Appunti sulla questione del partito: oltre il primo populismo, di Alessandro Visalli

Appunti sulla questione del partito: oltre il primo populismo

tratto da https://tempofertile.blogspot.com/2019/04/appunti-sulla-questione-del-partito.html?fbclid=IwAR07TrpeP3k750yCZHyy_fZ52yTThBfEFBR-xJRM8PsWK-bglH1YmhzKDc4

In questo testo, forse troppo lungo (6.700 parole, 25 minuti di lettura), si compie un esercizio non facile, decisamente inattuale: quello di provare a ripensare le condizioni nelle quali si può tentare di oltrepassare l’impolitico neoliberale a partire dalla ricostruzione di un collettivo ed insieme di un umano. Questo tema è limitato alla ‘questione del partito’, ovvero dell’agente del politico concepito come trasformazione dell’esistente e levatore del nuovo, e non come mimesi e aspirazione al mero successo. Il discorso connette sistematicamente i mutamenti nel modo di produzione e della ‘piattaforma tecnologica’ del capitalismo, e quindi dell’antropologia dominante e delle forme di socializzazioni corrispondenti, con le forme-partito di volta in volta funzionali.

Dopo alcuni indispensabili cenni storici, per lo più in nota per non appesantire il testo, e l’esplicitazione delle condizioni abilitanti i ‘partiti leggeri’ che hanno molte applicazioni e travestimenti, viene sviluppata una critica del primo populismo, strutturalmente connesso alla ‘contro-democrazia’, a sua volta figlia della ‘accumulazione flessibile’. Anche qui le forme ed i travestimenti sono numerosi.

Viene quindi avanzata l’ipotesi che la crisi del primo populismo, in tutte le sue versioni, non sia episodica ma venga mossa nella profondità da una estremizzazione-mutamento della ‘piattaforma tecnologica’ post-moderna e resti quindi non più allineata con l’estrema polarizzazione, da un lato, e con l’interconnessione molecolare determinata dall’ambiente tecnologico, dall’altra. La tesi è che il nuovo ambiente non si presti più alla strategia “tutta testa e comunicazione” del populismo in stile sudamericano (per quanto questo sia largamente fondato su una socialità popolare vitale) e/o di prima generazione europeo (ben meno vitale), ma renda nuovamente necessaria la presenza di attivisti, influencer, reti di comunicazione diffuse, mobilitazioni politiche e quindi cultura comune e condivisa, ‘simpatia’, coesione, responsabilità e mutuo sostegno.

Del resto nello spazio aperto dallo Shock del 4 marzo, nel quale la lunga sostituzione della “base sociale” tra sinistra e destra, si è allineata con la corrispondente sostituzione della “base di massa” (facendo della sinistra tradizionale minoranza sociale e politica), tutte le sinistre sono spiazzate inesorabilmente. Lo sono quelle ‘di governo’, ma anche quelle ‘radicali’ e per certi versi sembra esserlo anche parte del populismo (anche se questo giudizio, nel caso italiano è soggetto a molte distinzioni).

Questo snodo lo leggeremo alla luce di quello che chiamo “il dilemma Kuzmanovic-Autain”, tra l’aspirazione alla riconquista e la difesa delle aree residue di consenso in un insediamento che si restringe.

Lo scopo del testo è di provare a dissodare un poco il terreno, e indicare cosa occorre ad una prospettiva neo-socialista per liberarsi della lunga ipnosi e riprendere una certa dimenticata durezza. Lavorare per rendere di nuovo leggibile il mondo, e la parte subalterna a politicizzarsi e rappresentarsi, a simbolizzare il potere collettivo, individuando una diversa costituente sociale capace di riorientare una nova politica di ‘classe’.

Pensiamo che per riuscirsi bisogna oltrepassare il populismo di sinistra di prima generazione ed avviare un movimento che la faccia finita con cosmopolitismo, retorica dei diritti solo civili e suprematismo morale. Ma anche rifuggire la passione per l’agilità, la semplificazione, il governismo. Attraversare quindi, con pazienza e determinazione, il faticoso lavoro di montaggio di soggettività e di interpretazione del mondo, per produrre rottura ed indicare le questioni dirimenti.

Stiamo, infatti, passando oltre quell’assetto post-moderno che rendeva efficaci i vari tipi e travestimenti di partiti che saltano il sociale, e disintermediano. Che cercano di produrre una ‘base di massa’ senza più avere una ‘base sociale’ realmente tale, ma, al più, una network funzionale di poteri e domande.

In altre parole, la tesi è che serve ora un “partito-comunità”, che trova nelle discussioni molecolari sulle piattaforme e nelle pratiche di mobilitazione anche plurali e federali la calda pesantezza di una nuova ‘base sociale’ quanto più larga possibile. Facendo leva e mobilitando la capacità meno esercitata dall’ambiente neoliberale: la capacità di essere-per-l’altro entro comunità di discorso e di condivisione di obiettivi. La radice stessa del socialismo.

Perché il socialismo è principalmente una nuova antropologia più umana.

Resta il problema principale: come farlo. Ma questo va oltre le parole, per saperlo bisogna farlo.

Il partito, cenni storici

Si tratta di un tema obiettivamente difficilissimo per la vastità e la dispersione dei temi che evoca. Il principale organo della democrazia è sempre stato soggetto a cambiamenti[1] in concomitanza ai mutamenti della società e della forma che ha preso di volta in volta il modo di produzione e la piattaforma tecnologica[2] ad esso connessa.

