Epigenetica e fantasmagorie transumaniste_4a parte, di Massimo Morigi

Massimo Morigi

Epigenetica, Teoria endosimbiotica, Sintesi evoluzionista moderna, Sintesi evoluzionistica estesa e fantasmagorie transumaniste. Breve commento introduttivo, glosse al Dialectical Biologist di Richard Levins e Richard Lewontin, su Lynn Margulis,  su Donna Haraway e materiali di studio strategici per la teoria della filosofia della  prassi olistico-dialettica-espressiva-strategica-conflittuale    del    Repubblicanesimo    Geopolitico

                                                    (IV parte di 5)

 

Al Dialectical Biologist, che è in errore numerose volte ma che è  nel giusto sui punti essenziali

A Lustig von Dom e alla sua madre in dialettica Frau Stockmann, Friederun von Miran-Stockmann

Questo documento, che ora viene presentato in anteprima sul blog di geopolitica “L’Italia e il Mondo”, inteso a raccogliere e a dare un primo approccio alle valenze teoriche che per il Repubblicanesimo Geopolitico possono rivestire le ultime acquisizioni della biologia molecolare e dell’epigenetica e costituito dal presente commento su questo argomento più una  rassegna di URL attraverso i quali i lettori possono prendere visione di importanti documenti afferenti a queste branche della biologia, che erano già presenti sul Web ma che noi, vista la loro importanza sia scientifica  che per la teoria del Repubblicanesimo Geopolitico, abbiamo provveduto a caricare su Internet Archive (e nella rassegna bibliografica finale verranno debitamente indicati gli URL da cui originariamente sono stati scaricati i documenti  – URL e documenti relativi che, quando tecnicamente possibile,  sono stati da noi anche “congelati” tramite  la Wayback Machine – accanto agli URL creati ex novo attraverso i nostri caricamenti su Internet Archive), sviluppa la sua critica a queste nuove acquisizioni delle scienze biologiche nell’ambito dello studio e dell’elaborazione   del  paradigma olistisco-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico – teoria-paradigma dell’azione olistico-dialettica-espressiva-strategica-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico   ultima sintesi e sistemazione della filosofia della prassi i cui maggiori esponenti sono stati nel Novecento Antonio Gramsci, Giovanni Gentile e Karl Korsch – e azione olistico-dialettica-espressiva-strategica-conflittuale che, in primo luogo, dalla profonda   dialetticità del Dialectical Biologist di Richard Levins e Richard Lewontin (per quanto ancora  il Dialectical Biologist non sia riuscito del tutto a liberarsi dello pseudodialettico  engelsismo1 della Dialettica della natura e dell’ Anti-Dühring),  dall’epigenetica (principale esponente Eva Jablonka), dalla teoria endosimbiotica di Lynn Margulis e quindi da un aggiornato lamarckismo riceve potenti stimoli dialettici ed euristici. (Oltre che ottenere una riabilitazione, se non in sede di histoire événementielle, cioè in sede di una impossibile riabilitazione dello stalinismo, ma sì dal punto di vista di una nuova teoresi olistico-dialettica-gnoseologica-epistemologica-politica – cioè dal punto di vista di una rinnovata filosofia della prassi di cui si è appena detto – cui il Repubblicanesimo Geopolitico cerca di dar vita, del tanto ideologicamente diffamato Trofim Denisovič Lysenko, la cui genetica non può essere sbrigativamente liquidata come una infelice pseudoscienza frutto della pseudodialettica dell’autoritario e veteroengelsiano Diamat staliniano, quanto fu piuttosto una forma di lamarckismo ancora all’oscuro dei meccanismi    che    indirizzano   l’evoluzione  degli  organismi2, meccanismi  che cominciano solo ora ad essere compresi dall’epigenetica e, più in generale, da tutti quegli approcci di ricerca biologica e genetica che intendono costruire una Extended  Evolutionary Synthesis  –  Sintesi evoluzionistica estesa, per la  quale anche il dato culturale acquisito,  costruito ed introiettato  dall’organismo stesso in una sorta di autopoiesi genotipico-fentotipica per poi riverberarsi, questa autopoiesi culturale-genetipica-fenotipica, al livello dello stesso ambiente che ne rimane influenzato perché, evolutosi in seguito a questa modificazione dell’organismo, modifica a sua volta dialetticamente l’organismo stesso, è una decisiva componente dell’evoluzione3 – non contrapposta alla Modern Evolutionary Synthesis (Sintesi evoluzionistica moderna, detta anche neodarwinismo – responsabile di aver esasperato in senso meccanicistico le felici intuizioni darwiniane, e costituendo quindi la Sintesi Evoluzionistica Estesa non tanto una fuoruscita dal canone evoluzionista darwiniano ma bensì, attraverso la consapevole introduzione nel campo  teorico esplicativo dell’evoluzione di una Gestalt storicistico-dialettica, non una contrapposizione all’idea darwiniana di evoluzione, modello darwiniano di evoluzione  nel quale erano tenuti in precario equilibro valenze meccanicistiche e valenze storicistiche, ma semmai una sua pur profonda e radicale integrazione alla luce di un rinnovato lamarckismo che solo ora con le nuove tecniche di investigazione scientifica comincia a sviluppare tutte le sue potenzialità) ma al più o meno rozzo meccanicismo che precedentemente aveva afflitto la Modern Evolutionary Syntesis che ha portato alle più estreme ed infauste conseguenze i nodi irrisolti  presenti nel modello  darwiniano4. Si noti bene:  Darwin  era  ben  consapevole dei notevoli problemi che il suo schema di evoluzione delle specie animali e vegetali che vedeva questi organismi come soggetti passivi rispetto all’ambiente si portava con sé e, piuttosto che per il meccanicismo del suo schema evolutivo, l’immortale importanza del suo lascito scientifico consiste nel fatto che egli, a differenza di Lamarck, collegò la variabilità degli organismi all’interno di una specie con la comparsa di nuove specie che non sarebbero mai comparse se questa variabilità individuale non si fosse manifestata, mentre Lamarck, pur avendo correttamente individuato un meccanismo evolutivo dove l’organismo non giocava solo un ruolo passivo – classico l’esempio della giraffa che si allunga il collo per mangiare le foglie degli alberi e riesce poi a trasmettere direttamente alla prole questa sua caratteristica somatica – confinò questo meccanismo evolutivo all’interno di ogni singola specie, cosicché, per farla semplice, le giraffe potevano sì allungare il loro collo a seconda delle necessità ambientali ma dalle giraffe potevano evolversi solo delle giraffe e mai, mettiamo, una nuova specie di erbivori distinta dalle giraffe. Era un’idea di evoluzione un po’ modello arca di Noè, dove le specie del Creato sono sempre state le stesse ab initio temporum – nell’arca gli animali entrano a coppie  e, a parte la facile ironia che viene dalla domanda su come faranno i milioni di specie di viventi, anche se presenti solo a livello di una coppia composta da un maschio e una femmina, a stare dentro un così ridotto vascello, c’è una visione del mondo che sta dietro a questo singolare mito biblico, e cioè l’eterna fissità delle specie viventi che, dai tempi antidiluviani, quindi sin dall’inizio del mondo, sono sempre le stesse.  L’immortale lascito di Darwin non è, quindi, quello di avere recisamente rifiutato e sovvertito in direzione meccanicista il modello lamarckiano di un processo di attiva autopoiesi genotipico-fentotipica dell’organismo e di trasmissione di queste nuove caratteristiche così attivamente acquisite anche alle successive generazioni ma il fatto di aver compreso che la variabilità degli individui all’interno di una popolazione può generare nuove specie. Per rimanere all’esempio della giraffa. Secondo lo schema darwiniano, se particolari condizioni ambientali non costringono più le giraffe ad allungare il collo – o per attenerci ad una formulazione di ancor più stretta osservanza darwiniana, se particolari condizioni ambientali non favoriscono la selezione di giraffe dal collo sempre più lungo –, questo mutamento ambientale può selezionare   –  perché un collo troppo lungo che non risponda più a necessità alimentari è uno svantaggio in quanto una eccessiva massa dell’animale consuma troppe calorie – non solo giraffe dal collo più corto ma una nuova specie animale che non riesce più a riprodursi con le giraffe a collo lungo. Una eccezionale intuizione che, per la prima volta, riusciva a spiegare la presenza delle varie specie presenti sulla Terra partendo da una stessa famiglia di organismi. Insomma prima di Darwin sarebbe stato assolutamente impossibile concepire  LUCA (Last Universal Common Ancestor), e in mancanza di questo ‘ultimo antenato comune universale’ – o almeno in mancanza nella teoria evoluzionistica di un originario antenato iniziatore della vita, sia stato questo antenato un singolo organismo o un gruppo di (proto)organismi e/o molecole organiche (oppure vari e distinti gruppi di molecole organiche e/o (proto)organismi)  che siano divenuti una comunità di organismi  (o più comunità di organismi come nel secondo caso dei gruppi distinti) tramite il trasferimento di geni orizzontale ed evolutesi e differenziatesi in seguito in molteplici e diversificate altre comunità di organismi, cioè nelle varie specie biologiche presenti sul nostro pianeta – gli attuali  paradigmi evoluzionistici sulla varietà e differenziazione delle  specie dei viventi presenti sulla Terra, Sintesi evoluzionista moderna e Sintesi evoluzionistica estesa indifferentemente,  sarebbero gravemente mùtili  della loro  forza  euristica ed analogica nell’opposizione a qualsiasi Weltanshauung imperniata su una divinità personalistica e creazionistica ex nihilo ed ex suo5 – opposizione che è consustanziale alla filosofia della prassi olistico-dialettica-espressiva-strategica-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico –, una ingenua rappresentazione della religiosità popolare sull’origine del mondo  che iconicamente  trova oggigiorno la sua più limpida manifestazione nelle immagini devozionali di proselitismo religioso dei Testimoni di Geova rappresentanti il Paradiso Terrestre, dove leoni, giraffe e gazzelle ed altre specie selvagge vivono felici e rispettandosi a vicenda – povero leone costretto ad una dieta vegetariana, da costituirsi immediatamente un’associazione animalista contro i maltrattamenti alimentari che il leone subisce in questo paradiso terrestre, e alle fiamme il dipinto Paradiso di Jan Brueghel il Giovane, forse la più diretta fonte iconografica di queste immagini devozionali!6 –, e, a parte la bizzarria del leone vegetariano, recanti queste immagini un’altra informazione al devoto, e cioè che queste specie ora pacificate nel Paradiso sono state create tali e quali  ab initio temporum. Insomma, siamo sempre dalle parti dell’arca di Noè e delle mitologie veteroneotestamentarie e derivati7. Darwin  ha iniziato  a  liberarci  da  questa   mitica arca8. La Sintesi evoluzionistica estesa riesce, a sua volta, a liberarsi – e a liberarci –  nel campo della biologia e degli studi sull’evoluzione degli organismi dell’ideologia meccanicistica di stampo cartesiano-galileano – che nell’ Ottocento e  nel Novevento trovò la sua più tetra e ridicola interpretazione nel positivismo e nel neopositivismo – in cui finora era stata costretta questa liberazione e in cui era rimasto impastoiato, pur fra profondi dubbi, anche Darwin. E ovviamente il Repubblicanesimo Geopolitico non può che cogliere con profonda soddisfazione questo ulteriore avanzamento dialettico delle scienze biologiche e genetiche.).  Un’ultima notazione. Pur prendendo spunti ed analogie dalle nuove frontiere aperte dall’epigenetica, dalla sintesi evoluzionistica estesa  e dalla teoria endosimbiotica, ideata quest’ultima  da Lynn Margulis, il Repubblicanesimo Geopolitico si pone decisamente agli antipodi da tutte le ridicole e cupe impostazioni transumaniste, siano queste anche in forma più o meno attenuata come, per esempio, in Donna Haraway. Questo perché – sempre rimanendo al transumanismo harawayno, che attualmente  ne è la forma più attenuata, ed anzi la Haraway espressamente nega di condividerne i fini, anche se, in pratica, deve a buon diritto essere inserita in questa disumanizzante impostazione antropologica – pur riconoscendo volentieri e come segno indubbiamente positivo le potenzialità dialettiche e/o contro la vecchia suddivisione natura/cultura che promanano da tutto il lavoro della Haraway (dal Cyborg Manifesto per finire col Staying with the Trouble. Making kin in the Chthulucene9),  si   deve   sottolineare  il fatto che 1) questa dialettica è espressa per lo più attraverso immagini simboliche (il cyborg del Cyborg Manifesto, l’endosimbionte del Stayng with the Trouble – quest’ultimo, comunque effettivamente esistente nella realtà mentre il primo, almeno per ora, è solo il frutto di una fantasmagoria fantascientifica), che per quanto immagini inconsce ed oniriche della dialettica si fermano sempre ad un passo da una piena consapevolezza della stessa e che 2) il progetto transumanista che traspare da tutto il lavoro della Haraway (per quanto il transumanismo venga formalmente respinto dalla Haraway) altro non si risolve alla fine, anche se abbandonando l’iniziale fantasmagoria fantascientifica del Cyborg perché evidentemente percepita dalla Haraway troppo disumanizzante, che in una fuoruscita dall’umano  non più in via bioingegneristica  come nel Cyborg Manifesto ma in via ingegneristico-genetica (cfr. in Staying with the Trouble il racconto fantascientifico The Camille Stories: Children of Compost10), ma fuoruscita storica dalle attuali contraddizioni storiche dell’umano –  e non dall’umano stesso inteso come dispositivo olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale come invece propone il transumanismo che lo vorrebbe sostituire con un più perfezionato prodotto da laboratorio ma dal quale, ahinoi, scompare la dimensione storico-dialettica della sua evoluzione – che solo può compiere una soddisfacente Aufhebung attraverso una rinnovata e potenziata filosofia della prassi, insomma quella filosofia della prassi, erede dell’idealismo storicista italiano e tedesco e delle migliori espressioni del marxismo occidentale direttamente influenzate da questo idealismo,  che nel XXI secolo solo il Repubblicanesimo Geopolitico ha assunto su di sé il compito del suo sviluppo e potenziamento teorico-pratico. E, infatti, l’incapacità della Haraway a formulare coerentemente un suo autonomo ed originale pensiero dialettico e addirittura il tentativo di fare dell’endosimbionte il simbolo di un nuovo rapporto dell’uomo con la natura  e con la società – suggerendo quindi che l’endosimbionte è, in un certo senso, il  culmine della scala biologica e l’obiettivo cui deve tendere una rinnovata ingegneria sociale poggiata su un’ideologia ecologista e realizzata attraverso le sempre più penetranti tecnologie genetiche utilizzate per modificare il genoma umano: cfr. oltre al summenzionato apologo fantascientifico ancora, passim, Staying with the Trouble. Making kin in the Chthulucene e, in particolare, alle pp. 61-62, 64 la trattazione sul simbionte   Mixotricha paradoxa11– sfocia  alla  fine,  sempre   in  Staying   with  the Trouble, certamente risultato non voluto dalla Haraway, nel progetto di una sorta di uomo nuovo, conseguito non attraverso una selezione e/o eliminazione di pool genetici e culturali umani come nel nazismo12 ma attraverso l’assorbimento nel stesso patrimonio genetico dell’homo sapiens, ad opera dell’ingegneria genetica,  del patrimonio genetico di altre specie animali e vegetali (questo processo di trasferimento di DNA e RNA non finalizzato a finalità riproduttiva all’interno di una specie ma fra membri appartenenti a specie diverse e quindi svincolato da qualsiasi teleologia riproduttiva – che, alla luce delle attuali acquisizioni nell’ambito del paradigma della sintesi evoluzionistica estesa, tutto si può dire di questo fenomeno tranne che si tratti di un ‘epifenomeno’ di trascurabile importanza, mentre è assai più verosimile pensare che si tratti di un passaggio decisivo dell’evoluzione degli organismi e dal punto di vista della dialettica del Repubblicanesimo Geopolitica ne è evidente la grande valenza euristica in quanto si pone agli antipodi di qualsiasi visione “fissista”  del mondo biologico e,  con profonda analogia,  della realtà tutta,  fisica, biologica, culturale e storica, proiettandoci quindi in uno schema olistico della realtà informato alla creazione autopoietica della stessa attraverso il  paradigma   dell’azione dialettico-espressiva-strategica-conflittuale – non è una fantasmagoria fantascientifica ma avviene in natura, e avviene anche per quanto riguarda l’uomo nel cui materiale genetico sono state rinvenute tracce più o meno consistenti di materiale genetico di altre specie animali, un trasporto probabilmente avvenuto attraverso virus vettori). Questo ‘trasferimento genico orizzontale’ svincolato dalla riproduzione  (acronimo TGO,  o ‘trasferimento di geni laterale’, acronimo TGL, in inglese ‘Horizontal gene transfer’, acronimo HGT) che avviene, ovviamente, anche dall’uomo verso gli animali, mentre potrebbe costituire una potentissima metafora dell’intima dialetticità non solo del mondo biologico ma, nell’ambito di una visione olistica della realtà tutta, non solo del mondo della φύσις globalmene intesa ma anche della realtà culturale e storica dell’uomo, viene  quindi suggerito dalla Haraway in Staying with the Trouble  – con grande sfacciataggine ed ingenuità materialistica, ma mai come nel caso della Haraway questo materialismo non è altro che il volto deturpato e degradato di un non ben superato spiritualismo, e infatti la Haraway non ha mai fatto mistero della suo background cattolico e della centralità nello sviluppo del suo   Bildungsroman del mistero della transustanziazione13– come  una  sorta  di processo da intensificare ulteriormente attraverso una sempre più scaltrita ingegneria genetica, venendo così a delineare, sempre involontariamente per carità, una sorta di eugenetica non di marca nazista ma di tipo ecologista, ignorando, come del resto avviene sempre nel nazismo e nelle altre forme di totalitarismo, che se mai si può parlare di uomo nuovo, questo uomo nuovo – se vogliamo mantenere per comodità espositiva questa espressione, sideralmente lontana dalla Weltanschauung olistico-dialettica-espressiva-strategica-conflittuale (e storicista) del Repubblicanesimo Geopolitico – non può che avere la sua reale epifania attraverso il potenziamento del Logos (Logos che non è una peculiarità dell’uomo ma che nell’uomo, a differenza degli altri animali ed anche vegetali, è la principale forza di indirizzo e di sviluppo della sua evoluzione), potenziamento del Logos che trova la sua massima espressione – attraverso il manifesto e pubblico compimento nella società, di una cultura informata al modello dell’azione olistico-dialettica-espressiva-strategica-conflittuale – nell’ Epifania strategica del Repubblicanesimo Geopolitico;  ed Epifania strategica che, per concludere,  può trarre, come effettivamente già trae attraverso la filosofia della prassi del Repubblicanesimo Geopolitico, potenti spunti euristici e dialettici dall’epigenetica e, più in generale, dall’ Extended evolutionary synthesis che finalmente si è lasciata definitivamente alle spalle il mito di un’evoluzione biologica guidata meccanicamente da forze esterne all’organismo e verso le quali l’organismo non possa dialetticamente interagire (quindi si può dire che l’ Extended Evolutionary Synthesis è una sorta di filosofia della prassi  per quanto riguarda gli studi biologici e di storia naturale); ma Epifania strategica che è l’esatto contrario della fuga in utopie comunistiche, comunitaristiche o eugenetiche di destra o sinistra che esse siano ma è,  una sorta di obiettivo limite;  o, se vogliamo una sorta di mito, ma un mito che affonda le sue radici nella reale natura dell’uomo14, natura dell’uomo, che similmente al resto del mondo animato ed inanimato ma con maggior evidenza di questi due ambiti  – che, allo stesso titolo  dell’uomo, appartengono alla stessa totalità dialettico-espressiva-strategica-conflittuale, e qui torniamo all’artificiosità della separazione fra mondo naturale biologico o fisico che esso sia e il mondo culturale, sociale e storico fino a poco tempo fa ritenuto di esclusiva costruzione umana, artificiosità nella separazione di questi due mondi che, alla luce di un vigoroso anche se non impeccabile sforzo dialettico perché impacciato da  un sentimento di reverentia ac metus verso la figura di Friedrich Engels, nessuno meglio del Dialectical Biologist è riuscito ad esprimere, cfr. del Dialectical Biologist pp. 277-288, sulle quali ritorneremo anche in future altre discussioni15 –,  è il Logos concreto ed immanente dell’azione olistico-dialettica-espressiva-strategica-conflittuale; un Logos (o Epifania strategica) che anche dalle scienze biologiche di cui si è appena detto (nonché,  –  vedi Teoria della Distruzione del Valore   e Dialecticvs Nvncivs – dalla meccanica quantistica e dall’elaborazione  di modelli matematici non lineari, cioè dallo studio della  Teoria del caos  e dei Complex Adaptive Systems – antesignano di questo approccio non lineare nello studio della guerra e della società Carl von Clausewitz col suo Vom Kriege –,  approcci anche questi, analogamente a quelli introdotti dalla nuove scienze biologiche e genetiche appena illustrate, di grande valore dialettico  per lo  studio della società e dell’uomo perché ci liberano dai vecchi meccanicismi e determinismi cartesiani e galileiani che hanno afflitto gli ultimi cinque secoli di studi  “umanistici” e che fra Ottocento e Novecento hanno visto il loro triste trionfo nel positivismo, nel neopositivismo per finire col Diamat staliniano), trae potentissimi spunti dialettici ed operativi16  

Note 

 [Nota 1 omessa perchè già riportata nella prima parte del presente saggio]

[Nota 2 omessa perchè già riportata nella prima parte del presente saggio] 

3  [Nota 3 omessa perchè già riportata nella prima parte del presente saggio]

4   [Nota 4 omessa perchè già riportata nella prima parte del presente saggio] 

5 [Nota 5 omessa perchè già riportata nella seconda parte del presente saggio] 

6 [Nota 6 omessa perchè già riportata nella seconda parte del presente saggio] 

[Nota 7 omessa perchè già riportata nella seconda parte del presente saggio] 

[Nota 8 omessa perchè già riportata nella seconda parte del presente saggio] 

[Nota 9 omessa perchè già riportata nella seconda parte del presente saggio]

10  [Nota 10 omessa perchè già riportata nella terza parte del presente saggio] 

11  [Nota 11 omessa perchè già riportata nella terza parte del presente saggio]

 

12 Usiamo queste due locuzioni per introdurre meglio il concetto di ‘genocidio’ essendo tecnicamente inesatto – e, ancor peggio, storicamente una vera e propria scemenza – parlare di razze umane ed anche di gruppi umani, le etnie, determinati genotipico-fenotipicamente e culturalmente una volta per sempre. Questo non solo per non assumere le categorie politico-biologiche degli sterminatori nazisti (trappola in cui sono caduti e cadono sempre tutti coloro che in nome del “politicamente corretto” impiegano, alla fine, le stesse categorie di coloro che vorrebbero combattere e così farneticano misticamente delle meraviglie di società multietniche e multiculturali prossime venture e che partendo da un errore concettuale anche se di semantica invertita rispetto al nazismo, le razze umane appunto, si entusiasmano per un disastro socio-culturale da evitare ad ogni costo e tentato e programmato  al solo scopo di rimpolpare una sinistra politica in crisi politico-identataria-culturale e di consensi elettorali) ma soprattutto, in conformità costruttivo-costruttivista al paradigma prassistico del Repubblicanesimo Geopolitico, che pur politicamente basandosi su un fortissimo senso identitario ma rappresentato attraverso  la sua interpretazione cultural-dialettica del concetto di Lebensraum espressivo sia della vita della polis come di quella del singolo individuo, è paradigma storico-storicista olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale in totale antitesi rispetto a qualsiasi visione fissista e ab aeterno. E se ciò vale per le scienze fisiche, per quelle naturali e/o biologiche (cioè per queste scienze e per le realtà che sono oggetto del loro studio) e per le c.d. scienze umane della società e della cultura, vale, a maggior ragione, per le c.d. razze umane e/o etnie, che sia per quanto riguarda la loro realtà empirica di riferimento che per le “scienze” che hanno il compito di studiarle sono concetti che denotano realtà che – pur, lo ripetiamo, assai malamente per la loro deformazione metafisica fissista – stanno proprio a cavallo fra le c.d. scienze della natura e le c.d. scienze umane. Parafrasando Clausewitz dal Libro primo del Vom Kriege, tutto in dialettica è molto semplice ma la cosa più semplice è di difficile applicazione e quanto il concetto  di ‘Lebensraum’ sia per il Repubblicanesimo Geopolitco semplice ma, al tempo stesso, fonte di complessi, per non dire difficili percorsi, citiamo da Glosse al Repubblicanesimo Geopolitico, di sempre rinviata pubblicazione, dove si vede che il concetto di ‘spazio vitale’ è a centro degli intricati percorsi bibliografici ma anche, al tempo stesso, pur nella loro dialetticità,  concettualmente lineari passaggi teorici  che hanno visto  la nascita del Repubblicanesimo Geopolitico che partendo dalla contestazione del concetto di libertà inteso dall’attuale neorepubblicanesimo come assenza di dominio ne elaborano  uno alternativo  come  ‘Republican Diffusive Domination’, ‘Aumentato dominio comune repubblicano’ o  RDD, basato non sulla contrapposizione fra potere e libertà come nell’attuale neorepubblicanesimo ma sulla complementarietà fra questi due momenti della vita psichico-individuale e sociale dell’uomo, inestricabilmente e dialetticamente uniti a tal punto da poter affermare che potere e libertà non solo altro che la concreta realizzazione del paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale in due diverse ma complementari e dialetticamente connesse fasi, quella dell’affioramento del momento espressivo la libertà e quello della sua realizzazione strategico-conflittuale il potere, dove un potere dinamicamente distribuito in tutti gli strati della società in un processo di continuo accrescimento dello stesso, l’ ‘Aumentato dominio comune repubblicano’ appunto, altro non significa che la realizzazione concreta –  sul piano sociale come su quello individuale – della libertà, altrimenti detta Epifania strategica: «La videoregistrazione di questo intervento, originariamente Il Repubblicanesimo Geopolitico, presentato in questa modalità indiretta per l’impossibilità dell’autore ad essere presente fisicamente al convegno “Il mondo verso  un futuro multipolare – Milano-Bergamo 26-27-28 Novembre 2015”,  è visionabile e scaricabile all’URL https://archive.org/details/IlMondoVersoUnFuturoMultipolare-RepubblicanesimoGeopolitico

