Italia e il mondo

Il ritorno di Andrej Babiš: l’inizio di una nuova ondata di euroscetticismo in Europa?

Il ritorno di Andrej Babiš: l’inizio di una nuova ondata di euroscetticismo in Europa?_di Daria Luisa Petrucci

Dopo quattro anni all’opposizione, il magnate ceco torna a guidare il Paese e rilancia la sfida a Bruxelles con un’agenda nazionalista e pragmatica

Daria Luisa Petrucci

7 Ott, 2025

In questo report:

  • Babiš torna al potere con un’agenda euroscettica
  • Praga si avvicina al fronte sovranista dell’Est
  • L’Europa verso una nuova ondata di scetticismo?

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9 min

Con una campagna costruita su slogan anti-immigrazione, critiche ai “burocrati di Bruxelles” e promesse di aumenti salarialiAndrej Babiš ha vinto le elezioni parlamentari in Repubblica Ceca con circa il 35% dei voti. Il magnate populista torna al potere promettendo di “difendere Praga da Bruxelles”.

Data la mancanza di una maggioranza assoluta, Babiš sta cercando alleanze con altre forze radicali affini, come il partito Libertà e democrazia (Spd), apertamente anti-Ue anti-Nato, o il movimento dei Motoristi, gruppo populista che si oppone alle politiche ambientali europee e alla transizione verde.

Chi è Andrej Babiš e perché l’abbiamo già sentito nominare

Andrej Babiš, già Primo ministro tra il 2017 e il 2021, è un noto imprenditore e miliardario ceco. Con un patrimonio stimato in circa 4,3 miliardi di dollari, è uno degli uomini più ricchi del Paese. È il fondatore di Agrofert, un colosso agrochimico e alimentare che impiega 34 mila persone e comprende oltre 250 società attive nei settori dell’agricoltura, dell’energia, dei media e dell’alimentazione. Nel comparto agroalimentare e chimico, Agrofert controlla più di due terzi del mercato ceco.

Nel 2013 Babiš è entrato anche nell’industria dei media acquisendo il gruppo Mafra, compagnia alla quale fanno capo alcuni dei giornali più letti del Paese. L’anno successivo ha acquistato Radio Impuls, la stazione radiofonica più seguita in Repubblica Ceca. Per il suo mix di potere economicocontrollo mediatico e retorica anti-establishment, Babiš viene spesso paragonato a Donald Trump e a Silvio Berlusconi.

L’esordio politico risale al 2011, con la fondazione del movimento Akce nespokojených občanů (Azione dei cittadini insoddisfatti o Ano). Il partito, caratterizzato da toni populisti, conquistò rapidamente un elettorato trasversale, soprattutto tra la classe media e i piccoli imprenditori.

Nel 2013 Ano entrò in Parlamento e nel 2014 Babiš divenne vicepremier e ministro delle Finanze. Tre anni dopo, nel 2017, conquistò la carica di Primo ministro. Già tra il 2014 e il 2017, durante il suo mandato da ministro e poi da premier, Babiš attirò l’attenzione della stampa europea per un potenziale conflitto di interessi derivante dal suo doppio ruolo di politico e imprenditore. Si trovava infatti nella posizione di approvare, tramite ministeri o agenzie sotto il suo controllo, l’erogazione di fondi europei destinati ad aziende del gruppo che lui stesso possedeva o ad altre aziende in vario modo collegate.

Nel frattempo, il Parlamento ceco approvò una legge anti-conflitto d’interessi, soprannominata Lex Babiš, che vietava ai membri del governo di possedere media e di ricevere fondi pubblici nazionali o europei attraverso aziende controllate. Per aggirare la disposizione, Babiš trasferì formalmente Agrofert in due trust fiduciari, risultando così, tecnicamente, non più proprietario diretto delle quote.

Tuttavia, un audit condotto dalla Commissione europea concluse che il conflitto d’interesse persisteva poiché Babiš, pur non essendo più titolare formale delle società, ne manteneva l’influenza e continuava a trarne beneficio economico. Secondo Bruxelles, le sue aziende avevano beneficiato impropriamente di sussidi europei erogati durante il suo mandato.

Parallelamente, l’Ufficio europeo antifrode (Olaf) stava indagando su un altro fascicolo riguardante Babiš. L’imprenditore era accusato di aver ottenuto, già nel 2008, prima del suo ingresso in politica, un finanziamento europeo indebito per la costruzione del resort  Nido della Cicogna.

Babiš avrebbe occultato che il complesso appartenesse al gruppo Agrofert per poter accedere a fondi destinati esclusivamente alle piccole e medie imprese, ai quali diversamente non avrebbe avuto accesso. Nel gennaio 2023 un tribunale lo ha assolto, ma nel giugno del 2025 l’Alta Corte di Praga ha annullato la decisione e ordinato un nuovo processoattualmente pendente.

