PIU’ STRATEGIA MENO STRAWMEN, di Andrea Zhok

Parole sagge, da soppesare senza senza fretta_Giuseppe Germinario
PIU’ STRATEGIA MENO STRAWMEN
Cercar di ragionare in un contesto che si percepisce oramai come sempre in guerra contro qualcuno (sarà per la nostalgia di guerre vere?) è come parlare al vento, e tuttavia non ci sono molte alternative all’ottimismo della volontà.
La situazione attuale è quella in cui, invece di discutere nei dettagli della strategia di sviluppo del paese (di cui il confronto con la pandemia è parte), si è preferito creare bersagli fantoccio (il mitico No Vax neofascista, che di fatto copre circa il 5% della popolazione), su cui far sfogare un’opinione pubblica sempre più frustrata (e destinata ad esserlo sempre di più).
Ciò che ci si dovrebbe sforzare di fare, invece, è dimenticare i No Vax, che sono un falso problema, e riflettere seriamente sulle strategie che stiamo adottando.
Proviamo perciò a ripercorrere un breve ragionamento.
1) Tutte le forze e le attenzioni del paese (Italia) sembrano concentrate nella lotta al Covid (tanto che non c’è neanche il tempo di commentare le condizionalità del PNRR, il cui impatto sulle condizioni di vita future sarà enorme, con vincenti e perdenti).
2) Nell’ambito dello sforzo anti-Covid il fuoco è concentrato integralmente, totalmente e senza resti sulla sola Campagna Vaccinale, con i ricatti, le pressioni moralistiche e le demonizzazioni che sono sotto gli occhi di tutti.
3) Così, tutti si riempiono la bocca di scuola, ma niente di strutturale è stato fatto per la scuola, salvo premere sulla campagna vaccinale (ci sono già comunicazioni che contemplano una continuazione della didattica mista, con insegnanti che continueranno a fare lezione con la mascherina). Stessa cosa vale in altri campi decisivi come i trasporti.
4) Sul piano strettamente sanitario abbiamo ancora, dopo quasi due anni, protocolli sanitari anti-Covid che consigliano vigile attesa, tachipirina e un santino di padre Pio. Cure territoriali non pervenute, terapie sintomatiche lasciate alle iniziative del singolo medico (NB: NON è così nella maggior parte degli altri paesi europei).
5) L’intero ‘sforzo bellico’, che ha chiamato a proprio supporto ogni risorsa, dalle istituzioni alla stampa, punta sull’idea della “vaccinazione totale” come meta ideale e come promessa della nuova normalità. L’idea è che la vaccinazione totale bloccherà la trasmissione del virus, arresterà le varianti, metterà al sicuro anche i più fragili.
6) Quanto è plausibile il successo di questo obiettivo? Da tutto ciò che sappiamo si tratta di un obiettivo strutturalmente del tutto irraggiungibile.
Quello che sappiamo infatti è che:
6.1) Il vaccino protegge efficacemente contro le conseguenze patologiche sul corpo del vaccinato, ma il virus continua a contagiare e ad essere trasmesso dai soggetti vaccinati.
In che misura ciò avvenga è oggetto di studio: alcuni studi recenti parlano di un livello di trasmissione indistinguibile da quello dei non vaccinati, altri studi dicono invece che la trasmissione è molto minore. Tutti però ammettono che la trasmissione avviene.
6.2) Trasmissione dei vaccinati a parte, tre quarti del pianeta non ha ancora avuto accesso se non in maniera trascurabile al vaccino (in Africa si viaggia tra il 2 e il 6% della popolazione vaccinata, e, parlando di pesi massimi: in India è vaccinato il 7% della popolazione, in Indonesia il 6,9%, il Australia il 13,6%, in Brasile il 18,4%).
Questo significa, visto che nessuno prende in considerazione un nuovo lockdown con blocco delle frontiere, che il virus continuerà a circolare anche nel nostro paese, anche se avessimo il 100% di vaccinati e anche se i vaccinati non trasmettessero il virus.
6.3) Il vaccino contro il coronavirus NON è come il vaccino contro la poliomielite o contro il vaiolo (per citare esempi peregrini piovuti in questi giorni) per la semplice ragione che gli effetti di quei vaccini sono perenni, mentre questi hanno una scadenza.
Notizie appena arrivate dicono che il vaccino finora rivelatosi più efficace e più usato (Pfizer) inizia a declinare i suoi effetti già dopo 6 mesi (contro i 9 precedentemente previsti).
Allo stato attuale delle conoscenze, invece, l’immunità prodotta dall’infezione si estende oltre i nove mesi (per analogia con affezioni simili si parla di 1-2 anni).
Ora, posto che questo quadro è quello che, allo stato attuale delle conoscenze, abbiamo di fronte, com’è che non si capisce che la strategia della vaccinazione a tappeto (anche a chi ha ancora gli anticorpi per aver superato l’infezione, anche ai giovani e giovanissimi) è una strategia votata alla sconfitta?
Com’è possibile che non salti agli occhi che già a settembre, quando, anche se venisse deciso domani l’obbligo vaccinale assoluto saremo ben lontani dal 100% dei vaccinati, inizieremo ad essere alle prese con la nuova vaccinazione per i primi gruppi di vaccinati, cui si sovrapporrà probabilmente il richiamo della terza dose causata dall’apparente inferiore durata della copertura?
Com’è possibile che non si veda che l’obiettivo ufficialmente dichiarato (blocco della trasmissione del virus, stop alle varianti, messa in sicurezza dei più fragili), per come è stato immaginato. è nato per fallire?
Com’è possibile che non si capisca che una strategia tutta concentrata su una generica vaccinazione a tappeto (tutto molto militare, non c’è che dire), mentre l’intero sistema sanitario resta in difficoltà per l’ordinaria amministrazione, è una strategia votata al fallimento? Una strategia che ci condurrà ad un circolo vizioso di perenni emergenze senza soluzione né costrutto?
O forse lo si capisce benissimo, ed è per questo che si armano le spingarde morali creando il capro espiatorio dei No Vax, cui si imputerà poi un fallimento concepito come inevitabile?
L’unica direzione in cui avrebbe senso muoversi è quella dell’accettazione della realtà, una realtà in cui il virus SARS-CoV-2 rimarrà endemico nella popolazione mondiale, come è avvenuto in passato per l’influenza, e dunque una realtà in cui dobbiamo cercare di proteggere i più fragili (e qui il vaccino è decisivo), di attutire gli effetti del virus in chi si ammala, e di consentire agli organismi sani di elaborare le proprie difese.
Solo così ne usciremo.
La strada che abbiamo preso conduce ad un percorso dove ci dobbiamo attendere di passare da emergenza in emergenza, consegnando agli esecutivi poteri da stato di guerra, e distraendo l’opinione pubblica da tutto ciò che forgerà davvero il nostro futuro.
Vogliamo questo?
Chi lo vuole?
SULLA LETTERA DI CACCIARI E AGAMBEN
La lettera aperta congiunta di Massimo Cacciari e Giorgio Agamben sul Green Pass (vedi testo nei commenti) ha ricevuto, come prevedibile, un’accoglienza esplosiva. Uno dopo l’altro si sono attivate sulla stampa una serie di firme, più o meno note, per spiegare:
che “le discriminazioni sono ben altre” (Di Cesare, Repubblica),
che “la vita non viene forse prima della democrazia, non viene forse prima di tutto?” (D’Alessandro, Huffingtonpost),
che “il green pass è come la patente o il porto d’armi, che nessuno contesta” (Flores D’Arcais, MicroMega),
che “Cacciari e Agamben non hanno le competenze, lascino fare a chi le ha” (Gramellini, Corriere), ecc. ecc.
Ora, personalmente non credo di essere stato una volta in vita mia d’accordo con Agamben, e dunque ero restio finanche a leggere la lettera, però a fronte di tale qualificata batteria di fucilieri non ho potuto esimermi.
Ciò che ho trovato, e che nel mio piccolo voglio brevemente commentare, è un testo con molti difetti, ma certamente non liquidabile con gli argomenti che ho visto in giro.
Il testo, comparso sul sito dell’Istituto italiano per gli studi filosofici, presenta un’argomentazione molto breve, con un difetto strutturale: essa parte come un argomento “di principio” e “di valore simbolico” circa la minaccia alla vita democratica, prosegue con considerazioni di ordine pragmatico sullo stato della sicurezza dei vaccini e sulla mancanza di una prospettiva (“Dovremo dunque stare col pass fino a quando?), e chiude di nuovo su note di principio.
Per finalità di impatto giornalistico questa forma argomentativa è forse ottimale, proprio perché tocca vari tasti dolenti in poche righe, però in termini filosofici è abbastanza insoddisfacente, per la poca chiarezza dei nessi tra le parti.
Se ci si vuole concentrare sui dettagli si possono trovare diversi punti emendabili, ma credo che in generale sia meglio operare la critica, se critica dev’essere, dopo aver tentato una lettura ‘caritatevole’, che si sforzi di capire la sostanza.
(In ogni caso, trovo insopportabile quel tipo di critica che si limita alle battute benpensanti condite di sufficienza, alle alzate di sopracciglia complici, come se si fosse di fronte a giudizi già pacifici “tra noi alfieri del bene”.)
Quanto all’incipit “di principio” della lettera, diffido sempre di quella tipologia di argomenti, di cui Agamben è un esimio rappresentante, che volano alti, iperborei, su questioni di principio, pensando di poter applicare principi generalissimi alla realtà concreta senza incardinarli nella realtà. Questo tipo di argomenti ha un’elevata tendenza a creare una “isteria simbolica” (i cui esiti troviamo ben rappresentati nelle odierne istanze del ‘politicamente corretto’).
Non credo che nessun argomento in generale che ipostatizzi “la libertà”, “la democrazia”, “i diritti umani”, ecc. sia credibile se non si preoccupa dei dettagli dell’applicazione in contesto. Non esiste da nessuna parte, per dire, la “libertà” in sé e per sé, disincarnata, da preservare da ogni offesa.
Nella lettera questo passaggio applicativo, questa discesa nel concreto non è particolarmente chiara. Essa si intravede solo nel passaggio in cui i due osservano il rischio che “il vaccino si trasformi in una sorta di simbolo politico-religioso.”
Qui credo si sia nei pressi di un punto cruciale, la cui spiegazione nella lettera mi pare oscura, e che provo perciò a spiegare a mia volta come segue.
Il Green Pass non rappresenta un problema per la sua natura intrinseca di limitazione sanitaria ad alcuni gruppi.
Di principio questo tipo di soluzioni possono essere accettabili, se la situazione lo richiede, nella misura in cui lo richiede.
Il problema è qui rappresentato invece da un dissidio tra una situazione reale che non mostra particolari criticità, nonostante la comparsa della variante delta, e una pressione propagandistica e moralistica terrificante da parte dell’intero establishment, che si lancia in una predica battente sulla doverosità di vaccinarsi-e-far-vaccinare chiunque e comunque.
Questa “moralistic suasion”, proprio perché alimentata dal 100% dei media e dal 90% della classe politica di governo, ha un impatto spaventoso sull’opinione pubblica.
Dopo aver costruito una categoria di soggetti non vaccinati (o magari vaccinati, ma dubbiosi) come No Vax subumani, dopo averli dipinti come traditori della patria nello sforzo bellico contro il virus, dopo aver etichettato i dubbiosi come portatori di morte, i frutti nell’opinione pubblica non tardano ad essere raccolti.
Questi toni di moralismo apocalittico sono alla base di una scarica di odio virulento che si percepisce sui social media ogni giorno, dove trovi l’infermiera che minaccia di farla pagare ai pazienti non vaccinati, il virologo che parla dei non vaccinati come sorci da cacciare, gli auguri del medico agli stessi di avere un lutto in famiglia, e poi l’infinita serie scomposta di figuri che augurano malattia e morte.
Ecco, se vediamo la questione del Green Pass non nel suo generale ‘significato simbolico’, ma nella concretezza del modo in cui lo si sta applicando qui ed ora, c’è davvero da preoccuparsi.
Quando il potere costituito scatena le sue forze in campagne moralistiche ed aggressive contro una parte della popolazione che sta agendo nel rispetto della legge, e che sta esercitando la propria legittima libertà (e magari anche con buone ragioni), qui siamo arrivati ad una soglia davvero pericolosa.
Il fatto stesso che il Green Pass sia stato concepito dall’inizio come un modo di ottenere in modo obliquo una sorta di obbligo vaccinale, senza assumersene la responsabilità, ha spinto a premere sul tasto morale, e così facendo ha creato una classe di cittadini che pur legalmente tollerati sono giudicati come ‘impuri’, e su cui è legittimo, anzi consigliato, esercitare il proprio disprezzo. Qui, proprio qui, gli esempi storici delle peggiori autocrazie del ventesimo secolo dovrebbero averci insegnato qualcosa.
La strada che sarebbe stata da prendere, ma che il governo si è dimostrato incapace di prendere, è quella di una valutazione calibrata dei mezzi e dei fini, senza ergersi a giudice morale.
In una valutazione mirata della proporzionalità dei mezzi ai fini ogni immagine bellica di “distruzione del virus”, ed ogni suggestione irenica di “salvare ogni vita” dovevano essere lasciate da parte. Non saremo mai – allo stato delle conoscenze – nelle condizioni di eradicare il virus a colpi di vaccinazione, e non saremo mai nelle condizioni di salvare ogni vita, di ogni individuo.
Porsi obiettivi impossibili è pericoloso perché legittima la richiesta di uno sforzo infinito (e questa è sì un’istanza autoritaria), e crea le condizioni per una frustrazione infinita (con conseguente rabbia crescente).
Esigere il Green Pass da teenager per andare in palestra, o dallo spettatore di un concerto all’aperto, o dall’elettorato passivo per candidarsi, ecc. sono tecnicamente degli abusi, perché iniziative prive di motivazioni sanitarie credibili.
Sono prive di motivazioni sanitarie credibili perché ci sono già tutte le condizioni perché quegli atti non inneschino alcuna crisi sanitaria.
D’altro canto il carattere di abuso arbitrario è ribadito dal fatto che simultaneamente un anziano frequentatore di una chiesa o del parlamento ne sono esentati.
Tutto ciò serve solo a creare una situazione che invece di giocare con le carte democratiche dell’argomento, del pluralismo, della buona informazione, sceglie la scorciatoia autoritaria della propaganda, della distorsione, della demonizzazione.
Post Scriptum.
Siccome non sono mancati tra i critici della lettera alcuni che hanno sollevato obiezioni a un punto che anch’io sostengo da tempo, e che ha un rilievo nella valutazione costi-benefici, ovvero il fatto che gli attuali vaccini anti-Covid hanno ancora un carattere sperimentale, credo sia opportuno riportare per intero in coda un passaggio di un contratto di fornitura Pfizer (l’unico contratto che finora abbia rotto il muro della pubblica secretazione).
<<5.5 Purchaser Acknowledgement.
Purchaser acknowledges that the Vaccine and materials related to the Vaccine, and their components and constituent materials are being rapidly developed due to the emergency circumstances of the COVID-19 pandemic and will continue to be studied after provision of the Vaccine to Purchaser under this Agreement. Purchaser further acknowledges that the long-term effects and efficacy of the Vaccine are not currently known and that there may be adverse effects of the Vaccine that are not currently known.>>
(<<L’acquirente riconosce che il vaccino e i materiali relativi al vaccino e i loro componenti e materiali costitutivi vengono sviluppati rapidamente a causa delle circostanze di emergenza della pandemia di COVID-19 e continueranno a essere studiati dopo la fornitura del vaccino all’acquirente ai sensi del presente accordo. L’acquirente riconosce inoltre che gli effetti a lungo termine e l’efficacia del vaccino non sono attualmente noti e che potrebbero esserci effetti negativi del vaccino che non sono attualmente noti.>>)
DALLA DEMOCRAZIA ALLA TECNOCRAZIA IN DUE PASSAGGI
In un thread avente per oggetto la definizione di No Vax, un mio contatto, giornalista di sinistra – che non nomino, ma che può ovviamente intervenire se lo desidera – ad un certo punto arriva a replicare in questo modo:
“fammi capire, tu filosofo, possiedi dati, li leggi e presumi dall’alto di tutto ciò di decidere in contrasto con quanto stabilito dalla scienza medica e virologica. Tu. Filosofo. Capisci che siamo sull’orlo del baratro, no…”
Ecco, credo che questa breve frase compendi in sé tutta l’involuzione avvenuta nell’intellighentsia di sinistra nell’ultimo mezzo secolo, e meriti una riflessione dedicata.
(Disclaimer: me la prendo con l’intellighentsia di sinistra mica perché quella di destra sia meglio; è solo per la necessità di distanziarsi dalle origini).
In quella frasetta sono all’opera due meccanismi argomentativi sovrapposti.
1) Il primo è una manovra nota di sottrazione del discorso pubblico alla ragione comune.
La sua forma è “chi sei tu per…?”
Di solito viene usata per un’operazione di frammentazione progressiva del discorso pubblico, ridotto ad opinioni su base individuale.
Questo soggettivismo individualistico è stato al centro della prima fase, ‘anarchica’ della ‘nuova sinistra’ post ’68.
2) Ma subito dopo emerge il secondo passo.
Siccome la scomposizione individualistica del discorso pubblico conduce ad esiti realmente anarchici (esiti auspicati da quella generazione politica, salvo poi ritrarsi spaventati dagli effetti), allora si presenta la necessità di una nuova operazione di contenimento del disordine.
Si ricrea perciò una nuova dimensione dell’autorità della ragione, ma non più su base collettiva, come discorso pubblico, ma come “specializzazione dei competenti”.
(“Democrazia è fidarsi di chi sa” diceva qualche giorno fa un ineffabile intellettuale progressista sulle pagine del Corriere.)
Con la seconda mossa non basta più nessun livello di formazione o cultura per occuparsi della cosa pubblica, per quanto alto.
Tu puoi anche studiare per professione e dedicarvi tutta la vita, ma non basta, non può mai bastare.
Devi affidarti a quanto stabilito dalla “scienza” nello specifico campo di pertinenza.
E naturalmente, non vale qualunque fonte scientifica, perché questo sarebbe di nuovo un ritorno all'”interpretazione autonoma delle fonti”, che non hai titolo a fare.
No, si tratta di affidarsi alla voce della scienza in quanto selezionata a monte da “chi sa” (tipo i conduttori dei Talk Show).
E a giudicare se “sa” e cosa “sa” il selezionatore saranno altri che “sanno”. E più non dimandare.
(E’ buffo come tutto ciò ricordi la Controriforma tridentina, quando l’interpretazione autonoma dei Testi Sacri promossa dal protestantesimo venne vietata, conferendo l’autorità della sola vera interpretazione alle gerarchie ecclesiastiche. Ma almeno quella volta si sapeva dove stava il vertice della piramide, ora invisibile.)
Ed è così che si arriva a soluzioni come il governo dei Monti o dei Draghi.
Già, perché esattamente come non hai titolo a ragionare della politica vaccinale se non hai una laurea in medicina, così chi sei tu per giudicare una politica economica?
Sei forse un economista bollinato?
No? E allora taci e fidati di chi sa, per Dio!
Ecco.
Questa in breve è la parabola della democrazia come prodotta dai liberali di sinistra nell’ultimo mezzo secolo.
Prima si è frammentata la società in individui privi di parametri in comune (“La razionalità come violenza” – ricordo ancora queste scemenze brandite senza pudore nei miei anni di università).
Secondo, per contenere il caos della frammentazione si sostituisce la democrazia con una tecnocrazia di nominati, giustificati a imporre qualunque cosa al gregge anarchico degli individui, nel nome del Sapere.
NB_ Tratti da Facebook