(direttamente sempre su Internet Archive all’ URL https://ia601304.us.archive.org/5/items/IlMondoVersoUnFuturoMultipolare-RepubblicanesimoGeopolitico/IlMondoVersoUnFuturoMultipolare-Milano26-27-28Novembre2015-InteventoDiMassimoMorigiSulRepubblicanesimoGeopolitico.ogv; URL su ResearchGate: https://www.researchgate.net/publication/313602857_IlMondoVersoUnFuturoMultipolare-Milano26-27-28Novembre2015-InteventoDiMassimoMorigiSulRepubblicanesimoGeopolitico: https://doi.org/10.13140/RG.2.2.36176.92165). Inoltre, sul Repubblicanesimo Geopolitico è possibile prendere visione di un altro contributo videoregistrato: per conto del blog “Conflitti e Strategie”, in data 5 maggio 2015, sono stato intervistato su questo argomento da Giuseppe Germinario. Gli URL presso i quali è visionabile questo documento sono     http://www.conflittiestrategie.it/repubblicanesimo-geopolitico-intervista-al-professor-massimo-morigi, https://www.youtube.com/watch?t=519&v=VeOUHYC8zq8    e                                                                                   https://archive.org/details/RepubblicanesimoGeopoliticoIntervistaAlProfessorMassimoMorigi; oppure andando direttamente agli URL di Internet Archive https://ia800508.us.archive.org/8/items/RepubblicanesimoGeopoliticoIntervistaAlProfessorMassimoMorigi/RepubblicanesimoGeopoliticoIntervistaAlProfessorMassimoMorigi.mp4 o https://archive.org/details/UnContributoAgliAmiciAllaRiflessioneDaMassimoMorigiAPropositoDi (gli URL di ResearchGate presso i quali è pure possibile scaricare l’intervista: https://www.researchgate.net/publication/313581660_Intervista_a_Massimo_Morigi_di_Giuseppe_Germinario_di_Conflitti_e_Strategie_sul_Repubblicanesimo_Geopolitico: https://doi.org/10.13140/RG.2.2.13632.53760 o https://www.researchgate.net/publication/313598484_Intervista_a_Massimo_Morigi_sul_Repubblicanesimo_Geopolitico_di_Giuseppe_Germinario_per_il_blog_di_Geopolitica_e_di_conflittualismo_strategico_Conflitti_e_Strategie: https://doi.org/10.13140/RG.2.2.22440.57606). Tralasciando i momenti aurorali e generativi di questa teoria politica, che per ogni autore potrebbero risalire al momento della sua nascita e al suo carattere e, volendo concedere un minimo di maggior spazio alle convenzioni filologiche, i primi passi verso la costruzione del Repubblicanesimo Geopolitico risalgono agli studi del sottoscritto sull’estetizzazione della politica nei regimi totalitari e i primi documenti sul Repubblicanesimo Geopolitico, incentrati sul concetto della ‘Republican Diffusive Domination”, apparvero a fine 2013 sul blog di geopolitica “Il Corriere della Collera”. Queste fonti primarie sono quindi consultabili agli URL  https://corrieredellacollera.com/2013/11/23/alla-ricerca-dellidentita-italiana-di-massimo-morigi/https://corrieredellacollera.com/2013/11/28/alla-ricerca-della-identita-italiana-dialogo-tra-morigi-e-stefanini/ (in alternativa, vista la volatilità delle fonti internet, si è provveduto a depositarle anche presso le piattaforme WebCite e Wayback Machine di Internet Archive, il cui compito è appunto dotare i documenti sul Web di un URL di riserva qualora la piattaforma originale dovesse cessare, agli URL http://www.webcitation.org/6aNTUJQ82, http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fcorrieredellacollera.com%2F2013%2F11%2F23%2Falla-ricerca-dellidentita-italiana-di-massimo-morigi%2F&date=2015-07-29, http://www.webcitation.org/6aNSrbd66    e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fcorrieredellacollera.com%2F2013%2F11%2F28%2Falla-ricerca-della-identita-italiana-dialogo-tra-morigi-e-stefanini%2F&date=2015-07-29  per quanto riguarda WebCite e http://web.archive.org/web/20200315074249/https://corrieredellacollera.com/2013/11/23/alla-ricerca-dellidentita-italiana-di-massimo-morigi/http://web.archive.org/web/20200315074554/https://corrieredellacollera.com/2013/11/28/alla-ricerca-della-identita-italiana-dialogo-tra-morigi-e-stefanini/ per quanto riguarda Wayback Machine). Sempre riguardo al “Corriere della Collera”, in seguito vi sono stati altri contributi del sottoscritto sempre ispirati al Repubblicanesimo Geopolitico. Questi sono stati poi successivamente raccolti in unico file e – sebbene il contenuto di questo file abbia più l’aspetto di una bozza   che di un lavoro definitivo – esso è ora liberamente consultabile e scaricabile agli  URL di Internet Archive  https://archive.org/details/RepubblicanesimoGeopoliticoProvaMassimoMorigi.pdf/mode/2up e https://ia800903.us.archive.org/1/items/RepubblicanesimoGeopoliticoProvaMassimoMorigi.pdf/RepubblicanesimoGeopoliticoProvaMassimoMorigi.pdf (WebCite: http://www.webcitation.org/6dWqmW5BV e http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia801405.us.archive.org%2F2%2Fitems%2FRepubblicanesimoGeopoliticoProvaMassimoMorigi.pdf%2FRepubblicanesimoGeopoliticoProvaMassimoMorigi.pdf&date=2015-12-04;  ResearchGate: https://www.researchgate.net/publication/313526603_REPUBBLICANESIMO_GEO-POLITICO_IL_CORRIERE_DELLA_COLLERA_Per_la_Repubblica_di_domani_IL_CORRIERE_DELLA_COLLERA_ALLA_RICERCA_DELL%27IDENTITA_ITALIANA: https://doi.org/10.13140/RG.2.2.14903.93601). Nel 2017 questi contributi sul Repubblicanesimo Geopolitico apparsi sul “Corriere della Collera” e poi pubblicati autonomamente sul Web sono stati poi ripubblicati dal blog di geopolitica marxista “L’Italia e il Mondo” e si rinvia al blog in questione, URL http://italiaeilmondo.com/, per la consultazione di queste ripubblicazioni. A loro volta anche questi contributi “ripubblicati” sono stati immessi direttamente nel Web e a differenza della “ripubblicazione” originaria, questa volta il testo è stato ripulito dagli altri interventi apparsi a commento sul blog, dimodoché   Repubblicanesimo Geopolitico copiaincolla dal “Corriere della Collera” e dall’ “Italia e il Mondo”, questo il titolo del documento in questione, ha perso il carattere di bozza della prima immissione di questi articoli nel Web. Gli URL attraverso i quali risalire a Repubblicanesimo Geopolitico copiaincolla dal “Corriere della Collera” e dall’ Italia e il Mondo”: Internet Archive: https://archive.org/details/RepubblicanesimoGeopoliticoCopiaincollaDalCorriereDellaColleraE/mode/2up, https://ia801609.us.archive.org/19/items/RepubblicanesimoGeopoliticoCopiaincollaDalCorriereDellaColleraE/RepubblicanesimoGeopoliticoCopiaincollaDalCorriereDellaColleraEDallitaliaEIlMondo.pdf; WebCite: http://www.webcitation.org/6pApJZZD4, http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia601500.us.archive.org%2F25%2Fitems%2FRepubblicanesimoGeopoliticoCopiaincollaDalCorriereDellaColleraE%2FRepubblicanesimoGeopoliticoCopiaincollaDalCorriereDellaColleraEDallitaliaEIlMondo.pdf&date=2017-03-23; ResearchGate: https://www.researchgate.net/publication/315516889_REPUBBLICANESIMO_GEOPOLITICO_COPIAINCOLLA_DAL_CORRIERE_DELLA_COLLERA_E_DALL%27ITALIA_E_IL_MONDO: https://doi.org/10.13140/RG.2.2.26753.66407. Per chi volesse poi avventurarsi nei momenti aurorali e generativi del Repubblicanesimo Geopolitico profondamente influenzati dai miei studi sull’estetizzazione della politica nei regimi totalitari del Novecento, rinvio a Repvblicanismvs Geopoliticvs Fontes Origines et Via, che è visionabile e scaricabile all’URL https://archive.org/details/RepvblicanismvsGeopoliticvsFontesOriginesEtViaReloaded. Di questo URL non si fornisce il corrispettivo “congelamento” su  WebCite visto che questa piattaforma non consente  il caricamento di file audiovisivi (in questo documento sono visionabili anche dei  video musicali scaricati da YouTube), ma file audiovisivi il cui upload è consentito su  ResarchGate, per cui  Repvblicanismvs Geopoliticvs Fontes Origines et Via è consultabile  anche all’ URL https://www.researchgate.net/publication/313560201_Repvblicanismvs_Geopoliticvs_Fontes_Origines_et_Via_-_Karl_Marx: https://doi.org/10.13140/RG.2.2.15152.97286). Nella formazione del mio pensiero politico e specialmente nella genesi del Repubblicanesimo Geopolitico questi studi sull’estetizzazione della politica rivestono una importanza fondamentale perché l’estetizzazione della politica nei regimi totalitari, per quanto sia stata certamente l’arma di   “distrazione di massa” per eccellenza impiegata da questi regimi è, al tempo stesso, il “segnalatore d’incendio” che le cosiddette democrazie rappresentative non sono assolutamente in grado di rispondere a quelle fondamentali necessità per una “vita buona” che il pensiero politico classico ha indicato  come l’ autentico obiettivo del vivere associato. Mentre nella retorica delle democrazie rappresentative questa “vita buona” sarebbe assicurata, oltre  che dalla prospettiva di un sempre maggiore benessere materiale che questi regimi hanno finora apparentemente garantito (apparentemente garantito perché questa crescente prosperità sotto i regimi democratici è avvenuta nei paesi industrializzati mentre per il “non Occidente” se non è avvenuto l’esatto contrario poco ci manca ma ancor più apparentemente garantito perché ora anche questi paesi del perimetro occidentale registrano un regresso in termini di redistribuzione delle risorse per quanto riguarda le classi non dirigenti), anche dall’innalzamento del livello  culturale ottenuto dalle masse attraverso la  partecipazione democratica (in realtà, questa partecipazione democratica è una “gentile” concessione delle classi dirigenti per tenere tranquille le classi sottoposte e tutto si può dire del rapporto cultura e democrazia tranne il fatto che le moderne democrazie industriali siano un ambiente favorevole all’elaborazione e diffusione culturale, si può affermare anzi il contrario), nella realtà tutto si può dire delle attuali forme politiche più o meno democratiche tranne il fatto che promuovano una “vita buona”. I regimi totalitari avevano compreso il bisogno di questa “vita buona” negata dalle forme politiche democratiche ma la loro risposta fu fornire una “negazione bella e buona” della vita associata e privata che soggiacendo  agli input espressamente totalitari dell’ideologia di partito estetizzava la politica,  nel senso che rendeva esteticamente accettabili  e quindi truffaldinamente eticamente positivi e con tutte le energie palesemente perseguibili  tutti quei rapporti di forza che cristallizzando il dominio di classe erano, di fatto, proprio la negazione della “vita buona” (nelle democrazie questi input totalitari sono egualmente presenti ma sono celati dalle retoriche politiche, prima fra tutte quelle dei diritti umani, che consentono sul piano interno di ritenere formalmente uguali individui appartenenti a classi con enormi disparità di reddito e di potere politico e all’esterno di esportare queste “democrazie”). La risposta invece del Repubblicanesimo Geopolitico al bisogno di “vita buona” è, lungo la direttrice del miglior pensiero politico realista che si dipana lungo la linea Aristotele-Machiavelli-Hegel-Marx, mandare letteralmente al macero ogni retorica politica sia di stampo democratico-criptototalitario che di forma estetizzante sfacciatamente totalitaria,  sottolineando che mentre la libertà nelle c.d. democrazie rappresentative o il mito della nazione o del popolo eletto sono delle retoriche ingannatrici e comunque intrinsecamente totalitarie, l’operare concretamente per il miglioramento della propria condizione implica l’abbandono dell’ottica totalitaria attraverso un’azione che, nella teoria come nella prassi,  si pronuncia  espressamente per una visione antitotalitaria e, perciò,  totale e dialettica  della realtà, visione totale e dialettica  della realtà che, al contrario di ogni visione totalitaria, implica sia la decisiva importanza del soggetto agente (azione del soggetto agente e non di  vaghe, fumose e mitologiche entità metastoriche come la razza o i diritti umani) sia la modificabilità dello stesso agente in ragione della sua azione modificatrice sulla realtà (il totalitarismo dei regimi totalitari persegue, invece, uno stadio finale di perfezione omega, la razza o la patria oltre il quale non è possibile il mutamento; per i regimi totalitari democratici lo stadio finale omega viene sostituito dal mito di una generica umanità perfettibile all’infinito, il mito cioè del progresso, mito del progresso che è però, in realtà, nient’altro che  regresso perché fa appello ad una generica umanità e non ad una concreta umanità che trova il suo progresso, se proprio vogliamo impiegare questo termine mitologico, in una concretissima azione modificatrice della realtà e quindi di creazione non generica proiettata in un tempo infinito e perciò inverificata ed inverificabile ma individuata, hic et nunc, anche di sé stessa). Con il Repubblicanesimo Geopolitico ha raggiunto quindi piena maturità – al di ogni miraggio “democratico”, totalitario comunque declinato e pure di ogni mitologia della classe operaia come classe intermodale e rigettando questo ultimo  universalismo marxista anche  attraverso, ma non solo, il farmaco “antiuniversalista” di una teoria e di una prassi che trae abbondante ispirazione dalla migliore tradizione della geopolitica, di quella geopolitica, cioè, non offuscata da miti “fissisti” di stampo positivistico  o neo-positivisitico – tutta quella filosofia della prassi che ha sempre compreso che la libertà non è né una retorica né una mitologia ma la piena comprensione e realizzazione dell’inestricabile legame dialettico fra soggetto e oggetto, legame dialettico che continuamente modifica sia il primo che il secondo e che consente, se correttamente inteso, sia un’efficace azione liberatoria perché basata su una concreta e non metafisica cognizione della realtà  e quindi delle concrete possibilità di miglioramento individuale e sociale sia l’evitare di  ricadere in Weltanschauung totalitarie che nella loro rigida e fissista visione sono la negazione della “vita buona” perché sono, di fatto, la negazione della vita. Vedremo nel corso del presente scritto, se questo radicale ed impegnativo riorientamento culturale e politico del Repubblicanesimo Geopolitico rispetto a tutta la tradizione liberale ma anche a quella marxista è stato mantenuto. La prima (garbata) polemica sul Repubblicanesimo Geopolitico risale al luglio del 2014 ed apparve sulle pagine del blog repubblicano “Democrazia Pura” ed era imperniata sull’osservazione da parte di “Democrazia Pura” che  «Sul criterio di lettura della storia e sulla prospettiva politica del [Repubblicanesimo Geopolitico] non mancano interpretazioni tendenzialmente finalistiche che non possono non suscitare forti perplessità per il loro carattere intrinsecamente assolutista». La risposta all’osservazione di “Democrazia Pura”, pur non accogliendo il mal interpretato carattere assolutista di questa dottrina politico-filosofica, fu che il Repubblicanesimo Geopolitico era integralmente e convintamente finalistico e compiendo questa affermazione, sempre in questa risposta al contempo il sottoscritto cominciò a mettere apertamente in discussione quelli che da “Democrazia Pura” (non solo da questa, ovviamente, ma  anche da parte della mentalità prevalente di coloro che oggi si proclamano repubblicani o neo-repubblicani) vengono considerati i capisaldi filosofico-politici del repubblicanesimo, vale a dire Kant e Popper. In questa risposta, è vero, non si menziona ancora alcun autore “dialettico” ma quello che si è affermato in seguito in merito al conflittualismo dialettico del Repubblicanesimo Geopolitico e per ultimo all’‘epifania strategica’ che, se vogliamo, costituisce la sua finalità (ed anche il suo mito: ma un mito che si basa non su vuote elucubrazioni totalitarie ma sulla natura stessa della realtà, che come cercheremo di mostrare, non è altro che la manifestazione espressiva del conflitto olistico-dialettico-espressivo-strategico), trova nella risposta alle garbate osservazioni di “Democrazia Pura” il punto di partenza e sviluppo. Si rimanda quindi in prima battuta all’URL di “Democrazia Pura” attraverso alla quale si accede alla pagina che ha pubblicato la polemica, http://www.democraziapura.altervista.org/?page_id=1119#comment-129, e poi ai successivi “congelamenti” di questa pagina per far sì che una volta cessata “Democrazia Pura” (si spera il più tardi possibile) di questa polemica rimanga adeguata documentazione: Internet Archive: https://archive.org/details/RepubblicanesimoGeopoliticoDemocraziaPuraRepubblicanesimoMarxMassimo/mode/2up e https://ia800905.us.archive.org/10/items/RepubblicanesimoGeopoliticoDemocraziaPuraRepubblicanesimoMarxMassimo/RepubblicanesimoGeopoliticoDemocraziaPuraRepubblicanesimoMarxMassimoMorigi.pdf; WebCite: http://www.webcitation.org/6oGSlmKEX e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fwww.democraziapura.altervista.org%2F%3Fpage_id%3D1119%23comment-129&date=2017-02-14; Wayback Machine: http://web.archive.org/web/20200316070941/http://www.democraziapura.altervista.org/suggerimenti; ResearchGate: https://www.researchgate.net/publication/313675931_Polemica_su_Democrazia_Pura_sul_Repubblicanesimo_Geopolitico_di_Massimo_Morigi: https://doi.org/10.13140/RG.2.2.31504.20489. Sempre all’estate del 2014 risale la mia prima intervista sul Repubblicanesimo Geopolitico fattami da Sauro Mattarelli per conto della rivista politica repubblicana “Il Senso della Repubblica” (Sauro Mattarelli, a cura di, Dialogo con Massimo Morigi. Il Repubblicanesimo Geopolitico, in Il “Senso della Repubblica”, anno VII, n. 8, agosto 2014), nel corso della quale viene ribadito quello che già nelle prime esposizioni del 2013 del Repubblicanesimo Geopolitico apparse sul “Corriere della Collera” era il punto di partenza di tutti i ragionamenti su questa nuova dottrina filosofico-politica, vale a dire  il rifiuto da parte del Repubblicanesimo Geopolitico di una visione della libertà intesa come “non dominio”. Questo concetto di libertà come “non dominio” rivela tutta la natura ideologica ed utopica (sarebbe ancor meglio dire mitologico-utopica ma di una mitologia-utopia regressiva: anche il Repubblicanesimo Geopolitico ha la sua componente utopica, l’ Epifania strategica, ma si tratta di un mito, o meglio  di un obiettivo limite, basato – come già sottolineato – sull’autentica natura olistico-dialettica-espressiva-strategica-conflittuale della realtà e non su una libertà intesa come sottrazione di potere, mentre il potere, come viene spiegato bene nell’intervista, non è il male della società ma ciò che costituisce il suo momento generativo) dell’attuale scuola filosofico-politica neo-repubblicana (per intenderci nominando i suoi due principali esponenti: Quentin Skinner e Philip Pettit), che pur ha avuto grandi meriti nell’aver iniziato a mettere in discussione all’interno del perimetro ideologico liberal-democratico una libertà che, e su ciò siamo d’accordo con questi autori neo-repubblicani, il pensiero liberale intravede solo come ‘non interferenza’del potere sui cittadini piuttosto che, come vorrebbero i neo-repubblicani, di “non dominio” od autonomia dal potere degli stessi. Purtroppo, e nell’intervista viene ribadito a chiare lettere, se si vuole innescare un processo di autentica, progressiva e dialettica libertà umana non si tratta di meglio precisare il ‘non’, non si tratta di istituire –  seppur inconsapevolmente da parte di questa scuola neo-repubblicana – una sorta di  adorniana ‘dialettica negativa’ sottrattiva di potere ma si tratta di risalire e guardare negli occhi il momento generativo ed evolutivo di ogni società, il potere, appunto, e come questo potere, effettualmente e non in un ipotetico mondo delle fate dove costituirebbe solo un momento negativo che molto ha a che vedere col mito cristiano del diavolo, crei il lagrassiano conflitto strategico e quindi si costituisca come l’autentica genesi ed unico motore  delle classi sociali e del dialetticamente necessitato e socialmente poietico confronto-scontro fra le stesse. Gli URL dove è possibile accedere al formato PDF delle pagine del numero in questione del “Senso della Repubblica”. Per Internet Archive: https://archive.org/details/DialogoConMassimoMorigi.IlRepubblicanesimoGeopolitico.IlSensoDella/mode/2up e https://ia600501.us.archive.org/9/items/DialogoConMassimoMorigi.IlRepubblicanesimoGeopolitico.IlSensoDella/DialogoConMassimoMorigi.IlRepubblicanesimoGeopolitico.IlSensoDellaRepubblicaAnnoViiN.8Agosto2014.pdf; per WebCite: http://www.webcitation.org/6oEzHotbi                                                                                                               e http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia600501.us.archive.org%2F9%2Fitems%2FDialogoConMassimoMorigi.IlRepubblicanesimoGeopolitico.IlSensoDella%2FDialogoConMassimoMorigi.IlRepubblicanesimoGeopolitico.IlSensoDellaRepubblicaAnnoViiN.8Agosto2014.pdf&date=2017-02-13; per ResearchGate: https://www.researchgate.net/publication/313648067_Tesi_di_Massimo_Morigi_sul_Repubblicanesimo_Geopolitico: https://doi.org/10.13140/RG.2.2.34420.55689. La Democrazia che Sognò le Fate (Stato di Eccezione, Teoria dell’Alieno e del Terrorista e Repubblicanesimo Geopolitico) del gennaio 2015 potrebbe in apparenza essere considerato, come da titolo, un bizzarro divertissement trattando nelle sue poche paginette argomenti come la tesi n. 8 di Tesi di Filosofia della Storia di Walter Benjamin  e il suo conseguente ‘iperdecisionismo’ (iperdecisionismo che verrà affrontato poco dopo in maniera più approfondita  in Walter Benjamin, Iperdecisionismo e Repubblicanesimo Geopolitico. Lo Stato di Eccezione come Regola), il costruttutivismo del teorico politico neorealista Alexander Wendt affrontando, seppur da un punto di vista schmittiano e con precisa individuazione della natura parareligiosa del fenomeno degli avvistamenti degli UFO, la domanda che si pone Wendt sui cambiamenti politici e culturali cui andrebbe incontro l’umanità nel momento in cui avesse contezza di una civiltà aliena (l’alieno, secondo La Democrazia che Sognò le Fate, come postmoderna incarnazione del nemico assoluto schmittiano e come novella incarnazione del diavolo) e le radici culturali del Repubblicanesimo Geopolitico, per le quali, sempre  nella Democrazia che Sognò le Fate, non si ha alcuna remora di  recuperare anche il ratzeliano tanto demonizzato concetto di Lebensraum (una sprezzatura del Repubblicanesimo Geopolitico verso le mitologie negative e positive del passato – o, meglio, verso la mitologizzazione negativa o positiva del passato che è, sempre e comunque,  il velo di Maya intessuto dal potere dominante per nascondere, appunto, il suo potere –, tanto che, per rimanere a questo caso specifico,  una alternativa definizione di Repubblicanesimo Geopolitico potrebbe essere ‘Lebensraum repubblicanesimo’ o ‘Repubblicanesimo dello spazio vitale’). Gli autori citati nella Democrazia che Sognò le Fate,  Ratzel,  Benjamin, Schmitt, potrebbero sembrare in apparenza autori che nulla hanno a che spartire fra loro. In realtà hanno molto e questo molto è, assieme ad una visione conflittuale della società, un rifiuto della narrazione politica e storica che si dipana attraverso l’affabulazione mitologica dei principi universali dei diritti dell’uomo e della loro conseguente sacralizzazione ideologica da parte liberale e democratica. Questa loro idiosincrasia è fatta interamente propria anche dal Repubblicanesimo Geopolitico e per quanto riguarda la loro dialetticità, alcuni di loro sono più dialettici, per altri, vedi Ratzel, totalmente informato ad una visione geo-spaziale del potere, apparentemente non si potrebbe pensare ad  una elaborazione teorica più lontana da un approccio dialettico ma quello che  per noi conta dal punto di vista della rinnovata filosofia della prassi del Repubblicanesimo Geopolitico è che tutti questi autori portarono efficacemente a consunzione il canone liberaldemocratico e che, quindi, anche quando la dialettica non viene espressamente riconosciuta, essi operano all’interno di una Weltanschuung che vede il fenomeno storico e sociale come una totalità, una totalità dove non è ammesso alcun sacro recinto, men che meno gli immortali diritti dell’uomo e la totalitaria sacralizzazione ideologica della democrazia rappresentativa. Discorso a parte, infine, si deve fare per Alexander Wendt. A rigore esso non può essere considerato un autore scettico della democrazia, anzi per il suo rifiuto di un realismo politico elementare e violento potrebbe essere considerato, sotto molti aspetti, come un modello del “politicamente corretto” ma il suo Anarchy is What States Make of It (per citazione bibliografica completa ed indicazione di reperibilità internettiana, vedi infra nota n°16), articolo il cui titolo e contenuto è divenuto il simbolo del suo pensiero  si ribella sì ad una teoria della relazioni internazionali ispirata ad un realismo meccanicista in cui le nazioni sono costrette alla conflittualità per via della intima struttura anarchica del sistema internazionale ma questa fuoruscita dal classico duro realismo delle relazioni internazionali non avviene in base ad una affabulazione ideologica sui sacri principi politici universalistici ma viene messa in atto attraverso una magistrale mossa: l’anarchia del sistema internazionale è, come tutte le creazioni sociali e storiche, frutto delle rappresentazioni degli attori sulla storia e sulla società e sono queste rappresentazioni, e non viceversa, che conferiscono una natura determinata alla storia e alla società stesse. Da qui la sfavillante conclusione che abbiamo anarchia (o, il suo contrario, armonia) nel sistema internazionale nella misura in cui i decisori (ed anche le masse) all’interno di questo sistema se lo rappresentano mettiamo alla Hobbes o alla Ghandi. Siamo qui veramente ad un passo da una pienamente dispiegata filosofia della prassi che vuole essere il nucleo costitutivo del Repubblicanesimo Geopolitico. Manca a Wendt, però, un tassello fondamentale per l’inveramento di una compiuta filosofia della prassi, e cioè che queste rappresentazioni mentali e/o culturali che muovono gli Stati e le loro subunità politiche (fino a giungere, come vedremo nel prosieguo di queste Glosse,  secondo l’integrale e compiuta filosofia della prassi del Repubblicanesimo Geopolitico, alle subunità  dialettico-espressive-strategiche-conflittuali della biologia, delle quali l’uomo è la più alta espressione nella sua pienamente sviluppata anche se quasi mai completamente consapevole – e anche non esclusiva rispetto alle altre  forme non solo biologiche ma anche culturali e fisiche meno evolute –  dialettica strategicità) hanno una genesi dialettico-espressiva-strategica-conflittuale. Questa consapevolezza dialettico-espressiva-strategica-conflittuale è la grande conquista della filosofia della prassi che troviamo in  György Lukács, Karl Korsch e Antonio Gramsci, e il Repubblicanesimo Geopolitico intende riprendere la loro bandiera prassistica depurandola, però, dalle mitologie politiche che albergavano in questi pensatori, vale a dire la classe operaia vista come la classe in grado di far scoppiare le contraddizioni all’interno del sistema capitalistico perché, a differenza di tutte le altre classi di oppressi apparse sullo scenario della storia, essa sarebbe, come pensavano Marx ed Engels nell’Ideologia Tedesca, una classe “intermodale”, in grado cioè di rappresentare tutte le potenzialità umane e non solo le istanze della propria classe. È qui di tutta evidenza che si è ricaduti nella mitologia, seppur riveduta e corretta a “sinistra”, degli universali diritti dell’uomo e la filosofia della prassi del Repubblicanesimo Geopolitico intende spazzare via, una volta per tutte, questa mitologia per sostituirla sì con un mito, quello dell’ Epifania strategica, ma un mito che si basa sul  riconoscimento realistico (e quindi al tempo stesso inestricabilmente dialettico e perciò mai  meccanicistico, fatalistico o psicologicamente disperato, ma dialetticamente creativo e quindi rivoluzionario) della  natura dialettico-espressiva-strategica-conflittuale della realtà. Si forniscono gli URL del nostro caricamento diretto di  questo divertissement sul Web. Per Internet Archive: https://archive.org/details/LaDemocraziaCheSognLeFatestatoDiEccezioneTeoriaDellalienoEDel/mode/2up e https://ia801603.us.archive.org/16/items/LaDemocraziaCheSognLeFatestatoDiEccezioneTeoriaDellalienoEDel/LaDemocraziaCheSognLeFatestatoDiEccezioneTeoriaDellalienoEDelTerroristaERepubblicanesimoGeopolitico.pdf.                                                                                                                                                   Per WebCite: http://www.webcitation.org/6oSfQfMIr e http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia801501.us.archive.org%2F25%2Fitems%2FLaDemocraziaCheSognLeFatestatoDiEccezioneTeoriaDellalienoEDel%2FLaDemocraziaCheSognLeFatestatoDiEccezioneTeoriaDellalienoEDelTerroristaERepubblicanesimoGeopolitico.pdf&date=2017-02-22. Per ResearchGate: https://www.researchgate.net/publication/313860507_La_democrazia_che_sogno_le_fate_Redux: https://doi.org/10.13140/RG.2.2.31736.85760. Oltre questa immissione in proprio nel Web, nel 2017 La Democrazia che Sognò le Fate è stata pubblicata anche dal blog di geopolitica marxista “L’Italia e il Mondo” . Qui di seguito i due URL del blog attraverso i quali si prende visione di questa pubblicazione ed i relativi “congelamenti” su WebCite e Wayback Machine: http://italiaeilmondo.com/2017/02/19/la-democrazia-che-sogno-le-fate-stato-di-eccezione-teoria-dellalieno-e-del-terrorista-e-repubblicanesimo-geopolitico-di-massimo-morigi/ (WebCite: http://www.webcitation.org/6oO5aLz4z e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2017%2F02%2F19%2Fla-democrazia-che-sogno-le-fate-stato-di-eccezione-teoria-dellalieno-e-del-terrorista-e-repubblicanesimo-geopolitico-di-massimo-morigi%2F&date=2017-02-19; Wayback Machine: http://web.archive.org/web/20200316084413/http://italiaeilmondo.com/2017/02/19/la-democrazia-che-sogno-le-fate-stato-di-eccezione-teoria-dellalieno-e-del-terrorista-e-repubblicanesimo-geopolitico-di-massimo-morigi/) e http://italiaeilmondo.com/category/zibaldone/ (WebCite: http://www.webcitation.org/6oO68C9Zj e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2Fcategory%2Fzibaldone%2F&date=2017-02-19; Wayback Machine: http://web.archive.org/web/20200316084705/https://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2Fcategory%2Fzibaldone%2F&date=2017-02-19). Nel febbraio del 2015 il “Senso della Repubblica” ha pubblicato un altro mio contributo sul Repubblicanesimo Geopolitico, Walter Benjamin, Iperdecisionismo e Repubblicanesimo Geopolitico. Lo Stato di Eccezione come Regola (Massimo Morigi, Walter Benjamin, Iperdecisionismo e Repubblicanesimo Geopolitico. Lo Stato di Eccezione come Regola, in “Il Senso della Repubblica”, anno VIII, n. 2, febbraio 2015), attraverso il quale si continua, approfondendola, nell’operazione iniziata con la Democrazia che Sognò le Fate di inserimento nel canone del Repubblicanesimo Geopolitico di tutte quelle “elaborazioni di senso” che dall’Ottocento fino ai giorni nostri abbiano da un lato costituito una sorta di antemurale a tutte le Weltanschauung positivistiche e meccanicistiche (compreso quindi tutte le versioni più o meno diamattine del marxismo orientale con le loro interpretazioni  deviate e positivizzate del materialismo dialettico) e dall’altro si siano duramente contrapposte ad ogni forma di irrazionalismo e spiritualismo (e il culmine della suddetta “operazione di senso” dovrebbero essere, appunto, le presenti Glosse al Repubblicanesimo Geopolitico). Ora Walter Benjamin può a buon diritto essere iscritto nel novero di coloro che rifiutarono sempre una meccanicizzazione della vita quotidiana e politica e la sua “illuminazione profana”, prima ancora di essere giustamente inquadrata nell’ambito degli influssi surrealisti, non sarebbe stata possibile senza un profondo immanentismo unito ad una indiscutibile visione dialettica della stessa. Ma andando nello specifico dell’articolo in questione, in Walter Benjamin, Iperdecisionismo e Repubblicanesimo Geopolitico. Lo Stato di Eccezione come Regola, si è voluto porre in rilievo che questa visone “antimeccanicistica” di Walter Benjamin si sostanziò in una sorta di “filosofia della prassi” che poneva la decisione al centro di tutto il suo universo umano e politico. Scrive infatti Benjamin nella VIII tesi di Tesi di filosofia della storia: «La tradizione degli oppressi ci insegna che lo ‘stato di eccezione’ in cui viviamo è la regola. Dobbiamo giungere a un concetto di storia che corrisponda a questo fatto. Avremo allora di fronte, come nostro compito, la creazione del vero stato di eccezione; e ciò migliorerà la nostra posizione nella lotta contro il fascismo. La sua fortuna consiste, non da ultimo, in ciò che i suoi avversari lo combattono in nome del progresso come di una legge storica. Lo stupore perché le cose che viviamo sono ‘ancora’ possibili nel ventesimo secolo è tutt’altro che filosofico. Non è all’inizio di nessuna conoscenza, se non di quella che l’idea di storia da cui proviene non sta più in piedi.». A differenza di Carl Schmitt per il quale la decisione suprema e superiore come ordine gerarchico alla legge stessa si manifesta (e si deve manifestare) solo nel momento dello stato di eccezione, per Walter Benjamin lo stato di eccezione non esiste o, meglio, dialetticamente parlando, lo ‘stato di eccezione’ è una ‘non eccezione’, cioè lo ‘stato di eccezione’ si manifesta come regola costante, pervasiva  e senza soluzione di continuità nel tempo e nello spazio e la consapevolezza di questo stato di eccezione/regola costituisce il nucleo primigenio e generativo di ogni autentico rivoluzionario   che, avendo compreso la funzione pantocratrice dello stato di eccezione/regola nella nascita e sviluppo dei rapporti sociali ed umani, deve  informare il proprio  operato teorico e pratico a questa ontologia iperdecisionista  e iperconflittualista della realtà (ben oltre il timido decisionismo di Schmitt per il quale, da vero conservatore cattolico – e fascista –, la decisione extra legem, seppure formalmente superiore alla legge stessa, in pratica non era altro che un episodio per opporsi alla rivoluzione e  finalizzato al ristabilimento dei vecchi ordini e gerarchie tradizionali della società). «Per essere ancora più chiari: per Carl Schmitt uno stato di eccezione che entra in scena solo nei momenti di massima crisi; per Walter Benjamin uno stato di eccezione continuamente ed incessantemente  operante e in cui il suo mascheramento in forme giuridiche è funzionale al mantenimento dei rapporti di dominio ma che, se pienamente riconosciuto e vissuto dalle classi dominate, diventa un Anti-Katéchon e quindi non il  frenatore [il Katéchon come aveva mitologicamente pensato Carl Schmitt, riprendendo questo termine dalla Seconda Lettera ai Tessalonicesi  nella quale  Paolo di Tarso evocava il frenatore dell’Anticristo e per traslato per il grande giuspubblicista fascista di Plettenberg Katéchon come ultima mitica risorsa per arrestare o frenare la rivoluzione, ndr]  ma un acceleratore della rivoluzione. Se giustamente, ma con intento nemmeno tanto nascostamente denigratorio, il pensiero di Carl Schmitt è stato definito ‘decisionismo’, Walter Benjamin apre al pensiero politico la dimensione dell’iperdecisionismo.»: Massimo Morigi, Walter Benjamin, Iperdecisionismo e Repubblicanesimo Geopolitico: Lo Stato di Eccezione in cui Viviamo è la Regola, (Versione REDVX – Reloaded il 25 febbraio 2017), pp. 5-6, versione Redux di Walter Benjamin, Iperdecisionismo e Repubblicanesimo Geopolitico. Lo Stato di Eccezione in cui viviamo è la Regola, caricata autonomamente e visionabile  agli URL https://archive.org/details/WalterBenjaminIperdecisionismoERepubblicanesimoGeopolitico.LoStatoDi_949/mode/2up e https://ia801900.us.archive.org/0/items/WalterBenjaminIperdecisionismoERepubblicanesimoGeopolitico.LoStatoDi_949/WalterBenjaminIperdecisionismoERepubblicanesimoGeopolitico.LoStatoDiEccezioneInCuiViviamoLaRegola-VersioneRedvx.pdf. Benjamin, quindi, come un vero campione di una filosofia della prassi integralmente immanentistica ed integralmente olistico-dialettica-espressiva-strategica-conflittuale che abbia rotto tutti i punti con tutte le filosofie meccanicistiche di destra e di sinistra (semplificando positivismo, neopositivismo e marxismo orientale, cioè Diamat) e per questo di fondamentale ed ineludibile importanza per il canone del Repubblicanesimo Geopolitico che intende informarsi ad una radicale, dialettica ed antimeccanicistica filosofia della prassi, che, come vedremo nelle note seguenti, porti al culmine della sua consapevolezza quanto già elaborato da Lukács, Korsch e Gramsci. Fondamentale (e fondante) quindi è, per il Repubblicanesimo Geopolitico, l’inserimento all’interno di questo canone anche di Walter Benjamin, visto così ora non più come una sorta di autore in cui il momento politico avrebbe costituito una sorta di forzatura della sua vera natura influenzata dal surrealismo (influsso reale ma che è stato travisato nel suo autentico senso) e da una visione mistico-poetica della realtà che lo avrebbe reso uno spirito essenzialmente impolitico (in realtà la sua fu una matura visione dialettico-espressiva-strategica-conflittuale e se Benjamin fu un impolitico lo fu alla stessa stregua di un Aristotele, di un Machiavelli, di un Hegel o di un Marx e su questo penso non sia necessario aggiungere altro). Gli URL attraverso i quali si accede al formato PDF delle pagine del suddetto numero del “Senso della Repubblica”. Per Internet Archive: https://archive.org/details/WalterBenjaminIperdecisionismoERepubblicanesimoGeopolitico.LoStatoDi/mode/2up e https://ia800501.us.archive.org/34/items/WalterBenjaminIperdecisionismoERepubblicanesimoGeopolitico.LoStatoDi/WalterBenjaminIperdecisionismoERepubblicanesimoGeopolitico.LoStatoDiEccezioneComeRegola.IlSensoDellaRepubblicaAnnoViiiN.2Febbraio2015.pdf. Per WebCite: http://www.webcitation.org/6oF2D6q32 e http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia800501.us.archive.org%2F34%2Fitems%2FWalterBenjaminIperdecisionismoERepubblicanesimoGeopolitico.LoStatoDi%2FWalterBenjaminIperdecisionismoERepubblicanesimoGeopolitico.LoStatoDiEccezioneComeRegola.IlSensoDellaRepubblicaAnnoViiiN.2Febbraio2015.pdf&date=2017-02-13. Per ResearchGate: https://www.researchgate.net/publication/274641401_WALTER_BENJAMIN_IPERDECISIONISMO_E_REPUBBLICANESIMO_GEOPOLITICO_LO_STATO_DI_ECCEZIONE_COME_REGOLA_testo_preparatorio_di_Massimo_Morigi_sul_%27Repubblicanesimo_Geopolitico%27: https://doi.org/10.13140/RG.2.1.5099.7287. Non essendo il “Senso della Repubblica” un blog, cioè una piattaforma sul Web dove quello che viene caricato viene immesso direttamente e quindi corrisponde integralmente senza possibilità di discostamenti  alla volontà e agli errori del suo autore (al netto, ovviamente della sua eventuale non pubblicazione  o correzione sotto responsabilità del gestore del blog, interventi comunque non di natura tecnica ma dovuti ad una precisa volontà politica editoriale), ma un rivista che viene solo in seguito digitalizzata, sono possibili i classici errori tecnici redazionali  di natura editoriale nella pubblicazione dei documenti che le vengono sottoposti. Per questo motivo, e senza andare a segnalare eventuali piccoli discostamenti rispetto alla bozza originale sottoposta alla rivista stessa, si è provveduto da parte del suo autore all’autonoma immissione in rete del testo originale a suo tempo sottoposto alla rivista (ciò non è stato fatto per l’intervista sul Repubblicanesimo Geopolitico per la quale l’autore non è in possesso di bozze definitive perché la scrittura finale dell’intervista è stata interamente a cura del “Senso della Repubblica”; ciò, per lo stesso motivo, non è stato  fatto per la polemica sul  blog “Democrazia Pura” ma, nonostante la sua natura di blog dell’ “Italia e il Mondo”, si è provveduto pure, come vedremo in questa nota, di caricare autonomamente  sul Web il Dialecticvs Nvncivs, l’ultima saggio che precede e prepara le presenti Glosse che, nonostante  la sua pubblicazione  senza errori  e  revisioni  sull’ “Italia e il Mondo” – si ringrazia il blog per la fiducia ed anche per la condivisione teorica –, si è ritenuto, vista la sua importanza precorritrice rispetto alle Glosse, di fornirgli anche una ridondanza  autonoma rispetto alla pubblicazione su “L’Italia e il Mondo”). Tornando quindi agli URL della pubblicazione autonoma sul Web di Walter Benjamin, Iperdecisionismo e Repubblicanesimo Geopolitico. Lo Stato di Eccezione come Regola, per Internet Archive l’articolo è consultabile presso i già citati URLhttps://archive.org/details/WalterBenjaminIperdecisionismoERepubblicanesimoGeopolitico.LoStatoDi_949/mode/2up e https://ia601900.us.archive.org/0/items/WalterBenjaminIperdecisionismoERepubblicanesimoGeopolitico.LoStatoDi_949/WalterBenjaminIperdecisionismoERepubblicanesimoGeopolitico.LoStatoDiEccezioneInCuiViviamoLaRegola-VersioneRedvx.pdf; presso il “congelamento” attraverso la piattaforma WebCite agli URL http://www.webcitation.org/6or3YW9yH  e http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia801509.us.archive.org%2F17%2Fitems%2FWalterBenjaminIperdecisionismoERepubblicanesimoGeopolitico.LoStatoDi_949%2FWalterBenjaminIperdecisionismoERepubblicanesimoGeopolitico.LoStatoDiEccezioneInCuiViviamoLaRegola-VersioneRedvx.pdf&date=2017-03-10;  e infine presso ResearchGate all’ URL https://www.researchgate.net/publication/314065896_Walter_Benjamin_Iperdecisionismo_e_Repubblicanesimo_Geopolitico_Lo_Stato_di_eccezione_in_cui_Viviamo_e_la_Regola: https://doi.org/10.13140/RG.2.2.27706.39363. Inoltre Walter Benjamin, Iperdecisionismo e Repubblicanesimo Geopolitico. Lo Stato di Eccezione come Regola è stato recentemente ripubblicato sempre dal blog di geopolitica marxista “L’Italia e il Mondo” agli URL http://italiaeilmondo.com/2017/02/22/walter-benjamin-iperdecisionismo-e-repubblicanesimo-geopolitico-lo-stato-di-eccezione-in-cui-viviamo-e-la-regola-di-massimo-morigi/ (WebCite: http://www.webcitation.org/6oUAR6xbI e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2017%2F02%2F22%2Fwalter-benjamin-iperdecisionismo-e-repubblicanesimo-geopolitico-lo-stato-di-eccezione-in-cui-viviamo-e-la-regola-di-massimo-morigi%2F+&date=2017-02-23; Wayback Machine: http://web.archive.org/web/20200316100853/http://italiaeilmondo.com/2017/02/22/walter-benjamin-iperdecisionismo-e-repubblicanesimo-geopolitico-lo-stato-di-eccezione-in-cui-viviamo-e-la-regola-di-massimo-morigi/) e http://italiaeilmondo.com/category/zibaldone/ (WebCite: http://www.webcitation.org/6oUAhrwer e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2Fcategory%2Fzibaldone%2F&date=2017-02-23; Wayback Machine: http://web.archive.org/web/20200316101436/https://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2Fcategory%2Fzibaldone%2F&date=2017-02-23). Una tappa fondamentale dell’elaborazione teorica sul Repubblicanesimo Geopolitico risale al 2015, la Teoria della Distruzione del Valore (Teoria Fondativa del Repubblicanesimo Geopolitico e per il  Superamento/conservazione del Marxismo), che è una riconsiderazione, dal punto di vista dell’integrale filosofia della prassi  del Repubblicanesimo Geopolitico, della teoria marxiana del plusvalore. È visionabile all’URL https://archive.org/details/MarxismoTeoriaDellaDistruzioneDelValore/mode/1up e direttamente, sempre su Internet Archive,  all’URL https://ia800501.us.archive.org/20/items/MarxismoTeoriaDellaDistruzioneDelValore/MarxismoTeoriaDellaDistruzioneDelValore.pdf (su WebCite, “congelando” l’upload su Internet Archive, agli URL  http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia800501.us.archive.org%2F20%2Fitems%2FMarxismoTeoriaDellaDistruzioneDelValore%2FMarxismoTeoriaDellaDistruzioneDelValore.pdf&date=2015-12-04                            e    http://www.webcitation.org/6dWOlPr8n – su ResearchGate: https://www.researchgate.net/publication/313529225_Teoria_della_Distruzione_del_Valore: https://doi.org/10.13140/RG.2.2.10604.77443 –, anche con se Internet Archive, per il suo ruolo istituzionale di conservazione della memoria digitale, non dovrebbe essere necessario ricorrere alla ridondanza di WebCite); inoltre segnaliamo che la Teoria della Distruzione del Valore è stata anche pubblicata sul sito di geopolitica marxista “Italia e il Mondo” agli ’URL http://italiaeilmondo.com/2017/02/04/teoria-della-distruzione-del-valore-teoria-fondativa-del-repubblicanesimo-geopolitico-e-per-il-superamentoconservazione-del-marxismo-di-massimo-morigi/ e https://italiaeilmondo.com/category/agora/, che queste due pagine del blog “Italia e il Mondo” sono state anche rispettivamente caricate su WebCite agli URL http://www.webcitation.org/6oAWYYDIZ e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2017%2F02%2F04%2Fteoria-della-distruzione-del-valore-teoria-fondativa-del-repubblicanesimo-geopolitico-e-per-il-superamentoconservazione-del-marxismo-di-massimo-morigi%2F&date=2017-02-10 e  http://www.webcitation.org/6oBx5xZNt e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2Fcategory%2Fagora%2F&date=2017-02-11 (cui ha fatto seguito anche un “congelamento” su Wayback Machine all’URL http://web.archive.org/web/20200318073423/http://italiaeilmondo.com/2017/02/04/teoria-della-distruzione-del-valore-teoria-fondativa-del-repubblicanesimo-geopolitico-e-per-il-superamentoconservazione-del-marxismo-di-massimo-morigi/), che  la pubblicazione su “Italia e il Mondo” della Teoria della Distruzione del Valore è stata copiaincollata e poi così di nuovo caricata   su  Internet Archive generando gli URL https://archive.org/details/TeoriaSullaDistruzioneDelValorePubblicataSuItaliaEIlMondo/mode/2up                                                               e https://ia801602.us.archive.org/19/items/TeoriaSullaDistruzioneDelValorePubblicataSuItaliaEIlMondo/Teoria%20sulla%20Distruzione%20del%20Valore%20-%20Pubblicata%20su%20Italia%20e%20il%20Mondo.pdf e, per ultimo, che la Teoria della Distruzione del Valore era stata pubblicata anche nel 2015 sulla già citata rivista “Il Senso della Repubblica”. Quella pubblicata sul “Senso della Repubblica” è una versione della Teoria con un testo leggermente diverso da quello originariamente direttamente immesso nel Web (testo originale ora pubblicato anche dal blog “L’Italia e il Mondo”) ma, al di là delle differenze stilistiche fra la versione semplificata del “Senso della Repubblica” resa necessaria, a giudizio della rivista, per un più facile lettura e la versione originale, entrambe contengono un elemento che avrà una decisiva importanza per l’elaborazione teorica del Repubblicanesimo Geopolitico e che è già stato affrontato direttamente nel Dialecticvs Nvncivs e viene ancora di più approfondito nelle presenti Glosse: e, cioè, l’artificiosa e totalmente antidialettica divisione fra natura e cultura, o fra storia e natura, o fra scienze fisico-biologiche e scienze storico-sociali. Gli URL attraverso i quali si può prendere visione di questa versione semplificata della Teoria della Distruzione del Valore pubblicata sul “Senso della Repubblica”: Internet Archive: https://archive.org/details/TeoriaDellaDistruzioneDelValoreSRGiugno15/mode/2up, https://ia801600.us.archive.org/8/items/TeoriaDellaDistruzioneDelValoreSRGiugno15/Teoria%20della%20Distruzione%20del%20Valore%20-%20SR_Giugno_15.pdf; WebCite: http://www.webcitation.org/6oFMlBGla, http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia601506.us.archive.org%2F28%2Fitems%2FTeoriaDellaDistruzioneDelValoreSRGiugno15%2FTeoria%2520della%2520Distruzione%2520del%2520Valore%2520-%2520SR_Giugno_15.pdf&date=2017-02-13; ResearchGate: https://www.researchgate.net/publication/313656814_Teoria_della_Distruzione_del_Valore_-_SR_Giugno_15: https://doi.org/10.13140/RG.2.2.25717.37608. Come per gli altri documenti pubblicati non solo direttamente dall’autore  ma anche a cura di altri  soggetti, si è provveduto   da parte nostra, senza verificare troppo attentamente eventuali errori nella pubblicazione da parte del “Senso della Repubblica” e al solo scopo di provvedere il cortese lettore di una indiscutibile fonte primaria per la discussione sul Repubblicanesimo Geopolitico,  ad immettere nel Web anche il testo  poi affidato alla redazione del “Senso della Repubblica”. Ancora qui di seguito gli URL attraverso i quali si può avere contezza del testo originale semplificato inviato al “Senso della Repubblica” senza i possibili (e quasi inevitabili) errori redazionali del “Senso della Repubblica”: Internet Archive:https://archive.org/details/TEORIADELLADISTRUZIONEDELVALOREREDUX/mode/2up , https://ia801600.us.archive.org/20/items/TEORIADELLADISTRUZIONEDELVALOREREDUX/TEORIA%20DELLA%20DISTRUZIONE%20DEL%20VALORE%20-%20REDUX.pdf; WebCite: http://www.webcitation.org/6oFLMkhYx, http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia601508.us.archive.org%2F30%2Fitems%2FTEORIADELLADISTRUZIONEDELVALOREREDUX%2FTEORIA%2520DELLA%2520DISTRUZIONE%2520DEL%2520VALORE%2520-%2520REDUX.pdf&date=2017-02-13; ResearchGate: https://www.researchgate.net/publication/313656735_TEORIA_DELLA_DISTRUZIONE_DEL_VALORE_-_REDUX: https://doi.org/10.13140/RG.2.2.10617.88168. Infine, le presenti Glosse devono essere considerate come la parte conclusiva di un trittico sul Repubblicanesimo Geopolitico le cui prime due parti sono state composte e pubblicate nel secondo semestre del 2016 e sono Repubblicanesimo Geopolitico Anticipating Future Threats. Dialogo sulla moralità del Repubblicanesimo Geopolitico più breve nota all’intervista del CSEPI a La Grassa (di Massimo Morigi) (agli URL https://archive.org/details/MARXISMO_345/mode/2up            e https://ia601909.us.archive.org/4/items/MARXISMO_345/MARXISMO.pdf; WebCite:    http://www.webcitation.org/6o8vF7WLt  e http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia601909.us.archive.org%2F4%2Fitems%2FMARXISMO_345%2FMARXISMO.pdf&date=2017-02-09; ResearchGate: https://www.researchgate.net/publication/309427489_Repubblicanesimo_Geopolitico_Anticipating_Future_Threats_Dialogo_sulla_Moralita_del_Repubblicanesimo_Geopolitico_piu_Breve_Nota_all%27Intervista_del_CSEPI_a_La_Grassa_di_Massimo_Morigipdf: https://doi.org/10.13140/RG.2.2.11532.72320) e Dialecticvs Nvncivs. Il punto di vista del Repubblicanesimo Geopolitico attraverso i Quaderni del Carcere e Storia e Coscienza di Classe per il rovesciamento della gerarchia della spiegazione meccanicistico-causale e dialettico-conflittuale, per il rinnovamento degli studi marxiani e marxisti e per l’Aufhebung della gramsciana   e   lukacsiana   Filosofia   della  Praxis (agli URL https://archive.org/details/DialecticvsNvncivs_201701/mode/2up                                              e                            https://ia801904.us.archive.org/6/items/DialecticvsNvncivs_201701/Dialecticvs%20Nvncivs.pdf; WebCite:  http://www.webcitation.org/6o8wW4znJ e http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia801509.us.archive.org%2F26%2Fitems%2FDialecticvsNvncivs_201701%2FDialecticvs%2520Nvncivs.pdf&date=2017-02-09; ResearchGate: https://www.researchgate.net/publication/313278043_Dialecticvs_Nvncivs_Il_punto_di_vista_del_Repubblicanesimo_Geopolitico_attraverso_i_Quaderni_del_Carcere_e_Storia_e_Coscienza_di_Classe_per_il_rovesciamento_della_gerarchia_della_spiegazione_meccanici: https://doi.org/10.13140/RG.2.2.29749.47842. Similmente  alla Teoria della Distruzione del Valore, anche Dialecticvs Nvncivs è stato pubblicato sul blog  “L’Italia e il Mondo”, agli URL   http://italiaeilmondo.com/2016/12/13/dialecticus-nuncius-di-massimo-morigi/ e http://italiaeilmondo.com/category/agora/; WebCite: rispettivamente http://www.webcitation.org/6oBwn5kXP e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2016%2F12%2F13%2Fdialecticus-nuncius-di-massimo-morigi%2F&date=2017-02-11 e http://www.webcitation.org/6oBx5xZNt e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2Fcategory%2Fagora%2F&date=2017-02-11, cui ha fatto seguito anche un “congelamento” su Wayback Machine all’URL   http://web.archive.org/web/20200318082736/http://italiaeilmondo.com/2016/12/13/dialecticus-nuncius-di-massimo-morigi/). Se Repubblicanesimo Geopolitico Anticipating Future Threats poteva essere considerato una breve esposizione della moralità (dialettica) del Repubblicanesimo Geopolitico e  Dialecticvs Nvncivs, sempre attraverso un’impostazione dialettica imperniata sulla filosofia della praxis di György Lukác, Karl Korsch e Antonio Gramsci, è il tentativo, come da titolo, per rovesciare l’inveterata primazia della spiegazione meccanicistico-causale su quella teleologica del paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale mettendo questa seconda non solo come primo ed imprescindibile punto di partenza  nella spiegazione  dei cosiddetti fenomeni storico-sociali   ma anche in quella dei cosiddetti fenomeni naturali  e fisici, Glosse al Repubblicanesimo Geopolitico è, in ultima analisi, il tentativo sia alla luce di una rinnovata morale dialettica sia proseguendo nell’ulteriore approfondimento del rovesciamento gerarchico fra i due tipi di spiegazione appena citati, di comprendere e riassumere nel canone del Repubblicanesimo Geopolitico stesso tutta quella tradizione filosofica, politica e filosofico-politica che nel corso dell’Ottocento e del Novecento, anche se spesso su versanti politici contrapposti, si è sempre caratterizzata per il rifiuto in campo politico del canone liberale e, in campo filosofico, per il rigetto del positivismo e del neopositivismo. Glosse al Repubblicanesimo Geopolitico, insomma, vuole essere espressione di una  inedita moralità dialettica volta al rinnovamento della tradizione rivoluzionaria occidentale, una tradizione rivoluzionaria il cui rinnovato e rinvigorito nucleo dialettico si ponga il fondamentale ed ineludibile obiettivo dell’unificazione soprattutto  di quelle  esperienze filosofiche e politiche che nel recente passato si erano mortalmente combattute. Glosse al Repubblicanesimo Geopolitico costituisce, quindi, sia uno sforzo puramente teorico ma, al tempo stesso, anche un atto di concreta moralità dialettica per unire in senso rivoluzionario sia sul versante gnoseologico ed epistemologico che su quello dell’azione sociale indirizzi di pensiero e di concreta azione politica che sempre contestarono il canone liberale ma nei quali, oltre che  la storia politica otto-novecentesca, anche una non ancora pienamente sviluppata visione dialettica (o, anche, il totale rifiuto della stessa) non consentiva di vedersi e di riconoscersi con profondissime affinità. E questo vicendevole riconoscimento, cui con le presenti Glosse si ritiene di apportare un fondamentale contributo, altro non essendo che il primo ed imprescindibile passo per una rinascita della filosofia della prassi è, di conseguenza, l’atto fondante di quella rivoluzionaria moralità dialettica alla quale con questo lavoro si vuole sì dare, come nei due precedenti lavori, annuncio e sostanza scientifica ma anche fare in modo che questo annuncio si concretizzi in quella Epifania strategica che seguendo il filo rosso di Eraclito, Aristotele, Machiavelli, Vico, Hegel, Carl von Clausewitz, Marx, Mazzini, Gentile, Lenin, György Lukács, Karl Korsch, fino a giungere ad Antonio Gramsci, rivoluzioni ab imis sia la nostra visione ed interpretazione  del mondo che il nostro agire nella società.».

 

13 «I am conscious of the odd perspective provided by my historical position – a Ph.D. in biology for an Irish Catholic girl was made possible by Sputnik’s impact on U.S. national science-education policy. I have a body and mind as much constructed by the post-World War II arms race and Cold War as by the women’s movements. There are more grounds for hope by focusing on the contradictory effects of politics designed to produce loyal American technocrats, which as well produced large numbers of dissidents, rather than by focusing on the present defeats. The permanent partiality of feminist points of view has consequences for our expectations of forms of political organization and participation. We do not need a totality in order to work well. The feminist dream of a common language, like all dreams for a perfectly true language, of perfectly faithful naming of experience, is a totalizing and imperialist one. In that sense, dialectics too is a dream language, longing to resolve contradiction. Perhaps, ironically, we can learn from our fusions with animals and machines how not to be Man, the embodiment of Western logos. From the point of view of pleasure in these potent and taboo fusions, made inevitable by the social relations of science and technology, there might indeed be a feminist science.» (Donna Jeanne Haraway, A Manifesto for Cyborgs: Science, Technology, and Socialist Feminism in the 1980s, cit., in Id., The Haraway Reader, cit., London, Routledge, 2004, p. 31); «“Companion species” is a much bigger and more heterogeneous category than companion animal, and not just because one must start including such organic beings as rice, bees, tulips, and intestinal flora, all of whom make life for humans what it is – and vice versa. I want to rewrite the keyword entry for “companion species” to insist on four tones simultaneously resonating in the linguistic, historical voice box that makes uttering this term possible. First, as a dutiful daughter of Darwin, I insist on the tones of the history of evolutionary biology, with its key categories of populations, rates of gene flow, variation, selection, and biological species. All of the debates in the last 150 years about whether the category denotes a real biological entity or merely figures a convenient taxonomic box provide the over-and undertones. Species is about biological kind, and scientific expertise is necessary to that kind of reality. Post-cyborg, what counts as biological kind troubles any previous category of organism. The machinic is internal to the organic and vice versa in irreversible ways. Second, schooled by Thomas Aquinas and other Aristotelians, I remain alert to species as generic philosophical kind and category. Species is about defining difference, rooted in polyvocal fugues of doctrines of cause. Third, with an indelible mark on my soul from a Catholic formation, I hear in species the doctrine of the Real Presence under both species, bread and wine, the transubstantiated signs of the flesh. Species is about the corporeal join of the material and the semiotic in ways unacceptable to the secular Protestant sensibilities of the American academy and to most versions of the human sciences of semiotics. Fourth, converted by Marx and Freud, I hear in species filthy lucre, specie, gold, shit, filth, wealth. In Love’s Body, Norman O. Brown taught me about the join of Marx and Freud in shit and gold, in specie. I met this join again in modern U.S. dog culture, with its exuberant commodity culture, its vibrant practices of love and desire, its mongrel technologies of purebred subject and object making. Pooper scoopers for me is quite a joke. In sum, “companion species” is about a four-part composition, in which co-constitution, finitude, impurity, and complexity are what is.» (Id., Cyborgs to Companion Species: Reconfiguring Kinship in Technoscience, in Id., The Haraway Reader, cit., pp. 301-302). Mentre sul background cattolico di Donna Haraway pensiamo non ci sia altro da aggiungere, molto da aggiungere ci sarebbe sul fatto che la Haraway non operi mai un completo distacco da queste sue radici culturali ma cerchi di dialettizzarle intrecciandole con la cultura materialista-positivista e darwinista della comunità della maggior parte degli studiosi di genetica e biologia. Non vogliamo qui riprendere i discorsi appena fatti in merito allo stile fantasmagorico e profondamente feticistico della Haraway che denuncia una libido dialectica che non riesce mai (anche i ragione dei nefasti influssi heideggeriani e poststrutturalisti mostrati anche in queste nostre citazioni e che non sono solo una delle note dominanti di tutta la sua produzione ma sono anche il morbo antistrategico – il filosofo di  Meßkirch il pensatore più antistrategico ed antidialettico di tutta la tradizione filosofica occidentale! – che ha colpito il pensiero di “sinistra” a partire dagli anni ’80, dopo cioè che erano cadute, travolte dall’evidente fallimento storico ed  epistemologico del rozzo e monocorde conflittualismo classe operaia vs classe capitalista industriale che era stato il motore ideologico delle rivoluzioni anticapitalistiche del Novecento, tutte le illusioni millenariste e crolliste sul capitalismo del pensiero marxiano e marxista) a prendere piena consapevolezza di sé, preferiamo piuttosto concentrare la nostra riflessione su un passaggio del secondo brano da noi citato, dove l’Haraway in merito alla sua formazione cattolica e all’importanza che ha per lei il dogma della transustanziazione (che, per una sorta di pudore antiteologico essa non definisce dogma, come invece dovrebbe nominarlo attenendoci ad una corretta dottrina cattolica) essa chiaramente riconosce l’importanza di San Tommaso nella sua formazione. Riproponiamo il passaggio in questione: «Second, schooled by Thomas Aquinas and other Aristotelians, I remain alert to species as generic philosophical kind and category. Species is about defining difference, rooted in polyvocal fugues of doctrines of cause. Third, with an indelible mark on my soul from a Catholic formation, I hear in species the doctrine of the Real Presence under both species, bread and wine, the transubstantiated signs of the flesh.», nel quale, visto che si parla di San Tommaso d’Aquino e della transustanziazione, la prima cosa che notiamo è una assordante assenza, vale a dire non si menziona minimante il fatto che l’Aquinate è l’autore della preghiera Lauda Sion Salvatorem, il cui messaggio è riassumibile nelle parole «Dogma datur christianis, quod in carnem transit panis, et vinum in sanguinem» («Un dogma è dato ai cristiani: il pane si trasforma in carne e il vino in sangue») e il cui testo, oltre che per la sua evidente bellezza, per il suo ruolo di benjaminiano teologico nano gobbo nascosto dentro il tavolo della scacchiera filosofica della Haraway, citiamo per intero: «Lauda Sion Salvatórem/ Lauda ducem et pastórem/ In hymnis et cánticis.// Quantum potes, tantum aude:/ Quia major omni laude,/ Nec laudáre súfficis.// Laudis thema speciális,/ Panis vivus et vitális,/ Hódie propónitur.// Quem in sacræ mensa cœnæ,/ Turbæ fratrum duodénæ/ Datum non ambígitur.// Sit laus plena, sit sonóra,/ Sit jucúnda, sit decóra/ Mentis jubilátio.// Dies enim solémnis ágitur,/ In qua mensæ prima recólitur/ Hujus institútio.// In hac mensa novi Regis,/ Novum Pascha novæ legis,/ Phase vetus términat.// Vetustátem nóvitas,/ Umbram fugat véritas,/ Noctem lux elíminat.// Quod in cœna Christus gessit,/ Faciéndum hoc expréssit/ In sui memóriam.// Docti sacris institútis,/ Panem, vinum, in salútis/ Consecrámus hóstiam.// Dogma datur Christiánis,/ Quod in carnem transit panis,/ Et vinum in sánguinem.// Quod non capis, quod non vides,/ Animósa firmat fides,/ Præter rerum ordinem.// Sub divérsis speciébus,/ Signis tantum, et non rebus,/ Latent res exímiæ.// Caro cibus, sanguis potus:/ Manet tamen Christus totus,/ Sub utráque spécie.// A suménte non concísus,/ Non confráctus, non divísus:/ Integer accípitur.// Sumit unus, sumunt mille:/ Quantum isti, tantum ille:/ Nec sumptus consúmitur.// Sumunt boni, sumunt mali:/ Sorte tamen inæquáli,/ Vitæ vel intéritus.// Mors est malis, vita bonis:/ Vide paris sumptiónis/ Quam sit dispar èxitus.// Fracto demum Sacraménto,/ Ne vacílles, sed memento,/ Tantum esse sub fragménto,/ Quantum toto tégitur.// Nulla rei fit scissúra:/ Signi tantum fit fractúra:/ Qua nec status nec statúra/ Signáti minúitur.// Ecce panis Angelórum,/ Factus cibus viatórum:/ Vere panis fíliórum,/ Non mittendus cánibus.// In figúris præsignátur,/ Cum Isaac immolátur:/ Agnus paschæ deputátur/ Datur manna pátribus.// Bone pastor, panis vere,/ Jesu, nostri miserére:/ Tu nos pasce, nos tuére:/ Tu nos bona fac vidére/ In terra vivéntium.// Tu, qui cuncta scis et vales:/ Qui nos pascis hic mortales:/ Tuos ibi commensáles,/ Cohærédes et sodales,/ Fac sanctórum cívium./ Amen./ Allelúja.» (scaricato da https://it.cathopedia.org/wiki/Lauda_Sion_Salvatorem; Wayback Machine: http://web.archive.org/web/20160730225817/http://it.cathopedia.org/wiki/Lauda_Sion_Salvatorem; inoltre sull’importanza per la Chiesa cattolica della preghiera Lauda Sion Salvatorem, citiamo da Maria Francesca Carnea, Il “Lauda Sion Salvatorem” di Tommaso d’Aquino, 5 giugno 2012, all’URL http://comunicativaviva.blogspot.com/2012/06/il-lauda-sion-salvatorem-di-tommaso.html, Wayback Machine: http://web.archive.org/web/20200929060931/http://comunicativaviva.blogspot.com/2012/06/il-lauda-sion-salvatorem-di-tommaso.html: «Contemplata ai vertici della poesia religiosa di ogni tempo, il Lauda Sion Salvatorem è mirabile preghiera della tradizione cristiana cattolica. In essa viene enunciato il dogma della transustanziazione e spiegata la presenza completa e reale di Cristo in ogni specie. L’autore è Tommaso d’Aquino, che la compose nel 1264, su richiesta di Papa Urbano IV quando questi stabilì la festa del Corpus Domini per tutta la Chiesa, festa che fu istituita l’8 settembre 1264 con la Bolla Transiturus de hoc mundo, in seguito al miracolo eucaristico di Bolsena. Papa Urbano IV fece convocare un’assemblea che riuniva i più famosi maestri di Teologia di quel tempo. Tra questi San Tommaso d’Aquino e San Bonaventura, noti per la brillante intelligenza e purezza della dottrina. Urbano IV desiderava che fosse composto in onore del Santissimo Corpus Domini un Ufficio, da utilizzare unicamente nella Messa cantata in occasione di quella solennità e, per questo, sollecitò ad ognuna di quelle dotte personalità una composizione. Il primo a esporre fu l’Aquinate che declamò la Sequenza da lui composta. Fra Bonaventura, ascoltandolo, con un autentico gesto di umiltà, rese tributo alla devozione dell’Aquinate e, senza indugio, cancellò la propria composizione.»). Questa preghiera, ottimamente illustrata dal punto di vista storico-dottrinale dall’autorevolezza della voce della filosofa e teologa cattolica Maria Francesca Carnea, riassume tutto il cattolicesimo perché 1) esprime una fondante e fondativa Weltanschaung dove regna una inestricabile commistione fra spirito e materia (ma dove né l’una né l’altra riescono ad essere superate in una convincente prospettiva dialettica); perchè 2) nonostante questa debolezza dialettica, meravigliosamente rappresenta il  fortissimo anelare del cattolicesimo verso una dimensione olistica della realtà, dimensione olistica che trova la sua rappresentazione mitico-materica nell’ostia consacrata che non funge da simbolo del passaggio di Cristo su questa Terra ma ne è il vero e proprio corpo vivente che, attraverso il rituale della sua ingestione, conferisce ai semplici credenti  laici nel Salvatore e ai sacerdoti della comunità cristiana  la stessa qualità di immortalità del corpo del Dio-uomo; e perché 3) vi si rappresenta come meglio non si potrebbe le difficoltà dialettica del cattolicesimo che ogniqualvolta non riesce ad elaborare una più o meno convincente sintesi dialettica fra i suoi vari contrastanti momenti ricorre al dogma e al mito. Ma se l’Haraway cela il suo teologico nano gobbo, noi espressamente gli riconosciamo il suo grande valore per la dialettica proprio in ragione del fatto che è uno dei testi della tradizione religiosa occidentale dove più chiara risulta la tensione fra una pulsione dialettica che non riesce a tramutarsi in un corpo filosofico e un ricorso al mito proprio in ragione di questo fallimento. Insomma, il Lauda Sion Salvatorem, oltre ad essere una delle più belle preghiere mai scritte sulla sacra transustanziazione è anche l’esito di una filosofica transustanziazione che ci svela il suo fallimento ma che proprio in questo suo chiaro fallimento apre le strade, per chi le voglia percorrere, ad una migliore comprensione dialettica. E la Haraway nascondendo questo  nano gobbo ancora una volta ci dimostra che l’unico percorso che le è consentito intraprendere dalla sua personale teologia è quello di sostituire i vecchi miti religiosi con altri nuovi, che nel suo caso sono i cyborg e gli endosimbionti, fantasmagoriche e feticistiche transustanziazioni del suo particolare e personale fallimento dialettico.  