Nel 2021 Babiš perse le elezioni contro la coalizione liberale Spolu (Insieme), travolto dallo scandalo dei Pandora Papers, una fuga massiva di documenti finanziari che rivelò come numerosi leader politici e imprenditori utilizzassero società offshoretrust e altre strutture societarie complesse per occultare proprietà e movimenti di capitale.

L’episodio condusse all’apertura di un’indagine per sospetto riciclaggio di denaro da parte delle autorità francesi, trovandosi in Francia alcuni degli immobili coinvolti. Babiš respinse ogni accusa, definendo il caso “un attacco politico” orchestrato per indebolirlo durante la campagna elettorale.

Connessioni tra le aziende nel portafoglio Agrofert

Il ritorno di Babiš tra populismo e pragmatismo

La crisi economica e il malcontento sociale hanno riaperto uno spazio politico per la retorica di Babiš: il 4 ottobre 2025 è tornato a vincere, rilanciando la narrativa populista ed euroscettica, centrata su sicurezzasovranità e tutela economica nazionale.

Il suo partito, Azione dei Cittadini Insoddisfatti (Ano) ha vinto le elezioni con il  34.5% dei voti, superando la coalizione di centro-destra Spolu (Insieme) messa insieme dal precedente premier Petr Fiala, che si assesta intorno al 23.4%. In questo modo, Ano ha ottenuto circa 80 seggi nella Camera bassa, che ne conta 200, in aumento rispetto ai 72 seggi dello scorso mandato ma comunque con una maggioranza risicata: Babiš ha dichiarato di volere un governo monopartitico ma che formerà delle alleanze per ottenere un sostegno più ampio.

Sono già iniziati i colloqui con i piccoli partiti euroscettici di destra che sono riusciti a superare la soglia di sbarramento del 5%: il partito anti-green Motoristi e partito anti-immigrazione Libertà e democrazia diretta (Spd), guidato dall’imprenditore ceco-giapponese Tomio Okamura. Con i Motoristi, Babiš condivide i timori riguardo agli obiettivi europei di riduzione delle emissioni e promette di modificarli o di rifiutarli in toto.

Durante la campagna elettorale, il partito Azione dei Cittadini Insoddisfatti (Ano) ha promesso una più rapida crescita economicasalari e pensioni più alti, tasse più basse e sconti fiscali per studenti e giovani famiglie, preannunciando probabili aumenti del deficit di bilancio. Babiš è così riuscito a capitalizzare il malcontento verso l’inflazione e la percezione di un’eccessiva ingerenza dell’Unione Europea nelle politiche nazionali.

Sul piano della politica estera, Ano si posiziona per una riduzione del sostegno all’Ucraina, punto chiave nell’agenda del precedente governo, avendo dichiarato di voler porre fine alle numerose iniziative messe in piedi per difendere Kiev. Inoltre, Babiš si è già in passato opposto all’adesione dell’Ucraina all’Unione. Intende concentrarsi sulle politiche interne, ha dichiarato, ma respinge fermamente le richieste dell’aspirante alleato, il partito Spd, di indire un referendum sull’uscita del Paese dall’Ue e dalla Nato.

L’Europa verso una nuova ondata di scetticismo?

Babiš riflette un modello di populismo manageriale: un leader che si presenta come uomo “del fare” e che accusa Bruxelles di ostacolare la crescita economica del Paese con normative superflue ed eccessivamente rigorose.

Sostenitore del leader ungherese Viktor Orban, ha stretto un’alleanza con diversi partiti di estrema destra nel gruppo Patrioti per l’Europa del Parlamento europeo, al fine di contestare l’orientamento mainstream delle politiche europee, compresa la decarbonizzazione e il nuovo patto sull’immigrazione.

In ambito europeo, dunque, si affianca ai governi di Slovacchia e Ungheria nel pretendere una maggiore autonomia economicalimiti alle competenze di Bruxelles e politiche più dure sull’immigrazione. La vicinanza con Budapest e Bratislava rischia di riportare Praga verso la sfera d’influenza di Mosca.

Secondo il Manifesto, l’ascesa di Babiš non è un episodio isolato. In tutta l’Europa centro-orientale si registra una nuova ondata di diffidenza verso l’Ue, alimentata da inflazione e costo della vita, considerati come effetti collaterali delle sanzioni alla Russia.

Le politiche ambientali europee vengono percepite come penalizzanti per le industrie locali e la crisi migratoria torna a pesare nei dibattiti pubblici nazionali. Le elezioni ceche riflettono un trend europeo che sta prendendo forma: la sfiducia nelle élite di Bruxelles, accusate di essere lontane dai cittadini, insieme all’assenza di una sinistra capace di proporre valide alternative, stanno facendo strada agli oligarchi populisti, alle forze di estrema destra e al trumpismo.