TARDE BRICIOLE DI CONSAPEVOLEZZA, di Andrea Zhok

TARDE BRICIOLE DI CONSAPEVOLEZZA
In giovane età s’ha bisogno di certezze, saldi segnavia che ci permettano di orientarci. Perciò passiamo tutti attraverso una fase “faziosa”, in cui assumiamo che quelli del gruppo ideale X, i “nostri” abbiano sempre caratteristiche positive, argomenti validi, ottime ragioni, sensibilità adeguate, senso della realtà, mentre gli “altri”, appartenenti al gruppo ideale Y, presentano incorreggibili tratti negativi, barbarici, irragionevoli, insensibili, fondamentalmente abietti.
Abbastanza presto, con l’età adulta, alcuni fanno spazio ad un qualche grado di tolleranza, ammettendo che non tutto il male è negli “altri”, non tutto il bene è nei “nostri”.
Questo livello critico è di solito il livello più avanzato cui pervengono i più spiritualmente accorti, e il suo raggiungimento ci fa ritenere di aver ottenuto in qualche modo una sorta di saggezza, di maturità, di equilibrio.
E poi, e poi, alcuni, carchi d’anni e di delusioni onusti, pervengono ad un’ulteriore, amara, Illuminazione.
Lì, davanti agli occhi sta la verità, quella verità che non si avrebbe mai voluto vedere, quella verità che, forse, a saperla troppo presto ci avrebbe storpiato moralmente, e che tuttavia ora ci guarda in faccia.
E la verità è che i buoni e i cattivi, i ragionevoli e gli irragionevoli, i sensibili e gli insensibili, i cretini e gli intelligenti, i colti e gli ignoranti, i coraggiosi e i codardi, i magnanimi e i meschini sono distribuiti in maniera ASSOLUTAMENTE EQUANIME rispetto ad ogni credenza, ad ogni ideologia, ad ogni bandiera.
Tra quelli che perorano ideologie eroiche è zeppo di vigliacchi, tra quelli che proclamano l’amore per il prossimo è pieno di cinici, tra gli alfieri del pacifismo è pieno di soverchiatori prepotenti, tra i cavalieri dell’ideale ci sono secchiate di meschini, tra i veneratori della ragione ci sono legioni di dogmatici, tra i fedeli timorati di Dio brulica la hybris individualistica, ecc.
E peraltro di buono c’è che anche le qualità sono distribuite in maniera inaspettatamente equanime.
(Con una singola eccezione: quei liberali che rivendicano orgogliosamente di perseguire il proprio interesse e basta, perché è giusto così – fiat avaritia, pereat mundus – sono esattamente e solamente le nullità morali che sembrano essere.)
Molti sono disposti a fare un tratto di percorso in questa direzione, ammettendo che sì, forse dobbiamo aggiustare le nostre aspettative, forse dobbiamo ammettere che le spazio delle virtù e dei vizi è più variegato di quanto ci aspettavamo; ma dubito che molti siano disposti ad accettare il bruto fatto sociale che le credenze manifeste, le idee proclamate, la bandiere brandite non hanno nessuna, assolutamente nessuna capacità predittiva delle qualità umane di chi le impalma.
Tutti noi continuiamo ad essere propensi ad aprire credito ad alcune bandiere e ad avere deplorevoli aspettative verso altre. Si tratta probabilmente di una reazione primitiva, di un remoto istinto del gregge, che, in un mondo dove non ci sono praticamente più appartenenze su base materiale (fisica, territoriale, biologica, ecc.) ha bisogno di aggrapparsi all’idea che comunque tra “noi” e “loro” ci debba essere una differenza in qualche modo fondamentale.
Invece no.
Le differenze, qualitativamente enormi, abissali, antropologicamente incolmabili, ci sono naturalmente, ma ci sono tra alcuni di “noi” e alcuni di “loro”, tra alcuni di “noi” e altri tra “noi”, tra alcuni ed altri dei “loro”.
Per chi – come i filosofi – fa del traffico delle idee il proprio commercio d’elezione, questa è un’intuizione amarissima, una delusione profonda.
Eppure è qualcosa che abbiamo tutti verificato mille volte, vergognandoci di apparenti “alleati nelle idee”, la cui sola esistenza suonava come una confutazione in vivo di quelle stesse idee.
Ma il punto delle idee non può essere il loro possesso finale, non lo è mai stato, quasi fossero monete da ritirare dalla circolazione e mettere sotto il materasso una volta per tutte.
Il punto del commercio delle idee è sempre stato solo il loro uso, la loro pratica, il loro esercizio: esse sono come la proverbiale scala di Wittgenstein, che una volta saliti dove l’aria è più tersa e la vista più ampia può tranquillamente essere lasciata cadere.

UN PO’ DI PROSPETTIVA STORICA, di Andrea Zhok

Qui sotto alcune interessanti considerazioni di Andrea Zhok. Non parlerei di libertà di coltivazione, preservazione e sviluppo del patrimonio culturale, quanto piuttosto del fatto che la battaglia politica nell’ambito culturale almeno sino ad ora prevede dinamiche molto più sofisticate e indirette laddove la coercizione, insita nel politico, è molto più mediata dalla capacità egemonica, persuasiva e discorsiva. Richiede tempi più lunghi ed offre spazi più agibili anche esterni alle istituzioni preposte. Ritengo anzi che gli spazi esterni, con risorse umane (ancora esistenti) e finanziarie (teoricamente disponibili, ma non significativamente fruibili per la cecità e la pochezza dei detentori) appropriate, siano la strada più praticabile viste le dinamiche e le incrostazioni di potere che stanno asfissiando le istituzioni preposte, a cominciare dalle università. Il fiorire di blog e siti, pur nella spazzatura dominante, sono comunque il segno di questa vitalità e fragilità. La battaglia culturale è certamente fondamentale per consentire indipendenza e fondatezza di giudizio in qualsiasi condizione politica, anche la più asservita; è quindi la premessa di un possibile “risorgimento”. Personalmente ritengo che si dovrebbe fare qualche sforzo in più per individuare realisticamente gli spazi e le opportunità nella cornice prospettata con lucidità dal post di Andrea Zhok, superando il dozzinale “anti” e “pro” che caratterizza le fazioni diversamente impegnate nelle tenzoni. Sia in ambito europeo, che nel Mediterraneo questi si sono aperti esplicitamente e anche se con crescenti difficoltà se ne apriranno ancora perchè si stanno ridefinendo le aree di influenza e le modalità di gestione interna di esse. Una qualsiasi forza egemonica e imperiale non riesce a gestire direttamente paesi anche più piccoli e meno complessi dell’Italia; devono agire nelle contraddizioni, nelle rappresentazioni e negli interessi locali e appoggiarsi alle realtà politiche in loco. Sta a queste cercare di preservare margini di autonomia e controllo operativo e su questo si può condurre quantomeno un’azione di smascheramento e delegittimazione del nostro ceto politico e di gran parte della classe dirigente. Vale nell’ambito del controllo delle leve con l’obbiettivo di contrastare i progressivi processi di integrazione operativa subordinata in ambito militare, di ordine pubblico e diplomatico; vale nell’economia, nella ricerca scientifica, nelle applicazioni tecnologiche e nella formazione delle piattaforme industriali. Sembrano ambiti estranei e avulsi dalla logica del conflitto sociale e della “lotta di classe”; in realtà è da quelle dinamiche che dipendono la formazione di ceti medi forti, dinamici e funzionali, di blocchi e formazioni sociali coese nonché la difesa realistica e la collocazione proficua degli interessi degli strati più popolari. Il confronto culturale è certamente essenziale; ma di aspra battaglia politica comunque si tratta. Quanto al “junk” culturale americano, esiste sicuramente negli Stati Uniti e sta ammorbando e debilitando quel paese. Ma non c’è solo quello, fortunatamente per loro; hanno ancora carte da giocare. E’ da noi che arriva e ci viene filtrato quasi esclusivamente quello con zelante accondiscendenza. Buona lettura_Giuseppe Germinario
tratto da facebook.
UN PO’ DI PROSPETTIVA STORICA, di Andrea Zhok
Qualche giorno fa ho letto sulla rivista Limes alcune considerazioni scritte in forma anonima da un ufficiale americano in congedo. Nulla di davvero nuovo, né sconvolgente, solo un promemoria della situazione reale dell’Italia in rapporto agli USA.
<<“Che cosa abbiamo? Il controllo militare e di intelligence del territorio, in forma pressoché totale. E quel grado, non eccessivo, di influenza sul potere politico -soprattutto sui poteri informali ma fondamentali che gestiscono di fatto il paese. Quello che voi italiani ci avete consegnato nel 1945 -a proposito, se qualcuno di voi mi spiegasse perché ci dichiaraste guerra, gliene sarei davvero grato- e che non potremmo, nemmeno volendolo, restituirvi. Se non perdendo la terza guerra mondiale.
In concreto -e vengo, penso, a quella «geopolitica» di cui parlate mentre noi la facciamo- dell’Italia ci interessano tre cose. La posizione (quindi le basi), il papa (quindi l’universale potenza spirituale, e qui forse come cattolico e correligionario del papa emerito sono un poco di parte) e il mito di Roma, che tanto influì sui nostri padri fondatori.
La posizione. Siete un gigantesco molo piantato in mezzo al Mediterraneo. Sul fronte adriatico, eravate (e un po’ restate, perché quelli non muoiono mai) bastione contro la minaccia russa, oggi soprattutto cinese. Ma come vi può essere saltato in mente di offrire ai cinesi il porto di Trieste? Chiedo scusa, ma avete dimenticato che quello scalo di Vienna su cui i rossi di Tito stavano per mettere le mani ve lo abbiamo restituito noi, nel 1954? E non avete la pazienza di studiare il collegamento ferroviario e stradale fra Vicenza (e Aviano) e Trieste -ai tempi miei faceva abbastanza schifo, ma non importa- che fa di quel porto uno scalo militare, all’intersezione meridionale dell’estrema linea difensiva Baltico-Adriatico? E forse dimenticate che una delle più grandi piattaforme di comunicazioni, cioè di intelligence, fuori del territorio nazionale l’abbiamo in Sicilia, a Niscemi, presso lo Stretto che separa Africa ed Europa, da cui passano le rotte fra Atlantico e Indo- Pacifico?”.>>
Il testo prosegue in modo interessante, ma siccome non sono qui intenzionato a sviluppare un discorso di natura geopolitica, per quel che voglio dire, basta così.
Parto da queste valutazioni, che sono un semplice realistico bagno di realtà, per fare alcune considerazioni generali sulla condizione storica dell’Italia.
Il dato di partenza, ben illustrato nel passaggio succitato, è che l’Italia non è in nessun modo valutabile come un paese politicamente sovrano.
Siamo un protettorato USA, cui è stato concesso di acquisire una seconda forma di dipendenza, economica, nei confronti della Germania, nella cornice UE. Questo è quanto.
Siamo dunque poco più di un’espressione geografica, come diceva Metternich, la cui politica ha minimi margini di gioco.
Siamo lontani dagli anni in cui vedevamo le dirette ingerenze dei “servizi segreti deviati” nella politica italiana (“strategia della tensione”), ma ne siamo lontani semplicemente perché ciò che spontaneamente si agita nella politica italiana è già totalmente asservito, e non richiede una manipolazione troppo robusta.
Facciamo una politica estera che ci viene dettata nei dettagli dagli USA, abbaiando obbedienti ai loro avversari.
Facciamo una politica interna innocua e perfettamente inconcludente, e una politica economica apprezzata dagli USA (e che coincide con il gradimento degli ordoliberisti tedeschi.)
Questa è la situazione e, come dice correttamente l’ufficiale, non cambierà fino alla terza guerra mondiale (o fino ad un cataclisma di pari portata).
I margini reali della nostra politica sono quelli che passano tra l’essere un paese nel gruppo di coda nella cornice ordoliberista europea e l’essere un paese nel gruppo di testa, nella stessa cornice. Possiamo cioè migliorare un po’ le condizioni di vita di alcuni gruppi, nel quadro economico dato.
Non è un obiettivo insignificante, può essere meritevole di impegno, ma segnala chiaramente i confini di una politica nazionale che vive nella boccia dei pesci rossi tenuta sul comodino dagli USA.
Non è in discussione la cornice di sistema economico, così come non è in discussione nulla che riguardi la politica estera.
Per quelli che si riempiono la bocca di ‘libertà’ è utile capire che la libertà che abbiamo è quella che il guardiano del carcere concede ai detenuti modello.
In questo contesto, c’è qualcosa che possiamo fare? C’è un ruolo che possiamo giocare senza che sia già pregiudicato?
Direi che rimane soltanto un autentico spiraglio di libertà positiva. E’ lo spiraglio, per rifarci ad un modello classico – e inarrivabile -, che aveva la Grecia antica rispetto alla strapotenza romana: non abbiamo margini per muovere foglia sul piano della politica sovrana, ma potenzialmente avremmo qualcosa da dire come ‘potenza culturale’.
Lo so che siamo troppo occupati, grazie ai nostri media, a piangerci addosso per non essere abbastanza simili al padrone americano.
Lo so che tutto ciò che viene promosso come esemplarità da perseguire dal nostro apparato informativo non travalica i limiti di un’emulazione goffa del modello americano.
Non paga del colonialismo materiale, economico e politico una parte significativa delle classi dirigenti del nostro paese, incardinata nel sistema mediatico, cerca h24 di ridurre l’Italia anche ad una colonia culturale.
Ciò avviene in mille modi, dall’adozione di modelli formativi di ispirazione americana, all’assorbimento passivo illimitato della filmografia americana (e dei suoi temi, che siamo indotti a immaginare siano i nostri), alla resa incondizionata a tonnellate di imprestiti linguistici da parvenu (ci muoveremo grazie al Green pass, canteremo le lodi del Recovery fund, che ci permetterà di ribadire il Jobs act, dopo essere finalmente usciti dal Lockdown, in attesa che vadano al governo quelli della Flat tax al posto di quelli del Gender fluid, e ci dedicheremo allo Smart working, rivitalizzando i settori del Food e del Wedding, mentre lotteremo impavidi contro le Fake news.)
Fortunatamente, nonostante tutti i tentativi di distruzione, le tradizioni culturali hanno una natura coriacea, un’inerzia che tende a permanere nonostante le attività di boicottaggio costante.
E così, nonostante la distruzione sistematica di scuola e università sul piano istituzionale, una tradizione di formazione mediamente decente, a volte brillante, continua a persistere.
E così, nonostante la demolizione a colpi di squallore american-style della cultura musicale, in quello che un tempo era considerato il paese musicale per eccellenza, rimangono buone tradizioni di formazione e continuiamo a produrre musicisti di rango.
E così, nonostante i tentativi di devastare la cultura enogastronomica più ricca del mondo a colpi di bollinature UE e promozioni McDonald’s, rimane un’ampia cultura diffusa della buona alimentazione.
Ecc. ecc.
Il punto di fondo credo sia il seguente.
Nel medio-lungo periodo l’unico vero patrimonio che, come italiani, siamo nelle condizioni di coltivare, preservare e sviluppare liberamente è quello culturale.
Abbiamo ereditato una delle dieci tradizioni culturali più ricche, durature e molteplici del mondo.
E se non cediamo su tutta la linea a quelle élite cosmopolite, mediaticamente sovrarappresentate, ma culturalmente straccione che ambientano i loro sogni a Central Park e nella Baia di San Francisco, se non molliamo completamente il colpo, può darsi che la storia ci riservi ancora un ruolo che non sia quello di un villaggio turistico coloniale.
commenti