 

14 Sulla natura olistico-dialettica-espressiva-strategica-conflittuale dell’uomo, natura che è completamente sovrapponibile a quella di tutto il resto della totalità espressiva  ma la cui realtà dialettica prassisticamente si realizza nelle modalità politiche dello ζῷον πολιτικόν e  dello  ζῷον  λόγον  ἔχων  e su come queste due Gestalt  aristoteliche  possano dare origine ad un mito che, a differenza dei miti dell’antichità, non ci parla attraverso poetiche mefafore ed allegorie ma si poggia  sulla  realistica e “scientifica” Weltanschauung dell’uomo animale politico e dell’uomo animale dotato di linguaggio, invitiamo ad una attenta e rivelatrice rilettura delle   Réflexions sur la violence di Georges Sorel (all’URL https://cras31.info/IMG/pdf/sorel_reflexions_violence.pdf, Wayback Machine: http://web.archive.org/web/20200803152218/https://cras31.info/IMG/pdf/sorel_reflexions_violence.pdf, è consultabile e scaricabile l’edizione elettronica del testo di Georges Sorel, Réflexions sur la violence, Paris, Pages libres, 1908, del testo cioè della prima edizione delle Riflessioni sulla violenza.  Per ulteriori considerazioni bibliografico-internettiane sulle Riflessioni sulla violenza, vedi infra sezione bibliografica internettiana del presente lavoro).

 

 

15 Comunque, nessuno meglio del Dialectical Biologist ha saputo esprimere l’inanità della separazione  fra mondo culturale e mondo della natura basandosi sulla consapevolezza che la dimensione storico-dialettica è sempre prevalente sulla supposta meccanicità  delle c.d. leggi di natura e determinanti, quindi, in ragione di questa illusoria meccanicità, una sorta di separazione ontologico-epistemologica fra mondo naturale dove sarebbero vigenti queste leggi  e mondo umano storico-sociale-culturale dove queste non sarebbero valide (storicismo tedesco non hegeliano ma neokantiano, impostazione sostanzialmente corretta per quanto riguarda l’inapplicabilità di una legalità meccanica nello studio della cultura, storia e della società ma mancanza in questo storicismo di una consapevole visione dialettica, per cui ontologica separazione fra mondo naturale e mondo culturale e spiegazone di quest’ultimo tramite categorie psicologistiche e/o critpto-spiritualistiche che denotano una dialettica in nuce ma soffocata: Wilhelm Dilthey, separazione fra scienze della natura e scienze dello spirito, dove queste seconde riguarderebbero lo studio dell’Erlebnis, cioè dell’esperienza vissuta, dove ai nostri occhi è di tutta evidenza che l’Erlebnis è una sorta di inconscio grafema del paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico; Wilhelm Windelband distingue fra scienze nomotetiche, le scienze della natura,  e scienze idiografiche, cioè le scienze storiche e quelle che riguardano lo studio della cultura: un tentativo epistemologico per il Repubblicanesimo Geopolitico di grande interesse non perché ribadisce la distinzione fra scienze della cultura e quella della natura ma perché, dando una definizione della scienza storica come scienza idiografica, cioè una scienza che studia una vicenda storica nella sua unicità, delinea anche il caratteristico movimento del paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale, che è appunto movimento che di volta in volta deve trovare la sua unica espressività non riconducibile ad alcuna legge meccanica; molto interessante, e potenzialmente eversivo rispetto al pensiero di Dilthey e Windelband, il discorso di Heinrich Rickert, dove egli pur riprende l’impostazione di Windelband in merito alla distinzione delle scienze ma a differenza di Windelband sostiene che questa distinzione non dipende dall’oggetto studiato ma dal metodo adottato dallo studioso, per cui anche la natura può essere studiata con metodo idiografico e le scienze naturali, al contrario, con metodo nomotetico: in Rickert, dal nostro punto di vista, vediamo attuata in nuce una sorta di atteggiamento strategico riguardo alla conoscenza, un atteggiamento strategico molto affine al paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico, il quale, per esempio, per quanto riguarda le spiegazioni nomotetiche e meccanicistiche delle scienze fisiche non le rigetta in ragione di questa loro natura antidialettica ma, al momento, si limita a far notare che queste leggi sono l’umana estrapolazione hic et nunc di una vicenda dialettico-storica-fisica-naturale mal conosciuta dall’uomo e che quando verrà conosciuta – se mai ovviamente verrà conosciuta –  valuterà la veridicità della meccanicità di queste leggi alla stessa stregua di come noi moderni giudichiamo  la veridicità dei miti dell’antichità) o se valide, a differenza che nelle leggi di natura, di più complessa e complicata applicazione (positivismo e/o neopositivismo: nel giusto nel volere delineare un campo unificato fra mondo della natura e quello della cultura, in totale errore in quanto la sola legalità valida in questo mondo così unificato è quella meccanico-deterministica e non quella dialettica); primato del Dialectical Biologist che, però, gli riconosciamo solo  limitatamente al campo delle elaborazioni filosofiche direttamente ispirate dalla moderna biologia e/o dai più recenti sviluppi della genetica, cioè l’epigenetica, la teoria endosimbiotica e la sintesi evoluzionistica estesa, perché se allarghiamo il nostro esame al pensiero che direttamente scaturisce dall’elaborazione della tradizione filosofica, cioè il pensiero nato da filosofi professionali che non partono  per le loro elaborazioni da ragionamenti scaturenti dalla problematizzazione di nozioni tecnico-professionali originariamente estranee al dibattito filosofico, l’idealismo italiano aveva già saputo magistralmente e ancor più cristallinamente delineare il problema. Ecco cosa scrive in proposito Giuseppe Galasso (Napoli, 19 novembre 1929 – Pozzuoli, 12 febbraio 2018), che può essere considerato lo storico che meglio seppe far fruttare la lezione dell’idealismo italiano e, in particolare, di Benedetto Croce: «1.2 Il carattere della storicità. Per questo primo aspetto, dunque, il problema del rapporto con la filosofia non si pone per la storiografia in maniera difforme che per ogni altra scienza o disciplina. Per un secondo aspetto – secondo, ovviamente solo nell’ordine espositivo qui seguito – è, invece, da vedere se tale rapporto si ponga per la storiografia anche in maniera diversa, e cioè con una sua particolarità concettuale e metodologica, con una specificità sostanziale e, insomma, in modo da delineare tra storiografia e filosofia una special partnership, con un suo privilegium fori, i suoi contenuti e le sue procedure, irriducibili a ogni altra societas della filosofia con le varie branche del sapere. La risposta positiva a un tale quesito è dettata da una considerazione fondamentale: quella, cioè, relativa al carattere storico della realtà in tutte le sue determinazioni e qualificazioni. Se la filosofia è, innanzitutto, coscienza critica delle scienze e se le scienze sono lo studio della realtà, se la realtà è tutta storica e se c’è una scienza che specificamente si occupa di storia, la relazione alla quale accenniamo non solo non può sorprendere, ma appare come oggetto di una constatazione obbligata. Il carattere storico della realtà, di tutta la realtà è nozione fondamentale, ma di cui si è meno consapevoli di quanto non si dica e non appaia. Orgoglio umanistico e, all’apposto, senso religioso o filosofico o artistico della finitezza e della pochezza umane portano a ritenere che la storicità sia un privilegio o, a seconda dei punti di vista, un doloroso destino dell’uomo. Niente di ciò che sappiamo della realtà può, tuttavia, fare accettare una tale visione delle cose. Storico: cioè, non dato una volta per tutte, non immobile nella sua struttura e nelle sue condizioni, e quindi sottoposto a un mutamento perenne, a una modificazione continua, a un movimento inarrestabile; storico appare ed è tutto quello che l’uomo conosce del mondo, dell’universo in cui si ritrova. Cambiano e sono enormemente diversi tra loro i tempi del mutamento. I tempi biologici, i tempi geologici, i tempi galattici sono tempi di lunghezza incommensurabile rispetto ai tempi storici e a quelli dell’esperienza umana collettiva e individuale. Qualsiasi lunga o lunghissima durata di fenomeni storici si voglia postulare, quei tempi della «natura» sono incomparabili nella loro estensione. Le stesse più ampie misure storiche (il secolo, il millennio) sono, al confronto, semplicemente inani. La «natura» appare immobile e costante solo in grazia di queste enorme sfasatura temporale. Ma, se la ragione varca i limiti del tempo umano e non se ne fa tenere prigioniera, la storicità del mondo emerge come un dato fin troppo immediato ed evidente. Le nebulose, i sistemi solari, i soli, i pianeti quali l’esplorazione e lo studio astronomico ce li configurano sono assetti mutevoli, che hanno avuto un inizio e avranno, altrettanto certamente, una fine. La vita stessa in quanto fenomeno biologico, l’ordine delle specie vissute e viventi, oltre che l’assetto dei mari e delle terre e ogni altro elemento geografico, geologico ecc,  sono mutati nel tempo in maniera radicale, e sono innumerevoli gli aspetti della realtà terrestre che hanno cessato di essere dopo aver durato, in molti casi, per diecine di milioni di anni. Che si qualifichino queste grandiose e lunghissime vicende come evoluzione o in qualsiasi altro modo, il dato di fondo non cambia. La «natura» è tanto poco immobile e immutabile e duratura quanto, sulla propria e, al confronto, minima scala, lo è qualsiasi realtà umana. L’espressione «storia naturale» ha, da questo punto di vista, una pregnanza e una dimensione storica e filosofica che non deve sfuggire. È singolare che a mostrarsene avvertiti siano, in qualche caso, più i filosofi che i naturalisti: basti ricordare qualche pagina di Windelband o di Croce (filosofi, per giunta, di varia fisionomia idealistica). È solo da ricordare e da aggiungere che anche nella filosofia, ma soprattutto nella scienza moderna la nozione di «natura» ha progressivamente ceduto il campo ad una sua diversa, per non dire opposta, considerazione. Dalla natura come res, sostanza o materia più o meno inerte e passiva, si giunge alla materia come complesso di forze, di energie, nei cui equilibri e nelle relative modificazioni consistono propriamente quelli che noi chiamiamo corpi e cose e le loro vicende. Questa visione dinamica della natura non ha fatto che accentuarne – per quanto inconsapevolmente ciò possa essere accaduto –  il carattere storico, fino al punto che in termodinamica si è giunti all’ipotesi  della morte termica dell’universo e in meccanica statistica, ma anche fuori del campo strettamente fisico, si è parlato di entropia come una misura del disordine e dello stato indifferenziato di un sistema e, quindi, della probabilità che il sistema tenda agli strati macroscopici per esso più prevedibili. La nozione di entropia è, peraltro, ancor più raccordata con la riflessione qui avanzata. Il suo proprium scientificamente e filosoficamente più rilevante sta nell’aver fissato la irreversibilità non solo di un campo fondamentale di fenomeni qual è quello dei fenomeni entropici, bensì, e ancor più, del tempo, ossia della dimensione temporale, di tali fenomeni. La realtà si conferma così come un fiume che non può rifare all’inverso il suo percorso e che nel suo cammino consuma un tempo che va sempre nella direzione dell’anteriore al posteriore, sempre ex ante, mai ex post, un tempo cioè non rovesciabile. L’unità di destino spazio-temporale è, così, profondamente affermata e confermata. Direzione del moto e direzione del tempo non sono variabili indipendenti o elementi indifferenti del processo, che in quelle due congiunte direzioni sviluppa la sua irrecuperabilità, la impossibilità di restaurare le situazioni anteriori: impossibilità che non è, peraltro,  pura e semplice impotenza, bensì, insieme, spinta creativa a nuovi equilibri, a nuovi assetti, a nuovi movimenti. È, questa spinta, da un punto di vista non fisico, ma storico-filosofico, a consentire di parlare di entropia non come principio di morte, bensì come una condizione o un dato nello svolgimento del processo vitale. La menomazione proveniente dall’entropia è irrecuperabile, perché deriva da situazioni e rapporti chiusi, isolati; è, invece, compensabile in regime di sistemi aperti, connessi, in cui altre energie e altri slanci introducono nella direzione del moto e del tempo nuovi elementi, e cioè se la creatività non è solo consumo di una dotazione originaria, ma è anche funzione specifica di produzione in corso d’opera. Si capisce, perciò, la ritrosia degli scienziati ad ammettere un’estensione universale dell’entropia e la loro tendenza a limitarne senso e valore ai sistemi chiusi o parziali. Il che non significa la possibilità di invertire ciò che è irreversibile; vuol dire, invece, possibilità di proseguire o proiettare altrimenti, la vita, il moto, il tempo. Il carattere della storicità determina, dunque, tra filosofia e storiografia un nesso profondo e particolare. Esso determina, peraltro, un tale nesso anche tra la storia e qualsiasi altra scienza. Qualsiasi ramo dello scibile, in quanto attiene a un elemento della realtà, ha a che vedere, infatti, con problemi storici. Accade, nel caso di assetti fisici o biologici, geologici o di altro ordine, che la durata del regime sub specie del quale li conosciamo sia talmente estesa da togliere ogni rilievo pratico alla loro natura storica dal punto di vista dello studio che ne facciamo. L’aspetto istituzionale, strutturale appare allora nettamente prevalente e le relative scienze assumono, a tutto buon diritto, quel carattere «nomotetico», che è stato spesso opposto, come elemento fra loro discriminante, al carattere «idiografico» della conoscenza storica: le scienze fisiche, naturali ecc. guardano ai casi generali e ricorrenti e alle forme strutturali dei loro oggetti di studio e tendono a enunciare, al riguardo, leggi e principi rigorosi; le discipline storiche si interessano a casi singoli, irripetibili e tendono a descriverli nella loro individuante specificità. Checchè si voglia pensare di questa distinzione, sta di fatto che essa può valere solo se e in quanto si astrae dal carattere storico della «natura» quale sopra è stato illustrato. In realtà, poi, a questo carattere storico non si può, in ultima analisi, sfuggire. Perciò, qualsiasi sistemazione nomotetica (per dire tutto con una sola parola) in qualsiasi ramo dello scibile è convertibile in ordine idiografico: sull’orizzonte delle scienze dei corpi e delle cose, vicinissimo o lontanissimo, si staglia sempre il profilo  delle scienze della storia dei corpi e delle cose, e sono queste seconde il sovrano legittimo del campo che le prime, giustificatamente, per intanto possono occupare. Ciò è vero, contro ogni avversa apparenza, anche per le scienze matematiche. Le si consideri dedotte dalla considerazione astratta di aspetti o forme della realtà o le si consideri un’autonoma e soggettiva elaborazione dello spirito umano, esse non hanno fatto altro nella loro lunga storia che ampliare, modificandole anche in modo sostanziale, le nozioni elementari e primitive dell’aritmetica e della geometria: il numero e il calcolo, le linee e i volumi della fine del secolo XX non sono soltanto più complessi, sono anche in certo qual modo «altri» da quelli di trenta secoli prima.»: Giuseppe Galasso, Nient’altro che storia. Saggi di teoria e metodologia della storia, Bologna, Il Mulino, 2000, pp. 168-172. E ribadisce sempre in Nient’altro che storia: «Da questo punto di vista il rapporto tra storia e filosofia è destinato a riemergere sempre come un problema centrale di ogni metodologia storica, al di là di quelle che sono le occasionali congiunture di distacco fra le due attività e al di là delle periodiche, salutari e reciproche rivolte. Nella società contemporanea, in un periodo di profonda trasformazione, la storiografia ha fatto appello alle scienze sociali per riempire un vuoto, che costituisce esso stesso, come si è detto, un importante fatto storico. La risposta è stata oltremodo generosa e ha consentito un arricchimento delle procedure storiche proprio negli anni delle vacche magre, quando allo storico è venuto a mancare il suo tradizionale quadro di riferimento. Il dovere dello storico è quello di rivelarsi largamente ingrato verso le generose donatrici, conservandone i doni e utilizzandoli in un diverso e più sicuro e scaltrito rapporto con il proprio orizzonte umanistico53. [Nota 53 di p. 237 di Giuseppe Galasso, Nient’altro che storia, cit.: «L’espressione «orizzonte umanistico della storiografia» non dovrebbe essere fonte di equivoco, se si tiene fermo che gli oggetti della «scienza» storica non hanno limitazioni di campo e che la storicità non è definita da un tipo di contenuti, ma dall’impiego di categorie, come quelle di mutamento e successo, di cui si parla nel testo. Anche di recente è stato opportunamente sottolineato che, dal punto di vista storico,  «il nostro atteggiamento è esattamente lo stesso, così dinanzi agli avvenimenti umani come dinanzi agli avvenimenti naturali: ciò che solo ci interessa è la loro specificità» (Veyne, Come si scrive la storia, cit., p. 109). E il Croce, in pagine che si ha il torto di non tenere mai abbastanza presenti, negò energicamente che vi potesse essere «una “storia della natura”, la quale, pur essendo storia, ubbidirebbe stranamente a leggi diverse da quelle dell’unica storia» (Teoria e storia della storiografia, cit., p. 109); o che si potesse «restringere la storia al campo umano, che sarebbe conoscibile, e dichiarare tutto il resto metastoria e limite della conoscenza umana» (p. 122). L’affermazione della storicità dei processi naturali (che è il succo della tesi crociana circa la «risoluzione del concetto realistico di “natura” in quello idealistico di “costruzione” che lo spirito fa della realtà», p. 122) risponde, del resto, pienamente alla tendenza di fondo di tutta la scienza contemporanea. Si veda il semplice, ma lucidissimo cenno introduttivo di B. Russell, Storia della filosofia occidentale, trad. it. Milano, 1958, pp. 1207-1208,  alla cui risoluzione della «materia» in una «serie di avvenimenti» sembra in un certo qual modo, e magari inconsapevolmente, arieggiare la risoluzione dei «fatti» storici in «intrecci» da parte del Veyne, Come si scrive la storia, cit., p. 59.»]. Detto in altri termini, la disideologizzazione contratta dalla storiografia nel rapporto con le scienze sociali dev’essere trascesa, senza che nulla vada perduto delle acquisizioni nel frattempo conseguite, in una nuova capacità di storicizzazione, insieme più ampia e più profonda, che esalti ulteriormente la dimensione prospettica propria della storiografia. Solo così quest’ultima potrà evitare di rimanere chiusa nel dilemma che Adorno evidenziava per la stessa sociologia, quando notava che la «la sociologia, non filosofica si rassegna a una pura descrizione prescientifica di ciò che è il dato di fatto e che, privo di riferimenti col concetto dal quale viene mediato, rimane facciata, apparenza, insomma non vero» mentre, d’altra parte,  «la sociologia, per rendere giustizia a quell’idea di scienza cui si è subordinata fin dalle sue origini e che è indissolubilmente legata alla parola positivismo, deve di necessità emanciparsi dalla filosofia»54. [Nota 54 di p. 238 di Giuseppe Galasso, Nient’altro che storia, cit.: «Adorno, in La sociologia nel suo contenuto sociale, cit., p. 255.»]. Solo che questo dilemma, benché stringente, si è rivelato per la sociologia piuttosto fecondo che letale, mentre per la storia non è detto che possa accadere altrettanto, se è vero che storicizzare significa giudicare (sia pure senza emettere sentenze di condanna o di assoluzione) e che giudicare non si può senza la mediazione del concetto55. [Nota 55 di p. 238 di Giuseppe Galasso, Nient’altro che storia, cit.: «Ciò è sostanzialmente valido sia che si adotti il piano di una  «logica del ragionamento», sia che si adotti il piano  di una «logica dell’argomentazione», sia che ci si riferisca alla realtà, sia che ci si riferisca al significato; sia che ci si muova nell’ambito di una metodologia positivo-materialistica, sia che ci si muova nell’ambito dialettico-materialistico.»]. Forse questa affermazione apparirà più chiara, se si fa presente che il giudizio storico è fondato su categorie estremamente determinate come quelle del mutamento e del successo. La storicizzazione piena consiste appunto nellaindividuazione di un mutamento e nella qualificazione dell’orientamento di esso. È questo il problema fondamentale che sta alla base di ogni ricerca storica. Le società immobili e pietrificate esistono solo nelle ipotesi di alcuni antropologi. A dissolvere ogni fondatezza di simili ipotesi basterà ricordare che per lo storico non può avere importanza la lunghezza dei tempi entro i quali il mutamento si produce, minima o massima che essa sia. Le diversità del ritmo del tempo storico sono un presupposto ovvio della considerazione storiografica. Gli europei dell’Ottocento consideravano immobile attraverso i millenni la società cinese e la contrapponevano, come modello di immobilità storica appunto, al dinamismo della loro storia. Cattaneo protestava con energia contro questa veramente indebita ipostasi, e la liquidava in poche righe degne di quel grande storico che egli era56. [Nota 56 di p. 239 di Giuseppe Galasso, Nient’altro che storia, cit.: «Lo scritto di C. Cattaneo, La China antica e moderna, è ora nei suoi Scritti storici e geografici, a cura di G. Salvemini e E. Sestan, Firenze, 1967, pp. 130 ss.; e certamente si tratta del documento di una mente storica di eccezionale sensibilità e profondità. Per il suo valore pedagogico dovrebbe far testo. Che poi l’esame del caso cinese (come di quello indiano) serva al Cattaneo come esempio di una sorta di sociologia storica del fenomeno della decadenza (cfr. ibidem, p. 131) è un altro discorso. Per quanto è detto qui cfr. in particolare pp. 162-163.»]. Lo stesso si potrebbe fare, mutata la scala dei tempi, per qualsiasi civiltà57. [Nota 57 di p. 239 di Giuseppe Galasso, Nient’altro che storia, cit.: «Forse, almeno da un punto di vista sintomatico, nulla potrebbe meglio confermare ciò quanto le pagine dedicate da C. Lévi-Strauss (Antropologia Strutturale, trad. it. Milano, 1966, pp. 119 ss.) al concetto di arcaismo in etnologia. La conclusione, rigorosamente e positivamente ragionata, è che anche le società «che potrebbero sembrare le più autenticamente arcaiche sono contorte per discordanze in cui, inequivocabile, si scopre il segno dell’avvenimento» (corsivo dell’A., p. 137).»]. L’etnologia, o studio delle cosiddette società primitive, se non si esaurisce in una etnografia, per quanto complessa e articolatamente strutturata questa possa essere, è una disciplina storica né più né meno di quanto lo è l’archeologia58. [Nota 58 di p. 239 di Giuseppe Galasso, Nient’altro che storia, cit.: «Proprio per la dimostrazione di ciò è particolarmente significativa, nell’ambito della cultura italiana, la vicenda intellettuale di Ernesto De Martino, per cui si veda G. Galasso, Croce, Gramsci e altri storici, Milano, 1969.»].»: Ivi, pp. 235-239. Ora che abbiamo mostrato come Galasso (con Croce) sottolinea, sulla scorta di una impostazione storicistica di solido impianto hegeliano, «la  storicità dei processi naturali (che è il succo della tesi crociana circa la «risoluzione del concetto realistico di “natura” in quello idealistico di “costruzione” che lo spirito fa della realtà», p. 122) [e che] risponde, del resto, pienamente alla tendenza di fondo di tutta la scienza contemporanea.» (e noi, integrando il riferimento alla «storicità dei processi naturali» in cui Galasso implicitamente si riferisce alla teoria evoluzionistica ed esplicitamente alla termodinamica, aggiungiamo  anche la meccanica quantistica, nella quale non solo la presenza o meno dell’osservazione-osservatore nella storia dell’evento sperimentale incide – ed altera – il fenomeno stesso posto sotto osservazione ma che, rispetto alla termodinamica, presenta anche il vantaggio molto dialettico di non legare questa storicità ad un flusso unidirezionale del tempo, vedi l’esperimento della doppia fenditura, cfr., infra, nota seguente, ma al di là di questo appunto Galasso è veramente impareggiabile nel delineare il suo schema di storicità della conoscenza in cui le scienze nomotetiche indirizzate allo studio dei fenomeni fisico-naturali sono, appunto, nomotetiche solo perché questi fenomeni non vengono studiati nella loro genesi e genealogia originarie obbligatoriamente legate alla dimensione evolutivo-temporale; e analogamente noi  affermiamo che il paradigma esplicativo olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale per certe scienze, quelle fisico-naturali – e nemmeno in tutti i loro aspetti, perché, come abbiamo già detto, la meccanica quantistica è fisica intrinsecamente storico-storicistica – richiede una proiezione probativa estesa per eoni, in mancanza della quale strategicamente e provvisoriamente ci si accontenta di spiegazioni di natura nomotetica) vediamo come analogamente sul medesimo punto argomenta il Dialectical Biologist: «There are, of course, physical constants like the mass of the electron, the speed of light, and Planck’s constant, which we regard as fixed and insensitive to the systems of which they are a part. Yet their constancy is not a law derived from yet other, more primitive principles, but an assumption. We do not, in fact, know that “the” mass of “the” electron has been the same since the beginning of matter nor, even if it has been so constant, that its value is not an accident of the history of matter. Whether such values are indeed changing and, if they are, at what rate, is a contingent question, not to be answered from principle. The difference between the reductionist and the dialectician is that the former regards constancy as the normal condition, to be proven otherwise, while the latter expects change but accepts apparent constancy. Not only do parameters change in response to changes in the system of which they are a part, but the laws of transformation themselves change. In the alienated world view, entities may change as a consequence of developmental forces, but the forces themselves remain constant or change autonomously as a result of intrinsic developmental properties. In fact, however, the entities that are the objects of laws of transformation become subjects that change these laws. Systems destroy the conditions that brought them about in the first place and create the possibilities of new transformations that did not previously exist. The law that all life arises from life was enacted only about a billion years ago. Life originally arose from inanimate matter, but that origination made its continued occurrence impossible, because living organisms consume the complex organic molecules needed to recreate life de novo. Moreover, the reducing atmosphere that existed before the beginning of life has been converted, by living organisms themselves, to one that is rich in reactive oxygen. The change that is characteristic of systems arises from both internal and external relations. The internal heterogeneity of a system may produce a dynamic instability that results in internal development. At the same time the system as a whole is developing in relation to the external world, which influences and is influenced by that development. Thus internal and external forces affect each other and the object, which is the nexus of those forces. Classical biology, which is to say alienated biology, has always separated the internal and external forces operating in organisms, holding one constant while considering the other. Thus embryology has always emphasized the development of an organism as a consequence of internal forces, irrespective of the environment. At most the environment is regarded as a signal that sets the interior developmental forces going. Developmental biology is consumed with the problem of how the genes determine the organism. On the other hand, evolutionary biology, at least as practiced in Anglo-Saxon countries, is obsessed with the problem of the organism’s adaptation to the external world and assumes without question that any favorable alteration in the organism is available by mutation. There is abundant evidence, however, that the ontogeny of an individual is a function of both its genes and the environment in which it develops. Moreover, it is certainly the case that no tetrapc.1 [sic!, prob. tetrapod] has ever, no

matter what selective forces are involved, succeeded in acquiring wings without giving up a pair of limbs. The separation of the external and internal forces of development is a characteristic of alienated biology that must be overcome if the problems of either embryology or evolution are to be solved. The assertion that all objects are internally heterogeneous leads us in two directions. The first is the claim that there is no basement. This is not an a priori imposition on nature but a generalization from experience: all previously proposed undecomposable “basic units” have so far turned out to be decomposable, and the decomposition has opened up new domains for investigation and practice. Therefore the proposition that there is no basement has proven to be a better guide to understanding the world than its opposite. Furthermore, the assertion that there is no basement argues for the legitimacy of investigating each level of organization without having to search for fundamental units. A second consequence of the heterogeneity of all objects is that it directs us toward the explanation of change in terms of the opposing processes united within that object. Heterogeneity is not merely diversity: the parts or processes confront each other as opposites, conditional on the whole of which they are parts. For example, in the predator-prey system of lemmings and owls, the two species are opposite poles of the process, predation simultaneously determining the death rate of lemmings and the birth rate of owls. It is not that lemmings are the opposite of owls in some ontological sense, or that lemmings imply owls or couldn’t exist without owls. But within the context of this particular ecosystem, their interaction helps to drive the population dynamics, which shows a spectacular fluctuation of numbers. What characterizes the dialectical world, in all its aspects, as we have described it is that it is constantly in motion. Constants become variables, causes become effects, and systems develop, destroying the conditions that gave rise to them. Even elements that appear to be stable are in a dynamic equilibrium of forces that can suddenly become unbalanced, as when a dull gray lump of metal of a critical size becomes a fireball brighter than a thousand suns. Yet the motion is not unconstrained and uniform. Organisms develop and differentiate, then die and disintegrate. Species arise but inevitably become extinct. Even in the simple physical world we know of no uniform motion. Even the earth rotating on its axis has slowed down in geologic time. The development of systems through time, then, seems to be the consequence of opposing forces and opposing motions. This appearance of opposing forces has given rise to the most debated and difficult, yet the most central, concept in dialectical thought, the principle of contradiction. For some, contradiction is an epistemic principle only. It describes how we come to understand the world by a history of antithetical theories that, in contradiction to each other and in contradiction to observed phenomena, lead to a new view of nature. Kuhn’s (1962) theory of scientific revolution has some of this flavor of continual contradiction and resolution, giving way to new contradiction. For others, contradiction is not only epistemic but political as well, the contradiction between classes being the motive power of history. Thus contradiction becomes an ontological property at least of human social existence. For us, contradiction is not only epistemic and political, but ontological in the broadest sense. Contradictions between forces are everywhere in nature, not only in human social institutions. This tradition of dialectics goes back to Engels (1880) who wrote, in Dialectics of Nature, that “to me there could be no question of building the laws of dialectics of nature, but of discovering them in it and evolving them from it.” Engels’s understanding of the physical world was, of course, a nineteenth-century understanding, and much of what he wrote about it seems quaint. Moreover, dialecticians have repeatedly attempted to make the identification of contradictions in nature a central feature of science, as if all scientific problems are solved when the contradictions have been revealed. Yet neither Engels’ factual errors nor the rigidity of idealist dialectics changes the fact that opposing forces lie at the base of the evolving physical and biological world. Things change because of the actions of opposing forces on them, and things are the way they are because of the temporary balance of opposing forces. In the early days of biology an inertial view prevailed: nerve cells were at rest until stimulated by other nerve cells and ultimately by sensory excitation. Genes acted if the raw materials for their activity were present; otherwise they were quiescent. Gene frequencies in a population remained static in the absence of selection, mutation, random drift, or immigration. Nature was at equilibrium unless perturbed. Later it was recognized that nerve impulses act both to excite and to inhibit the firing of other nerves, so the state of a system depends on the network of opposing stimuli, and that network can generate spontaneous activity. Gene action is regulated by repressors, repressors of the repressors, and all sorts of active feedbacks in the cell. There are no genetic loci immune to mutation and random drift, and no populations are free of selection. The dialectical view insists that persistence and equilibrium are not the natural state of things but require explanation, which must be sought in the actions of the opposing forces. The conditions under which the opposing forces balance and the system as a whole is in stable equilibrium are quite special. They require the simultaneous satisfaction of as many mathematical relations as there are variables in the system, usually expressed as inequalities among the parameters of that system. If these parameters remain within the prescribed limits, then external events producing small shifts among the variables will be erased by the self-regulating processes of stable systems. Thus in humans the level of blood sugar is regulated by the rate at which sugar is released into the blood by the digestion of carbohydrates, the rate at which stored glycogen, fat, or protein is converted into sugar, and the rate at which sugar is removed and utilized. Normally, if the blood sugar level rises, then the rate of utilization is increased by release of more insulin from the pancreas. If the level of blood sugar falls, more sugar is released into the blood, or the person gets hungry and eats some source of sugar. The result is that the blood sugar level is kept not constant but within tolerable limits. So far we are dealing with the familiar patterns of homeostasis, the negative feedback that characterizes all self regulation. However, the pancreas might respond weakly to a high sugar level, which could result in diabetic coma. Or the blood sugar level may fall so low that the person is incapable of eating. The opposing forces are seen as contradictory in the sense that each taken separately would have opposite effects, and their joint action may be different from the result of either acting alone. So far, the object may seem to be the passive victim of these opposing forces. However, the principle that all things are internally heterogeneous directs our attention to the opposing processes at work within the object. These opposing processes can now be seen as part of the self-regulation and development of the object. The relations among the stabilizing and destabilizing processes become themselves the objects of interest, and the original object is seen as a system, a network of positive and negative feedbacks. The negative feedbacks are the more familiar ones. If blood pressure rises, sensors in the kidney detect the rise and set in motion the processes which reduce blood pressure. If more of a commodity is produced than can be sold, prices fall, and the surplus is sold cheaply while production is cut back; if there is a shortage, prices rise, and that stimulates production. Or if a baby cries, this tells the responsible adult that something is wrong, and he or she initiates action to remove the cause of discomfort and stop the crying. In each case a particular state of the system – high blood pressure, overproduction, crying – is self-negating in that within the context of the system an increase in something initiates processes that leads to its decrease. But systems also contain positive feedback: high blood pressure may damage the pressure-measuring structures, so that blood pressure is underestimated and the homeostatic mechanisms themselves increase the pressure; overproduction may lead to cutbacks in employment, which reduce purchasing power and therefore increase the relative surplus; the crying of the baby may evoke anger, and the abuse of the child can then result in more crying. Real systems include pathways for both positive and negative feedback. Negative feedbacks are a prerequisite for stability: the persistence of a system requires self-negating pathways. But negative feedback is no guarantee of stability and under some circumstances can throw the system into oscillation. If there is a preponderance of positive feedback or if the indirect negative feedbacks by way of intervening variables are strong enough, the system will be unstable. That is, its own condition is sufficient cause of its negation. Thus systems are either self-negating (state A leads to some state not-A) or depend for their persistence on self-negating processes. We see contradiction first of all as self-negation. From this perspective it is not too different from logical contradiction. In formal logic process is usually replaced by static set-structural relations, and the dynamic of “A leads to B” is replaced by “A implies B.” But all real reasoning takes place in time, and the classical logical paradoxes can be seen as A leads to not-A leads to A, and so on. For instance, consider Russell’s paradoxical barber who shaves any and all men who do not shave themselves. If we assume that the barber shaves himself, then he belongs to the set of those he does not shave. Therefore, he is eligible to be a shaver by himself, and so we go round and round, as each affirmation is in turn negated. (Logicians would exclude the feminist solution that the barber is a woman and does not shave herself.) Material and logical contradiction share the property of being self-negating processes.  The stability or persistence of a system depends on a particular balance of positive and negative feedbacks, on parameters governing the rates of processes falling within certain limits. But these parameters, although treated in mathematical models as constants, are real-world objects that are themselves subject to change. Eventually some of these parameters will cross the threshold beyond which the original system can no longer persist as it was. The equilibrium is broken. The system may go into wider and wider fluctuations and break down, or the parts themselves, which have meaning only within a particular whole, may lose their identity as parts and give rise to a qualitatively new system. Further, the changes in the parameters may be a consequence of the stable behavior of the system that they condition in the first place. As a result of the cycle of over-and underproduction, businesses fail, firms merge and expand, a permanent body of unemployed people is created, and political struggles culminate in the replacement of the capitalist system with its whole dynamic. If predator and prey are in demographic balance, this may hide the prey’s evolution toward better predator avoidance, thus eventually resulting in the extinction of the predator; or the predator’s efficiency at hunting may evolve beyond the threshold compatible with the survival of the prey, and both become extinct. The dialectical model suggests that no system is really completely static, although some aspects of a system may be in equilibrium. The quantitative changes that take place within the apparent stability cross thresholds beyond which the qualitative behavior ;s [sic!, prob. is] transformed. All systems are in the long run self-negating, while their short-term persistence depends on internal self-negating states. The dialectical viewpoint sees dynamical stability as a rather special situation that must be accounted for. Systems of any complexity – the central nervous system, the national and world capitalist economies, ecosystems, the physiological networks of organisms – are more likely to be dynamically unstable. Even systems designed explicitly to be stable, such as nuclear power plants, have shown a remarkable propensity to behave in unplanned ways. The important point here is that complex systems show spontaneous activity. Each of these systems responds to events from outside, but it is not necessary to look to external sources for the causes of movement. The capitalist business cycle does not depend on sunspots. Political “unrest” is not explained by outside agitators. Changing abundance of species is not evidence of human impact on the environment. And it is becoming increasingly apparent that the prevention of change in wildlife management, environmental protection, or society is, in the long run, an impossible goal. Self-negation is not simply an abstract possibility derived from arguments about the universality of change. We observe it regularly in nature and society. Monopoly arises not as a result of the thwarting of “free enterprise” but as a consequence of its success: hence the futility of antitrust legislation. The freeing of serfs from feudal ties to the land also meant the possibility of their eviction from the land; freedom of the press has increasingly meant the freedom of the owners of the press to control information. The self-negating processes of capitalism are often expressed as ironic commentaries, as the realization of ideal goals turns out to thwart their original intent. Sometimes this self-negation is the consequence of quantitative changes that cross a threshold. For instance, at one time the Polish government established a policy of subsidizing the price of bread at a fixed level in order to guarantee the basic food supply. As inflation developed, the gap between the subsidized price of bread and the prices of other goods widened until one morning Warsaw was without bread: farmers had discovered that it was cheaper to buy bread to feed their livestock than to grow feed: the very mechanisms designed to guarantee the urban bread supply were turned into their opposite. A second aspect of contradiction is the interpenetration of seemingly mutually exclusive categories. A necessary step in theoretical work is to make distinctions. But whenever we divide something into mutually exclusive and jointly all-encompassing categories, it turns out on further examination that these opposites interpenetrate. In Chapter 3 we examined the interpenetration of organism and environment. Here we note briefly several more examples. At first glance, “deterministic” and “random” processes seem to exemplify mutually exclusive categories. Many trees have been sacrificed to the cause of printing debates about whether the world, or species aggregates, or evolution, is deterministic or random. (The deterministic side implying order and regularity, the stochastic side implying absence of system or explanation). In the first place, however, completely deterministic processes can generate apparently random processes. In fact, the random numbers used for computer stimulation of random process are generated by deterministic processes (algebraic operations). Recently, mathematicians have become interested in so-called chaotic motion, which leads neither to equilibrium nor to regular period motion but rather to patterns that look random. In systems of high complexity the likelihood of stable equilibrium may be quite small unless the system was explicitly designed for stability. The more common outcome is chaotic motion (turbulence) or periodic motion with periods so long as never to repeat during even long intervals of observations, thus also appearing as random. Second, random processes may have deterministic results. This is the basis for predictions about the number of traffic accidents or for actuarial tables. A random process results in some frequency distribution of outcomes. The frequency distribution itself is determined by some parameters, and changes in these parameters have completely determined effects on the distribution. Thus the distribution as an object of study is deterministic even though it is the product of random events. Third, near thresholds separating domains of very different qualitative behaviors, a small displacement can have a big effect. If these small displacements arise from lower levels of organization, they will be unpredictable from the perspective of the higher level. And in general the intrusion of events from one level to another appears as randomness. Finally, the interaction of random and deterministic processes gives results in evolution that are different from the consequence of either type of process acting alone. In Sewall Wright’s model, selection alone would lead all local populations to the same gene frequencies, so no selection among populations would be possible. The random drift that arises from small numbers within each population would result in the nonadaptive fixation of genes. The joint effect, however, is to allow variation among local populations, which provides the variability for new cycles of selection in different directions. People have long known that random search can be an important part of adaptive processes, the trial and error procedure leading to desired results by unexpected paths. Similarly, the dichotomy between equilibrium and nonequilibrium systems is not absolute. When ecologists realized that nature changes, there was a rush to abandon equilibrium analysis as unrealistic. However, it is not at all obvious that a changing system is not also in equilibrium. The proportions of various ionic forms of phosphorus in a lake reach equilibrium in seconds, even though the total amount of phosphorus may change. Algae populations may equilibrate with the mineral level, which itself changes, changing the algae. Phenomena that are very much slower than those of interest can be treated provisionally as constant, while those that are very much faster can be treated as if already at equilibrium. In the long run it is important to see equilibrium as a form of motion rather than as its polar opposite. Our conclusion, borne out by the history of our science, is that such dichotomies are both necessary and misleading and that there is no nontrivial and complet [sic!, prob. complete] decomposition of phenomena into mutually exclusive categories. Contradiction also means the coexistence of opposing principles (rather than processes) which, taken together, have very different implications or consequences then they would have if taken separately. Commodities embody the contradiction between use value and exchange value (reflected indirectly in price). If objects were produced simply because they met human needs, we would expect the more useful things to be produced before less useful things, and we would expect objects and methods of production to be designed to minimize any harm or danger and maximize durability or reparability. The amounts produced would correspond to the levels of need; any decline in need would allow either more leisure or the production of other objects. If objects had no use value at all, of course, they couldn’t be sold; use value makes exchange value possible. But the prospect of exchange value leads to results that often contradict the human needs that called forth the commodities in the first place. Commodities will be produced, for example, only for those who can afford them, and priority will be given to the production of those commodities with the highest profit margins. Productive innovations which make commodities easier and cheaper to make may create unemployment or ill health for workers and consumers. Thus the process of supplying human needs by the creation of commodities whose exchange value is paramount actually creates new hardship. A single proposition may have opposing implications. Consider, for example, the statement that more than half the population of Puerto Rico receives food stamps. This serves as a basis both for the party in power to justify the continuation of American rule and for the opposition to criticize that rule. On the one hand, eighty-six years after the United States occupied Puerto Rico, the island’s economy is more dependent and less able to support its population than before. Some $5 billion are extracted annually by United States businesses in the form of profits and interest, preventing Puerto Rico from accumulating what it needs for autonomous development. On the other hand, food stamps are not available in Honduras and the Dominican Republic. For the recipient of food stamps, the direct experience is of American benevolence. It requires an intellectual detour to perceive also that the necessity for food stamps is a result of being absorbed into the American economy, that the United States is the cause of the problem that it partly ameliorates. Much of the political conflict around the status of Puerto Rico derives from the contradictory implications of the same fact. The principles of materialist dialectics that we attempt to apply to scientific activity have implications for research strategy and educational policy as well as methodological prescriptions: Historicity. Each problem has its history in two senses: the history of the object of study (the vegetation of North America, the colonial economy, the range of Drosophila pseudoobscura) and the history of scientific thinking about the problem, a history dictated not by nature but by the ways in which our societies act on and think about nature. Once we recognize that state of the art as a social product, we are freer to look critically at the agenda of our science, its conceptual framework, and accepted methodologies, and to make conscious research choices. The history of our science must include also its philosophical orientation, which is usually only implicit in the practice of scientists and wears the disguise of common sense or scientific method. It is sure to be pointed out that the dialectical approach is ro [sic!, prob. no] less contingent historically and socially than the viewpoints we criticize, and that the dialectic must itself be analyzed dialectically. This is no embarrassment; rather, it is a necessary awareness for self-criticism. The preoccupation with process and change comes in part from our commitment to change society. An alertness to the fallacies of gradualism derives from a challenge to liberalism. An insistence on seeing things as integrated wholes reflects a belief that much of the suffering, waste, and destruction in the world today comes from the operation of patriarchal capitalism as a world system penetrating all corners of our lives rather than from a list of separable and isolatable defects. And the emphasis on the social interpretation of science comes from a political commitment to struggle for an alternative way of relating to nature and knowledge that is congruent with an alternative way of organizing society. One practical consequence of this viewpoint is that the study of the history, sociology, and philosophy of science is a necessary part of science education. Universal interconnection. As against the alienated world view that objects are isolated until proven otherwise, for us the simplest assumption is that things are connected. The ignoring of interconnections, especially across disciplinary boundaries, has been the main source of error and even disaster in complex fields of applied biology such as public health, agriculture, environmental protection, and resource management and the cause of the stagnation of theory in these areas. Therefore we urge that an early stage of any investigation should be to trace out the indirect, speculative, and even far-fetched connections among phenomena of interest and to justify any ignored connections. Heterogeneity. The internal heterogeneity of all things and all populations of things is the complementary perspective to universal connections: different things combine into greater, heterogeneous wholes. This perspective leads us to focus on quantitative and qualitative variability as objects of interest and sources of explanation. Then certain problems become especially appealing, such as the organization of phenotypic variability in plants and animals, the differentiation of classes in society, the recognition that plants which bear the same species name can be quite different to the herbivores that eat them, or that the same species may have different ecological significance in different places. When faced with an ensemble of things of any sort, we are suspicious of any apparent homogeneity. Interpenetration of opposites. The more we see distinctions in nature, and the more we subdivide and set up disjunct classes, the greater the danger of reifying these differences. Therefore, complementary to any process of subdividing is the hypothesis that there is no nontrivial and complete subdivision, that opposites interpenetrate and that this interpenetration is often critical to the behavior of the system.  Integrative levels. As against the reductionist view, which sees wholes as reducible to collections of fundamental parts, we see the various levels of organization as partly autonomous and reciprocally interacting. We must reject the molecular euphoria that has led many universities to shift biology to the study of the smallest units, dismissing population, organismic, evolutionary, and ecological studies as forms of “stamp collecting” and allowing museum collections to be neglected. But once the legitimacy of these studies is recognized, we also urge the study of the vertical relations among levels, which operate in both directions. We do not know whether or not these elements of a research and educational program will in fact result in solutions to long-standing problems of biology. Dialectical philosophers have thus far only explained science. The problem, however, is to change it.»: Richard Levins, Richard Lewontin, The Dialectical Biologist, Cambridge (MA), Harvard University Press, 1985 (Delhi, Aakar Books for South Asia, 2009), pp. 277-288 (per indicazioni di bibliografia internettiana indispensabili per consultare e scaricare il documento, si rimanda, supra, alla nota n°1 e, infra, alla nota successiva n° 16 e alla sezione finale di bibliografia internettiana di documenti reperibili sul Web sugli argomenti trattati nella presente comunicazione). Prima di arrivare a decretare la profonda assonanza di fondo fra il brano citato di Nient’altro che storia e quello del Dialectical Biologist, riteniamo però anche di una certa utilità rilevare i problemi dialettici di quest’ultimo e che sono: 1) Estrema difficoltà di individuare la natura del metodo dialettico, con conseguente riduzione della realtà esperita dall’uomo in una serie di momenti distinti e il cui unico tratto comune è l’essere continuamente  ed incessantemente in moto, anziché questa realtà essere autocreata  ex nihilo ed ex suo e messa in azione attraverso il paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale esprimente prassisticamente il rapporto generativo biderazionale fra soggetto ed oggetto («What characterizes the dialectical world, in all its aspects, as we have described it is that it is constantly in motion.»; «The dialectical viewpoint sees dynamical stability as a rather special situation that must be accounted for. Systems of any complexity – the central nervous system, the national and world capitalist economies, ecosystems, the physiological networks of organisms – are more likely to be dynamically unstable. Even systems designed explicitly to be stable, such as nuclear power plants, have shown a remarkable propensity to behave in unplanned ways.»; «Phenomena that are very much slower than those of interest can be treated provisionally as constant, while those that are very much faster can be treated as if already at equilibrium. In the long run it is important to see equilibrium as a form of motion rather than as its polar opposite. Our conclusion, borne out by the history of our science, is that such dichotomies are both necessary and misleading and that there is no nontrivial and complet [sic!, prob. complete] decomposition of phenomena into mutually exclusive categories.») ; 2) Estremo tentativo di recupero –  conseguente alla assolutamente non voluta ma de facto avvenuta nel testo del Dialectical Biologist  riduzione della realtà in momenti distaccati – di una dimensione olistica della realtà, ma tentativo che non approda a risultati soddisfacenti («Universal interconnection. As against the alienated world view that objects are isolated until proven otherwise, for us the simplest assumption is that things are connected. The ignoring of interconnections, especially across disciplinary boundaries, has been the main source of error and even disaster in complex fields of applied biology such as public health, agriculture, environmental protection, and resource management and the cause of the stagnation of theory in these areas. Therefore we urge that an early stage of any investigation should be to trace out the indirect, speculative, and even far-fetched connections among phenomena of interest and to justify any ignored connections. ») e non approda a risultati soddisfacenti perché se il Dialectical Biologist riesce a comprendere che le cose sono interconnesse non riesce a comprendere che le cose sono, cioè esistono, proprio in quanto interconnesse e, risultato di questa mancata consapevolezza sull’essenza della natura olistica della realtà –  essenza che è, lo ribadiamo, la sua continua ed incessante autocreazione ex nihilo ed ex suo  attraverso la sua dialetttica espressivo-strategica-conflittuale – abbassa la consapevolezza della interconnessione di tutte le cose a pura constatazione empirica, certamente frutto di buonsenso ma mortificante di qualsiasi altro progresso in senso dialettico, tantomeno un progresso in senso espressivo-strategico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico; e 3) Conseguente a questa libido dialectica ma che non riesce mai a concretizzarsi in una innovativa e autonoma proposta dialettica, poco convincente – volutamente ci esprimiamo con termini non urticanti – riallacciarsi alla c.d. dialettica engelsiana con i suoi discutibili – ancora una volta decidiamo di esprimerci cortesemente visti, comunque, i grandi meriti del Dialectical Biologist – tre principi di logica dialettica (il principio della negazione della negazione, quello della conversione della quantità in qualità e quello della compenetrazione degli opposti): «Interpenetration of opposites. The more we see distinctions in nature, and the more we subdivide and set up disjunct classes, the greater the danger of reifying these differences. Therefore, complementary to any process of subdividing is the hypothesis that there is no nontrivial and complete subdivision, that opposites interpenetrate and that this interpenetration is often critical to the behavior of the system.», dove addirittura, come nel passaggio appena di nuovo evidenziato, la compenetrazione degli opposti viene visto come lo strumento conoscitivo per superare la fallace riduzione della realtà in momenti separati e distinti. Usando un termine marxiano questa scomposizione della realtà in momenti separati,  distinti e quindi ontologicamente ed epistemologicamente estranei viene definito dal Dialectical Biologist reificante, solo che, e qui apriamo velocemente a due considerazioni a latere, A) ovviamente la reificazione della realtà può essere affrontata solo all’interno del paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale, ma se facessimo solo questa considerazione potremmo essere accusati di accusare il Dialectical Biologist di non pensare come noi pensiamo e B) dal punto di vista olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico la reificazione non è affatto – o solo – uno stato negativo e disumanizzante ma, piuttosto, strettamente legato al momento strategico-conflittuale del succitato paradigma dialettico. E sulle differenze fra il conflittualismo marxiano-marxista ed il nostro di stampo machiavelliano-hegeliano abbiamo in molti altri luoghi ed anche qui più volte detto. Ma fatte tutte queste debite osservazioni critiche (attraverso le quali, qualche nostro benevolo ma attento lettore potrebbe accusarci non solo di aver voluto  imputare al Dialectical Biologist il reato di lesa maestà al paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale ma anche, in un nostro soprassalto di narcisismo, di non aver avuto nemmeno il più fioco barlume, invece di adottare la logica dialettica engelsiana, dell’unico principio logico-dialettico che agisce attraverso il suddetto paradigma e da noi individuato, e cioè il principio di non identità, già da noi rappresentato attraverso questa simbolizzazione: A A≠A A≠A ≠ A≠A A≠A ≠ A≠A≠ A≠A ≠ A≠A…↔∞↔∞), veniamo ora alla profonda assonanza del Dialectical Biologist con la visione galassiana dell’intrinseca storicità della realtà tutta e del bisogno quindi di adottare sempre un approccio storico per lo studio della stessa, anche di quella naturale-fisica, e riprendendo dalle prime parole della citazione in questa nota del Dialectical Biologist, concordiamo con Galasso e con Levins e Lewontin che «There are, of course, physical constants like the mass of the electron, the speed of light, and Planck’s constant, which we regard as fixed and insensitive to the systems of which they are a part. Yet their constancy is not a law derived from yet other, more primitive principles, but an assumption. We do not, in fact, know that “the” mass of “the” electron has been the same since the beginning of matter nor, even if it has been so constant, that its value is not an accident of the history of matter. Whether such values are indeed changing and, if they are, at what rate, is a contingent question, not to be answered from principle.» e anche se in The Dialectical Biologist il non aver messo a fuoco un convincente schema dialettico mette continuamente in crisi la dinamica del suo storicismo: «Historicity. Each problem has its history in two senses: the history of the object of study (the vegetation of North America, the colonial economy, the range of Drosophila pseudoobscura) and the history of scientific thinking about the problem, a history dictated not by nature but by the ways in which our societies act on and think about nature. Once we recognize that state of the art as a social product, we are freer to look critically at the agenda of our science, its conceptual framework, and accepted methodologies, and to make conscious research choices. The history of our science must include also its philosophical orientation, which is usually only implicit in the practice of scientists and wears the disguise of common sense or scientific method. It is sure to be pointed out that the dialectical approach is ro [sic!, prob. no] less contingent historically and socially than the viewpoints we criticize, and that the dialectic must itself be analyzed dialectically. This is no embarrassment; rather, it is a necessary awareness for self-criticism. The preoccupation with process and change comes in part from our commitment to change society. An alertness to the fallacies of gradualism derives from a challenge to liberalism. An insistence on seeing things as integrated wholes reflects a belief that much of the suffering, waste, and destruction in the world today comes from the operation of patriarchal capitalism as a world system penetrating all corners of our lives rather than from a list of separable and isolatable defects. And the emphasis on the social interpretation of science comes from a political commitment to struggle for an alternative way of relating to nature and knowledge that is congruent with an alternative way of organizing society. One practical consequence of this viewpoint is that the study of the history, sociology, and philosophy of science is a necessary part of science education.», il punto non è mai un nostro dissenso sulla storicità intrinseca della realtà ma su come questa storicità riesca concretamente ad esprimersi e quindi attraverso quale paradigma a rendersi creativamente autosufficiente ed autogenerante (ulteriore segno di questa difficoltà espressiva dialettica è il ricorso ad una sorta di visione modello ‘realtà come squilibrio incessante’ paradigma elaborato con questa formulazione da Gianfranco La Grassa – modello che il pensatore marxista di Conegliano ha cercato di coerentizzare in Gianfranco La Grassa, La realtà è “assenza”: (in squilibrio incessante), s.l., Conflitti&Strategie, 2015, anche questo saggio e pur fondamentale opera complessiva di La Grassa sintomo della medesima difficoltà espressiva della dialettica – poiché, coerentemente con una visione dinamica della realtà ma che stenta a trovare il suo ubi consistam, abbiamo già visto che il   Dialectical Biologist ha affermato che «The dialectical model suggests that no system is really completely static, although some aspects of a system may be in equilibrium. The quantitative changes that take place within the apparent stability cross thresholds beyond which the qualitative behavior ;s [sic!, prob. is] transformed. All systems are in the long run self-negating, while their short-term persistence depends on internal self-negating states. The dialectical viewpoint sees dynamical stability as a rather special situation that must be accounted for. Systems of any complexity – the central nervous system, the national and world capitalist economies, ecosystems, the physiological networks of organisms – are more likely to be dynamically unstable. Even systems designed explicitly to be stable, such as nuclear power plants, have shown a remarkable propensity to behave in unplanned ways. The important point here is that complex systems show spontaneous activity.», in questo caso impiegando i principi engelsiani della conversione della quantità in qualità e della negazione della negazione e sotto un’ottica, appunto, di un lagrassiano squilibrio incessante). Ma una volta fatta l’opzione fondamentale sulla storicità della realtà tutta, tutto il resto, in fondo, non è che un dettaglio, o, meglio, non è altro che un passaggio verso l’Epifania strategica. E il Dialectical Biologist ne costituisce un importante e dialetticamente cosciente passaggio (da mettere in antitesi con tutta la produzione della Haraway, anch’essa dialettica ma, per lo più, a sua insaputa, o, ancor meglio, con modalità espressiva mitico-fantasmagorica e totalmente incapace di esprimere, quindi, qualsiasi potenzialità autogenerativa ex nihilo ed ex suo), e che in questo caso nasce da studi biologici ma la cui genealogia trova i suoi punti fondanti negli aristotelici ζῷον πολιτικόν e ζῷον  λόγον  ἔχων, in Machiavelli, in Hegel, in Marx e nella filosofia della prassi di György Lukács, di Karl Korsch e del più grande pensatore del marxismo occidentale che risponde al nome di Antonio Gramsci (e sottolineando, fra l’altro che, specialmente in Antonio Gramsci,  la filosofia della prassi sarebbe impensabile senza gli sviluppi idealistici hegelo-fichtiani dello storicismo assoluto di Benedetto Croce e dell’ attualismo di Giovanni Gentile)  e, come oggigiorno momento di chiusura, nella dialettica prassistica espressivo-strategica-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico.