Babiš vuole perseguire una linea più pragmatica che ideologica e vuole una Repubblica Ceca più sovrana, più nazionale, meno integrata. Il riposizionamento di Praga tra gli Stati membri euroscettici dell’Europa centrale, accanto a Budapest e Bratislava rischia di indebolire il fronte orientale pro-Ucraina, proprio mentre l’Unione cerca di mantenere l’unità nel sostegno a Kiev.

Anche se non sembra che il neo-premier persegua una rottura netta con Bruxelles, il ritorno di Praga su posizioni euroscettiche rappresenterà una spina nel fianco delle prossime negoziazioni europee su energia, sostenibilità e Difesa comune, in un momento in cui l’Unione è già divisa sul piano interno a causa delle partecipatissime manifestazioni pro-Palestina che si stanno diffondendo a macchia d’olio in tutte le principali capitali europee.

Immagine in evidenza: https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=38699826; immagini presenti nell’articolo: https://en.wikipedia.org/wiki/Andrej_Babi%C5%A1#/media/File:Ing_Andrej_Babis.png

Charlie Kirk e la violenza politica: negli Usa è iniziata una guerra civile a bassa intensità_di Federico Sangalli

Charlie Kirk e la violenza politica: negli Usa è iniziata una guerra civile a bassa intensità

L’uccisione di Charlie Kirk alimenta una violenza politica che non accenna a placarsi. Per l’America il fronte interno resta la sfida più insidiosa

Federico Sangalli

11 Set, 2025

In questo report:

  • La dinamica dell’attentato
  • L’America è sempre più divisa
  • Una guerra civile a “bassa intensità”

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10 min

L’articolo, pur con qualche inesattezza, centra l’obbiettivo, ma a grana grossa. L’assassinio di Kirk ha obbiettivi più mirati e selettivi. Non è uno degli episodi di una guerra civile a bassa intensità. E’ una provocazione, una pesante istigazione a scatenare la guerra civile prossima ventura, esattamente come avvenuto in Ucraina e in Siria; è il tentativo di bloccare la possibilità di intaccare quel fondamentale serbatoio di consenso e di formazione di idee e trame, il brodo di coltura, proprio dell’ambiente accademico e studentesco, in particolare universitario, vero e proprio bacino di coltura di quadri, attivisti di stampo sorosiano, wokista e radical-progressista. L’ultima roccaforte rimasta ancora intatta di quell’arcipelago esclusivo, una volta costituito dalle minoranze etniche, sottoproletariato e ceto medio “riflessivo”. Un colpo diretto a Trump e a quella componente dell’amministrazione e del movimento che più sta cercando di divincolarsi dalle lusinghe neocon; un modo per trattenere Trump nell’ambiguità che rischia sempre più di perderlo. Le vicende in Medio Oriente, l’ultimo attentato a Doha, rischiano di essere il suo punto di perdizione irreversibile. Giuseppe Germinario

L’assassinio di Charlie Kirkavvenuto lo scorso 10 settembre a Salt Lake City, nei pressi del campus dell’Università dello Utah, ha riacceso negli Stati Uniti l’incubo della violenza politica. Il gesto brutale – il cui autore rimane al momento a piede libero – ha infatti nuovamente posto l’America di fronte alla guerra che più di tutte rischia di perdere, quella per il fronte interno.

Kirk, 31 anni, era da tempo un popolare influencer attivista politico conservatore, oltre che una stella nascente della cosiddetta Magasfera, cioè il movimento mediatico dei sostenitori del presidente Donald Trump. Sebbene il movente del suo assassino sia ancora ignoto, è verosimile che questo sia legato a ragioni politiche.

Non solo. Da ciò che è emerso finora, è presumibile che si sia trattato di un atto di violenza ben organizzato e compiuto da un attentatore esperto. Il colpo è stato sparato da grande distanza – probabilmente almeno 150 metri – con un fucile adatto allo scopo e ha colpito il bersaglio mentre questi si trovava seduto dietro un tavolino, sotto un gazebo e circondato da centinaia di persone. È probabile che un tiro di questo tipo richieda una certa esperienza, frutto di background militari o di esercizio da autodidatta.

Dopo il colpo, l’attentatore è riuscito ad allontanarsi dal campus indisturbato, avendo scelto come luogo per colpire il tetto di un edificio chiuso per ristrutturazione. Il fatto denota non solo la scarsa professionalità delle forze dell’ordine americane (che per due volte – una delle quali per bocca del direttore dell’Fbi Kash Patel in persona – hanno annunciato la cattura dell’assassino salvo poi doversi smentire) ma anche come l’omicida si fosse accuratamente preparato una via di fuga dopo un attento studio del terreno.

Non si tratterebbe, dunque, di qualcosa di simile a una delle molte stragi per armi da fuoco tipiche degli Stati Uniti, ma di un gesto pensato e studiato. Ne consegue, logicamente, che Kirk non sia stato scelto a caso ma individuato appositamente, un elemento che rafforza la pista politica.