Giovanni Greco

Concordo, ma aggiungerei anche il patrimonio tecnologico potenziale del Nostro paese, che, nel suo “piccolo” ( ma neanche tanto…), riesce ad esprimere l’eccellenza, quando non la si svende al privato o all’estero.

Giuseppe Germinario

Non parlerei di libertà di coltivazione, preservazione e sviluppo del patrimonio culturale, quanto piuttosto del fatto che la battaglia politica nell’ambito culturale almeno sino ad ora prevede dinamiche molto più sofisticate e indirette laddove la coercizione, insita nel politico, è molto più mediata dalla capacità egemonica, persuasiva e discorsiva. Richiede tempi più lunghi ed offre spazi più agibili anche esterni alle istituzioni preposte. Ritengo anzi che gli spazi esterni, con risorse umane (ancora esistenti) e finanziarie (teoricamente disponibili, ma non significativamente fruibili per la cecità e la pochezza dei detentori) appropriate, siano la strada più praticabile viste le dinamiche e le incrostazioni di potere che stanno asfissiando le istituzioni preposte, a cominciare dalle università. Il fiorire di blog e siti, pur nella spazzatura dominante, sono comunque il segno di questa vitalità e fragilità. La battaglia culturale è certamente fondamentale per consentire indipendenza e fondatezza di giudizio in qualsiasi condizione politica, anche la più asservita; è quindi la premessa di un possibile “risorgimento”. Personalmente ritengo che si dovrebbe fare qualche sforzo in più per individuare realisticamente gli spazi e le opportunità nella cornice prospettata con lucidità dal post di Andrea Zhok, superando il dozzinale “anti” e “pro” che caratterizza le fazioni diversamente impegnate nelle tenzoni. Sia in ambito europeo, che nel Mediterraneo questi si sono aperti esplicitamente e anche se con crescenti difficoltà se ne apriranno ancora perchè si stanno ridefinendo le aree di influenza e le modalità di gestione interna di esse. Una qualsiasi forza egemonica e imperiale non riesce a gestire direttamente paesi anche più piccoli e meno complessi dell’Italia; devono agire nelle contraddizioni, nelle rappresentazioni e negli interessi locali e appoggiarsi alle realtà politiche in loco. Sta a queste cercare di preservare margini di autonomia e controllo operativo e su questo si può condurre quantomeno un’azione di smascheramento e delegittimazione del nostro ceto politico e di gran parte della classe dirigente. Vale nell’ambito del controllo delle leve con l’obbiettivo di contrastare i progressivi processi di integrazione operativa subordinata in ambito militare, di ordine pubblico e diplomatico; vale nell’economia, nella ricerca scientifica, nelle applicazioni tecnologiche e nella formazione delle piattaforme industriali. Sembrano ambiti estranei e avulsi dalla logica del conflitto sociale e della “lotta di classe”; in realtà è da quelle dinamiche che dipendono la formazione di ceti medi forti, dinamici e funzionali, di blocchi e formazioni sociali coese nonché la difesa realistica e la collocazione proficua degli interessi degli strati più popolari. Il confronto culturale è certamente essenziale; ma di aspra battaglia politica comunque si tratta. Quanto al “junk” culturale americano, esiste sicuramente negli Stati Uniti e sta ammorbando e debilitando quel paese. Ma non c’è solo quello, fortunatamente per loro; hanno ancora carte da giocare. E’ da noi che arriva e ci viene filtrato quasi esclusivamente quello con zelante accondiscendenza.

Luigi Giordano

I media, maledetti media, fanno la differenza. Seguono l’ordine del giorno deciso dalle élite, ovvero i loro padroni.

Roberto Buffagni

Concordo, è il “calati juncu ca passa la china” che ci permise di sopravvivere, come realtà culturale, nella lunga notte politica di Seicento e Settecento. Oggi fa più buio e ci sono meno luci ma la ricetta più o meno è quella. Ci sarebbe stato uno spiraglio di finestra di opportunità con la presidenza Trump, se Trump non fosse stato Trump e se i sovranisti italiani e non solo non fossero stati i sovranisti italiani e non solo, ma la finestra si è chiusa e qualcuno ci ha anche lasciato le dita in mezzo.

Stefano Vezzoli

Una persona maliziosa, un critico, vedrebbe in questo suo scritto un elogio, come unica speranza politica, della resilienza tanto bistrattata. Resilienza che lei stesso ha criticato riferendosi al discorso di Draghi.
Ora, come rispondere a questa critica? Dove passa e quanto è sottile il confine tra resilienza passiva e resistenza attiva? E trovato questo confine, che si mantiene in forma istintiva (individuale), come renderlo poi esplicito, politico, militante, per tradurlo in azione di “riconquista” (comunitaria)?
Forse la differenza tra resilienza e resistenza è dunque che la prima è individuale, atomizzata, non guidata all’azione politica, umorale; mentre la seconda è collettiva, sociale, indirizzata politicamente, romantica?

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Autore

Andrea Zhok

Stefano Vezzoli Mi sono astenuto attentamente dall’usare il termine resilienza, per quanto fosse qui appropriato. Ad ogni modo non ho mai detto che la resilienza sia una qualità cattiva (così come quando ho criticato la retorica dell’eccellenza non ho mai pensato che mirare ad eccellere sia di per sé male); quello che ho detto è che la resilienza su base individuale propagandata (prescritta) dal neoliberalismo altro non è che l’accettazione di prendere bastonate, contando sul fatto che poi ci si rialzerà. La resilienza culturale di un paese non è una scelta, è una qualità intrinseca: descrittiva, non prescrittiva.

Raul Catalano

Condivido molto di questo scritto ma, utopia per utopia, credo che la possibilità di sganciarsi (almeno un poco) da questo destino di totale omologazione e sudditanza ormai possa passare solo da un aumento della forza contrattuale europea nel suo complesso, sia perché il discorso potrebbe applicarsi benissimo alla maggior parte degli altri paesi europei (UK esclusa, ovviamente, e infatti …) ma soprattutto perché senza una sufficiente “massa critica” le probabilità di resistere alla attrazione economico/culturale/militare del gigante morente americano e della Cina pigliatutto sono prossime allo zero. Con tutto ciò di male che posso pensare della Europa a trazione tedesca, abbiamo più in comune con loro che con la volgarità e la superficialità americana. Sappiamo benissimo che qualsiasi singolo tentativo di vera autonomia rispetto agli interessi geopolitici americani verrebbe schiacciata, con le buone e con le cattive.

Dario Grison

Raul Catalano sì però non è solo l’Italia ad essere uscita sconfitta nel 45, ma l’Europa continentale intera. Ricordo una brillante sintesi di Caracciolo: agli USA interessa un’Europa abbastanza forte da non dover intervenire, ma sufficientemente debole da non costituire una concorrente

Alessandro Bruno

Negli anni 80 però, ci furono coraggiosi e notevoli tentativi di distaccarsi dal dominio atlantista. E ogni tanto, qualcuno è riuscito anche a svincolarsi negli ultimi vent’anni. (Per esempio, D’Alema in Libano 2006) o perfino Berlusconi con la Libia …

Altro…

Alessandro Leonardi

Considerate la varie traiettorie del Sistema globale nei prossimi due/tre decenni, fra multiple crisi, salti tecnologici, disperati tentativi di rivitalizzare la “crescita occidentale” e tensioni strutturali alle stelle, la mia generazione (i Millenial) e quelle successive potrebbero vedere per la prima volta l’Italia in una forma drasticamente diversa rispetto allo status quo messo in piedi dal 1945. Probabilmente fuori dall’orbita di questa o quella Potenza. Non è ancora il momento, siamo ancora distanti, ma nei prossimi 20/30 anni potrebbe succedere di tutto, data la velocità stessa del modello globale e le sue crisi interne. Sinceramente non credo che le istituzioni repubblicane reggeranno in codesta forma, in caso di violenti scossoni esterni. L’Italia è un bel vecchio museo aggrappato al treno planetario e quindi il suo destino è legato ad esso. Nel bene e nel male.
Autore

Andrea Zhok

Alessandro Leonardi Se è solo un vecchio museo qualcuno se ne approprierà e basta, come accade sempre per le reliquie. Per avere/essere un patrimonio culturale la cultura (conoscenza, destrezza, sensibilità, ecc.) deve essere nelle persone.

Dario Grison

L’alternativa è diventare tutti cattolici tradizionalisti, che sembra essere l’unica forma di influenza ancora perseguibile, a detta dell’anonimo di Limes
Autore

Andrea Zhok

Dario Grison Non necessariamente tradizionalisti, però che la cultura cristiana abbia radici profonde, e feconde, nella cultura italiana è indubbio.

Maria Esposito Siotto

Grazie per la riflessione e la diffusione del documento. Ricordo una sua riflessione in merito ai danni della pandemia in un paese a forte vocazione culturale per i motivi dei limiti alla mobilità ed al turismo imposti dai lockdown. La risorsa cu…

Altro…
Autore

Andrea Zhok

Maria Esposito Siotto Ovviamente, ma questa è una visione a breve termine, sin troppo alimentata, quella di vendere ad un buon prezzo le glorie passate (“valorizzazione del patrimonio”).
Accettabile, ma nel lungo periodo assai miope.

Claudio Gallo

Non ci resta che coltivare una gentile impotenza. Poi, a proposito dei servizi deviati: sono deviati solo dopo che si fanno prendere con le mani nel sacco.

Marcello Bernacchia

“Correligionario del papa emerito”? Cioè, sta dicendo che non considera Bergoglio cattolico?

Maurizio Candiotto

Marcello Bernacchia la domanda contiene la risposta…

Marcello Bernacchia

D’altronde, se non mettessero becco anche lì, che colonizzatori sarebbero?

Roberto Buffagni

Marcello Bernacchia Se davvero è un ufficiale, normale che disprezzi Bergoglio, come si disprezzerebbe il servilismo e la corrività in chiunque.

Marcello Bernacchia

Io su Bergoglio sono più possibilista, nonostante non poche perplessità. E penso che un ufficiale Usa di Bergoglio disprezzi il “socialismo” (reale o presunto), che per me è un punto a favore di Bergoglio.

Roberto Buffagni

Marcello Bernacchia Può essere. Un consiglio: se aspetta il socialismo da Bergoglio, si metta comodo.

Marcello Bernacchia

Non lo aspetto da lui, ma constato che qualcuno da lui lo teme. E ciò che è creduto vero esiste, come già notava von Hofmannsthal.

Maurizio Candiotto

Marcello Bernacchia E’ tutto da vedere se ciò che taluni da lui temono sia davvero il socialismo

Maurizio Candiotto

Marcello Bernacchia E, comunque, di *quale* socialismo, esattamente, stiamo parlando? Di quello che “serve a fare funzionare meglio il capitalismo”?! Quello, lo temo anche io (e in effetti esiste o va ad esistere. Magari anche con un aiutino da Mr. B.)

Federico Virgilio

Non cedere sulla linea significa “pensare con la propria testa”: sarà questa la sfida per il prossimo imminente futuro. E’ un presente di barbarie…

Carlo Pasini

Professore, l’ufficiale in congedo (da cui il post) parte male quando dice di “avegli consegnato il Paese nel ’45″” e, quando con spocchia chiede “perché ci dichiaraste guerra” che invece il vergognoso Duce dichiarò a Gran Bretagna e Francia.
A mio avviso è il globale neoliberismo il nemico del Paese ( quello della Costituzione) e della nostra Democrazia, ma non scomoderei fatti di 75-80 anni fa per le parole di un esuberante Yankee.

