per la Cina.

Negli ultimi anni, infatti, ha visitato la Cina con una certa regolarità con uno scopo preciso: capire meglio come funziona l'”applicazione delle applicazioni”, ed estrarre da questo modello cinese vincente strategie e idee da applicare su Facebook (e altri social network di proprietà del gruppo Facebook, inclusi Instagram e WhatsApp). WeChat, infatti, segue un modello di business che permette di generare molti soldi, in modo più vario rispetto a quello di Facebook, e di monetizzare (e raccogliere) dati in modo molto più redditizio. Mark Zuckerberg è anche interessato ad alcuni aspetti di WeChat, come la messaggistica diretta, la gestione dei big datae, soprattutto, la possibilità di mantenere gli utenti in un “mondo” WeChat. Non è un caso che Zuckerberg, nel marzo 2019, abbia commentato l’articolo What Facebook Could Learn From WeChat , di Jessica E. Levin, pubblicato su Facebook nel 2015, scrivendo: “Se solo avessi ascoltato il tuo consiglio quattro anni fa…”.

L’interesse del più grande social network occidentale per WeChat mostra che siamo alla fine di un’avventura e sull’orlo di un nuovo mondo: dopo anni di imitazione da parte della Cina di tutto ciò che è stato prodotto in Occidente, ora è l’Occidente che guarda alla Cina per trovare nuove idee e nuovi usi per le sue “invenzioni”. La Cina ha ripreso il suo posto al centro di questo nuovo mondo, come suggerisce il nome, Zhongguo (中國) letteralmente un “paese di mezzo”.

Per i cinesi, questa non sarebbe una novità. Gli europei iniziarono a conoscere la Cina a partire dal II secolo aC, quando la seta iniziò ad affluire nei mercati dell’Asia centrale prima, poi di tutto il Mediterraneo, fino a far letteralmente impazzire i romani, innamorati di questo prezioso tessuto di una terra così lontana. È una storia ben ricordata dai cinesi: l’apertura di quelle rotte commerciali che sarebbero diventate famose come la “Via della Seta”, e poi sfociate nelle imprese di esploratori, geografi e archeologi, impegnati a depredare la ricchezza culturale delle attuali regioni dello Xinjiang e Gansu. A Pechino il mondo era allora diviso in due: da una parte i cinesi, dall’altra i “barbari”, cioè il resto del mondo, compresi gli europei. I primi gesuiti che riuscirono ad arrivare nell’Impero rimasero stupiti dal grado di sviluppo del paese. Nel 18° secolo, secondo Kant, la Cina era “l’impero più colto del mondo”.

Ma nel tempo questo luogo amministrato da mandarini, selezionati per concorso, finì per diventare terra di conquista dei “barbari”. Approfittando delle debolezze dell’impero cinese, incapace alla fine del XIX secolo di far fronte al progresso occidentale derivante dalla rivoluzione industriale, questi “barbari” si stabilirono nel cuore del potere cinese, espropriando il territorio della sua ricchezza e di intere regioni attraverso l’oppio, le armi, i sotterfugi e le infamie come i famosi “trattati ineguali”. La Cina è diventata la persona malata dell’Asia; ha attraversato la sua fase storica più umiliante. Nel profondo del cuore di ogni cinese, qualcosa di tutta questa storia è rimasto. Oggi i cinesi ripropongono le antiche Vie della Seta come simbolo dell’epoca che cambia a cui stiamo assistendo, dello spostamento da Ovest a Est del centro del potere economico e tecnologico: ora sono alla testa della locomotiva. E non hanno intenzione di perdere di nuovo l’appuntamento con la storia.

https://legrandcontinent.eu/fr/2020/07/07/wechat/

 

 

 

LA CINA NELL’INTERREGNO, di Hu Wei

Questo articolo, sia pure al momento in gran parte contraddetto dal prosieguo degli eventi, rappresenta plasticamente l’esistenza e la vivacità del dibattito presente tra i decisori cinesi riguardo alla collocazione geopolitica del paese e in particolare al rapporto da tenere nei confronti soprattutto degli Stati Uniti e quindi, in subordine, della Russia. Non è certamente il segno di un confronto politico esploso ora, in particolare con il conflitto militare in Ucraina.