Il luogo dell’omicidio, all’interno del campus dell’Università dello Utah, a Salt Lake City.

Il giovane attivista era divenuto famoso per il suo format incentrato sul libero dibattito: seduto su una semplice sedia, compiva tour nei campus universitari americani per dibattere liberalmente con chiunque volesse contestare le sue idee conservatrici. Lo stile apertamente provocatorio e il suo orientamento nazionalista lo avevano trasformato in un idolo per la destra americana e in una nemesi dei progressisti.

L’intento dichiarato delle iniziative di Kirk era quello di reclamare lo spazio della discussione pubblica negli atenei, a suo dire egemonizzato dagli studenti e dagli accademici di sinistra, e di stimolare il dibattito di idee. Le ripetute contestazioni contro le sue apparizioni, specie dopo il suo avvicinamento a Trump e alle sue posizioni, lo avevano reso un simbolo della lotta conservatrice per la libertà di parola contro la “censura” del politicamente corretto progressista.

Nel suo messaggio di cordoglio alla nazione, il presidente statunitense Donald Trump ha sostenuto di condividere i valori di Kirk (prontamente assurto a martire del mondo conservatore) per quanto riguarda la libertà di parola, l’apertura al confronto, il rispetto per lo stato di diritto e la legalità. Parole forse poco consone a un leader che della provocazione retorica ha fatto la propria cifra.

La minaccia del “nemico autoritario” alimenta la spirale violenta

Trump ha anche puntato il dito contro «la sinistra radicale», evocando una serie di azioni violente riconducibili a questo schieramento: il ferimento del capogruppo repubblicano alla Camera Steve Scalise da parte di un sostenitore di Bernie Sanders nel 2017; il fallito omicidio dello stesso Trump nel luglio 2024 a Butler, in Pennsylvania; l’uccisione – sempre nel 2024 – di un importante Ceo newyorkese da parte dell’italo-americano Luigi Mangione.

Ma la lista potrebbe continuare, per esempio con il fallito complotto per assassinare il giudice conservatore della Corte suprema Brett Kavanaugh da parte di un attivista pro-aborto nel 2022 o il secondo fallito attentato alla vita di Trump nel settembre 2024. Gesta che vengono ricondotte dai conservatori non a una banale fase di violenza, bensì al desiderio degli attivisti progressisti di annientare i propri avversari di destra.

L’intensificarsi di atti di violenza contro esponenti conservatori ha rafforzato la convinzione in molti americani che esista una fazione di violenti disposta all’eliminazione fisica dell’avversario per poter imporre il proprio modello di vita all’americano medio. Le istituzioni, in questa visione, sarebbero complici o comunque negligenti nell’affrontare la minaccia.

Le violente proteste di piazza che accompagnarono il movimento Black Lives Matter (Blm), con città come Portland in mano agli attivisti antagonisti per settimane, e i cittadini di molti quartieri costretti a formare spontanee ronde urbane per difendere le proprie attività dai facinorosi hanno sedimentato il senso di abbandono (il libro “La tempesta è qui“, del reporter di guerra Luke Mogelson, offre una buona panoramica di questo sentimento). Terreno fertile su cui Trump ha coltivato l’ostilità verso le istituzioni tradizionali.

Da sinistra, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump insieme a Charlie Kirk, assassinato lo scorso 10 settembre a Salt Lake City, nello Utah

Dall’altra parte, tuttavia, lo schieramento liberal-progressista osserva una realtà completamente rovesciata. Dalla fine delle proteste degli Anni Settanta, con il loro carico di attivismo violento afferente soprattutto alla sinistra extra-parlamentare, tradizionalmente è infatti stata l’estrema destra anti-sistema a commettere ripetuti atti di terrore nei confronti della popolazione americana. L’episodio più grave fu l’attentato del 1995 a Oklahoma City, quando un’autobomba distrusse la sede dell’Fbi causando 168 vittime.

Altro casi significativi in tal senso includono l’uccisione di una parlamentare democratica e del marito e il ferimento di un altro deputato in Minnesota lo scorso luglio; l’aggressione a martellate di Paul Pelosi, anziano marito della Speaker della Camera democratica Nancy Pelosi, vero bersaglio del raid; l’uccisione di una contro-manifestante progressista durante un raduno di estrema destra Charlottesville, Virginia, nel 2017undici persone assassinate in una sinagoga Pittsburgh, Pennsylvania, nel 2018, da un terrorista neofascista.

In questa prospettiva, l’ascesa di Donald Trump, con la sua retorica divisiva, i legami con ambienti della destra radicale e il sostegno di settori della grande borghesia americana, ha rafforzato l’idea che una corrente di stampo autoritario stia prendendo il controllo della repubblica americana. Le istituzioni tradizionali – dalla magistratura al congresso passando per la polizia e i militari – sarebbero inermi di fronte a questo stravolgimento e, anzi, starebbero venendo strumentalizzate per consolidare l’autoritarismo del tycoon e dei suoi complici.