Sebastiano Lisi

“[…] ma potenzialmente avremmo qualcosa da dire come ‘potenza culturale’.”
Mah, forse stando nelle università non si vede, ma credo che pure come vagheggiata ‘potenza culturale’ i buoi siano da tempo scappati.

Gabriela Fantato

Ecco, con queste riflessioni acute, precise e colte mi son commossa, e mi è venuto in mente anche Foscolo (….)” A egregie cose il forte animo accendono l’urne dei forti “(….).
E da , a seguire, che l’Italia è un Paese ” invasi” da una subcultura anglofona, ” tranne la memoria, tutto”( ci è stato rubato, svenduto, dimenticato!!!).
Da questa nostra storia di grande musica, arte, letteratura, anche di cultura gastronomica,direi, dobbiamo trarre forza e orgoglio per ” opporci” all’ annientamento politico/ sociale in atto.
Grazie prof Andrea Zhok , lei è una guida!

Marco Sore

Raggelante notare come l’ufficiale, dal suo punto di vista, abbia fatto un discorso onesto.

Mauribeth Duir

Nel nostro piccolo, da queste parti ci stiamo lavorando 🙂
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    • 2 h

Jacopo De Battista

Al contrario della retorica imperante della “liberazione” è bene ricordare che noi la seconda guerra mondiale l’abbiamo persa, e l’abbiamo persa particolarmente male.
Chi può stupirsi di queste conseguenze?

Pierclaudio Brunelli

Ben ponderato e ben scritto…ma non posso fare a meno di percepire la considerazione finale .quasi uguale a: “quante me ne hanno date…ma quante gliene ho dette!!!!”

Angela Mastrolonardo

Siamo vittime e complici di questi bulli che ci tengono sotto schiaffo. Provo un senso di soffocamento, riesco solo a sottrarmi ai loro “prodotti culturali” e alle loro mode. Ho preservato la mia famiglia da questo

Massimiliano Esse

Nulla di strano. Tutto preciso.

Mario Amato

Non posso che essere d’accordo al 100%.
D’altra parte per chiunque abbia seguito con spirito critico gli avvenimenti degli ultimi 40 anni risulta chiaro e abbastanza evidente, e senza contare le decine di basi militari USA che abbiamo.

Mi ritorna in me…

Altro…

Renato Rivolta

Che noi siamo una provincia dell’Impero è fuori discussione. Che la Cina sia un pericolo mi sembra però altrettanto oggettivo. I cinesi, a differenza degli americani, non usano i missili e i droni per “esportare la democrazia”, usano mezzi più raffina…

Del resto, a differenza degli yankees, hanno qualche migliaio di anni in più di storia sulle spalle
Autore

Andrea Zhok

Renato Rivolta Diciamo che dopo settant’anni di dieta unilaterale yankee un po’ di ‘mezzi raffinati’ cinesi possono essere un accettabile compromesso.

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Gian Luca Beccari

Professore, lo vado dicendo da molti anni, inoltre considerare “alleati” chi ti ha sconfitto e colonizzato, è semanticamente una offesa alla verità. Inoltre mi permetto di aggiungere un’altra stringente e determinante forma di controllo, quella messa quella messa in atto attraverso piattaforme tecnologiche che controllano ogni nostro movimento, tutto ovviamente controllato da oltre oceano.

Camillo De Vito

Giusto. Ed è quello che ripete Dario Fabbri ed anche io prima di lui, da nessun pulpito e con nessun titolo se non quello di osservare la realtà. Ma penso che farsi allungare il guinzaglio e liberarsi dei tedeschi, potremmo farlo.

ORA E SEMPRE, RESILIENZA_di Andrea Zhok

ORA E SEMPRE, RESILIENZA.
Insomma, per farla breve, stiamo approvando un piano che impegnerà la politica nazionale per i prossimi dieci anni almeno.
Nel piano, oltre ai fondi, ci sono le condizionalità, di cui alcune riecheggiano temi ben noti: riforma delle pensioni, ripianamento del debito, privatizzazioni.
Il “Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza” viene approvato senza alcun dibattito parlamentare degno di nota.
Di dibattito pubblico e democratico non parliamo proprio, che per la comicità ci sono spazi appositi.
In compenso a babbo morto nei prossimi mesi ce ne illustreranno i contenuti, con particolare riferimento ai nostri doveri.
Dopo tutto mica pretenderemo che sia senza contraccambi siffatta epocale munificenza? (750 miliardi per 450 milioni di cittadini, versus 1900 miliardi per 330 milioni di cittadini negli USA).
Quel che non possiamo non apprezzare è la sincerità del nome, dove campeggia il sostantivo che definisce la nuova epoca: RESILIENZA.
Non più la Resistenza, che è una tipica azione ostile e poco costruttiva, nutrita di linguaggio d’odio.
No, la nuova parola d’ordine è Resilienza, ovvero la capacità di un ente di subire traumi, urti, stress, torsioni e bastonature varie tornando monotonamente in piedi.
Praticamente un programma politico.
Vi passeremo sopra con qualche autoblindo, però poi voi non fate le vittime che non tira aria: rimettetevi in piedi, che a portare il basto ci servite pimpanti e collaborativi.

SOVRASTRUTTURALISMO ENDEMICO, di Andrea Zhok

SOVRASTRUTTURALISMO ENDEMICO
Per 14 mesi ci hanno raccontato l’epopea di “Aperturisti” contro “Rigoristi”, come se fosse un grande dilemma morale.
Il grido di battaglia dei primi era l’invocazione dell’inviolabilità della Libertà. Quello dei secondi la sacertà di ogni singola Vita Umana.
Per 14 mesi abbiamo seguito quest’appassionante vicenda in uno snervante alternarsi di colpi di scena, con il succedersi, in una dialettica senza sintesi, di isterie di senso opposto.
C’era la settimana in cui la parola d’ordine sui giornali era “Il paese deve ripartire!”, e quella in cui era “Il contagio è fuori controllo!”
Il paese, inizialmente unito, saldo e disposto anche al sacrificio, è stato sbrindellato con la creazione di un’apparente opposizione di principio, su cui si sono infrante amicizie, disfatti progetti politici, e in cui si è pervenuti all’ennesima frammentazione in una guerra di tutti contro tutti: la situazione più facile da guidare docilmente in qualsivoglia direzione.
E pensare che ciò sia stato fatto avendo in mente una direzione, che si è stati strumentalizzati per uno scopo, sarebbe quasi consolante.
Invece qui l’unico fine è come al rodeo: stare in sella il più a lungo possibile, e tutto il resto è noia.
Ebbene, oggi, dopo 14 mesi di gloriose battaglie ideali, i malati di Covid continuano ad aspettare a casa test che arrivano con dieci giorni di ritardo, se arrivano, avendo come baluardo contro la malattia un po’ di tachipirina fai-da-te e, i più fortunati, il saturimetro comprato in farmacia, sperando nella buona sorte che non degeneri in polmonite interstiziale, perché da lì all’obitorio il passo può essere abbastanza lesto.
Per altre malattie, in ospedale è comunque meglio non andarci, se non sei moribondo, perché i contagi ospedalieri sono stati spettacolari e ripetuti (come lo erano già prima del Covid: nel 2019 si sono contati 49.000 morti per infezioni ospedaliere).
Quanto alla “battaglia del Covid”, con i relativi dati sulla mortalità italiana in rapporto al numero dei contagi, il quadro è eloquente.
Italia: 3.842.079 casi, 116.366 morti (mortalità 3%)
UK: 4.383.572 casi, 127.225 morti (mortalità 2,89%)
Germania: 3,116,950 casi, 80,387 morti (mortalità 2,5%)
Spagna: 3.407.283 casi, 76.981 morti (mortalità 2,26%)
Francia: 5.224.321 casi, 100.404 morti (mortalità 1,9%)
Svizzera: 632.399 casi, 10.503 morti (1,58%)
Insomma, persino il devastato sistema sanitario inglese, mai più rimessosi dopo la cura Thatcher, presenta dati migliori.
E gli stessi che hanno tagliato il sistema ospedaliero per anni ce li siamo trovati in televisione su ogni canale a spiegarci come non fosse affatto vero, che non c’erano stati tagli (semmai “razionalizzazioni”), e che comunque non era quello il problema. (O, in alternativa, che sì, forse un problemino c’era, ma che in fondo era colpa nostra, perché non volevamo usare il MES.)
Ecco, ora, il punto è semplice, ed è una costante in questo paese.
A noi piace tanto presentare i problemi come se fossero sempre grandi ed eroiche questioni morali, profonde visioni del mondo, incommensurabili e non negoziabili.
Su questi giochi di contrapposizione ci campa, è comprensibile, una fetta di professionisti dell’informazione, che amano la narrazione per grandi opposizioni in quando vivacizza la narrativa e nutre di polemiche i Talk Show, che sennò l’audience langue.
Ma soprattutto su questi giochi ci campa una classe politica che inscena grandi battaglie di principio, il cui solo scopo è conservarsi in sella cavalcandole, aizzando la plebe a “prendere posizione”.
Insomma soggetti la cui negoziabilità sul mercato politico è leggenda si fanno vessilliferi di battaglie ideali la cui sola funzione è essere stabilizzatori del potere (inclusa la propria fettina).
Di contro, in questo paese sembra che lo sguardo al funzionamento concreto, all’organizzazione materiale delle cose faccia schifo a tutti. Insomma è volgare prosa, mentre noi siamo nati poeti e moralisti della politica.
Questa disposizione onnicomprensiva la potremmo chiamare “sovrastrutturalismo”: dei processi reali nella società noi non ci occupiamo; non vogliamo che nessuno ci parli degli anelli intermedi, dell’olio negli ingranaggi, dell’organizzazione, delle soluzioni pragmatiche, delle specifiche di sistema, dei ‘decreti attuativi’, ecc.
E quando il teatro dei “grandi principi” inizia a stancare, quando qualcuno inizia a capire di essere preso per il naso da questo teatrino dei massimi sistemi senza costrutto, et voilà, ecco pronta la soluzione di riserva nella forma di un’ideologia supplementare, sotto mentite spoglie: l’Efficientismo (“Fare, fare, fare!”), con le correlate invocazioni ai Tecnici, la promozione trombona delle “Eccellenze”, ecc.
Dopo qualche mese o anno di questa ideologia di riserva, una volta che il gioco si scopre gradatamente, ecco che la giostra può proseguire come prima.
Ecco, in 14 mesi dall’inizio della pandemia si potevano fare mille interventi di dettaglio, a livello ospedaliero, di cure territoriali, di uniformazione di criteri e comunicazione a livello nazionale, di accesso a terapie disponibili (care, ma disponibili), e poi come organizzazione dei trasporti, come selezione accurata dei rischi settore per settore, ecc.
Invece no.
Abbiamo vissuto 14 mesi di tiramolla psicologico, con presunte alte motivazioni etiche sullo sfondo, ma senza cambiare niente nei funzionamenti del sistema. (E accetto scommesse che non è finita: l’annuncio della Grande Riapertura mentre navighiamo sui 400 morti al giorno e con terapie intensive ancora sopra il livello di guardia ci garantisce almeno un’altra ripartenza della giostra delle chiusure.)
Questo “sovrastrutturalismo” endemico è la somma tra un generale processo di dequalificazione dei ceti politici, che ha investito tutto l’Occidente, e alcune specifiche caratteristiche italiche, tra cui un certo amore per la teatralità e la passione agonistica, dove alla fine noi vogliamo sapere se vince il Papa o l’Imperatore, e che non ci si annoi con dettagli superflui.
Nessuno ne è esente, neppure i “Tecnici”. Cos’altro è, infatti, l’uscita di Draghi sul “dittatore Erdogan” se non l’improvvisata di qualcuno che vuole anche lui il suo quarto d’ora da “cavaliere dell’ideale”.
E poi, quando arriva il conto, che se ne occupi la servitù.
In questo quadro, discutere se il ministro Speranza deve o non deve andarsene è solo l’ennesima occasione per chiacchierarsi addosso a colpi di ‘simboli’ e fantasmi di ‘idee’, come se il problema fosse cambiare il nome del fantino senza accorgersi che chiunque vada in sella frusta da tempo un cavallo morto (sapendo di farlo).
Ecco, vorrei tanto chiudere con un brillante consiglio su come se ne esce, solo che non ne ho davvero idea.

I NUOVI MURI, di Andrea Zhok

I NUOVI MURI
L’editore Meulenhoff ha tolto il compito di tradurre la poetessa afroamericana Amanda Gorman alla scrittrice olandese Marieke Lucas Rijneveld dopo il pubblico bombardamento di critiche piovute sulla scelta della traduttrice.
Secondo un diffuso, o quantomeno vocale, ‘public sentiment’ la Rijneveld sarebbe inadeguata al compito in quanto donna bianca.
La casa editrice Meulenhoff si era difesa dicendo di aver scelto la Rijneveld in quanto affine nello stile e nei toni, e la poetessa olandese sembrava essere una scelta appropriata.
L’editore aveva inoltre assicurato che un gruppo di lettori avrebbe testato la traduzione per valutare se contenesse un linguaggio offensivo, stereotipi o altre improprietà.
Ma niente di questo è bastato, e di fronte alla montante protesta si è deciso di cambiare traduttrice.
Perché menzionare questo episodio, che molti, non senza ragioni potrebbero trovare semplicemente ridicolo?
Premetto, a titolo di opinione personale, che se la qualità letteraria della poetessa americana è quella mostrata nella sua declamazione al discorso di insediamento di Biden, credo che la letteratura mondiale possa serenamente privarsene senza soffrire danno alcuno.
Ma questo punto non è importante.
Il punto importante è che questo è solo uno, l’ennesimo, esempio della devastante forma mentis su cui stiamo costruendo il terzo millennio d.C.
Con un sorrisone fosforescente stampato in faccia, nel nome della bontà, dei diritti, della libertà stiamo costruendo una delle società più fitte di muri, steccati interiori, barriere, odi e disprezzi trasversali, incomprensioni, incomunicabilità che la storia ricordi.
Lo so che molti ancora sottovalutano questo punto.
Molti ancora pensano che questioni come quelle del ‘politicamente corretto’ siano tutt’al più educati formalismi, da cui niente di cruciale dipende.
Invece questo è un punto silente, ma esplosivo.
I più grandi sforzi etici del passato erano rivolti alla costruzione di forme del “noi”, di comunità o società immaginate come amalgama di individui accomunati da qualcosa di importante (l’amor di patria, la devozione religiosa, ecc.).
Tutto ciò cui lavoriamo culturalmente oggi rema invece in direzione esattamente opposta, verso la creazione di frammentazioni progressive, dove si proclama la fondamentale impossibilità ad essere compresi dagli altri.
Che siano steccati mentali fondati sull’appartenenza generazionale, sulla razza, sul genere, sulle inclinazioni sessuali, o altro, comunque il lavoro profondo del motore pedagogico della contemporaneità è dedicato alla decomposizione di ogni “noi” trasversale e comprensivo in “noi” sempre più sparuti, giù giù fino all’individuo isolato (e invero anche facendo breccia nella sua stessa identità personale).
L’elogio della diversità non è più l’elogio dell’interesse o del fascino che la diversità può suscitare.
Niente affatto.
L’elogio odierno della diversità è l’elogio dell’irriducibilità dell’altro, e dunque della nostra fondamentale incomunicabilità.
Che per ragioni oscure dovremmo venerare come un grande valore.
NB_tratto da facebook