A grandi linee il “partito” (da “parte”), dopo secoli nei quali è stato visto come una degenerazione che distruggeva l’armonia e l’ordine, trova uno spazio sistematico a partire dall’emergere, con il suffragio universale, della democrazia di massa al principio del novecento. Quindi si consolida quella ‘democrazia dei partiti’ (in primis i partiti cattolici e socialisti di massa), ancorati ad organizzazioni sociali intermedie fidelizzate, che hanno costituito il nerbo della dinamica politica del secondo dopoguerra. Questo sistema è alla fine entrato in crisi al passaggio dal modo di produzione ‘fordista’ a quello ‘flessibile’, con l’indebolimento delle predette organizzazioni e la mutazione antropologica in senso individualista ed edonista nota come “consumismo”. Nella lunga fase di degenerazione, che è quella che per lo più abbiamo vissuto biograficamente, questi partiti hanno occupato lo Stato, “incistandosi” in esso, e sono diventati sempre più chiusi ed autoreferenti, fino ad essere dissolti in Italia dalla vicenda di “Mani pulite” a cui fa seguito l’avventura del “Partito Piattaforma” populista di Berlusconi e che segue alla firma del Trattato di Maastricht, da molteplici punti di vista vero punto di svolta continentale.

Ma questo processo non è solo italiano, bensì almeno occidentale, in quanto ancorato al mutamento di fase del capitalismo e del suo modo di produzione, ma anche dei nuovi media che lo accompagnano. Ad esempio Manin[3], con riferimento prevalente alla situazione americana, parla di “democrazia del pubblico”, quando gli elettori, per una varietà di motivi, prendono a votare le persone candidate più che i partiti o i loro programmi, che quindi perdono importanza. Nelle elezioni locali, ad esempio, questa tendenza induce il fenomeno delle “liste civiche”, con le deviazioni, il familismo, e le distorsioni che ne seguono. Quel che accade è in sintesi che si rovescia il rapporto: i partiti tendono a mettersi a servizio dei leader e ne vengono svuotati. Il Partito, con la sua inerzia culturale, le sue regole non scritte, la densità delle norme sociali che ne individuano i confini, comincia ad essere visto come un ostacolo alla necessaria flessibilità e nascono i “partiti personali”.

Ci sono almeno due potenti cause:

  • i media generalisti (televisione in primis) che consentono di saltare l’intermediazione della struttura ed in qualche modo di farne a meno, per cui appare che, come scrive appunto Manin, “l’epoca degli attivisti e degli uomini di partito è finita”.
  • La maggiore complessità delle scelte, ed i maggiori vincoli cui sono sottoposte (basti pensare alla situazione europea) che induce a privilegiare programmi più vaghi e a rendere necessario il frequente tradimento di questi nella fase di implementazione. Sembra tornare il potere “prerogativo” teorizzato da Locke.

Ma c’è anche altro, ed è una parte del punto di Laclau[4]: l’elevata frammentazione della struttura sociale, e la sua perdita di coesione, fa sì che a priori non sia più possibile individuare una divisione socioeconomica dominante. Il corpo sociale è attraversato da linee di divisione che sono numerose, trasversali e in continuo mutamento a secondo di quale sia attivata come principale. Allora bisogna decidere quale divisione si propone come centrale, e l’elettorato assomiglia ad un “pubblico” del quale catturare l’attenzione.

In Italia è abbastanza ovvio a quale modello questa descrizione faccia riferimento: si tratta dell’irruzione nel 1994 del “Partito Piattaforma” per eccellenza, Forza Italia di Silvio Berlusconi, costruita in pochi mesi a partire da un piccolo, ma molto professionale, nucleo di venditori di “Pubblitalia” uniti ad alcuni esperti professionisti cooptati tra i partiti storicamente avversari al Partito Comunista e suoi successori (nel caso di specie PdS).

La “controdemocrazia”: il primo populismo

Ma tutto è sempre in movimento, e già negli anni precedenti la rottura del 2008 emerge una potente controcorrente, che Rosanvallon chiama[5]Controdemocrazia” (mentre Colin Crouch chiama “Post-democrazia[6]), ovvero il prendere il centro della scena di una serie di pratiche di sorveglianza, interdizione e giudizio del politico che un sociale che si sente ormai compiutamente decentrato esercita verso il potere formalizzato in organi rappresentativi e di governo. Questa è quindi la fase di una “contro-rappresentanza”, imperniata fortemente in gruppi autorganizzati che Crouch chiama di “self-help”, che non vogliono sostituirsi alle decisioni, ma contrastarle da fuori in una sorta di “rivoluzione permanente” senza presa del Palazzo di Inverno. Questo mutamento è in qualche modo l’effetto di una dissociazione tra “legittimità” e “fiducia” determinata dalla perdita di speranza, ed è strettamente connesso ad una nuova centralità tecnologica nel campo della comunicazione: quella di internet.

Ci troviamo davanti una “democrazia della sorveglianza”, insomma, in cui le figure essenziali diventano “vegliare”, “denunciare”, “verificare”; gli attori centrali diventano le “organizzazioni reattive”, ma anche dal lato istituzionale (neoliberale) le “autorità” e le “istanze di valutazione e loro tecnostrutture”; le legittimità riconosciute sono quella “sociale procedurale”, “sostanziale”, e da “imparzialità”.

Come scrive Rosanvallon, la “perdita di fiducia” attiva in questo contesto una ricerca di forme di contropotere, che si manifestano tramite tre modalità principali:

  • la vigilanza, il cui scopo è “mettere alla prova la reputazione del potere”; una “reputazione” che in effetti ormai è la vera istituzione invisibile del nostro tempo.
  • l’interdizione, il cui scopo è bloccare il potere, non lasciarlo esprimere, revocarne i singoli atti ed azioni. Si formano a questo scopo mobili “coalizioni negative” che sono estremamente più facili e sono capaci di adattarsi molto bene alle loro contraddizioni. Sono tenute insieme, infatti da ciò che rifiutano, non da ciò che vogliono. Tramite la prevalenza di queste “coalizioni negative” la nuova democrazia del rifiuto si sovrappone e prevale alla democrazia del programma. Senza il quadro generale, ci si concentra sulle figure.
  • Il giudizio, emerge una figura accigliata e censoria, il “popolo giudice”, il cui scopo è additare ed accusare i fallimenti del potere, esporli al pubblico disprezzo.