L’assalto al Campidoglio, la militarizzazione dell’ordine pubblico, l’impiego del personale paramilitare dell’Ice (l’agenzia anti-immigrazione americana) per realizzare l’espulsione di migliaia di famiglie di immigrati irregolari vengono letti, in questo contesto, come tappe di una deriva autoritaria. Per la galassia anti-trumpista, quindi, le crescenti azioni violente non sono altro che una risposta legittima a quella che percepiscono come una minaccia esistenziale.

La violenza americana e la “guerra civile a bassa intensità”

Gli Stati Uniti sono sempre stati una nazione la cui cultura ha conferito alla violenza un posto preminente nel proprio pantheon nazionale.  Ciò vale tanto per la capacità di esercitarla (contro altri popoli e tra americani stessi) quanto per l’attitudine a tollerarla senza prendere particolari provvedimenti (si pensi sulla sostanziale accettazione dei costanti school shootings). È un atteggiamento che sembra afferire a quello che lo storico Richard Hofstadter definiva «The Paranoid Style in American Politics», un modo di fare politica naturalmente incline alla demagogia e dunque alla violenza politica.

Un trend a cui lentamente l’America si sta abituando. Il fenomeno, a lungo latente con fasi di diffusione anche molto intense, è nuovamente esploso dopo il 2020, quando si sovrapposero tre eventi particolarmente significativi: l’epidemia di Covid-19, le proteste Black Lives Matter che sconvolsero tutto il Paese e le contestate elezioni presidenziali, con il mancato riconoscimento dei risultati da parte dello stesso Trump.

L’occupazione del Campidoglio, sede del Congresso americano, il 6 gennaio 2021, da parte dei sostenitori di Donald Trump.

Nell’agosto dello stesso anno, un 17enne dell’Illinois – Kyle Rittenhouse – aprì il fuoco con un fucile d’assalto AR-15 a Kenosha, Wisconsin, durante un tumulto di piazza generato da una protesta Blm, uccidendo due persone. La sua successiva assoluzione da parte della giuria mostrò come una fetta importante di americani fosse ormai disposta ad assecondare il ricorso alla violenza politica come mezzo di imposizione del proprio punto di vista o come strumento di auto-difesa contro i propri nemici politici. Il pericolo che questo sentimento si manifesti nella formazione di gruppi armati più o meno irregolari è già realtà.

La discussione su una ipotetica seconda guerra civile domina i media alimentata da una retorica ansiogena. Gli Stati Uniti non sono arrivati al punto da poter prospettare una tale frantumazione interna, ma questo non significa che non sia possibile una situazione di conflitto, sebbene diversa da come tradizionalmente viene rappresentata.

In un certo senso, infatti, la guerra civile (cioè uno stato di ostilità in cui paramilitari civili si combattono fra loro senza riconoscere le istituzioni governative) è già iniziata, ma a bassa intensità. In maniera similare a certi trend sperimentati in Europa durante gli Anni Settanta, in Italia con la lotta al terrorismo neofascista e brigatista oppure in Irlanda del Nord con cosiddetti Troubles.

L’assalto al Campidoglio americano da parte dei sostenitori di Donald Trump il 6 gennaio 2021 è stato verosimilmente il punto di svolta di questo processo. Per il mondo Maga è stato sia un successo sia una sconfitta, una cause célèbre dietro cui radunarsi dopo la perdita del potere, ma anche la dimostrazione di poter agire quasi indisturbati. Per molti progressisti è invece stata la conferma delle aspirazioni golpiste dei loro avversari e dell’incapacità delle istituzioni di contenerle (Trump ha ricevuto l’immunità dalla Corte suprema e ha potuto ritornare alla Casa Bianca senza problemi).

Simbolicamente, l’occupazione della sede del parlamento ha rappresentato qualcosa di più ampio per entrambi gli schieramenti: l’idea che la sede del potere istituzionale americano potesse essere occupata da una fazione politica considerata nemica. Una presa di coscienza che ha spinto vari individui, sia a destra che a sinistra, a rafforzare il proprio impegno, talvolta anche con metodi violenti, e a organizzarsi in maniera più strutturata. L’attentato a Charlie Kirk, con le sue modalità, sembra inserirsi in questa direzione.

