Origini e fini dell’ideologia antirazzista (1)_di Jean Montalte

Origini e fini dell’ideologia antirazzista (1)

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“L’antirazzismo può essere una frase trita e ritrita, ma la pertinenza della domanda rimane. Jean Montalte, revisore dei conti dell’Institut Iliade e collaboratore della rivista Éléments, tenta di rispondere a questa domanda in una serie di articoli che ripercorrono la storia, i lati positivi e negativi di un fenomeno che è diventato una sorta di religione civile.

Il sangue dei poveri è denaro, diceva Léon Bloy. Ora il sangue dei poveri è anche l’antirazzismo, quell’ideologia di morte. È stata e rimane il miglior alibi per chi odia il Paese che lo ospita e gli abitanti – i nativi – che lo hanno ereditato. Il nemico da abbattere, l’unico, è il facho, cioè il kuffar della religione antirazzista, essendo l’eretico davvero troppo fuori moda. E la conferenza episcopale si svolge ormai alla cerimonia dei Cesari o in qualsiasi altro luogo in cui si mescolano le nostre élite, più mondane che culturali. Sono lontani i tempi in cui un Claude Lévi-Strauss poteva ancora contrapporre la misurata saggezza di un umanesimo già al capolinea all’isteria collettiva che stava per impadronirsi del mondo occidentale : “Nulla compromette, indebolisce dall’interno e infanga la lotta contro il razzismo più di questo modo di porre il termine a tutti gli usi, confondendo una teoria falsa ma esplicita con inclinazioni e atteggiamenti comuni da cui sarebbe illusorio immaginare che l’umanità possa un giorno liberarsi. “

Conosciamo tutti lo slogan: “l’estrema destra uccide”, che recentemente si è arricchito della precisissima e preziosa frase “ovunque nel mondo, ogni giorno”. L’importante non è che sia vero, ma che ci si creda o che si balli intorno a questo feticcio affinché la pioggia acida cada sugli innumerevoli membri dell’internazionale nazista che governa segretamente il mondo. Marc Vanguard, uno statistico, ha reso noto il numero di attentati perpetrati dagli islamisti in Francia dal 2012, ovvero 57 attentati islamisti, oltre 300 morti ; poi quelli perpetrati dall’ultradestra, ovvero 4 attentati, 4 morti. Queste cifre hanno ispirato il commento di un attivista di estrema sinistra, di cui si può assaporare il senso logico perfettamente affinato: ” Totale dei morti causati dall’estrema destra dal 2012 : 304 “. È una retorica che sta prendendo piede, nonostante la sua evidente assurdità per chiunque non si sia fatto asportare il cervello. Clémence Guetté (LFI), non ha forse dato il segnale di partenza per questa interpretazione di qualità dichiarando :” Tutti gli attacchi in Francia sono commessi dall’estrema destra ” ?

La realtà e la logica sono razziste.

Se qui trovate la logica offesa, non avete ancora sentito : la logica è razzista ! Jean-François Braunstein, in La religione woke, ci ricorda opportunamente : ” Ma l’ideologia woke non è solo uno snobismo passeggero senza conseguenze. Abbiamo a che fare con attivisti entusiasti della loro causa. Non sono più accademici, ma combattenti al servizio di un’ideologia che dà senso alla loro vita. Chiunque abbia avuto l’opportunità di provare a discutere con i wokes capisce bene che sono, come minimo, degli entusiasti, e in molti casi quelli che Kant chiamava “visionari”. Basta guardare uno dei tanti video che raccontano la presa di potere dei wokes alla Evergreen University negli Stati Uniti per capire che è impossibile discutere con questi giovani militanti, che sono piuttosto paragonabili alle Guardie Rosse cinesi durante la Rivoluzione Culturale. Come ha detto brutalmente uno degli aggressori di Bret Weinstein, l’unico professore che ha avuto il coraggio di affrontare questi militanti e di provare a ragionare con loro: “Smettila di ragionare, la logica è razzista”. Questa affermazione riassume la radicalità di un movimento inaccessibile alla ragione. Tutta questa retorica funziona alla maniera del discorso religioso e siamo arrivati al punto in cui, per dirla con Nietzsche, ” il valore di questi valori è stato preso come dato, come reale, come fuori discussione”.

Si vorrebbe far credere, tuttavia, che gli eccessi del wokismo sarebbero infedeli a un’ideologia antirazzista originariamente pura di ogni macchia o cattiva intenzione, priva di aggressività verso l’uomo bianco, o più precisamente verso le nazioni che hanno accolto le popolazioni del Sud. Questa falsificazione ha reso praticamente impossibile l’uso del termine wokismo, che ora suona come Philippe de Villiers, tutto aggrovigliato nel suo filo spinato.

Continuità dell’antirazzismo

L’antirazzismo è stato infatti, fin dal suo inizio, un’ideologia aggressiva e odiosa. Ho scritto altrove per mostrare la continuità tra un presunto antirazzismo universalista, che sarebbe quello buono, e un cattivo antirazzismo indigenista, decoloniale e identitario, che sarebbe la deviazione, o addirittura il tradimento : “Dal punto di vista del movimento decoloniale – giustamente chiamato – la dissoluzione della “bianchezza” sembra essenziale per consentire l’assunzione di minoranze eternamente oppresse, come se questa oppressione fosse, per i bianchi, un’occupazione a tempo pieno, una preoccupazione costante ! Paranoia? Saint Coluche ha fatto la stessa cosa con l’uomo bianco, il francese autoctono, per facilitare l’adesione alle tesi dell’antirazzismo istituzionale. Ecco le sue osservazioni del 26 marzo 1985, in occasione del settimo concerto annuale di SOS Racisme: “I francesi non sono francesi  la Francia è in mezzo al resto e tutti passano di là… Nella nostra storia, tutte le nostre madri sono state violentate, tranne quelle che non lo volevano. “Tutti passano di lì”, intendendo che tutti devono continuare a passare di lì, uscendo di conseguenza al minimo accenno o tentativo di controllo dei flussi migratori.

Commento di Paul Yonnet, autore di Voyage au centre du malaise français : “Bisogna immediatamente attirare l’attenzione sul fatto che questo elemento persistente della base antirazzista collega esplicitamente – e spontaneamente – l’estinzione di un fatto nazionale francese – e persino del fatto nazionale francese – alla trasformazione della sua composizione etnica. Si tratta di una concezione razzista della nazione che rivendica tutti coloro che dicono di voler salvaguardare l’omogeneità etnica della Francia affinché il Paese possa continuare a esistere nella sua forma più profonda”. Nonostante la cultura dello stupro, questa concezione delle cose – o meglio questa retorica – non è cambiata molto: il fatto francese deve essere dissolto per avallare una società multirazziale e oggi la “bianchezza”, fattore di oppressione sistemica, universale, totalitaria e cosmica. In definitiva, questo neo-antirazzismo non è poi così innovativo… Ha solo completato la sua muta e perfezionato i suoi elementi di linguaggio per dare l’impressione di un forte quadro ideologico, il lavoro sulla semantica che sostituisce il senso della realtà. “

Se, alla fine, un Macron dichiara allegramente che ” non esiste una cultura francese “, è per rispondere alla stessa esigenza di annientare il fatto nazionale francese. In questo è in linea con l’ideologia antirazzista di ieri e di oggi.

Fin dall’inizio, la retorica antirazzista è stata inseparabile dalla retorica antifrancese. La famigerata dichiarazione che Bernard-Henri Lévy ha posto alla soglia del suo libro L’idéologie française è caratteristica di questo stato di cose e funge da modello infinitamente ripetibile : ” Non direi, ci confida, che mi sia piaciuta questa discesa nell’abisso dell’ideologia francese. A volte ho faticato a reprimere la nausea per ciò che stavo scoprendo e per i fumi che dovevo respirare. Segue uno sproloquio sul Petainismo uguale all’ideologia francese, che permette al signor Lévy di cancellare questo paese, il suo popolo, la sua storia e la sua cultura con un tratto di penna : “Il problema, in ultima analisi, non era nemmeno l’antisemitismo in quanto tale  non era l’enunciazione della tesi e, per così dire, l’atto stesso; era, a monte dell’enunciazione, nel segreto notturno dei testi dove si fomentano gli atti di pensiero, l’individuazione di una matrice, filosofica e letteraria, i cui elementi si perpetuano in gran parte fino ad oggi, e che basta sintetizzare per rivelarne, se non il peggio, almeno il sito : culto delle radici e avversione per lo spirito cosmopolita, odio per le idee e gli intellettuali nelle nuvole, antiamericanismo primario e rifiuto delle nazioni astratte, nostalgia di purezza perdutabuona comunità – tali erano le parti della macchina che, quando funziona a pieno ritmo e quando entra in contatto con l’evento, attira la forma francese del delirio e la fa nascere. ” Per finire : ” L’idéologie française era un libro, non di storia ma di filosofia. Era un libro che, quando diceva pétainisme, intendeva una categoria, non di tempo, ma di pensiero. “

Ho già avuto modo di commentare questo libro quando il canale Arte ha cambiato il suo statuto per permettere al filosofo miliardario di continuare per un ottavo mandato come presidente del consiglio di sorveglianza del canale. Ecco cosa ho scritto: “Conosco alcune malelingue che negano a Bernard-Henri Lévy lo status di filosofo con la motivazione che non ha inventato un solo concetto nella sua vita. Qui vediamo quanto si sbagliano questi critici. A lui si deve l’elevazione a categoria filosofica del concetto di Pétainismo” che non ha più bisogno di essere riferito a una realtà precisa. Questo basta a rassicurare la nostra cara deputata Delogu, che non dovrà più sentirsi ignorante in materia. L’ignoranza storica è ammessa, poiché è una categoria della mente, ormai applicabile a tante realtà diverse e per di più retroattiva. Scopriremo che si applica persino a Charles Péguy. Infangare la memoria e l’opera di Péguy, ucciso il 5 settembre 1914, cioè proprio all’inizio della Prima guerra mondiale, in un libro che tratta di fascismo e petainismo, cioè di fenomeni ben successivi alla sua eroica morte sul campo dell’onore, è un esercizio concettuale che richiede una rara padronanza della logica e una quasi totale mancanza di inibizione morale.

La prevista spaccatura tra ” Beurs ” e ” Juifs “

Vorrebbero anche farci credere che il movimento decoloniale, per antisionismo o addirittura antisemitismo, ha alienato la comunità ebraica e che questa opposizione era impossibile da prevedere agli albori del movimento antirazzista originario, che avrebbe unito tutte le comunità e le minoranze in perfetta osmosi È vero, sulle spalle del beauf, del Gaulois, del Français de souche che non esiste ma che può, nonostante la sua inesistenza, per magia senza dubbio, essere oggetto di un odio viscerale. Un breve inciso: è molto importante tenere a mente questi due assiomi: il francese autoctono non esiste quando minaccia di difendere la propria identità. Esiste quando si può riversare su di lui il proprio odio. In breve, è anche falso… La frattura tra ebrei e beurs era già in germe nell’originale SOS Racisme. Infatti, Paul Yonnet ha scritto in Voyage au centre du malaise français. L’antiracisme et le roman national : ” Alcune date chiave scandiscono la storia dell’organizzazione. Ottobre 1984: l’associazione umanitaria SOS Racisme deposita il proprio statuto presso la Questura di Parigi. Giugno 1985: picco di popolarità del movimento tra i giovani sotto i 40 anni, come testimoniano le folle di attivisti del tempo libero che accorrono al grande concerto gratuito alla Concorde. Agosto 1987: la popolarità personale del presidente Harlem Désir raggiunge l’apice dopo la sua apparizione al programma televisivo L’Heure de vérité. 1988 : l’anima del movimento, il suo principale pensatore e tattico, Julien Dray, diventa deputato del Partito Socialista, dove guida una corrente di ultra-sinistra. Fine 1990-inizio 1991: il movimento implode sull’atteggiamento da tenere nei confronti della Guerra del Golfo. Emergono due campi: quello pacifista e quello guerrafondaio. Il secondo, che comprende quasi tutta la componente ebraica e uno dei principali finanziatori (Pierre Bergé), abbandona SOS Racisme, non senza denunciare l'”infantilismo” di Harlem Désir. Le questioni internazionali hanno sempre diviso un campo antirazzista la cui unità è pura fantasia.