 

 

[L’ ultima nota n° 16 con la succussiva   sezione bibliografica  che concludono questa comunicazione verrano pubblicate dall’ “Italia e il Mondo”  nella quinta e conclusiva  trance del presente saggio.]

 

 

 

 

 

 

Epigenetica e fantasmagorie transumaniste, 3a parte, di Massimo Morigi

Massimo Morigi

NB_La terza parte segue la presentazione già ripetuta nelle precedenti

Epigenetica, Teoria endosimbiotica, Sintesi evoluzionista moderna, Sintesi evoluzionistica estesa e fantasmagorie transumaniste. Breve commento introduttivo, glosse al Dialectical Biologist di Richard Levins e Richard Lewontin, su Lynn Margulis,  su Donna Haraway e materiali di studio strategici per la teoria della filosofia della  prassi olistico-dialettica-espressiva-strategica-conflittuale    del    Repubblicanesimo    Geopolitico

                                            (III parte di 5)

 

 Al Dialectical Biologist, che è in errore numerose volte ma che è  nel giusto sui punti essenziali

 

A Lustig von Dom e alla sua madre in dialettica Frau Stockmann, Friederun von Miran-Stockmann

 

 

Questo documento, che ora viene presentato in anteprima sul blog di geopolitica “L’Italia e il Mondo”, inteso a raccogliere e a dare un primo approccio alle valenze teoriche che per il Repubblicanesimo Geopolitico possono rivestire le ultime acquisizioni della biologia molecolare e dell’epigenetica e costituito dal presente commento su questo argomento più una  rassegna di URL attraverso i quali i lettori possono prendere visione di importanti documenti afferenti a queste branche della biologia, che erano già presenti sul Web ma che noi, vista la loro importanza sia scientifica  che per la teoria del Repubblicanesimo Geopolitico, abbiamo provveduto a caricare su Internet Archive (e nella rassegna bibliografica finale verranno debitamente indicati gli URL da cui originariamente sono stati scaricati i documenti  – URL e documenti relativi che, quando tecnicamente possibile,  sono stati da noi anche “congelati” tramite  la Wayback Machine – accanto agli URL creati ex novo attraverso i nostri caricamenti su Internet Archive), sviluppa la sua critica a queste nuove acquisizioni delle scienze biologiche nell’ambito dello studio e dell’elaborazione   del  paradigma olistisco-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico – teoria-paradigma dell’azione olistico-dialettica-espressiva-strategica-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico   ultima sintesi e sistemazione della filosofia della prassi i cui maggiori esponenti sono stati nel Novecento Antonio Gramsci, Giovanni Gentile e Karl Korsch – e azione olistico-dialettica-espressiva-strategica-conflittuale che, in primo luogo, dalla profonda   dialetticità del Dialectical Biologist di Richard Levins e Richard Lewontin (per quanto ancora  il Dialectical Biologist non sia riuscito del tutto a liberarsi dello pseudodialettico  engelsismo1 della Dialettica della natura e dell’ Anti-Dühring),  dall’epigenetica (principale esponente Eva Jablonka), dalla teoria endosimbiotica di Lynn Margulis e quindi da un aggiornato lamarckismo riceve potenti stimoli dialettici ed euristici. (Oltre che ottenere una riabilitazione, se non in sede di histoire événementielle, cioè in sede di una impossibile riabilitazione dello stalinismo, ma sì dal punto di vista di una nuova teoresi olistico-dialettica-gnoseologica-epistemologica-politica – cioè dal punto di vista di una rinnovata filosofia della prassi di cui si è appena detto – cui il Repubblicanesimo Geopolitico cerca di dar vita, del tanto ideologicamente diffamato Trofim Denisovič Lysenko, la cui genetica non può essere sbrigativamente liquidata come una infelice pseudoscienza frutto della pseudodialettica dell’autoritario e veteroengelsiano Diamat staliniano, quanto fu piuttosto una forma di lamarckismo ancora all’oscuro dei meccanismi    che    indirizzano   l’evoluzione  degli  organismi2, meccanismi  che cominciano solo ora ad essere compresi dall’epigenetica e, più in generale, da tutti quegli approcci di ricerca biologica e genetica che intendono costruire una Extended  Evolutionary Synthesis  –  Sintesi evoluzionistica estesa, per la  quale anche il dato culturale acquisito,  costruito ed introiettato  dall’organismo stesso in una sorta di autopoiesi genotipico-fentotipica per poi riverberarsi, questa autopoiesi culturale-genetipica-fenotipica, al livello dello stesso ambiente che ne rimane influenzato perché, evolutosi in seguito a questa modificazione dell’organismo, modifica a sua volta dialetticamente l’organismo stesso, è una decisiva componente dell’evoluzione3 – non contrapposta alla Modern Evolutionary Synthesis (Sintesi evoluzionistica moderna, detta anche neodarwinismo – responsabile di aver esasperato in senso meccanicistico le felici intuizioni darwiniane, e costituendo quindi la Sintesi Evoluzionistica Estesa non tanto una fuoruscita dal canone evoluzionista darwiniano ma bensì, attraverso la consapevole introduzione nel campo  teorico esplicativo dell’evoluzione di una Gestalt storicistico-dialettica, non una contrapposizione all’idea darwiniana di evoluzione, modello darwiniano di evoluzione  nel quale erano tenuti in precario equilibro valenze meccanicistiche e valenze storicistiche, ma semmai una sua pur profonda e radicale integrazione alla luce di un rinnovato lamarckismo che solo ora con le nuove tecniche di investigazione scientifica comincia a sviluppare tutte le sue potenzialità) ma al più o meno rozzo meccanicismo che precedentemente aveva afflitto la Modern Evolutionary Syntesis che ha portato alle più estreme ed infauste conseguenze i nodi irrisolti  presenti nel modello  darwiniano4. Si noti bene:  Darwin  era  ben  consapevole dei notevoli problemi che il suo schema di evoluzione delle specie animali e vegetali che vedeva questi organismi come soggetti passivi rispetto all’ambiente si portava con sé e, piuttosto che per il meccanicismo del suo schema evolutivo, l’immortale importanza del suo lascito scientifico consiste nel fatto che egli, a differenza di Lamarck, collegò la variabilità degli organismi all’interno di una specie con la comparsa di nuove specie che non sarebbero mai comparse se questa variabilità individuale non si fosse manifestata, mentre Lamarck, pur avendo correttamente individuato un meccanismo evolutivo dove l’organismo non giocava solo un ruolo passivo – classico l’esempio della giraffa che si allunga il collo per mangiare le foglie degli alberi e riesce poi a trasmettere direttamente alla prole questa sua caratteristica somatica – confinò questo meccanismo evolutivo all’interno di ogni singola specie, cosicché, per farla semplice, le giraffe potevano sì allungare il loro collo a seconda delle necessità ambientali ma dalle giraffe potevano evolversi solo delle giraffe e mai, mettiamo, una nuova specie di erbivori distinta dalle giraffe. Era un’idea di evoluzione un po’ modello arca di Noè, dove le specie del Creato sono sempre state le stesse ab initio temporum – nell’arca gli animali entrano a coppie  e, a parte la facile ironia che viene dalla domanda su come faranno i milioni di specie di viventi, anche se presenti solo a livello di una coppia composta da un maschio e una femmina, a stare dentro un così ridotto vascello, c’è una visione del mondo che sta dietro a questo singolare mito biblico, e cioè l’eterna fissità delle specie viventi che, dai tempi antidiluviani, quindi sin dall’inizio del mondo, sono sempre le stesse.  L’immortale lascito di Darwin non è, quindi, quello di avere recisamente rifiutato e sovvertito in direzione meccanicista il modello lamarckiano di un processo di attiva autopoiesi genotipico-fentotipica dell’organismo e di trasmissione di queste nuove caratteristiche così attivamente acquisite anche alle successive generazioni ma il fatto di aver compreso che la variabilità degli individui all’interno di una popolazione può generare nuove specie. Per rimanere all’esempio della giraffa. Secondo lo schema darwiniano, se particolari condizioni ambientali non costringono più le giraffe ad allungare il collo – o per attenerci ad una formulazione di ancor più stretta osservanza darwiniana, se particolari condizioni ambientali non favoriscono la selezione di giraffe dal collo sempre più lungo –, questo mutamento ambientale può selezionare   –  perché un collo troppo lungo che non risponda più a necessità alimentari è uno svantaggio in quanto una eccessiva massa dell’animale consuma troppe calorie – non solo giraffe dal collo più corto ma una nuova specie animale che non riesce più a riprodursi con le giraffe a collo lungo. Una eccezionale intuizione che, per la prima volta, riusciva a spiegare la presenza delle varie specie presenti sulla Terra partendo da una stessa famiglia di organismi. Insomma prima di Darwin sarebbe stato assolutamente impossibile concepire  LUCA (Last Universal Common Ancestor), e in mancanza di questo ‘ultimo antenato comune universale’ – o almeno in mancanza nella teoria evoluzionistica di un originario antenato iniziatore della vita, sia stato questo antenato un singolo organismo o un gruppo di (proto)organismi e/o molecole organiche (oppure vari e distinti gruppi di molecole organiche e/o (proto)organismi)  che siano divenuti una comunità di organismi  (o più comunità di organismi come nel secondo caso dei gruppi distinti) tramite il trasferimento di geni orizzontale ed evolutesi e differenziatesi in seguito in molteplici e diversificate altre comunità di organismi, cioè nelle varie specie biologiche presenti sul nostro pianeta – gli attuali  paradigmi evoluzionistici sulla varietà e differenziazione delle  specie dei viventi presenti sulla Terra, Sintesi evoluzionista moderna e Sintesi evoluzionistica estesa indifferentemente,  sarebbero gravemente mùtili  della loro  forza  euristica ed analogica nell’opposizione a qualsiasi Weltanshauung imperniata su una divinità personalistica e creazionistica ex nihilo ed ex suo5 – opposizione che è consustanziale alla filosofia della prassi olistico-dialettica-espressiva-strategica-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico –, una ingenua rappresentazione della religiosità popolare sull’origine del mondo  che iconicamente  trova oggigiorno la sua più limpida manifestazione nelle immagini devozionali di proselitismo religioso dei Testimoni di Geova rappresentanti il Paradiso Terrestre, dove leoni, giraffe e gazzelle ed altre specie selvagge vivono felici e rispettandosi a vicenda – povero leone costretto ad una dieta vegetariana, da costituirsi immediatamente un’associazione animalista contro i maltrattamenti alimentari che il leone subisce in questo paradiso terrestre, e alle fiamme il dipinto Paradiso di Jan Brueghel il Giovane, forse la più diretta fonte iconografica di queste immagini devozionali!6 –, e, a parte la bizzarria del leone vegetariano, recanti queste immagini un’altra informazione al devoto, e cioè che queste specie ora pacificate nel Paradiso sono state create tali e quali  ab initio temporum. Insomma, siamo sempre dalle parti dell’arca di Noè e delle mitologie veteroneotestamentarie e derivati7. Darwin  ha iniziato  a  liberarci  da  questa   mitica arca8. La Sintesi evoluzionistica estesa riesce, a sua volta, a liberarsi – e a liberarci –  nel campo della biologia e degli studi sull’evoluzione degli organismi dell’ideologia meccanicistica di stampo cartesiano-galileano – che nell’ Ottocento e  nel Novevento trovò la sua più tetra e ridicola interpretazione nel positivismo e nel neopositivismo – in cui finora era stata costretta questa liberazione e in cui era rimasto impastoiato, pur fra profondi dubbi, anche Darwin. E ovviamente il Repubblicanesimo Geopolitico non può che cogliere con profonda soddisfazione questo ulteriore avanzamento dialettico delle scienze biologiche e genetiche.).  Un’ultima notazione. Pur prendendo spunti ed analogie dalle nuove frontiere aperte dall’epigenetica, dalla sintesi evoluzionistica estesa  e dalla teoria endosimbiotica, ideata quest’ultima  da Lynn Margulis, il Repubblicanesimo Geopolitico si pone decisamente agli antipodi da tutte le ridicole e cupe impostazioni transumaniste, siano queste anche in forma più o meno attenuata come, per esempio, in Donna Haraway. Questo perché – sempre rimanendo al transumanismo harawayno, che attualmente  ne è la forma più attenuata, ed anzi la Haraway espressamente nega di condividerne i fini, anche se, in pratica, deve a buon diritto essere inserita in questa disumanizzante impostazione antropologica – pur riconoscendo volentieri e come segno indubbiamente positivo le potenzialità dialettiche e/o contro la vecchia suddivisione natura/cultura che promanano da tutto il lavoro della Haraway (dal Cyborg Manifesto per finire col Staying with the Trouble. Making kin in the Chthulucene9),  si   deve   sottolineare  il fatto che 1) questa dialettica è espressa per lo più attraverso immagini simboliche (il cyborg del Cyborg Manifesto, l’endosimbionte del Stayng with the Trouble – quest’ultimo, comunque effettivamente esistente nella realtà mentre il primo, almeno per ora, è solo il frutto di una fantasmagoria fantascientifica), che per quanto immagini inconsce ed oniriche della dialettica si fermano sempre ad un passo da una piena consapevolezza della stessa e che 2) il progetto transumanista che traspare da tutto il lavoro della Haraway (per quanto il transumanismo venga formalmente respinto dalla Haraway) altro non si risolve alla fine, anche se abbandonando l’iniziale fantasmagoria fantascientifica del Cyborg perché evidentemente percepita dalla Haraway troppo disumanizzante, che in una fuoruscita dall’umano  non più in via bioingegneristica  come nel Cyborg Manifesto ma in via ingegneristico-genetica (cfr. in Staying with the Trouble il racconto fantascientifico The Camille Stories: Children of Compost10), ma fuoruscita storica dalle attuali contraddizioni storiche dell’umano –  e non dall’umano stesso inteso come dispositivo olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale come invece propone il transumanismo che lo vorrebbe sostituire con un più perfezionato prodotto da laboratorio ma dal quale, ahinoi, scompare la dimensione storico-dialettica della sua evoluzione – che solo può compiere una soddisfacente Aufhebung attraverso una rinnovata e potenziata filosofia della prassi, insomma quella filosofia della prassi, erede dell’idealismo storicista italiano e tedesco e delle migliori espressioni del marxismo occidentale direttamente influenzate da questo idealismo,  che nel XXI secolo solo il Repubblicanesimo Geopolitico ha assunto su di sé il compito del suo sviluppo e potenziamento teorico-pratico. E, infatti, l’incapacità della Haraway a formulare coerentemente un suo autonomo ed originale pensiero dialettico e addirittura il tentativo di fare dell’endosimbionte il simbolo di un nuovo rapporto dell’uomo con la natura  e con la società – suggerendo quindi che l’endosimbionte è, in un certo senso, il  culmine della scala biologica e l’obiettivo cui deve tendere una rinnovata ingegneria sociale poggiata su un’ideologia ecologista e realizzata attraverso le sempre più penetranti tecnologie genetiche utilizzate per modificare il genoma umano: cfr. oltre al summenzionato apologo fantascientifico ancora, passim, Staying with the Trouble. Making kin in the Chthulucene e, in particolare, alle pp. 61-62, 64 la trattazione sul simbionte   Mixotricha paradoxa11– sfocia  alla  fine,  sempre   in  Staying   with  the Trouble, certamente risultato non voluto dalla Haraway, nel progetto di una sorta di uomo nuovo, conseguito non attraverso una selezione e/o eliminazione di pool genetici e culturali umani come nel nazismo12 ma attraverso l’assorbimento nel stesso patrimonio genetico dell’homo sapiens, ad opera dell’ingegneria genetica,  del patrimonio genetico di altre specie animali e vegetali (questo processo di trasferimento di DNA e RNA non finalizzato a finalità riproduttiva all’interno di una specie ma fra membri appartenenti a specie diverse e quindi svincolato da qualsiasi teleologia riproduttiva – che, alla luce delle attuali acquisizioni nell’ambito del paradigma della sintesi evoluzionistica estesa, tutto si può dire di questo fenomeno tranne che si tratti di un ‘epifenomeno’ di trascurabile importanza, mentre è assai più verosimile pensare che si tratti di un passaggio decisivo dell’evoluzione degli organismi e dal punto di vista della dialettica del Repubblicanesimo Geopolitica ne è evidente la grande valenza euristica in quanto si pone agli antipodi di qualsiasi visione “fissista”  del mondo biologico e,  con profonda analogia,  della realtà tutta,  fisica, biologica, culturale e storica, proiettandoci quindi in uno schema olistico della realtà informato alla creazione autopoietica della stessa attraverso il  paradigma   dell’azione dialettico-espressiva-strategica-conflittuale – non è una fantasmagoria fantascientifica ma avviene in natura, e avviene anche per quanto riguarda l’uomo nel cui materiale genetico sono state rinvenute tracce più o meno consistenti di materiale genetico di altre specie animali, un trasporto probabilmente avvenuto attraverso virus vettori). Questo ‘trasferimento genico orizzontale’ svincolato dalla riproduzione  (acronimo TGO,  o ‘trasferimento di geni laterale’, acronimo TGL, in inglese ‘Horizontal gene transfer’, acronimo HGT) che avviene, ovviamente, anche dall’uomo verso gli animali, mentre potrebbe costituire una potentissima metafora dell’intima dialetticità non solo del mondo biologico ma, nell’ambito di una visione olistica della realtà tutta, non solo del mondo della φύσις globalmene intesa ma anche della realtà culturale e storica dell’uomo, viene  quindi suggerito dalla Haraway in Staying with the Trouble  – con grande sfacciataggine ed ingenuità materialistica, ma mai come nel caso della Haraway questo materialismo non è altro che il volto deturpato e degradato di un non ben superato spiritualismo, e infatti la Haraway non ha mai fatto mistero della suo background cattolico e della centralità nello sviluppo del suo   Bildungsroman del mistero della transustanziazione13– come  una  sorta  di processo da intensificare ulteriormente attraverso una sempre più scaltrita ingegneria genetica, venendo così a delineare, sempre involontariamente per carità, una sorta di eugenetica non di marca nazista ma di tipo ecologista, ignorando, come del resto avviene sempre nel nazismo e nelle altre forme di totalitarismo, che se mai si può parlare di uomo nuovo, questo uomo nuovo – se vogliamo mantenere per comodità espositiva questa espressione, sideralmente lontana dalla Weltanschauung olistico-dialettica-espressiva-strategica-conflittuale (e storicista) del Repubblicanesimo Geopolitico – non può che avere la sua reale epifania attraverso il potenziamento del Logos (Logos che non è una peculiarità dell’uomo ma che nell’uomo, a differenza degli altri animali ed anche vegetali, è la principale forza di indirizzo e di sviluppo della sua evoluzione), potenziamento del Logos che trova la sua massima espressione – attraverso il manifesto e pubblico compimento nella società, di una cultura informata al modello dell’azione olistico-dialettica-espressiva-strategica-conflittuale – nell’ Epifania strategica del Repubblicanesimo Geopolitico;  ed Epifania strategica che, per concludere,  può trarre, come effettivamente già trae attraverso la filosofia della prassi del Repubblicanesimo Geopolitico, potenti spunti euristici e dialettici dall’epigenetica e, più in generale, dall’ Extended evolutionary synthesis che finalmente si è lasciata definitivamente alle spalle il mito di un’evoluzione biologica guidata meccanicamente da forze esterne all’organismo e verso le quali l’organismo non possa dialetticamente interagire (quindi si può dire che l’ Extended Evolutionary Synthesis è una sorta di filosofia della prassi  per quanto riguarda gli studi biologici e di storia naturale); ma Epifania strategica che è l’esatto contrario della fuga in utopie comunistiche, comunitaristiche o eugenetiche di destra o sinistra che esse siano ma è,  una sorta di obiettivo limite;  o, se vogliamo una sorta di mito, ma un mito che affonda le sue radici nella reale natura dell’uomo14, natura dell’uomo, che similmente al resto del mondo animato ed inanimato ma con maggior evidenza di questi due ambiti  – che, allo stesso titolo  dell’uomo, appartengono alla stessa totalità dialettico-espressiva-strategica-conflittuale, e qui torniamo all’artificiosità della separazione fra mondo naturale biologico o fisico che esso sia e il mondo culturale, sociale e storico fino a poco tempo fa ritenuto di esclusiva costruzione umana, artificiosità nella separazione di questi due mondi che, alla luce di un vigoroso anche se non impeccabile sforzo dialettico perché impacciato da  un sentimento di reverentia ac metus verso la figura di Friedrich Engels, nessuno meglio del Dialectical Biologist è riuscito ad esprimere, cfr. del Dialectical Biologist pp. 277-288, sulle quali ritorneremo anche in future altre discussioni15 –,  è il Logos concreto ed immanente dell’azione olistico-dialettica-espressiva-strategica-conflittuale; un Logos (o Epifania strategica) che anche dalle scienze biologiche di cui si è appena detto (nonché,  –  vedi Teoria della Distruzione del Valore   e Dialecticvs Nvncivs – dalla meccanica quantistica e dall’elaborazione  di modelli matematici non lineari, cioè dallo studio della  Teoria del caos  e dei Complex Adaptive Systems – antesignano di questo approccio non lineare nello studio della guerra e della società Carl von Clausewitz col suo Vom Kriege –,  approcci anche questi, analogamente a quelli introdotti dalla nuove scienze biologiche e genetiche appena illustrate, di grande valore dialettico  per lo  studio della società e dell’uomo perché ci liberano dai vecchi meccanicismi e determinismi cartesiani e galileiani che hanno afflitto gli ultimi cinque secoli di studi  “umanistici” e che fra Ottocento e Novecento hanno visto il loro triste trionfo nel positivismo, nel neopositivismo per finire col Diamat staliniano), trae potentissimi spunti dialettici ed operativi16  

 

Note

 

 [Nota 1 omessa perchè già riportata nella prima parte del presente saggio]

 

 

[Nota 2 omessa perchè già riportata nella prima parte del presente saggio]

 

 

3  [Nota 3 omessa perchè già riportata nella prima parte del presente saggio]

 

 

4   [Nota 4 omessa perchè già riportata nella prima parte del presente saggio]

 

5 [Nota 5 omessa perchè già riportata nella seconda parte del presente saggio]

 

6 [Nota 6 omessa perchè già riportata nella seconda parte del presente saggio]

 

[Nota 7 omessa perchè già riportata nella seconda parte del presente saggio]

 

[Nota 8 omessa perchè già riportata nella seconda parte del presente saggio]

 

[Nota 9 omessa perchè già riportata nella seconda parte del presente saggio]

 

10 «A prima vista, una merce sembra una cosa triviale, ovvia. Dalla sua analisi, risulta che è una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici. Finché è valore d’uso, non c’è nulla di misterioso in essa, sia che la si consideri dal punto di vista che soddisfa, con le sue qualità, bisogni umani, sia che riceva tali qualità soltanto come prodotto di lavoro umano.  È chiaro come la luce del sole che l’uomo con la sua attività cambia in maniera utile a sé stesso le forme dei materiali naturali. Per esempio, quando se ne fa un tavolo, la forma del legno viene trasformata. Ciò non di meno, il tavolo rimane legno, cosa sensibile e ordinaria. Ma appena si presenta come merce, il tavolo si trasforma in una cosa sensibilmente sovrasensibile. Non solo sta con i piedi per terra, ma, di fronte a tutte le altre merci, si mette a testa in giù, e sgomitola dalla sua testa di legno dei grilli molto più mirabili che se cominciasse spontaneamente a ballare. Dunque, il carattere mistico della merce non sorge dal suo valore d’uso. E nemmeno sorge dal contenuto delle determinazioni di valore. Poiché in primo luogo, per quanto differenti possano essere i lavori utili o le operosità produttive, è verità fisiologica che essi sono funzioni dell’organismo umano, e che tutte tali funzioni, quale si sia il loro contenuto e la loro forma, sono essenzialmente dispendio di cervello, nervi, muscoli, organi sensoriali, ecc. umani. In secondo luogo, per quel che sta alla base della determinazione della grandezza di valore, cioè la durata temporale di quel dispendio, ossia la quantità del lavoro. Infine, appena gli uomini lavorano in una qualsiasi maniera l’uno per l’altro, il loro lavoro riceve anche una forma sociale. Di dove sorge dunque il carattere enigmatico del prodotto di lavoro appena assume forma di merce? […] L’arcano della forma di merce consiste dunque semplicemente nel fatto che tale forma rimanda agli uomini come uno specchio i caratteri sociali del loro proprio lavoro trasformati in caratteri oggettivi dei prodotti di quel lavoro, in proprietà sociali naturali di quelle cose, e quindi rispecchia anche il rapporto sociale fra produttori e lavoro complessivo come un rapporto sociale di oggetti, avente esistenza al di fuori dei prodotti stessi. Mediante questo quid pro quo i prodotti del lavoro diventano merci, cose sensibilmente sovrasensibili cioè cose sociali. […] Quel che qui assume per gli uomini la forma fantasmagorica di un rapporto fra cose è soltanto il rapporto sociale determinato fra gli uomini stessi. Quindi, per trovare un’analogia, dobbiamo involarci nella regione nebulosa del mondo religioso. Quivi, i prodotti del cervello umano paiono figure indipendenti, dotate di vita propria, che stanno in rapporto fra di loro e in rapporto con gli uomini. Così, nel mondo delle merci, fanno i prodotti della mano umana. Questo io chiamo il feticismo che s’appiccica ai prodotti del lavoro appena vengono prodotti come merci, e che quindi è inseparabile dalla produzione delle merci. Tale carattere feticistico del mondo delle merci sorge dal carattere sociale peculiare del lavoro che produce merci. Gli oggetti d’uso diventano merci, in genere, soltanto perché sono prodotti di lavori privati, eseguiti indipendentemente l’uno dall’altro. Il complesso di tali lavori privati costituisce il lavoro sociale complessivo. Poiché i produttori entrano in contatto sociale soltanto mediante lo scambio dei prodotti del loro lavoro, anche i caratteri specificamente sociali dei loro lavori privati appaiono soltanto all’interno di tale scambio. Ossia, i lavori privati effettuano di fatto la loro qualità di articolazioni del lavoro complessivo sociale mediante le relazioni nelle quali lo scambio pone i prodotti del lavoro e, attraverso i prodotti stessi, i produttori. Quindi a questi ultimi le relazioni sociali dei loro lavori privati appaiono come quel che sono, cioè, non come rapporti immediatamente sociali fra persone nei loro stessi lavori, ma anzi, come rapporti materiali fra persone e rapporti sociali fra le cose. Solo all’interno dello scambio reciproco i prodotti di lavoro ricevono un’oggettività di valore socialmente eguale, separata dalla loro oggettività d’uso, materialmente differente.  Questa scissione del prodotto del lavoro in cosa utile e cosa di valore si effettua praticamente soltanto appena lo scambio ha acquistato estensione e importanza sufficienti affinché cose utili vengano prodotte per lo scambio, vale a dire affinché nella loro stessa produzione venga tenuto conto del carattere di valore delle cose. Da questo momento in poi i lavori privati dei produttori ricevono di fatto un duplice carattere sociale. Da un lato, come lavori utili determinati, debbono soddisfare un determinato bisogno sociale, e far buona prova di sé come articolazioni del lavoro complessivo, del sistema naturale spontaneo della divisione sociale del lavoro; dall’altro lato, essi soddisfano soltanto i molteplici bisogni dei loro produttori, in quanto ogni lavoro privato, utile e particolare è scambiabile con ogni altro genere utile di lavoro privato, e quindi gli è equiparato.[…] Gli uomini dunque riferiscono l’uno all’altro i prodotti del loro lavoro come valori, non certo per il fatto che queste cose contino per loro soltanto come puri involucri materiali di lavoro umano omogeneo. Viceversa. Gli uomini equiparano l’un con l’altro i loro differenti lavori come lavoro umano, equiparando l’uno con l’altro, come valori, nello scambio, i loro prodotti eterogenei. Non sanno di far ciò, ma lo fanno. Quindi il valore non porta scritto in fronte quel che è. Anzi, il valore trasforma ogni prodotto di lavoro in un geroglifico sociale. In seguito, gli uomini cercano di decifrare il senso del geroglifico, cercano di penetrare l’arcano del loro proprio prodotto sociale, poiché la determinazione degli oggetti d’uso come valori è loro prodotto sociale quanto il linguaggio.»: Karl Marx, Il Capitale, Libro I, Prima sezione, Cap. I, D 4, Roma, Editori Riuniti, 1964, testo ed indicazione bibliografica scaricabili all’URL https://www.doppiozero.com/materiali/marxiana/la-merce, Wayback Machine: https://web.archive.org/web/20181003112909/http://www.doppiozero.com/materiali/marxiana/la-merce. Pur nella nostra pretesa di aver superato tramite il nostro paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale l’ingenuo economicismo marxiano che informa tutto il Capitale ed anche il passo appena riportato, pensiamo che nulla meglio del noto passaggio del Capitale sul carattere di feticcio della merce  possa illustrare la dialettica soffocata e totalmente irrisolta del pensiero harawayano, dove il cyborg è sempre in un precario equilibrio fra figura mitologica e concreta proposta transumanista per una palingenetica renovatio ab imis dell’umanità e il tutto espresso con un fantasmagorico linguaggio parareligioso che è il sintomo dell’incapacità della Haraway ad elaborare un autentico pensiero dialettico: «This list suggests several interesting things. First, the objects on the right-hand side cannot be coded as “natural”, a realization that subverts naturalistic coding for the left-hand side as well. We cannot go back ideologically or materially. It’s not just that “god” is dead; so is the “goddess.” In relation to objects like biotic components, one must think not in terms of essential properties, but in terms of strategies of design, boundary constraints, rates of flows, systems logics, costs of lowering constraints. Sexual reproduction is one kind of reproductive strategy among many, with costs and benefits as a function of the system environment. Ideologies of sexual reproduction can no longer reasonably call on the notions of sex and sex role as organic aspects in natural objects like organisms and families. Such reasoning will be unmasked as irrational, and ironically corporate executives reading Playboy and anti-porn radical feminists will make strange bedfellows in jointly unmasking the irrationalism.[…] The privileged pathology affecting all kinds of components in this universe is stress-communications breakdown. The cyborg is not subject to Foucault’s biopolitics; the cyborg simulates politics, a much more potent field of operations.  This kind of analysis of scientific and cultural objects of knowledge which have appeared historically since World War II prepares us to notice some important inadequacies in feminist analysis which has proceeded as if the organic, hierarchical dualisms ordering discourse in “the West” since Aristotle still ruled. They have been cannibalized, or as Zoe Sofia (Sofoulis) might put it, they have been “techno-digested.” The dichotomies between mind and body, animal and human, organism and machine, public and private, nature and culture, men and women, primitive and civilized are all in question ideologically. The actual situation of women is their integration/exploitation into a world system of production/reproduction and communication called the informatics of domination. The home, workplace, market, public arena, the body itself – all can be dispersed and interfaced in nearly infinite, polymorphous ways, with large consequences for women and others – consequences that themselves are very different for different people and which make potent oppositional international movements difficult to imagine and essential for survival. One important route for reconstructing socialist-feminist politics is through theory and practice addressed to the social relations of science and technology, including crucially the systems of myth and meanings structuring our imaginations. The cyborg is a kind of disassembled and reassembled, post-modern collective and personal self. This is the self feminists must code.[…] But these excursions into communications sciences and biology have been at a rarefied level; there is a mundane, largely economic reality to support my claim that these sciences and technologies indicate fundamental transformations in the structure of the world for us. Communications technologies depend on electronics. Modern states, multinational corporations, military power, welfare-state apparatuses, satellite systems, political processes, fabrication of our imaginations, labor-control systems, medical constructions of our bodies, commercial pornography, the international division of labor, and religious evangelism depend intimately upon electronics. Microelectronics is the technical basis of simulacra, i.e., of copies without originals. Microelectronics mediates the translations of labor into robotics and word processing; sex into genetic engineering and reproductive technologies; and mind into artificial intelligence and decision procedures. The new biotechnologies concern more than human reproduction. Biology as a powerful engineering science for redesigning materials and processes has revolutionary implications for industry, perhaps most obvious today in areas of fermentation, agriculture, and energy. Communications sciences and biology are constructions of natural-technical objects of knowledge in which the difference between machine and organism is thoroughly blurred; mind, body, and tool are on very intimate terms. The “multinational” material organization of the production and reproduction of daily life and the symbolic organization of the production and reproduction of culture and imagination seem equally implicated. The boundary-maintaining images of base and superstructure, public and private, or material and ideal never seemed more feeble. I have used Rachel Grossman’s image of women in the integrated circuit to name the situation of women in a world so intimately restructured through the social relations of science and technology.  I use the odd circumlocution, “the social relations of science and technology,” to indicate that we are not dealing with a technological determinism, but with a historical system depending upon structured relations among people. But the phrase should also indicate that science and technology provide fresh sources of power, that we need fresh sources of analysis and political action.  Some of the rearrangements of race, sex, and class rooted in high-tech-facilitated social relations can make socialist feminism more relevant to effective progressive politics.[…] There are grounds for hope in the emerging bases for new kinds of unity across race, gender, and class, as these elementary units of socialist-feminist analysis themselves suffer protean transformations. Intensifications of hardship experienced worldwide in connection with the social relations of science and technology are severe. But what people are experiencing is not transparently clear, and we lack sufficiently subtle connections for collectively building effective theories of experience. Present efforts – Marxist, psychoanalytic, feminist, anthropological – to clarify even “our” experience are rudimentary. I am conscious of the odd perspective provided by my historical position – a Ph.D. in biology for an Irish Catholic girl was made possible by Sputnik’s impact on U.S. national science-education policy. I have a body and mind as much constructed by the post-World War II arms race and Cold War as by the women’s movements. There are more grounds for hope by focusing on the contradictory effects of politics designed to produce loyal American technocrats, which as well produced large numbers of dissidents, rather than by focusing on the present defeats. The permanent partiality of feminist points of view has consequences for our expectations of forms of political organization and participation. We do not need a totality in order to work well. The feminist dream of a common language, like all dreams for a perfectly true language, of perfectly faithful naming of experience, is a totalizing and imperialist one. In that sense, dialectics too is a dream language, longing to resolve contradiction. Perhaps, ironically, we can learn from our fusions with animals and machines how not to be Man, the embodiment of Western logos. From the point of view of pleasure in these potent and taboo fusions, made inevitable by the social relations of science and technology, there might indeed be a feminist science.[…] Writing is pre-eminently the technology of cyborgs, etched surfaces of the late twentieth century. Cyborg politics is the struggle for language and the struggle against perfect communication, against the one code that translates all meaning perfectly, the central dogma of phallogocentrism. That is why cyborg politics insist on noise and advocate pollution, rejoicing in the illegitimate fusions of animal and machine. These are the couplings which make Man and Woman so problematic, subverting the structure of desire, the force imagined to generate language and gender, and so subverting the structure and modes of reproduction of “Western” identity, of nature and culture, of mirror and eye, slave and master, body and mind. “We” did not originally choose to be cyborgs, but choice grounds a liberal politics and epistemology that imagines the reproduction of individuals before the wider replications of “texts.” From the perspective of cyborgs, freed of the need to ground politics in “our” privileged position of the oppression that incorporates all other dominations, the innocence of the merely violated, the ground of those closer to nature, we can see powerful possibilities. Feminisms and Marxisms have run aground on Western epistemological imperatives to construct a revolutionary subject from the perspective of a hierarchy of oppressions and/or a latent position of moral superiority, innocence, and greater closeness to nature. With no available original dream of a common language or original symbiosis promising protection from hostile “masculine” separation, but written into the play of a text that has no finally privileged reading or salvation history, to recognize “oneself” as fully implicated in the world, frees us of the need to root politics in identification, vanguard parties, purity, and mothering. Stripped of identity, the bastard race teaches about the power of the margins and the importance of a mother like Malinche. Women of color have transformed her from the evil mother of masculinist fear into the originally literate mother who teaches survival. […] These real-life cyborgs, e.g., the Southeast Asian village women workers in Japanese and U.S. electronics firms described by Aiwa Ong, are actively rewriting the texts of their bodies and societies. Survival is the stakes in this play of readings.» (Donna Jeanne Haraway, A Manifesto for Cyborgs: Science, Technology, and Socialist Feminism in the 1980s, in Id., The Haraway Reader, London, Routledge, 2004, pp. 21-35, qui di seguito, come già segnalato supra alla nota precedente, gli URL presso i quali prendere visione e scaricare l’ Haraway Reader. Gli URL presso i quali noi abbiamo riscontrato il saggio risalgono alle piattaforme di preservazione digitale Internet Archive e SCRIBD e sono per quanto riguarda Internet Archive: https://archive.org/details/162697775DonnaHarawayTheHarawayReader/mode/2up              e 