Immagine in evidenza: https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=134982611; Immagini presenti nell’articolo: “Charlie Kirk shooting scene from front” by KSL News Utah; “Donald Trump & Charlie Kirk (51335308796)” by Gage Skidmore from Surprise, AZ, United States of America; “2021 storming of the United States Capitol 16” by Tyler Merbler

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Come l’Italia può sfruttare la crisi tra Francia e Algeria, di Carlo Andrea Mercuri

Come l’Italia può sfruttare la crisi tra Francia e Algeria

La crisi in atto con Parigi spinge Algeri a cercare alternative. Roma può coltivare i rapporti con il Paese nordafricano in questa finestra di opportunità

Carlo Andrea Mercuri

2 Set, 2025

In questo report:

  • Parigi e Algeri allo scontro diplomatico
  • La radici storiche delle tensioni franco-algerine
  • Roma può approfittare del vuoto francese

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È scontro tra Francia e Algeria. Una contesa diplomatica che scrive una nuova pagina della debacle transalpina in Africa, sottolineando una perdita di influenza continentale che oramai sembra inarrestabile.

Le recenti tensioni diplomatiche registrate tra Parigi e Algeri hanno portato il Quai d’Orsay (il ministero degli affari Esteri francese) a decidere per una drastica riduzione del personale diplomatico nel Paese nordafricano.

Circa un terzo degli operatori diplomatici e consolari attivi tra Algeri, Orano e Annaba sono stati ritirati su ordine del ministero transalpino dallo scorso 1° settembre.

Un episodio che è solo l’ultimo di una serie di screzi diplomatici in corso oramai da più di un anno tra Francia e Algeria, in un clima sempre più teso tra l’ex madrepatria e quella che una volta era una delle colonie più importanti dell’Esagono.

Ad aprile il presidente Emmanuel Macron aveva deciso di richiamare in patria l’ambasciatore Stéphane Romatet da Algeri, allontanando al contempo 12 funzionari algerini dalla Francia, in risposta all’espulsione di altrettanti agenti diplomatici transalpini dal Paese maghrebino.

Un atto dovuto a seguito del sospetto coinvolgimento di un funzionario algerino nel rapimento dell’influencer Amir Boukhors, che in Francia gode dello status di rifugiato politico e che nell’aprile del 2023 è stato sequestrato nei pressi della sua abitazione a Val-de-Marne.

Un personaggio scomodo per il governo di Algeri, che dal 2015 al 2019 ha visto respingere per nove volte le richieste di estradizione per quello che viene definito un «teppista» con legami in attività terroristiche.

A inizio agosto sempre Macron ha inviato al Primo Ministro François Bayrou una lettera, resa pubblica da Le Figaro, nella quale il capo dell’Eliseo chiedeva «estrema fermezza e determinazione nei confronti dell’Algeria».

Nella missiva il presidente francese ha intimato la sospensione dell’accordo del 2013 sull’esenzione da visto per il personale diplomatico algerino entrante in Francia, chiedendo al contempo la sostituzione di circa 60 membri del personale diplomatico operanti in Algeria.

Un’escalation dettata dal progressivo deterioramento delle relazioni bilaterali tra i due Paesi, che ha avuto il suo momento apicale nel 2024.

https://twitter.com/infosminutesfr/status/1953146037889286172?s=48

Algeria e Francia, una storia travagliata

Facente parte dell’impero coloniale francese dalla metà del XIX secolo, l’Algeria ha da sempre rappresentato un punto cardine della politica africana di Parigi.

Le rivolte endogene di stampo indipendentista scoppiate all’interno del gigante nordafricano nel 1954, sospinte dal Front de Liberation National, misero in discussione l’egemonia dell’Esagono non solo nel Paese, ma nell’intero continente.

Per la Francia, la guerra d’Algeria comportò prima la caduta della Quarta Repubblica (con Charles De Gaulle eletto Presidente) e poi l’abbandono della colonia, non prima di sanguinosi scontri che costarono la vita a centinaia di migliaia di algerini e a quasi 30mila soldati francesi.

Le spinte secessioniste algerine avrebbero ispirato altri movimenti indipendentisti in giro per il globo. Gli accordi di Evian del 1962, che sancirono l’indipendenza dell’Algeria dall’ex madrepatria, infatti furono presi a esempio virtuoso da parte delle altre colonie francesi in lotta per la propria autodeterminazione.

La disfatta francese non pregiudicò in maniera definitiva gli interessi transalpini nel Paese maghrebino. Sebbene formalmente indipendente, infatti, l’Algeria mantenne nel tempo forti legami economici e culturali con l’Esagono. Ciò è stato reso possibile anche grazie all’ingente comunità algerina presente in Francia.

Solo nel 2023 la Francia si è affermata come secondo partner commerciale dell’Algeria (dietro alla Cina), nonché come investitore principale al di fuori del settore degli idrocarburi. L’interscambio tra Parigi e Algeri in quell’anno ha toccato un controvalore di oltre sette miliardi di euro. Nel 2024 però i rapporti si sono incrinati irrimediabilmente tra le due sponde del Mediterraneo.

Quattro anni prima, su spinta del presidente Trump (a caccia di successi diplomatici in vista delle presidenziali del 2020), il Marocco siglava gli Accordi di Abramo.