Gli albori si sono potuti intravedere già a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, in una fase di piena ostilità della Cina nei confronti della Unione Sovietica e di virulento confronto interno. I termini della discussione di allora erano del tutto diversi e riguardavano, tra le altre cose, il ruolo della pianificazione centralizzata, il rapporto centro/periferia e città/campagna, quello tra grande industia centralizzata, sul modello sovietico e sistema industriale decentrato fondato sulle comuni agricole. A farne le spese fu Liu Shaoqi, ex presidente della Repubblica Popolare Cinese; a guadagnarne, all’ombra di Mao Tze Tung, fu in realtà Zhou enLai, il vero artefice cinese dell’accordo con Nixon e Kissinger. Fu una svolta prettamente politico-diplomatica con pochi riflessi sulle scelte politiche interne al paese, quasi del tutto indipendenti. Il vero mutamento radicale avvenne alla fine degli anni ’80 con l’avvento di una politica economica aperta agli investimenti esteri e al mercato mondiale e la concretizzazione in economia della scelta di rapporti privilegiati con gli Stati Uniti. Fu una modalità di apertura paragonabile più che a quella di tanti paesi africani, dell’America Latina e dell’Europa Orientale, che portò ad una sorta di colonizzazione di quei paesi, quanto a quella piuttosto di paesi del Sud-Est Asiatico contemporanei e, storicamente, a quella degli stessi Stati Uniti, della Germania e del Giappone a fine ‘800. In quel periodo si assistette ad una sorta di congelamento della disastrata grande industria cinese e alla creazione di zone economiche aperte sulla fascia costiera, la più importante a Shangai, ma molto selettive dal punto di vista del controllo e dell’acquisizione delle capacità tecnologiche e imprenditoriali occidentali e del controllo politico del processo di trasformazione. E’ in quelle aree che si è formata una classe dirigente e una élite politica strettamente legata, anche culturalmente, ai centri decisori statunitensi e molto attiva nella lotta politica interna, usualmente molto aspra e spesso sanguinosa. La fase di ristrutturazione, sviluppo e potenziamento tecnologico dei grandi colossi industriali, piuttosto che la loro liquidazione così come avvenuta nei paesi dell’Europa Orientale, fu l’indizio e il segnale di affermazione definitiva di una classe dirigente dalle ambizioni sempre più distinte e assertive, ormai conflittuali con i disegni strategici statunitensi. Merito senza dubbio dei centri decisori dominanti cinesi, ma anche della “dabbenaggine” e presunzione, in realtà espressione anch’essa di un acceso confronto interno, statunitense. Quando si parla di “affermazione definitiva”, ci si riferisce ad una fase e non si vuole eludere l’esistenza in Cina di centri decisori in conflitto e quindi di uno scontro politico dall’esito mutevole. E’ l’esistenza dello stesso articolo qui sotto in qualche maniera a certificarlo e a collocare sotto un’altra luce l’attuale politica statunitense, avventurista sì, ma non irrazionale. Le elezioni presidenziali nel 2024, forse anche quelle di medio termine nel prossimo novenbre negli Stati Uniti e il Congresso del Partito Comunista Cinese a fine anno ci potranno dire qualcosa di più chiaro in merito all’esito del confronto. Non solo negli Stati Uniti, ma anche nella Cina stessa. La posizione espressa dall’autore è di fatto minoritaria; avrebbe però il vantaggio della soluzione in termini di conservazione e semplificazione di alcuni attuali dilemmi geopolitici storici della Cina, soprattutto nei confronti di India, Pakistan e Sud-Est Asiatico. A quale prezzo rispetto all’autonomia politica dagli Stati Uniti, è tutto da vedere. E’ la riprova ancora una volta, ma poco evidenziato da gran parte degli analisti, che il confronto geopolitico tra stati passa attraverso un confronto tra centri decisori tra di loro ostili e interconnessi nell’agone internazionale. Buona Lettura, Giuseppe Germinario