https://ia800107.us.archive.org/35/items/162697775DonnaHarawayTheHarawayReader/162697775-Donna-Haraway-the-Haraway-Reader.pdf, e per quanto riguarda SCRIBD: https://it.scribd.com/document/373082337/Haraway-2016-Manifestly-Haraway). Fatta eccezione per il radicale – ma anche confuso – rifiuto della attuale società post-capitalista del Cyborg Manifesto, non è difficile immaginare la critica che il Marx del Capitale potrebbe avanzare al passo appena citato, e che si riassumerebbe nella stigmatizzazione di una pseudodialettica storica in cui le fantasmagoriche immagini criptoparareligiose coprono la natura feticistica delle rappresentazioni dei rapporti di classe, rapporti di classe che, nonostante tutte le evoluzioni tecno-biologico-genetico-informatiche che  erano  addirittura al di là dell’immaginazione ai tempi della scrittura del Capitale, non hanno natura sostanzialmente diversa, in ultima istanza,  a quelli già a suo tempo individuati da Marx avendo come riferimento la  prima rivoluzione industriale. Siccome non è mai stata nostra intenzione smentire in sede storico-teorica il pensiero marxiano, anzi, le nostre intenzioni sono sempre state il contrario, e cioè cogliere il nucleo vivo e tuttora proficuo del pensiero marxiano, dove dal punto di vista del Repubblicanesimo Geopolitico e della sua filosofia della prassi il rapporto conflittuale di classe proletariato-classe capitalista individuato da Marx come unico motore della fisiologia ed evoluzione della società capitalistica è sì un punto di vista parziale ma parziale perché  dialetticamente compreso ed inserito  nella ben più vasta e totalizzante natura dialettico-espressiva-strategica-conflittuale della società attraverso la quale l’uomo si rapporta con sé stesso e con la società tutta olisticamente intesa, in un rapporto dialettico generativo ex nihilo ed ex suo il quale non è solo originatore dell’uomo,  della società e della realtà culturale – ovviamente cultura e società riconducibili non solo all’uomo ma anche a tutti gli altri viventi! – ma anche di tutto il resto della realtà naturale, fisica e biologica entro la quale è parimenti ancora generativo ex nihilo ed ex suo il suddetto paradigma olistico-dialettico-espressivo-conflittuale-strategico, noi ci permettiamo di concordare col nostro ipotetico Marx redivivus in merito alla natura feticistica  delle fantasmagoriche immagini tecno-biologico-genetico-informatiche, criptoparareligiose nella loro essenza,  che ruotano attorno al cyborg harawayano, e che, a sua volta, costituisce il delirante riassunto espressivo di tutte queste fantasmagorie. Ma spiritualmente confortati dal nostro Marx redivivus che dal suo altissimo trono in regnum coeli benevolmente ci osserva ed assiste e concretamente hic et nunc  su questa terra direttamente ammaestrati dal nostro paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale, vediamo di ragionare  ulteriormente sulla  fantasmagoria harawayana connotata dalla  mancanza di una prospettiva storica dialettica nella rappresentazione realistica della conflittualità sociale, e dal nostro punto di vista i crampi del pensiero dialettico del passo appena citato, sintomatici anche  di tutta la successiva produzione dell’Haraway, possono essere riassunti in A) a p. 21  impiego della categoria ‘strategia’ che però è più un fatto puramente lessicale piuttosto che una vera consapevolezza dialettica; in B) alle pp. 22-23 utilizzo della figura del cyborg sia per esorcizzare il problema teorico-pratico della conflittualità politica e per dissolvere la concezione classica dell’identità psichica dell’uomo – quest’ultimo tentativo non cosa sbagliata in sé ma mancante l’Haraway di una concreta e dialettica filosofia della prassi, sfociante in una sorta di nichilismo bio-tecnologico; in C) alle pp. 24-25, dove il cyborg sembra la metafora di una sorta di dialettica adattiva dello scontro sociale sulla falsariga dell’hegeliana dialettica signore-servo, impostazione in sé non da rigettare in toto ma veramente una peso immane da caricare sulle povere e gracili spalle del mito tecno-biologico del cyborg; in D) alle pp. 30-31 dove continua l’impostazione adattiva dello scontro sociale in chiave tecno-biologica;  infine in  E) alle pp. 34-35, dove il cyborg viene indicato come una sorta di classe sostitutiva della classe operaia, a noi veramente apparendo in queste ultime pagine il cyborg come una sorta  di stralunato  calco – espresso con terminologia mitologico-religiosa-parascientifica – dell’Epifania strategica del Repubblicanesimo Geopolitico (per non dire che costituisce un’ulteriore feticizzazione della già soteriologica classe operaia marxiana); non a caso il capitolo da cui abbiamo citato è intitolato “Cyborgs: a Myth of Political  Identiy” ma mentre l’Epifania  strategica del Repubblicanesimo Geopolico significa, in pratica, l’autocoscienza di massa  della comune natura dialettico-espressiva-strategica-conflittuale dell’uomo, della società ed anche della natura,  qui,  con una Weltanschauung che risente molto della formazione cattolica dell’autrice,  abbiamo un cyborg-mito che diventa una vera e propria figura soteriologica non perché portatore e/o simbolo di istanze dialettico-strategiche,  ma unicamente in ragione della sua concreta e materiale e al tempo stesso numinosa (e feticistico-fantasmagorica) manifestazione nella realtà, in una figura soteriologica, quindi,  che anziché in un Dio incarnato in un uomo si manifesta attraverso un cyborg che si è incarnato nell’uomo e nella società tramite le biotecnologie ma, ahinoi, senza che questa parusia  tecnologica porti ad un avanzamento dialettico della consapevolezza strategica – come invece avviene, anche se in forme che filosoficamente pagano un profondo tributo al mito,  nella parusia  cristiana –, ma, siccome il nostro scopo è la costruzione di una concreta strategia dialettica rinvenendo i segni di questa dialettica dove questi anche confusi si manifestano (e tenendo sempre presente che, dal nostro punto di vista, l’importanza di un prodotto culturale, come lo sono le nuove frontiere delle scienze biologiche definite dalle intrinsecamente dialettiche epigenetica, teoria endosimbiotica e sintesi evoluzionistica estesa ma anche le loro elaborazioni letterario-filosofiche anche se manifestate in forme dialetticamente insoddisfacenti come nella Haraway sono sì importanti per le conoscenze che espressamente affermano ma anche, se non più, per la loro collocazione storico-dialettica nell’ambito del progressivo sviluppo di un completo paradigma olisitico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale), come abbiamo  fatto  sempre in primo luogo per Marx  ma anche  per tutti quegli autori che, pur fra mille contraddizioni,  hanno saputo esprimere un momento strategico, continuiamo ora  a cogliere anche nella Haraway, sempre attraverso il Cyborg Manifesto,  quei segni utili per lo sviluppo  in sede teorica e storica della dialettica olistico-espressiva-strategica-conflittuale della filosofia della prassi del Repubblicanesimo Geopolitico. «It has become difficult to name one’s feminism by a single adjective or even to insist in every circumstance upon the noun. Consciousness of exclusion through naming is acute. Identities seem contradictory, partial, and strategic. With the hard-won recognition of their social and historical constitution, gender, race, and class cannot provide the basis for belief in “essential” unity. There is nothing about being “female” that naturally binds women. There is not even such a state as “being” female, itself a highly complex category constructed in contested sexual scientific discourses and other social practices. Gender, race, or class consciousness is an achievement forced on us by the terrible historical experience of the contradictory social realities of patriarchy, colonialism, and capitalism. And who counts as “us” in my own rhetoric? Which identities are available to ground such a potent political myth called “us:” and what could motivate enlistment in this collectivity? Painful fragmentation among feminists (not to mention among women) along every possible fault line has made the concept of woman elusive, an excuse for the matrix of women’s dominations of each other. For me – and for many who share a similar historical location in white, professional middle class, female, radical, North American, mid-adult bodies – the sources of a crisis in political identity are legion.» (Ivi, pp. 13-14) (…)  «MacKinnon’s radical theory of experience is totalizing in the extreme; it does not so much marginalize as obliterate the authority of any other women’s political speech and action. It is a totalization producing what Western patriarchy itself never succeeded in doing-feminists’ consciousness of the non-existence of women, except as products of men’s desire. I think MacKinnon correctly argues that no Marxian version of identity can firmly ground women’s unity. But in  solving  the  problem of the contradictions of any Western revolutionary subject for feminist purposes, she develops an even more authoritarian doctrine of experience. If my complaint about socialist/Marxian standpoints is their unintended erasure of polyvocal, unassimilable, radical difference made visible in anti-colonial discourse and practice, MacKinnon’s intentional era sure of all difference through the device of the “essential” non-existence of women is not reassuring. In my taxonomy, which like any other taxonomy is a reinscription of history, radical feminism can accommodate all the activities of women named by socialist feminists as forms of labor only if the activity can somehow be sexualized. Reproduction had different tones of meanings for the two tendencies, one rooted in labor, one in sex, both calling the consequences of domination and ignorance of social and personal reality “false consciousness.” Beyond either the difficulties or the contributions in the argument of any one author, neither Marxist nor radical feminist points of view have tended to embrace the status of a partial explanation; both were regularly constituted as totalities. Western explanation has demanded as much; how else could the “Western” author incorporate its others? Each tried to annex other forms of domination by expanding its basic categories through analogy, simple listing, or addition. Embarrassed silence about race among white radical and socialist feminists was one major, devastating political consequence. History and polyvocality disappear into political taxonomies that try to establish genealogies. There was no structural room for race (or for much else) in theory claiming to reveal the construction of the category woman and social group women as a unified or totalizable whole.» (Ivi, pp. 18-19) (…) «In this attempt at an epistemological and political position, I would like to sketch a picture of possible unity, a picture indebted to socialist and feminist principles of design. The frame for my sketch is set by the extent and importance of rearrangements in worldwide social relations tied to science and technology. I argue for a politics rooted in claims about fundamental changes in the nature of class, race, and gender in an emerging system of world order analogous in its novelty and scope to that created by industrial capitalism; we are living through a movement from an organic, industrial society to a polymorphous, information system from all work to all play, a deadly game. Simultaneously material and ideological, the dichotomies may be expressed in the following chart of transitions from the comfortable old hierarchical dominations to the scary new networks I have called the informatics of domination: Representation – Simulation; Bourgeois novel, realism – Science fiction, post-modernism; Organism – Biotic component; Depth, integrity –  Surface, boundary; Heat – Noise; Biology as clinical practice –  Biology as inscription; Physiology – Communications engineering; Small group -Subsystem; Perfection – Optimization; Eugenics – Population control; Decadence, Magic Mountain –  Obsolescence, Future shock; Hygiene – Stress management; Microbiology, tuberculosis –  Immunology, AIDS; Organic division of labor -Ergonomics/cybernetics of labor; Functional specialization -Modular construction; Reproduction – Replication; Organic sex role specialization – Optimal genetic strategies; Biological determinism – Evolutionary inertia, constraints; Community ecology – Ecosystem; Racial chain of being – Neo-imperialism, United Nations humanism; Scientific management in home/factory – Global factory/Electronic cottage; Family/Market/Factory – Women in the Integrated Circuit; Public/Private – Cyborg Citezenship; Nature/Culture – Fields of difference; Cooperation – Communications enhancement; Freud – Lacan; Sex – Genetic engineering; Labor – Robotics; Mind – Artificial Intelligence; World War II – Star Wars; White Capitalist Patriarchy – Informatics of Domination. This list suggests several interesting things.» (Ivi, pp. 20-21). Vediamo quindi di enucleare gli spunti interessanti dei tre passi tratti dal Cyborg Manifesto. Nella citazione che corre a cavallo fra le pp. 18-19, si può rilevare che, anche se la Haraway è assolutamente impermeabile ad un discorso schmittiano sulla sovranità né tantomeno viene sfiorata dall’idea post-schmittiana del Repubblicanesimo Geopolitico che questa sovranità è l’ ipostasi storicamente di volta in volta differentemente modulata del diuturno e transepocale conflitto olisitico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale, essa si interroga potentemente su un problema fondamentale nella costruzione della Gestalt  della sovranità politica, e cioè il problema dell’identità, anche se quest’identità, a dire il vero, viene dalla Haraway costruita lungo la linea di sviluppo  evoluzionistico-biologico-di genere con tutto il buono e il cattivo che comporta questa scelta. Il buono è che si abbandona lo stretto schema classista marxiano, il cattivo che, come si è visto, questo abbandono non implica uno sviluppo della dialettica ma il ricadere in schemi incarnazionistici religioso-parareligiosi soteriologici di stampo cristiano dove a prendere il posto della mitica classe operaia-classe Cristo del marxismo salvatrice dell’umanità tutta, stanno corpi biologici in incessante evoluzione ed annichilenti in questa evoluzione sia le soluzioni di continuità date dall’individuazione sessuale che quelle date dai limiti biologico-temporali  dei corpi viventi (mito del cyborg, mito cioè di un corpo che tramite innesti meccanici e/o biotecnologici può vivere all’infinito). Tuttavia, nonostante tutti questi enormi crampi dialettici, vediamo che, sul piano pratico – cioè sul piano della storia delle idee anche se non su quello dello sviluppo di una autentica dialettica gnoseologico-espistemologica basata sulla più o meno consapevole adozione del paradigma dell’ azione dialettico-espressiva-strategica-conflittuale – questa ridefinizione di identità portata avanti solamente sul piano mitologico-biologico-evoluzionistico comporta, assieme a terribili arretramenti, anche  molto interessanti avanzamenti rispetto al vecchio conflittualismo marxiano-marxista. Come infatti vediamo  alle pp. 18-19, dove A) molto opportunamente si cerca di riscrivere gli schemi conflittualistici marxiani adottando schemi che introducono anche il conflitto nella definizione del vivente e nel concetto e nella pratica della sessualità.  Certamente rispetto al semplice schema marxiano un avanzamento in senso realistico, peccato solo che questi nuovi soggetti vengano connotati solo come viventi (anche se non in senso classico: ora fra i viventi abbiamo anche i cyborg) e dotati, tuttalpiù, solo di contraddizioni di ordine sessuale e nuotino quindi, astraendo da tutto il resto della storicità umana e naturale,  in un quasi totale  vuoto dialettico ontologico-epistemologico di riferimento;  dove B) la definizione di queste nuove identità sessuo-cyborghiane passa attraverso l’annichilimento del concetto di naturalità per essere sostituito con uno di storicità. E questo annichilimento della naturalità avrebbe potenzialmente portata veramente rivoluzionaria perché adottando questo schema sarebbe impossibile a questo punto parlare di un mondo naturale contrapposto ad un mondo storico-culturale. Come nel repubblicanesimo Geopolitico, anche la Haraway è perfettamente convinta dell’inanità di questa suddivisione  ma dove C) e qui veniamo alle dolenti note, questa consapevolezza dell’artificiosità di questa suddivisione, siccome la Haraway è sprovvista di un coerente schema storico-culturale-dialettico non dà nessun reale contributo in merito alla critica della società occidentale e dello stesso marxismo ma si ripiega su sé stessa nella solita fantasmagorica affabulazione soteriologica mitico-biologico-tecnologico-evoluzionistica. E, infatti, alle pp. 20-21 assistiamo, tramite la mappa-lista delle nuove linee di faglia-conflitto della nostra nuova epoca confrontate con quelle della seconda e terza rivoluzione industriale ad una piena resa della dialettica. Al di là della giustezza storica nella proposta di sostituzione di alcune vecchie coppie dicotomiche con altre indicate come nuove, veramente sintomatica di tutta la difficoltà  gnoseologico-epistemologica della lista proposta dalla Haraway e di tutto il suo discorso nel suo complesso è la proposta di adozione, accanto alla vecchia dicotomia natura/cultura da abbandonare, della nuova categoria ‘campi delle differenze’,  il che non significa assolutamente nulla e caccia dalla porta ma fa rientrare dalla finestra la dicotoma natura/cultura – inevitabilmente rientrante anch’essa nel campo delle differenze, magari uno dei tanti ma non per questo destinata alla nostra condanna definitiva –, con la inconsapevole  ma non per questo non meno chiara conseguenza, in ultima istanza,  che si è mancato  l’appuntamento con  qualsiasi discorso storico-dialettico basato sul’annullamento  della falsa polarità natura/cultura, o se proprio non lo si è mancato, continuando a riformularlo nei soteriologici, feticistici e fantasmagorici termini biologistico-tecnologici-evoluzionistici tanto cari alla mitologica e non dialettica narrazione della Haraway, o, come nel caso specifico della proposta di sostituzione della dicotomia natura/cultura con ‘campi delle differenze’, se non fantasmagorici con assoluta vuotaggine semantica (assenza di significato finale che, sempre e non solo nella Haraway, è l’altra faccia della medaglia di qualsiasi Weltanschauung basata solo sull’immaginifico e sull’utopia, ultraterrena o secolarizzata che sia, e non saldamente storicamente e dialetticamente fondata).

Certamente la fase più estrema ed ultima delle feticistiche fantasmagorie harawayne è il racconto fantascientifico The Camille Stories. Children of Compost, capitolo ottavo di Staying with the Trouble del 2016 ma prima di compiere un nostro veloce esame di questo apologo fantascientifico e allo scopo di mettere ulteriormente a fuoco le feticistiche fantasmagorie harawayne che mancano, pur nella contestazione del monocorde e rigido conflittualismo marxiano classe operaia vs classe capitalista, di stigmatizzare efficacemente in Marx uno dei suoi più importanti punctum dolens, cioè l’avere accettato la suddivisione natura/cultura (se per efficacia non intendiamo, ovviamente, l’uso del solito linguaggio fiammeggiante feticistico-fantasmagorico: «Hilary Klein has argued that both Marxism and psychoanalysis, in their concepts of labor and of individuation and gender formation, depend on the plot of original unity out of which difference must be produced and enlisted in a drama of escalating domination of woman/nature. The cyborg skips the step of original unity, of identification with nature in the Western sense. This is its illegitimate promise that might lead to subversion of its teleology as star wars. The cyborg is resolutely committed to partiality, irony, intimacy, and perversity. It is oppositional, utopian, and completely without innocence. No longer structured by the polarity of public and private, the cyborg defines a technological polis based partly on a revolution of social relations in the oikos, the household. Nature and culture are reworked; the one can no longer be the resource for appropriation or incorporation by the other. The relationships for forming wholes from parts, including those of polarity and hierarchical domination, are at issue in the cyborg world.»: Donna Jeanne Haraway, A Manifesto for Cyborgs: Science, Technology, and Socialist Feminism in the 1980s, in Id., The Haraway Reader, cit., p. 9, e stigmatizzazione mancata perche l’Haraway è sostanzialmente tutta tesa alla ricerca-sostituzione di un nuovo soggetto rivoluzionario rispetto alla mitica marxiana classe operaia, ma compiendo questo tentativo prima col cyborg del Cyborg Manifesto e poi, come fra poco vedremo, col nuovo  simbionte del Staying with the Trouble, mezzo uomo e mezzo animale e in assenza di un qualsiasi schema storicistico olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale), invitiamo a confrontare sul tema natura/cultura e di come questa falsa dicotomia venga (malamente) affrontata anche in Marx  i nostri seminali  Massimo Morigi, Breve nota all’intervista del CSEPI a La Grassa (di Massimo Morigi) , pubblicato in data 21 settembre 1916 sul blog di geopolitica marxista “Conflitti e Strategie”    (all’URL di “Conflitti e Strategie” http://www.conflittiestrategie.it/breve-nota-allintervista-del-csepi-a-la-grassa-di-massimo-morigi; Webcite:  https://www.webcitation.org/6khrAAyet; Wayback Machine: https://web.archive.org/web/20161211122021/http://www.conflittiestrategie.it/breve-nota-allintervista-del-csepi-a-la-grassa-di-massimo-morigi; e pubblicato poi anche autonomamente in data 29 ottobre 2016 su Internet Archive in un breve raccolta di altri scritti di Massimo Morigi recante il titolo Repubblicanesimo Geopolitico Anticipating Future Threats. Dialogo sulla moralità del Repubblicanesimo Geopolitico più breve nota all’intervista del  CSEPI a La Grassa (di Massimo Morigi)   presso gli URL     https://archive.org/details/MARXISMO_345/mode/2up   e https://ia801909.us.archive.org/4/items/MARXISMO_345/MARXISMO.pdf) e Massimo Morigi, Dialecticvs Nvncivs. Il punto di vista del Repubblicanesimo Geopolitico attraverso i Quaderni del Carcere e Storia e Coscienza di Classe per il rovesciamento della gerarchia della spiegazione meccanicistico-causale e dialettico-conflittuale, per il rinnovamento degli studi marxiani e marxisti e per l’Aufhebung della gramsciana  e   lukacsiana   Filosofia   della  Praxis, dicembre 2016 (immesso autonomamente in Rete, in data 24 gennaio 2017, agli URL di Internet Archive https://archive.org/details/DialecticvsNvncivs_201701/mode/2up e https://ia601904.us.archive.org/6/items/DialecticvsNvncivs_201701/Dialecticvs%20Nvncivs.pdf; WebCite:  http://www.webcitation.org/6o8wW4znJ e http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia801509.us.archive.org%2F26%2Fitems%2FDialecticvsNvncivs_201701%2FDialecticvs%2520Nvncivs.pdf&date=2017-02-09

e poi anche su ResearchGate: https://www.researchgate.net/publication/313278043_Dialecticvs_Nvncivs_Il_punto_di_vista_del_Repubblicanesimo_Geopolitico_attraverso_i_Quaderni_del_Carcere_e_Storia_e_Coscienza_di_Classe_per_il_rovesciamento_della_gerarchia_della_spiegazione_meccanici, https://doi.org/10.13140/RG.2.2.29749.47842; ma prima ancora, in data 13 dicembre 2016, sul blog  “L’Italia e il Mondo”,  agli URL   http://italiaeilmondo.com/2016/12/13/dialecticus-nuncius-di-massimo-morigi/ e http://italiaeilmondo.com/category/agora/; WebCite: rispettivamente http://www.webcitation.org/6oBwn5kXP e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2016%2F12%2F13%2Fdialecticus-nuncius-di-massimo-morigi%2F&date=2017-02-11 e http://www.webcitation.org/6oBx5xZNt e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2Fcategory%2Fagora%2F&date=2017-02-11; Wayback Machine:  https://web.archive.org/web/20200304070934/http://italiaeilmondo.com/2016/12/13/dialecticus-nuncius-di-massimo-morigi/ e     https://web.archive.org/web/20200304071007/http://italiaeilmondo.com/category/agora/) con i seguenti passi del Cyborg Manifesto, tutti cristallini atti di fede sull’inanità della suddivisione natura/cultura ma parimenti segno del profondo “casinismo” mental-sessual-tecno-biologico-genetistico che è il marchio di fabbrica feticistico-fantasmagorico di tutta la produzione della Haraway e che potrebbe essere definito una sorta di incubo della dialettica: «Movements for animal rights are not irrational denials of human uniqueness; they are a clear-sighted recognition of connection across the discredited breach of nature and culture. Biology and evolutionary theory over the past two centuries have simultaneously produced modern organisms as objects of knowledge and reduced the line between humans and animals to a faint trace re-etched in ideological struggle or professional disputes between life and social science. Within this framework, teaching modern Christian creationism should be fought as a form of child abuse. Biological-determinist ideology is only one position opened up in scientific culture for arguing the meanings of human animality. There is much room for radical political people to contest the meanings of the breached boundary. The cyborg appears in myth precisely where the boundary between human and animal is transgressed. Far from signaling a walling off of people from other living beings, cyborgs signal disturbingly and pleasurably tight coupling. Bestiality has a new status in this cycle of marriage exchange. The second leaky distinction is between animal-human (organism) and machine. Pre-cybernetic machines could be haunted; there was always the specter of the ghost in the machine. This dualism structured the dialogue between materialism and idealism that was settled by a dialectical progeny, called spirit or history, according to taste. But basically machines were not self-moving, self-designing, autonomous. They could not achieve man’s dream, only mock it. They were not man, an author to himself, but only a caricature of that masculinist reproductive dream. To think they were otherwise was paranoid. Now we are not so sure. Late twentieth-century machines have made thoroughly ambiguous the difference between natural and artificial, mind and body, self-developing and externally designed, and many other distinctions that used to apply to organisms and machines. Our machines are disturbingly lively, and we ourselves frighteningly inert.» (Donna Jeanne Haraway, A Manifesto for Cyborgs: Science, Technology, and Socialist Feminism in the 1980s, in Id., The Haraway Reader, cit., pp. 10-11); (…) «So my cyborg myth is about transgressed boundaries, potent fusions, and dangerous possibilities, which progressive people might explore as one part of needed political work. One of my premises is that most American socialists and feminists  see deepened dualisms of mind and body, animal and machine, idealism and materialism in the social practices, symbolic formulations, and physical artifacts associated with “high technology” and scientific culture. From One-Dimensional  Man (Marcuse 1964) to The Death of Nature (Merchant 1980), the analytic resources developed by progressives have insisted on the necessary domination of technics and recalled us to an imagined organic body to integrate our resistance. Another of my premises is that the need for unity of people trying to resist worldwide intensification of domination has never been more acute. But a slightly perverse shift of perspective might better enable us to contest for meanings, as well as for other forms of power and pleasure in technologically mediated societies.» (Ivi, pp-14-15); (…) «This kind of analysis of scientific and cultural objects of knowledge that have appeared historically since the Second World War prepares us to notice some important inadequacies in feminist analysis that has proceeded as if the organic, hierarchical dualisms ordering discourse in “the West” since Aristotle still ruled. They have been cannibalized, or as Zoe Sofia (1984) might put it, they have been “techno-digested.” The dichotomies between mind and body, animal and human, organism and machine, public and private, nature and culture, men and women, primitive and civilized are all in question ideologically. The actual situation of women is their integration/exploitation into a world system of production/reproduction and communication called the informatics of domination. The home, workplace, market, public arena, the body itself  – all can be dispersed and interfaced in nearly infinite, polymorphous ways, with large consequences for women and others – consequences that themselves are very different for different people and that make potent oppositional international movements difficult to imagine and essential for survival. One important route for reconstructing socialist-feminist politics is through theory and practice addressed to the social relations of science and technology, including crucially the systems of myth and meanings structuring our imaginations. The cyborg is a kind of disassembled and reassembled, postmodern collective and personal self. This is the self feminists must code.» (Ivi, pp. 32-33); (…) «Writing is preeminently the technology of cyborgs, etched surfaces of the late twentieth century. Cyborg politics are the struggle for language and the struggle against perfect communication, against the one code that translates all meaning perfectly, the central dogma of phallogocentrism. That is why cyborg politics insist on noise and advocate pollution, rejoicing in the illegitimate fusions of animal and machine. These are the couplings that make Man and Woman so problematic, subverting the structure of desire, the force imagined to generate language and gender, and so subverting the structure and modes of reproduction of “Western” identity, of nature and culture, of mirror and eye, slave and master, body and mind. “We” did not originally choose to be cyborgs, but choice grounds a liberal politics and epistemology that imagine the reproduction of individuals before the wider replications of “texts.” From the perspective of cyborgs, freed of the need to ground politics in “our” privileged position of the oppression that incorporates all other dominations, the innocence of the merely violated, the ground of those closer to nature, we can see powerful possibilities. Feminisms and Marxisms have run aground on Western epistemological imperatives to construct a revolutionary subject from the perspective of a hierarchy of oppressions and/or a latent position of moral superiority, innocence, and greater closeness to nature. With no available original dream of a common language or original symbiosis promising protection from hostile “masculine” separation, but written into the play of a text that has no finally privileged reading or salvation history, to recognize “oneself” as fully implicated in the world, frees us of the need to root politics in identification, vanguard parties, purity, and mothering. Stripped of identity, the “bastard” race teaches about the power of the margins and the importance of a mother like Malinche. Women of color have transformed her from the evil mother of masculinist fear into the originally literate mother who teaches survival. This is not just literary deconstruction, but liminal transformation. Every story that begins with original innocence and privileges the return to wholeness imagines the drama of life to be individuation, separation, the birth of the self, the tragedy of autonomy, the fall into writing, alienation – that is, war, tempered by imaginary respite in the bosom of the Other. These plots are ruled by a reproductive politics – rebirth without flaw, perfection, abstraction. In this plot women are imagined either better or worse off, but all agree they have less selfhood, weaker individuation, more fusion to the oral, to Mother, less at stake in masculine autonomy. But there is another route to having less at stake in masculine autonomy, a route that does not pass through Woman, Primitive, Zero, the Mirror Stage and its imaginary. It passes through women and other present-tense, illegitimate cyborgs, not of Woman born, who refuse the ideological resources of victimization so as to have a real life. These cyborgs are the people who refuse to disappear on cue, no matter how many times a “Western” commentator remarks on the sad passing of another primitive, another organic group done in by “Western” technology, by writing. These real-life cyborgs (for example, the Southeast Asian village women workers in Japanese and U.S. electronics firms described by Aihwa Ong) are actively rewriting the texts of their bodies and societies. Survival is at stake in this play of readings. To recapitulate, certain dualisms have been persistent in Western traditions; they have all been systemic to the logics and practices of domination of women, people of color, nature, workers, animals – in short, domination of all constituted as others, whose task is to mirror the self. Chief among these troubling dualisms are self/other, mind/body, culture/nature, male/female, civilized/primitive, reality/appearance, whole/part, agent/resource, maker/made, active/passive, right/wrong, truth/illusion, total/partial, God/man. The self is the One who is not dominated, who knows that by the service of the other, the other is the one who holds the future, who knows that by the experience of domination, which gives the lie to the autonomy of the self. To be One is to be autonomous, to be powerful, to be God; but to be One is to be an illusion, and so to be involved in a dialectic of apocalypse with the other. Yet to be other is to be multiple, without clear boundary, frayed, insubstantial. One is too few, but two are too many. High-tech culture challenges these dualisms in intriguing ways. It is not clear who makes and who is made in the relation between human and machine. It is not clear what is mind and what is body in machines that resolve into coding practices. Insofar as we know ourselves in both formal discourse (for example, biology) and in daily practice (for example, the homework economy in the integrated circuit), we find ourselves to be cyborgs, hybrids, mosaics, chimeras. Biological organisms have become biotic systems, communications devices like others. There is no fundamental, ontological separation in our formal knowledge of machine and organism, of technical and organic. The replicant Rachel in the Ridley Scott film Blade Runner stands as the image of a cyborg culture’s fear, love, and confusion. One consequence is that our sense of connection to our tools is heightened. The trance state experienced by many computer users has become a staple of science-fiction film and cultural jokes. Perhaps paraplegics and other severely handicapped people can (and sometimes do) have the most intense experiences of complex hybridization with other communications devices. Anne McCaffrey’s prefeminist The Ship Who Sang (1969) explored the consciousness of a cyborg, hybrid of girl’s brain and complex machinery, formed after the birth of a severely handicapped child. Gender, sexuality, embodiment, skill: all were reconstituted in the story. Why should our bodies end at the skin, or include at best other beings encapsulated by skin? From the seventeenth century till now, machines could be Animated – given ghostly souls to make them speak or move or to account for their orderly development and mental capacities. Or organisms could be mechanized – reduced to body understood as resource of mind. These machine/organism relationships are obsolete, unnecessary. For us, in imagination and in other practice, machines can be prosthetic devices, intimate components, friendly selves. We don’t need organic holism to give impermeable wholeness, the total woman and her feminist variants (mutants?). Let me conclude this point by a very partial reading of the logic of the cyborg monsters of my second group of texts, feminist science fiction. The cyborgs populating feminist science fiction make very problematic the statuses of man or woman, human, artifact, member of a race, individual entity, or body. Katie King clarifies how pleasure in reading these fictions is not largely based on identification. Students facing Joanna Russ for the first time, students who have learned to take modernist writers like James Joyce or Virginia Woolf without flinching, do not know what to make of The Adventures of Alyx or The Female Man, where characters refuse the reader’s search for innocent wholeness while granting the wish for heroic quests, exuberant eroticism, and serious politics. The Female Man is the story of four versions of one genotype, all of whom meet, but even taken together do not make a whole, resolve the dilemmas of violent moral action, or remove the growing scandal of gender. The feminist science fiction of Samuel R. Delany, especially Tales of Nevèrÿon, mocks stories of origin by redoing the neolithic revolution, replaying the founding moves of Western civilization to subvert their plausibility. James Tiptree Jr., an author whose fiction was regarded as particularly manly until her “true” gender was revealed, tells tales of reproduction based on nonmammalian technologies like alternation of generations of male brood pouches and male nurturing. John Varley constructs a supreme cyborg in his arch-feminist exploration of Gaea, a mad goddessplanet-trickster-old woman-technological-device on whose surface an extraordinary array of post-cyborg symbioses are spawned. Octavia Butler writes of an African sorceress pitting her powers of transformation against the genetic manipulations of her rival (Wild Seed), of time warps that bring a modern U.S. black woman into slavery where her actions in relation to her white master–ancestor determine the possibility of her own birth (Kindred), and of the illegitimate insights into identity and community of an adopted cross-species child who came to know the enemy as self (Survivor). In Dawn (1987), the first installment of a series called Xenogenesis, Butler tells the story of Lilith Iyapo, whose personal name recalls Adam’s first and repudiated wife and whose family name marks her status as the widow of the son of Nigerian immigrants to the United States. A black woman and a mother whose child is dead, Lilith mediates the transformation of humanity through genetic exchange with extraterrestrial lovers/rescuers/destroyers/genetic engineers, who re-form Earth’s habitats after the nuclear holocaust and coerce surviving humans into intimate fusion with them. It is a novel that interrogates reproductive, linguistic, and nuclear politics in a mythic field structured by late-twentieth-century race and gender. Because it is particularly rich in boundary transgressions, Vonda McIntyre’s Superluminal can close this truncated catalogue of promising and dangerous monsters who help redefine the pleasures and politics of embodiment and feminist writing. In a fiction where no character is “simply” human, human status is highly problematic. Orca, a genetically altered diver, can speak with killer whales and survive deep ocean conditions, but she longs to explore space as a pilot, necessitating bionic implants jeopardizing her kinship with the divers and cetaceans. Transformations are effected by virus vectors carrying a new developmental code, by transplant surgery, by implants of microelectronic devices, by analogue doubles, and other means. Laenea becomes a pilot by accepting a heart implant and a host of other alterations allowing survival in transit at speeds exceeding that of light. Radu Dracul survives a virus-caused plague in his outerworld planet to find himself with a time sense that changes the boundaries of spatial perception for the whole species. All the characters explore the limits of language; the dream of communicating experience; and the necessity of limitation, partiality, and intimacy even in this world of protean transformation and connection. Superluminal stands also for the defining contradictions of a cyborg world in another sense; it embodies textually the intersection of feminist theory and colonial discourse in the science fiction I have alluded to in this essay. This is a conjunction with a long history that many “First World” feminists have tried to repress, including myself in my readings of Superluminal before being called to account by Zoe Sofoulis (n.d.), whose different location in the world system’s informatics of domination made her acutely alert to the imperialist moment of all science fiction cultures, including women’s science fiction. From an Australian feminist sensitivity, Sofoulis remembered more readily McIntyre’s role as writer of the adventures of Captain Kirk and Spock in TV’s Star Trek series than her rewriting the romance in Superluminal. Monsters have always defined the limits of community in Western imaginations. The Centaurs and Amazons of ancient Greece established the limits of the centered polis of the Greek male human by their disruption of marriage and boundary pollutions of the warrior with animality and woman. Unseparated twins and hermaphrodites were the confused human material in early modern France who grounded discourse on the natural and supernatural, medical and legal, portents and diseases – all crucial to establishing modern identity. In the evolutionary and behavioral sciences, monkeys and apes have marked the multiple boundaries of late-twentieth-century industrial identities. Cyborg monsters in feminist science fiction define quite different political possibilities and limits from those proposed by the mundane fiction of Man and Woman.» (Ivi, pp. 57-65); e tutti segno, nella loro  feticistica fantasmagoria biotecnologico-genetistica-fantascientifica, oltre che di un concretamente possibile futuro della nostra specie da evitare a tutti i costi –  e che invece la Haraway, proprio per il suo deficit dialettico ritiene auspicabile: una cosa è dire, mettiamo, che con l’ingegneria genetica le future generazioni non saranno più angustiate dalla carie dentale, un’altra è risolvere questo problema dotando la futura umanità di un becco d’anatra al posto della tradizionale dentatura!, una modifica radicale del nostro fenotipo e genotipo che, come vedremo fra breve in questa stessa nota, la Haraway porta alle sue estreme conseguenze nel suo più recente lavoro, Stayng with the Trouble – del fatto che l’Haraway nel delineare la sua fantastica trasformistica umanità prossima ventura si dimostra del tutto conforme ed espressione di quella cultura occidentale, il cui grandissimo errore non è stato, come crede la Haraway, di essere una cultura maschilista, aristocratica, fallocentrica e tutte le altre grandi nequizie lessicali che si possono trarre dal suo dizionario più o meno femminista ma, molto più semplicemente, di non aver saputo sviluppare il grande spunto aristotelico dello zoòn lògon èchon, dell’uomo che proprio per essere  un “animale politico” (zoòn politikòn o ζῷον πολιτικόν) è anche l’unico “animale che possiede il linguaggio” (zoòn lògon èchon o ζῷον  λόγον  ἔχων) (Aristotele, Politica, 1253a 9-10, da noi consultato nella versione in inglese con testo originale a fianco Aristotle, Politics, London, William Heinemann LTD, Cambridge (MA), Harvard University Press, 1959, presso gli URL di Internet Archive  https://archive.org/details/politicsrackh00arisuoft e https://ia800904.us.archive.org/6/items/politicsrackh00arisuoft/politicsrackh00arisuoft.pdf) e nel caso della Haraway, dominata dalla sua stessa fantasmagoria feticistica lessicale, verrebbe quasi voglia di sposare in toto il pensiero di Heidegger quando il filosofo afferma che «La parola che ci parla dell’essenza di una cosa ci viene dal linguaggio, perché noi sappiamo fare attenzione all’essenza propria di questo.[…] L’uomo si comporta come se fosse lui il creatore e il padrone del linguaggio, mentre è questo, invece, che rimane signore dell’uomo. Questo rovesciamento di rapporto è uno dei motivi dell’estraniazione (Unheimische) dell’uomo. Il linguaggio è l’appello supremo che viene rivolto all’uomo» (Martin Heidegger, Saggi e discorsi, Mursia, Milano, 1976, p. 97,  da noi citato dall’URL https://www.opuslibros.org/Index_libros/Recensiones_1/heidegge_dis.htm, Wayback Machine: https://web.archive.org/web/20191122073121/https://www.opuslibros.org/Index_libros/Recensiones_1/heidegge_dis.htm), mentre in realtà, al netto della filosofia di Heidegger che, dal nostro punto di vista, può a buon diritto essere definito il pensatore più antistrategico, più antiprassistico e meno dialettico mai comparso sulla faccia della Terra, quello che il filosofo di Meßkirch ci segnala – anche se involontariamente e probabilmente anche con un inconscio riferimento a sé stesso  – è che l’uomo è quasi sempre dimentico di essere il creatore strategico del linguaggio e quindi, anziché essere un “animale che possiede il linguaggio”, il più delle volte è “un animale posseduto dal linguaggio” e questo essere dimentico della vera, autentica ed unica  natura dell’uomo già individuata da Aristotele nella sua Politica – e che nell’ambito dell’ulteriormente raffinato paradigma olisitico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico è natura umana linguistico-politica in una dinamica prassistica dove l’uomo e il suo linguaggio sono dialetticamente interconnessi in un continuo rapporto di creazione del soggetto e dell’oggetto dove il soggetto uomo è contemporaneamente creato dalla sua creazione-oggetto linguaggio, che in questo modo diventa soggetto che crea il suo oggetto, che crea cioè l’uomo stesso – è il vero tratto distintivo della Haraway, la quale nonostante (anzi proprio per queste) fantasmagorie linguistiche non si distacca assolutamente da tutta la grande rimozione del pensiero occidentale sulla natura linguistico-politica dell’uomo già intravista da Aristotele, una rimozione che nel Novecento ha avuto in Heidegger il suo più grande interprete ma che in finale di XX secolo e nell’inizio del nostro successivo, vede schierata fra i suoi protagonisti anche la Haraway, in uno però strano pasticcio mitologico-linguistico dove, con intenzioni del tutto antitetiche a quelle di Heidegger, non si  vuole la soppressione della dialettica ma se ne è alla continua ricerca,  ricerca però del tutto frustrata  da questo   suo  fiammeggiante e soteriologico  feticistico-fantasmagorico-mitologico linguaggio (che dà espressione nel caso del Cyborg Manifesto al mito del  cyborg), del tutto inadeguato a raggiungere una minimamente accettabile dimensione dialettica. «“The Camille Stories: Children of Compost” closes this book. This invitation to a collective speculative fabulation follows five generations of a symbiogenetic join of a human child and monarch butterflies along the many lines and nodes of these insects’ migrations between Mexico and the United States and Canada. These lines trace socialities and materialities crucial to living and dying with critters on the edge of disappearance so that they might go on. Committed to nurturing capacities to respond, cultivating ways to render each other capable, the Communities of Compost appeared all over the world in the early twenty-first century on ruined lands and waters. These communities committed to help radically reduce human numbers over a few hundred years while developing practices of multispecies environmental justice of myriad kinds. Every new child had at least three human parents; and the pregnant parent exercised reproductive freedom in the choice of an animal symbiont for the child, a choice that ramified across the generations of all the species. The relations of symbiogenetic people and unjoined humans brought many surprises, some of them deadly, but perhaps the deepest surprises emerged from the relations of the living and the dead, in symanimagenic complexity, across the holobiomes of earth. Lots of trouble, lots of kin to be going on with.» (introduzione a Donna Jeanne Haraway, Staying with the Trouble. Making Kin in the Chthulucene, Durham (N.C.), Duke University Press, 2016, p. 8, notazione bibliografica già  supra alla precedente nota n° 9, come sempre supra in questa nota URL presso il quale il documento può essere scaricato:  https://edisciplinas.usp.br/pluginfile.php/4374763/mod_resource/content/0/Haraway-Staying%20with%20the%20Trouble_%20Making%20Kin%20in%20the%20Chthulucene.pdf, nostro congelamento Wayback Machine: https://web.archive.org/web/20190930132847/https://edisciplinas.usp.br/pluginfile.php/4374763/mod_resource/content/0/Haraway-Staying%20with%20the%20Trouble_%20Making%20Kin%20in%20the%20Chthulucene.pdf, e URL del nostro caricamento del documento su Internet Archive: https://archive.org/details/donnaj.harawaystayingwiththetroublemakingkininthechthulucene/mode/2up                                                                                                                                e https://ia803104.us.archive.org/4/items/donnaj.harawaystayingwiththetroublemakingkininthechthulucene/Donna%20J.%20Haraway-Staying%20with%20the%20Trouble_%20Making%20Kin%20in%20the%20Chthulucene.pdf. N.B. Successivamente,  questo caricamento su Internet Archive reso non disponibile dalla piattaforma per presunta  violazione delle clausole  sul copyright; rimane disponibile il congelamento Wayback Machine) (…) «And then Camille came into our lives, rendering present the cross-stitched generations of the not-yet-born and not-yet-hatched of vulnerable, coevolving species. Proposing a relay into uncertain futures, I end Staying with the Trouble with a story, a speculative fabulation, which starts from a writing workshop at Cerisy in summer 2013, part of Isabelle Stengers’s colloquium on gestes speculatifs. Gestated in SF writing practices, Camille is a keeper of memories in the flesh of worlds that may become habitable again. Camille is one of the children of compost who ripen in the earth to say no to the posthuman of every time. I signed up for the afternoon workshop at Cerisy called Narration Speculative. The first day the organizers broke us down into writing groups of two or three participants and gave us a task. We were asked to fabulate a baby, and somehow to bring the infant through five human generations. In our times of surplus death of both individuals and of kinds, a mere five human generations can seem impossibly long to imagine flourishing with and for a renewed multispecies world. Over the week, the groups wrote many kinds of possible futures in a rambunctious play of literary forms. Versions abounded. Besides myself, the members of my group were the filmmaker Fabrizio Terranova and psychologist, philosopher, and ethologist Vinciane Despret. The version I tell here is itself a speculative gesture, both a memory and a lure for a “we” that came into being by fabulating a story together one summer in Normandy. I cannot tell exactly the same story that my cowriters would propose or remember. My story here is an ongoing speculative fabulation, not a conference report for the archives. We started writing together, and we have since written Camille stories individually, sometimes passing them back to the original writers for elaboration, sometimes not; and we have encountered Camille and the Children of Compost in other writing collaborations too. All the versions are necessary to Camille. My memoir for that workshop is an active casting of threads from and for ongoing, shared stories. Camille, Donna, Vinciane, and Fabrizio brought each other into copresence; we render each other capable. The Children of Compost insist that we need to write stories and live lives for flourishing and for abundance, especially in the teeth of rampaging destruction and impoverization. Anna Tsing urges us to cobble together the “arts of living on a damaged planet”; and among those arts are cultivating the capacity to reimagine wealth, learn practical healing rather than wholeness, and stitch together improbable collaborations without worrying overmuch about conventional ontological kinds. The Camille Stories are invitations to participate in a kind of genre fiction committed to strengthening ways to propose near futures, possible futures, and implausible but real nows. Every Camille Story that I write will make terrible political and ecological mistakes; and every story asks readers to practice generous suspicion by joining in the fray of inventing a bumptious crop of Children of Compost. Readers of science fiction are accustomed to the lively and irreverent arts of fan fiction. Story arcs and worlds are fodder for mutant transformations or for loving but perverse extensions. The Children of Compost invite not so much fan fiction as sym fiction, the genre of sympoiesis and symchthonia – the coming together of earthly ones. The Children of Compost want the Camille Stories to be a pilot project, a model, a work and play object, for composing collective projects, not just in the imagination but also in actual story writing. And on and under the ground. Vinciane, Fabrizio, and I felt a vital pressure to provide our baby with a name and a pathway into what was not yet but might be. We also felt a vital pressure to ask our baby to be part of learning, over five generations, to radically reduce the pressure of human numbers on earth, currently set on a course to climb to more than 11 billion by the end of the twenty-first century CE. We could hardly approach the five generations through a story of heteronormative reproduction (to use the ugly but apt American feminist idiom)! More than a year later, I realized that Camille taught me how to say, “Make Kin Not Babies.” Immediately, however, as soon as we proposed the name of Camille to each other, we realized that we were now holding a squirming child who had no truck with conventional genders or with human exceptionalism. This was a child born for sympoiesis – for becoming-with and makingwith a motley clutch of earth others. // IMAGINING THE WORLD OF THE CAMILLES // Luckily, Camille came into being at a moment of an unexpected but powerful, interlaced, planetwide eruption of numerous communities of a few hundred people each, who felt moved to migrate to ruined places and work with human and nonhuman partners to heal these places, building networks, pathways, nodes, and webs of and for a newly habitable world. Only a portion of the earthwide, astonishing, and infectious action for well-being came from intentional, migratory communities like Camille’s. Drawing from long histories of creative resistance and generative living in even the worst circumstances, people everywhere found themselves profoundly tired of waiting for external, never materializing solutions to local and systemic problems. Both large and small individuals, organizations, and communities joined with each other, and with migrant communities like Camille’s, to reshape terran life for an epoch that could follow the deadly discontinuities of the Anthropocene, Capitalocene, and Plantationocene. In system-changing simultaneous waves and pulses, diverse indigenous peoples and all sorts of other laboring women, men, and children – who had been long subjected to devastating conditions of extraction and production in their lands, waters, homes, and travels – innovated and strengthened coalitions to recraft conditions of living and dying to enable flourishing in the present and in times to come. These eruptions of healing energy and activism were ignited by love of earth and its human and nonhuman beings and by rage at the rate and scope of extinctions, exterminations, genocides, and immiserations in enforced patterns of multispecies living and dying that threatened ongoingness for everybody. Love and rage contained the germs of partial healing even in the face of onrushing destruction. None of the Communities of Compost could imagine that they inhabited or moved to “empty land.” Such still powerful, destructive fictions of settler colonialism and religious revivalism, secular or not, were fiercely resisted. The Communities of Compost worked and played hard to understand how to inherit the layers upon layers of living and dying that infuse every place and every corridor. Unlike inhabitants in many other utopian movements, stories, or literatures in the history of the earth, the Children of Compost knew they could not deceive themselves that they could start from scratch. Precisely the opposite insight moved them; they asked and responded to the question of how to live in the ruins that were still inhabited, with ghosts and with the living too. Coming from every economic class, color, caste, religion, secularism, and region, members of the emerging diverse settlements around the earth lived by a few simple but transformative practices, which in turn lured – became vitally infectious for – many other peoples and communities, both migratory and stable. The communities diverged in their development with sympoietic creativity, but they remained tied together by sticky threads.The linking practices grew from the sense that healing and ongoingness in ruined places requires making kin in innovative ways. In the infectious new settlements, every new child must have at least three parents, who may or may not practice new or old genders. Corporeal differences, along with their fraught histories, are cherished. New children must be rare and precious, and they must have the robust company of other young and old ones of many kinds. Kin relations can be formed at any time in life, and so parents and other sorts of relatives can be added or invented at significant points of transition. Such relationships enact strong lifelong commitments and obligations of diverse kinds. Kin making as a means of reducing human numbers and demands on the earth, while simultaneously increasing human and other critters’ flourishing, engaged intense energies and passions in the dispersed emerging worlds. But kin making and rebalancing human numbers had to happen in risky embodied connections to places, corridors, histories, and ongoing decolonial and postcolonial struggles, and not in the abstract and not by external fiat. Many failed models of population control provided strong cautionary tales. Thus the work of these communities was and is intentional kin making across deep damage and significant difference. By the early twenty-first century, historical social action and cultural and scientific knowledges – much of it activated by anticolonial, antiracist, proqueer feminist movement – had seriously unraveled the once-imagined natural bonds of sex and gender and race and nation, but undoing the widespread destructive commitment to the still-conceived natural necessity of the tie between kin making and a treelike biogenetic reproductive genealogy became a key task for the Children of Compost. The decision to bring a new human infant into being is strongly structured to be a collective one for the emerging communities. Further, no one can be coerced to bear a child or punished for birthing one outside community auspices. The Children of Compost nurture the born ones every way they can, even as they work and play to mutate the apparatuses of kin making and to reduce radically the burdens of human numbers across the earth. Although discouraged in the form of individual decisions to make a new baby, reproductive freedom of the person is actively cherished. This freedom’s most treasured power is the right and obligation of the human person, of whatever gender, who is carrying a pregnancy to choose an animal symbiont for the new child. All new human members of the group who are born in the context of community decision making come into being as symbionts with critters of actively threatened     species, and therefore with the whole patterned fabric of living and dying of those particular beings and all their associates, for whom the possibility of a future is very fragile. Human babies born through individual reproductive choice do not become biological symbionts, but they do live in many other kinds of sympoiesis with human and nonhuman critters. Over the generations, the Communities of Compost experienced complex difficulties with hierarchical caste formations and sometimes violent clashes between children born as symbionts and those born as more conventional human individuals. Syms and non-syms, sometimes literally, did not see eye to eye easily. The animal symbionts are generally members of migratory species, which critically shapes the lines of visiting, working, and playing for all the partners of the symbiosis. The members of the symbioses of the Children of Compost, human and nonhuman, travel or depend on associates that travel; corridors are essential to their being. The restoration and care of corridors, of connection, is a central task of the communities; it is how they imagine and practice repair of ruined lands and waters and their critters, human and not. The Children of Compost came to see their shared kind as humus, rather than as human or nonhuman. The core of each new child’s education is learning how to live in symbiosis so as to nurture the animal symbiont, and all the other beings the symbiont requires, into ongoingness for at least five human generations. Nurturing the animal symbiont also means being nurtured in turn, as well as inventing practices of care of the ramifying symbiotic selves. The human and animal symbionts keep the relays of mortal life going, both inheriting and inventing practices of recuperation, survival, and flourishing. Because the animal partners in the symbiosis are migratory, each human child learns and lives in nodes and pathways, with other people and their symbionts, in the alliances and collaborations needed to make ongoingness possible. Literally and figurally, training the mind to go visiting is a lifelong pedagogical practice in these communities. Together and separately, the sciences and arts are passionately practiced and enlarged as means to attune rapidly evolving ecological naturalcultural communities, including people, to live and die well throughout the dangerous centuries of irreversible climate change and continuing high rates of extinction and other troubles. A treasured power of individual freedom for the new child is to choose a gender – or not – when and if the patterns of living and dying evoke that desire. Bodily modifications are normal among Camille’s people; and at birth a few genes and a few microorganisms from the animal symbiont are added to the symchild’s bodily heritage, so that sensitivity and response to the world as experienced by the animal critter can be more vivid and precise for the human member of the team. The animal partners are not modified in these ways, although the ongoing relationships with lands, waters, people and peoples, critters, and apparatuses render them newly capable in surprising ways too, including ongoing EcoEvoDevo biological changes. Throughout life, the human person may adopt further bodily modifications for pleasure and aesthetics or for work, as long as the modifications tend to both symbionts’ wellbeing in the humus of sympoiesis. Camille’s people moved to southern West Virginia in the Appalachian Mountains on a site along the Kanawha River near Gauley Mountain, which had been devastated by mountaintop removal coal mining. The river and tributary creeks were toxic, the valleys filled with mine debris, the people used and abandoned by the coal companies. Camille’s people allied themselves with struggling multispecies communities in the rugged mountains and valleys, both the local people and the other critters. Most of the Communities of Compost that became most closely linked to Camille’s gathering lived in places ravaged by fossil fuel extraction or by mining of gold, uranium, or other metals. Places eviscerated by deforestation or agriculture practiced as water and nutrient mining and monocropping also figured large in Camille’s extended world. Monarch butterflies frequent Camille’s West Virginia community in the summers, and they undertake a many-thousand-mile migration south to overwinter in a few specific forests of pine and oyamel fir in central Mexico, along the border of the states of Michoacan and Mexico. In the twentieth century, the monarch was declared the state insect of West Virginia; and the Sanctuario de la Biosfera Mariposa Monarca (Monarch Butterfly Biosphere Reserve), a UNESCO World Heritage Site after 2008, was established in the ecoregion along the Trans-Mexican Volcanic Belt of surviving woodlands. Throughout their complex migrations, the monarchs must eat, breed, and rest in cities, ejidos, indigenous lands, farms, forests, and grasslands of a vast and damaged landscape, populated by people and peoples living and dying in many sorts of contested ecologies and economies. The larvae of the leap-frogging spring eastern monarch migrations from south to north face the consequences of genetic and chemical technologies of mass industrial agriculture that make their indispensable food  – the leaves of native, local milkweeds – unavailable along most of the routes. Not just the presence of any milkweed, but the seasonal appearance of local milkweed varieties from Mexico to Canada, is syncopated in the flesh of monarch caterpillars. Some milkweed species flourish in disturbed land; they are good pioneer plants. The common milkweed of central and eastern North America, Asclepias syriaca, is such an early successional plant. Milkweeds thrive on roadsides and between crop furrows, and these are the milkweeds that are especially susceptible to herbicides like Monsanto’s glyphosphate-containing herbicide, Roundup. Another milkweed is also important to the eastern migration of monarchs, namely the climax prairie species native to grasslands in later successional stages. With the nearly complete destruction of climax prairies across North America, this milkweed, Asclepias meadii, is fiercely endangered. Throughout the spring, summer, and fall, a large variety of early, midseason, and late flowering plants, including milkweed blossoms, produce the nectar sucked greedily by monarch adults. On the southern journey to Mexico, the future of the North American eastern migration is threatened by loss of the habitats of nectar-producing plants to feed the nonbreeding adults flying to overwinter in their favorite roosting trees in mountain woodlands. These woodlands in turn face naturalcultural degradation in complex histories of ongoing state, class, and ethnic oppression of campesinos and indigenous peoples in the region, for example, the Mazahuas and Otomi. Unhinged in space and time and stripped of food in both directions, larvae starve and hungry adults grow sluggish and fail to reach their winter homes. Migrations fail across the Americas. The trees in central Mexico mourn the loss of their winter shimmying clusters, and the meadows, farms, and town gardens of the United States and southern Canada are desolate in summer without the flitting shimmer of orange and black. For the child’s symbionts, Camille 1’s birthing parent chose monarch butterflies of North America, in two magnificent but severely damaged streams, from Canada to Mexico, and from the state of Washington, along California, and across the Rocky Mountains. Camille’s gestational parent exercised reproductive freedom with wild hope, choosing to bond the soon-to-be-born fetus with both the western and eastern currents of this braid of butterfly motion. That meant that Camille of the first generation, and further Camilles for four more human generations at least, would grow in knowledge and know-how committed to the ongoingness of these gorgeous and threatened insects and their human and nonhuman communities all along the pathways and nodes of their migrations and residencies in these places and corridors, not all the time everywhere. Camille’s community understood that monarchs as a widespread global species are not threatened; but two grand currents of a continental migration, a vast connected sweep of myriad critters living and dying together, were on the brink of perishing. The child-bearing parent who chose the monarch butterfly as Camille’s symbiont   was   a   single     person   with the response-ability to exercise potent, noninnocent, generative freedom that was pregnant with consequences for ramifying worlds across five generations. That irreducible singularity, that particular exercise of reproductive choice, set in train a severalhundred-year effort, involving many actors, to keep alive practices of migration across and along continents for all the migrations’ critters. The Communities of Compost did not align their children to “endangered species” as that term had been developed in conservation organizations in the twentieth century. Rather, the Communities of Compost understood their task to be to cultivate and invent the arts of living with and for damaged worlds in place, not as an abstraction or a type, but as and for those living and dying in ruined places. All the Camilles grew rich in worldly communities throughout life, as work and play with and for the butterflies made for intense residencies and active migrations with a host of people and other critters. As one Camille approached death, a new Camille would be born to the community in time so that the elder, as mentor in symbiosis, could teach the younger to be ready. The Camilles knew the work could fail at any time. The dangers remained intense. As a legacy of centuries of economic, cultural, and ecological exploitation both of people and other beings, excess extinctions and exterminations continued to stalk the earth. Still, successfully holding open space for other critters and their committed people also flourished, and multispecies partnerships of many kinds contributed to building a habitable earth in sustained troubled times. //THE CAMILLE STORIES// The story I tell below tracks the five Camilles along only a few threads and knots of their lifeways, between the birth of Camille 1 in 2025 and the death of Camille 5 in 2425. The story I tell here cries out for collaborative and divergent story-making practices, in narrative, audio, and visual performances and texts in materialities from digital to sculptural to everything practicable. My stories are suggestive string figures at best; they long for a fuller weave that still keeps the patterns open, with ramifying attachment sites for storytellers yet to come. I hope readers change parts of the story and take them elsewhere, enlarge, object, flesh out, and reimagine the lifeways of the Camilles. The Camille Stories reach only to five generations, not yet able to fulfill the obligations that the Haudenosaunee Confederacy imposed on themselves and so on anyone who has been touched by the account, even in acts of unacknowledged appropriation, namely, to act so as to be response-able to and for those in the seventh generation to come. The Children of Compost beyond the reach of the Camille Stories might become capable of that kind of worlding, which somehow once seemed possible, before the Great Acceleration of the Capitalocene and the Great Dithering. Over the five generations of the Camilles, the total number of human beings on earth, including persons in symbiosis with vulnerable animals chosen by their birth parent (syms) and those not in such symbioses (non-syms), declined from the high point of 10 billion in 2100 to a stable level of 3 billion by 2400. If the Communities of Compost had not proved from their earliest years so successful and so infectious among other human people and peoples, the earth’s population would have reached more than 11 billion by 2100. The breathing room provided by that difference of a billion human people opened up possibilities for ongoingness for many threatened ways of living and dying for both human and nonhuman beings. [corsivo nell’originale]» (Ivi., pp. 134-144, dal capitolo 8 The Camille Stories. Children of Compost, pp. 134-168). Scenari postapocalittici, comunità umane e umani vaganti in cerca di una nuova utopia, o meglio di nuove utopie, e utopie più o meno diverse e più o meno realizzate in cui i tratti che le accomunano sono A) realizzare una decrescita demografica per raggiungere un migliore equilibrio ecologico (e se fosse solo questo, saremmo “solo” dalle parti delle decrescite più o meno felici tanto in voga in questi antistrategici tempi) e B) una inarrestabile tendenza in tutte queste comunità utopiche a modificare il patrimonio genetico umano sia  per combattere la tendenza dell’uomo a generare figli attraverso i quali possa rispecchiarsi, pulsione che, generando tendenzialmente un aumento del numero degli umani, implica una inevitabile aggressività della costituenda famiglia verso le altre famiglie e verso l’ambiente sociale ed ecologico perché ogni famiglia vede progressivamente ridotto lo spazio della propria nicchia ecologica di sopravvivenza (nella vecchia geopolitica ed anche nel Repubblicanesimo Geopolitico invece che ‘nicchia ecologica’ si impiega il termine  di  ‘Lebensraum’, ma mentre per il Repubblicanesimo Geopolitico il Lebensraum va inteso dialetticamente, qui anche  la Haraway, anche se si guarda bene di impiegare e il termine Lebensraum ed anche di esprimere chiaramente il suo concetto, è protesa verso la Gestalt di questo concetto, solo che, disgraziatamente, si tratta di uno spazio vitale inteso nella maniera meno dialettica possibile, insomma di un Lebensraum in versione nazista, il quale, per i suoi scopi politici imperialisti e per fare, quindi, del Lebensraum un concetto di pronto e facile uso per giustificare la conquista e la colonizzazione tedesca dell’Europa orientale e dell’Unione Sovietica, aveva accuratamente epurato gli elementi dialettici che pur esistevano nell’originario concetto: la differenza della Haraway con il nazismo è che il suo spazio vitale è uno spazio che anziché allargarsi deve restringersi favorendo l’allargarsi dello spazio vitale di altre specie, ma nel nazismo come nella Haraway il “gioco” dello spazio vitale è sempre a somma zero, insomma un Lebensraum totalmente antidialettico e a questo punto poco importano le intenzioni “politicamente corrette” espresse dall’autrice; e facciamo anche notare che, come il nazismo, anche l’Haraway è fautrice dell’eugenetica. Certo non per selezionare una razza umana superiore ma per realizzarne una non più umana, frutto della ricombinazione genetica con altre specie – per realizzare, cioè, il primo simbionte mezzo uomo e mezzo altra specie – allo scopo di raggiungere un miglior equilibrio ecologico sulla Terra: certamente un sorprendente riapparire di vecchie, deliranti e catastrofiche idee e senza ulteriori commenti: «le strade dell’inferno sono lastricate di buone intenzioni » e di inediti – e perniciosi – ritorni…) ed anche perché – e questo l’autrice non lo dice espressamente ma lo si legge fra le righe – il generare figli a propria immagine e somiglianza è un sentimento egoistico che già di per sé è antitetico con il telos di queste comunità di entrare in rapporto simbiotico con tutte le altre specie viventi, un rapporto simbiotico che concretamente si realizza con l’assunzione da parte di ogni nuovo nascituro di parte del materiale genetico di una particolare specie non umana a rischio più o meno di estinzione, in una abdicazione, quindi, delle caratteristiche genotipico-fenotipiche della specie umana che confligge sia con l’istinto espresso dal biblico “crescete e moltiplicatevi” sia con l’egoistica pulsione a vedersi rispecchiati nei propri figli («make kin not babies», cioè non fate figli ma diventate parenti con altre specie, è la frase mantra che percorre tutto il Staying with the Trouble e The Camille Stories ne è la sintesi perfetta  che esprime questa esortazione in forma di racconto fantascientifico. Per il Repubblicanesimo Geopoliltico, invece, la procreazione è sì un atto di strategia biologica – quindi, se vogliamo, anche “egoistico” –  ma è anche un decisivo passaggio perché la natura  linguistico-politica dell’uomo possa concretamente continuare e generare  nel tempo la sua dialettica prassistica. Pensiamo sia inutile aggiungere altre nostre osservazioni in merito a questa esortazione della Haraway). Per riassumere e concludere. Nel racconto fantascientico The Camille Stories: Children of Compost (significativo, fra l’altro, di una fortissima tendenza antistrategica e quindi antiumanista il sottotitolo del racconto, Children of Compost, bimbi, cioè, del fertilizzante naturale e la Haraway gioca evidentemente con l’ambivalenza semantica del termine che può essere inteso anche come ‘letame’), le cinque Camille che si succedono in un arco plurisecolare assumono progressivamente generazione dopo generazione sempre più le sembianze morfologiche della farfalla monarca con cui devono entrare in stretta simbiosi: in estrema sintesi questa è la trama del  racconto fantascientifico delle storie delle varie cinque Camille ma sarebbe veramente ingenuo liquidare il tutto come un semplice esercizio di narrativa fantascientifica, in cui le immaginifiche suggestioni di un’umanità geneticamente modificata non è altro che un espediente per  rinnovare dal punto di vista meramente letterario il genere fantascientifico  rimpiazzando  le vecchie fantasmagorie fantascientifiche modello Asimov dove è l’automa, il robot, ad essere il protagonista del racconto e il generatore delle fantasmagorie, sostituito ora in questo ruolo dal simbionte mezzo uomo e mezzo altra specie. In realtà, come la stessa Haraway espressamente ci dice, il racconto è un racconto utopico, il racconto indica cioè il desiderio di uno stato futuro dell’umanità dove magari i dettagli del racconto sono sì frutto di fantasia ma il telos dello stesso indica la direzione che l’umanità deve intraprendere per il suo bene e per il bene di tutti i viventi (e cioè, per essere chiari: decrescita demografica, modificazioni genetiche per porre riparo alla eccessiva aggressività della specie umana al suo interno e  verso le altre specie animali e vegetali, diminuzione dell’aggressività umana da raggiungersi anche attraverso l’annullamento delle differenze di genere), il tutto, per concludere, espresso in un fiammeggiante stile  fantasmagorico che ci fa affermare con Gestalt marxiana e contenuto dialettico da Repubblicanesimo Geopolitico che nella ultima Haraway il feticcio di un corpo umano in cui tutte le magìe sono possibili (ricordate il tavolo di Marx  che  «si trasforma in una cosa sensibilmente sovrasensibile. Non solo sta con i piedi per terra, ma, di fronte a tutte le altre merci, si mette a testa in giù, e sgomitola dalla sua testa di legno dei grilli molto più mirabili che se cominciasse spontaneamente a ballare.») altro non è che il segno del nascondimento ed occultamento dei rapporti dialettico-espressivi-strategici-conflittuali che  creano, animano e generano ex nihilo ed ex suo la società (che generano, cioè, in un prassistico vicendevole rapporto dialettico sia l’uomo che la società in cui questo si trova ad agire). In ultima analisi, anche se la prima Haraway aveva assunto come utopico modello il cyborg mezzo uomo e mezza macchina e ora invece il modello da imitare è l’uomo che rinuncia ai suoi tratti evolutivi caratterizzanti ma si fa simbionte con specie che hanno avuto una distinta evoluzione e si riduce quindi a mezzo uomo e mezzo animale (o mezzo vegetale, se si preferisce tutelare tramite simbiosi queste forme di viventi), siamo sempre in presenza di un messaggio feticcio che espelle e nullifica i pur interessanti vagiti  dialettici presenti nell’autrice, ma  spunti dialettici soffocati   nell’Haraway –  come, del resto, in tutta la tradizione filosofica occidentale, e in questo soffocamento, certamente subìto ma nondimeno attuato, l’Haraway non è rivoluzionaria come pretenderebbe, anzi è perfettamente conformista – che     solo sviluppando la teoria dello zoòn politikòn e dello zoòn lògon èchon possono dare attuazione e sviluppo ad una compiuta ed adeguata prassi dialettica espressiva-strategica-conflittuale. Noi chiamiamo questa attuazione  ‘Epifania strategica’, che è sì anch’essa un’utopia ma un’utopia non basata su una feticistica e fantasmagorica rimozione sulla natura linguistico-politica dell’uomo ma sul tentativo di un suo prassistico e dialettico pubblico inveramento. E, da questo punto di vista, anche i mostri cyborghiani e/o i similumani simbionti della Haraway che proprio attraverso le loro fantasmagoriche e feticistiche rappresentazioni sono i segnalatori di una mal repressa e dolente dialettica non solo ci indicano, per una sorta di effetto perverso certamente non voluto dall’autrice, una via che l’umanità non deve seguire (per essere chiari: una antiprassistica eugenetica di marca nazista, con la differenza che nell’eugenetica nazista si vuole realizzare il superuomo ariano alto, biondo e dolicocefalo mentre l’Haraway vuole realizzare il supersimbionte mezzo uomo e mezzo animale o vegetale con caratteristiche genotipico-fenotipiche prese a prestito dalla specie con cui il futuro nascituro dovrà stabilire uno strettissimo legame empatico e simbiotico, vedi ancora il racconto delle cinque Camille, con le Camille che generazione dopo generazione assumono in misura sempre crescente caratteristiche fisiche ed apparati della farfalla Monarca, la specie con cui all’inizio di questa particolare stirpe simbiotica è stato deciso che le varie Camille devono entrare in rapporto simbiotico) ma anche – e qui ritorniamo all’avvertenza da noi più volta espressa in questo lavoro – che il Repubblicanesimo Geopolitico rispetto agli avanzamenti tecnologici della genetica e della biologia e, più in generale, di tutte le scienze, deve attenersi alla massima ‘amicus Plato sed magis amica veritas’, il che tradotto nella  nostra Weltanschauung gnoseologico-epistemologica significa che il Repubblicanesimo Geopolitico accoglie con favore tutte le conoscenze e possibilità offertaci dalle scienze induttive o deduttive che siano ma non sposa di queste alcun esito in particolare – sia questo di natura prettamente tecnica o di più vasta portata culturale –limitandosi ad utilizzarlo nell’ambito del suo schema storicistico olisitico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale. La Haraway ha fatto esattamente il contrario facendo divenire valore tutte le possibilità che ci offrono le scienze biologiche e genetiche e non curandosi affatto quando queste vanno in senso umanamente antiprassistico e realizzando questa sua mancata dialettizzazione di queste scienze attraverso il velo dei suoi feticistici e fantasmagorici simboli, il cyborg ed il simbionte. Ed è proprio per questo suo chiaro errore, una sorta di rimozione freudiana della vera dialettica dove il tavolo cyborg e simbionte «si mette a testa in giù, e sgomitola dalla sua testa di legno dei grilli molto più mirabili che se cominciasse spontaneamente a ballare», che l’Haraway ci indica attraverso la sua negazione la strada da seguire e dobbiamo quindi esserle grati.