Fondamentale per far sedere al tavolo negoziale Rabat è stata la scelta dell’allora amministrazione repubblicana di riconoscere i diritti marocchini sul Sahara Occidentale, pietra angolare della politica estera del regno maghrebino.        

Una scelta che avrebbe cambiato i delicati equilibri regionali. L’ex colonia spagnola è sempre stata un obiettivo geopolitico di Rabat, che ne ha conteso l’autorità negli anni con il Fronte Polisario, movimento rivoluzionario sostenuto da Algeri.

Il riconoscimento dell’autorità marocchina sul Sahara Occidentale, unito al partenariato con Israele (derivante dalla sigla degli Accordi di Abramo), ha consolidato la posizione del Marocco come potenza emergente nel Maghreb.

Un cambio di equilibrio passato non inosservato a Parigi, che nel luglio del 2024 abbandona il suo storico equilibrismo tra Algeri e Rabat e si allinea a Washington nel riconoscimento della sovranità del Marocco sul Sahara Occidentale.

L’atteggiamento francese viene percepito come un tradimento per il presidente Abdelmadjid Tebboune, che decide di richiamare l’ambasciatore da Parigi per protesta.

Da lì un’escalation diplomatica che ha condotto ai recenti fatti di fine agosto e che mette sempre più in discussione la posizione di favore economico e culturale francese con il gigante nordafricano.   

Per Roma la crisi franco-algerina può rivelarsi un’opportunità

L’esacerbarsi della situazione tra Francia e Algeria schiude per l’Italia l’opportunità di ampliare la cooperazione con il Paese maghrebino, sempre più centrale nella politica estera di Roma.              

Le relazioni bilaterali tra Algeria e Italia hanno radici forti, sospinte nel dopoguerra dal lavoro di Enrico Mattei. Non è un mistero che il capitano d’industria intrattenesse rapporti con esponenti del Front de Liberation National già negli anni della guerra franco-algerina.

Il suo lavoro ha contribuito alla formazione dei quadri dell’industria petrolifera del Paese, nelle scuole Eni di San Donato Milanese.

Un apporto allo sviluppo che Algeri non ha mai dimenticato. Durante la visita di Stato del 2021, il presidente Tebboune ha elogiato le relazioni con il nostro Paese, affermando come l’Italia sia stata l’unica a rimanere accanto all’Algeria anche nei momenti difficili.

Il rapporto tra Algeri e Roma, già importante prima della crisi energetica del 2022 (il nostro Paese era già terzo partner commerciale in termini assoluti), ha trovato ulteriore linfa dopo l’invasione russa dell’Ucraina. L’Italia ha infatti trovato nell’Algeria un partner imprescindibile per sostituire l’apporto di gas russo allo Stivale.  

La frattura con Parigi (alla quale si aggiunge quella con Madrid, sempre per la questione del Sahara Occidentale) apre a maggiori opportunità di cooperazione per le aziende italiane su suolo algerino. Per l’amministrazione Tebboune, la direttrice è quella di ricercare interlocutori affidabili per diminuire la dipendenza dell’economia del Paese dal settore energetico, che oggi vale il 30% del Pil.

Il 23 luglio scorso a Roma si è tenuto il quinto vertice intergovernativo tra Italia e Algeria, che ha visto la partecipazione, oltre che delle massime cariche istituzionali, di alcune figure del mondo industriale italiano, come Claudio Descalzi di Eni (che recentemente ha siglato un accordo con l’algerina Sonatrach da 1,1 miliardi di euro).

Nell’occasione sono stati siglati 40 accordi su vari settori, dall’agricoltura alla pesca, fino all’ambito securitario, dalle migrazioni al contrasto del terrorismo e al suo finanziamento. Nel successivo Business Forum Italia Algeria, sono state siglate 30 intese in ambito farmaceutico, energetico, infrastrutturale, rimarcando al contempo la centralità dell’Algeria nel Piano Mattei.

L’alta disponibilità di materie prime di cui Algeri dispone è volano per la creazione di poli industriali in loco funzionali a sostanziare le strategie di friendshoring disperatamente ricercate dall’Occidente oggi, dato il decoupling imposto da Washington nei confronti della Cina.

L’Italia può trovare poi nell’Algeria un partner importante per l’approvvigionamento di uranio, per sostenere il progetto dei mini-reattori modulari. La nazionalizzazione delle installazioni della Orano nel Paese maghrebino facilita un possibile accordo in tal senso.

I punti di frizione, tuttavia, non mancano con Algeri. L’Algeria oggi è uno degli interlocutori privilegiati di Mosca in Nordafrica (circa il 70% delle sue forniture militari provengono infatti dalla Russia).

