tema del “riscaldamento climatico ad origine antropica”, di Andrea Zhok
Ieri, salgo in treno a Milano alle 6 di mattina, è l’8 maggio e sono bardato come in gennaio. Sono 15 gradi e ha smesso di piovere da poco.
A memoria personale non ricordo una primavera più fredda. Fino a venti giorni fa accendevamo la stufa. Degli anni scorsi porto le foto di grigliate pasquali in canottiera. Mi risulta che questa sia stata esperienza comune in tutta Europa.
Ecco, come salgo sul treno, sullo schermo nel corridoio campeggia il titolo: “Dati Copernicus: E’ stato l’aprile più caldo della storia.”
Ecco, lo so che farò arrabbiare alcuni amici ecosensibili (lo sono io stesso), ma non posso fare a meno di notare che delle due l’una:
o mentre l’Europa andava in giro con il piumino, simultaneamente in Australia friggevano le uova sulla testa dei canguri, oppure questi dati sono affidabili quanto i dati sui vaccini, i debunking di Open, o la pubblicità dei dentifrici che sbiancano più bianco del bianco (lo assicura il 93,7% dei dentisti).
E qui sotto c’è naturalmente un problema serissimo, che metto giù schematicamente.
1) E’ certo che chi detiene il potere ama i meccanismi emergenziali, che consentono di avocare a sé poteri speciali, di abbreviare procedure operative, sacrificare la trasparenza, chiedere finanziamenti straordinari con destinazioni opache, implementare sistemi di sorveglianza e controllo, ridurre le garanzie e i diritti individuali, ecc.
2) Tra le varie forme di richiamo all’emergenza (terrorismo, guerra, epidemie, cataclismi naturali, spionaggio, ecc.) le emergenze che si richiamano a motivazioni che nessun individuo può accertare direttamente (con testimonianze, foto, ecc.) conferiscono un potere assolutamente straordinario a chi controlla le modalità di accertamento.
3) Tutte le emergenze che hanno alla loro radice variabili rilevabili soltanto con sistemi scientifici complessi (es.: minacce pandemiche o climatiche) sono totalmente nelle mani delle autorità che controllano le modalità di accertamento.
Ne segue che:
4) Quando vi sono ragioni per non avere piena fiducia nelle autorità, è legittimo sorga il sospetto che le minacce emergenziali che si rifanno a dati scientifici siano manipolate.
Inutile dire che questa situazione rappresenta un bel problema, perché di diritto è chiaro che possano esservi eventi realmente minacciosi per la collettività che realmente possano essere rilevati soltanto con sistemi di investigazione scientificamente complessa, non attingibili altrimenti (un simpatico modo di perculare questa dinamica sociologica la si trova nel film “Don’t look up!”).
Solo che questo fatto dovrebbe consigliare chi detiene il potere di fare uso dell’informazione scientifica di interesse pubblico con estrema acribia, cautela e trasparenza, consentendo la più vasta dibattibilità pubblica, perché perdere la credibilità in questioni del genere è un attimo, e le conseguenze sono gravi.
Purtroppo negli ultimi anni l’informazione scientifica di interesse pubblico è apparsa devastantemente asservita in mille forme ad agende politiche momentanee, agli interessi finanziari di influenti corporations, operando con l’opposto della trasparenza, e alimentando l’opposto della pubblica dibattibilità (con le sanzioni e la censura).
E questo ci conduce al momento presente in cui, spiace dirlo, ma oramai quando qualcuno ci porta un “dato scientifico ufficiale” a sostegno di una prospettiva catastrofista ed emergenziale l’impulso primario è, ragionevolmente, di cambiare canale, perché gli spot pubblicitari cerchiamo di saltarli.
Recuperare questo livello di discredito sarà un’impresa lunga e accidentata.
In coda alla discussione di ieri, e in risposta ad alcune questioni poste, aggiungo un paio di spiegazioni intorno a cosa penso intorno al tema del “riscaldamento climatico ad origine antropica”.
In primo luogo bisogna rispondere a chi afferma che la questione del riscaldamento climatico è trattata e discussa da decenni, e che dunque si tratterebbe di una questione scientificamente dibattuta in modo esteso e dunque acclarata.
Ciò che bisogna rilevare a questo proposito è che quando parliamo di questioni climatiche non parliamo di niente di simile alla verifica dell’efficacia di un farmaco (per fare un esempio recentemente spesso discusso).