Ora Julien Dray ha il suo canovaccio sul set di CNews, discutendo cortesemente con Sarah Knafo sul set di FigaroTV, cavillando sulla strategia da adottare sui temi dell’insicurezza e dell’immigrazione, temi che ha sempre vietato al Galli di affrontare con il pretesto dell’antirazzismo, esercitando da decenni il suo terrorismo ideologico.

La suggestione dell’idea di morte

Paul Yonnet, sempre nel suo libro Voyage au centre du malaise français, fa riferimento agli ” effetti sugli individui o sui gruppi di individui dell’idea di morte suggerita dalla collettività “, una nozione centrale sviluppata dall’antropologo Marcel Mauss. Marcel Mauss riferisce infatti dell’esistenza di “veri e propri mali di coscienza che portano a stati di depressione mortale e che sono a loro volta causati da una magia del peccato che fa sì che l’individuo senta di essere nel torto, di essere messo nel torto “.

Paul Yonnet scrive, a proposito dell’effetto morboso causato dal discorso antirazzista, altrimenti chiamato magia del peccato da Marcel Mauss : ” Per dirla in altro modo, questo antirazzismo, liberato dai suoi due avversari europei di mezzo secolo che sono stati l’imperialismo razzista del nazismo e gli imperi coloniali, ha come base referenziale l’immigrazione (e come garanzia laterale e adiacente, fino al recente passato, volta a stabilire false equivalenze di situazioni, il lontano apartheid in Sudafrica). È legato ai fenomeni di suggestione dell’idea di morte in due modi. In primo luogo, perché risale la catena della colpa retrospettiva nazificando la tradizione francese attraverso lo slittamento e l’associazione di eventi: se alcuni individui di nazionalità francese hanno causato la morte nel corso di recenti crimini razzisti, si deve comprendere che ciò è in linea con una storia segnata dai “crimini della colonizzazione” e dalla “partecipazione francese alla Soluzione Finale”, per usare espressioni che sono tanto comuni oggi quanto erano considerate scandalose quarantacinque anni fa. Decisamente, questo Paese non poteva che dare la morte.

Così, sentendosi “nel torto”, o “messo nel torto”, secondo la definizione di Marcel Mauss della magia del peccato, il francese “antirazzista” si trova nella posizione psicologica di voler accelerare passivamente o attivamente la scomparsa della Francia che è stata tradizionalmente così mortale, di premunirsi almeno contro la rinascita di un’identità così dubbia, per “rigenerare” entrambi “con il sangue nuovo” dell’immigrazione, come spesso si legge. Ecco perché, ai francesi preoccupati per il futuro della loro identità (e l’identità è una realtà soggettiva quanto oggettiva, quindi è soprattutto una rappresentazione dell’identità), ai francesi che si chiedono: “Saremo ancora francesi tra trent’anni? Un concetto riassume questo atteggiamento: il sociocentrismo negativo, definito da Pierre-André Taguieff come “odio di sé, idealizzazione del non-identico, dello straniero, dell’Altro”. Sapendo ciò che già sappiamo, è ovvio che la resistenza a SOS Racisme e all’attuale ideologia antirazzista è una resistenza a questa magia peccaminosa.

La crescente attenzione alle evoluzioni tattiche russe porta a un rinnovato successo sul campo di battaglia alla vigilia della stagione offensiva, di Simplicius

La crescente attenzione alle evoluzioni tattiche russe porta a un rinnovato successo sul campo di battaglia alla vigilia della stagione offensiva

Simplicius17 aprile∙Pagato
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Quello che segue è un corposo articolo premium di circa 4.000 parole sulle mutevoli tattiche in prima linea delle Forze Armate russe. Contiene l’analisi di un nuovo articolo del WSJ sull’argomento, nonché analisi dettagliate di recenti attacchi e un’intervista a un soldato russo che culmina nell’idea di una “rivoluzione negli affari militari” in atto in Russia, caratterizzata dalla “democratizzazione” delle forze armate, nonostante le continue difficoltà tecniche e logistiche.


Il Wall Street Journal ha pubblicato una nuova guida alle tattiche di battaglia russe, sempre più efficaci. La pubblicazione arriva in un momento in cui la stampa occidentale, insieme agli analisti filo-ucraini, ha lentamente iniziato ad ammettere i vari successi e le evoluzioni tattiche conseguite dalle forze russe.

Cominciamo con l’articolo del WSJ:

https://www.wsj.com/world/europe/blasting-a-path-an-illustrated-guide-to-russias-battle-tactics-a0163d9c

Breve riassunto da una fonte russa:

Gli americani pensano che l’esercito russo non combatta da gentiluomini.

Il WSJ scrive che l’esercito russo sta “facendo da apripista in Ucraina, combinando la forza bruta dell’Armata Rossa con la tecnologia moderna”.

Secondo il quotidiano, il metodo di guerra russo si basa sui droni che individuano i bersagli e “sulla potenza delle bombe e dell’artiglieria che spianano la strada alla fanteria per la conquista del territorio”.

“Ogni elemento dell’attacco supporta gli altri, con azioni simultanee o a ondate. Questo può creare un effetto valanga, costringendo gli ucraini a ritirarsi”, si legge nell’articolo.

Tieni presente la prima riga in grassetto, tornerà utile più avanti.

In primo luogo, come dichiarazione metodologica, il WSJ afferma di aver “[parlato] con soldati ucraini e russi, nonché con analisti militari, per farsi un’idea di come funziona”.

Iniziano affermando molti punti ovvi: la Russia ha centinaia di droni da ricognizione su tutto il fronte in ogni momento e li usa per individuare massicci bombardamenti sulle posizioni ucraine da parte di Su-34 e simili.

È emersa di recente una foto che mostra un Su-34 in volo a 11.070 metri, ovvero circa 36.000 piedi, con il paesaggio urbano notturno di Zaporozhye sullo sfondo. I piloni alari designati 3, 11, 12 e 4 sono caricati con bombe Fab-500:

Ciò che rende questo dato interessante è che la distanza dalla città sembra essere al massimo di 50-70 km, con l’aereo orientato direttamente a sud di essa. Ciò implica che la difesa aerea a lungo raggio ucraina sia logorata a tal punto da consentire a questi aerei di volare alla massima quota così vicina a un importante centro abitato ucraino. Ricordiamo che solo un anno fa, gli AWACS A-50 che volavano molto più lontano, vicino al Mar d’Azov, erano minacciati da missili antiaerei con una portata di 200-300 chilometri.

Alcune stime indicano che l’Ucraina è tristemente carente:

Sul fronte dei droni, la Russia sta espandendo progressivamente la sua flotta di droni da ricognizione. Ecco un volo di prova nella regione di Sverdlovsk di un prototipo di drone per guerra elettronica con antenne collegate, in grado di sopprimere i segnali nemici: si noti come i monitor di visualizzazione si spengano o passino in modalità statica durante il sorvolo del drone:

Tali droni possono essere utilizzati per sopprimere gli operatori FPV nemici su un dato fronte.

Contemporaneamente, un team russo ha testato la prima operazione FPV a lungo raggio, in cui un operatore seduto a Mosca è stato in grado di controllare un drone FPV a Konstantinovka:

Per la prima volta, un drone FPV controllato da Mosca colpisce una base delle Forze Armate ucraine a Chasov Yar

L’attacco è stato effettuato dal drone FPV “Ovod” utilizzando il nuovo sistema di controllo “Orbita”.

L’equipaggio del drone della brigata Espanyola ha preparato il drone per il decollo.

Il drone era controllato da un operatore di UAV con sede a Mosca.

Il drone ha volato per oltre 11 km e ha colpito con successo il bersaglio.

“Orbita” consentirà di effettuare attacchi con i droni impartendo comandi da qualsiasi parte del mondo.

/RIAN/

Certo, questa non è una novità per gli operatori americani che effettuano missioni di abbattimento dei MidEast Predator dalla comodità di Las Vegas, ma per i droni FPV si tratta di un nuovo sviluppo che potrebbe consentire la distribuzione di piloti remoti per alleviare la carenza di operatori su determinati fronti, per non parlare del fatto di mettere gli operatori al sicuro dai pericoli.

L’articolo del WSJ prosegue spiegando che i russi utilizzano essenzialmente motociclisti piccoli e veloci in un duplice ruolo. Non solo applicano il metodo di inserimento a goccia che ho spesso descritto qui, attraversando rapidamente il territorio nemico aperto per “accumularsi” in una posizione conquistata, ma utilizzano contemporaneamente la ” ricognizione a fuoco” :

Ricordiamo che proprio all’inizio dell’articolo si legge:

Il sistema bellico russo si basa sui droni per individuare i bersagli e sulla potenza delle bombe e dell’artiglieria per aprire un varco alla fanteria e consentirle di conquistare terreno. Ogni elemento di un attacco supporta gli altri, agendo simultaneamente o a ondate. Questo può creare un effetto valanga, costringendo gli ucraini alla ritirata.

Ammettono che si tratta di una strategia unificata deliberata, solitamente altamente coordinata tra l’artiglieria destinata a sparare sulle forze “esposte” che i motociclisti hanno individuato con il loro assalto di ricognizione. L’artiglieria russa e le squadre di droni sopprimono quindi i punti di fuoco nemici, consentendo ai motociclisti di trincerarsi rapidamente nelle posizioni conquistate.

Una delle affermazioni ucraine più ricorrenti, “dimostrata” in decine di video e accennata anche nell’articolo del WSJ, è che questi motociclisti russi siano una sorta di truppe sacrificabili, destinate a morire quasi subito dopo il loro arrivo. Questa affermazione è supportata da video che mostrano molti quad e motociclette distrutti dopo l’arrivo.

La verità è che queste bici economiche vengono in realtà utilizzate come materiali di consumo sul campo di battaglia, ovvero non ci si aspetta che sopravvivano e spesso vengono distrutte, ma le truppe non ne hanno più bisogno dopo essersi trincerate con successo in quella posizione. Le squadre di droni ucraine amano demolire queste bici dismesse e poi dichiarare “perdite ingenti” quando in realtà colpiscono solo bici elettriche cinesi economiche e usa e getta da 1.000 dollari, già dismesse. In molti casi, la combinazione di droni e munizioni costa più delle bici usate donate. Certo, in molti casi le cose vanno male: dopotutto, è guerra:

Prossimo:

Nelle città, la fanteria sferra assalti incessanti. Spesso mandati avanti a gruppi di tre, corrono tra gli edifici sotto il fuoco dei difensori ucraini, presi di mira da mortai e droni esplosivi. I sopravvissuti russi si rintanano in un edificio e aspettano rinforzi. Quando ne sono radunati abbastanza, ripartono.