Le Grand Continent_Questo articolo, inviato dall’autore in lingua cinese al sito Usa-Cina Perception Monitor dove è stato pubblicato il 5 marzo e poi tradotto in inglese il 12 marzo, è da allora oggetto di acceso dibattito. Il suo autore, Hu Wei, è uno studioso cinese che occupa una posizione speciale nell’ecosistema delle relazioni internazionali a Shanghai. Viene presentato come vicepresidente del Centro di ricerca sulle politiche pubbliche dell’Ufficio del Consiglio di Stato, presidente dell’Associazione di Shanghai per la ricerca sulle politiche pubbliche e presidente del comitato accademico del Chahar Institute.

In questo breve testo, Hu Wei presenta possibili scenari per il resto della guerra, dieci giorni dopo l’inizio dell’offensiva russa. Per lui, il fatto che l’invasione dell’Ucraina distolga l’attenzione dagli Stati Uniti non deve essere preso troppo ottimisticamente: la Cina ha interesse a sostenere Putin se vincerà, ma Putin perderà sicuramente questa guerra e isolerà ulteriormente la Russia dal resto del Paese. il mondo. Per Hu la conseguenza sarebbe poi lineare: l’egemonia degli Stati Uniti si estenderà, parallelamente alla loro influenza sui loro alleati europei che potranno dire addio ai loro sogni di autonomia strategica; La Cina sarà isolata contro un Occidente di fronte unito; cadrà una “nuova cortina di ferro”, questa volta non più confinata in Europa ma separando le democrazie dai regimi autoritari su scala globale.

Non solo un tale risultato non distoglierebbe l’attenzione degli Stati Uniti dalla Cina nell’Indo-Pacifico, ma rafforzerebbe questo lavoro di “accerchiamento”, sia militare (NATO, Quad, AUKUS) che ideologico attraverso il sistema di valori occidentale. Drammatizzando questa sequenza come quella di una scelta storica, Hu identifica una finestra di opportunità “da una a due settimane” in cui la Cina dovrà fare una “scelta strategica” – in questo caso, smettere di sostenere Vladimir Putin.

Se non si deve dare troppa importanza all’autore negli ambienti decisionali di politica estera in Cina, il suo testo è stato censurato in questa lingua e non ha mancato di suscitare reazioni e risposte denunciando l'”eccessiva” attenzione riservata a questo articolo come un -op” guidato dall’occidente a dividere Russia e Cina… Tanti indizi che sono il segno che questo testo punta appunto ad una serie di elementi al centro del dilemma cinese che presiede gli arbitrati in questi giorni. Anche se è incerto se la Cina deciderà presto di abbandonare la sua neutralità o di smettere di alimentare la sua ambiguità strategica, come rivela la mappa delle reazioni globali all’invasione dell’Ucraina prodotto dal Geopolitical Studies Group – l’incontro di lunedì tra Jake Sullivan e Yang Jiechi potrebbe aiutare a districare alcune incognite, mentre la Russia ha chiesto aiuti economici e militari a Pechino.

Hu Wei_La guerra russo-ucraina è il conflitto geopolitico più grave dalla seconda guerra mondiale e avrà conseguenze globali di gran lunga maggiori rispetto agli attacchi dell’11 settembre . In questo momento critico, la Cina deve analizzare e valutare attentamente la direzione della guerra e il suo potenziale impatto sul panorama internazionale. Allo stesso tempo, per lottare per un ambiente esterno relativamente favorevole, la Cina dovrebbe reagire in modo flessibile e fare scelte strategiche in linea con i suoi interessi a lungo termine.

L’operazione “militare speciale” della Russia contro l’Ucraina ha suscitato aspre polemiche in Cina, con i suoi sostenitori e oppositori divisi in due campi implacabilmente opposti. Questo articolo non rappresenta nessuna delle parti ma intende fornire spunti di riflessione e costituire un punto di riferimento per il più alto livello decisionale in Cina. Presenta un’analisi obiettiva delle possibili conseguenze della guerra e delle opzioni di contromisura a nostra disposizione.

