CONTRATTI DERIVATI ED ENTI LOCALI, di Giuseppe Angiuli

I contratti derivati sono uno strumento finanziario utilizzato purtroppo sempre più diffusamente dallo Stato e dalle amministrazioni periferiche negli ultimi due decenni. Dietro la parvenza di una assicurazione e l’illusione di poter sfuggire ai vincoli draconiani di spesa e per la verità in parte anche alle necessità di riorganizzazione della spesa e dei servizi si nascondono troppo spesso contratti dalle clausole capestro in grado di pregiudicare ulteriormente l’equilibrio delle finanze pubbliche a vantaggio della finanza speculativa. Qui sotto un commento dell’avvocato Giuseppe Angiuli, uno dei pochi protagonisti di una battaglia giudiziaria e di informazione riguardante la liceità di questi contratti_Giuseppe Germinario

CONTRATTI DERIVATI ED ENTI LOCALI: LE SEZIONI UNITE DELLA CASSAZIONE FISSANO DEI PUNTI FERMI

 

 

Commento a cura dell’avv. Giuseppe Angiuli

Con la sentenza pubblicata il 12 maggio 2020, n. 8770, le sezioni unite civili della Corte di Cassazione si sono espresse sul tema dei contratti derivati stipulati dalle pubbliche amministrazioni con una storica pronuncia che fungerà senza dubbio da spartiacque tra una vecchia fase del dibattito giuridico, contraddistinto da un ricco confronto tra posizioni dottrinali e giurisprudenziali variamente articolate ed una nuova fase in cui tutti gli operatori del diritto dovranno giocoforza uniformarsi ad alcuni principi oggi fissati quali punti fermi dal supremo consesso della giurisprudenza di legittimità.

Tali punti fermi, a ben vedere, non concernono unicamente i contratti di finanza derivata negoziati dagli enti pubblici territoriali giacchè i giudici ermellini, pur essendo stati chiamati a dire l’ultima parola su un contenzioso specificamente connesso all’ambito pubblicistico, hanno colto l’occasione per prendere una posizione finalmente chiarificatrice su alcune tra le questioni di diritto più centrali e decisive per il mondo dei derivati, primo fra tutti il concetto di mark to market (MTM).

La vicenda approdata al vaglio delle sezioni unite riguarda alcuni contratti interest rate swap (IRS) stipulati dal Comune di Cattolica nel periodo compreso tra il 2003 e il 2004, sulla cui legittimità si era pronunciata nella fase di merito la Corte d’Appello di Bologna con sentenza n. 734 del marzo 2014, già commentata su questo sito[1], che aveva accolto le ragioni dell’ente locale, dichiarando la nullità e l’inefficacia dei contratti.

Dopo che il contenzioso era giunto al vaglio della Corte nomofilattica, con ordinanza del 10 gennaio 2019, la I^ sez. civile della Cassazione aveva avvertito la necessità di rimettere gli atti al Primo Presidente per la successiva trasmissione del ricorso alle sezioni unite, essendosi ritenuto necessario dirimere dei contrasti giurisprudenziali che attenevano in buona sostanza ai seguenti punti:

  • se i contratti swap (in particolare quegli swap a cui è connessa l’erogazione di un premio di liquidità a favore del cliente detto up front) costituiscano per l’ente locale una forma di indebitamento funzionale a finanziare spese diverse da quelle di investimento e dunque atta ad eludere il divieto posto dall’art. 119, comma 6, della Costituzione (per la cui violazione è prevista la sanzione della nullità contrattuale ex art. 30, comma 15, della legge n. 289/2002);
  • se per l’approvazione dei contratti swap negli enti locali fosse o meno necessaria l’adozione di una delibera del consiglio comunale, implicando dette operazioni degli impegni di spesa anche per i bilanci degli esercizi successivi e tenuto conto del disposto di cui all’art. 42, comma 2, lett. i), del Testo Unico sugli enti locali (TUEL).