Il WSJ fornisce questa dimostrazione di un’unità russa (blu) che corre veloce tra gli edifici e poi elimina i difensori ucraini (rossi):

Almeno per una volta mettono in mostra in modo adeguato la disparità delle vittime.

Ma la cosa interessante è ciò a cui ho accennato nella seconda parte della mia dichiarazione di apertura: i commentatori pro-UA stanno iniziando a riconoscere lentamente il successo delle tattiche in evoluzione della Russia.

Il momento clou è stato il post di Julian Roepcke di questa settimana:

L’animazione che ha incluso:

Il post ha suscitato molte prese in giro per l’ovvia lamentela secondo cui il fatto che la Russia superi in astuzia l’Ucraina sia in qualche modo considerato una forma di “imbroglio”. Altri hanno giustamente sottolineato l’ipocrisia: quando i russi attaccano frontalmente, si parla di un sanguinoso “assalto di carne”; quando evitano gli attacchi frontali e superano in astuzia il nemico tramite accerchiamento, si parla di codardia e i russi vengono accusati di essere “incapaci di sconfiggere l’esercito ucraino in battaglie dirette”.

Ma un ulteriore approfondimento dei dettagli delle attuali tattiche russe è arrivato tramite un’analisi ucraina. Leggete attentamente qui sotto le “nuove tattiche” che la Russia sta attualmente impiegando, che chiariscono molti dei video a cui abbiamo assistito di recente:

Il canale ucraino ammette ora che la Russia non sta esaurendo le sue attrezzature.

Posta ucraina:

Dopo una breve pausa, il nemico riprese a sferrare massicci attacchi contro i mezzi corazzati.

Ieri erano già più di 20 le unità corazzate in direzione Novopalivka.

Hanno abbastanza equipaggiamento, dobbiamo ammetterlo.

Hanno semplicemente cambiato tattica, e questo è già accaduto molto tempo fa.

Preferiscono piccoli gruppi di fanteria che si infiltrano tra le nostre fila e difendono il perimetro in attesa dell’arrivo di nuovi gruppi.

Risparmiano le attrezzature e le utilizzano il meno possibile.

Quando hanno bisogno di “finire” le nostre difese, che sono ben protette in qualche area, entra in gioco l’armatura.

È come è successo a Marinka o nei pressi di Avdiivka nel 2023-24, quando l’occupante poteva usare più di 50 unità di veicoli blindati alla volta.

E i risultati li ha dati, anche se in termini di rapporto tra risorse spese e progressi sono stati del tutto negativi.

Ora possono combinare attacchi massicci di gruppi di fanteria con unità corazzate. E più si avvicinano le “scadenze”, più ampia sarà l’applicazione.

Mettendo insieme il tutto, il WSJ ci informa che le piccole unità russe effettuano ricognizioni a fuoco durante le loro operazioni di trinceramento nelle posizioni conquistate. Nel frattempo, l’artiglieria russa e i cecchini con droni stanno sopprimendo e annientando le squadre di fuoco nemiche, che si sono esposte mentre sparavano alle squadre motociclistiche russe.

Questa operazione viene ripetuta più volte fino a quando un numero sufficiente di piccole unità separate non si è insediato in posizione avanzata, accumulando una disparità di forze sufficientemente ampia contro le difese nemiche prevalenti che le fronteggiano direttamente. Nel frattempo, l’artiglieria russa, i droni e i bombardamenti aerei con bombe Fab-500 continuano a colpire e indebolire le difese ucraine.

Quando ciò accadrà, come descritto sopra, la Russia lancerà un pugno corazzato molto più grande per finire le difese e rafforzare la posizione in modo permanente.

Abbiamo un altro video della 4a Brigata dell’ex 2° Corpo d’Armata della LPR che mostra da vicino alcune di queste tattiche:

Riprese aeree con drone sul campo di battaglia di un gruppo corazzato d’assalto russo della 4a brigata di fucilieri motorizzati che sfonda con successo una posizione ucraina prima che un carro armato di supporto Ukrop esca per difendere la posizione stessa, ma venga annientato.

Noterete che queste avanzate spesso consistono in una sorta di plotone corazzato composto da tre carri armati, o da un carro armato di testa con rullo pesante per le mine e due IFV. Noterete che subiscono attacchi di droni ma riescono a fuggire illesi, sfruttando la copertura fumogena.

Un nuovo rapporto di Zvezda mostra come la Russia abbia spostato gran parte della sua infrastruttura di riparazione di mezzi corazzati direttamente al fronte, consentendo il costante ripristino di unità indubbiamente contrassegnate come “distrutte” da Oryx e simili:

Il rapporto intitolato: “In precedenza, i danni gravi richiedevano l’invio dell’attrezzatura al produttore. Ora le officine possono eseguire riparazioni importanti direttamente nella zona SVO.”

Le forze russe hanno organizzato un impianto di riparazione per veicoli corazzati da campo con un’officina specializzata, un sistema autosufficiente per il ripristino di veicoli e attrezzature blindate, come dichiarato da un rappresentante del GABTU nel filmato. Secondo il giornalista, attualmente stanno riparando un T-90M danneggiato a Bakhmut. Il filmato mostra anche la riparazione di BMP-3 e di attrezzature automobilistiche.

Ma accenniamo brevemente al rovescio della medaglia. Non tutti gli attacchi vanno lisci come questo. Proprio ieri, l’Ucraina ha affermato che la Russia ha lanciato uno dei più grandi attacchi dell’anno, utilizzando più di 20 veicoli blindati e più di 40 motociclette, adottando le strategie descritte in precedenza in questo articolo:

Video della 31a Brigata meccanizzata ucraina dello stesso assalto di ieri.

Stato profondo_UA

Hanno attaccato Pryvil’ne e Novosilka con almeno 20 veicoli blindati e 41 motociclette, tra cui un gruppo di motociclisti utilizzato come diversivo.

Non è chiaro esattamente quali unità russe fossero coinvolte, ma l’operazione rientrava nell’area di responsabilità della 60ª e 57ª Brigata Fucilieri Motorizzati, entrambe della 5ª Armata Interforze del Distretto Militare dell’Estremo Oriente con sede a Ussuriysk, nel Territorio del Litorale. La parte ucraina era composta dalla 31ª Brigata Meccanizzata e dalla 17ª Brigata d’Incursione della Guardia Nazionale.

Fonti ucraine affermano che si sia trattato di un assalto significativo, che un importante generale russo è venuto a supervisionare o guidare personalmente. Affermano che l’assalto sia stato un disastro, pubblicando un altro video “rapid-splitting” di vari colpi come prova. Come minimo, si può vedere la natura su larga scala degli attacchi che la Russia sta riprendendo, mentre molte voci ucraine proclamano che la stagione delle grandi offensive è alle porte:

È arrivato approssimativamente a questo punto di geolocalizzazione: 47.841817, 36.73488

Che è più o meno qui, per una visuale migliore:

Dei presunti 20 e più veicoli blindati, il video ne mostra forse 2 o 3 definitivamente distrutti, con riprese frammentate che mostrano la stessa “spettacolare” esplosione da diverse angolazioni. Diversi motociclisti sembrano essere stati colpiti, ma dei presunti 40 e più si tratta di una frazione minima. I pochi veicoli distrutti saranno probabilmente recuperati e riparati dalle stesse basi di riparazione in prima linea illustrate in precedenza.

In effetti, un resoconto ucraino più onesto ha ammesso perdite relativamente basse:

Solo 3 APC distrutti su un totale dichiarato di oltre 21 e 6 uccisi tra centinaia di potenziali centinaia di soldati coinvolti, il che equivale a perdite molto basse, tutto sommato. Se sia stato effettivamente “respinto” lo vedremo, dato che alcune riprese mostrano effettivamente soldati russi che si lanciano verso gli sbarchi conquistati prima di essere colpiti da munizioni a grappolo, che possiamo supporre siano state perse a causa del successivo stacco del video.

Detto questo, ci sono analisti all’interno della comunità russa che sostengono validamente che la strategia russa dei “mille tagli” non dovrebbe necessariamente essere vista come una soluzione miracolosa ai veri problemi di prima linea che continuano a persistere:

“La tattica dei mille tagli”, scrive il Filologo in agguato. Basata sulla strategia di logoramento del nemico, è diventata estremamente conveniente per i reportage e ha un grande potenziale mediatico. Questa tattica permette di creare l’apparenza di un’offensiva su larga scala, mantenendo con sicurezza l’iniziativa strategica.

D’altro canto, consente di nascondere tutta una serie di problemi: supporto materiale insufficiente (“patatine” per l’assalto), mancanza di buoni specialisti/personale, inosservanza delle norme del BUSV in termini di principi fondamentali per l’organizzazione e la garanzia delle operazioni di combattimento, debole addestramento della fanteria d’assalto fresca.

La mancanza di successi tattici regolari può essere opportunamente mascherata con resoconti di “incatenamento e logoramento delle forze nemiche”. Il concetto semplificato di “gripping”, combinato con falsi resoconti, consente ai comandanti di manipolare in modo spietato le cifre delle perdite, rendendole fuori scala.

Quanto sopra è vero in molti aspetti: l’esercito russo soffre ancora di numerose debolezze e carenze, come evidenziato in precedenza dall’arresto di un altro ex governatore della regione di Kursk, questa volta Alexey Smirnov, per massiccia appropriazione indebita di fondi militari durante la costruzione delle fortificazioni di Kursk. La strategia russa adottata è dettata dalla necessità, piuttosto che dal lusso o dalla scelta. Ma è comunque sensata e utilizza la logica dell'”Arte della Guerra” per sfruttare i maggiori punti di forza della Russia proprio nel punto di maggiore debolezza dell’avversario.

Come si può vedere dall’assalto su larga scala a nord-ovest di Velyka Novosilka, la Russia sembra stia riavviando offensive più ampie. Non vedevamo un convoglio corazzato come quello dei tempi di Avdeevka da molti mesi. “Esperti” filo-ucraini come il venerabile Roepcke concordano:

Roepcke prosegue affermando che le offensive sono già iniziate da tempo:

#Analisi

I segnali erano visibili già da un paio di settimane, ma ora si può affermare con certezza: è iniziata l’offensiva primaverile dell’esercito d’invasione russo nell’Ucraina meridionale e orientale.

In seguito alle pesanti offensive russe di dicembre e gennaio, che portarono alla cattura di Kurakhove e, poche settimane dopo, di Velyka Novosilka, la Russia fu costretta a riorganizzarsi, a sostituire centinaia di carri armati da combattimento (MBT) e veicoli da combattimento per la fanteria (IFV) distrutti e a riprendersi dalla perdita di diverse migliaia di soldati, sia uccisi che feriti.

Attacchi a bassa intensità e piccole avanzate continuarono per tutto febbraio e marzo, ma rimasero di portata limitata. Durante questo periodo, l’Ucraina riuscì persino a riconquistare fino a cinque villaggi vicino a Pokrovsk.

Ora, nuove ondate di veicoli blindati, spesso utilizzati come “trasporti unidirezionali”, e di fanteria, correttamente definita “carne”, sono arrivate in prima linea.

L’offensiva primaverile russa è iniziata di fatto a fine marzo, ma ha acquisito slancio significativo solo nelle ultime due settimane.

Continua menzionando lo stesso assalto su larga scala di Velyka Novosilka di ieri (leggi il grassetto qui sotto):

L’assalto più imponente finora si è verificato ieri, partito dalla zona di Velyka Novosilka e diretto verso i confini delle oblast’ di Dnipro e Zaporizhia. Secondo l’esercito ucraino, l’assalto ha coinvolto 3 MBT, 18 IFV, 1 MT-LB e 41 motociclette (immagine sotto).