Al popolo-elettore del contratto sociale si sono così sostituite in modo sempre più attivo le figure del popolo-controllore, del popolo-veto e del popolo-giudice (R, p. 24).

Questa evoluzione è spiegata da Rosanvallon come effetto del terminale logoramento dell’idea della politica come scelta tra modelli diversi (in ultimo “venuta giù” insieme al muro per molti). In conseguenza ora i cittadini si organizzano in modo reattivo, cosa che –in termini di modulo organizzativo- ha anche un vantaggio strutturale. Non si tratta, però, di una passività: è più che altro una democrazia diretta regressiva, una sorta di “consenso per difetto”, un “doloroso e impotente restringimento” (R. p. 174). Sicuramente anche una teatralizzazione, una centralità del momento dell’accusa, dell’invettiva, dell’imputazione.

Cambia anche l’atteggiamento individuale, “è la percezione stessa della radicalità ad avere cambiato natura. Essa ormai ha abbandonato la prospettiva di un grande avvenire, immaginandosi invece con le modalità di una voce morale inflessibilmente preposta a stigmatizzare i potenti o a risvegliare i dormienti” (R., p. 239). Non si può dire ci manchino gli esempi di questo abbandono di obiettivi politici in favore di scopi morali o pratici, ed abbondano nella sinistra “radicale” e nella postura del “politicamente corretto” che spesso prende.

Tutto ciò provoca indirettamente una certa atrofia, una paralisi del campo politico, un sentimento di impotenza e di paura, che non è naturalmente l’ambiente ottimale per agire e decidere in modo rapido ed efficiente. Del resto l’obiettivo di questi contro movimenti non è conquistare il potere, ma precisamente “contenerlo ed inibirlo”. In qualche modo paralizzarlo.

Esempi di questa impostazione e cultura sono il primo Movimento 5 Stelle e ora gran parte delle formazioni della sinistra radicale.

Ma ne è esempio in qualche modo anche la prima insorgenza del “populismo di sinistra”, ovvero le esperienze di Podemos in Spagna, di France Insoumise in Francia, mentre è abbastanza diversa la costruzione federale di Skyriza in Grecia (anche se ha elementi in comune).

La crisi: mutamenti intorno alla piattaforma tecnologica

Ma da più indizi si intravede la crisi di questa prima generazione di populismo di nuovo conio, essenzialmente oppositivo, all’urto con la necessità di stabilizzare l’attività (caso francese) o del governo (spagnolo ed italiano). Del resto era molto ben espresso già nel 2016 in un piccolo libro di Calise[7]: chi cavalca la tigre della politica della sorveglianza fatica a mantenere coerenza e aspettative. La stessa logica “contro-democratica” della sorveglianza, veto e giudizio, si rivolta contro le sue proprie strutture, e, le cattura con sospetto di inautenticità, condannandole incessantemente “a spiegarsi e a giustificare la sua azione, mettendolo alla prova, giocando il ruolo di testimone attento e scrupoloso, arrivando ad avvallare o a contestare le decisioni prese” (Rosanvallon “La legittimità democratica”, p.274). Il ruolo decisivo, allora, nei confronti di un brulicante mondo di associazioni, individui, new media, piccoli gruppi di discussione e condivisione, lo riveste la giustificazione. Anzi la “battaglia quotidiana per la giustificazione”.

La “direttezza” di cui parla Nadia Urbinati in un bellissimo libro[8] mostra qui il suo rovescio.

Del resto rispetto al modello del “populismo” alla Laclau, imperniato sulla narrativa e la costruzione di messaggi operanti sulle linee di faglia plurime, unificandole, intorno al carisma di un leader e facendo uso del minimo possibile di struttura di trasmissione, la cui più espressiva applicazione italiana, come abbiamo detto, è Forza Italia di Berlusconi, negli ultimi anni è intervenuta un’ulteriore variazione tecnologica.

Da dove si orienta l’elettore

Le elezioni del 2018 si sono tenute in un ambiente in cui ormai il 65% degli italiani accede alla rete e tramite questa sempre più anche (spesso via smartphone) ai media generalisti sui quali era concettualmente imperniato il populismo di primo tipo. Nelle elezioni in oggetto risulta[9] che il 60% degli elettori si sia informato prevalentemente su internet, con una prevalenza per i siti di informazione e un 20% circa dai social, meno della metà ha indicato invece la televisione come prima fonte di informazione. Tra i contenuti incontrati un terzo ha indicato post di contatti e il 44% notizie di stampa. Più in dettaglio si informano prevalentemente in rete gli elettori del Movimento 5 stelle e quelli della sinistra non PD, ovvero gli elettori di forze sottorappresentate nei media generalisti. Solo un terzo degli elettori orientati al M5* ed alla Sinistra non PD si è informato su media generalisti.

Insomma, è cambiato e sta cambiando il modo in cui si formano le opinioni politiche. Il flusso non arriva più dall’alto al basso, veicolato con le tecniche gestite per anni in modo efficace e raffinato da Berlusconi e poi in modo assai meno competente ed efficace (ed effimero) da Renzi[10], e da uno-a-tutti, ma peer-to-peer, tra pari, e quindi dal basso, o orizzontalmente. Ed inoltre internet, oltre a produrre autonomamente informazione, grazie ad una rete decentrata di ‘influencer’, definisce i frame nei quali viene anche interpretata l’informazione ‘mainstream’ veicolata dai media generalisti. L’effetto si dà nella discussione, nel commento, la rilettura e la reintepretazione.

 

Fonte dell’influenza sulle opinioni politiche

Non sembra neppure confermata la diffusa impressione che sui social si tendano a creare in particolar modo delle ‘bolle ideologiche’, dalle interviste: risulta che quasi quattro quinti degli utenti è solita incontrare sui social idee diverse dalle proprie con cui confrontarsi.