Nella prima parte della sentenza, le sezioni unite si sono intrattenute su una descrizione rigorosa e analitica del contratto derivato interest rate swap, analizzandone alcuni tratti distintivi quali il suo carattere atipico, la mancanza di una sua definizione generale all’interno del nostro ordinamento giuridico, la sua caratteristica di consistere in uno strumento finanziario solitamente negoziato al di fuori dei mercati regolamentati (in inglese: over the counter) e «rispetto al quale l’intermediario è tendenzialmente controparte diretta del proprio cliente».

Con riguardo alla decisiva definizione del concetto di mark to market, i giudici ermellini l’hanno fatta coincidere con «la stima del valore effettivo del contratto ad una certa data», con la contestuale precisazione per cui il MTM sarebbe «tecnicamente un valore e non un prezzo, una grandezza monetaria teorica calcolata per l’ipotesi di cessazione del contratto prima del termine naturale».

Volendo mettere a fuoco la causa dei contratti interest rate swap, i giudici delle sezioni unite hanno preliminarmente escluso che essa possa coincidere con quella della scommessa classica disciplinata dagli articoli 1933 e segg. del codice civile.

Piuttosto, la causa di tali negozi giuridici deve a loro avviso essere individuata «nella negoziazione e nella monetizzazione di un rischio» e affinchè i contratti IRS superino il vaglio del giudizio sulla loro liceità e meritevolezza ai sensi dell’art. 1322 cod. civ. diventa essenziale non solo che la scommessa finanziaria abbia ad oggetto un valore di mark to market indicato secondo criteri matematici univocamente intesi ma occorre altresì che l’accordo contrattuale investa direttamente la misura dell’alea del negozio nel suo senso più ampio, ossia che definisca gli scenari probabilistici sul futuro andamento dei tassi di interesse in connessione alla passività sottostante (mutuo, finanziamento, leasing, ecc.).

Con la sentenza in commento, le sezioni unite della Cassazione hanno mostrato di accreditare come buono quell’orientamento della giurisprudenza di merito che già da qualche anno, a partire da una celebre pronuncia della Corte d’Appello di Milano del settembre 2013 (a suo tempo commentata su questo sito[2]), aveva attribuito un’importanza centrale, al fine di valutare la validità della scommessa finanziaria racchiusa nel contratto di swap, al fatto che tra le parti del contratto fosse stato concluso un accordo attorno ad un’alea razionale e consapevole, senza che peraltro potesse assumere una valenza decisiva, almeno per i clienti privati, la finalità concretamente perseguita dallo strumento finanziario (se speculativa ovvero di copertura del rischio).

Oggi, con la sentenza n. 8770 del 2020, apponendo un imprimatur alla tesi in discorso, la Suprema Corte nomofilattica, nel suo consesso apicale, ha dunque concluso nel senso che, dovendosi sempre accertare la liceità delle operazioni interest rate swap caso per caso, osservandone la struttura concreta, «in mancanza di una adeguata caratterizzazione causale, detto affare sarà connotato da una irresolutezza di fondo che renderà nullo il relativo contratto perché non caratterizzato da un profilo causale chiaro e definito (o definibile)».

Nella seconda parte della sentenza in commento, i giudici delle sezioni unite hanno dapprima ricostruito il quadro normativo che, a partire dall’avvento dell’art. 2, d.m. n. 420 del 1996 (regolamento attuativo dei principi di cui all’ 35, legge n. 724 del 1994, che aveva autorizzato gli enti locali ad emettere prestiti obbligazionari destinati a finanziare investimenti), aveva consentito per un certo periodo agli enti pubblici territoriali di operare nel campo della finanza derivata, inizialmente con dei margini di relativa libertà d’azione, che si sono via via più ristretti man mano che è cresciuta la consapevolezza sui rischi esponenziali che il ricorso a tali strumenti generava per gli equilibri delle finanze pubbliche (come evidenziato in una delle prime circostanze da una pronuncia della Corte Costituzionale del 2010, la n. 52).