Nel 2018 Algeri ha unilateralmente esteso la propria Zona Economica Esclusiva fino alle coste sarde. Non è infrequente avvistare sottomarini classe kilo battenti bandiera algerina nelle acque di Oristano.

La decisione algerina ha ignorato la preminenza geografica italiana sull’area. Complici i rapporti bilaterali rafforzati dopo il 2022, Roma sta cercando di risolvere la questione in ambito negoziale, non senza difficoltà.

L’Italia, che in questi anni sta dimostrando un rinnovato pragmatismo in Africa (si veda il caso nigerino, con Roma oggi unico Stato occidentale rimasto nel Paese con un contingente militare), può sfruttare la crisi franco-algerina a proprio favore.

Il Piano Mattei funge da piattaforma per questo miglioramento delle relazioni con Algeri (e non solo), ma la Francia non rimarrà a guardare Roma espandersi nelle vestigia del suo ex impero.

Lo strano caso della ZEE Italo-Algerina

A chi appartiene la Zona Economica Esclusiva davanti ad Oristano? La domanda viene spontanea nel momento in cui viene detto che «L’Algeria…considera parte del Mar di Sardegna propria area d’influenza. Chi frequenta le dune di Oristano può godere dello spettacolo di sottomarini algerini di fabbricazione russa classe Kilo…in pattugliamento a ridosso delle rive sarde» (L. Caracciolo, Repubblica 18 febbraio 2024, p. 20).

L’area in cui sono segnalate forze subacquee algerine ad ovest della Sardegna è pretesa, come  Zona economica esclusiva (ZEE)  da Algeri che nel 2018  ha unilateralmente esteso la sua giurisdizione fino alle acque territoriali di Oristano, in sovrapposizione con   Piattaforma continentale  (Pc) e Zona di protezione ecologica (Zpe) italiane.

Le ragioni di una simile iniziativa non sono ben chiare.  Essa non riguarda comunque solo l’Italia dal momento che il limite esterno va anche in direzione della Spagna la cui ZEE ha un confine non concordato che, in termini di equidistanza, assegna alle Baleari un effetto pari alle coste algerine.

Nei confronti dell’Italia, il limite della ZEE algerina ignora invece la rilevanza delle coste della Sardegna nonostante si tratti della seconda maggiore isola del Mediterraneo. Il nostro Paese – dopo aver protestato per la violazione dei principi del Diritto del mare- ha comunque avviato trattative per una delimitazione concordata.

Fig. 2: Zpe italiana stabilita con Dpr 209-2011

I diritti dell’Italia sulle aree di overlapping sono ben chiari: la nostra Pc (v. Fig. 3) è ben delineata nella cartografia dell’ex Ministero dello sviluppo economico (ora di competenza del Ministero dell’ambiente e della sicurezza energetica) quale prolungamento marino del territorio emerso; essa, ad ovest della Sardegna, è in parte coperta dalla ZPE da noi istituita nel 2011. In sostanza, l’Italia può già esercitare diritti sulle energie fossili del fondale e può anche farlo per esigenze ambientali sulla sovrastante massa d’acqua.

Fig. 3: la Piattaforma continentale italiana; le zone colorate indicano le zone aperte alla ricerca (Fonte MASE)

E allora, quali sono le mire di un’Algeria che, da Paese amico dell’Italia, avrà senz’altro calcolato pro e contro della sua iniziativa la quale potrebbe essere in realtà diretta contro Madrid?

Lo stato eccellente delle relazioni economiche italo-algerine ci impone cautela e pazienza in attesa che si individuino soluzioni concordate al contenzioso sui reciproci spazi marittimi. L’Italia, secondo quanto previsto dal Piano del mare, dovrà a breve dare concretezza all’istituzione della ZEE fissandone i confini.

I due Paesi, secondo le indicazioni della Convenzione del diritto del mare, potrebbero allora stabilire forme pragmatiche di sfruttamento congiunto delle energie rinnovabili con parchi eolici in zone di overlapping.

Nel frattempo non può farsi a meno di pensare che mostrare bandiera con sommergibili in emersione sia una forma di esercizio di potere navale. La gunboat diplomacy dell’Ottocento prevedeva, com’è noto, la dislocazione di navi da guerra in vicinanza della costa di un altro Paese per fare sfoggio di potenza.

Fig. 4: Fonte Limes 12, 2021; autrice Laura Canali

 Le forze navali russe hanno ripreso a farlo con questi scopi. La libertà di navigazione militare nelle zone di giurisdizione straniera risponde tuttavia ad un principio ineludibile sostenuto anche dall’Italia.

Ma il suo esercizio sistematico nelle aree di ZEE contese o ancor più il transito nelle nostre acque territoriale ad esse adiacenti può essere interpretato come  rispondente a finalità politiche, forse non amichevoli. Se le notizie date dal Prof. Caracciolo fossero confermate un chiarimento si imporrebbe.

Foto: Marina Algerina