 

Il punto è che questo diverso ambiente, che ha la potenzialità di attrarre/interessare anche una parte di coloro i quali non si interessano di politica (60%) e quindi non seguono le relative trasmissioni e/o giornali (in quanto le discussioni via social tendono a scivolare tra i temi), è ormai la principale arena da contendere. Quella nella quale si definisce la vittoria o sconfitta delle forze politiche.

Ma questa arena non si presta molto alla strategia “tutta testa e comunicazione” del populismo in stile sudamericano e/o di prima generazione.

In un certo senso rende invece di nuovo necessaria l’attivazione di “influencer”, mobilitazioni politiche, reti di comunicazione diffuse, quel che potrebbe somigliare nuovamente alla rete delle “sezioni” dei vecchi partiti, ma immaterializzata (o distribuita).

Rispetto alle tipologie di partito che, a grandissimi linee si sono sin qui viste, dal “Partito dei notabili” di fine ottocento e primo novecento, spazzato via dal “Partito – massa” (o ‘reclutatore’) del dopoguerra, e poi degenerato nel corso del mutamento dal fordismo all’accumulazione flessibile in Partito “stratarchico” (o dei cacicchi) e, contemporaneamente, in Partito del leader, o “piattaforma” (o Partito populista prima maniera) che esasperano la verticalità la nuova orizzontalità determinata dall’iperframmentazione contemporanea, unita alle ubique tecnologie di messa in contatto farebbe ipotizzare l’insorgenza di una possibile alternativa.

Ma prima di parlarne due parole sulla situazione, a partire dallo shock del 4 marzo:

  • Ha preso il centro della scena l’insostenibilità tendenziale di un fenomeno migratorio (sia in ingresso, sia in uscita) che ridefinisce la struttura del lavoro e preme sulle risorse scarse disponibili;
  • Quindi la rabbia, molto ben giustificata, di una parte assolutamente maggioritaria della società italiana che si sente ignorata, marginalizzata e posta a rischio dalla trasformazione del sistema economico e dalla più che evidente disgregazione in essere (una radicalizzazione della “piattaforma tecnologica” post-moderna[11]);
  • l’impossibilità, stante l’attuale divisione del lavoro istituzionale imposta dalla meccanica del progetto europeo realmente esistente, e progettato in anni ormai lontani ed in una fase di accecamento del quale oggi paghiamo tutto il prezzo, di mobilitare le risorse del paese che, anzi, continuano a defluire tramite plurimi meccanismi non solo finanziari;
  • questo è il contesto nel quale l’impatto delle trasformazioni del modo di produzione, sulla spinta di una crescente meccanizzazione, interconnessione e dematerializzazione, che come è sempre avvenuto in passato spiazza parte importante delle persone biograficamente fondate nel vecchio modello in via obsolescenza crescente e quindi richiederebbe un maggiore impegno di risorse collettive, e di adattamento alle specifiche esigenze nazionali, inibite dalla struttura di governance multilivello nel frattempo creata;
  • infine aggrava l’obsolescenza di sistema anche la fragilità ecologica, che è a sua volta spia della frattura tra produzione e riproduzione e che richiede un’analisi strutturale che non si attardi in spiegazioni neo-malthusiane, romantiche o in illusioni di gestione tecnocratica[12], quando invece si tratta di un effetto della natura di classe del modello di sviluppo e della tendenza del capitalismo a consumare senza alcun senso del limite lo spazio nel quale cresce, determinando la sua crisi.

Di fronte a questi temi, ormai non aggirabili, la cultura di tutte le sinistre, da quelle che hanno fatto del ‘riformismo’ ormai un altro nome per l’adattamento ad un assetto del mondo pensato erroneamente come inevitabile e moderno ad un tempo, a quelle che, definendosi come ‘antagoniste’ purtuttavia hanno incorporato profondamente il rifiuto dell’azione collettiva (ovvero la politica della sorveglianza che abbiamo precedentemente descritto) che è l’arma principale dell’eterno presente nel quale prosperano sempre e solo i più forti, ha abbandonato di fatto il campo. Si è dunque rifugiata nella critica morale e nella coltivazione della propria pretesa, ed autoattribuita, superiorità.

Il campo è dunque interamente occupato da altri e dobbiamo tornarci.

 

Il “Dilemma Kuzmanovic-Autain[13]

Ma per tornarci è necessario assumere qualche decisione e confrontarsi con un profondo dilemma: quello tra l’aspirazione alla riconquista storico-politica dei ceti popolari, contendendo l’egemonia consolidata alla destra sul campo largo, ed ormai maggioritario[14], delle classi marginali, e la difesa delle aree di consenso residue che alla fine possono essere conservate solo su temi morali, data la divergenza degli interessi. Di fatto uno scontro tra ‘nuvole verbali[15] e scelte difficili.

Il populismo di sinistra di prima generazione, fortemente connesso con il narrativismo post-moderno, e fondato su una logica “intersezionale” e di aggregazione di minoranze sembra alla fine trovarsi senza terreno sociale sotto i suoi piedi. La sua genetica vaghezza sui temi dirimenti, e la incapacità di scegliere un livello strutturale di scontro, lo rende poco adatto alla durezza estrema della polarizzazione in atto.

Gli esempi sono diversi: Podemos, naturalmente, giunto al governo ma, secondo alcuni suoi rilevanti esponenti[16], anche al termine della sua spinta propulsiva; quindi France Insoumise, dimostratasi incerta tra la linea rivolta alle periferie ed alle masse popolari e quella tradizionale delle alleanze con le espressioni della base sociale in via di restrizione, ma ancora forte, dei ceti riflessivi metropolitani. Difficoltà ne incontra anche, nel determinare una linea politica coerente, di fronte alla turbolenza indotta dal lacerante dibattito della Brexit, il Labour di Jeremy Corbyn, che pure si trova in una situazione diversa.