Responsabilità e dilemmi, di Andrea Zhok e Antonio de Martini

RESPONSABILITA’, di Andrea Zhok
Il quadro di evoluzione della pandemia in Italia e il DPCM in fase di elaborazione sollecitano alcune brevi riflessioni sulla questione delle responsabilità civili, a vari livelli.
1) In primo luogo, una considerazione la merita il ruolo delle regioni. Finora tutte le regioni avevano la facoltà di intervenire in forme più restrittive di quelle blande promosse a livello centrale. Questa opzione era coerente con l’idea, costantemente rivendicata dai presidenti di regione, secondo la quale essi avrebbero il polso della situazione locale e potrebbero prendere decisioni consone. Ma curiosamente (con l’eccezione del talentuoso cabarettista che guida la regione Campania), nessun presidente di regione è intervenuto restrittivamente, modulando in forme specifiche e selettive gli interventi, se non in misura omeopatica.
Anzi, al contrario, tutte le regioni sollecitano il governo centrale ad intervenire per ‘coordinare gli interventi’.
Ma questo sollecito in verità esprime un desiderio molto più semplice: i presidenti delle regioni vogliono che a loro sia lasciato il ruolo del ‘poliziotto buono’.
Vogliono che sia lo stato centrale a fare la faccia feroce, mentre, agli occhi dei propri elettori, loro vestono i panni di chi si batte per preservarne la libertà.
Si tratta di un gioco di deresponsabilizzazione alquanto vile, con tanti saluti alle ciance sulle autonomie regionali: l’autonomia la vogliono quando si tratta di spendere, ma quando si tratta di sporcarsi le mani con assunzioni di responsabilità, allora si ritirano su postazioni protette.
2) Se le regioni hanno torto, non è che il governo centrale abbia ragione. Gli interventi che si profilano nel DPCM sono come al solito tagliati con l’accetta e ispirati da un’approssimazione che solo la perenne emergenzialità può cercar di nascondere.
Le aree in cui il governo poteva e doveva intervenire direttamente erano una principale, e due di rincalzo.
Innanzitutto si doveva portare subito in remoto tutto quanto era possibile portare in remoto della pubblica amministrazione, oltre che delle scuole superiori e dell’università. Questo intervento da solo avrebbe ridotto drasticamente gli spostamenti nei mezzi pubblici, che sono certamente il principale veicolo di diffusione del virus.
In tutti e tre questi comparti, un po’ di preparazione (in gran parte già fatta in occasione della prima ondata) avrebbe consentito di svolgere questi servizi con una perdita di efficacia tutt’al più modesta.
Ma rispetto a questa prospettiva ha avuto la meglio una componente squisitamente ideologica, in cui, le invettive di Confindustria contro la pubblica amministrazione neghittosa che sta a casa, e le paranoie sulla sostituzione definitiva dell’insegnamento pubblico con forme telematiche hanno avuto la meglio.
Interventi collaterali a questi dovevano essere l’intensificazione del trasporto pubblico e della medicina territoriale. Trattandosi di interventi massivi, non potevano essere implementati abbastanza da essere decisivi, ma qualcosa di più poteva essere fatto.
Così, invece di predisporre (anche sul piano normativo, oltre che tecnico) un buon sistema di didattica a distanza, ed un efficiente sistema di erogazione del lavoro in remoto, (abbinato ad incremento del trasporto pubblico e di medici sul territorio) si è preferito puntare i piedi proclamando d’ufficio il ‘ritorno alla normalità’.
E se la realtà non è d’accordo, tanto peggio per la realtà.
Invece di questo tipo di soluzioni, semplicemente pragmatiche, si finirà per chiudere forzosamente e a tappeto bar, ristoranti, palestre, piscine, ecc. anche quando sono stati ligi ai protocolli, e anche in regioni in cui la circolazione del virus è relativamente bassa (ci sono regioni in cui le percentuali di positività sono un terzo o un quarto di altre).
Così, alla faccia del richiamo alle ‘responsabilità individuali’ e alle ‘specificità dei territori’, si farà il solito taglio lineare che dimostra solo la pochezza e imprevidenza di un ceto politico.
3) Infine, quanto alle responsabilità individuali, una parola va spesa nei confronti di tutti quelli che in questi mesi hanno giocato la partita della minimizzazione. Tutti questi, e sono tanti, che con i loro argomenti farlocchi hanno alimentato comportamenti sciatti e incauti (in particolare tra i giovani, passabilmente certi di non correre comunque seri rischi), questi che hanno persino promosso l’idea del ‘contagio terapeutico’ (variante dell’immunità di gregge) magari finendo per contagiare altri, quando non per finire essi stessi ad occupare un letto d’ospedale, ecco tutti questi sono corresponsabili della situazione emergenziale attuale.
Essi hanno remato nella stessa direzione che ora porta all’intasamento dei pronto soccorso e dei ricoveri, tirando con la loro stupefacente ottusità la loro palata di terra sulla salma del paese.
Ecco, tutti questi, se avessero pudore, dovrebbero soltanto e definitivamente uscire in silenzio dal dibattito pubblico per non farvi più ritorno.
SCEGLIERE TRA SALUTE E ORDINE PUBBLICO ?, di Antonio de Martini
Temo che la gente non abbia capito a cosa serva la QUARANTENA e il termine americano LOCKDOWN non abbia semplificato la situazione.
A questo, si aggiunge una banda di pubblici amministratori e imbonitori sanitari che hanno drammatizzato i fatti distorcendoli vieppiù per valorizzare le proprie persone/funzioni/trasmissioni.
La Quarantena è l’unico strumento a disposizione per difenderci ( relativamente) dal contagio e mantenere efficiente ( relativamente) il servizio sanitario nazionale scaglionando gli afflussi alle terapie intensive.
Se le terapie intensive si intasano, il pericolo di morte dei contagiati diventa certezza.
Il fatto che esistano piu numerose cause INELUDIBILI di morte non ha senso.
Se la morte – anche di pochi – è eludibile, va rimandata, altrimenti la società civile non ha motivo di esistere. A morire da soli siamo buoni tutti.
La Svizzera ci ha forse preceduti di poco decidendo di non ammettere più gli anziani ( della mia età) in terapia intensiva per riservare i non sufficienti letti a disposizione a chi ha ( relativamente) maggiori probabilità di sopravvivenza.
Sta accadendo quel che è successo durante la grande crisi finanziaria: si cercò anzitutto di salvare il sistema bancario indispensabile a mantenere in funzione una società civile.
Analogamente, senza un sistema sanitario generale, salterebbe ogni forma di pacifica convivenza civile.
Le avvisaglie affiorano: la selezione alla dottor Mengele tra gli “ atti alla vita” e no ; il ribellismo dei lazzaroni napoletani e la convocazione del Consiglio Supremo di Difesa al Quirinale con un ordine del giorno surreale.
Se guardate il sito della Unione Europea sul COVID19 le statistiche di tutti i paesi, potrete fare un collegamento tra la credibilità di ogni singola classe dirigente e i risultati di morte.
Dove i dirigenti sono rispettati, credibili e sinceri, i contagiati e i morti sono di meno ( sotto il famoso 1%) e il SSN regge.
Dove la direzione è carente, insincera, pulcinellesca e pretesca il sistema va verso la crisi.
Se la gente non comprerebbe un auto usata da costoro, come volete che li creda capaci di sottrarci alla morte e all’impoverimento dei superstiti ?
La comunicazione sia univoca e affidata a veri portavoce professionali e i politici siano banditi dalle TV su questi temi.
Si dica la verità senza infingimenti , si usino i militari come cervelli esperti in sopravvivenza e non come becchini, spazzini o protettori di incapaci e la crisi rientrerà entro parametri gestibili.
UN MIO COMMENTO _ Giuseppe Germinario

Allo scaricabarile ha partecipato ampiamente anche il Governo Centrale sin dall’inizio della crisi ma con una aggravante: i governi regionali sono in realtà dei centri di spesa e di amministrazione. La deresponsabilizzazione è quindi consustanziale e su quello, con poche eccezioni si è formato il personale politico che poi di solito assurge ad incarichi nazionali. Il Governo no; ha la piena responsabilità gestionale sia pure all’interno del disastro istituzionale ormai venuto alla luce non a caso in una situazione di crisi gravissima anche se non ancora catastrofica. Stasera pubblicherò una videointervista al dottor

Giuseppe Imbalzano

che offrirà qualche ulteriore spunto di riflessione

PARADOSSO, di Roberto Buffagni

E’ comica la nostra epoca, la più fissata con il cambiamento di tutta la storia umana, e la meno dotata delle capacità intellettuali e morali di cambiare alcunché.

ASCOLTATE QUESTO INTERVENTO. PARTICOLARE ATTENZIONE ALLA PARTE CONCLUSIVA

NB_ tratti da facebook

Sconforto, di Andrea Zhok

Il nostro giudizio sul M5S è ed è stato molto più drastico, sin dagli albori del movimento. La considerazione finale di Andrea Zhok appare del tutto condivisibile, ma con una chiosa: “ciò che si muove fuori è anche peggio”, ma semplicemente perché sono le schegge ed il derivato di ciò che è dentro. Il richiamo, sia pure ormai meramente semantico al passato, non aiuta a guardare queste fibrillazioni con giudizi definitivi che meritano_Giuseppe Germinario
In questi giorni, dopo gli esiti abbastanza catastrofici delle elezioni regionali in molti danno il M5S per spacciato.
Ci sono gli ennesimi segni di fronda interna, critiche feroci alla leadership, minacce di scissione.
Spira inoltre un vento nefasto, per cui molti, semplici elettori o personaggi prominenti, che avevano dato fiducia al movimento ad inizio legislatura, ora fanno a gara per sparargli addosso.
A ciò si aggiunge il giudizio perennemente liquidatorio da parte dei grandi giornali (con una nota eccezione) e dell’intero sistema di potere consolidato. Per quanto ora, nel nome della ‘stabilità’ garantita dall’alleanza col PD, il tasso di stroncature appare lievemente moderato, è sin troppo chiaro che il M5S continua ad essere percepito come un corpo estraneo, da espellere.
Ecco, viste queste condizioni, mi sento obbligato a fare un elogio del M5S.
Che il Movimento avesse problemi profondi e strutturali era chiaro dall’inizio a chiunque non fosse cieco.
Che mancasse di un ceto dirigente solido ed esperto, che avesse problemi nelle strategie di reclutamento, che avesse adottato una tattica ‘populista’ di raccolta a strascico del malcontento senza coerentizzarlo, che avesse fatto convivere senza risolverle contraddizioni tra posizioni stataliste e libertarie, ambientaliste e antiscientifiche, sovraniste e autorazziste, ecc. era evidente a chiunque avesse gli occhi per vedere.
E tuttavia, ora, arrivati a questo punto, non posso che chiedermi: il panorama politico italiano sarebbe migliore se il M5S scomparisse?
E la risposta che non posso che darmi (lo so, contro molti amici di lunga data) è che sarebbe una disgrazia.
Con tutte le sue inadeguatezze il M5S è l’unica realtà politica degli ultimi decenni che ha smosso problemi incancreniti, riportato a galla aspirazioni sociali rimosse, che ha almeno provato a dar voce a istanze che erano scomparse dal panorama italiano (come quelle ecologiste). E lo ha fatto cercando di trovare una posizione autonoma, irriducibile alla stantia, sclerotizzata dicotomia tra destra e sinistra.
Francamente non so se il M5S sopravviverà a questa legislatura, perché gli errori fatti sono molti e le risorse per rimediarvi sono scarse. Non lo so, ma le lo auguro di cuore, perché – anche con la complicità dell’improvvida riforma costituzionale promossa dal movimento stesso – lo scenario prossimo che si presenterebbe a fronte di un collasso del movimento è quello di un deserto politico, bloccato su forze e dinamiche degli anni ’90.
Come molti altri, personalmente avevo sperato che emergessero forze politiche capaci di approfondire, coerentizzare, chiarire e consolidare le istanze migliori del movimento.
L’ho sperato, ma al momento palesemente queste condizioni non ci sono, e ciò che si muove fuori dal Parlamento con realistiche ambizioni di entrarvi, è peggio di ciò che in parlamento c’è già.

https://www.facebook.com/andrea.zhok.5

PESTAGGI E SCIOCCHEZZE, di Andrea Zhok

Un paio di osservazioni sull’osceno pestaggio mortale di Colleferro.
1) I processi mediatici o sui social non sono mai raccomandabili, per principio, e dovremmo fare tutti uno sforzo a non cedere al desiderio di fare giustizia su eventi di cui abbiamo contezza mediata, perché per un caso in cui la rappresentazione mediatica corrisponde alla realtà ce ne sono sempre due in cui non è così.
2) Detto questo, fidandosi di quanto diffuso dai media (e dal filmato semioscurato che gira), direi che siamo di fronte ad un atto di tale abissale vigliaccheria da lasciare attoniti.
Quattro energumeni allenati ad hoc che pestano a morte un singolo ragazzo, preso a caso, che era la metà di loro, è qualcosa che prima di ogni discussione giuridica produce incontenibile nausea umana. (Peraltro, se il filmato visto riproduce quegli eventi, l’ultimo colpo, un calcio alla tempia con la vittima ferma a terra, era letteralmente un’esecuzione).
Qui protagonista principale non è la violenza, ma la totale mancanza di empatia. La violenza può esercitarsi in molte situazioni ed è qualcosa di, occasionalmente, funzionale nella natura umana (come in quella di ogni animale), ma negli umani (e nella maggioranza dei mammiferi) è contenuta e modulata dall’empatia. La violenza in condizioni di rabbia, spavento, difesa è qualcosa di completamente diverso dalla violenza esercitata sull’indifeso innocente. Quest’ultima si colloca ai margini di ciò che è natura umana. Per questo motivo, qualunque pena verrà erogata a questi personaggi, a legislazione italiana vigente, possiamo già dire che sarà troppo mite. (In Italia la pena media per l’omicidio preterintenzionale è di 8,8 anni, e 12,4 per l’omicidio volontario, più sconti di pena e semilibertà.)
3) Il riferimento all’aggravante del razzismo lascia perplessi. Da un lato, per quanto detto sopra, qualunque appiglio i giudici trovino per appesantire la pena mi trova personalmente d’accordo. Ma questa è ovviamente una valutazione di pancia, non certo di diritto o di giustizia. E in termini di diritto e giustizia faccio fatica a capire per quale motivo se il ragazzo vigliaccamente ucciso fosse stato di un altro colore la pena dovrebbe essere più mite.
Capisco l’intenzione dissuasiva nei confronti del razzismo di queste norme. Tuttavia ogni norma che violi, foss’anche per le migliori ragioni del mondo, la percezione di una legge uguale per tutti, finisce per lasciare un retrogusto di parzialità, che rischia di ottenere effetti opposti al desiderato.
4) In questo triste contesto non poteva mancare nello sciocchezzaio quotidiano l’uscita del direttore Massimo Giannini, che di fronte a questo orrendo fatto di cronaca non trova di meglio che chiedere di bandire le arti marziali e chiuderne le palestre. A questo punto, viste le foto, io, fossi in Giannini, un pensierino sul chiudere anche i negozi di tatuaggi lo farei.