I. Prevedere il futuro della guerra russo-ucraina

1. Vladimir Putin potrebbe non essere in grado di raggiungere gli obiettivi che si è prefissato, che metterebbe la Russia in una situazione delicata. L’obiettivo dell’attacco di Putin era risolvere completamente la questione ucraina e distogliere l’attenzione dalla crisi interna della Russia sconfiggendo l’Ucraina in una guerra lampo, sostituendo i suoi leader e alimentando un governo filo-russo. Tuttavia, la guerra lampo è fallita e la Russia non è in grado di sostenere una guerra prolungata e gli alti costi che essa comporta. Lo scoppio di una guerra nucleare porrebbe la Russia in totale antagonismo con il resto del mondo e sarebbe quindi invincibile. Anche la situazione all’interno e all’esterno del Paese è sempre più sfavorevole. Anche se l’esercito russo è riuscito a occupare Kiev, la capitale dell’Ucraina, e a creare un governo fantoccio a caro prezzo, non significherebbe la vittoria finale. A questo punto, l’opzione migliore per Putin è quella di porre fine alla guerra in modo decente attraverso colloqui di pace, che richiedono all’Ucraina di fare concessioni sostanziali. Tuttavia, ciò che non è raggiungibile sul campo di battaglia è anche difficile da ottenere al tavolo delle trattative. In ogni caso, questa azione militare costituisce un errore irreversibile.

2. Il conflitto potrebbe intensificarsi ulteriormente e non si può escludere un possibile coinvolgimento occidentale nella guerra. L’escalation della guerra sarebbe certamente costosa, ma è molto probabile che Putin non si arrenderà facilmente dato il suo carattere e il suo potere. La guerra russo-ucraina potrebbe intensificarsi oltre l’Ucraina e potrebbe anche includere la possibilità di un attacco nucleare. Se ciò accadesse, gli Stati Uniti e l’Europa non potrebbero restare fuori dal conflitto, che scatenerebbe una guerra mondiale, anche nucleare. Il risultato sarebbe una catastrofe per l’umanità e una resa dei conti tra Stati Uniti e Russia. Questa resa dei conti finale, nella misura in cui la potenza militare russa non può competere con quella della NATO, sarebbe anche peggio per Putin.

3. Anche se la Russia riuscirà a conquistare l’Ucraina dopo una scommessa disperata, sarà comunque una “patata bollente” politica. La Russia avrebbe quindi portato un pesante fardello e sarebbe stata sopraffatta. In queste circostanze, indipendentemente dal fatto che Volodymyr Zelensky sia vivo o meno, molto probabilmente l’Ucraina istituirà un governo in esilio per affrontare la Russia a lungo termine. La Russia sarà soggetta sia alle sanzioni occidentali che a una ribellione sul territorio ucraino. Le linee del fronte si allungheranno. L’economia nazionale non sarà redditizia e alla fine sarà trascinata al ribasso. Questo periodo non supererà alcuni anni.

4. La situazione politica in Russia può cambiare o esplodere nelle mani dell’Occidente. Dopo il fallimento della guerra lampo di Putin, le speranze di una vittoria russa sono deboli e le sanzioni occidentali hanno raggiunto il massimo storico. Poiché i mezzi di sussistenza delle persone sono gravemente colpiti e le forze contro la guerra e contro Putin si uniscono, la possibilità di un ammutinamento politico su vasta scala in Russia non può essere esclusa. Con l’economia russa sull’orlo del collasso, sarebbe difficile per Putin sostenere una situazione così pericolosa, anche escludendo una sconfitta nella guerra russo-ucraina. Se Putin dovesse essere estromesso dal potere a causa di disordini civili, un colpo di stato o per qualsiasi altro motivo, la Russia sarebbe ancora meno propensa a confrontarsi con l’Occidente.