Tuttavia negli ultimi mesi di questo anno sono emersi nel cuore dell’Europa nuove ipotesi di lavoro per una sinistra che vorrebbe riprendere la strada abbandonata nel ’89 e non rassegnarsi all’ineluttabilità della ritirata ed alla gestione della liquidazione. Sono ancora variamente deboli, sfocate, incerte, ma credo abbiano il seme di una speranza: Ausfehen[17] di Sahra Wagenknecht, capace da settembre ad oggi di radunare quasi 200.000 adesioni (oltre dieci volte i vari partitini della sinistra radicale italiana); molto lontani Republique-Souveraine[18] di Djiordie Kuzmanovic, appena uscito da France Insoumise perché in disaccordo con la linea di sinistra tradizionale e “intersezionale”.

È, ovviamente, presto per comprendere se questi nuovi spunti potranno agire per liberare dalla sua lunga ipnosi una prospettiva socialista rinnovata, ma è abbastanza chiaro che per riuscirvi occorre riprendere una certa dimenticata durezza, ed escludere:

  • la “sorveglianza”, il restare fuori (Rosanvallon) a fare l’eterno assedio (morale) al castello;
  • il partito identitario che si separa dalla società, verso la quale assume il tono da maestro;
  • gli svariati movimenti a ‘mezzaluna’[19], lo stare fuori e dentro[20];
  • di ‘restare nel vuoto’[21], il partito-élite, aristocratico.

Invece si deve cercare di compiere un lavoro rivolto:

  • a produrre un mondo leggibile, operando una dimensione fondamentalmente cognitiva del politico, aiutando la parte subalterna della società a rappresentarsi, costituendosi. Ma anche, con lo stesso gesto, a mettere la parte dominante di fronte alle proprie responsabilità.
  • A simbolizzare il potere collettivo, trasformando un “popolo introvabile” in una comunità viva.

Bisogna in sostanza individuare con nettezza una diversa costituente sociale, ben distinta da quella della sinistra contemporanea che ha abbandonato quella della sinistra storica, e capace di riorientare una nuova politica di classe (come noto un costrutto).

Questo lavoro, avendo in mente il “dilemma Kuzmanovic-Autain”, si può tentare in alcuni luoghi strategici:

  1. il lavoro, la centralità della cultura, della civiltà e della prassi del lavoro,
  2. la Protezione Sociale come primo, ed essenziale, prodotto delle Istituzioni e della Democrazia che le deve fondare,
  3. la riqualificazione dello Stato come luogo della democrazia e la Programmazione come pratica necessaria per orientare le risorse al bene comune,
  4. l’Economia Mista come orizzonte,
  5. la declinazione del concetto di Sovranità nazionale in senso Socialista e Costituzionale,
  6. Una nuova idea di Europa come confederazione di Stati sovrani e realmente democratici,
  7. La regolazione della immigrazione, come ineludibile conseguenza della regolazione del lavoro e dell’espansione universalista dello Stato Sociale e della protezione, sul quale dovrà necessariamente emergere una nostra posizione realmente autonoma e non reattiva, ovvero antagonista sia ai nazionalisti della destra italiana ed europea, sia ai “no border” inconsapevolmente borghesi.

Considerando la completa inversione della “base sociale”[22] tra destra e sinistra, poi seguita il 4 marzo dalla “base di massa”[23], è necessario che sia oltrepassato anche il “populismo di sinistra di prima generazione”, incapace di proporre autentica discontinuità nelle condizioni europee, e sia avviato un movimento politico che non guardi più principalmente a sinistra (ovviamente intendendo con ciò i totem identitari che nel tempo hanno svolto l’essenziale funzione di nascondere agli stessi occhi dei militanti ed elettori gli interessi perseguiti, e quindi il rovesciamento avvenuto: il cosmopolitismo, la liberazione individuale del desiderio e quindi la retorica dei diritti avulsa dalle condizioni della loro effettività, il suprematismo morale e quindi il “politicamente corretto”, autentico marcatore di classe, anche se inconsapevole).

Occorre anche premiare il faticoso lavoro di montaggio di soggettività e di interpretazione del mondo, e rifuggire alla passione per l’agilità, la rapidità, la semplificazione, che è un ulteriore e chiaro segno dell’egemonia neoliberale “governista”. Il punto cruciale è produrre una rottura, leggere il tempo, le sue fratture e indicare le questioni dirimenti, quelle che hanno una loro resistente permanenza.

 

La forma-partito adatta ad essere lievito e strumento di una ricomposizione che è processo molto più largo non può chiaramente più essere il partito-massa novecentesco, per il quale non ci sono le condizioni sociali (e non ci saranno a lungo), non ultimo per il drastico cambiamento della “piattaforma tecnologica” contemporanea. Ma non può essere neppure il “partito piattaforma” e/o “populista di prima generazione” (leaderistico e disattivante, incapace di produrre una coerente visione di futuro, tendente al nominalismo e all’adattamento mimetico), che rispondeva alla “piattaforma tecnologica” Post-moderna, in via di tramonto.

Bisogna superare quindi le varie forme di “partito snello”, incluso quelle populiste, che cercano fondamentalmente di saltare il sociale dandolo per perso nella trasformazione neoliberale delle soggettività, in particolare borghesi, e si sforzano di disintermediarlo. In altri termini, forme che cercano di aggregare nei momenti elettorali una “base di massa” (necessaria per vincere) senza avere realmente una “base sociale”, ma al più disponendo di un suo sostituto funzionale in network di poteri e domande.

E’ stata a lungo la formula vincente, ma stiamo ormai passando oltre.

Ciò che serve è ben altro: un “partito-comunità”, capace di larghe discussioni molecolari (e qui la “piattaforma tecnologica” in via di affermazione aiuta), condotte facendo largo uso della capacità reticolare dei social -nei quali si forma buona parte dell’opinione politica- e di mobilitazione anche plurale e federale (qui alcuni difetti[24] di France Insoumise devono avvertire).