Solo tre veicoli blindati e una manciata di motociclette furono distrutti dai difensori ucraini, ormai radi; il resto riuscì a sfondare nella zona di Vilne Pole.

Allo stesso tempo, stiamo assistendo a un aumento degli assalti meccanizzati tra Pokrovsk e Andriivka, a sud e a ovest di Toretsk e nelle zone attorno a Chasiv Yar, Terny e Kupyansk, in pratica lungo tutta la linea del fronte.

Ciò non solo indica una ripresa degli assalti meccanizzati e di fanteria su larga scala, ma indica anche che la Russia ha ricevuto rinforzi significativi tra gennaio e marzo.

Stiamo inoltre assistendo all’impiego su larga scala di droni kamikaze russi a guida ottica filoguidata, recentemente entrati in produzione di massa dopo i test iniziali a Kursk.

Se la Russia riuscisse a consegnare al fronte centinaia, o addirittura migliaia, di questi droni ogni giorno, e se l’Ucraina continuasse a non essere in grado di contrastarli efficacemente, ciò potrebbe dare ulteriore impulso alle offensive russe nei settori interessati.

In conclusione, la Russia sta sfruttando la pausa (molto probabilmente a tempo indeterminato) nelle nuove forniture di armi statunitensi all’Ucraina, la situazione di stallo diplomatico causata dai tentativi di negoziazione per lo più performativi dell’era Trump e la continua riluttanza delle nazioni europee a fornire all’Ucraina le armi di cui ha urgente bisogno per fermare l’offensiva.

Insieme, questi fattori potrebbero dare luogo a nuove scoperte e alla perdita di ulteriori villaggi e città a causa delle forze d’invasione nei prossimi mesi.

Ciò che non è ancora chiaro è quante brigate l’Ucraina tenga di riserva e possa ancora schierare per respingere i russi, come ha fatto con successo attorno a Pokrovsk da ottobre dell’anno scorso fino ad oggi.

Bisognerà aspettare e vedere quanto durerà la nuova ondata di assalti meccanizzati russi. Storicamente, queste offensive tendono a esaurirsi dopo circa due-sei mesi, momento in cui la Russia necessita di un periodo di riposo per rifornire i suoi arsenali di prima linea.

È interessante notare che ha proseguito con questa confutazione a un critico (prestiamo ancora attenzione a quanto evidenziato):

Solo un’osservazione: è interessante che alcuni commentatori ora si concentrino su un singolo dettaglio, l’attacco a nord-ovest di Velyka Novosilka, per screditare l’intera analisi.

All’epoca in cui l’ho pubblicato, tre dei 21 veicoli blindati russi erano stati visivamente distrutti. Il numero potrebbe essere aumentato da allora.

Ma che siano 3, 7 o 15 – in parte sulla base di prove verificate, in parte su fonti tipo “fidati di me, amico” – non cambia il punto principale: la Russia ha dimostrato ancora una volta la sua capacità di lanciare assalti meccanizzati su larga scala, dopo due mesi di attacchi condotti prevalentemente dalla fanteria con l’impiego di Lada, Buchanka e, occasionalmente, 2-3 BMP.

La storia ha dimostrato che, indipendentemente dal numero di quei 20 e più veicoli colpiti o distrutti nei precedenti assalti, le forze russe sono comunque riuscite a far sbarcare alcune truppe nelle rispettive aree bersaglio e ad ampliare la loro zona di controllo.

Non si tratta di pessimismo o di previsioni catastrofiche: è una valutazione lucida di come il fronte si sia gradualmente spostato verso ovest negli ultimi due anni.

Beh, complimenti a lui per aver preso coscienza della realtà, almeno in una certa misura. Anche se gran parte dell’Occidente continua ad aggrapparsi a una propaganda rozza come questa:

Per non parlare del fatto che questa previsione di moda è tornata di moda di recente:

Il mese scorso Forbes ha scritto di una “rivoluzione” nelle tattiche dei droni russi, che è stata responsabile della fine dell’AFU in direzione di Kursk:

https://www.forbes.com/sites/davidhambling/2025/03/17/new-drone-tactics-sealed-russian-victory-in-kursk/

Scrivono:

Secondo il blogger militare Russian Engineer , l’improvviso successo della Russia a Kursk è stato ottenuto grazie alla concentrazione della potenza di fuoco dei droni e all’adozione di tattiche precedentemente perfezionate dall’Ucraina.

A un certo punto, l’Ucraina deteneva circa 1360 chilometri quadrati di territorio russo, ma dopo mesi di stallo i russi ne riconquistarono quasi tutto il territorio in pochi giorni. Secondo Russian Engineer, ciò comportò una “rivoluzione” nelle tattiche dei droni, che miravano alle linee di rifornimento ucraine.

“Questa rivoluzione ci consente di aspettarci che situazioni simili si ripetano in altre parti del fronte”, dichiara l’ingegnere russo.

La “rivoluzione” è stata principalmente quella di dare priorità alla qualità rispetto alla quantità nelle operazioni con i droni:

“Questa rivoluzione è stata realizzata grazie al passaggio dalla quantità alla qualità dei nostri droni e di tutte le altre forze e mezzi di supporto.”

Si può affermare che l’esercito russo abbia padroneggiato una tecnica tattica di “isolamento del campo di battaglia” con mezzi moderni e in condizioni moderne. Con l’aiuto dei droni, i rifornimenti alle forze ucraine sono stati interrotti e non hanno avuto altra scelta che ritirarsi.

Nello specifico, descrive come le forze russe a Kursk abbiano concentrato i loro operatori di droni più capaci, dotati di droni a fibra ottica, e li abbiano usati non per colpire le unità di prima linea, ma per distruggere il supporto logistico ucraino. Attaccando i veicoli che trasportavano cibo, carburante e munizioni in prima linea, e impedendo la rotazione delle truppe e l’evacuazione dei feriti, hanno isolato le forze di prima linea.

L’articolo sottolinea che, in risposta a ciò, l’Ucraina ha costruito massicciamente “tunnel di reti per droni” lungo i suoi percorsi, come ho mostrato in diversi video recenti. Ma oggi abbiamo un video russo che mostra gli operatori di droni russi aggirare abilmente la rete dal basso per colpire con successo i veicoli ucraini:

Oops, non doveva succedere!

Come ultima nota sul cambiamento di tattica, una nuova intervista con un soldato russo evidenzia la vera “rivoluzione negli affari militari” in atto da parte russa nel corso di questa guerra. Ciò conferma direttamente ciò di cui scrivo qui da molto tempo: che, contrariamente alle rozze parodie occidentali su una sorta di struttura “sovietica verticistica” nell’esercito russo, la Russia si sta di fatto trasformando in una forza dal basso, superiore a qualsiasi equivalente NATO. I generali ora riconoscono che le truppe in prima linea ne sanno più di loro sui mutevoli venti tecnologici e consentono loro di guidare dal basso, lasciando loro spazio all’improvvisazione che, se funziona, viene poi adattata e ampliata a livello dell’intero esercito:

Il conflitto in Ucraina ha reso l’esercito russo MOLTO PIÙ DEMOCRATICO.

Prima della guerra, l’esercito russo era un’istituzione rigida e conservatrice. Ma negli ultimi tre anni c’è stato un massiccio afflusso di nuove idee, tecnologie e specialisti.

Questo si estende anche alle tattiche di prima linea, dove ai comandanti di livello inferiore viene data piena libertà di condurre le operazioni e raggiungere gli obiettivi a loro piacimento, con lo stato maggiore al di sopra che non si occupa della loro microgestione, ma si limita a supervisionare il quadro operativo più ampio e a facilitare gli imperativi logistici. Questo è stato visto ripetutamente, più di recente durante la famosa operazione “Potok” sull’oleodotto, concepita e realizzata interamente dai comandanti locali sul campo, senza alcuna interferenza da parte del “comando centrale”.

Come ultimi due elementi correlati di interesse:

È apparso un video che mostra l’intensità degli attacchi russi sulle posizioni ucraine a Toretsk, ripreso da un drone FPV in agguato:

E filmati geolocalizzati mostrano che i droni russi in fibra ottica FVP stanno volando a ben 20 km di profondità nella zona di Konstantinovka, controllata dagli ucraini, per colpire obiettivi:

Per la prima volta in assoluto, la Russia ha utilizzato due droni kamikaze guidati da FiberWire per colpire un pick-up dell’esercito ucraino nel centro di #Kostyantynivka . I droni sono stati probabilmente lanciati nella zona occupata di #ChasivYar e hanno percorso oltre 10 km per colpire il bersaglio.

Le forze russe stanno costruendo droni kamikaze ad hoc per lanciare mine TM-62 sulle posizioni ucraine:

La 1a Armata Corazzata della Guardia lancia droni con mine TM-62

Oltre alla produzione in serie di droni terrestri per lo stesso scopo:

Genieri equipaggiati con un drone kamikaze di superficie hanno distrutto una roccaforte dell’AFU nella regione di Kharkov. Durante la ricognizione è stata individuata una roccaforte ostile che bloccava l’avanzata dei distaccamenti d’assalto russi.

Il drone kamikaze si è infilato nel rifugio nemico e vi ha fatto esplodere una mina anticarro TM-62. Così, il personale dell’AFU è stato eliminato.


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Le risposte del Ministro degli Esteri Sergey Lavrov alle domande dei media durante il suo intervento all’Antalya Diplomacy Forum, Antalya, 12 aprile 2025

Le risposte del Ministro degli Esteri Sergey Lavrov alle domande dei media durante il suo intervento all’Antalya Diplomacy Forum, Antalya, 12 aprile 2025

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Moderatore:

Oggi ci raggiunge Sua Eccellenza Sergey Lavrov, Ministro degli Affari Esteri della Federazione Russa. Come tutti sappiamo, è uno statista esperto e una delle figure più durature della diplomazia globale. Lavrov è stato il più importante diplomatico russo dal 2004. Dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU ai colloqui di Ginevra e oltre, ha plasmato e risposto a momenti cruciali degli affari globali negli ultimi due decenni.

Oggi, con l’architettura e l’infrastruttura di sicurezza dell’Europa sottoposte a un’immensa pressione e con l’ordine globale che si frammenta in visioni contrastanti, ci chiediamo quale sia la posizione della Russia, la sua strategia, le sue alleanze e la sua visione del mondo. Nella prossima ora esploreremo la prospettiva del Ministro Lavrov su questa realtà geopolitica in evoluzione.

Cosa vuole la Russia? Quale ruolo vede per sé in un mondo multipolare emergente? E come definisce la pace, il potere e la diplomazia nel XXI secolo? Cominciamo.

Ministro Lavrov, benvenuto ad Antalya ancora una volta. So che probabilmente risponderà nella sua lingua madre, il russo, ma vorrei farle una domanda in inglese. Vede una sala piena qui fuori. Dopo il presidente Recep Tayyip Erdogan, lei è di gran lunga la figura più popolare qui. Come ci si sente a essere una rockstar diplomatica?

Sergey Lavrov: Beh, penso che se i capi di Stato sono delle vere rockstar, allora non c’è niente di male se i diplomatici sono quello che sono. E se alla gente piace, se la gente crede che sia divertente, così sia.