II. Analisi dell’impatto della guerra russo-ucraina sul panorama internazionale

1. Gli Stati Uniti riguadagnerebbero la leadership nel mondo occidentale e l’Occidente ne emergerebbe più unito. Attualmente l’opinione pubblica pensa che la guerra in Ucraina significhi il completo crollo dell’egemonia americana, ma la guerra riporterebbe infatti Francia e Germania, che entrambe volevano staccarsi dagli Stati Uniti, in un’architettura di difesa sotto l’egida della NATO , distruggendo il sogno dell’Europa di realizzare una diplomazia indipendente e un’autonomia strategica. La Germania aumenterebbe significativamente il suo budget militare; Svizzera, Svezia e altri paesi rinuncerebbero alla loro neutralità. Con il Nord Stream 2 sospeso a tempo indeterminato, la dipendenza dell’Europa dal gas naturale statunitense aumenterebbe inevitabilmente.

2. Una “cortina di ferro” cadrebbe di nuovo, non solo dal Mar Baltico al Mar Nero, ma più in generale in una resa dei conti finale tra il campo dominato dall’Occidente ei suoi concorrenti. L’Occidente tratterà il confine tra democrazie e stati autoritari, definendo il divario con la Russia come una lotta tra democrazia e dittatura. La nuova cortina di ferro non sarà più tracciata tra i due campi del socialismo e del capitalismo e non si limiterà alla Guerra Fredda. Sarà una battaglia all’ultimo sangue tra chi è a favore e chi è contro la democrazia occidentale. L’unità del mondo occidentale sotto la cortina di ferro avrà un effetto di travaso sugli altri paesi: si consoliderà la strategia indo-pacifica degli Stati Uniti,

3. La potenza occidentale crescerà in modo significativo, la NATO continuerà ad espandersi e l’influenza degli Stati Uniti nel mondo non occidentale aumenterà. Dopo la guerra russo-ucraina, per quanto la Russia realizzi la sua trasformazione politica, indebolirà notevolmente le forze anti-occidentali in tutto il mondo. La scena successiva agli sconvolgimenti sovietici e orientali del 1991 potrebbe ripetersi: le teorie sulla “fine dell’ideologia” potrebbero riapparire, la rinascita della terza ondata di democratizzazione perderebbe slancio e altri paesi del Terzo Mondo abbraccerebbero l’Occidente. L’Occidente otterrebbe più “egemonia”, sia in termini di potenza militare che in termini di valori e istituzioni. Il suo duro potere e il suoil soft power raggiungerà nuove vette.

4. In questo contesto, la Cina sarebbe più isolata. Per i motivi di cui sopra, se la Cina non adotta misure proattive per rispondere, dovrà affrontare un ulteriore contenimento da parte degli Stati Uniti e dell’Occidente. Una volta caduto Putin, gli Stati Uniti non dovranno più confrontarsi con due concorrenti strategici, ma dovranno solo bloccare la Cina nel contenimento strategico. L’Europa si staccherà ancora di più dalla Cina, il Giappone diventerà l’avanguardia anti-cinese, la Corea del Sud cadrà ancora di più nelle mani degli Stati Uniti, Taiwan si unirà al concerto anti-cinese e il resto del mondo dovrà scegliendo da che parte stare seguendo una logica gregaria. La Cina non sarà solo circondata militarmente dagli Stati Uniti, dalla NATO, dal Quad e dall’AUKUS, ma sarà anche sfidato dai valori e dai sistemi occidentali.

[Dall’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, con le nostre mappe, analisi e traduzioni annotate abbiamo aiutato più di 1,5 milioni di persone a comprendere le trasformazioni geopolitiche di questa sequenza. Se trovi utile il nostro lavoro e pensi che meriti supporto, puoi  iscriverti qui .]

III. La scelta strategica della Cina

1. La Cina non può essere legata a Putin e deve staccarsi da lui il prima possibile. Nel senso che un’escalation del conflitto tra Russia e Occidente aiuta a distogliere l’attenzione degli Stati Uniti dalla Cina, la Cina dovrebbe essere felice della situazione e persino sostenere Putin, ma solo se la Russia non cade. Essere sulla sua stessa barca avrà un impatto sulla Cina se perde il potere. A meno che Putin non riesca ad assicurarsi la vittoria con il sostegno della Cina, una scarsa prospettiva per ora, la Cina non ha il potere di sostenere la Russia. Una delle leggi della politica internazionale dice che non ci sono «né eterni alleati né perpetui nemici», ma che «i nostri interessi sono eterni e perpetui». Nelle attuali circostanze internazionali, La Cina può solo salvaguardare i propri interessi, scegliere il male minore e scaricare il peso della Russia il prima possibile. Al momento, si stima che ci sia una finestra di una o due settimane prima che la Cina perda il respiro. La Cina deve agire con decisione.