 

11 «Mixotricha paradoxa is everyone’s favorite critter for explaining complex “individuality,” symbiogenesis, and symbiosis. Margulis described this critter that is/are made up of at least five different taxonomic kinds of cells with their genomes this way: «Under low magnification, M. paradoxa looks like a single-celled swimming ciliate. With the electron microscope, however, it is seen to consist of five distinct kinds of creatures. Externally, it is most obviously the kind of one-celled organism that is classified as a protist. But in side each nucleated cell, where one would expect to find mitochondria, are many spherical bacteria. On the surface, where cilia should be, are some 250,000 hairlike Treponema spirochetes (resembling the type that causes syphilis), as well as a contingent of large rod bacteria that is also 250,000 strong. In addition, we have redescribed 200 spirochetes of a larger type and named them Canaleparolina darwiniensis.8 [esponente di nota 8 a p. 62 di  Donna Jeanne Haraway, Staying with the Trouble, cit., testo della nota p. 190: «Margulis and Sagan, “The Beast with Five Genomes.”». Notazione bibliografica incompleta. Completa: Lynn Margulis, Dorion Sagan,  The beast with five genomes, in “Natural History Magazine”,  giugno 2001, pp. 38-41. Abbiamo recuperato l’articolo presso http://www.naturalhistorymag.com/htmlsite/master.html?http://www.naturalhistorymag.com/htmlsite/0601/0601_feature.html  e vista l’impossibilità della Wayback Machine di congelare l’URL, dopo download dall’URL stesso abbiamo caricato il testo dell’articolo presso Internet  Archive agli URL  https://archive.org/details/lynnmargulisdorionsaganthebeastwithfivegenomes/mode/2up  e https://ia902800.us.archive.org/34/items/lynnmargulisdorionsaganthebeastwithfivegenomes/Lynn%20Margulis%2C%20Dorion%20Sagan%2C%20%20The%20beast%20with%20five%20genomes.pdf, vedi  infra rassegna bibliografica internettiana finale] Leaving out viruses, each M. paradoxa is not one, not five, not several hundred thousand, but a poster critter for holobionts. This holobiont lives in the gut of an Australian termite, Mastotermes darwiniensis, which has its own sf stories to tell about ones and manys, or holoents. Termite symbioses, including their doings with people, not to mention mushrooms, are the stuff of legends – and cuisine. Check out the holobiomes of Macrotermes natalensis and its cultivated fungus Termitomyces, recently in the science news.9» [esponente di nota 9 p. 62, testo della nota p. 190: «Poulsen et al., “Complementary Symbiont Contributions to Plant Decomposition in a Fungus Farming Termite.” On these termite-bacterial-fungal symbioses, see the superb science writer Yong, “The Guts That Scrape the Skies.”»] M. paradoxa and their ilk have been my companions in writing and thinking for decades. Since Darwin’s On the Origin of Species in 1859, biological evolutionary theory has become more and more essential to our ability to think, feel, and act well; and the interlinked Darwinian sciences that came together roughly between the 1930s and 1950s into “the Modern Synthesis” or “New Synthesis” remain astonishing. How could one be a serious person and not honor such works as Theodosius Dobzhansky’s Genetics and the Origin of Species (1937), Ernst Mayr’s Systematics and the Origin of Species (1942), George Gaylord Simpson’s Tempo and Mode in Evolution (1944), and even Richard Dawkins’s later sociobiological formulations within the Modern Synthesis, The Selfish Gene (1976)? However, bounded units (code fragments, genes, cells, organisms, populations, species, ecosystems) and relations described mathematically in competition equations are virtually the only actors and story formats of the Modern Synthesis. Evolutionary momentum, always verging on modernist notions of progress, is a constant theme, although teleology in the strict sense is not. Even as these sciences lay the groundwork for scientific conceptualization of the Anthropocene, they are undone in the very thinking of Anthropocene systems that require enfolded autopoietic and sympoietic analysis. Rooted in units and relations, especially competitive relations, the sciences of the Modern Synthesis, for example, population genetics, have a hard time with four key biological domains: embryology and development, symbiosis and collaborative entanglements of holobionts and holobiomes, the vast worldings of microbes, and exuberant critter biobehavioral inter- and intra-actions.10 [esponente di nota 10 p. 63, testo della nota p. 190: «For a closely argued analysis of the dead ends of competition/cooperation binaries and the relentless assumption that explanation in the last instance in biology must be competitive and individualistic, as well as for a fleshed-out description of more adequate explanatory practices, which are more and more in play among venturesome evolutionary, ecological, and behavioral biologists, see van Dooren and Despret, “Evolution.”»] Approaches tuned to “multispecies becoming-with” better sustain us in staying with the trouble on terra. An emerging “New New Synthesis” – an extended synthesis – in transdisciplinary biologies and arts proposes string figures tying together human and nonhuman ecologies, evolution, development, history, affects, performances, technologies, and more. Indebted first to Margulis, I can only sketch a few aspects of the “Extended Evolutionary Synthesis” unfolding in the early twenty-first century.11 [esponente di nota 11  p. 63, testo della nota p. 190: «Gilbert and Epel (Ecological Developmental Biology) document the evidence for what the authors call an “extended evolutionary synthesis,” encompassing the modern synthesis, eco-devo, and eco-evo-devo.»] Forming part of her cosmopolitan heritage, formulations of symbiogenesis predate Margulis in the early twentieth-century work of the Russian Konstantin Mereschkowsky and others.12 [esponente di nota 12 p. 63, testo della nota p. 190: «Mereschkowsky, “Theorie der zwei Plasmaarten als Grundlage der Symbiogenesis.”See also Anonymous, “History.”»] However, Margulis, her successors, and her colleagues bring together symbiogenetic imaginations and materialities with all of the powerful cyborg tools of the late twentieth-century molecular and ultrastructural biological revolutions, including electron microscopes, nucleic acid sequencers, immunoassay techniques, immense and comparative genomic and proteomic databases, and more. The strength of the Extended Synthesis is precisely in the intellectual, cultural, and technical convergence that makes it possible to develop new model systems, concrete experimental practices, research collaborations, and both verbal and mathematical explanatory instruments. Such a convergence was materially impossible before the 1970s and after. A model is a work object; a model is not the same kind of thing as a metaphor or analogy. A model is worked, and it does work. A model is like a miniature cosmos, in which a biologically curious Alice in Wonderland can have tea with the Red Queen and ask how this world works, even as she is worked by the complex-enough, simple-enough world. Models in biological research are stabilized systems that can be shared among colleagues to investigate questions experimentally and theoretically. Traditionally, biology has had a small set of hard-working living models, each shaped in knots and layers of practice to be apt for some kinds of questions and not others. Listing seven basic model systems of developmental biology (namely, fruit flies Drosophila melanogaster; a nematode, Caenorhabditis elegans; the mouse Musmusculis; a frog, Xenopus laevis; the zebrafish Danio rerio; the chicken Gallus gallus; and the mustard Arabidopsis thaliana), Scott Gilbert wrote: «The recognition that one’s organism is a model system provides a platform upon which one can apply for funds, and it assures one of a community of like-minded researchers who have identified problems that the community thinks are important. There has been much lobbying for the status of a model system and the fear is that if your organism is not a recognized model, you will be relegated to the backwaters of research. Thus, “model organisms” have become the center for both scientific and political discussions in contemporary developmental biology.13» [esponente di nota 13 p. 64, testo della nota p. 190: «Gilbert, “The Adequacy of Model Systems for Evo-Devo,” 57. See Black, Models and Metaphors; Frigg and Hartman, “Models in Science”; Haraway, Crystals, Fabrics, and Fields.»] Excellent for studying how parts (genes, cells, tissues, etc.) of well-defined entities fit together into cooperating and/or competing units, all seven of these individuated systems fail the researcher studying webbed inter- and intra-actions of symbiosis and sympoiesis, in heterogeneous temporalities and spatialities. Holobionts require models tuned to an expandable number of quasi-collective/quasi-individual partners in constitutive relatings; these relationalities are the objects of study. The partners do not precede the relatings. Such models are emerging for the transformative processes of EcologicalEvolutionaryDevelopmental biology. Margulis gave us dynamic multipartnered entities like Mixotricha paradoxa to study the evolutionary invention of complex cells from the intra- and interactions of bacteria and archaea. I will briefly introduce two more models, each proposed and elaborated in the laboratory to study a transformation of organizational patterning in the living world: (1) a choanoflagellate-bacteria model for the invention of animal multicellularity, and (2) a squid-bacteria model for the elaboration of developmental symbioses between and among critters necessary to each other’s becoming. A third symbiogenetic model for the formation of complex ecosystems immediately suggests itself in the holobiomes of coral reefs, and I will approach this model through science art worldings rather than the experimental laboratory. Although multicellular plants appeared on earth half a million years earlier, because of its robustness and sympoietic richness, I focus on a proposed model system for the emergence of animal multicellularity. Every living thing has emerged and persevered (or not) bathed and swaddled in bacteria and archaea. Truly nothing is sterile; and that reality is a terrific danger, basic fact of life, and critter-making opportunity. Using molecular and comparative genomic approaches and proposing infectious – symbiogenetic – processes, Nicole King’s laboratory at the University of California, Berkeley, works to reconstruct possible origins and development of animal multicellularity.14 [esponente di nota 14  p. 65, testo della nota p. 190: «“King Lab: Choanoflagellates and the Origin of Animals.”»] These scientists show that interspecies – really, interkingdom – meetings and enfoldings can produce entities that hold together, develop, communicate, and form layered tissues like animals do. As Alegado and King put it: «Comparisons among modern animals and their closest living relatives, the choanoflagellates, suggest that the first animals used flagellated collar cells to capture bacterial prey. The cell biology of prey capture, such as cell adhesion between predator and prey, involves mechanisms that may have been co-opted to mediate intercellular interactions during the evolution of animal multicellularity. Moreover, a history of bacterivory may have influenced the evolution of animal genomes by driving the evolution of genetic pathways for immunity and facilitating lateral gene transfer. Understanding the interactions between bacteria and the progenitors of animals may help to explain the myriad ways in which bacteria shape the biology of modern animals, including ourselves.15»  [esponente di nota 15 p. 65, testo della nota p. 190: «Alegado and King, “Bacterial Influences on Animal Origins.”»] In Marilyn Strathern’s sense, partial connections abound. Getting hungry, eating, and partially digesting, partially assimilating, and partially transforming: these are the actions of companion species. King’s ambitious program is crafting a stabilized and genomically well-characterized model system of cultures of choanoflagellates (Salpingoeca rosetta) and bacteria from the genus Algoriphagus to investigate critical aspects of the formation of multicellular animals. Choanoflagellates can live as either single cells or multicellular colonies; what determines the transitions? The close evolutionary relationship between choanoflagellates and animals lends strength to the model.16 [esponente di  nota 16 p. 65, testo della nota p. 190: «Choanoflagellates and their bacterial associates make an attractive model partly because sponges, long held to be the “most primitive” critters most closely related to animals, have choanoflagellate-like cells in their bodies that do things like capture their prey (bacteria and detritus). However, recent work argues that ctenophores (comb jellies) are genetically more closely related to animals than sponges are. Halanych, “The Ctenophore Lineage Is Older Than Sponges?” See Ed Yong’s beautifully written science news story “Consider the Sponge.” I do not know of any work exploring ctenophore-bacteria interactions, although, managing infections and responding to biofilm formations, ctenophores are tuned to bacteria and archaea, as are we all. In any case, phylogenetic relationships are not the only criteria of a good model. Up to 60 percent of the biomass of sponges is microbes. See Hill, Lopez, and Harriott, “Sponge-Specific Bacterial Symbionts in the Caribbean Sponge.” What a gold mine for the study of holobionts! No wonder Nicole King started looking into all those attachment sites and signaling activities that might tie choanoflagellate-like cells in sponges to her free-living choanoflagellates, their eating, their infections, and their rosette clumping habits. If anything is, eating – not fundamentalist neo-Darwinian selfishness – is “evolutionary explanation in the last instance”; and eating is definitely both infectious and social! Biologically, eating trumps sex for innovative power; and eating is what made sex possible in the first place.»] The symbiogenetic theory of origins of multicellularity is contested; there are attractive alternate explanations. What distinguishes King’s lab is its production of a model system that is experimentally tractable, transferable in principle to other sites, and generative of testable questions at the heart of being animal. To be animal is to become-with bacteria (and, no doubt, viruses and many other sorts of critters; a basic aspect of sympoiesis is its expandable set of players). No wonder the best science writers bring Nicole King’s lab into my dinner conversations on a regular basis.17 [esponente di nota 17 p. 65, testo della nota p. 190: «McGowan, “Where Animals Come From”; Yong, “Bacteria Transform the Closest Living Relatives of Animals from Single Cells into Colonies.”»]»: Donna Jeanne Haraway, Staying with the Trouble, cit., pp. 61-65. Iniziamo la nostra glossa a questo passo dell’Haraway  con una semplice precisazione bibliografica.  Nel testo rinviato  dall’esponente di nota 8 di pagina 62 di Staying with the Trouble si legge «Margulis and Sagan, “The Beast with Five Genomes”». Come è di tutta evidenza, si tratta di una citazione bibliografica incompleta che noi abbiamo voluto integrare nel testo harawayno rinviato dall’esponente di nota 8  con la notazione bibliografica completa e non contenti di questo abbiamo pure scovato nella Rete l’articolo e così abbiamo pure intrapreso, come si vede accanto alla notazione completa della Beast with Five Genomes, il solito compito di “congelamento” internettiano del documento. Tutto questo non è dettato dalla volontà, come speriamo ci concedano i lettori, di mettere in atto un eccessivamente acribico e pedante “fare le pulci” alla scarsa precisione bibliografica della Haraway – abbiamo già illustrato i suoi meriti e i suoi demeriti e qualora fosse stata questa la nostra intenzione al lettore verrebbe veramente  la tentazione di non concederci più alcun credito e di trasformare ipso facto i suoi demeriti in meriti o, ancor peggio, di mettere nello stesso sacco, una volta trotzkianamente si sarebbe detto nella pattumiera della storia, i suoi fantasmagorici e feticistici demeriti con i così ritrovati demeriti della dialettica, della filosofia della prassi e dello zoòn lògon èchon – ma ciò è stato fatto per due motivi. Il primo è perché se The Beast with Five Genomes di Margulis e Sagan non fu il primo articolo scientifico a parlare del Mixotricha paradoxa, fu il primo articolo ad affrontare il problema di questo protozoo – organismo veramente singolare perché al suo interno vi sono, come sottolinea il titolo dell’articolo, ben cinque distinti genomi – nell’ambito della teoria dell’olobionte, nell’ambito cioè della teoria elaborata da Margulis che gli organismi pluricellulari, uomo compreso, hanno avuto origine dalla costituzione di colonie di diversi e separati organismi, un unirsi che prima ha generato, appunto, colonie di organismi in rapporto inizialmente solo simbiotico  e poi  ha costituito veri e propri organismi unitari ma che, nella loro pluricellularità, ricordano il loro iniziale costituirsi in colonie di organismi originariamente distinti. E, dal nostro punto di vista, sebbene sempre sensibili al monito di amicus Plato sed magis amica veritas,  quanto la teoria endosimbiotica e la teoria olobiontica (teoria che prese lo spunto dalla teoria endosimbiontica elaborata agli inizi degli anni Sessanta sempre dalla Margulis e che ipotizza che  che il genoma degli attuali organismi, uomo compreso, si sia costituito anche  attraverso lo scambio di pezzi di genoma reso possibile dai rapporti simbiotici che questi organismi hanno stabilito con organismi passati e anche con quelli che attualmente vivono accanto a loro o all’interno del loro stesso organismo: per tutto questo cfr. rassegna bibliografica internettiana del presente documento), siano importanti, come pars destruens,  per picconare una mentalità creazionistica ex nihilo e, come pars construens, per accompagnarci verso una Weltanschauung dialettico-espressiva-strategica-conflittuale non ci soffermeremo oltre avendo fin qui abbondantemente argomentato su questo punto. Il secondo motivo per cui abbiamo voluto mostrare la notazione bibliografica completa dell’articolo di Sagan  e Margulis sulla Beast with five Genomes (cioè sul Mixotricha paradoxa, che è un protozoo che vive all’interno dell’intestino della termite australiana Mastotermes darwiniensis e che è costituito dall’unione di cinque differenti organismi e che, quindi, contiene ben cinque genomi), ma, soprattutto,  dare la possibilità, tramite il rimando all’URL attraverso il quale abbiamo preso visione del testo dell’articolo e poi attraverso il “congelamento” su Internet Archive del documento stesso, è stato quello di invitare i nostri lettori ad un confronto stilistico fra Harway e Margulis, dove la prima si avventura nell’inferno fantasmagorico-feticistico di una mancata dialettica mentre la seconda, pur nell’estrema eterodossia delle sue tesi (eterodossia ai tempi che furono formulate, perché oggi vengono riconosciute come capisaldi teorici della biologia e della genetica), si mantiene sempre lungo una linea argomentativa strettamente legata allo schema induzione-ipotesi e  possibilità di verifica empirica dell’ipotesi stessa. (l’ipotesi Gaia è l’ulteriore prova che Margulis sempre evitò fantasmagorie  à la Haraway e, piuttosto, il suo percorso scientifico fu sempre all’insegna di una forte connotazione dialettica. Questa ipotesi, formulata inizialmente da James Lovelock, sostiene, per farla breve, che la Terra non è il contenitore della vita ma un macrorganismo, cioè che non solo le sue condizioni fisico-chimiche permettono l’esistenza della vita ma che il pianeta stesso è un organismo vivente. Margulis collaborò inizialmente con lo stesso Lovelock nel  dare una base  scientifico-induttiva a questa ipotesi e poi, proprio per questo suo approccio, gradualmente si allontanò da questa originaria versione “dura” dell’ipotesi Gaia per elaborarne una in cui veniva posto l’accento  sulla coevoluzione ed interazione dinamica  fra i processi biologici e quelli più propriamente geologici del pianeta Terra. Ovviamente, per tutto quanto detto finora, mentre rifiutiamo  la fantasmagoria della  “dura” Gaia, sempre con l’avvertenza amicus Plato sed magis amica veritas,  troviamo molta buona dialettica nella versione à la Margulis di Gaia e per chi voglia approfondire l’ipotesi Gaia rimandiamo per un primo approccio alla questione  a https://courses.seas.harvard.edu/climate/eli/Courses/EPS281r/Sources/Gaia/Gaia-hypothesis-wikipedia.pdf, Wayback Machine: http://web.archive.org/web/20200311082455/https://courses.seas.harvard.edu/climate/eli/Courses/EPS281r/Sources/Gaia/Gaia-hypothesis-wikipedia.pdf). Al nostro paragone fra Margulis ed Haraway si potrebbe replicare che il mestiere  che faceva la Margulis (è venuta a mancare il 22 novembre 2011) e quello che tuttora svolge la Haraway non è lo stesso, una era infatti una biologa genetista mentre la seconda è una sorta di divulgatrice scientifica con pretese di rendere filosofica  questa sua divulgazione, ma il punto non è questo e questo punto ci consente, per l’ennesima volta, di sottolineare la differenza fra la vera dialettica, che è necessariamente deduttiva,  e un approccio, come quello della Haraway, che pur non riuscendo a procedere per via induttiva, non può certo dirsi deduttivo ma semplicemente feticistico-fantasmagorico (o se vogliamo, sintomo di una dialettica catastroficamente  abortita, allo stesso modo, con analogia ai nostri occhi veramente significativa, del discorso religioso nella sua concreta attuazione dogmatico-cultuale, dietro il quale, è di tutta evidenza, si cela una mal espressa Weltanschauung riferentesi ad una totalità espressiva, ma dove, nel concreto, questa totalità espressiva viene attuata e creduta non attraverso un approccio dialettico ma attraverso ingenue e mitologiche forme antropomorfe divinizzate). Ora, se la dialettica non può che riferirsi ad una totalità espressiva che, appunto, attraverso vari e differenziati passaggi dialettici si autogenera ex nihilo ed ex suo, questi momenti dialettici non sono, dal punto di vista della filosofia della prassi, individuabili tramite feticistici e fantasmagorici voli pindarici ma, principalmente, devono essere previamente empiricamente ed induttivamente individuati. E ciò è tanto più vero per il paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico, che è paradigma prassistico-conoscitivo-deduttivo che si poggia ed agisce su una storicità prevalentemente conosciuta in prima battuta induttivamente e  che poi su questa compie quindi una selezione  a priori dei fatti ritenuti significativi per la sua teoria e per la sua prassi ma che su questi momenti deduttivamente discriminati e poi ricombinati dialetticamente in più vasti ambiti prassistico-conoscitivi non compie assolutamente alcuna azione feticistico-fantasmagorica di invenzione-affabulazione come invece compie la Haraway ma, con spirito si spera di grande umiltà e produttività, compie una prima cernita  alla luce della sua impostazione dialettico-deduttiva per poi cercare di connetterli sempre attraverso il suo approccio deduttivo informato alla superiore totalità esprimentesi e autogeneratasi ex nihilo ed ex suo secondo la modalità olistico-dialettica-espressiva-strategica-conflittuale. (Ma bisogna sottolineare che la nostra deduzione  non solo compie una cernita sui dati raccolti induttivamente ed  anche li fonde facendone nascere così alcuni  inediti ma, infine, ne crea anche altri ex nihilo ed ex suo, senza cioè passare attraverso la previa fase di cernita e/o di ricombinazione dei dati affiorati dal momento induttivo: l’importante che cernita, ricombinazione od anche creazione ex nihilo ed ex suo che sia rimanga, in ultima istanza, non solo sempre all’interno di un realistico paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale ma anche costituisca un momento dialettico per la sua autogenerazione ex nihilo ed ex suo e quindi perchè, proprio sulla base di questo immanentistico realismo empirico ma non empiricistico in quanto  deduttitivamente basato sulla sua Weltanschauung dialettico-espressiva-strategica-conflittuale, non si perda in vuote fantasmagorie: insomma, per essere chiari, la “scienza” deduttiva del Repubblicanesimo Geopolitico pur non pretendendo di dettare la linea  sulle direttrici di ricerca e/o sui risultati da conseguire dalle scienze induttivo-empiriche ed anzi avvalendosi dei risultati da queste ottenuti, si assume la prerogativa di fornire un giudizio sul significato  dialettico di  queste e dei loro risultati e facciamo per ultimo notare che è solo attraverso l’impiego di questa “scienza” – sia questo impiego pienamente dispiegato come nel Repubblicanesimo Geopolitico o meno consapevole come nelle impostazioni di pensiero realista e prassistico che l’hanno preceduto e da cui prende lo spunto  – che può essere messo in luce ciò che è autenticamente e genuinamente induttivo nelle scienze empiriche da ciò che deriva da una mal espressa, dolente e malata dialettica e/o da una ideologica negazione della stessa: il primo caso quello della Haraway, il secondo, per es., quello del positivismo, del neopositivismo, e, in campo politico, quello delle concrete pratiche cultuali-teologiche e di tutte le ideologie totalitarie, liberalismo compreso, tutti fenomeni, comunque,  teologico-politici accomunati, non a caso, da feticistiche e fantasmagoriche narrazioni.). Insomma, a proposito dell’Haraway, siamo sempre dalle parti del “cattivo infinito” denunciato da Hegel dove i vari snodi significativi concepiti dall’autrice (a volte empiricamente veramente interessanti, altre volte veri e propri miraggi Fata Morgana, dove l’immagine è data dalla composizione di elementi realistici ma il cui accostamento non rappresenta la realtà empiricamente ed induttivamente accertabile e nemmeno la possibilità di un suo futuro sviluppo in via autonomamente dialettica) non riescono mai a restituirci né una immagine della totalità cui questi fenomeni si riferiscono né un loro verosimile movimento dialettico che possa generare questa totalità ma sono incessantemente e caoticamente sovrapposti all’infinito al solo scopo di suggerirci che, in virtù dei progressi della cibernetica, delle scienze naturali e/o dell’ingegneria genetica, tutti i nostri desideri non solo sono possibili ma anche, solo per il fatto che questa possibilità ci è ormai data, anche desiderabili. Ma così facendo, avendo cioè un’idea dell’infinito solamente additiva e non produttiva, questi desideri risultano, alla fine, assolutamente non fondati e privi di qualsiasi dinamica dialettica, sono cioè, anche espressione di una dialettica che vorrebbe superare l’esistente ma un esistente che, alla fine, risulterà sempre vincente sull’espressione del desiderio perché questi sono momenti senza nessun reale legame organico con l’infinito, cioè con la totalità espressa dialetticamente, col risultato finale, quindi, di una produzione di fantasmagoriche e feticistiche  immagini o, se vogliamo, di una dialettica abortita prima ancora di nascere. Del resto, oltre alle a volte anche interessanti “Fate Morgane” sparse a piene mani nel passo appena citato della Haraway e veramente rappresentative di tutte le “Fate Morgane” di tutta la produzione dell’Haraway (a p. 63 considerazioni non banali su «An emerging “New New Synthesis” – an extended synthesis – in transdisciplinary biologies and arts proposes string figures tying together human and nonhuman ecologies, evolution, development, history, affects, performances, technologies, and more.» che possono essere propedeutiche ad abbattere la falsa barriera ontologica che la nostra cultura occidentale ha eretto fra uomo e mondo vivente non umano – e, quindi, di riflesso, fra mondo naturale e mondo umano culturale-storico – ma senza, però, che l’autrice riesca ad approdare ad un sia pur minimo schema dialettico; a p. 65 la visione-proposta di un’evoluzione degli organismi attraverso endosimbiosi e/o meccanismi olobiontici ma, dal nostro punto di vista, sempre con la medesima inanità dialettica e stessi rilievi alle pp. 61-62, 64 riguardo il Mixotricha paradoxa; ma a p. 63 rispunta il  cyborg: «symbiogenetic imaginations and materialities with all of the powerful cyborg tools of the late twentieth-century molecular and ultrastructural», con, come si vede, tutto il corredo delle sue fantasmagorie feticistiche), che esista un autentico conto mai regolato con la dialettica ne abbiamo la più patente dimostrazione a p. 62 dove viene nominato – non in termini puramente negativi, fra l’altro – il sociobiologo  Richard Dawkins, che può essere considerato uno dei più fieri avversari ad una qualsiasi visione dialettica della realtà e, in particolare, della biologia, e al cospetto del quale non faccia da contraltare  in tutto il Staying with the Trouble alcuna menzione del Dialectical Biologist di Richard Levins e Richard Lewontin. Siamo però forse in presenza di una sorta di svista oppure, sempre sul solco di un giudizio assolutorio, si è trattato di una non menzione per non incorrere in una banalità, simile a quella, mettiamo, di un moderno saggio storico che trattando della crisi della Roma repubblicana non si perita di non citare le fonti che ci parlano della nascita di Giulio Cesare perché ciò è un fatto accertato al di là di ogni dubbio e dove  rispetto all’argomento trattato, la crisi della Roma repubblicana appunto,  citare le fonti di primo  o secondo grado sulla nascita di Cesare non sarebbe altro che un appesantimento erudito? No, non è assolutamente così e non lo è perché se andiamo ad esaminare tutta la produzione della Haraway che ad oggi copre più di un trentennio, il Dialectical Biologist non viene citato nemmeno una volta. Non viene citato nel Cyborg Manifesto dell’ ’85 ma qui si potrebbe ben dire che visto lo stesso anno di pubblicazione, anche la prima edizione del Dialectical Biologist è dell’ ’85, la Haraway non ne fosse venuta a conoscenza, ma non cita il Dialectcal Biologist nemmeno nelle successive edizioni del Cyborg Manifesto, quando il Dialectical Biologist era divenuto universalmente noto e nemmeno in tutti gli altri lavori che si sono succeduti dall’ ’85 in poi, omissione mantenuta fino a giungere allo Staying with the Trouble del 2016. (Ma si può anche aggiungere che fra le altre già rilevate criticità, il Cyborg Manifesto, purtroppo, stenta moltissimo ad affrancarsi dall’influsso della sociobiologia: «Biological-determinist ideology is only one position opened up in scientific culture for arguing the meanings of human animality. There is much room for radical political people to contest for the meanings of the breached boundary.1 The cyborg appears in myth precisely where the boundary between human and animal is transgressed. Far from signaling a walling off of people from other living beings, cyborgs signal disturbingly and pleasurably tight coupling. Bestiality has a new status in this cycle of marriage exchange. [esponente di nota  1 a  p. 10 di Donna Jeanne Haraway, A Manifesto for Cyborgs, cit., (in The Haraway Reader, cit.)., testo della nota 1 a p. 40: «Useful references to left and/or feminist radical science movements and theory and to biological/biotechnological issues include: Ruth Bleier, Science and Gender: A Critique of Biology and Its Themes on Women (New York: Pergamon, 1984); Elizabeth Fee, “Critiques of Modern Science: The Relationship of Feminist and Other Radical Epistemologies,” and Evelyn Hammonds, “Women of Color, Feminism and Science,” papers for Symposium on Feminist Perspectives on Science, University of Wisconsin, 11-12 April, 1985, in Ruth Bleier, ed., Feminist Approaches to Science (New York: Pergamon, 1986); Stephen J. Gould, Mismeasure of Man (New York: Norton, 1981 ); Ruth Hubbard, Mary Sue Henifin, Barbara Fried, eds., Biological Woman, the Convenient Myth (Cambridge, Mass.: Schenkman, 1982); Evelyn Fox Keller, Reflections on Gender and Science (New Haven: Yale University Press, 1985): R. C. Lewontin, Steve Rose, and Leon Kamin, Not in Our Genes (New York: Pantheon, 1984): Radical Science journal, 26 Freegrove Road, London N7 9RQ; Science for the People, 897 Main St., Cambridge, MA 02139. »]»: e da questa nota bibliografica dell’Haraway, oltre ad essere ben più che evidente che più che una ricerca dialettica l’interesse verte sui temi femministi e di genere, notiamo che,  in chiusura di nota, viene citato almeno un precursore dialettico del Dialectical Biologist,  in diretta  polemica con la sociobiologia e avente un autore dello stesso Dialectical Biologist: R. C. Lewontin, Steven  Rose, and Leon Kamin, Not in Our Genes, New York, Pantheon, 1984, del quale noi, vista la sua importanza di precursore dialettico del Dialectical Biologist forniamo prima l’URL da dove può essere scaricato: https://it.scribd.com/document/383665958/Not-in-Our-Genes-Richard-Lewontin-Steven-Rose-Leon-Kamin, e poi anche gli URL del nostro ricaricamento su Internet Archive: https://archive.org/details/r.c.lewontinstevenroseleonkaminnotinourgenesmassimomorigirepubblicanesimogeopolitico/mode/2up                                                                                         e https://ia903102.us.archive.org/21/items/r.c.lewontinstevenroseleonkaminnotinourgenesmassimomorigirepubblicanesimogeopolitico/R.%20C.%20Lewontin%2C%20Steven%20%20Rose%2C%20Leon%20Kamin%2C%20Not%20in%20Our%20Genes%20%2C%20Massimo%20Morigi%2C%20Repubblicanesimo%20Geopolitico.pdf). Questa assordante assenza sul Dialectcal Biologist sarebbe del tutto sorprendente in un autore che, dopotutto, è in diretta contestazione della sintesi evoluzionistica moderna e che, nonostante che agli esordi, come abbiamo visto, stenti ad affrancarsi completamente dalla sociobiologia, nel progredire del sua produzione esprime sempre più una Weltanschauung comunque in antitesi a qualsiasi “gene egoista”. Ma fatte salve questioni personali con gli autori del Dialectical Biologist od anche questioni con quest’ultimi attinenti ad una lotta nel mercato accademico e pubblicistico degli autori con posizioni  alternative alla sintesi evoluzionistica moderna, questioni di cui, lo confessiamo candidamente, non sappiamo dire assolutamente alcunché di veramente significativo per il semplice fatto che, oltre a non esservi letteratura scientifica al riguardo, chi scrive non ha alcuna esperienza diretta dall’ambiente  socio-culturale di riferimento né dell’Haraway né di Levins e Lewontin, basta leggere la fantasmagorica prosa feticistica della produzione della Haraway ed anche alcuni suoi specifici riferimenti sparsi nei suoi testi per capire qual è l’area di riferimento culturale dell’Haraway e si tratta, per farla breve, del poststrutturalismo, cioè di quella corrente di pensiero di area francese, poi emigrata con grande fortuna presso il mondo accademico degli Stati uniti, erede di Heidegger e che, da vera e propria erede di Heidegger del filosofo di  Meßkirch ha colto, anche se volgarizzandola, l’essenza, cioè la natura antistrategica del suo pensiero, natura antistrategica ed antidialettica che si è innestata con tutti gli onori nella Weltanschauung del poststrutturalismo ed anche in quella  di coloro, che pur potenzialmente volendo sviluppare un pensiero strategico e dialettico autonomo, hanno dovuto soccombere alle malie heideggeriano-poststrutturaliste. Per il poststrutturalismo c’è solo il testo (il n’y a pas de hors-texte) per la Haraway, alla fine, c’era solo il cyborg e poi, ora, l’ olobionte e/o il simbionte, che proprio per la loro natura fantasmagoricamente e feticisticamente proteiforme possono sembrare l’incarnazione all’interno dello stesso vivente del derridiano il n’y a pas de hors-texte, ma il cui esito finale, come in Derrida e come in tutti i poststruturalisti,  non è altro che una fuga verso un cattivo infinito. Un cattivo infinito realizzato, piuttosto che attraverso metafisici testi collocati nella religione poststrutturalista nel regno dei cieli, attraverso cyborg, simbionti ed olobionti nella Haraway. Ma siamo sempre dalle parti dei feticistici e fantasmagorici tavoli già descritti da Marx.