Domanda: Beh, credo che, come si dice, la prova sia nel budino. La sala è piena. L’anno prossimo dovremmo chiedere forse il Teatro Antico di Aspendos, a circa 14 chilometri da qui. Credo che possa ospitare 14.000 persone. Comunque, l’anno scorso ho avuto il privilegio e l’onore di condividere lo stesso palco con lei. Uno degli aspetti che lei ha cercato di sottolineare è stata l’ascesa del mondo multipolare. A dodici mesi di distanza, come valuta lo stato attuale di questa transizione? E come ritiene che questa traiettoria abbia soddisfatto le aspettative del suo Paese?

Sergey Lavrov: Beh, credo che la tendenza sia diventata ancora più forte. Sempre più Paesi, grandi, medi e piccoli, vorrebbero avere pari voce in capitolo negli affari mondiali, in piena conformità con la Carta delle Nazioni Unite, secondo la quale l’ONU si basa sull’uguaglianza sovrana degli Stati.

E sempre più Paesi vogliono determinare la propria vita, avere un trattamento equo, una concorrenza leale nell’economia, nel commercio, in altri settori, proprio in linea con i principi della globalizzazione, che sono stati promossi dai nostri amici occidentali, soprattutto dagli Stati Uniti, per molti decenni. Quando tutti si sono convinti, la globalizzazione si è fermata e ciò che osserviamo è la frammentazione dell’economia mondiale. Questo è il tempo dell’incertezza, direi. Nessuno sa come finirà la situazione del commercio e degli investimenti mondiali. Direi che non ci sarà una fine, ma un’evoluzione, perché ci saranno nuovi colpi di scena in questa situazione.

Ma in generale il multipolarismo sta guadagnando terreno, non c’è dubbio. Non solo i grandi Paesi come Cina, India, Brasile, Turchia, Indonesia, Egitto, Sudafrica e molti altri. Credono di meritare voce in capitolo negli affari mondiali e quindi il multipolarismo è un’occasione per concretizzare i principi della Carta delle Nazioni Unite.

Perché prima, durante questa globalizzazione, soprattutto durante la Guerra Fredda, l’uguaglianza sovrana degli Stati non è mai stata rispettata dai nostri colleghi occidentali. Se si considera retrospettivamente la storia dopo la Seconda guerra mondiale e la creazione delle Nazioni Unite, non c’è stato un solo conflitto in cui i leader dell’Occidente abbiano trattato le parti in conflitto come uguali, e capisco che questo possa sembrare idealistico, e forse questa uguaglianza non sarebbe mai stata realizzata.

Ma i principi della Carta, redatti dai padri fondatori, prevedevano già il multipolarismo. Così come prevedevano il rispetto dei diritti umani, il rispetto del diritto delle nazioni a determinare da sole il proprio destino, e anche questo è in crescita, le manifestazioni sono numerose.

E’ molto importante sottolineare che nella nostra visione del multipolarismo, come promuoviamo questo concetto con i nostri partner nell’Organizzazione della Cooperazione di Shanghai e nei BRICS, nell’Unione Economica Eurasiatica, il concetto di multipolarismo non esclude l’Occidente. Abbraccia tutti, proprio come ci ha indicato la Carta.

Non vedo alcun motivo per cui la Cina e gli Stati Uniti non debbano avere buone relazioni, per cui la Russia e gli Stati Uniti non debbano avere buone relazioni, per cui tutti non debbano essere trattati con rispetto e con comprensione degli interessi nazionali.

Ho avuto alcuni contatti con i membri dell’amministrazione di Washington. Mi è piaciuto il messaggio che portavano. Non sto citando, ma in sostanza il messaggio era che la politica estera degli Stati Uniti si basa sugli interessi nazionali degli Stati Uniti.

Al tempo stesso, gli Stati Uniti riconoscono che anche gli altri Paesi hanno i loro interessi nazionali, che non coincidono mai del tutto, e forse nemmeno la metà di questi interessi sono simili. Ma quando gli interessi, soprattutto quelli dei grandi Paesi, coincidono, è essenziale che essi trovino il modo di concretizzarli in progetti economici, logistici e di altro tipo reciprocamente vantaggiosi, mentre quando questi interessi si contraddicono, è responsabilità e dovere dei Paesi, soprattutto se parliamo di grandi potenze, non permettere che queste divergenze degenerino in scontro, soprattutto in uno scontro caldo.

E questo è un aspetto che noi sosteniamo assolutamente. Abbiamo agito allo stesso modo nel corso della nostra storia. E l’ultimo elemento di questa multipolarità, nella nostra regione comune, le questioni di sicurezza dopo la Seconda guerra mondiale sono state affrontate nella logica euro-atlantica. La NATO, ovviamente. L’UE era di per sé europea, ma ultimamente l’Unione Europea ha firmato un accordo, un trattato con la NATO, trattato o accordo, non lo so, ma l’Unione Europea è ora parte delle politiche euro-atlantiche, non c’è dubbio, compresa la messa a disposizione del suo territorio per i piani della NATO di spostarsi verso est, verso sud, non so dove.

L’OSCE è stata creata come una creatura ovviamente euro-atlantica. Tutte queste costruzioni euro-atlantiche, a mio avviso, sono fallite. Non sono riuscite a consolidare la sicurezza e la stabilità. Sono riusciti ad accendere le tensioni e a ri-militarizzare l’Europa, compresa la Germania, nonostante il degrado della situazione economica e sociale.

Ma tutti gli sforzi di questa comunità euro-atlantica sono concentrati nel prepararsi a una nuova guerra. E la Germania, insieme a Francia e Gran Bretagna, è in prima linea.

Se si pensa a come appare il mondo oggi, beh, ovunque ci sono organizzazioni subregionali, molte delle quali, l’Organizzazione degli Stati turchi qui, l’Unione economica eurasiatica, l’ASEAN, la Cooperazione di Shanghai, molte. Lo stesso vale per l’Africa, con molti raggruppamenti subregionali, e per l’America Latina.

Ma l’Africa e l’America Latina hanno le loro strutture intercontinentali – l’Unione Africana e la Celac. In Eurasia non c’è mai stato nulla di simile e, come ho detto, i tentativi di portare avanti alcuni grandi progetti di unificazione sono stati fatti solo sulla base del concetto euro-atlantico.

Il Presidente Vladimir Putin, l’anno scorso, parlando al Ministero degli Esteri, ha suggerito di considerare la discussione sulla potenziale architettura di sicurezza in Eurasia come un continente, un’architettura in cui tutti i Paesi, senza eccezioni, compresa la parte occidentale del continente, saranno invitati a partecipare, in cui tutte le organizzazioni regionali saranno invitate ad aderire.

E in effetti, alcuni anni fa, abbiamo iniziato a costruire ponti tra l’Organizzazione di Cooperazione di Shanghai e l’Unione Economica Eurasiatica, l’Unione Economica Eurasiatica e l’ASEAN, l’Organizzazione di Cooperazione di Shanghai e l’ASEAN. Abbiamo anche pianificato contatti tra questi gruppi e, ad esempio, il Consiglio di Cooperazione del Golfo, che è un’organizzazione di sicurezza ma anche economica.

E circa 10 anni fa abbiamo iniziato a costruire questi ponti senza avere in mente nulla nell’area della sicurezza, ma dal punto di vista economico, logistico, trovando modi per cooperare, unire gli sforzi, armonizzare i piani. È un processo promettente. Lo chiamiamo Grande Partenariato Eurasiatico. Si tratta di un potenziale fondamento materiale per il futuro sistema di sicurezza aperto a tutti i Paesi e le organizzazioni che rappresentano il continente eurasiatico.

Quindi, credo che siamo a favore di una discussione interattiva, quindi, con il vostro permesso, mi fermo qui.

Domanda: No, per favore, in ogni caso. Ritiene che sia forse un fallimento dell’Occidente? Alcune delle istituzioni e degli organismi che hanno creato dopo la Seconda guerra mondiale, lei le ha descritte come un fallimento, così ha detto. E il fatto che lei parli di un Grande Partenariato Eurasiatico, a parte la prospettiva militare e strategica, è un successo nel XXI secolo?

Sergey Lavrov: No, non possiamo definire un successo qualcosa che sta nascendo nella mente delle persone. Ma il processo di analisi della situazione si basa sui fallimenti dei modelli di sicurezza euro-atlantici.

La NATO avrebbe dovuto essere sciolta in primo luogo, dopo che l’Unione Sovietica ha cessato di esistere, dopo che il Trattato di Varsavia ha cessato di esistere, e ci sono state voci in Occidente che hanno detto: “Ragazzi, ora concentriamoci sull’OSCE. Diamogli una spinta e facciamo parte di un’unica organizzazione”. La NATO, sapete, le promesse fatte a Mikhail Gorbaciov, poi a Boris Eltsin, e ci sono memorie in cui qualcuno chiede: “Perché non ha insistito per una garanzia scritta quando James Baker ha detto che la NATO non si sarebbe mossa di un centimetro verso est?”.

La mia risposta è che mi è venuto in mente. Sapete, nella storia russa, dal XVII, XVIII secolo, quando il commercio era in piena espansione, nessuno firmava contratti. Ci si stringeva la mano. La parola d’onore non è mai stata violata. Quindi probabilmente chi dirigeva la NATO all’epoca di cui stiamo parlando non aveva parenti nell’ex impero zarista, il che non è colpa mia, e non ha ereditato quelle tradizioni.

Ma la NATO non solo rimase, rimase, ma fu sostanzialmente annunciato che questa sarebbe stata l’unica organizzazione in grado di garantire la vostra sicurezza. 1999, Istanbul, vertice dell’OSCE, viene adottata la dichiarazione solenne che, tra le altre cose, dice: “La sicurezza è uguale e indivisibile”. Tutti, sì, hanno il diritto di scegliere le alleanze di sicurezza. Ma questo non può essere fatto a spese della diminuzione della sicurezza degli altri”. Poi è stato ancora più netto quando ha detto: “Nessun Paese, nessun gruppo di Paesi, nessuna organizzazione nell’area euro-atlantica e dell’OSCE può rivendicare un dominio”, e la NATO stava facendo esattamente questo.

E quando Vladimir Putin è salito al potere, è stato eletto presidente, ha ripetutamente messo in guardia sulla natura molto pericolosa di questo percorso. Nel 2007 a Monaco, se lo riascoltate ora, è stato molto lungimirante, purtroppo. Poi, nel 2008, il vertice della NATO a Bucarest, seguito anche da un vertice Russia-NATO. Ero presente con il Presidente Putin. Quando è stato annunciato che la Germania e la Francia non hanno permesso di approvare una decisione che avviasse formalmente il processo negoziale per l’ammissione della Georgia e dell’Ucraina alla NATO, i tedeschi e i francesi erano orgogliosi, hanno detto, ma hanno incluso nella dichiarazione che la Georgia e l’Ucraina saranno nella NATO.

Quando il Presidente Vladimir Putin ha chiesto alla Cancelliera Angela Merkel quale fosse la differenza, lei ha risposto: “No, no, no, no, questa è solo una dichiarazione politica”, e ciò che siamo riusciti a evitare è stato l’avvio di un processo legale. Ma è francamente infantile. Perché Mikhail Saakashvili ha perso il cervello pochi mesi dopo Bucarest, quando ha ordinato di attaccare le forze di pace russe in Ossezia del Sud, ha violato l’accordo approvato dall’OSCE e così via.

Poi nel 2010 ad Astana, questo è stato l’ultimo vertice dell’OSCE fino a quel momento, la formula di Istanbul è stata ripetuta alla lettera, nessuna organizzazione può rivendicare il dominio, nessuno rafforza la propria sicurezza a spese di quella degli altri.