Il Karate come educazione inattuale
(pubblicato in Filosofia e arti marziali, a cura di M. Ghilardi,
Milano, Mimesis, 2020, pp. 179-192)
1) Premessa
Pratico il Karate Shotokan, con sostanziale continuità, dal 1984.
L’ho praticato in 6 dojo1 diversi, sotto 7 diversi sensei,
in 3 diverse nazioni europee. Pur avendo occasionalmente praticato altre discipline marziali per brevi periodi (pugilato, full-contact e kick-boxing) esse mi sono rimaste
essenzialmente estranee nello spirito. Al contrario, la pratica del Karate ha
inciso ampiamente sulla mia formazione umana e anche intellettuale, in
misura comparabile con quanto fatto dall’istruzione scolastica e
universitaria.
Questa nota biografica è necessaria per chiarire il senso delle
osservazioni che seguiranno. Le considerazioni qui esposte non mirano a
fornire un resoconto scientifico o storico di una delle arte marziali più
diffuse, né hanno l’ambizione di darne una prospettiva con pretese di validità
universale. L’intenzione qui è soltanto quella di estrarre dalla mia esperienza
personale, con i suoi ovvi limiti, alcune osservazioni che possono forse
risultare di interesse generale. In quest’ottica non mi cimenterò nelle
discussioni che spesso appassionano i cultori di arti marziali, circa le
specificità e i punti di forza delle varie discipline, la loro origine, la loro
efficacia comparativa, ecc. La prospettiva che propongo è solo quella di una
riflessione personale su una disciplina praticata a lungo, e filtrata attraverso
la cultura filosofica occidentale che ho la ventura di frequentare
professionalmente.
Alcune parole introduttive alla disciplina marziale di cui ho fatto
esperienza sono comunque opportune. Il Karate Shōtōkan è una dei 4 stili
di Karate oggi ufficialmente riconosciuti dalla World Karate Association;
gli altri sono Shitō-ryū, Gōjū-ryū, Wadō-ryū. La mia esperienza si è svolta
sempre nell’ambito dello Shotokan, ed è di quella che parlerò, tuttavia
l’impressione che ho ricevuto frequentando appassionati ed esperti in altri
stili è che sussista una considerevole uniformità negli aspetti più profondi
della disciplina, al netto delle differenze tecniche.
Il Karate si è sviluppato quasi certamente a partire da una precedente
base di tecniche di origine cinese, derivanti dall’antentato di ciò che oggi è
noto come Kung-Fu, sviluppandosi però autonomamente ad Okinawa per
alcuni secoli. In questo senso il Karate ha assorbito profondamente alcuni
tratti fondamentali della storia culturale giapponese, con il suo lungo

‘Medioevo’, durato sostanzialmente fino a metà ‘800, con il passaggio dallo
shogunato Tokugawa alla dinastia Meji (1868). Nel Karate sono perciò
rimasti incastonati in maniera profonda tratti di una forma di vita
premoderna, che nonostante le trasformazioni e attualizzazioni
necessariamente avvenute, continua a trovare manifestazione nella
disciplina marziale. È in questo carattere ‘inattuale’ degli aspetti più
profondi del Karate che consiste a mo avviso uno specifico potenziale
educativo della disciplina. Intendiamo qui ‘inattuale’, nel senso
nietzscheano del termine, come nella seconda delle Considerazioni inattuali,
dove egli scrive che l’inattualità consiste nell’agire contro il proprio tempo,
“e in tal modo sul tempo e, speriamolo, a favore di un tempo venturo.”

2) Il Dojo e la tradizione
Un aspetto che a posteriori trovo sorprendente è l’omogeneità nello
spirito del Karate che ho riscontrato in contesti sociali, urbani e anche
nazionali assai differenti. Mentre alcuni aspetti tecnici potevano subire
modificazioni e varianti in diversi luoghi e con diversi sensei, lo spirito della
disciplina mi è sempre apparso preservato in maniera riconoscibile e robusta.
Tra il dojo di una cittadina inglese (da cui i pub della zona traevano lo staff
per i buttafuori), e un dojo nel semicentro benestante di Milano, il contesto
sociale e l’utenza potrebbero essere difficilmente più diversi, e tuttavia la
continuità di spirito che ho rilevato è stata impressionante.
Premesso che una campionatura personale, per quanto varia, rimane
limitata e non facilmente generalizzabile, dubito che si tratti di un fatto
casuale. La mia impressione è che tale capacità di preservare lo spirito di
una tradizione, peraltro già di suo distante e diversa, sia legata alla sua
specifica modalità di trasferimento, che si giova della trasmissione diretta,
personale, di un patrimonio di comportamenti, sia di tipo rituale, che legati
alla preparazione tecnica in senso specifico. Il Karate è stato trasmesso sin
dall’inizio, e continua ad essere trasmesso, in forma personale, cioè per
contatto diretto tra maestro e allievo, per imitazione, emulazione e
subordinazione, in concatenazioni che partono almeno dall’ordinamento
definito da Gichin Funakoshi (1868-1957). In questo modo tali catene
personali ne hanno diffuso la pratica dapprima da Okinawa al resto del
Giappone, e poi a livello globale.
La trasmissione personale non ha alcun equivalente nella
trasmissione scritta o, in generale, nella trasmissione mediata da supporti
impersonali e non interattivi. Il sensei è esempio personale e autorità
inappellabile, e la trasmissione avviene attraverso l’acquisizione di una serie
di abiti, di comportamenti reiterati che divengono ‘seconda natura’. Se la
parola scritta, come ricordava Platone nel Fedro,
4
si avventura per il mondo

3
incapace di difendersi, lasciata necessariamente a sé stessa senza poter
sorvegliare la propria corretta interpretazione, ciò non accade invece per la
trasmissione interattiva personale, dove ad essere trasmesso è un
comportamento con il suo stile. Qui lo ‘stile’ non è un accidente estetico,
una coloritura superficiale della sostanza, ma è la sostanza. Quando il quinto
dei ‘principi’ del Karate recita che “lo spirito viene prima della tecnica”, ciò
che qui si dice è proprio che il modo dell’azione è ciò che va principalmente
trasmesso e che consente poi di apprendere in maniera appropriata la tecnica.
Nell’apprendimento per prossimità, esemplificazione e correzione si
colgono anche componenti ‘ritmiche’, del moto, del coordinamento, della
respirazione, che il sensei stesso può non essere in grado di verbalizzare. Al
tempo stesso la correzione non può procedere adottando un metro generico,
valevole per chiunque, perché i modi di sbagliare sono molteplici quanto gli
allievi che si sforzano di imparare: ogni correzione è mirata.
In questo processo di apprendimento c’è un’osmosi continua tra il
‘cosa’ e il ‘come’, tra la tecnica e il ‘modo d’essere’, che perciò, con il
tempo, travalica le porte del dojo, divenendo appunto un ‘modo d’essere’.
Nessun testo scritto (e questa è una costatazione amara per chi, come il
sottoscritto,scrive per professione) può mai avere quel grado di penetrazione
e di capacità di trasformazione che è accessibile alla trasmissione personale
di pratiche ed abiti, giacché la parola scritta riceve sempre il suo significato
precisamente solo a partire dalle pratiche e dagli abiti che già incarniamo.
Le parole non trasportano magicamente pensieri e capacità da una mente
all’altra, ma aiutano ad evocare esperienze comuni fatte da chi parla e
disponibili in chi ascolta. Perciò in ultima istanza la parola deve sempre
poggiare su una comunanza di pratiche vissute, e se queste non vi sono la
parola è impotente a suggerirle. Come ricorda Michael Polanyi,5
ciò vale
sempre per la trasmissione delle ‘arti’, che funzionano sulla scorta di
meccanismi di esemplificazione e correzione diretta, e che solo così
permettono quella finezza di trasmissione che è preclusa a tutte le traduzioni
scritte (o, oggi, ‘digitali’).
Nello specifico, nel Karate un ruolo essenziale nella trasmissione
tecnica e stilistica è costituito dai Kata (26 nello Shotokan) che
rappresentano sequenze formali di tecniche da apprendere in modo rigoroso
e dettagliato. Il Kata rappresenta una sorta di combattimento con più
avversari imaginari, in cui vengono esercitati, e dunque istituiti in abiti
sensomotori,6
tutti i fattori fondamentali del combattimento, salvo l’impatto:
tempistica, equilibrio, accelerazione, contrazione e decontrazione, potenza e
fluidità. Il repertorio dei Kata è perciò come un ‘libro vissuto’, la memoria
storica del Karate e della sua evoluzione trasmessa come tradizione vivente.

4
3) Il rispetto
Un secondo livello a cui si manifesta il carattere di educazione
inattuale del Karate è quello del rispetto. Questo è uno dei punti in cui il
contrasto tra le ascendenze premoderne della disciplina marziale e gli
sviluppi sociali contemporanei è più marcato. I primi due principi del
Karate, codificati da Funakoshi, sono dedicati precisamente a due aspetti
strettamente connessi al rispetto: “Il Karate-dō comincia e finisce con il
saluto”, e “Nel Karate non esiste il primo attacco”. Per comprendere bene
questi principi bisogna intendere lo sfondo di ‘mortale serietà’ in cui è nata
e si è sviluppata l’intera disciplina, e di cui permangono ancora tracce
evidenti. La disciplina marziale non è mai stato essenzialmente uno ‘sport’,
termine inglese che richiama lo svago, il divertimento (come nell’italiano
‘diporto’). Il retroterra in cui il Karate si è sviluppato era quello della
concreta e quotidiana possibilità di vedere la propria vita messa a
repentaglio. Una delle versioni più accreditate intorno all’origine storica del
Karate (versione comunque incerta, vista la mancanza di solide basi
storiografiche prima dell’800), ne spiega la nascita in connessione con la
necessità della popolazione locale di Okinawa di difendersi da aggressioni
occasionali in un contesto in cui lo Shogun, dopo l’invasione dell’isola,
aveva vietato alla popolazione di detenere qualunque tipo di arma. Quale
che sia la veridicità storica del racconto, esso si attaglia comunque molto
bene allo spirito marziale del Karate, in cui le tecniche sono concepite per
infliggere il massimo danno possibile con un singolo attacco (l’unico
plausibilmente a disposizione in una difesa contro un avversario armato). In
ciò il Karate tradizionale si differenzia da gran parte delle altre discipline
marziali – anche nobilissime – dove l’idea di procedere ad un graduale
infiacchimento dell’avversario è frequente (si pensi al pugilato). Nel Karate
l’idea della massima linearità, essenzialità, rapidità e potenza della tecnica è
costitutiva. Ciò spiega ad esempio la predilezione per le tecniche di braccio
lanciate secondo linee interne e dirette, cioè secondo traiettorie molto meno
anticipabili rispetto alle tecniche circolari, di per sé non meno efficaci, ma
difficili da lanciare come tecnica isolata.
Questo tratto orginario del Karate si è in gran parte perduto
nell’evoluzione sportiva della disciplina, dove l’idea di una ‘strategia di
combattimento’ con l’aspettativa di un combattimento prolungato, ha ridotto
lo spazio per la ‘singola tecnica decisiva’. Tuttavia si tratta di un aspetto che
informa l’intera disciplina in profondità e ne ricorda il senso primario,
lontanissimo da ogni carattere ludico: qui ne va della vita e della morte.7
È su questo sfondo che il fattore di ‘rispetto’ acquisisce il suo pieno
senso. Il rispetto qui è qualcosa di primordiale, perché strettamente connesso
al timore. L’ingresso (sempre volontario) in un dojo è l’ingresso in un
ambito in cui deve vigere la serietà connessa ad un luogo che tratta di vita e