2. Deve evitare di giocare contemporaneamente da entrambe le parti, rinunciare alla neutralità e scegliere la posizione dominante nel mondo. Al momento, la Cina ha cercato di non offendere nessuna delle due parti e ha preso una posizione intermedia nelle sue dichiarazioni e scelte internazionali, inclusa l’astensione dal voto in Consiglio di sicurezza e Assemblea generale delle Nazioni Unite. Tuttavia, questa posizione non soddisfa le esigenze della Russia e ha fatto infuriare l’Ucraina, i suoi sostenitori e simpatizzanti, mettendo la Cina dalla parte sbagliata di gran parte del mondo. In alcuni casi, l’apparente neutralità è una scelta saggia, ma non si applica a questa guerra, dove la Cina non ha nulla da guadagnare. Poiché la Cina ha sempre sostenuto il rispetto della sovranità nazionale e dell’integrità territoriale, può solo evitare un ulteriore isolamento schierandosi con la maggior parte dei paesi del mondo. Questa posizione è anche favorevole alla risoluzione della questione di Taiwan.

3. La Cina deve realizzare la più grande svolta strategica possibile e non essere ulteriormente isolata dall’Occidente. Tagliarsi fuori da Putin e rinunciare alla neutralità aiuterà a costruire l’immagine internazionale della Cina e ad alleggerire le sue relazioni con gli Stati Uniti e l’Occidente. Sebbene sia difficile e richieda grande saggezza, è la migliore opzione possibile per il futuro. L’idea che un conflitto geopolitico in Europa innescato dalla guerra in Ucraina ritarderà in modo significativo il perno strategico statunitense dall’Europa alla regione indo-pacifica non può essere trattata con eccessivo ottimismo. Negli Stati Uniti si stanno già levando voci per dire che l’Europa è importante ma che la Cina lo è di più, e che l’obiettivo principale degli Stati Uniti è impedire alla Cina di diventare la potenza dominante nella regione indo-pacifica. In queste circostanze, la priorità assoluta della Cina è apportare di conseguenza gli adeguamenti strategici appropriati, cambiare gli atteggiamenti ostili degli americani nei suoi confronti e salvarsi dall’isolamento. La cosa principale è impedire agli Stati Uniti e all’Occidente di imporre sanzioni congiunte alla Cina.

4. La Cina dovrebbe prevenire lo scoppio di guerre mondiali e nucleari e dare un contributo insostituibile alla pace mondiale. Poiché Putin ha esplicitamente incaricato i deterrenti strategici della Russia di entrare in uno stato di speciale prontezza al combattimento, la guerra russo-ucraina potrebbe sfuggire al controllo. Una giusta causa attira molto sostegno, una causa ingiusta trova poco. Se la Russia è l’istigatore di una guerra mondiale o addirittura di una guerra nucleare, sicuramente metterà il mondo in subbuglio. Per dimostrare il suo ruolo di grande potenza responsabile, la Cina non solo non può schierarsi con Putin, ma deve anche adottare misure concrete per prevenire il suo possibile avventurismo. La Cina è l’unico paese al mondo con questa capacità e deve sfruttare appieno questo vantaggio unico. La fine del sostegno cinese a Putin molto probabilmente porrà fine alla guerra, o almeno gli impedirà di intensificarla. Di conseguenza, la Cina riceverà sicuramente molti elogi internazionali per il mantenimento della pace nel mondo, che potrebbe aiutarla a evitare l’isolamento, ma anche trovare un’opportunità per migliorare le sue relazioni con gli Stati Uniti e il mondo.

CREDITI
L’articolo originale è disponibile qui in inglese e francese: https://uscnpm.org/2022/03/12/hu-wei-russia-ukraine-war-china-choice/
1 2 3