Quindi, quando l’espansione della NATO è continuata e quando è stato chiaro che questi principi promulgati nell’OSCE sulla sicurezza uguale e indivisibile non venivano attuati, abbiamo suggerito di avere lo stesso linguaggio e di codificarlo in un accordo giuridicamente vincolante.

Ci è stato detto, durante l’amministrazione Obama, “No, no, no, ragazzi, non capite. Le garanzie legalmente vincolanti si possono ottenere solo nella NATO”. Abbiamo detto: “Ma il vostro Presidente ha firmato questa dichiarazione dell’OSCE”. E loro: “Questa è una dichiarazione politica”.

Imbroglio è la parola chiave di ciò che stava accadendo. E il nostro ultimo tentativo, ma siamo ancora nel 2008 e nel 2010, abbiamo proposto le bozze di accordo tra Russia e NATO, Russia e Stati Uniti.

Lo stesso abbiamo fatto nel dicembre 2021, senza successo. E quindi sì, il punto è che la NATO non è riuscita, o meglio non è riuscita a rafforzare la sicurezza perché la NATO è stata manipolata da coloro che non volevano condividere i benefici della sicurezza. E volevano lasciare tutti i benefici per loro stessi, perché altri ascoltassero e ricevessero istruzioni.

L’OSCE, un’altra creatura euro-atlantica, ha fallito qualche anno fa, quando il principio fondamentale del consenso è stato grossolanamente violato dalle persone che si sono sostituite alla presidenza, alla carica di segretario generale. Tutte le istituzioni, le minoranze nazionali, la libertà dei media, cos’altro?

Vede, mi dimentico persino di alcune istituzioni, il che significa che l’OSCE non è più nella mente di nessuno. Sì, hanno fallito. Non stiamo proponendo, insomma, di avere un altro club chiuso.

Tutti i continenti hanno i loro tetti continentali, se volete, non in Eurasia. E l’Eurasia è la più grande, la più ricca, direi. Anche l’Africa è molto ricca, ma non sta ancora aprendo questo potenziale. E se parliamo da un punto di vista di civiltà, il numero di grandi civiltà – provenienti dall’Eurasia, compresa questa, tra cui la Cina, la Persia, l’India, la Türkiye. La Russia è più giovane. Ma mi perdonerete se dico anche che è una grande.

Domanda: Infatti. Ministro Lavrov, lei ha affermato qui che il desiderio di espansione della NATO verso est è il problema principale, e poi ha detto che l’OSCE è un altro capitolo di questo imbroglio. Ritiene che ci sia una strada percorribile – non dico un ritorno – una strada percorribile per la sicurezza cooperativa nel continente europeo?

Sergey Lavrov: Sicurezza cooperativa è uno dei termini usati nella NATO, nell’Unione Europea, nell’OSCE. Tutto dipende.

Francamente, siamo solo all’inizio del processo. Non vogliamo affrettare le cose. Vogliamo che tutti partecipino a discussioni libere, che presentino le loro opinioni.

E ho ricordato più volte che un paio di anni fa il Presidente bielorusso Aleksandr Lukashenko ha convocato una prima Conferenza sulla sicurezza eurasiatica. La seconda si è tenuta lo scorso autunno. Ho partecipato a entrambi. Si tratta di un appuntamento annuale. A questa conferenza sono stati invitati non solo i Paesi che la pensano allo stesso modo, ma anche i membri della NATO e dell’Unione Europea. Alcuni altri europei, come la Serbia, l’Ungheria, hanno partecipato a entrambe le conferenze, la Slovacchia, e l’elenco degli invitati si sta allungando. Non è contro nessuno. Non è contro la NATO.

Penso che il più grande nemico della NATO sia la NATO stessa e coloro che hanno cercato di usarla per dominare, violando i loro stessi impegni nell’OSCE. Ma il processo di frammentazione di cui ho parlato, che si sta verificando nell’economia mondiale, si riflette anche nell’area della sicurezza, nelle discussioni della NATO, nella paura degli europei di essere abbandonati a se stessi. Noi non interferiamo.

Se credono di essere ancora rilevanti nella forma che ha fallito molte volte, questo è un loro diritto. Questo è il loro diritto di decidere. Il nostro diritto è quello di assicurarci che le questioni del continente eurasiatico siano discusse e risolte dai Paesi che si trovano su questo continente. Non si tratta di chiudere la porta a chi viene da fuori.

Prendiamo, ad esempio, l’Asia centrale. Il formato 5+1 sta, credo, facendo nascere 10 o 12 gruppi come questo, con gli Stati Uniti, con l’Unione Europea, separatamente con Francia, Germania, Giappone, Corea del Sud, Turchia, Russia, naturalmente.

Proprio ieri ho avuto un incontro con cinque ministri degli Esteri dei Paesi dell’Asia centrale. Quindi, gli stranieri partecipano sempre a qualcosa che ritengono di loro interesse e se possono trovare una forma di cooperazione che sia reciprocamente vantaggiosa.

Cooperiamo con molti Paesi in Africa, in America Latina, così come i Paesi occidentali. La Turchia in Africa è molto presente. Lo stesso vale per i Paesi arabi. Il punto è che quando si arriva in una regione, si dovrebbe rispettare il punto di vista dei suoi abitanti e dei Paesi ospitanti, se lo si desidera, e non imporre le proprie regole, come fanno i nostri colleghi europei e britannici in tutto il mondo.

Anche l’amministrazione Biden era coinvolta in questo, girando per il mondo e dicendo: “Non commerciate con la Russia, non vendete alla Russia, non comprate dalla Russia, non incontratevi con la Russia”. Lo so perché questi sono i fatti. E questo non è multipolarismo. È l’ossessione per il vostro ruolo globale, che avete inventato voi stessi e che ha funzionato durante il colonialismo, durante i tempi post-coloniali per un certo periodo, ma ora c’è un secondo risveglio del Sud globale.

Dopo il processo di decolonizzazione, il Sud globale era felice, libero, ma ora capisce che l’economia globale è stata costruita in modo tale da lasciare loro le noccioline dall’uso delle risorse naturali che hanno ereditato da Dio e dalla storia. Assolutamente.

Ricordo che durante il secondo vertice Russia-Africa del 2023 a San Pietroburgo. Il presidente ugandese Yoweri Museveni stava fornendo le statistiche del mercato mondiale del caffè. Il tutto valutato in circa 460 miliardi di dollari. Agli africani ne rimanevano 2,5 – meno dell’1% perché il loro contributo era costituito dai chicchi grezzi, raccolti e inviati alla torrefazione, al confezionamento e alla pubblicità. La Germania da sola ricavava dal mercato mondiale del caffè più di tutti i Paesi africani messi insieme. Quindi, questo risveglio è inevitabile.

Sì, la guerra tariffaria a cui stiamo assistendo cambierà molte cose. Abbiamo sentito che molti Paesi vorrebbero sedersi al tavolo con gli Stati Uniti e negoziare. Bene.

Saremo felici solo se le persone raggiungeranno degli accordi in modo pacifico e con reciproca soddisfazione. L’Organizzazione Mondiale del Commercio purtroppo è paralizzata. È stata paralizzata dalle precedenti amministrazioni americane per molti anni. Non esiste un’istituzione globale abbastanza autorevole da far accettare a tutti le sue decisioni.

Quindi, credo che dobbiamo discutere di sicurezza, di sicurezza eurasiatica, ma nel contesto del movimento della multipolarità, che si sta oggettivamente delineando.

Domanda: Lei ha detto in molte occasioni che le relazioni del suo Paese con i vicini occidentali dipendono essenzialmente dalla loro volontà di riconoscere e correggere alcuni errori. Ne ha illustrati alcuni negli ultimi 15-20 minuti. Ma vorrei chiederle, e abbiamo parlato dell’amministrazione statunitense.

Com’è avere Donald Trump dall’altra parte? È più facile? Perché nelle ultime 48 ore, all’improvviso, si parla della possibile revoca delle sanzioni contro la compagnia aerea di bandiera del vostro Paese, l’Aeroflot, e del rilascio della ballerina Ksenia Karelina. C’è la possibilità di un ulteriore movimento?

Sergey Lavrov: C’è sempre un potenziale.

E come ho detto nel mio discorso di apertura, non c’è nulla di sbagliato se gli Stati Uniti e la Russia hanno buone relazioni, se gli Stati Uniti e la Cina hanno buone relazioni. E quello che sta succedendo tra noi e l’amministrazione Trump è davvero una cosa molto banale.

I Paesi si parlano senza dettarsi ordini, senza chiedere alcuna precondizione. Si parlano e basta.

Cina e Stati Uniti. Hanno molte differenze. La Russia è stata definita dall’amministrazione Biden come la minaccia immediata. La Cina è la sfida più grande a lungo termine al dominio americano. Quindi, la competizione nel mondo dell’economia, si vedrà che tipo di forme assumerà. E Taiwan, la situazione nello Stretto di Taiwan, la situazione nel Mar Cinese Meridionale, chi avrà più influenza sui Paesi dell’Asia orientale e meridionale. E si scambiano dichiarazioni, Cina e Stati Uniti, che non sono molto piacevoli l’una per l’altra, anche su Taiwan.

Quando l’Occidente, con in testa gli Stati Uniti e altri Paesi occidentali, dice che riconosciamo, seguiamo la politica di una sola Cina, ma subito dice: “Non pensate nemmeno di toccare lo status quo”. E qual è lo status quo? Non è la politica di una sola Cina.

E di tanto in tanto, sentiamo da Washington le minacce a Pechino: “Non pensate nemmeno di usare la forza, sarebbe catastrofico”. Quindi, si sono scambiati “carinerie” pubblicamente, ma non hanno mai smesso di parlarsi a livello di ministri degli Esteri, ministri della Difesa, consiglieri di sicurezza nazionale e presidenti.

E in qualche modo l’amministrazione Biden ha deciso che con la Russia doveva essere diverso. La Russia deve imparare una lezione. E questa lezione, questa punizione sarebbe sotto forma di isolamento – stupido, per dirla in modo molto educato, non parlarsi.

Quindi, Donald Trump ha suggerito di tornare alla normalità, di interrompere questa postura idiota, che è stata una vergogna per il ruolo americano negli affari mondiali, lasciatemi dire così.

E sì, discutiamo di relazioni bilaterali, a partire dalla normalizzazione del lavoro, delle condizioni in cui lavorano le nostre ambasciate. L’amministrazione Obama ha iniziato a cacciare i diplomatici. Ha rubato diversi beni diplomatici, che sono ancora in stato di arresto. Proprio come l’amministrazione Biden ha rubato i beni russi e ora sta pensando a cosa farne, per non creare un precedente. Hanno già creato un precedente, e se credono di non dover toccare il corpo del denaro rubato, possono rubare gli interessi e spenderli per l’Ucraina. Questa è una logica disgustosa che dimostra che il pensiero neocoloniale non ha mai abbandonato queste persone.

Ma le attività dell’ambasciata, il rilascio dei visti in tempi certi, senza aspettare, in modo che i diplomatici non aspettino anni per ottenere il visto, per normalizzare le questioni dei visti statunitensi ai russi che sono ammessi al Segretariato delle Nazioni Unite, ci sono stati anche problemi. E sì, vogliamo vedere quale progetto comune possiamo considerare e discutere insieme. Questa è stata la proposta degli americani. Non abbiamo mai rifiutato proposte di cooperazione, in economia, nella risoluzione dei conflitti, mai.