La Cassazione ha poi dato atto di come la gran parte delle operazioni di finanza derivata in cui sono rimasti coinvolti i Comuni italiani si sono perfezionate dopo l’avvento dell’articolo 41, legge n. 448 del 2001 (legge finanziaria per il 2002) e prima che intervenissero, nell’ordine, la legge n. 244 del 2007 – che per la prima volta impose agli enti di dichiarare espressamente nei bilanci la loro esposizione in operazioni di finanza derivata – l’art.62, comma 10, d.l. n. 112 del 2008 – che introdusse delle prime forti limitazioni al ricorso ai derivati da parte di regioni ed enti locali – e l’art. 1, comma 572, della legge n. 147 del 2013 – che infine, modificando il prefato articolo 62, vietò stabilmente alle pubbliche amministrazioni la stipula di contratti relativi a strumenti finanziari derivati, fatte salve alcune eccezioni rigorosamente indicate dalla stessa norma.

E poiché la vicenda del Comune di Cattolica oggi sottoposta al vaglio di legittimità della Suprema Corte era maturata nel suddetto quadro normativo antecedente alle prime restrizioni del 2007/2008, ecco che i giudici ermellini hanno avuto occasione di chiarire come anche nel periodo di piena vigenza dell’art. 41, legge n. 448/2001, il potere della P.A. di negoziare strumenti derivati incontrava senza dubbio dei limiti rigorosi attinenti al principio di convenienza economica delle operazioni finanziarie.

Anzi, a detta delle sezioni unite, «i contratti derivati, in quanto aleatori, sarebbero già di per sé non stipulabili dalla P.A., poiché l’aleatorietà costituisce una forte disarmonia nell’ambito delle regole relative alla contabilità pubblica, introducendo delle variabili non compatibili con la certezza degli impegni di spesa».

Al fine di verificare la regolarità di tutti i contratti derivati negoziati dalle pubbliche amministrazioni prima dell’avvento del generale divieto di cui alla legge n. 147 del 2013, occorre dunque verificare prima di tutto che tali contratti contenessero i seguenti elementi indefettibili, attinenti all’oggetto del negozio ex art. 1346 cod. civ.:

  1. un criterio matematico univoco per il calcolo del mark to market;
  2. una concreta misurabilità degli scenari probabilistici sul futuro andamento dei tassi d’interesse alla data di stipula dell’accordo;
  3. una precisa misurabilità dei costi impliciti del contratto.

All’atto di esplicare gli invocati chiarimenti sui due quesiti di diritto posti alla loro attenzione, le sezioni unite hanno sancito che i derivati contenenti una clausola di up front, implicando in sé e per sé una forma di finanziamento per l’ente locale, «costituiscono indebitamento ai fini della normativa di contabilità pubblica e dell’art. 119 Cost.» e che, per tale stessa ragione, la loro approvazione non poteva che implicare sempre e comunque una preventiva deliberazione del consiglio comunale, ai sensi del disposto di cui all’art. 42, comma 2, lett. i), TUEL.

In base all’intervento della Suprema Corte, deve altresì ritenersi che per tutte le operazioni in derivati stipulate dai Comuni italiani negli anni tra il 2002 e il 2013, la competenza inderogabile dei consigli comunali debba essere affermata anche in tutti quei casi di contratti che, pur in assenza dell’erogazione di un iniziale up front, siano stati approvati al fine di estinguere anticipatamente (ovvero di rinegoziare/ristrutturare) delle precedenti situazioni di indebitamento.

Per quanto detto, la sentenza in commento segna un passaggio giurisprudenziale decisivo senz’altro a favore delle ragioni dei numerosi enti pubblici territoriali del nostro Paese, impegnati da anni in una discreta mole di contenzioso giudiziario nei confronti degli istituti bancari.

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Clicca qui per leggere la sentenza in forma integrale

[1] www.derivati.info/la-corte-dappello-di-bologna-annulla-le-operazioni-in-derivati-del-comune-di-cattolica/.

[2] www.derivati.info/per-la-corte-dappello-di-milano-il-derivato-otc-e-una-scommessa-legalmente-autorizzata/#a2

nb http://www.derivati.info/contratti-derivati-ed-enti-locali-le-sezioni-unite-della-cassazione-fissano-dei-punti-fermi/?fbclid=IwAR3fRd4rlJLjrifrA2xVRG7FFgxaM-77fDTC5MpxL5mGh_gNf0QQUtKyvmg#_ftnref2