Il punto cruciale è ritornare ad avere una “base sociale”, con tutta la sua calda pesantezza, e cercare di mobilitare la capacità dell’uomo di essere-per-l’altro entro comunità di discorso e condivisione di obiettivi.

Come scrive Axel Honneth, in un bel libro sul socialismo[25], è infatti solo nello scontro tra gruppi sociali che portano interamente se stessi in campo, dunque impegnano le proprie visioni, esigenze e storie diverse, la propria situatività e intera personalità, ovvero si potrebbe dire la propria concreta materialità, che si può dare una forma di “progresso normativo” fatto concretamente nella storia e non metafisicamente presupposto in essa dall’alto di una teoria.

Del resto il socialismo, scrive Honneth, “rimanda fin dalle sue origini a un movimento di critica immanente del moderno ordinamento sociale di tipo capitalistico. Di quest’ultimo vengono sì accettati i fondamenti normativi ancorati ai principi di libertà, eguaglianza e fraternità che lo legittimano, ma viene messo in dubbio che essi possano essere realizzati in modo non contraddittorio se la libertà non viene ripensata in senso meno individualistico, e dunque insistendo con maggior decisione in direzione di una sua applicazione di taglio intersoggettivo” (H. p.27). questo è il fulcro e caposaldo dell’intero movimento. Nell’unico punto in cui, nel lavoro di questi autori seminali, la cosa è enunciata da Proudhon (1849) viene affermato che la “libertà di ciascuno” non deve essere intesa come “limite”, ma come “ausilio” di quella degli altri.

Il passo decisivo per la messa a fuoco di questo concetto (che Honneth chiama hegelianamente “libertà sociale”) lo compie il giovane Marx, come noto vicino sia a Proudhon, che conobbe in Francia, sia alle letture di Hegel. Data la sua posizione esterna all’ambiente francese, impregnato dello sforzo di fare i conti con la sua tradizione, il giovane filosofo lascia sullo sfondo i concetti di “libertà” e “fraternità” e, già negli anni quaranta ragiona principalmente su cosa possa essere una “comunità integra”. In essa principalmente gli attori non si riferiscono gli uni agli altri come “commercianti” (in ironica polemica con la formula di Adam Smith), ma sono uniti dal riconoscimento reciproco non del rispettivo privato egoismo, ma dei rispettivi bisogni. In un’associazione di liberi produttori quindi si agisce, attraverso una certa divisione del lavoro non coatta, l’uno-per-l’altro (H. p.32). Dunque in essa i rispettivi piani di vita non si intrecciano solo per mezzo di un’anonima intersezione di scopi, ma per un’effettiva condivisione della preoccupazione che tutti possano giungere all’autorealizzazione.

La “libertà” non è quindi più realizzabile dai singoli, “ma solo da una formazione collettiva adeguata”. Il medium della libertà è il gruppo sociale in quanto totalità che, però, si costituisce a partire dall’orientamento comportamentale dei suoi membri. La questione è rilevante, la libertà sociale non cade dall’alto, ma sorge per impulso degli stessi membri; si tratta di sviluppare una capacità di orientarsi spontaneamente gli uni verso gli altri, realizzando contemporaneamente i tre ideali di “libertà”, “eguaglianza” e “fraternità”. Un sistema distributivo più giusto è quindi da concepire insieme e per effetto di una nuova forma di vita comunitaria[26].

Dunque, dopo questa piccola divagazione, torniamo all’ipotesi proposta:

  • è necessaria una nuova capacità di costituire “parte”, ma questa volta “parte-comunità”, ancorandosi:
    • sia alla capacità reticolare dei social (e quindi investendo nuovamente sulla militanza, l’adesione), per vivere in larghe discussioni molecolari ed orizzontali (pensandosi a partire dalla “piattaforma tecnologica” in via di affermazione e non sulla base di una che tramonta),
    • sia, e contemporaneamente, alla mobilitazione anche plurale e federale faccia-a-faccia e nei luoghi.
  • Le due vie convergono nello sforzo di ricostruire la socialità, oltrepassando l’individualismo liberale e il suo non-umano, ritrovando la capacità di essere umano nell’essere-per-l’altro entro comunità di discorso e condivisione di obiettivi.

Bisogna ricordare che il socialismo è principalmente una nuova antropologia, più umana.

Come farlo è domanda completamente aperta e certamente non facile.

 

[1]Ma quale è la legittimità che i Partiti Politici stanno perdendo? Quale era la sua origine e dinamica? Il Partito Politico non ha mai avuto buona fama, molti degli argomenti che risuonano nella nostra sfera pubblica sono stati formulati nel corso della lunga storia politica del continente. La caratteristica preminente del Partito è stata spesso vista come l’azione di separare, parzializzare, e dunque come fonte di scontri, divisione e odio distruttivo. Il clima cambia solo dopo la fine delle guerre di religione, e cominciano ad essere sdoganati nel pensiero politico continentale con David Hume e Edmund Burke, che ammettono la possibilità che i Partiti possano fondarsi anche su “principi” e non solo su interessi divisivi. Ma, appunto, per loro solo il Partito orientato al “bene comune” è accettabile, solo se va oltre gli interessi particolari “connessi allo spirito di fazione”. Dunque in qualche modo i Partiti non sono ammessi e saranno legittimati pienamente solo dalle rivoluzione (francese ed americana), come corollario dell’impulso di libertà. Nella voce dell’Enciclopedie di Rousseau sono citati senza critiche e anche in Voltaire. Ma quando la rivoluzione prende piede ricompaiono le esitazioni. I rivoluzionari temono “i corpi intermedi”, scriverà l’abate Seyes: “l’assemblea di una nazione deve essere sempre costituita in modo da isolare gli interessi particolari e rendere conforme al bene generale le decisioni della maggioranza” (S. p.9). In altre parole, la fazione è un attacco alla sovranità. Malgrado questi dubbi nel 1790 sono autorizzate le “libere società”, e già un anno dopo, grazie ad un intelligente modulo organizzativo, il “club dei giacobini” vede mille organizzazioni sul territorio francese.