Quando abbiamo incontrato Marco Rubio e Mike Waltz insieme al Consigliere del Presidente Yuri Ushakov a Riyadh, abbiamo toccato alcune questioni regionali, il Medio Oriente, la situazione del programma nucleare iraniano, alcuni altri argomenti, e naturalmente abbiamo discusso dell’Ucraina.

Ripeterò ancora una volta ciò che ho detto allora, e l’ho ripetuto anche pubblicamente, quando si parla di eliminare le cause profonde di qualsiasi conflitto, compreso quello ucraino. Questo è l’unico modo per risolvere il problema e stabilire una pace duratura: eliminare le cause profonde.

Il Presidente Trump è stato il primo e finora credo quasi l’unico tra i leader occidentali a dichiarare più volte, con convinzione, che è stato un enorme errore far entrare l’Ucraina nella NATO. Questa è una delle cause principali che abbiamo citato tante volte.

Ora si parla anche di un altro aspetto legato alle cause principali, ossia le questioni territoriali. I delegati ucraini e statunitensi, compreso Steve Witkoff, hanno riconosciuto pubblicamente che le questioni territoriali dovranno essere gestite nel contesto di un accordo duraturo. Tra l’altro, quando le delegazioni ucraina e statunitense a Riad si sono accordate su alcuni documenti a favore di un cessate il fuoco di 30 giorni, ciò è stato fatto nel contesto in cui gli americani hanno detto che la NATO e i territori sono inevitabili. Niente NATO e discussione sullo status dei territori.

Gli ucraini e persone come Emmanuel Macron, Keir Starmer e Ursula von der Leyen, ora dicono che l’Ucraina è a favore e la Russia è contro il cessate il fuoco. Ma perdono di vista, credo di proposito, le sfumature, come le ha definite il Presidente Putin. La NATO e i territori. Perché è nel contesto di questi aspetti che è stata avanzata la proposta americana.

Immediatamente dopo che gli americani ne hanno parlato, l’amministrazione Zelensky ha detto che la NATO non è affar vostro, i territori non si discutono, abbiamo bisogno di armi, armi e armi. E poi, dato che si discuteva di questa faccenda del mantenimento della pace, Zelensky ha detto che non abbiamo bisogno di forze di pace, ma di unità di combattimento.

Quindi, la schizofrenia di queste affermazioni che si escludono a vicenda è molto evidente. Ma per quanto riguarda i territori, voglio fare un’osservazione molto importante. Non si tratta di territori. Si tratta di persone che vivono su queste terre, i cui antenati hanno vissuto lì per secoli, che hanno fondato città come Odessa, Caterina la Grande, che hanno costruito fabbriche, case, porti, e queste persone, per uno scherzo della storia, durante l’epoca sovietica, non sono diventate parte della Russia, ma dell’Ucraina, perché questo è stato considerato un fattore di consolidamento per neutralizzare gli ultra-radicali che vivevano nella parte occidentale dell’Ucraina quando questa si è unita all’Unione Sovietica dopo la guerra.

Le persone che vivono lì sono private di tutti i diritti umani. Ho citato la Carta delle Nazioni Unite, che all’articolo 1 dice che tutti devono rispettare i diritti umani di ogni individuo, indipendentemente da razza, sesso, lingua o religione.

I diritti umani e i diritti linguistici di chiunque sia di etnia russa e viva nel territorio che un tempo era la Repubblica Socialista Sovietica Ucraina, sono stati privati dei loro diritti fondamentali. La lingua russa è stata vietata in tutte le fasi dell’istruzione, nei settori della cultura e dei media.

I libri russi sono stati buttati fuori dalle biblioteche. I nazisti in Germania li bruciavano, ma gli ucraini sono molto più intelligenti. Li utilizzano e ne ricavano denaro, ma tutti sono contenti.

E recentemente, la Chiesa ortodossa ucraina canonica è stata proibita per legge. Essi sterminano letteralmente tutto ciò che è russo. Quando nel settembre 2021, molto prima dell’operazione che abbiamo dovuto lanciare, a Zelensky è stato chiesto in un’intervista cosa ne pensasse, e a quel tempo gli accordi di Minsk erano ancora validi, anche se in seguito i tedeschi, i francesi e il presidente ucraino prima di Zelensky hanno ammesso che non hanno mai avuto intenzione di applicarli, avevano bisogno di più tempo per armare l’Ucraina, parlando del cessate il fuoco per 30 giorni, la logica è la stessa.

Nel novembre 2021, a Zelensky è stato chiesto cosa pensasse delle persone dall’altra parte della linea di contatto nel Donbass. E lui ha risposto, cercando di sembrare intelligente: “Sa, ci sono persone e ci sono specie”. Un’altra volta ha dato un consiglio: “A coloro che vivono in Ucraina ma si sentono legati alla cultura russa, per il bene dei vostri figli, per il bene dei vostri nipoti, andate in Russia”.

E solo un paio di settimane fa, in un’altra intervista, quando gli è stato chiesto cosa lo spinge, ha risposto: “L’odio verso la Russia”. L’intervistatore ha voluto chiarire: “Verso il presidente Putin?”, e lui ha risposto: “No, verso tutti i russi”.

E questo lo dice la persona che durante i suoi giorni artistici difendeva il diritto degli ucraini di parlare russo, e diceva: “Sparite, non pensate nemmeno di toccare la lingua russa, è la nostra storia”. Ecco dove ci troviamo.

L’odio non è la migliore guida. A proposito, forse qualcuno lo sa, Israele non ha mai proibito la lingua araba, no? Non credo. Quindi, credo che l’Ucraina sia l’unico Paese al mondo che è multinazionale, e la lingua di un enorme gruppo etnico è vietata.

Quindi, se leggete e ascoltate quello che dice l’Occidente, l’UE, la NATO, soprattutto l’UE. I diritti umani sono in cima a tutto. Quando discutono di Venezuela, Russia, Serbia, Turchia, non dimenticano mai i diritti umani. Verificate cosa dicono sulla situazione in Ucraina. Dicono che Zelensky e il suo team difendono i valori europei. Se il vostro valore è sterminare la lingua di coloro che hanno fondato il Paese, se il vostro valore è glorificare i nazisti e i loro collaboratori che sono stati condannati dal Tribunale di Norimberga, ai quali mettete dei monumenti, i cui compleanni festeggiate come festa nazionale, mentre rovinate, rovesciate i monumenti a coloro che hanno salvato l’Europa dal nazismo, rovesciate il monumento a Odessa, che ho già citato, a Caterina la Grande, che ha fondato quella città.

Tra l’altro, subito dopo l’abbattimento di questo monumento a Caterina la Grande, l’UNESCO ha concesso alla regione centrale di Odessa, dove si trovava il monumento, lo status di patrimonio dell’umanità. È una vergogna per la signora che si dà il caso sia francese e che, per caso, credo sia diventata direttore generale di questa rispettata organizzazione.

Domanda: Ministro Lavrov, va bene, quindi lei elimina la causa principale e ha parlato di territorio. Ho appena partecipato a una sessione in cui si parlava della struttura di sicurezza europea e c’era il ministro degli Esteri ucraino che ha detto: “Quando si parla di territorio, sento il vostro concetto, la vostra idea, la vostra posizione sul territorio, ma non accetteranno nulla di meno dei confini del 1991”.

Sergey Lavrov: Non si tratta di accettare. Si tratta di garantire al 100% che le persone che vivono lì da secoli non siano private dei loro diritti intrinseci e se il regime nazista ucraino, non posso descriverlo altrimenti, gode della copertura dell’Unione Europea, che, come ho appena detto, non ha mai detto una parola sulla situazione dei diritti umani in Ucraina, allora questo non è un nostro problema.

Noi ascoltiamo le persone che hanno votato al referendum per unirsi alla Russia per ripristinare tutti i loro diritti che gli appartengono per diritto internazionale e per storia, per giustizia.

Domanda: Ok, lei ha dichiarato in numerose occasioni che è un atto ostile anche solo prendere in considerazione l’idea di forze di pace straniere. La Federazione Russa potrebbe in qualche circostanza pensare a delle forze di pace neutrali sul territorio?

Sergey Lavrov: I maggiori sostenitori di qualcosa come forza di stabilità, forza di sostenibilità sono Emmanuel Macron e Keir Starmer. Non pensano a una forza neutrale. Dicono che noi, Francia e Gran Bretagna, saremmo i Paesi che fornirebbero la maggior parte del contingente. A proposito, si parla di paesi al di fuori dell’Unione Europea, tra cui la Turchia, secondo le indiscrezioni. Hanno detto che stanno parlando con la Cina, il che è una bugia, con l’India, con l’Indonesia, hanno detto.

La mia domanda è: innanzitutto, il Presidente Trump, che come ho già detto, sembra capire molto di più di ciò che sta accadendo rispetto a qualsiasi leader europeo, tranne che per l’Ungheria e la Slovacchia. Questi leader sono piuttosto riflessivi.

Ma è stato il Presidente Trump a dire per primo molte cose sulla NATO, sui territori, e ha detto che quando gli è stata chiesta l’idea di un contingente, di una forza, di un gruppo, comunque lo si chiami, ci dovrebbe essere una discussione tra le parti.

Loro dicono, credo che il Presidente Macron abbia detto, nessuna discussione con i russi, l’Ucraina è un Paese sovrano, ha il diritto di invitare chiunque, e loro ci stanno invitando. Tra parentesi, ripeto quello che ha detto Zelensky: non abbiamo bisogno di forze di pace, ma di unità di combattimento.

Quindi, fate le vostre conclusioni, ma Keith Kellogg, a proposito, ieri ha detto che perché non dividere l’Ucraina come abbiamo diviso Berlino dopo la Seconda Guerra Mondiale. Poi ha detto di essere stato frainteso, di essersi espresso male.

Ma a tutti sfugge il punto chiave. Immaginate, sì, i leader della burocrazia di Bruxelles, dicono che dobbiamo raggiungere un accordo che alla fine della giornata deve garantire la sovranità dell’Ucraina. Tra l’altro, non hanno parlato di integrità territoriale, ma di sovranità.

La mia domanda è rivolta a loro: volete che le forze di pace mantengano lo stesso regime che ora è guidato da Zelensky? Non volete chiedere a questo regime se è interessato ad attuare gli impegni internazionali, compresa la Carta delle Nazioni Unite, per quanto riguarda i diritti delle minoranze nazionali, linguistiche e religiose? Nessuno solleva la questione.

Quindi la mia conclusione è che ignorando la grossolana violazione di tutte le norme internazionali sugli esseri umani, ignorando queste norme e le violazioni da parte di Zelensky di queste norme, e allo stesso tempo, discutendo del dispiegamento di qualcosa di militare, chiamiamolo peacekeeping, chiamiamolo forza di stabilizzazione, nella parte rimanente dell’Ucraina, vogliono usare questa forza non per mantenere la pace, ma per mantenere e proteggere il regime nazista, e questa è la chiave. Qualcos’altro è una cortina di fumo.

Domanda: Ha menzionato gli importanti colloqui in corso a Riyadh e alcune delle conversazioni che ha avuto con la delegazione americana. Inoltre, si è parlato della sicurezza della navigazione nel Mar Nero. Sappiamo che c’è stato un processo di costruzione con la parte turca, con la Repubblica di Turchia. Qual è la sua posizione in termini di sviluppo?