Il sistema terra è unico, non è replicabile sperimentalmente in laboratorio, non è sottoponibile ad esperimenti controllati in cui si dominano le variabili in entrata e in uscita, dunque la possibilità di rintracciare relazioni causali definite è enormemente più complessa.
Mi è capitato di vedere recentemente le previsioni comparative di tre modelli accreditati relativamente alla temperatura prevista nell’oceano atlantico nei prossimi anni. I modelli presentavano un’escursione di previsione ampia e paurosamente crescente nel tempo, e le loro medie non erano sovrapponibili. Non ci provo neanche a discutere della qualità comparativa dei modelli, perché non ne ho le competenze, ma quello che mi appare chiaro è che intorno alle dinamiche climatiche del pianeta non siamo né saremo in grado di ottenere certezze.
Ciò che possiamo fare è adottare un atteggiamento realistico abbinato al principio di precauzione.
Siccome le emissioni della combustione (e più in generale i sottoprodotti di scarto dei processi di trasformazione) hanno caratteristiche inquinanti in una molteplicità di campi, il principio di precauzione ci induce a fare dei passi verso una tendenziale riduzione delle emissioni e dei sottoprodotti di scarto (tutte le emissioni, non solo la CO2).
Se siamo davvero mossi da preoccupazioni per l’ambiente e per la salute umana, questa direzione può essere perseguita in modo sensato soltanto: 1) con strategie gradualiste; 2) con strategie multifattoriali (cioè rivolte in molte direzioni); 3) con strategie inclusive e multilaterali a livello mondiale.
1) Il gradualismo è richiesto dalla generale condizione di incertezza e dalla necessità di aggiornare costantemente le tipologie di intervento. Non è pensabile imporre strategie di intervento brutale che compromettono le capacità di sviluppo e devastano le vite dei cittadini, sia perché è sbagliato in sé, sia perché così facendo si suscita una reazione oppositiva insormontabile, mentre questi sono temi sui cui è necessario ottenere consenso e adesione spontanea dei più.
2) Le strategie multifattoriali devono evitare di focalizzarsi strumentalmente su singole azioni presunte salvifiche (es.: elettrificazione generalizzata della locomozione), perché quando ciò accade si può essere certi che si tratta di operazioni strumentali (non esistono singoli interventi salvifici).
3) Le strategie, se vogliono affrontare davvero il problema e non fare ammuina o coprire agende politiche inconfessabili, devono essere inclusive e multilaterali, sia all’interno che sul piano internazionale. Questo vuol dire che devono incidere primariamente sui ceti più abbienti (altrimenti non sono credibili), e che devono cercar di ottenere il massimo consenso internazionale (altrimenti è ridicolo adottare interventi draconiani in Europa mentre i 9/10 del mondo fa tutt’altro).
Quando sento argomenti infervorati secondo cui la scienza avrebbe già certificato la direzione dell’Armageddon climatico, e che solo gli analfabeti non ne avrebbero contezza, non posso evitare di chiedermi come mai altri paesi nel mondo con scienziati di altissimo livello non appaiano parimenti agitati: capisco che nei film di Hollywood cinesi e russi appaiono come un misto di cialtroneria e cupio dissolvi, però se ci fosse unanime certezza che stiamo andando a spron battuto verso l’apocalisse fatico a credere che gli unici che ci tengono alla pelle stiano in occidente.
Purtroppo ciò che vediamo intorno sembra seguire strategie esattamente opposte:
1) non vengono adottate strategie gradualiste, ma si procede per strappi emergenziali (“Fate-presto-non-c’è-tempo-da-perdere-bando-alle-ciance-lasciateci-lavorare!”).
2) non vengono adottate strategie multifattoriali ma ci si concentra su un singolo tema di volta in volta posto come assolutamente inderogabile, lasciando tutto il resto del sistema (incluso il sistema ecologico) andare alla deriva.
3) lungi dall’operare in maniera inclusiva e multilaterale si continua a promuovere il modello della “conspicuous consumption” per gli abbienti e dell’austerità per i morti di fame, si fomenta una perenne conflittualità anche bellica sul piano internazionale, e non si fa alcun tentativo di coinvolgere i maggiori attori mondiali in quella che – apparentemente – sarebbe un’iniziativa di salvezza comune.
Date queste premesse, mi permetto di ritenere che la situazione è forse tragica, ma non seria, e che chi continua a procedere per attacchi isterici e accuse di negazionismo ad alzo zero è parte del problema e non della soluzione.
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