5
di morte, dove ciascuno studia con te (e su di te), tecniche concepite per
poter incapacitare l’avversario producendo lesioni gravi o anche fatali.
Durante ogni esercizio e nel corso di ogni allenamento ciascuno, dunque, si
espone volontariamente alla possibilità teorica di subire un danno grave, e
si mette letteralmente nelle mani altrui, perché ciò non accada. In questo
senso si comprende bene come qui il ‘rispetto’ non sia semplicemente
‘buona educazione formale’, ma ritorni ad un senso arcaico del termine,
come quello che troviamo all’origine dei comuni gesti di saluto. I gesti
tradizionali di saluto sono infatti di norma gesti che manifestano al
destinatario del saluto la propria fiducia in lui e la propria innocuità: i saluti
a mano aperta, come l’ordinaria stretta di mano, segnalavano l’assenza di
un’arma; gli inchini, in tutte le loro infinite varianti, sono una messa a
disposizione del proprio capo in una postura indifesa (non dissimile dai segni
di sottimissione tra i lupi).
Nello stesso senso bisogna interpretare il senso difensivo del Karate.
Tutti i Kata hanno inizio con una parata, e con ciò esprimono il carattere
difensivo-reattivo, e non offensivo, della disciplina. Lo scopo delle tecniche
è il ripristino dell’iniziale condizione di equilibrio, rotta dall’aggressione
altrui, e ciò è simbolicamente rappresentato dal ritorno dell’ultima tecnica
del Kata alla posizione di partenza (embusen).
Il rispetto è qui parte integrante della componente di serietà che
permea la disciplina marziale, e che la pone più intensamente in conflitto
con l’evoluzione sociale contemporanea. Questo è stato perciò uno dei tratti
su cui la pressione del mondo circostante è stata più manifesta, e dove la
tendenza a vedere crepe e cedimenti è più chiara. Nei 35 anni, ad oggi, in
cui ho frequentato la disciplina ho visto erodere questo elemento in maniera
evidente, anche se fortunatamente ancora entro limiti che tengono quest’arte
marziale distinta dalla generalità delle comuni attività sportive. Il ritardo e
la chiacchiera estemporanea vengono ancora sanzionate, seppure
blandamente, mentre il mancato controllo nelle tecniche su altri (la peggior
forma di mancanza di rispetto) rimane sanzionato in maniera severa, fino
all’espulsione.
Un’osservazione particolare dev’essere dedicata al rapporto tra
maestro e allievo. Il sensei nel dojo è autorità indiscussa ed ultima, e ciò ha
una funzione educativa fondamentale. La divisione dei ruoli implica la
possibilità, ed anzi necessità, dell’allievo di affidarsi alle indicazioni,
istruzioni e incitamenti del maestro; l’allievo può ‘vuotare la mente’ e
seguire il flusso dei comandi dimenticando i propri limiti, e gradatamente
superandoli. Ciò al contempo implica la responsabilità piena del maestro per
il proprio insegnamento e per i propri allievi. Questa forma di
subordinazione non è coattiva, giacché l’allievo è lì volontariamente e può
andarsene in ogni momento. Si tratta di una delega rituale di responsabilità,
delega che però, una volta avvenuta, consente innanzitutto all’allievo di
spingersi al di là dei propri limiti e delle proprie capacità correnti. La parola
del sensei può essere oggetto di chiarimento, ma non di discussione. Il
contesto è chiaramente ed orgogliosamente ‘antidemocratico’ (o più
precisamente: ‘predemocratico’). Ciò ha due effetti principali. In primo
6
luogo, come detto, questo affidamento permette di accedere a
comportamenti e abiti sensomotori che sono radicalmente differenti ed
ulteriori rispetto a quelli già consueti. In secondo luogo, ciò crea uno spirito
di corpo egalitario tra gli allievi, in quanto tutti parimenti subordinati.
Questo secondo tratto fa sì che, nonostante in una palestra vi siano sempre
allievi con gradi di anzianità e livelli di avanzamento molto differenti, essi
stiano tutti comunque su uno stesso piano in grazia della loro incolmabile
distanza (per definizione) dal maestro.
4) Una ‘seconda natura’
Tradizionalmente tutte le forme di educazione umana mirano non
semplicemente all’acquisizione esteriore di un certo numero di competenze
tecniche, ma in parte alla trasformazione del soggetto stesso. L’idea
dell’apprendimento come dato esteriore da poter magari un giorno ‘caricare’
come un software su un disco rigido, è estranea ai concetti classici
dell’educazione come la paideia greca o come la Bildung romantica. La
specie umana è, come noto, la specie ‘culturale per natura’, nel senso che ha
incardinata tra le proprie disposizioni naturali primarie la capacità e
l’esigenza di apprendere dai propri co-specifici (a partire
dall’apprendimento del linguaggio).
L’acquisizione di nuovi abiti corporei non è niente di simile
all’acquisizione di oggetti o strumenti esterni, in quanto qui ne va di una
trasformazione del proprio modo di essere. Un abito mentale o sensomotorio
non è qualcosa che può essere comprato o venduto, raccolto o smarrito: si
tratta di una disposizione stabilmente appresa che trasforma insieme la
propria capacità di agire e di percepire il mondo.
Nell’apprendimento del Karate questo processo prende una strada
particolare, in quanto la ‘lotta fisica’ è qualcosa rispetto a cui ciascuno
soggetto tende già sempre ad avere alcune presunte cognizioni, più o meno
istintive. Rispetto a questa dimensione istintuale l’istruzione iniziale della
disciplina marziale opera in modo altamente controintuitivo, scomponendo
la naturalità dei movimenti iniziali e dissolvendone il funzionamento
spontaneo e irriflesso, in modo da reimpostare dall’inizio ogni posizione e
ogni moto. Questo modo di procedere è caratteristico e distingue il Karate
(ed altre arti marziali di origine orientale) da approcci più istintuali
all’autodifesa. È un’osservazione nota ai praticanti che dopo alcuni mesi di
allenamento iniziale la capacità di autodifesa di chi studia il Karate può
essere persino diminuita rispetto a quella che si aveva prima. Questo non è
ciò che accade nel caso di altre discipline come il pugilato, in cui anche
poche settimane di allenamento possono condurre ad un miglioramento nelle
proprie capacità di autodifesa. La differenza essenziale concerne
precisamente il fatto che nel Karate, diversamente dal pugilato, la base di
comportamento ‘istintuale’ non viene semplicemente corretta, ma
inizialmente proprio decostruita. Ogni posizione dei piedi, delle ginocchia,
delle anche, ogni distribuzione di peso tra le due gambe, ogni inspirazione
7
ed espirazione viene esaminata, ‘denaturalizzata’ e infine gradatamente
riautomatizzata. Le reazioni istintive che tutti naturalmente hanno nel
combattimento, dall’irruenza, alla tendenza a chiudere gli occhi, al dare le
spalle, ecc. vengono inibite e reimpostate.
A fronte delle discipline marziali più istintive il Karate ha dunque
uno svantaggio iniziale nell’avere un accesso più lento ad una capacità di
autodifesa efficace, ma tale svantaggio si ripaga abbondantemente nel lungo
periodo, in quanto la molteplicità delle opzioni tecniche è talmente ampia da
permettere miglioramenti sostanzialmente infiniti nella ricchezza e fluidità
delle tecniche e delle combinazioni. Discipline più istintive ad un certo
punto incrementano di efficacia soltanto sul piano della capacità atletica, per
poi declinare inesorabilmente una volta superato l’apice dell’efficienza
atletica. Al contrario, come recita il nono dei principi del Karate: “Il Karate
si pratica tutta la vita”. Questo non indica semplicemente il fatto che, in
quanto educazione complessiva, esso si adatta ad ogni età, ma anche nel
senso più specifico che i margini di miglioramento tecnico sono
sostanzialmente illimitati. Ciò significa anche che per un certo tempo la
fatale riduzione nell’efficienza fisica legata all’età, con progressiva
riduzione di velocità, agilità e potenza, possono essere ben compensate da
miglioramenti nella ‘scelta di tempo’ e nella ricchezza di soluzioni tecniche
disponibili. In questo senso la parabola dell’efficacia difensiva non coincide
con quella del declino fisico, ma può permanere molto più a lungo.
Questo processo si rispecchia nel diciassettesimo principio del
Karate, che ricorda come la posizione di guardia debba lasciare infine il
posto ad un “ritorno alla posizione naturale”. La posizione naturale diviene
una posizione di partenza possibile quando le soluzioni di difesa e reazione
sono sufficientemente molteplici da consentire una risposta adeguata in
qualsiasi circostanza e con qualsiasi angolatura. Mentre la guardia consente
di impostare la difesa in modi favorevoli, che limitano le opzioni di attacco
dell’avversario, la posizione naturale lascia all’avversario l’intero spettro
delle opzioni di attacco, e quindi richiede al difensore la disponibilità di
risposte adeguate per ogni opzione.
Il processo di apprendimento attraverso la costituzione di abiti
sensomotori e posturali permanenti opera in profondità, toccando anche
tratti comportamentali e disposizionali, forgiando di fatto elementi
essenziali del carattere come l’autocontrollo, la costanza, la disciplina e
l’equanimità, tratti peraltro caratterizzanti di tutte le etiche antiche (si può
vedere a questo proposito la lista delle virtù del mos maiorum romano).
5) L’educazione alla realtà
Nel momento in cui abbiamo introdotto il tema della ‘seconda
natura’ che la nostra disciplina marziale cerca di costruire, è stato
implicitamente introdotto un aspetto fondamentale per ogni educazione,
8
ovvero il modo in cui essa si relaziona alla realtà.8
In ogni forma di
educazione umana questo è il punto cruciale, ovvero come far sì che un
processo che si muove in una sfera ‘virtuale’ sia in grado di preparare ad
affrontare la realtà.
Ogni educazione infatti si differenzia dalla diretta esposizione del
discente alle difficoltà reali per il fatto di sospendere in varia misura le
urgenze e insidie implicate nel confronto col mondo. Tale sospensione
consente di sperimentare, di mettere alla prova, di esercitare abilità senza
correre i rischi propri di un confronto diretto con la realtà. Questo processo
mima e istituzionalizza la spontanea attività di gioco in cui si esprimono tutti
i giovani mammiferi,9
e che li prepara al confronto con la durezza del reale.
La difficoltà di una buona educazione sta in gran parte proprio qui, nel saper
dosare il ‘realismo’ di ciò che è oggetto di apprendimento, con l’agio e la
gratuità ‘virtuale’ del poter ‘fare esperienza senza conseguenze’.
Un’educazione troppo ‘realistica’ con un’esposizione prematura ad
una realtà incontrollata può produrre reazioni di rigetto e ritrazione, che
restringono la libertà di esplorazione e con ciò riducono le opzioni operative
disponibili e le abilità acquisibili. La parabola educativa tipica del bambino
poco scolarizzato e che magari aiuta precocemente i genitori nell’attività
lavorativa, implica un rapido raggiungimento di autonomia nell’affrontare
una circoscritta classe di problemi, ma a scapito dell’ampiezza di opzioni e
abilità disponibili. Tale limitazione tende a metterlo poi in difficoltà, spesso
insuperabili, quando i problemi e le situazioni si discostano
significativamente da quelli su cui si è formato.
All’estremo opposto troviamo scolarizzazioni prolungate e astratte
in cui il discente viene preservato integralmente, e a lungo, da ogni confronto
diretto con il mondo. Questa seconda opzione può avere esiti
paradossalmente simili alla prima: il discente, una volta terminato il proprio
lungo percorso di preparazione, può trovarsi di fatto seriamente impreparato.
Le opzioni e varianti che ha sperimentato hanno un carattere astratto,
estraneo al mondo circostante, inapplicabile: sono assenti i punti di contatto
tra quanto appreso e la ‘durezza della realtà’. L’esito può essere (e lo è più
spesso di quanto si creda) la ritrazione del soggetto, a formazione ultimata,
in una condizione limitata e controllabile, circoscritta, ripetitiva, che
rassicuri il soggetto senza sottoporlo allo stress di adattare la propria
preparazione astratta ad una realtà dissonante e variabile.
Questi due estremi di un’educazione sbagliata sono ampiamente
rappresentati nelle tendenze prevalenti del mondo contemporaneo, dove
troviamo spesso sia soggetti ‘street-smart’, capaci di arrangiarsi entro le
proprie ‘nicchie ecologiche’, ma disadattati rispetto ad ogni significativa
variazione, sia soggetti formatisi in una bolla di verbalizzazioni astratte e

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preservati da ogni ‘trauma’, che risultano paradossalmente parimenti
disadattati, essendo incapaci di connettere le variazioni astratte apprese con
il mondo circostante.
Questa digressione serve ad introdurre quella che è, a mio avviso,
una delle funzioni educative più importanti di una disciplina marziale come
il Karate nel contesto formativo contemporaneo. È importante innanzitutto
osservare come il Karate-do,
10 sia stato concepito relativamente alla sua
finalità prima, quella del confronto con le esigenze di difesa, come un
sistema graduato e bilanciato. Da un lato il Karate, rispetto ad altre
discipline marziali più ‘immediate’, introduce ad un repertorio amplissimo
di varianti, opzioni, tecniche, situazioni, che arricchiscono lo spazio di
possibilità a disposizione del combattente, senza esporlo precocemente alla
stretta necessità della difesa. Dall’altro, tuttavia, esso ha elaborato una
pluralità di livelli di avvicinamento al combattimento nella sua durezza, che
convergono fino ad una quasi indistinguibilità dalla difesa reale della propria
incolumità.
Quando si giunge alla prova della realtà, ovvero alla necessità della
difesa, le tecniche idealmente possibili tendono sempre a concentrarsi sul
più limitato novero di quelle che sono ampiamente sperimentate,
perfettamente automatizzate e di provata efficacia. Questa spinta alla
concentrazione sull’essenziale, tipica della lotta reale, viene tenuta però in
sospeso a lungo nella preparazione, che permette così di esercitare tecniche
complesse (e non di rado letali), tecniche che non potrebbero essere affatto
apprese diversamente. L’orizzonte applicativo e il suo senso di letteralmente
‘mortale serietà’, rimane però sempre sullo sfondo e, nelle mani del sensei,
deve informare l’intera preparazione, indirizzandola.
Fino a che punto di ‘realismo’ debba arrivare la preparazione è
notoriamente questione dibattuta, ed è all’origine di alcune ramificazioni
interne al Karate, i cui promotori hanno deciso di dare maggiore spazio
all’impatto reale della tecnica. Mentre nello Shotokan il combattimento
prevede il controllo, con una tolleranza per impatti limitati, alcuni stili
moderni come Zendokai, Kyokushinkai, Enshin, Shidokan, ecc. hanno scelto
di condurre il combattimento nella forma del contatto pieno, con o anche
senza protezioni. Qui la distinzione tra combattimento sportivo e
combattimento di difesa reale è minima, anche se necessariamente rimane,
poiché tra le tecniche disponibili, ed esercitate correntemente nel Karate,
molte mirano ad infliggere danni permanenti (tecniche alle articolazioni, al
collo, all’inguine, e ad altri punti vitali) e dunque rimangono
necessariamente precluse.
In ogni caso la formazione ordinaria di un Karateka in qualunque
stile include una dimensione di confronto (jiyu kumite, o combattimento
libero) in cui l’assenza di rischio, presupposta nell’allenamento, tocca il suo
limite, e dove, sia pure in un ambiente controllato, il confronto acquisisce la
forma della difesa reale.

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Quest’ultimo aspetto rappresenta un fattore pedagogicamente
importante, in particolare sullo sfondo dei processi educativi odierni, dove
la tendenza alla ‘virtualizzazione’ è fortissima. A fronte di una formazione
scolastica e famigliare che, da un lato tende a preservare da ogni possibile
avversità, e dall’altro favorisce la costruzione di universi virtuali (dalla TV
ai videogiochi), il Karate rappresenta una mirata lezione di realtà. In un
mondo pervaso di astrazione e virtualità, immaginari bradi e paradisi
artificiali, una disciplina marziale come il Karate opera in modo
compensativo, ancorando il soggetto ad una realtà fatta di pesantezza dei
corpi, di durezza degli oggetti, di incontrollabilità delle iniziative altrui, e
anche di dolore e di fatica. L’adrenalina rilasciata sia nel caso di successo
che, soprattutto, nel caso di fallimento e sopraffazione, incide le esperienze
nella memoria corporea in un modo che non è ottenibile in contesti
fisicamente preservati ed astratti.
In questo processo gioca un ruolo importante la capacità di lavorare
su quella necessaria materia prima naturale che è l’aggressività. Si sottolinea
spesso come nelle arti marziali il punto cruciale non stia nell’aggressività,
ma nel controllo. Ciò è senz’altro vero, purché l’esistenza di un nucleo
centrale di aggressività sia già sempre presupposto. Senza un nocciolo di
aggressività non c’è lotta né difesa, e non c’è nulla da controllare. Il controllo
è il modo in cui si dosa e modula quel nucleo vitale di aggressività la cui
funzione essenziale, nella vita come nel combattimento, non può essere mai
rimossa. Nella specie umana, come in ogni specie vivente, una dose
bilanciata di aggressività è indispensabile per la stabilità e fermezza della
propria condotta, ed è parte fondamentale di un’esistenza organica sana e
vitale. La società contemporanea, quantomeno nell’occidente
industrializzato, consente di norma solo forme altamente sublimate di
aggressività, forme che però non consentono l’espressione fisica e nervosa
(adrenalina) dell’aggressività naturale. Esprimere l’aggressività, per dire,
nelle forme sublimate del turpiloquio sui social, o di una sparatoria frenetica
in un videogioco, non è affatto un succedaneo adeguato e lascia dietro di sé
una condizione di essenziale squilibrio, una tensione irrisolta, del tutto
diversa dall’espressione fisica dell’aggressività. Anche in quest’ottica il
Karate rappresenta una forma educativa ottimale, in quanto insegna non a
‘reprimere’, né a ‘sfogare’ l’aggressività, ma a coltivarla, come una sorgente
vitale cui saper ricorrere in maniera proporzionata, armonizzandola con le
altre disposizioni emozionali che ci danno una struttura, e liberandola
quando necessario.

1 Dojo è un termine giapponese che etimologicamente significa “il luogo (jō) dove si segue
la via (dō)”, e che indica il luogo deputato agli allenamenti delle arti marziali.
2 Sensei è un termine giapponese il cui senso letterale è ‘persona nata prima di un’altra’, e
che nel contesto delle arti marziali, ma non solo, indica il ‘maestro’, che è dunque tale in
ragione della sua maggiore ‘anzianità’, esperienza.

3 Nietzsche, F., Sull’utilità e il danno della storia per la vita, in Opere, vol. III, tomo 1,
Milano, Adelphi, p. 261.
4 Platone, Fedro (275a-e).

5 Polanyi, M., Personal Knowledge, London, Routledge 2005, p. 51sg.
6 Abiti sensomotori sono le disposizioni acquisite relative all’unità strutturale tra percezione
sensibile e movimento volontario: ogni abito sensomotorio appreso modifica insieme la
capacità di agire e quella di percepire le unità dell’ambiente circostante.

7 Naturalmente nell’avvicinamento dei giovanissimi al Karate aspetti ludici hanno
legittimamente posto, come si conviene all’età. Gradualmente, tuttavia, in un dojo che si
rispetti lo spirito ‘esistenziale’ della disciplina deve emergere.

8 Poche nozioni sono filosoficamente più importanti e meno ovvie di quella di ‘realtà’. Con
‘realtà’ intendiamo quella dimensione di eventi che non sono subordinati alle nostre
intenzioni, che possono perciò sorprenderci e costringerci alla reazione, quale che sia la
nostra precedente disposizione verso di essi.
9 Fagen, R., Animal Play Behavior, Oxford University Press, 1981, p. 65sg.