Sarà successivamente la controrivoluzione a vedere la cosa in modo totalmente negativo: per essa la buona società è organica e gerarchica, ognuno ha il suo posto, desunto dalla tradizione, ed è la tradizione che ‘interpreta’ il volere divino e informa di sé la società. Alla fine quindi il pluralismo è il male sia per chi difende il contratto sociale sia per chi vuole un ordine teocratico.

Dall’altra parte dell’oceano i Partiti sono accettati, ma cercando di contenerne la “violenza devastatrice” (come dirà Madison).

Una sintesi è tentata nell’ottocento da Alexis de Tocqueville, che propone di distinguere tra “grandi” e “piccoli” Partiti. I primi sono diretti al bene comune e vanno considerati legittimi, i secondi vanno assimilati alle “fazioni” e da combattere.

Man mano che il secolo va avanti, però, i Partiti Politici prendono il centro della scena, questo avviene con due percorsi paralleli: nei Parlamenti gli eletti, che inizialmente sono “notabili” dotati di un potere locale nella società che traducono in potere politico, costituiscono Partiti con un basso livello di coesione interna, fuori si addensano movimenti di massa più identitari che premono per essere rappresentati e far sentire la propria voce organizzandosi in Partiti.

Tra “Partito dei notabili” (liberale) e “Partiti di massa” (cattolici, socialisti e poi fascisti) precipita la crisi degli anni venti. Il concetto e la prassi di Partito pluralista si trova schiacciato tra l’esaltazione della Nazione (in Francia) e dello Stato (in Germania ed Italia). Ciò che hanno in comune entrambe le nuove soluzioni è l’essere incentrate su entità superiori e la natura sia monista che organicista. Si tratta di un’aspirazione all’armonia ed alla totalità che identifica come nemico il pluralismo e quindi la divisione. In conseguenza viene negata la legittimità dei Partiti.

Si entra per questa via nell’età dei totalitarismi, in cui “i” Partiti mutano “nel” Partito, che sussume in sé la Nazione e si affianca (nel caso italiano e tedesco) o sostituisce (nel caso russo) allo Stato. Si passa per una brevissima stagione di Partiti confessionali di massa (socialisti per lo più) che trovano nel suffragio universale l’arma per affermarsi. Ma si sbocca, quasi subito, nella creazione di un solo Partito che prende tutto, è il caso ovviamente del Partito Nazionale Fascista. Nel 1942, al termine della fase espansiva dei totalitarismi, sono rimasti solo quattro paesi pluripartitici (Gran Bretagna, Irlanda, Svezia e Svizzera), ovunque nel continente ci sono Partiti Unici totalitari. Dirà Roberto Michels “ogni partito cerca, inevitabilmente, di imbrigliare lo Stato, di assorbirlo, di fagocitarlo e di adattarlo agli obiettivi e alle idealità del partito stesso”

Dunque sorgono, al posto dei vecchi “Partiti dei notabili” dei “Partiti di massa” che si considerano interpreti dell’interesse generale e non di interessi settoriali e limitati. Questa nuova forma cresce insieme ai vasti movimenti connessi con il processo di industrializzazione ed alla formazione collaterale di leghe, associazioni, movimenti cooperativi, sindacati, …

Ora, tuttavia, questo modello che ha informato di sé buona parte del novecento, “è morto”.

Ci sono fondamentalmente tre cause:

–        la società è diventata post-industriale;

–        in parte prevalente è diventata “opulenta” (termine di Galbraight);

–        si sono diffusi, ed hanno raggiunto diffusione capillare, nuovi media potentissimi.

Sotto la pressione di questi tre fattori tutti i partiti (ed in particolare quelli confessionali e socialisti) si secolarizzano gradualmente a partire dagli anni sessanta fino agli ottanta. Dopo questa data tentano di diventare “pigliatutto” (schema sul quale si dilunga in particolare Colin  Crouch) e in certi casi (in particolare francese) si leaderizzano. In Italia il processo è frenato dalla grande forza del PCI, fino alla “catarsi” del 1989 dopo la quale anche la sinistra affronta una “grande trasformazione”.

Gli effetti sono che l’iscritto perde la sua capacità (attraverso le gerarchie del partito e nei congressi) di influenzare e condizionare l’azione e diventa centrale il media televisivo. Un altro, nell’allontanamento dalla base e dai territori, non più necessari, è che inizia il “Partito cartellizzato” o “Stato-centrico”. Finiscono le grandi concentrazioni omogeneizzanti, connesse con la produzione, e inizia l’invasione capillare dei new-media, l’atomizzazione della vita quotidiana ed il declino delle appartenenze collettive. È il trionfo dell’individualismo “con tinte di narcisismo” (Ignazi, p.38). Spinge in questa direzione anche il movimento ecologista-libertario, figlio delle rivoluzioni sociali del 1968, che sposta l’attenzione sulla sicurezza fisica e il sostegno a valori “postmaterialisti” (come proporrà di considerare la cosa sia Giddens sia Inglehart). Nel frattempo anche le socialdemocrazie si sclerotizzano e i Partiti tornano quindi entro il campo di attrazione dello Stato. Man mano che perdono il contatto con la società, e riescono a “saltare” il livello locale nella costruzione del consenso grazie ai media, questi si riportano nella posizione che avevano guadagnato in passato (ovviamente in modo meno cruento ed anche massivo) occupando i ruoli ed i posti dell’amministrazione statale per sfruttarne le risorse. Ci sono molte conseguenze strutturali: la unità centrale di direzione dei maggiori partiti diventa più indipendente e isolata (anche finanziariamente), mentre le strutture locali si autonomizzano (andando in qualche modo verso un nuovo notabilato).