[Le successive 5 note e la sezione bibliografica verrano pubblicate nelle prossime 2 tranche del presente saggio.]

Epigenetica e fantasmagorie transumaniste_1a parte, di Massimo Morigi

 

                      Massimo Morigi

Epigenetica, Teoria endosimbiotica, Sintesi evoluzionista moderna, Sintesi evoluzionistica estesa e fantasmagorie transumaniste. Breve commento introduttivo, glosse al Dialectical Biologist di Richard Levins e Richard Lewontin, su Lynn Margulis,  su Donna Haraway e materiali di studio strategici per la teoria della filosofia della  prassi olistico-dialettica-espressiva-strategica-conflittuale    del    Repubblicanesimo    Geopolitico

                                              (I parte di 5)

 

                                    Presentazione

 Il saggio di Massimo Morigi Epigenetica, Teoria endosimbiotica, Sintesi evoluzionista moderna, Sintesi evoluzionistica estesa e fantasmagorie transumaniste. Breve commento introduttivo, glosse al Dialectical Biologist di Richard Levins e Richard Lewontin, su Lynn Margulis,  su Donna Haraway e materiali di studio strategici per la teoria della filosofia della  prassi olistico-dialettica-espressiva-strategica-conflittuale    del    Repubblicanesimo    Geopolitico può senza dubbio essere considerato come il primo vero tentativo, dopo lo spegnimento e rimozione compiuti a partire dalla seconda metà del Novecento della scuola dialettica italiana di Gentile e Croce, di far rivivere in maniera sistematica ed omogenea una Weltanschauung integralmente dialettica  e storicista ed integralmente unificatrice dei fenomeni sociali, culturali e storici  e di quelli naturali, siano questi di tipo biologico  che  attinenti al mondo fisico che prima  dell’inizio del Novecento venivano interpretati unicamente sulla scorta del meccanicismo galileiano, oppure, per quanto riguarda i fenomeni biologici, in goffa fuoruscita da questo meccanicismo in chiave spiritualista e vitalista (meccanicismo galileano che agli inizi del Novecento verrà messo definitivamente in crisi della meccanica quantistica, e infatti il saggio in questione risulta essere esplicitamente  influenzato da questa rivoluzione nella fisica, tanto che l’autore  definisce la fisica quantistica come una sorta di fisica della praxis, idealmente unita con duplice filo rosso alla filosofia della prassi degli autori che più gli sono cari: Antonio Gramsci e Giovanni Gentile). Non si vuole qui anticipare (e per certi versi è pure impossibile, perché solo immergendosi nella dialettica del saggio in questione è possibile) come il paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale proposto dall’autore riesca a sostituire il canone galileiano-posititivistico dell’interpretazione della realtà che nell’odierno pensiero mainstream non vale solo per la c.d. realtà fisica e/o biologica ma sia, vero e proprio infarto del pensiero e del buon senso, per quella  culturale, sociale e storica ma basti sottolineare che gli “eroi” dell’ autore non sono i “liberali” Hobbes, Locke o Kant ma lungo il predetto paradigma di impianto storicistico-dialettico Aristotele, Machiavelli, Hegel, Gentile, Gramsci e Lukács, una genealogia di padri nobili che è quindi già tutto un programma rispetto alle fuorvianti narrazioni liberal-liberiste che sono l’attuale oppio ideologico delle odierne c.d. democrazie rappresentative. Vista la lunghezza del saggio, “L’Italia e il Mondo” ha deciso di pubblicarlo in cinque parti, in ognuna delle quali ogni volta per comodità di lettura verrà riproposto il testo principale che sorregge il corposissimo  apparato di note, non moltissime per la verità, sedici in tutto, ma di una estensione, complessità interna e vicendevole interconnessione che fanno sì che queste note costituiscano il vero e proprio nucleo dialettico del saggio, una sorta di motore dialettico che non sarebbe stato possibile concepire attraverso una stesura di tipo classico dove il “messaggio” viene trasmesso dal testo principale e le note sono, appunto, solo note (a meno di non ricorrere, ovviamente, a forme compositive dialettiche di marca benjaminiana, dove è il testo principale a trasmettere il messaggio ma dove questa trasmissione, per quanto in forme suggestive e poetiche, risulta essere quasi del tutto indecifrabile, vedi, per esempio, il Dramma barocco tedesco, saggio in cui la vertigine dei riferimenti immessi direttamene nel testo principale genera una sorta di indecifrabile – anche se assolutamente affascinante – esplosione dialettica, l’esatto contrario del testo che ora proponiamo dove, nonostante la vastità e complessità dei riferimenti trattati nelle note, assistiamo ad una sorta di condensazione dialettica proprio perché queste note trattano autonomamente, ma tutte dal punto di vista unificante olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale, i vari argomenti dai quali prendono lo spunto). Nella quinta ed ultima parte (vista la sua lunghezza ed anche la necessità di affrontarlo con debite pause di riflessione, pubblichiamo infatti questo saggio in 5 parti), segue alla nota 16 una lunghissima sezione bibliografica, la quale a differenza delle bibliografie classiche non solo  è unicamente basata su fonti reperibili in Rete ma dove queste fonti sono salvate für ewig  e sottratte al solito destino del  rapidissimo decadimento e della scomparsa dei documenti presenti sul Web tramite le odierne piattaforme di preservazione digitale che rispondono al nome di Internet Archive e Wayback Machine (quest’ultima una derivazione di Internet Archive). Una parola anche sulla natura di queste fonti. Si tratta per la maggior parte di articoli scientifici sugli argomenti indicati nel titolo del saggio (quindi si tratta di pubblicazioni sull’epigenetica e l’evoluzione, ci si scusi del gioco di parole, della teoria evoluzionistica darwiniana), ma una parte assai significativa, anche se in sottordine nel senso dello spazio che occupa, è dedicata alla preservazione digitale dei principali capisaldi del pensiero politico realistico-dialettico-strategico, documenti quest’ultimi  altrimenti disponibili indubbiamente anche su supporto cartaceo ma che, inseriti nel contesto della Weltanschauung di questo testo – che, come già detto, attraverso il paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale intende riunificare i fenomemi storico-culturali con quelli c.d. naturali – ed anche nel contesto bibliografico sempre di questo testo assumono una sorta di nuova ed iridescente – anche se completamente conforme rispetto alla loro tradizione di realismo politico  – prospettiva. Per tutti questi motivi, che rendono il saggio in questione un profondo ragionamento filosofico ma di una filosofia integralmente immanentista  e realista con dirette conseguenze e sviluppi anche per i temi politici e geopolitici tanto cari all’ “Italia e il Mondo”, ne consigliamo un attento studio, propedeutico, ci si augura, a quei cambi di paradigmi politico-mentali liberal-liberisti che, veri e propri “crampi del pensiero” in Italia come nel resto delle c.d. democrazie industriali, assieme al tragico spegnimento delle spinte rivoluzionarie del Novecento, stanno causando, oltre ad un apparentemente inarrestabile degrado politico, anche un altro apparentemente inarrestabile degrado antropologico-culturale.

Buona lettura

Giuseppe Germinario

 

Al Dialectical Biologist, che è in errore numerose volte ma che è  nel giusto sui punti essenziali

 

A Lustig von Dom e alla sua madre in dialettica Frau Stockmann, Friederun von Miran-Stockmann

 

Questo documento, che ora viene presentato in anteprima sul blog di geopolitica “L’Italia e il Mondo”, inteso a raccogliere e a dare un primo approccio alle valenze teoriche che per il Repubblicanesimo Geopolitico possono rivestire le ultime acquisizioni della biologia molecolare e dell’epigenetica e costituito dal presente commento su questo argomento più una  rassegna di URL attraverso i quali i lettori possono prendere visione di importanti documenti afferenti a queste branche della biologia, che erano già presenti sul Web ma che noi, vista la loro importanza sia scientifica  che per la teoria del Repubblicanesimo Geopolitico, abbiamo provveduto a caricare su Internet Archive (e nella rassegna bibliografica finale verranno debitamente indicati gli URL da cui originariamente sono stati scaricati i documenti  – URL e documenti relativi che, quando tecnicamente possibile,  sono stati da noi anche “congelati” tramite  la Wayback Machine – accanto agli URL creati ex novo attraverso i nostri caricamenti su Internet Archive), sviluppa la sua critica a queste nuove acquisizioni delle scienze biologiche nell’ambito dello studio e dell’elaborazione   del  paradigma olistisco-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico – teoria-paradigma dell’azione olistico-dialettica-espressiva-strategica-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico   ultima sintesi e sistemazione della filosofia della prassi i cui maggiori esponenti sono stati nel Novecento Antonio Gramsci, Giovanni Gentile e Karl Korsch – e azione olistico-dialettica-espressiva-strategica-conflittuale che, in primo luogo, dalla profonda   dialetticità del Dialectical Biologist di Richard Levins e Richard Lewontin (per quanto ancora  il Dialectical Biologist non sia riuscito del tutto a liberarsi dello pseudodialettico  engelsismo1 della Dialettica della natura e dell’ Anti-Dühring),  dall’epigenetica (principale esponente Eva Jablonka), dalla teoria endosimbiotica di Lynn Margulis e quindi da un aggiornato lamarckismo riceve potenti stimoli dialettici ed euristici. (Oltre che ottenere una riabilitazione, se non in sede di histoire événementielle, cioè in sede di una impossibile riabilitazione dello stalinismo, ma sì dal punto di vista di una nuova teoresi olistico-dialettica-gnoseologica-epistemologica-politica – cioè dal punto di vista di una rinnovata filosofia della prassi di cui si è appena detto – cui il Repubblicanesimo Geopolitico cerca di dar vita, del tanto ideologicamente diffamato Trofim Denisovič Lysenko, la cui genetica non può essere sbrigativamente liquidata come una infelice pseudoscienza frutto della pseudodialettica dell’autoritario e veteroengelsiano Diamat staliniano, quanto fu piuttosto una forma di lamarckismo ancora all’oscuro dei meccanismi    che    indirizzano   l’evoluzione  degli  organismi2, meccanismi  che cominciano solo ora ad essere compresi dall’epigenetica e, più in generale, da tutti quegli approcci di ricerca biologica e genetica che intendono costruire una Extended  Evolutionary Synthesis  –  Sintesi evoluzionistica estesa, per la  quale anche il dato culturale acquisito,  costruito ed introiettato  dall’organismo stesso in una sorta di autopoiesi genotipico-fentotipica per poi riverberarsi, questa autopoiesi culturale-genetipica-fenotipica, al livello dello stesso ambiente che ne rimane influenzato perché, evolutosi in seguito a questa modificazione dell’organismo, modifica a sua volta dialetticamente l’organismo stesso, è una decisiva componente dell’evoluzione3 – non contrapposta alla Modern Evolutionary Synthesis (Sintesi evoluzionistica moderna, detta anche neodarwinismo – responsabile di aver esasperato in senso meccanicistico le felici intuizioni darwiniane, e costituendo quindi la Sintesi Evoluzionistica Estesa non tanto una fuoruscita dal canone evoluzionista darwiniano ma bensì, attraverso la consapevole introduzione nel campo  teorico esplicativo dell’evoluzione di una Gestalt storicistico-dialettica, non una contrapposizione all’idea darwiniana di evoluzione, modello darwiniano di evoluzione  nel quale erano tenuti in precario equilibro valenze meccanicistiche e valenze storicistiche, ma semmai una sua pur profonda e radicale integrazione alla luce di un rinnovato lamarckismo che solo ora con le nuove tecniche di investigazione scientifica comincia a sviluppare tutte le sue potenzialità) ma al più o meno rozzo meccanicismo che precedentemente aveva afflitto la Modern Evolutionary Syntesis che ha portato alle più estreme ed infauste conseguenze i nodi irrisolti  presenti nel modello  darwiniano4. Si noti bene:  Darwin  era  ben  consapevole dei notevoli problemi che il suo schema di evoluzione delle specie animali e vegetali che vedeva questi organismi come soggetti passivi rispetto all’ambiente si portava con sé e, piuttosto che per il meccanicismo del suo schema evolutivo, l’immortale importanza del suo lascito scientifico consiste nel fatto che egli, a differenza di Lamarck, collegò la variabilità degli organismi all’interno di una specie con la comparsa di nuove specie che non sarebbero mai comparse se questa variabilità individuale non si fosse manifestata, mentre Lamarck, pur avendo correttamente individuato un meccanismo evolutivo dove l’organismo non giocava solo un ruolo passivo – classico l’esempio della giraffa che si allunga il collo per mangiare le foglie degli alberi e riesce poi a trasmettere direttamente alla prole questa sua caratteristica somatica – confinò questo meccanismo evolutivo all’interno di ogni singola specie, cosicché, per farla semplice, le giraffe potevano sì allungare il loro collo a seconda delle necessità ambientali ma dalle giraffe potevano evolversi solo delle giraffe e mai, mettiamo, una nuova specie di erbivori distinta dalle giraffe. Era un’idea di evoluzione un po’ modello arca di Noè, dove le specie del Creato sono sempre state le stesse ab initio temporum – nell’arca gli animali entrano a coppie  e, a parte la facile ironia che viene dalla domanda su come faranno i milioni di specie di viventi, anche se presenti solo a livello di una coppia composta da un maschio e una femmina, a stare dentro un così ridotto vascello, c’è una visione del mondo che sta dietro a questo singolare mito biblico, e cioè l’eterna fissità delle specie viventi che, dai tempi antidiluviani, quindi sin dall’inizio del mondo, sono sempre le stesse.  L’immortale lascito di Darwin non è, quindi, quello di avere recisamente rifiutato e sovvertito in direzione meccanicista il modello lamarckiano di un processo di attiva autopoiesi genotipico-fentotipica dell’organismo e di trasmissione di queste nuove caratteristiche così attivamente acquisite anche alle successive generazioni ma il fatto di aver compreso che la variabilità degli individui all’interno di una popolazione può generare nuove specie. Per rimanere all’esempio della giraffa. Secondo lo schema darwiniano, se particolari condizioni ambientali non costringono più le giraffe ad allungare il collo – o per attenerci ad una formulazione di ancor più stretta osservanza darwiniana, se particolari condizioni ambientali non favoriscono la selezione di giraffe dal collo sempre più lungo –, questo mutamento ambientale può selezionare   –  perché un collo troppo lungo che non risponda più a necessità alimentari è uno svantaggio in quanto una eccessiva massa dell’animale consuma troppe calorie – non solo giraffe dal collo più corto ma una nuova specie animale che non riesce più a riprodursi con le giraffe a collo lungo. Una eccezionale intuizione che, per la prima volta, riusciva a spiegare la presenza delle varie specie presenti sulla Terra partendo da una stessa famiglia di organismi. Insomma prima di Darwin sarebbe stato assolutamente impossibile concepire  LUCA (Last Universal Common Ancestor), e in mancanza di questo ‘ultimo antenato comune universale’ – o almeno in mancanza nella teoria evoluzionistica di un originario antenato iniziatore della vita, sia stato questo antenato un singolo organismo o un gruppo di (proto)organismi e/o molecole organiche (oppure vari e distinti gruppi di molecole organiche e/o (proto)organismi)  che siano divenuti una comunità di organismi  (o più comunità di organismi come nel secondo caso dei gruppi distinti) tramite il trasferimento di geni orizzontale ed evolutesi e differenziatesi in seguito in molteplici e diversificate altre comunità di organismi, cioè nelle varie specie biologiche presenti sul nostro pianeta – gli attuali  paradigmi evoluzionistici sulla varietà e differenziazione delle  specie dei viventi presenti sulla Terra, Sintesi evoluzionista moderna e Sintesi evoluzionistica estesa indifferentemente,  sarebbero gravemente mùtili  della loro  forza  euristica ed analogica nell’opposizione a qualsiasi Weltanshauung imperniata su una divinità personalistica e creazionistica ex nihilo ed ex suo5 – opposizione che è consustanziale alla filosofia della prassi olistico-dialettica-espressiva-strategica-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico –, una ingenua rappresentazione della religiosità popolare sull’origine del mondo  che iconicamente  trova oggigiorno la sua più limpida manifestazione nelle immagini devozionali di proselitismo religioso dei Testimoni di Geova rappresentanti il Paradiso Terrestre, dove leoni, giraffe e gazzelle ed altre specie selvagge vivono felici e rispettandosi a vicenda – povero leone costretto ad una dieta vegetariana, da costituirsi immediatamente un’associazione animalista contro i maltrattamenti alimentari che il leone subisce in questo paradiso terrestre, e alle fiamme il dipinto Paradiso di Jan Brueghel il Giovane, forse la più diretta fonte iconografica di queste immagini devozionali!6 –, e, a parte la bizzarria del leone vegetariano, recanti queste immagini un’altra informazione al devoto, e cioè che queste specie ora pacificate nel Paradiso sono state create tali e quali  ab initio temporum. Insomma, siamo sempre dalle parti dell’arca di Noè e delle mitologie veteroneotestamentarie e derivati7. Darwin  ha iniziato  a  liberarci  da  questa   mitica arca8. La Sintesi evoluzionistica estesa riesce, a sua volta, a liberarsi – e a liberarci –  nel campo della biologia e degli studi sull’evoluzione degli organismi dell’ideologia meccanicistica di stampo cartesiano-galileano – che nell’ Ottocento e  nel Novevento trovò la sua più tetra e ridicola interpretazione nel positivismo e nel neopositivismo – in cui finora era stata costretta questa liberazione e in cui era rimasto impastoiato, pur fra profondi dubbi, anche Darwin. E ovviamente il Repubblicanesimo Geopolitico non può che cogliere con profonda soddisfazione questo ulteriore avanzamento dialettico delle scienze biologiche e genetiche.).  Un’ultima notazione. Pur prendendo spunti ed analogie dalle nuove frontiere aperte dall’epigenetica, dalla sintesi evoluzionistica estesa  e dalla teoria endosimbiotica, ideata quest’ultima  da Lynn Margulis, il Repubblicanesimo Geopolitico si pone decisamente agli antipodi da tutte le ridicole e cupe impostazioni transumaniste, siano queste anche in forma più o meno attenuata come, per esempio, in Donna Haraway. Questo perché – sempre rimanendo al transumanismo harawayno, che attualmente  ne è la forma più attenuata, ed anzi la Haraway espressamente nega di condividerne i fini, anche se, in pratica, deve a buon diritto essere inserita in questa disumanizzante impostazione antropologica – pur riconoscendo volentieri e come segno indubbiamente positivo le potenzialità dialettiche e/o contro la vecchia suddivisione natura/cultura che promanano da tutto il lavoro della Haraway (dal Cyborg Manifesto per finire col Staying with the Trouble. Making kin in the Chthulucene9),  si   deve   sottolineare  il fatto che 1) questa dialettica è espressa per lo più attraverso immagini simboliche (il cyborg del Cyborg Manifesto, l’endosimbionte del Stayng with the Trouble – quest’ultimo, comunque effettivamente esistente nella realtà mentre il primo, almeno per ora, è solo il frutto di una fantasmagoria fantascientifica), che per quanto immagini inconsce ed oniriche della dialettica si fermano sempre ad un passo da una piena consapevolezza della stessa e che 2) il progetto transumanista che traspare da tutto il lavoro della Haraway (per quanto il transumanismo venga formalmente respinto dalla Haraway) altro non si risolve alla fine, anche se abbandonando l’iniziale fantasmagoria fantascientifica del Cyborg perché evidentemente percepita dalla Haraway troppo disumanizzante, che in una fuoruscita dall’umano  non più in via bioingegneristica  come nel Cyborg Manifesto ma in via ingegneristico-genetica (cfr. in Staying with the Trouble il racconto fantascientifico The Camille Stories: Children of Compost10), ma fuoruscita storica dalle attuali contraddizioni storiche dell’umano –  e non dall’umano stesso inteso come dispositivo olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale come invece propone il transumanismo che lo vorrebbe sostituire con un più perfezionato prodotto da laboratorio ma dal quale, ahinoi, scompare la dimensione storico-dialettica della sua evoluzione – che solo può compiere una soddisfacente Aufhebung attraverso una rinnovata e potenziata filosofia della prassi, insomma quella filosofia della prassi, erede dell’idealismo storicista italiano e tedesco e delle migliori espressioni del marxismo occidentale direttamente influenzate da questo idealismo,  che nel XXI secolo solo il Repubblicanesimo Geopolitico ha assunto su di sé il compito del suo sviluppo e potenziamento teorico-pratico. E, infatti, l’incapacità della Haraway a formulare coerentemente un suo autonomo ed originale pensiero dialettico e addirittura il tentativo di fare dell’endosimbionte il simbolo di un nuovo rapporto dell’uomo con la natura  e con la società – suggerendo quindi che l’endosimbionte è, in un certo senso, il  culmine della scala biologica e l’obiettivo cui deve tendere una rinnovata ingegneria sociale poggiata su un’ideologia ecologista e realizzata attraverso le sempre più penetranti tecnologie genetiche utilizzate per modificare il genoma umano: cfr. oltre al summenzionato apologo fantascientifico ancora, passim, Staying with the Trouble. Making kin in the Chthulucene e, in particolare, alle pp. 61-62, 64 la trattazione sul simbionte   Mixotricha paradoxa11– sfocia  alla  fine,  sempre   in  Staying   with  the Trouble, certamente risultato non voluto dalla Haraway, nel progetto di una sorta di uomo nuovo, conseguito non attraverso una selezione e/o eliminazione di pool genetici e culturali umani come nel nazismo12 ma attraverso l’assorbimento nel stesso patrimonio genetico dell’homo sapiens, ad opera dell’ingegneria genetica,  del patrimonio genetico di altre specie animali e vegetali (questo processo di trasferimento di DNA e RNA non finalizzato a finalità riproduttiva all’interno di una specie ma fra membri appartenenti a specie diverse e quindi svincolato da qualsiasi teleologia riproduttiva – che, alla luce delle attuali acquisizioni nell’ambito del paradigma della sintesi evoluzionistica estesa, tutto si può dire di questo fenomeno tranne che si tratti di un ‘epifenomeno’ di trascurabile importanza, mentre è assai più verosimile pensare che si tratti di un passaggio decisivo dell’evoluzione degli organismi e dal punto di vista della dialettica del Repubblicanesimo Geopolitica ne è evidente la grande valenza euristica in quanto si pone agli antipodi di qualsiasi visione “fissista”  del mondo biologico e,  con profonda analogia,  della realtà tutta,  fisica, biologica, culturale e storica, proiettandoci quindi in uno schema olistico della realtà informato alla creazione autopoietica della stessa attraverso il  paradigma   dell’azione dialettico-espressiva-strategica-conflittuale – non è una fantasmagoria fantascientifica ma avviene in natura, e avviene anche per quanto riguarda l’uomo nel cui materiale genetico sono state rinvenute tracce più o meno consistenti di materiale genetico di altre specie animali, un trasporto probabilmente avvenuto attraverso virus vettori). Questo ‘trasferimento genico orizzontale’ svincolato dalla riproduzione  (acronimo TGO,  o ‘trasferimento di geni laterale’, acronimo TGL, in inglese ‘Horizontal gene transfer’, acronimo HGT) che avviene, ovviamente, anche dall’uomo verso gli animali, mentre potrebbe costituire una potentissima metafora dell’intima dialetticità non solo del mondo biologico ma, nell’ambito di una visione olistica della realtà tutta, non solo del mondo della φύσις globalmene intesa ma anche della realtà culturale e storica dell’uomo, viene  quindi suggerito dalla Haraway in Staying with the Trouble  – con grande sfacciataggine ed ingenuità materialistica, ma mai come nel caso della Haraway questo materialismo non è altro che il volto deturpato e degradato di un non ben superato spiritualismo, e infatti la Haraway non ha mai fatto mistero della suo background cattolico e della centralità nello sviluppo del suo   Bildungsroman del mistero della transustanziazione13– come  una  sorta  di processo da intensificare ulteriormente attraverso una sempre più scaltrita ingegneria genetica, venendo così a delineare, sempre involontariamente per carità, una sorta di eugenetica non di marca nazista ma di tipo ecologista, ignorando, come del resto avviene sempre nel nazismo e nelle altre forme di totalitarismo, che se mai si può parlare di uomo nuovo, questo uomo nuovo – se vogliamo mantenere per comodità espositiva questa espressione, sideralmente lontana dalla Weltanschauung olistico-dialettica-espressiva-strategica-conflittuale (e storicista) del Repubblicanesimo Geopolitico – non può che avere la sua reale epifania attraverso il potenziamento del Logos (Logos che non è una peculiarità dell’uomo ma che nell’uomo, a differenza degli altri animali ed anche vegetali, è la principale forza di indirizzo e di sviluppo della sua evoluzione), potenziamento del Logos che trova la sua massima espressione – attraverso il manifesto e pubblico compimento nella società, di una cultura informata al modello dell’azione olistico-dialettica-espressiva-strategica-conflittuale – nell’ Epifania strategica del Repubblicanesimo Geopolitico;  ed Epifania strategica che, per concludere,  può trarre, come effettivamente già trae attraverso la filosofia della prassi del Repubblicanesimo Geopolitico, potenti spunti euristici e dialettici dall’epigenetica e, più in generale, dall’ Extended evolutionary synthesis che finalmente si è lasciata definitivamente alle spalle il mito di un’evoluzione biologica guidata meccanicamente da forze esterne all’organismo e verso le quali l’organismo non possa dialetticamente interagire (quindi si può dire che l’ Extended Evolutionary Synthesis è una sorta di filosofia della prassi  per quanto riguarda gli studi biologici e di storia naturale); ma Epifania strategica che è l’esatto contrario della fuga in utopie comunistiche, comunitaristiche o eugenetiche di destra o sinistra che esse siano ma è,  una sorta di obiettivo limite;  o, se vogliamo una sorta di mito, ma un mito che affonda le sue radici nella reale natura dell’uomo14, natura dell’uomo, che similmente al resto del mondo animato ed inanimato ma con maggior evidenza di questi due ambiti  – che, allo stesso titolo  dell’uomo, appartengono alla stessa totalità dialettico-espressiva-strategica-conflittuale, e qui torniamo all’artificiosità della separazione fra mondo naturale biologico o fisico che esso sia e il mondo culturale, sociale e storico fino a poco tempo fa ritenuto di esclusiva costruzione umana, artificiosità nella separazione di questi due mondi che, alla luce di un vigoroso anche se non impeccabile sforzo dialettico perché impacciato da  un sentimento di reverentia ac metus verso la figura di Friedrich Engels, nessuno meglio del Dialectical Biologist è riuscito ad esprimere, cfr. del Dialectical Biologist pp. 277-288, sulle quali ritorneremo anche in future altre discussioni15 –,  è il Logos concreto ed immanente dell’azione olistico-dialettica-espressiva-strategica-conflittuale; un Logos (o Epifania strategica) che anche dalle scienze biologiche di cui si è appena detto (nonché,  –  vedi Teoria della Distruzione del Valore   e Dialecticvs Nvncivs – dalla meccanica quantistica e dall’elaborazione  di modelli matematici non lineari, cioè dallo studio della  Teoria del caos  e dei Complex Adaptive Systems – antesignano di questo approccio non lineare nello studio della guerra e della società Carl von Clausewitz col suo Vom Kriege –,  approcci anche questi, analogamente a quelli introdotti dalla nuove scienze biologiche e genetiche appena illustrate, di grande valore dialettico  per lo  studio della società e dell’uomo perché ci liberano dai vecchi meccanicismi e determinismi cartesiani e galileiani che hanno afflitto gli ultimi cinque secoli di studi  “umanistici” e che fra Ottocento e Novecento hanno visto il loro triste trionfo nel positivismo, nel neopositivismo per finire col Diamat staliniano), trae potentissimi spunti dialettici ed operativi16  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note

 

1 Richard Levins, Richard Lewontin, The Dialectical Biologist, Cambridge (MA), Harvard University Press, 1985 (Delhi, Aakar Books for South Asia, 2009), documento da noi scaricato presso https://athens.indymedia.org/media/upload/2016/09/02/LEWONTIN_-_THE_DIALECTICAL_BIOLOGIST.pdf. Nostro congelamento WebCite (quando ancora questa piattaforma accettava congelamenti diretti di URL e relativi documenti):  http://www.webcitation.org/75i27bpR1 e http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fathens.indymedia.org%2Fmedia%2Fupload%2F2016%2F09%2F02%2FLEWONTIN_-_THE_DIALECTICAL_BIOLOGIST.pdf&date=2019-01-26. Successivo “congelamento” anche sulla Wayback Machine: http://web.archive.org/web/20190618163839/https://athens.indymedia.org/media/upload/2016/09/02/LEWONTIN_-_THE_DIALECTICAL_BIOLOGIST.pdf.  Ricaricato su Internet Archive, generando gli URL  https://archive.org/details/TheDialecticalBiologist/mode/2up   e

https://ia800900.us.archive.org/3/items/TheDialecticalBiologist/Lewontin_-Levins_the_dialectical_biologist.pdf. Vista l’importanza del documento, ulteriore congelamento WebCite del documento da noi caricato su Internet Archive:    http://www.webcitation.org/75i3BdM3Q e http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia801507.us.archive.org%2F26%2Fitems%2FTheDialecticalBiologist%2FLewontin_-Levins_the_dialectical_biologist.pdf&date=2019-01-26 ed ora, alla luce del  funzionamento non soddisfacente di WebCite, congelamento tramite Wayback Machine di Internet Archive del documento già caricato direttamente su Internet Archive, generando l’URL  http://web.archive.org/web/20190618164825/https://ia800900.us.archive.org/3/items/TheDialecticalBiologist/Lewontin_-Levins_the_dialectical_biologist.pdf. Non è nostra intenzione elencare dettagliatamente in questo lavoro tutte le varie ingenuità veteromarxistiche e/o veteroengelsiane del Dialectical Biologist, lasciando al lettore, attraverso la possibilità di andare direttamente alla fonte tramite il Web e attraverso la nostra operazione di congelamento digitale di questa e delle altre fonti rilevanti per la presente discussione – vedi rassegna bibliografica internettiana finale –, la istruttiva e formativa fatica (e, comunque, dedicheremo una nostra successiva riflessione a separare analiticamente il grano dal loglio di questo fondamentale testo).  Per quanto riguarda questa  nota, ci limitiamo a citare  l’epigrafe nella pagina che segue il frontespizio: «To Frederick Engels, who got it wrong a lot of the time but who got it right where it counted». Come vedremo in questa comunicazione, per fortuna del Dialectical Biologist (e soprattutto, per nostra fortuna) questo libro ha saputo andare ben oltre queste ingenuità – anche se, come pure verrà evidenziato  nella presente riflessione,  sempre unendo folgoranti intuizioni con una difesa più o meno d’ufficio di Friedrich Engels  e della sua pseudodialettica  –, costituendo una pietra miliare per una rinnovata dialettica della filosofia della prassi, talché parafrasando abbiamo scritto in epigrafe al nostro lavoro queste parole: «Al Dialectical Biologist, che è in errore numerose volte ma che è  nel giusto sui punti essenziali».

 

 

 

 

2 «The Lysenkoist  movement, which agitated Soviet biology and agriculture for more than twenty years and which remains attractive to segments of the left outside the Soviet Union today, was a phenomenon of vastly greater complexity than has been ordinarily perceived. Lysenkoism cannot be understood simply as the result of the machinations of an opportunist-careerist operating in an authoritarian and capricious political system, a view held not only by Western commentators but by liberal reformers within the Soviet Union. It was not just an “affair”, nor the “rise and fall” of a single individual’s influence, as might be supposed from the titles of the books by Joraysky (1970) and Medvedev (1969). Nor, on the other hand, can the Lysenko movement be regarded, as it is by some ultraleft Maoists, as a triumph of the application of dialectical method to a scientific problem, an intellectual triumph that is being suppressed by the bourgeois West and by Soviet revisionism. None of these views corresponds to a valid theory of historical causation. None recognizes that Lysenkoism, like all nontrivial historical phenomena, results from a conjunction of ideological, material, and political circumstances and is at the same time the cause of important changes in those circumstances.»: Richard Levins, Richard Lewontin, The Dialectical Biologist, cit., p. 163. Abbiamo appena affermato che non citeremo in dettaglio le varie debolezze del Dialectical Biologist ma in questo caso abbiamo fatto un’eccezione. Ovviamente è del tutto apprezzabile la difesa che nel passo riportato viene fatta di Lysenko ma pur non essendo questa una difesa d’ufficio non si può non rimarcare il grosso problema  che riguarda, complessivamente,  non solo il brano appena citato e tutta  la trattazione che nel Dialectical Biologist viene svolta del “caso Lysenko” (il capitolo “The Problem of Lysenkoism” del Dialectical Biologist da p. 163 a p. 196) ma, globalmente, tutto il Dialectical Biologist. Precisiamo. Il problema nella debolezza della difesa di Lysenko non può, in verità, essere attribuito ad una sorta di timidezza scientifica del Dialectical Biologist nei confronti della meccanicistica Sintesi evoluzionista moderna per il semplice fatto che le acquisizioni scientifiche nel campo dell’epigenetica e la teoria endosimbiotica di Lynn Margulis che mettono direttamente in crisi questo paradigma e vanno a costituire una rinnovato interesse verso Lamarck nell’ambito di una nuova Sintesi evoluzionistica estesa erano ai tempi del Dialectical Biologist o  ancora tutte da venire o, se già formulate, ancora con scarsissimo seguito presso la comunità scientifica internazionale  (Lynn Sagan – dopo aver divorziato dall’astronomo Carl Sagan e sposato Thomas Margulis, Lynn Margulis –, On the Origin of Mitosing Cells, in “Journal of Theoretical Biology, Vol. 14(3), 1967, pp. 225-274 (per consultare e scaricare  articolo  sul Web, vedi rassegna bibliografica internettiana finale), il primo articolo su una rivista scientifica dove Lynn Margulis avanza la sua teoria endosimbiotica – indicazioni bibliografiche internettiane in calce alla presente comunicazione –, fu pubblicato nel ’67 dal “Journal of Theoretical Biologydopo essere stato rifiutato da altre riviste scientifiche e ci vollero più di due decenni prima che la teoria endosimbiotica di Lynn Margulis fosse riconosciuta come una pietra miliare della biologia e della genetica; Eva Jablonka comincerà a pubblicare verso la fine degli anni Ottanta) e, quindi, non si può che apprezzare il coraggio  mostrato da questo testo  nel  cercare di porre una resistenza al pensiero mainstream in campo genetico – ma anche nel campo dell’ideologia anticomunista – che vedeva Lysenko come una sorta di teppista pseudoscientifico che si sarebbe fatto largo nel mondo accademico   sovietico solo in ragione del fatto che vi imperava lo stalinismo – la cui volontà di costruire l’uomo nuovo del socialismo ben si accordava con la strumentalizzazione del lamarckismo insito nella  biologia lisenkiana –  e la sua scimmia ideologica  che va  sotto il nome di Diamat  che in pratica del lisenkismo – al netto del suo meccanicismo engelsiano travestito da dialettica, meccanicismo diamattino  e suo maggiore compare politico stalinista che in linea di principio avrebbero dovuto confliggere con qualsiasi deriva lamarckiana nel campo della biologia che, a rigore, non avrebbe dovuto che enfatizzare un ruolo attivo dell’organismo nel foggiare il proprio genotipo-fenotipo, ma qui si trattava di giustificare col lamarckismo lisenkiano un ruolo attivo della volontà dello Stato a foggiare una nuova comunità e non un ruolo attivo dell’individuo ad autoeducarsi in senso socialista  – seppe cogliere le sue potenzialità di utilizzarlo come instumentum regni per propagandare la possibilità di edificare l’uomo nuovo sovietico in brevissimo tempo. (Utilizzazione ideologica sempre avvenuta, del resto, in ogni settore della ricerca scientifica e non certo inaugurata dallo stalinismo. Oltre al meccanicismo cartesiano-galileano giustificatore dell’individualismo metodologico di cui abbiamo già in altre sedi più volte discusso e di cui stiamo discutendo anche qui in quanto di questo meccanicismo si sta criticando la sua versione nelle scienze biologiche e genetiche, per quanto riguarda la teoria evoluzionistica in senso stretto, non si può fare a meno di ricordare che, oltre che uno stretto darwinismo meccanicistico è da sempre addotto come giustificazione  dell’individualismo metodologico della società liberale – e la versione più moderna di questo utilizzo ideologico è la sociobiologia, cfr., a questo proposito  Richard Dawkins, The Selfish Gene, New York, Oxford University Press, 1976, per indicazione internettiana  con relativi congelamenti dell’URL e del documento tramite le piattaforme di preservazione digitale, vedi infra nota n° 4 e rassegna bibliografica internettiana finale –,  il c.d. darwinismo sociale è stato anche la vera colonna portante dell’ideologia razziale nazista, nazismo che, al netto di tutte le sue fumisterie esoteriche, era proprio sostenuto dall’idea di un individualismo metodologico, dove però al posto del singolo individuo trionfatore ed eliminatore – in buona sostanza – degli altri individui nella lotta per la sopravvivenza nella libera e concorrenziale società di mercato, veniva esaltato una singolo gruppo di umani, la c.d. razza ariana, l’unica che aveva il diritto di dominare e persino eliminare gli altri ceppi umani presenti nel libero, perché per definizione anarchico, contesto geopolitico internazionale. Dominazione ed eliminazione, lo ricordiamo per ultimo, che il nazismo voleva compiere nel Vecchio continente e nelle adiacenti propagini asiatiche della Russia ma pratiche di dominio politico fino a giungere al consapevole vero e proprio genocidio che le potenze coloniali, specialmente il Belgio e la Germania guglielmina ma nessuna potenza europea in questa disgustosa vicenda può chiamarsi fuori,  avevano compiuto pochi decenni di anni prima in Africa. Su questo non si può non rinviare all’immortale Heart of Darkness di Joseph Conrad e a Hannah Arendt e sul suo The Origins of Totalitarianism). Seguendo infatti  uno schema darwiniano di stretta osservanza, e quindi operando meccanicamente attraverso una  selezione di nuovi ceppi umani che avrebbe dovuto agire su più generazioni,  sarebbe stato impossibile con la sola propaganda costruire l’uomo nuovo sovietico, mentre indubbiamente uno schema lamarckiano-lysenkiano  ingenuamente interpretato – in buona o cattive fede non importa – avrebbe potuto raggiungere questo risultato velocemente operando attraverso la propaganda e l’entusiasmo che fra le masse queste propaganda avrebbe dovuto suscitare – che poi questa entusiastica partecipazione fosse del tutto eterodiretta e quindi passiva e che quindi  l’attiva partecipazione dell’organismo uomo fosse di natura diametralmente opposta a quella dell’organismo giraffa che attivamente si sforza di allungare il collo, questo fu un dettaglio “secondario” che probabilmente mai sfiorò la mente dei burocrati sovietici, i quali, oltre ad essere giustamente preoccupati per le conseguenze personali cui si poteva andare incontro opponendosi al Diamat e alle relative strumentalizzazioni della ricerca scientifica, non potevano non riconoscere la validità operativa, al fine di costruire uno stato totalitario. di una strumentalizzazione di una dottrina scientifica che, in quella data situazione storica, ben si prestava a giustificare l’apparato propagandistico ed autoritario del costruendo stato sovietico (stricto sensu, gli studi di Lysenko riguardavano la vernalizzazione del grano, riguardavano cioè la possibilità che l’esposizione del grano alle avverse condizioni climatiche invernali ne facesse crescere la produzione e/o la resistenza a queste intemperie della stagione fredda e questo senza passare attraverso una previa selezione, come si sarebbe dovuto fare seguendo uno schema darwiniano, di linee di grano più resistenti al freddo. Ad oggi è difficile giudicare se si fosse trattato di una buona o cattiva idea. Quello che è certo è che la produzione granaria crollò verticalmente ma di mezzo ci fu la collettivizzazione delle campagne e quindi il lysenkismo è oggi ricordato solo come una dannosa pseudoscienza, stampella di un regime totalitario, corresponsabile della carestia che afflisse l’allora nascente regime sovietico e direttamente responsabile, negli anni che seguirono, dell’arretratezza della biologia e genetica sovietica. Ma dei fallimenti e problemi irrisolti della Sintesi evoluzionista moderna solo oggi si comincia a parlare…). Grosso modo questa è la ricostruzione storica che anche il Dialectical Biologist fa del “caso Lysenko” affermando che il lysenkismo non fu una sorta di pseudoscienza  che poteva solo sorgere in un sistema totalitario ma che, bensì, per farla breve, fu una legittima direzione della ricerca biologica e genetica che, per ragioni storiche contingenti, fu ridotta alla caricatura di sé stessa. Su questo, quindi, nemmeno noi abbiamo nulla da eccepire ma, però, il problema di una piena riabilitazione sussiste, perché per la difesa di una teoria scientifica non ci si può limitare a dire che era sorta con le migliori intenzioni, rovinate in seguito dai cattivi politici, se queste intenzioni, alla stretta del chiodo, saranno state magari sì buone ma anche sostanzialmente sbagliate. E su quest’ultimo problema il Dialectical Biologist non prende posizione, tentenna e tutto il suo discorso critico ruota attorno ad un meccanicismo veteromarxista e veteroengelsiano sostenendo che ogni teoria scientifica è, in ultima analisi, frutto della società dove questa nasce e quindi che il lysenkismo sarebbe stato il frutto di una società e/o del suo apparato politico totalitario  che voleva costruire il socialismo mentre la stretta osservanza darwiniana sarebbe il frutto di una società capitalista tutta tesa a santificare e a magnificare l’ineluttabilità del libero mercato e la ricerca del successo individuale, dove è chiara l’analogia di questo individualismo metodologico con lo schema darwiniano dove meccanicamente l’ambiente seleziona l’individuo migliore che poi, attraverso l’atto riproduttivo, consegnerà alle future generazioni queste sue caratteristiche che hanno avuto il successo di superare il vaglio posto dall’ambiente. Tutto questo incontra la nostra piena approvazione e anzi ne abbiamo appena discusso ma è ancora troppo generico, perché il problema che non affronta il Dialectical Biologist è analizzare, su un piano storico più generale, il significato gnoseologico-epistemologico che hanno la tradizione lamarckiana e la tradizione darwiniana; si tratta cioè del problema della dialettica e della natura che abbia questa dialettica e su questo punto il Dialectical Biologist, pur fornendo, come vedremo, spunti del più grande interesse, non osa pronunciarsi, anzi in più luoghi espressamente ammette di non sapere dare una definizione della dialettica pur sottolineando che, nonostante questo, la dialettica sia indispensabile per spiegare i fenomeni biologici (e su questo siamo pienamente d’accordo, come pure del tutto positivamente apprezziamo del Dialectical Biologist l’essere riuscito a fornire esempi concreti di dialettica operativa in campo biologico, specialmente quando vengono descritti gli ecosistemi e i vicendevoli  rapporti di feedback fra organismo e/o gruppi di organismi e il loro ambiente). Il punctum dolens e quindi quello della natura della dialettica e riandando   alla citazione che ha dato vita a questa nota possiamo tornare a leggere: «Nor, on the other hand, can the Lysenko movement be regarded, as it is by some ultraleft Maoists, as a triumph of the application of dialectical method to a scientific problem, an intellectual triumph that is being suppressed by the bourgeois West and by Soviet revisionism. None of these views corresponds to a valid theory of historical causation.» Il punctum dolens non è tanto se l’ultrasinistra maoista del tempo fosse o no nel torto a ritenere il lisenkismo il trionfo  della dialettica (in molti altri luoghi della presente comunicazione, verrà sottolineato il motto  latino amicus Plato, sed magis amica veritas, volendo con ciò significare che per un corretto procedere dialettico non si deve giudicare positivamente una teoria scientifica solo perché rifiuta una schema meccanicistico e deterministico e, quindi, unicamente  per questa sua intrinseca voluntas dialectica,  illusoriamente più nel vero di una corrispettiva teoria che su questo meccanicismo e determinismo si basa  – anche se ci sono, ovviamente  teorie scientifiche che si possono prestare più di altre, per una sorta di loro intima Weltanschauung dialettica, a  sviluppare efficaci ragionamenti dialettici, e questa comunicazione, come altre che l’hanno preceduta,  è pure basata su questo assunto), il punto è che bisogna individuare la vera Gestalt di questa dialettica e, nelle parole del Dialectical Biologist appena lette si parla di «una valida teoria per la causazione storica», con ciò – oltre a sottintendere una separazione fra causazione del mondo storico  e quello del mondo fisico-biologico, determinazione della illusorietà della separazione fra mondo storico-culturale e quello fisico-biologico che è il cardine del Repubblicanesimo Geopolitico ma che, in altri luoghi del Dialectical Biologist è pure, anche se maniera non esemplarmente cristallina, rifiutata – rivelando in pieno i debiti ancora pesanti che il Dialectical Biologist deve alla pseudodialettica engelsiana, la quale, in realtà, non è altro che un positivismo a malapena travestito e dove le tre leggi aristoteliche della logica (Il principio di identità, il principio di non-contraddizione e   il principio del terzo escluso) vengono sostituite goffamente dalle tre nuove ridicole leggi della dialettica   (la legge della conversione della quantità in qualità (e viceversa), la legge della compenetrazione degli opposti e la legge della negazione della negazione: per la definizione della Gestalt della dialettica del Repubblicanesimo Geopolitico, in particolare vedi infra nota n° 4 ma, nella sua totalità, tutta la presente comunicazione è volta alla sua costruzione), ridicole sì ma che hanno l’assai poco ridicolo e molto triste risultato di rendere la dialettica altrettanto meccanica nella sua natura ed azione alle deterministiche leggi sociali che il positivismo riteneva di dover e poter individuare, perché dal positivismo pensate in perfetta analogia a quelle dei sistemi fisici – o meglio di come  ai tempi del positivismo si pensava operassero i sistemi fisici – e agenti entro un rigido schema di causa ed effetto con conseguente sicura ed infallibile prevedibilità dei fenomeni. Per fortuna, come mostreremo, il Dialectical biologist saprà anche lasciarsi alle spalle il sogno di ogni «valid theory of historical causation», intrinsecamente legata al meccanicismo, per approdare ad uno schema storicistico molto vicino al paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico.