10 Karate-dō, ovvero la ‘via del Karate’ è il percorso educativo complessivo della disciplina
marziale, che ha al suo centro l’allenamento nel dojo, ma non vi si esaurisce.

https://www.academia.edu/42786400/Il_Karate_come_educazione_inattuale?fbclid=IwAR26XahPjh3gW7KusR0ZJ4GpdxjQo4W11iG6r-8ru6d1vGg2CdJpfZUJ7Zg

 

 

Sui rischi sociali della pandemia da Covid-19, di Andrea Zhok

Mentre continua la battaglia senza esclusione di colpi tra titolisti in cerca di scoop, nella stasi agostana e complottisti in cerca di congiure, per dare un po’ di pepe al vuoto pneumatico di idee, è opportuno cercare di fare chiarezza su alcuni punti relativi alla crisi da Covid-19.

Al netto degli argomenti capziosi e raffazzonati, il problema di fondo dell’estesa area ‘complottista’ che si è manifestata in questo periodo sta nel fatto di prodursi in un (doveroso) esercizio del dubbio omettendo però comodamente qualsivoglia articolata tesi positiva. In sostanza legioni di persone che si esprimono con saccenza e irrisione verso “le verità ufficiali”, concedono a sé stessi un supersconto quando si tratta di proporre “verità alternative”.

Tutto quello che si riesce ad ottenere sono gesti, suggestioni oracolari o insinuazioni che vorrebbero lasciar a intendere chissà quale chiarezza di visione, ma dietro a cui non c’è nient’altro che un sentimento a metà strada tra il disagio personale e la cultura del sospetto. Finché qualcuno non si farà carico di spiegare quale sarebbe (per lui) la “verità alternativa” alle screditate “verità ufficiali” siamo al livello zero della ragione. Questa è la comodissima posizione di chi saltabecca tra contraddizioni e discordanze (vere o immaginarie), senza mai proporre apertis verbis un modo migliore di unire i puntini.

Ora, detto questo, proviamo per un momento a fare un abbozzo del lavoro che i ‘complottisti’, troppo occupati ad applaudirsi a vicenda, si rifiutano di fare, cioè andare a vedere quali sono i rischi effettivi di manipolazione, impliciti nella presente crisi pandemica.

L’opzione più popolare e meno sostenibile la citiamo qui all’inizio, solo per lasciarcela rapidamente alle spalle: l’idea di un complotto mondiale che avrebbe utilizzato un virus prodotto in laboratorio per produrre effetti specifici pro domo sua. Premesso che, per quel che ne sappiamo, può ben darsi che un genio del male abbia creato e diffuso un virus per ragioni sue, è insostenibile che questa operazione possa coinvolgere una pluralità globale di interessi politici ed economici in contraddizione. Stati potenti e settori economici enormi sono stati messi in grave difficoltà dal Covid, che ha messo in moto processi fuori controllo. Che, nonostante la divergenza degli interessi, vi sia una discreta concordia globale nelle modalità di riconoscere e affrontare la pandemia toglie di mezzo ogni teoria del complotto ‘ex ante’, come progetto a tavolino.

Se ci rivolgiamo invece alle tendenze che si possono sviluppare in forma non pianificata, ma opportunistica, data l’occorrenza casuale del Covid, qui troviamo questioni molto più interessanti e plausibili.

1) Una prima possibilità è data dalla tentazione degli stati di usare il Covid e l’emergenza sanitaria come occasione di tipo securitario e repressivo, come modo per stabilizzare il potere e tacitare le proteste.

Non c’è nessun dubbio che i ceti politici di molti paesi possono di volta in volta giocare la carta della sicurezza pubblica per far passare strategie di controllo. In Italia ne abbiamo buona memoria con la “strategia della tensione”. Interventi come il lockdown di due settimane imposto dal governo libanese in questi giorni è, abbastanza trasparentemente, un tentativo di quietare le folle in tumulto, evitando pericolose proteste. E’ parimenti evidente che la crisi sanitaria francese ha messo momentaneamente fine alle proteste dei gilet jaunes, e questo è sicuramente di conforto per Macron, che ne può trarre vantaggio.

Il rischio di questi utilizzi opportunistici da parte del potere politico c’è senza dubbio, tuttavia bisogna collocarlo nella dimensione che gli compete. Le stesse operazioni che congelano le proteste congelano anche l’economia, e nessun paese può permettersi di esagerare con il rallentamento economico, perché è ovvio che ad un certo punto il rischio sanitario diviene per troppa gente secondario rispetto al rischio economico personale, e dunque anche il rispetto per norme securitarie giustificate dal Covid finirebbe per dissolversi, creando una situazione sociale esplosiva.

Dunque, quanto a questo primo punto, un rischio c’è, ma nessuno stato può abusarne e dunque si tratta di un rischio moderato e temporaneo.

2) Un secondo orizzonte di possibilità realistiche è dato dalla tentazione di accelerare processi economici favorevoli al grande capitale. Questo orizzonte può essere scomposto in almeno tre sottocasi, di plausibilità (e gravità) crescente.

2.1) Esistono da tempo (in verità dalle origini della civiltà industriale) tendenze alla sostituzione della forza lavoro con forza meccanica. I processi di sostituzione sono in corso sin dalla ‘spinning Jenny’ e dai ludditi, ma hanno subito una potente accelerazione negli ultimi trent’anni. Ben prima del Covid questo problema era pressante, e naturalmente, visto che gli uomini si ammalano e le macchine no, il Covid potrebbe fungere da ulteriore accelerante.

E tuttavia anche questa opzione va collocata nello spazio di possibilità storiche che le compete. Se fosse possibile per i singoli produttori procedere senz’altro nella direzione desiderata, l’automazione sarebbe molto più avanzata di quanto già non sia. A frenare questo processo tuttavia, oggi come in passato, c’è un problema di fondo: le macchine sono pessimi acquirenti. Anche se per la singola azienda poter sostituire forza lavoro con macchine può rappresentare un vantaggio competitivo, tuttavia questo processo deve avvenire con un passo che consenta alla produzione complessiva di essere acquistata e consumata. E per quanto la produzione di Yacht e haute couture possa contare su fasce stabili di acquirenti facoltosi, la stragrande parte dell’economia non produce per questi soggetti.

Questo significa che tale tendenza non ha nessun bisogno per imporsi di un’occasione come il Covid. E’ già una tendenza dominante, ed è rallentata solo dalla catastrofica disfunzionalità (per il capitale) di una società dove le masse sono sottratte al loro ruolo di consumatori.

2.2) Un discorso parzialmente diverso può essere fatto per i meccanismi di ‘digitalizzazione’. Anche qui ci troviamo davanti a processi che si stanno dispiegando da lungo tempo. Dalla ‘dematerializzazione’ delle pratiche burocratiche alla scomparsa degli uffici fisici, delle filiali bancarie, allo smart working, ecc. questo processo si sta imponendo ovunque e non da oggi. Il Covid (o una qualunque altra pandemia) rappresenta una significativa pressione alla digitalizzazione, perché riduce la necessità di contatti fisici.

Ma qual è il problema rappresentato dalla digitalizzazione?

Qui la questione è più sfumata. Da un lato un sistema con livelli di digitalizzazione efficiente presenta alcuni vantaggi generalizzati. Poter ricevere una ricetta medica a domicilio, o poter consultare un catalogo bibliotecario in remoto, o poter svolgere attività burocratiche che riducano gli spostamenti fisici sono tutte opzioni che presentano indubbi vantaggi collettivi. D’altro canto non tutte le attività possono svolgersi con pari qualità in forma digitale, e la tentazione di ridurre le sedi fisiche per comprimere i costi è un’evidente tentazione, sia per l’impresa privata che per l’erario pubblico. Mentre poter consultare un catalogo bibliotecario online (e magari ricevere un volume a domicilio) possono contare senz’altro come progressi, svolgere lezioni online rappresenta una (a seconda delle età, più o meno grande) perdita rispetto a svolgere lezioni in presenza. Mentre svolgere pratiche burocratiche online può essere un bel vantaggio rispetto a fare la fila in un ufficio, svolgere attività lavorativa domiciliare senza una chiara regolamentazione può essere una fonte di grande sfruttamento.

Anche qui, dobbiamo renderci conto che la tendenza è presente da tempo e che finora ha visto scarsissima resistenza, dunque non è ben chiaro in che senso la pandemia possa essere considerata un momento decisivo: in Italia (e non solo) abbiamo accreditato università online dieci anni fa, nel silenzio generale, e interi settori, dalle filiali bancarie ai call center sono stati smantellati e/o delocalizzati. Abbiamo mugugnato davanti a un sistema in cui non avevamo più nessun referente fisico con cui interagire, abbiamo mugugnato davanti al call-center pakistano o albanese che aveva imparato quattro risposte meccaniche in un italiano claudicante, lasciandoci con gli stessi dubbi di prima. Abbiamo mugugnato, ma abbiamo lasciato fare.

Ecco, forse oggi, lungi dal pensare che è stata la pandemia a crearli, potremmo cogliere l’occasione della pandemia per porre davvero una buona volta questi problemi, presenti e taciuti da tempo. Una discussione su ciò che viene perduto in questi processi di digitalizzazione, su come sia folle che essi non siano attentamente regolamentati considerando le tecnologie disponibili (la normativa italiana a proposito è del 1973), su come essi si incardinino nella consueta tendenza a ridurre i costi di produzione e aumentare lo sfruttamento.

2.3) Un terzo orizzonte di rischio è quello che personalmente vedo come il più immediatamente insidioso. Per comprendere bene di cosa si tratta, bisogna partire da una considerazione di fondo: la presente pandemia ha posto rilevanti ostacoli a due sole delle tre matrici della globalizzazione economica. I movimenti di persone e quelli di merci ne sono usciti ridotti e affaticati. Ma assolutamente nulla è accaduto ai movimenti di capitale, che sono già compiutamente digitalizzati e possono spaziare senza ostacoli sull’intero pianeta.

Ciò significa che la pandemia 2019-2020 si configura come un’impennata nella divergenza di potere tra ‘economia reale’ ed ‘economia finanziaria’. Sappiamo tutti che da tempo il potere contrattuale dell’economia finanziaria, proprio grazie alla sua perfetta mobilità internazionale, è aumentato rispetto al potere della produzione reale e dei suoi protagonisti (imprenditori e, a maggior ragione, lavoratori). Lo slittamento verso una ‘finanziarizzazione dell’economia’ è già in corso da tempo e ha già prodotto danni gravissimi (a partire dalla crisi del 2007-2008). Ma ora siamo di fronte ad una divergenza travolgente: il potere del capitale finanziario non è mai stato più grande nella storia, neanche alla vigilia della Prima Guerra Mondiale. Siccome la forza economica è sempre una questione relazionale, ciò che va ben inteso è che la potenza del capitale finanziario è proporzionale all’indebolimento delle sue controparti, ovvero agli indebitamenti privati e pubblici in crescita.

Sentivo proprio l’altro giorno, tra le pubblicità radiofoniche, una pubblicità da parte di un fondo privato che invitava alla vendita di ‘nude proprietà’. La prospettiva è chiarissima: fondi finanziari con capitali infiniti non hanno bisogno di realizzare rapidamente, né tanto meno di ‘abitare’. In una situazione in cui moltissime famiglie, soprattutto in Italia, hanno come unico vero e proprio asset la casa di proprietà, l’ultimo orizzonte di dispossessamento è quello di ‘mangiarsi la casa da vivi’, non lasciando più nulla alle generazioni successive. Non c’è dubbio che per molti questa finirà per essere una inesorabile necessità, in assenza di interventi statali.

Più in generale, a fronte di un sistema di debiti pubblici e privati cresciuti enormemente, il gioco del grande capitale privato diviene sempre più scoperto: si tratta di una grande occasione per acquistare a prezzi di saldo immobili, terreni e strutture produttive.

È un momento decisivo da questo punto di vista. Se di fronte a un sistema di capitali privati che ha ogni libertà, ogni tutela, e accesso ad ogni livello di potere, non si staglia con decisione un sistema di capitalizzazione pubblica, fondato sul controllo della moneta e con un’agenda propria, assisteremo al più grande saccheggio della storia, rispetto a cui la spoliazione degli asset pubblici alla caduta dell’URSS sarà un pallido precedente.

Questa è, a mio avviso, la battaglia decisiva che si giocherà nei prossimi mesi e anni. Gli stati che difenderanno la logica della remunerazione del capitale privato, cioè la logica che concepisce come unica fonte pienamente legittima di capitale il capitale privato prestato a interesse, quegli stati prepareranno il collasso del sistema pubblico e dunque la definitiva subordinazione civile della popolazione non facoltosa.

In questa cornice, va detto, poter contare su una Banca Centrale dotata della potenza di fuoco della BCE potrebbe essere risolutivo. Potrebbe, tecnicamente, esserlo perché il sistema produttivo europeo che sta dietro alla BCE è ancora il più solido al mondo e i margini di movimento di una BCE ispirata da un iorientamento keynesiano sarebbero enormi.

Ma è inutile dire che questo ‘potrebbe’ è una possibilità teorica contro cui rema l’intero apparato dei trattati europei, oltre alle intenzioni politiche esplicite dei maggiori azionisti. Dunque, sarebbe davvero bello poter contare su questa prospettiva (che peraltro verrebbe incontro a tutto quanto gli europeisti hanno gabellato come ovvio per decenni). Sarebbe bello, e per questo mi sentivo in obbligo di menzionarlo, ma qui l’ottimismo della volontà ha esaurito le riserve da tempo.

tratto da http://antropologiafilosofica.altervista.org/sui-rischi-sociali-della-pandemia-di-covid-19/

GIOCHI AGOSTANI

La dinamica di questo periodo tra media e social è spassosissima.

Ciò cui si sta assistendo è una guerra d’opinione tra soggetti che negano la gravità, o addirittura la realtà, del virus (chiamiamoli ‘minimizzatori’, perché ‘negazionisti’ è una reductio ad hitlerum) e soggetti che amplificano gli allarmi per la potenziale gravità e pericolosità del virus (chiamiamoli ‘allarmisti’).

Come criceti in corsa frenetica su ruote parallele, minimizzatori e allarmisti danno il meglio di sé in una competizione senza esclusione di colpi. Senza vedere minimamente la gabbia in cui si affaticano.

I ‘minimizzatori’ temono le conseguenze economiche (spesso per ottime ragioni personali) e tirano la coperta da una parte, cogliendo ogni occasione, ogni frase, filmato, battuta, o titolo di giornale per dire che ‘è tutta una finta’, un costrutto, una bufala, una rappresentazione drammatica strumentale.

Gli ‘allarmisti’ temono che i minimizzatori abbiano la meglio nell’opinione pubblica, incentivando comportamenti irresponsabili, e perciò enfatizzano gli elementi d’allarme per tenere alta la guardia.

Davanti all’accresciuto allarmismo i ‘minimizzatori’ vedono una conferma della loro idea che si tratti di una finzione, e perciò insistono, rincarando la dose ed attaccandosi ad ogni tassello fuori posto, ad ogni contraddizione vera o presunta.

Ciò naturalmente innesca una reazione accresciuta degli allarmisti, che vedono nei minimizzatori un’avanguardia di untori prossimi venturi.

E così avanti sulle loro ruote, in un crescendo esponenziale di incomunicabilità e disprezzo.

E’ un gioco divertentissimo con cui riempire l’usuale carenza di eventi del mese di agosto.

E in autunno, quando i nodi (economici, politici, forse anche sanitari) verranno al pettine, avremo una cittadinanza spappolata e convinta che la colpa di ‘tutto’ sia della controparte, dunque assai maldisposta a fare qualsivoglia sacrificio per ‘gli altri’, visto che tra gli ‘altri’ ci sono i responsabili del male che ci sta capitando.

In attesa della prossima versione dell’esercito di Carlo V con i suoi lanzichenecchi, invocati come liberatori.

Davvero, un gioco bellissimo.

 

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