E, come nell’altro passaggio storico ricordato, ci sono rischi connessi strettamente con la sfiducia ed il discredito della rappresentanza e del pluralismo: la delega diretta ed individuale, “affidata ad un capo, un leader, un duce” (I. p.127). Si tratta di un esito insieme logico e ricorrente, che malgrado gli esiti disastrosi (incluso la guerra) “continua ad esercitare un certo fascino”. Il motivo è che ha il pregio della semplicità, della riduzione dei costi di decisione.

[2] – Chiamo “Piattaforma tecnologica” un set di funzionamenti essenziali, punti di convenienza e vantaggio per i diversi gruppi e ceti sociali, determinati da network di tecnologie convergenti e reciprocamente rafforzanti, quindi dall’insieme di skill favorite da queste e di know how privilegiati, ma anche da norme sociali e giuridiche che si affermano nella sfera pubblica e privata, e infine da pacchetti di incentivi pubblici e privati (entrambi coinvolti nella affermazione del network di tecnologie). Una “Piattaforma Tecnologica” è, inoltre sempre connessa con un assetto geopolitico che la rende vincente (ed in ultima analisi possibile).

[3] – Bernard Manin, “Principi del governo rappresentativo”, 1997

[4] – Si veda, Ernesto Laclau, “La ragione populista

[5] – Pierre Rosanvallon “La politica nell’età della sfiducia”,

[6] – Colin Crouch, “Post-democrazia

[7] – Mauro Calise, “La democrazia dei leader

[8] – Nadia Urbinati “La democrazia in diretta

[9] – “Vox populi”, Il Mulino 2019.

[10] – Si veda, Marco Revelli, “Dentro e contro

[11] – Qualche spunto nel post “Appunti sul mutamento della piattaforma tecnologica”.

[12] – Si veda su questo punto, “Greta Thunberg la posta egemonica

[13] – Kuzmanovic e Autain sono due noti esponenti di France Insoumise, che incarnano una radicale differenza di linea e di prospettiva politica. Da tempo tra la linea popolare, rivolta a tentare di ricostruire un rapporto affettivo e di sostegno reciproco con i ceti popolari da decenni abbandonati dalla sinistra, e la linea intersezionale e multiculturalista, basata sull’insediamento sociale residuale della sinistra, ovvero parte dei ceti “riflessivi” provenienti dalle medie borghesie professional e renditiere urbane, si era aperto un conflitto. All’avvicinarsi delle elezioni europee, e in concomitanza con la ricerca, da parte della direzione del movimento, di un accordo con i residui organizzati dell’area socialista (il movimento di Chenènement e quello di Mauriel), ad inizio di settembre alcuni articoli sull’immigrazione e sulla posizione di svolta della Wagenknecht in Germania, hanno determinato l’avvio della rottura. Come ricostruivo in questo post, Kuzmanovic ha dichiarato che temi, anche importanti, come il femminismo, i migranti ed i diritti LGBT, non hanno a che fare specificamente con la ‘sinistra’, ma sono temi di lotta tipicamente liberali. Il punto è che la sinistra o è popolare o non è, e dunque ha quale suo specifico “la difesa delle classi popolari e la lotta contro il capitale”. Parte di questa lotta è la necessità di ridurre l’esposizione di queste agli effetti negativi collaterali implicati dalle immigrazioni, se eccessive in termini di ritmo e caratteristiche. Clémentine Autain, deputata di Parigi, oppone a questi argomenti un punto di vista identitario che teme di perdere “anima ed immagine”. Kuzmanovic ha finito per doversi dimettere.

[14] – La base di tutto che si fatica davvero ad assumere è che lo slittamento dalla “piattaforma tecnologica” fordista a quella post-fordista, e la sua radicalizzazione determinata dalla ristrutturazione capitalista del 2007-18 ha determinato una dualizzazione pronunciata e la divaricazione tra una minoranza sempre più tale di abbienti, soddisfatti e chiusi nelle torri d’avorio della propria presunzione ed una maggioranza, sempre più larga, di periferici o di spaventati.

[15] – Il riferimento è al giudizio da parte di Karl Marx di parte del programma della sinistra socialista francese di Guesde.

[16] – Ovvero Manolo Monereo, conversazione privata.

[17] – Si veda “Aufstehen

[18] – Si veda “Circa le dimissioni di Djiordie Kuzmanovic

[19] – Metafora calcistica, riferita al movimento di un attaccante che entra ed esce dalla linea dei difensori.

[20] – Un esempio, forse sgradevole, è il Renzi di lotta e di governo che monta, sulle orme dell’esempio berlusconiano un “populismo di governo” (cfr, Marco Revelli, “Dentro e contro. Quando il populismo è di governo”)

[21] – Per la metafora del “vuoto”, si veda Peter Mair, “Governare il vuoto, la fine della democrazia dei partiti

[22] – Si intende per “base sociale” i ceti, o frazione di questi, che forniscono il consenso di base, l’identificazione a due vie, il supporto economico e la base di reclutamento principale, di un movimento politico. Un esempio di analisi che fa uso di questa concettualizzazione in riferimento a politiche della destra italiana sono in questo post.

[23] – Si intende per “base di massa” l’area di più largo consenso di massa, che si manifesta in occasione del voto o dei momenti di mobilitazione allargata.

[24] – Per questo aspetto segnalo l’intervento di Lenny Benbara “La France Insoumise, dal partito al movimento”.

[25] – Axel Honneth, “L’idea di socialismo”.

[26] – La cosa è abbastanza semplice da capire: noi stessi usiamo spesso il termine comunità, intendendo una condivisione di finalità ed un senso di comunanza e reciproca simpatia (che si manifesta automaticamente, ad esempio, quando due connazionali si incontrano in un paese estero non familiare) che porta ad un certo grado di disponibilità a farsi carico dei bisogni dell’altro, ovvero un certo grado di essere-sé nell’altro (secondo una fulminante formula di Hegel) nel quadro di unità anonime.