 

3 Questo processo di feedback evolutivo ha profonde analogie col processo interpretativo detto circolo ermeneutico. Purtroppo l’attuale ermeneutica, pur giustamente affermando l’esigenza di un infinito moto circolare del sapere dal soggetto studiante all’oggetto studiato con costante modifica in questo processo sia del soggetto che dell’oggetto, ha tralasciato nella sua teoria una approfondita riflessione sulla forma della  dialettica e ha limitato il suo campo di studio solo alla linguistica e agli studi filologici. (Gadamer parla del processo messo in atto dal circolo ermeneutico come una ‘fusione di orizzonti’ e dell’atteggiamento che deve assumere l’ermeneuta la cui  attività  deve essere improntata alla phrónesis  altrimenti detta ‘saggezza’ o ‘prudenza’, in ragione del fatto che l’ermeneuta deve essere consapevole che la sua attività interpretativa è sempre carica di pregiudizi, pregiudizi che se  è intellettualmente onesto non solo egli deve giudicare ineliminabili  ma anche pensare come  una parte positiva nel dare inizio al circolo ermeneutico stesso. Ora a parte il fatto che riconosciamo una notevole bellezza poetica all’immagine della fusione degli orizzonti e che ben volentieri possiamo concordare con Gadamer sulla necessità di procedere prudenti non solo nelle vicende interpretative ma, aggiungiamo noi, anche nelle vicende della vita di quotidiana – e anche, a maggior ragione, di quella pubblica e filosofica: «Ecco: io vi mando come pecore in mezzo ai lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe. Guardatevi dagli uomini, perché vi consegneranno ai loro tribunali e vi flagelleranno nelle loro sinagoghe; e sarete condotti davanti ai governatori e ai re per causa mia, per dare testimonianza a loro e ai pagani.» (Matteo 10,16-18), come vediamo nell’appello alla prudenza Santa Madre Chiesa ha anticipato di molti anni l’ermeneutica –, liquidare il processo dialettico interpretativo con una  bella metafora ma  che però non ha più valore gnoseologico ed epistemologico di una suggestiva  immagine modello cartolina postale del sole che tramonta dietro l’orizzonte marino – magari tenendo teneramente per mano la propria amata mentre si assiste sulla battigia ed udendo il mantrico sciabordio delle onde che fa da colonna sonora al sublime spettacolo dell’astro morente; non ce ne vogliano gli ermeneuti di ogni ordine e grado, a noi personalmente la ‘fusione di orizzonti’ richiama alla mente quel quadro dell’artista russo appartenente alla Sots-art Erik Bulatov, Red Horizon,  che ci fa vedere un piccolo gruppo di uomini e donne  che  passeggiano in spiaggia, rappresentati di spalle    e stranamente vestiti, visto l’ambiente, con abiti formali  più consoni ad un contesto urbano mentre osservano un amplissimo e rettangolare arrossamento del cielo lungo la linea d’orizzonte del mare  attraversato da più strette linee rettangolari gialle. Red Horizon, quindi, rappresentazione surreale dell’osservazione da parte di queste persone di un tramonto dietro il mare e probabilmente queste persone formalmente vestite sono la metafora della  declinante nomenclatura sovietica: Red Horizon fu dipinto nel 1972 quando erano già evidenti gli inevitabili segnali d’involuzione che avrebbero portato al collasso della società sovietica poco meno di due decenni dopo. Ecco a noi la gademeriana ‘fusione d’orizzonti’ richiama la stessa Stimmung di Red Horizon… – e liquidare l’aristotelica phrónesis come semplice prudenza, mentre in Aristotele è l’unione di intelletto e desiderio al fine di elaborare una corretta linea d’azione – e questa unione di intelletto e desiderio, mutatis mutandis, con profonda analogia con l’azione dialettico-espressiva-strategica-conflittuale della filosofia della prassi del  Repubblicanesimo Geopolitico – non può che lasciare perplessi in merito all’ermeneutica gadameriana e  di tutti quegli studi ermeneutici che da Gadamer prendono lo spunto, e per essere perplessi non è nemmeno necessario fare propria una particolare visione dialettica ma essere animati da semplice buon senso filosofico.). Il Repubblicanesimo geopolitico genera invece la sua particolare ermeneutica non accettando la suddivisione fra mondo culturale dell’uomo e mondo fisico-biologico, suddivisione che è un presupposto più o meno esplicito di tutte le attuali correnti ermeneutiche, e assegna anche una natura specifica a questa  sua peculiare ermeneutica che, attraverso la sua azione dialettico-espressiva-strategica-conflittuale non genera solo un feedback a livello linguistico, ma  investe olisticamente, invece, tutta la totalità espressiva (che non viene solo interpretata alla luce di questo paradigma ma ne viene, soprattuttto,  anche autopoieticamente generata), cioè il mondo culturale dell’uomo e mondo fisico-biologico, non più tenuti astrattamente distinti ma finalmente riunificati a livello ontologico ed epistemologico nello schema autopoietico della  teoria  della filosofia della  prassi dell’azione dialettico-espressiva-strategica-conflittuale. Che questo riorientamento del circolo ermeneutico – riorientamento che, come si sarà capito, non riguarda solo la corrente filosofica detta ‘ermeneutica’ ma tutta la filosofia e la cultura occidentali moderne nate dal trionfo del meccanicismo cartesiano e galileiano –  sia una mossa decisiva per una rinascita non solo degli studi dialettici e degli studi sociali ma anche per un riorientamento olistico degli studi che riguardano le c.d. scienze dure (riorientamento olistico che – pur con tutte le avvertenze fin qui già espresse in merito al fatto che la dialettica del Repubblicanesimo Geopolitico non sposa alcuna teoria scientifica in particolare perché giudicata più dialettica di un’altra ma la osserva, la giudica e la utilizza essenzialmente  nell’ambito delle sua valenza dialettica riferita al più generale contesto olistico generato dall’ autopoiesi dell’azione dialettico-espressiva-strategica-conflittuale e valenza dialettica di una teoria scientifica, quindi, che non è mai una volta per sempre ma può e deve mutare a seconda del momento storico  in cui si colloca il giudizio, perché a mutamento della situazione storica corrisponde un mutamento sia a livello ontologico che epistemologico del vettore di direzione dell’azione dialettico-espressiva-strategica-conflittuale, ma vettore di direzione che, lo ripetiamo ad nauseam, proprio per la sua natura dialettico-espressiva-conflittuale-strategica che attraversa un sempre mutevole medium storico, e sempre mutevole proprio per responsabilità diretta della sua azione dialettico-espressiva-strategica-conflittuale, è assolutamente quindi  incompatibile con la Gestalt di  una legge generale meccanicistica modello fisica galileano-newtoniana con conseguente deterministica previsione della sua forza ed orientamento ma che può essere compreso, e spesso solo ex post, inserendolo nel contesto della particolare ed unica situazione storica entro la quale non solo si trova ad agire cercando di modificarla a suo vantaggio ma della quale, ad ulteriore aggravio delle possibilità di determinarne ex ante la direzione, è pure dinamicamente ed espressivamente parte – è  un portato già oggi  non più ignorabile dei modelli matematici non lineari e della meccanica quantistica, ma sull’importanza euristica per la dialettica del Repubblicanesimo Geopolitico di questi modelli e della fisica quantistica ci siamo  già più volte altrove espressi e ritorneremo anche nel corso di questa comunicazione) non può essere certo dimostrato, come del resto nessuna delle cose veramente importanti per l’uomo possono essere decise attraverso un procedimento induttivo: fondamentale a questo punto ritornare alla distinzione che Hegel faceva fra intelletto e ragione, fra Verstand  e Vernunft. Può, però, essere mostrato nei suoi effetti e nella sua concreta azione dialettico-espressiva-strategico-conflittuale e quindi, da questo punto di vista, giudicato. E questa comunicazione non è che un passo verso questa concreta strategia ermeneutica basata, appunto, sulla hegeliana ragione.

 

4 A parte il vecchio darwinismo storico-sociale che nelle società liberal-capitalistiche ha giustificato il colonialismo e all’interno delle singole nazioni un “libero”mercato dove l’economicamente più debole era “libero” di morire di fame e, sempre a livello interno e poi  fuori dai confini nella Germania nazionalsocialista,  l’eugenetica e lo sterminio degli ebrei  e di altre etnie e gruppi umani ritenuti inferiori – oltre a deturpare criminalmente il concetto Lebensraum privandolo qualsiasi valenza dialettica che pur possedeva in origine per fargli giustificare l’aggressione  contro i paesi dell’Europa orientale e l’Unione Sovietica esplicitamente giustificata per compiere lo sterminio di gran parte delle popolazioni slave per sostituirle con popolazioni germaniche – senza nemmeno l’orrida razionalità economica che presiedeva il succitato progettato insediamento all’Est di popolazioni tedesche (una razionalità economica, comunque, del tutto irrazionale, perché i territori dell’Est Europa senza slavi sarebbero stati del tutto ingestibili, e infatti già nel corso della guerra i progetti tedeschi di sterminio di queste popolazioni slave avevano subito un drastico ridimensionamento, mentre, purtroppo, non si fece altrettanto per gli ebrei e gli zingari), qui, in particolare, intendiamo riferirci, alle  più rozze conseguenze ideologiche e meccanicistiche della Modern Evolutionary Syntesis, cioè alla sociobiologia che, in pratica, altre non è il vecchio darwinismo storico-sociale ma non più mosca cocchiera delle società imperialiste e colonialiste liberalcapitaliste ottonovecentesche o della feroce società nazionalsocialista ma che ha svolto e svolge tuttora – nonostante la sua palese infondatezza scientifico-sperimentale – un ruolo ideologico di giustificazione pseudoscientifica delle attuali società nate nel Secondo dopoguerra ed impostate sul consumismo e sulla “libera” concorrenza darwinista fra membri della società per consumare la maggior quantità di questi beni (impostate, cioè, sulla del tutto illusoria ed ideologica nozione che questo modello, pur diversamente benefico a seconda delle capacità produttivo-economiche del singolo consumatore, sia una volta per sempre e non sia più possibile tornare indietro a modelli produttivo-distributivi che non garantiscano questo infinito aumento dei consumi, pur se diversamente distribuiti a seconda delle varie e variabili capacità individuali di procacciarseli agendo egoisticamente sul “libero” mercato delle merci e del lavoro contemporaneamente attraverso i “liberi” prestatori d’opera – talvolta i “liberi” imprenditori – e i “liberi” consumatori). Il Selfish Gene di Richard Dawkins è stato il saggio che, in ragione del suo indubbiamente accattivante modo di presentare le sue tesi e quindi del suo larghissimo successo anche presso il più vasto pubblico dei non addetti ai lavori, maggiormente ha contribuito in questi ultimi decenni a diffondere e a rendere popolari la meccanicistiche ed antidialettiche tesi della sociobiologia. Vale quindi la pena di guardare un po’ più a fondo questo suo seminale saggio dell’odierna (e popolare) filosofia meccanicistica moderna (e di riflesso, quindi, dell’odierno individualismo metodologico liberale divenuto popolare anche grazie a libri come il Selfish Gene): «The next important link in the argument, one that Darwin himself laid stress on (although he was talking about animals and plants, not molecules) is competition. The primeval soup was not capable of supporting an infinite number of replicator molecules. For one thing, the earth’s size is finite, but other limiting factors must also have been important. In our picture of the replicator acting as a template or mould, we supposed it to be bathed in a soup rich in the small building block molecules necessary to make copies. But when the replicators became numerous, building blocks must have been used up at such a rate that they became a scarce and precious resource. Different varieties or strains of replicator must have competed for them. We have considered the factors that would have increased the numbers of favoured kinds of replicator. We can now see that less-favoured varieties must actually have become less numerous because of competition, and ultimately many of their lines must have gone extinct. There was a struggle for existence among replicator varieties. They did not know they were struggling, or worry about it; the struggle was conducted without any hard feelings, indeed without feelings of any kind. But they were struggling, in the sense that any mis-copying that resulted in a new higher level of stability, or a new way of reducing the stability of rivals, was automatically preserved and multiplied. The process of improvement was cumulative. Ways of increasing stability and of decreasing rivals’ stability became more elaborate and more efficient. Some of them may even have ‘discovered’ how to break up molecules of rival varieties chemically, and to use the building blocks so released for making their own copies. These proto-carnivores simultaneously obtained food and removed competing rivals. Other replicators perhaps discovered how to protect themselves, either chemically, or by building a physical wall of protein around themselves. This may have been how the first living cells appeared. Replicators began not merely to exist, but to construct for themselves containers, vehicles for their continued existence. The replicators that survived were the ones that built survival machines for themselves to live in. The first survival machines probably consisted of nothing more than a protective coat. But making a living got steadily harder as new rivals arose with better and more effective survival machines. Survival machines got bigger and more elaborate, and the process was cumulative and progressive. Was there to be any end to the gradual improvement in the techniques and artifices used by the replicators to ensure their own continuation in the world? There would be plenty of time for improvement. What weird engines of self-preservation would the millennia bring forth? Four thousand million years on, what was to be the fate of the ancient replicators? They did not die out, for they are past masters of the survival arts. But do not look for them floating loose in the sea; they gave up that cavalier freedom long ago. Now they swarm in huge colonies, safe inside gigantic lumbering robots,* sealed off from the outside world, communicating with it by tortuous indirect routes, manipulating it by remote control. They are in you and in me; they created us, body and mind; and their preservation is the ultimate rationale for our existence. They have come a long way, those replicators. Now they go by the name of genes, and we are their survival machines.»: Richard Dawkins, The Selfish Gene, cit.,  pp. 18-20 Testo da noi scaricato all’URL  https://pdfs.semanticscholar.org/206e/a4e48d95acd10fb9c2bdc291811cd341c04a.pdf?_ga=2.110581445.1974409258.1572036165-369721173.1568987673; Wayback Machine: https://web.archive.org/web/20191025204931/https://pdfs.semanticscholar.org/206e/a4e48d95acd10fb9c2bdc291811cd341c04a.pdf?_ga=2.110581445.1974409258.1572036165-369721173.1568987673Nostro successivo upload del file su  Internet Archive, generando gli URL https://archive.org/details/richarddawkinstheselfishgene30thanniversaryeditionwithanewintroductionbytheauthor/mode/2up e https://ia803102.us.archive.org/4/items/richarddawkinstheselfishgene30thanniversaryeditionwithanewintroductionbytheauthor/RICHARD%20DAWKINS%20THE%20SELFISH%20GENE%20%2030TH%20ANNIVERSARY%20EDITION%20WITH%20A%20NEW%20INTRODUCTION%20BY%20THE%20AUTHOR.pdf. Presso Internet Archive  è pure presente un’altra copia del Selfish Gene, URL https://archive.org/details/selfishgene00dawkrich, ma essendo il documento vincolato ad un regime di prestito online,  si è  preferito evitare a noi e ai nostri lettori questa procedura e rendere disponibile il documento senza restrizioni di sorta. In apparenza qui viene descritto un classico meccanismo di selezione darwiniano ma nelle ultime battute appare il telos del brano citato e di tutto il Selfish Gene. Non solo i geni egoistici sono i campioni, i numeri uno, i terribili e coriacissimi guerrieri  dell’ individualismo metodologico, i «replicators that survived were the ones that built survival machines for themselves to live in» ma, al di là di questa altissima esemplarità ideologica per tutti coloro che a questo individualismo si ispirano sono, ancor di più, gli autentici e materiali  animatori e ispiratori  di questa Weltanschauung, perché essi ora «swarm in huge colonies, safe inside gigantic lumbering robots,*  sealed off from the outside world, communicating with it by tortuous indirect routes, manipulating it by remote control.». Traducendo ma contemporaneamente spiegando anche qui il non esplicitamente detto: ora i geni egoistici prosperano e sciamano in gigantesche colonie e al sicuro e protetti dalle aggressioni dell’ambiente esterno perché ospitati all’interno del corpo di giganteschi e legnosi robot. Come questi geni, così sigillati entro i corpo di questi robot riescano a rapportarsi con l’ambiente più che un problema scientifico è, evidentemente, un mistero di natura teologica, come ben si evince dalla  fraseologia impiegata per descrivere questo inesplicabile rapportarsi («sealed off from the outside world, communicating with it by tortuous indirect routes, manipulating it by remote control») ma ancor più di questo crampo del pensiero, ci preme qui sottolineare un fatto fondamentale, e cioè che questi «lumbering robots» siamo noi, quasi che l’onere della denotazione della meccanicità nel processo della selezione naturale si fosse spostato dal gene, il quale anche se opera in maniera teologicamente misteriosa ha comunque una relazione dialettica con l’ambiente, all’uomo, il quale viene ridotto ad una sorta di robot da vignetta o da film fantascientifico di serie B, che si muove appunto come un automa e che, ridotto a dover servire gli algoritmi  forniti dal gene, non può che agire servilmente e meccanicamente (o meccanicisticamente se si preferisce). Subito dopo il passaggio dove i geni «swarm in huge colonies, safe inside gigantic lumbering robots» compare, come si è visto, un asterisco. Torneremo fra poco sul significato di questo asterisco ma per ora continuiamo  a focalizzarci sull’ardita immagine dell’uomo robot. In fondo, si potrebbe dire che questa è un’interpretazione azzardata del testo perché forse quello che l’autore del Selfish Gene ci voleva comunicare è che i geni si erano insediati dentro il corpo umano che ora li protegge come se fosse un legnoso ma anche duro e potente robot, e qualsiasi altra analogia fra il meccanico robot  e la nostra dimensione umana è frutto della nostra immaginazione e non è nelle intenzioni dell’autore. Ma vediamo come nel Selfish Gene non si rinuncia volentieri alla metafora: «The individual organism is something whose existence most biologists take for granted, probably because its parts do pull together in such a united and integrated way. Questions about life are conventionally questions about organisms. Biologists ask why organisms do this, why organisms do that. They frequently ask why organisms group themselves into societies. They don’t ask – though they should – why living matter groups itself into organisms in the first place. Why isn’t the sea still a primordial battleground of free and independent replicators? Why did the ancient replicators club together to make, and reside in, lumbering robots, and why are those robots – individual bodies, you and me – so large and so complicated?» (Richard Dawkins, The Selfish Gene, cit., p. 237), e i lumbering robots, siamo proprio noi, con tutte le caratteristiche e le legnose e meccanico-meccanicistiche peculiarità dei robot da fumetto; lumbering robots le cui caratteristiche meccanico-meccanicistiche  evidentemente non solo sono il tratto qualificante del genere umano  ma di tutti gli organismi  mono e pluricellulari (almeno questa condivisione col resto dei viventi viene concessa ad una povera umanità così bistrattata e mal compresa) e quindi tutti i viventi sono una sorta di macchina, ma una insensibilità meccanica, la quale, chissà perché non coinvolge il gene: forse perché  esso è l’incarnazione e il simbolo col suo egoismo dell’individualismo metodologico della società liberal-capitalistica, e quindi, in questo suo ruolo di nuova divinità non può agire come una sorta di impersonale Dio spinoziano ma deve possedere la capacità di agire teleologicamente, magari al solo scopo di creare i lumbering robots, come una sorta di nuovo Dio personale?: «This brings us to the second of my three questions. Why did cells gang together; why the lumbering robots? This is another question about cooperation. But the domain has shifted from the world of molecules to a larger scale. Many-celled bodies outgrow the microscope. They can even become elephants or whales. Being big is not necessarily a good thing: most organisms are bacteria and very few are elephants. But when the ways of making a living that are open to small organisms have all been tilled, there are still prosperous livings to be made by larger organisms. Large organisms can eat smaller ones, for instance, and can avoid being eaten by them.» (Richard Dawkins, The Selfish Gene, cit., p. 258.). Ma ora torniamo alla questione dell’asterisco, al quale, molto stranamente, alla pagina 19 dove compare il segno non segue a piè di pagina alcuna spiegazione. Ma la spiegazione appare nella sezione finale del libro intitolata “Endnotes” (che sotto questa definizione delle pagine che seguono reca la spiegazione: «The following notes refer to the original eleven chapters only. Although the text of these chapters is almost identical to the first edition, the page numbers are different as the type has been completely reset. Each note is referenced by an asterisk in the main text.»), la quale informandoci delle polemiche suscitate dal succitato passaggio già apparso nella prima edizione (noi stiamo citando dalla terza edizione), goffamente cerca di giustificare ed attenuare la polemica sui lumbering robots: «p. 19  Now they swarm in huge colonies, safe inside gigantic lumbering robotsThis purple passage (a rare – well, fairly rare – indulgence) has been quoted and requoted in gleeful evidence of my rabid ‘genetic determinism’. Part of the problem lies with the popular, but erroneous, associations of the word ‘robot’. We are in the golden age of electronics, and robots are no longer rigidly inflexible morons but are capable of learning, intelligence, and creativity. Ironically, even as long ago as 1920 when Karel Capek coined the word, ‘robots’ were mechanical beings that ended up with human feelings, like falling in love. People who think that robots are by definition more ‘deterministic’ than human beings are muddled (unless they are religious, in which case they might consistently hold that humans have some divine gift of free will denied to mere machines). If, like most of the critics of my ‘lumbering robot’ passage, you are not religious, then face up to the following question. What on earth do you think you are, if not a robot, albeit a very complicated one? I have discussed all this in The Extended Phenotype, pp. 15-17. The error has been compounded by yet another telling ‘mutation’. Just as it seemed theologically necessary that Jesus should have been born of a virgin, so it seems demonologically necessary that any ‘genetic determinist’ worth his salt must believe that genes ‘control’ every aspect of our behaviour. I wrote of the genetic replicators: ‘they created us, body and mind’ (p. 20). This has been duly misquoted (e.g. in Not in Our Genes by Rose, Kamin, and Lewontin (p. 287), and previously in a scholarly paper by Lewontin) as ‘[they] control us, body and mind’ (emphasis mine). In the context of my chapter, I think it is obvious what I meant by ‘created’, and it is very different from ‘control’. Anybody can see that, as a matter of fact, genes do not control their creations in the strong sense criticized as ‘determinism’. We effortlessly (well, fairly effortlessly) defy them every time we use contraception.»: Richard Dawkins, The Selfish Gene, cit., pp.  270-271). Ora a parte il fatto che proprio non si capisce la ragione per cui si debba tirare in ballo Gesù, la sua nascita da una vergine per dire che se questa nascita è teologicamente necessaria, deve essere ugualmente inevitabile che un genetista affermi che il gene controlli ogni aspetto del nostro comportamento (complimenti, un gran bell’argomento e non andiamo oltre), il ridicolo di tutto questo almanaccare appena esposto è l’affermazione che il robot in questione è un po’ meno roboticamente meccanico e stupido di quel che comunemente si crede perché 1) all’origine della  figura letteraria del robot, quello di Karel Čapek, il robot riesce a concepire anche sentimenti umani (fra l’altro, aggiungiamo noi, il robot di Čapek non è un dispositivo meccanico ma è stato costruito montando varie parti di corpi umani e quindi concepisce anche umani sentimenti, insomma siamo più in presenza di un essere modello il mostro del Frankenstein di Mary Shelley che alla creatura meccanica similumana dei film di fantascienza ma questo è un dettaglio che non sfiora Dawkins) e 2) gli attuali robot, quelli realmente esistenti, sono sì robot ma sempre più capaci di azioni autonome e creative proprio come gli uomini. Ma lasciando perdere nel commentare questa penosa palinodia di soffermarci ulteriormente sul tentativo di Dawkins di  buttarla in letteratura (nella quale l’autore del Selfish Gene dimostra, tra l’altro, di non essere nemmeno molto ferrato), concentriamoci un attimo sugli attuali robot e sull’intelligenza artificiale. Certamente è vero che gli attuali robot sono anche in grado di autoprogrammarsi e quindi, almeno apparentemente, di assumere verso l’ambiente un atteggiamento non meccanico-meccanicistico, è però altrettanto vero che la capacità di questi robot a rapportarsi dinamicamente con un ambiente mutevole riguarda sempre e solamente il particolare compito cui è stato assegnato il robot. Tanto per fare un esempio. È già da ora possibile che se a un robot viene fornito un algoritmo che inizialmente non gli permette di superare uno specifico compito, mettiamo vincere a scacchi, il robot sappia far evolvere questo particolare algoritmo per ottenere il risultato (ma le proprietà evolutive di questo algoritmo sono fornite ab initio dal programmatore e non sono farina del sacco del computer; oppure è possibile immaginare anche un algoritmo che pur non possedendo in sé alcuna possibilità evolutiva, venga fatto evolvere tramite il  computer, ma ciò può essere reso possibile fornendo, sempre per iniziativa del programmatore umano, un   secondo algoritmo che permetta alla macchina di intervenire sul primo  e quindi siamo punto a capo)  ma finora non è stato ancora costruito un robot che se perde a scacchi, invece di elaborare una nuova strategia, si arrabbi –  o se riteniamo quest’ultimo stato emotivo troppo legato ad un concetto eccessivamente  intimo e lirico dell’agire – rovesci il tavolo (a meno che, ovviamente, non venga dotato dal suo programmatore di  un algoritmo che gli dica di comportarsi in questo modo in caso di sconfitta, bisogna però, come da tradizione dei film di serie B, farlo diventare un vero e proprio robot umanoide, con un bel paio di braccine e piedini meccanici, piccoli ed esili in questo caso visto che l’azione fisica da eseguire non è gravosa…). In altre parole, un robot può agire solamente nell’ambito della teleologia che gli è stata assegnata dal programmatore: nel metterla in pratica può essere sovente molto più abile dell’uomo ma nell’elaborazione di una autonoma e non eterodiretta teleologia alternativa questo “cervello elettronico” rimane totalmente muto ed inetto (detto ancor meglio: non si pone nemmeno il problema di darsi uno scopo diverso da quello fornitogli dal programmatore). Facciamo un altro esempio. Un robot, come del resto un uomo, può combattere e perdere una battaglia campale (meglio, però, se questa battaglia è virtuale, finora i computer hanno solo fornito potenza di calcolo alle battaglie reali dove scorre sangue reale).  Ma mentre tutto quello che può fare un robot riguardo a questa battaglia è cercare di vincerla o perderla ed anche di elaborare nuove strategie per ottenere il positivo risultato (impiegare, cioè, algoritmi genetici e/o evolutivi che simulando, tramite la veloce computazione della macchina, una evoluzione darwiniana dei parametri costituenti l’algoritmo, questi vengono progressivamente sostituiti da altri più adeguati ad ottenere il risultato desiderato, ma, lo ripetiamo, l’algoritmo genetico o evolutivo che dir si voglia capace di evolversi   tramite la potenza computazionale della  della macchina deve essere originariamente  fornito dal programmatore), l’uomo dopo aver vinto o perso la battaglia è costretto ad andare avanti e a non riposarsi. La vittoria gli apre diversi scenari umani, politici, culturali ed economici verso i quali la macchina robot-computer non solo è assolutamente incapace ad elaborare una adeguata strategia ma, ancor peggio, è del tutto non interessata a prenderli in considerazione ignorandone l’esistenza (a meno che, lo ripetiamo ad nauseam, non venga programmata per affrontare anche queste nuove situazioni: in questa incapacità, lo ammettiamo,  molto simile a molti uomini la cui cecità meccanica-meccanicistica ad affrontare scenari diversi da quelli imposti dall’abitudine quotidiana, dalla tradizione culturale e/o dall’autorità politica non è molto diversa a quella fin qui dimostrata dai computer nell’autoassegnarsi compiti non previsti dal programmatore: epifania strategica un obiettivo-mito modello spiritus durissima coquit per la presente e futura intelligenza artificiale ma anche per molti presenti – e futuri – rappresentanti di quel singolare animale chiamato homo sapiens,  che nelle sue soventi reazioni meno creative e più stereotipate – in questi casi non assolutamente all’altezza del nome assegnatogli dagli zoologi – potrebbe benissimo essere definito homo mechanicus, con tante nostre scuse, per via di questi  numerosi casi, a Cartesio e al suo tanto beffeggiato animal machine, e ancor più associando alle nostre doverose  scuse Julien Offray de La Mettrie e il suo altrettanto dileggiato homme machine). Parimenti la sconfitta, a meno che non abbia avuto come esito la sua uccisione o la sua autoeliminazione per la vergogna (suicidio), apre  altri e del tutto inediti scenari. Per esempio, il guerriero sconfitto può abbandonare le armi e darsi, tramite opere filosofiche, letterarie e poetiche a più o meno profonde riflessioni  sulla vanità delle cose umane (ci può anche essere uno scenario alternativo dal punto di vista letterario ed esistenziale: se la sconfitta non è stata troppo pesante e il nostro guerriero è riuscito  a salvare, oltre alla pelle, anche un po’  di soldi e di salute, può pure abbandonare le pose guerriere  e melanconiche da filosofo ipocondriaco dedito a coltivare la contemptio vitae da novello esegeta dell’Ecclesiaste e, anziché declamare il lamentoso vanitas vanitatum et omnia vanitas, dedicarsi alla produzione di letteratura erotica ed alla sua concreta applicazione nella vita di ogni giorno ma questo è un altro discorso – no, anzi lo stesso… –; tutto questo per mostrare – non dimostrare! – l’amplissima gamma del paradigma comportamentale olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale che può generarsi dal vario rapportarsi dell’uomo con l’ambiente fisico-culturale, e come sia difficile – anzi impossibile – tagliare col coltello i vari aspetti della suddetto). L’uomo cioè, a differenza degli attuali computer e anche di quelli prossimi venturi, computer quantistici compresi, che dai computer realizzati non tenendo conto della fisica quantistica si differenziano per la mostruosa capacità computazionale ma sono assolutamente identici ai computer classici per quanto riguarda una autonoma attività creativa (su cui, fra l’altro, ritorneremo nel prosieguo della presente comunicazione) ha sempre storicamente mostrato di potersi comportare dialetticamente e con estrema libertà creativa rispetto alle sfide ambientali e le ultime acquisizioni  della Sintesi evoluzionistica estesa, dell’ epigenetica e della  teoria endosimbiotica  suggeriscono che anche nell’evoluzione degli organismi e delle loro relative popolazioni le cose siano andate analogamente a come l’uomo si comporta davanti alla sfide storiche, culturali e  naturali  che gli si parano di fronte. Così come nell’uomo, anche nel resto del mondo vivente l’unico schema che agisce è il paradigma dell’azione dialettico-espressiva-strategica-conflittuale (e anche del non vivente aggiungiamo: come già affermato nella presente comunicazione), dal punto di vista del Repubblicanesimo Geopolitico la legge fisica di natura non è altro che la provvisoria ed illusoria cristallizzazione di una vicenda storico-naturale dove il vero ed unico agente è il paradigma ontogenetico e creatore ex nihilo dell’azione dialettico-espressiva-conflittuale strategica) che, come abbiamo già qui affermato, si muove in una sempre cangiante e totalizzante dimensione storica e che quindi, oltre che per la sua natura espressiva che lo pone all’antitesi di qualsiasi schema meccanico, fosse solo per questa dimensione storica originante una linea di azione assolutamente imprevedibile e assolutamente non meccanica (dimensione storica in sé antimeccanica perché impossibile distinguervi causa ed effetto per il semplice fatto che 1) l’effetto, cioè uno stato originato da un certo stato  precedente, la causa,  modifica a sua volta la causa stessa – schema di azione e reazione che apparentemente potrebbe  essere risolto col termine di feedback se non fosse che, e ciò è evidente in biologia ma accade anche nella meccanica quantistica dove spesso, l’effetto previene la causa ancor prima che questa si manifesti, vedi esperimento della doppia fenditura dove le particelle, in seguito alla loro emissione, si dispongono impattando su uno schermo con uno schema ondulatorio se non osservate ma se, osservate successivamente alla loro emissione, lo schema di impatto sullo schermo è corpuscolare e caotico, con tanti saluti al meccanico paradigma temporale del post hoc ergo propter hoc ed introducendoci nell’ambito di una teleologica dialettizzante causalità (in particolare, sull’inversione dello schema causa → effetto vedi infra nota n° 16); ma ancor più importante che 2) la c.d. causa storica, è in realtà veramente una causa sui generis perché è di tutta evidenza che la sua individuazione e definizione è frutto della del tutto umana ipostatizzazione legata al post hoc ergo propter hoc, perché, in realtà, il suo manifestarsi  all’umana sensibilità dipende  della totalità storica e come la cultura dell’uomo e/o dello storico si pone – sovente errando – rispetto a questa totalità , totalità storica dove, al di là dello schema dialettico espressivo-strategico-conflittuale da noi proposto, risulta particolarmente inane lo schema di causalità legato al  post hoc ergo propter hoc. Sul fatto poi che tutte le cause, anche quelle delle scienze fisico-biologiche, rispondano ad una legalità dialettica e non meccanica, abbiamo appena già detto ma vedi anche infra nota n° 15). E detto ciò potremmo per il momento riporre il gene egoista. Se non fosse che non possiamo mancare di dare un’occhiata, anche se solo di sfuggita, al Teorema di incompletezza di Gödel (formulato da Kurt Friedrich Gödel nel 1931), il quale teorema afferma che non esiste alcun sistema formale in cui tutte le proposizioni di questo sistema possano essere dimostrate all’interno del sistema stesso. Con questo teorema veniva così rasa al suolo la speranza del matematico David Hilbert «che nel 1928, in un congresso internazionale di matematica a Bologna, aveva lanciato una sfida alla comunità dei matematici: escogitare una macchina logica che potesse dimostrare tutte le verità matematiche e, nello stesso tempo, dimostrare che il ragionamento matematico è affidabile. L’autocoerenza del sistema è fondamentale: se il sistema è incoerente, allora è possibile dimostrare sia la verità sia la falsità della stessa proposizione.» (Brunella Schettino, Avete mai sentito parlare di Kurt Gödel? (Genio sull’orlo di un abisso), Corso SICA 2006/2007, p. 11, URL presso il quale è stata presa visione del documento  http://people.na.infn.it/~murano/Abilitanti/Brunella%20Schettino%20-%20Godel.pdf, Wayback Machine:  https://web.archive.org/web/20191103082203/http://people.na.infn.it/~murano/Abilitanti/Brunella%20Schettino%20-%20Godel.pdf). Infine, nel 1935 Alan Turing sulla scorta del Teorema di Gödel confermerà l’impossibilità di costruire una macchina computazionale che possa decidere sulla verità o falsità di tutti i problemi matematici, per il semplice fatto che vi sono problemi matematici non risolvibili entro un numero finito di passaggi, cioè entro un algoritmo, e dato che le macchine computazionali, cioè quelle macchine che oggi chiamiamo computer, operano solo su algoritmi, questi problemi sono assolutamente impermeabili alla pur grandissima (ma non  infinita) potenza di calcolo del computer. Sulla scorta dei risultati di Gödel e del padre dei moderni computer Alan Touring, ci si potrebbe allora  limitare a dire che la mente umana è superiore al computer perché a differenza di questo possiede  una capacità intuitiva del tutto estranea al computer che procede solo attraverso  finiti algoritmi. Vero ma troppo poco. A meno che non si voglia far ricadere tutto i nostri ragionamenti in schemi vitalistici alla Bergson, dove l’uomo possederebbe, parafrasando l’ élan vital che rese celebre la dottrina del filosofo francese, una sorta di élan intellectuel irraggiungibile da tutti gli altri viventi e tantomeno dalle macchine computazionali o in schemi spiritualistico-evoluzionistici alla Teilhard de Chardin, dove l’uomo con le sue uniche capacità formatesi nel corso dell’evoluzione è il passaggio ineludibile per giungere al momento ultimo e più alto dell’evoluzione del Cosmo, per giungere cioè a quello che Teilhard chiama Punto Omega, che però, sempre per Teilhard non è un’astratta situazione  del nostro Universo, magari dove prevale lo spirito, ma si realizza attraverso la concreta figura di Cristo che richiama entro sé tutto il Cosmo (insomma Punto Omega che si risolve nella fine del Mondo, non proprio l’Epifania strategica del Repubblicanesimo Geopolitico…), né tantomeno degradare lo schema dialettico del Repubblicanesimo Geopolitico in una sorta di rozzo e risibile pragmatismo dove, in buona sostanza,  si afferma che – sulla scorta di un semplificato paradigma strategico-conflittuale, e quindi lasciando perdere il versante dialettico-espressivo del paradigma del Repubblicanesimo Geopolitico – l’uomo, pur più debole dal punto di vista computazionale alla macchina, è comunque a questa superiore perché l’uomo, nel caso intuisca una minaccia proveniente dalla macchina, può d’emblée e senza tanti ragionamenti o soppesando vari e complessi algoritmi spegnerla con successo mentre il contrario non è possibile (bella scoperta!, ma le scoperte del pragmatismo, tutte basate sulla divinizzazione del concetto di successo, ignorando il rapporto dialettico fra soggetto e oggetto sono tutte di questo tenore), bisogna allora  semanticamente ‘despiritualizzare’ (ed anche ‘dematerializzare’, ovviamente) il termine  ‘intuito’ ed inserirlo in un solido e realistico quadro di riferimento ontologico-epistemologico. E seguendo questa traccia possiamo così rimettere con i piedi per terra l’area filosofico-semantica del termine   ‘intuito’ affermando che con esso  non  si deve definire  altro che  l’estrinsecazione dialettico-espressiva-strategica-conflittuale dell’aspetto mentale  (sebbene molto spesso ingenuamente appesantita attraverso errate Weltanschauung materialistiche e spiritualistiche  di  valenze psicologico-psicologistiche e/o spiritualistico-spirituali o animistiche tout court: materialismo e spiritualismo: due facce della stessa medaglia antidialettica) di tutte le infinite espressioni della totalità nel loro rispecchiamento dialettico, ontogenetico, attivo e creativo, con tutte le altre manifestazioni di questa totalità e con la totalità espressiva stessa (non stiamo parlando delle passive monadi leibniziane né del rispecchiamento di leniniana memoria, entrambi caratterizzati da profonda ed antidialettica passività nel rapporto fra soggetto ed oggetto; meno il rispecchiamento leniniano di Materialismo ed empiriocriticismo per la verità, il cui telos era colpire l’ancor più antidialettico machismo ma purtroppo lo fece sulla scorta degli engelsiani  Dialettica della natura ed Anti-Dühring), un attivo rispecchiamento creatore ex nihilo, ontogenetico, ontologico ed  epistemologico che si svolge attraverso il paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale di cui abbiamo già detto ma di cui   anche l’etimo di intuire, il latino intuère, che significa guardare dentro, guardare con attenzione, ci aiuta nella  presente sottolineatura della valenza attiva del suo significato  a ripristinare o a formulare ex novo le potenzialità filosofiche e dialetticamente attive del temine stesso, come nel caso della nostra discussione sulle  macchine computazionali di intuito  appunto totalmente sfornite. Non è affatto detto che in futuro un dispositivo costruito dall’uomo non  possa attivamente incorporare dentro di sé la dialettica storicità che connota  tutti i viventi. Al momento né è solo il risultato passivo, alla stessa stregua di un martello o di un orologio, oggetti  sì immersi e frutto  della storicità ma che sono in grado di dare contributi all’olistica storicità solo attraverso una parte di questa storicità che, invece, riesce a sua volta ad incarnarla ed esprimerla dialetticamente ed attivamente, cioè l’uomo. E a questo punto siamo anche in grado di accettare intuitivamente anche il gene “egoista” di Dawkins, perché intuiamo che il termine ‘egoismo’ – misto di rappresentazione ideologica ma anche realtà nell’umana esperienza di tutti i giorni – rientra senza difficoltà in un paradigma dialettico-storico espressivo-strategico-conflittuale e accomiatandoci definitivamente dal Selfish Gene di Dawkins esponiamo l’unico ed esclusivo principio logico della  dialettica espressivo-strategica-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolico: dove il primo principio della logica aristotelica, il principio di identità, afferma che A=A il principio di non identità ontogenetico  e creatore ex nihiloma sarebbe ancora meglio dire ex suo – del Repubblicanesimo Geopolitico afferma che A A≠A A≠A ≠ A≠A A≠A ≠ A≠A≠ A≠A ≠ A≠A↔… ∞↔∞≠∞. Un tipico caso di problema irrisolvibile per un computer, ma forse di non impossibile comprensione per quegli esseri egoistici – anzi molto egoistici ma anche molto dialettici ed intuitivi solo che ci si impegni un po’ – che siamo noi.  

 

[Le successive 12 note e la sezione bibliografica verrano pubblicate nelle prossime quattro tranche del presente saggio.]