Sergey Lavrov: E’ stata una delle proposte menzionate dal Presidente Trump nella sua ultima conversazione telefonica con il Presidente Putin.

Il presidente Vladimir Putin ha detto: “Va bene, ma dobbiamo specificare l’accordo in modo da non permettere che si ripeta il fallimento del primo”. E il primo è stato nel 2022. Si trattava di un pacchetto: garanzie per le esportazioni ucraine, e la seconda parte del pacchetto era un memorandum tra le Nazioni Unite e la Russia per garantire le esportazioni dalla Russia assicurando tariffe di trasporto normali, tariffe assicurative, assicurando il diritto delle navi russe con fertilizzanti, con grano, di fare scalo nei porti europei, nei porti del Mediterraneo, e così via. Solo i normali termini commerciali, senza concessioni. E la parte ucraina dell’accordo è stata attuata. La parte russa non è nemmeno iniziata.

Non biasimiamo le Nazioni Unite, i cui rappresentanti ci hanno provato e continuano a provarci. Perché formalmente l’accordo Russia-ONU dura fino a luglio di quest’anno. Si trattava di un accordo triennale, mentre l’accordo sull’Ucraina era di un anno. E naturalmente, allo scadere del primo anno, abbiamo detto: “Grazie mille. Non vogliamo giocare in un solo modo”. Il Segretario Generale Guterres ci ha provato, il Segretario Generale dell’UNCTAD, Rebecca Greenspan, ci ha provato, ma la posizione dell’ONU, del Segretariato delle Nazioni Unite, era molto, come dire, complicata. In sostanza, dicevano: “Non possiamo toccare le sanzioni”. Il fatto che abbiano riconosciuto le sanzioni unilaterali come legittime, ci ha detto: “Cercheremo di trovare un modo per aggirare le sanzioni in modo da non violarle”. E ci hanno provato per quasi tre anni, senza successo.

Quindi, non è la prima volta che questo tema del Mar Nero torna a galla. L’anno scorso, il Presidente Erdogan, credo a marzo, ha proposto al Presidente Putin di riprendere l’accordo. Ha detto che Zelensky è pronto a collaborare. La proposta è diversa dall’accordo originale. Perché l’accordo originale prevedeva ispezioni delle navi da carico ucraine che tornavano nei porti ucraini per assicurarsi che non trasportassero armi.

L’anno scorso, la proposta del Presidente Erdogan al Presidente Putin era “fidati di me”. Avrebbe annunciato che non ci sono armi a bordo e avrebbe potuto partire. Non è stata una situazione facile, ma il Presidente Putin ha detto che la sosterrà, a patto che il Presidente Erdogan usi i suoi buoni uffici per disciplinare gli ucraini in modo che non violino. Poi, all’ultimo momento, Zelensky ha rifiutato.

In realtà, ha prima aggiunto – il Presidente Erdogan ha chiamato il Presidente Putin e ha detto che Zelensky vuole aggiungere anche l’impegno a non attaccare le centrali nucleari. Putin ha detto: “Ok, non ha nulla a che fare con il traffico del Mar Nero, ma va bene”. E poi, quando ha accettato questa aggiunta, Zelensky si è rifiutato.

Quindi, ci ritroviamo sempre in questa situazione. Nel frattempo, gli ucraini, in tutta franchezza, non credo che si lamentino delle difficoltà di esportazione del loro grano. Spediscono molto a prezzi di dumping all’Unione Europea. L’Unione Europea non è contenta. E invece di fare qualcosa per il bene dei loro cittadini, quelli di Bruxelles hanno minacciato di non importare più grano dalla Russia. Sono leader molto precisi. Dicono che  Kaja Kallas, Annalena Baerbock, dicevano sì, quando venivano criticati dalla gente che diceva: “Viviamo peggio di prima”. Sì, lo capiamo, ma il nostro elettorato dovrebbe soffrire per il bene dell’Ucraina, mentre allo stesso tempo migliaia e migliaia di ucraini vivono nel lusso europeo, acquistando veicoli molto costosi. Ma questo è ciò che l’élite europea chiama valori europei, che difende nella persona del regime di Zelensky.

Quindi questa volta, quando il Presidente Trump ha proposto un altro accordo sul Mar Nero, il Presidente Putin ha detto: “Sì, siamo pronti, ma dobbiamo trarre lezioni dal passato, e assicurarci – prima di lanciarlo, risolviamo le questioni relative al trasporto, all’assicurazione, allo scalo nei porti”. Gli americani hanno preso questa decisione e stanno valutando – non sono tornati da noi dopo questo.

Un’altra iniziativa del Presidente Trump è stata la moratoria di 30 giorni – non un cessate il fuoco totale, ma una moratoria di 30 giorni sugli attacchi alle infrastrutture energetiche. Durante questa conversazione telefonica, il Presidente Putin ha immediatamente accettato, e ha autorizzato – ha dato ordine al capo di Stato Maggiore di smettere di attaccare le infrastrutture energetiche ucraine, anche quelle legate all’esercito. In quel momento, sette droni russi erano in volo. Il Presidente Putin ha ordinato di spegnerli, cosa che è stata fatta.

Da allora, abbiamo mantenuto la parola, e gli ucraini ci hanno attaccato fin dall’inizio ogni giorno che passa, forse con due o tre eccezioni. Ho consegnato ai nostri colleghi turchi, al ministro Hakan Fidan, quello che abbiamo consegnato agli americani, all’ONU, all’OSCE, l’elenco dei fatti, che elenca gli attacchi dell’Ucraina nelle ultime tre settimane contro le infrastrutture energetiche russe.

Abbiamo capito che odia tutti i russi, quindi dà ordini. O dà ordini, e non vengono eseguiti, o sta mentendo, dicendo che sta dando questi ordini. È una tragedia. È una tragedia.

Domanda: C’è stato qualche contatto diretto o indiretto da parte ucraina qui ad Antalya?

Sergey Lavrov: Non mi risulta. Sono venuto qui per lavorare.

Moderatore: Ok. Signore e signori, stiamo per concludere il tempo a nostra disposizione.

Ho parlato delle relazioni con l’Occidente, degli Stati Uniti e della situazione in Ucraina. Se qualche stimato giornalista ha una domanda su qualcos’altro…

Domanda: Signor Ministro, direbbe che il Presidente Trump o alcuni uomini che sono dalla parte del Presidente Trump, vorrebbero adottare il cosiddetto approccio contro-Nixon per allontanare la Russia, la Cina e riallinearsi con la Russia dopo le conseguenze della guerra di Corea? Come vedrebbe o come valuterebbe questo tipo di approccio cosiddetto contro-Nixon?

Sergey Lavrov: Guardi, posso solo dirle che in nessuno dei nostri contatti con gli americani, in nessuno, sia che si tratti di conversazioni telefoniche, sia che si tratti di incontri di persona, questa questione è stata mai sollevata o anche solo accennata, mai.

E penso che il Presidente Trump e i suoi collaboratori abbiano una grande esperienza di vita. E quando si capisce la vita, è molto più facile fare politica. E poiché lui capisce la vita, credo che chi capisce la vita non penserebbe mai di cercare di allontanare la Russia dalla Cina.

Moderatore:

Estratto dell’intervista del Ministro degli Esteri Sergey Lavrov a Kommersant, Mosca, 14 aprile 2025

622-14-04-2025

Domanda: Stai dicendo che la nuova amministrazione statunitense è disposta a discutere una soluzione negoziata in Ucraina oltre alle questioni bilaterali.

In occasione di una recente riunione delle Nazioni Unite sull’Ucraina, convocata sulla scia dell’attacco a Krivoy Rog, un rappresentante degli Stati Uniti ha chiarito che i continui attacchi della Russia all’Ucraina potrebbero ostacolare i colloqui di pace.

Alcuni giorni dopo, è seguito l’attacco a Sumy. Secondo la parte ucraina, sono morti civili e bambini. Questo significa che la Russia non prende sul serio gli avvertimenti degli Stati Uniti?

Sergey Lavrov: Quale rappresentante degli Stati Uniti ha fatto esattamente questa dichiarazione dopo Krivoy Rog?

Domanda: Il rappresentante ufficiale degli Stati Uniti presso le Nazioni Unite.

Sergey Lavrov: Gli Stati Uniti hanno molti rappresentanti ufficiali. Recentemente un rappresentante statunitense ha detto qualcosa in Groenlandia e gli è stato chiesto di tornare a casa e di iniziare a cercare un altro lavoro.

Non sto dicendo che questa signora (non ricordo che abbia fatto la dichiarazione da lei citata) meriti lo stesso, ma sappiamo bene che le bugie vere e proprie hanno dominato gli approcci praticati dall’Occidente, dall’Europa e dagli Stati Uniti durante l’amministrazione Biden.

Negli ultimi due anni, ho più volte richiamato l’attenzione del Segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres sul fatto che, in qualità di capo amministrativo delle Nazioni Unite – la Carta descrive così il suo lavoro – deve rispettare l’articolo 100 della Carta e astenersi dal prendere posizione, ma piuttosto mantenere una posizione equilibrata e non seguire le istruzioni di alcun governo.

Lo conosco da molto tempo. Ci diamo del tu e lavoriamo da decenni in diverse posizioni sovrapposte. Gli ho detto che, in quanto membro di questo ufficio, non può ricevere istruzioni dai Paesi occidentali, ma sta effettivamente seguendo le istruzioni dei Paesi occidentali per quanto riguarda la situazione in Ucraina.

Ora, di nuovo, dopo tutto il clamore per le “decine di bambini e civili morti a Sumy”, ha fatto una dichiarazione in cui affermava di essere fortemente a favore della cessazione di tali violazioni del diritto umanitario internazionale, della risoluzione della crisi ucraina sulla base della Carta delle Nazioni Unite e del rispetto dell’integrità territoriale dell’Ucraina in linea con le risoluzioni dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite che affrontano la questione.

Il diritto umanitario internazionale proibisce categoricamente di collocare strutture e armi militari sul suolo di siti civili. Fin dai primi giorni della crisi, e ancora prima quando erano in vigore gli accordi di Minsk, e si sperava che avrebbero portato a una soluzione pacifica del problema, lasciando il territorio ucraino nella sua interezza, tranne la Crimea (che era riluttante a farlo), c’erano “un milione” di fatti di artiglieria e sistemi di difesa aerea dispiegati nei quartieri delle città accanto agli asili. Internet era pieno di video che mostravano donne ucraine che urlavano ai militari dicendo loro di sgomberare i negozi e i parchi giochi, ma loro continuano a farlo ancora oggi.

Abbiamo informazioni su chi si trovava all’interno dell’edificio colpito a Sumy. C’è stata un’altra riunione di comandanti militari ucraini con i loro colleghi occidentali che erano lì sotto l’aspetto di mercenari o altro. Il personale militare della NATO è presente e si occupa direttamente delle operazioni. Tutti ne sono consapevoli. Il New York Times ha fornito un resoconto del ruolo chiave del personale militare statunitense negli attacchi alla Russia fin dall’inizio. Senza di loro, la maggior parte dei missili a lungo raggio non sarebbe mai stata lanciata.

LA GEOPOLITICA DELL’ACQUAIL BRAHMAPUTRA E IL POTERE CINESE SUI FIUMI TIBETANI, di Alberto Cossu

LA GEOPOLITICA DELL’ACQUAIL BRAHMAPUTRA E IL POTERE CINESE SUI FIUMI TIBETANI_Alberto Cossu

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Il fiume Brahmaputra, maestosa arteria vitale che serpeggia nel cuore dell’Asia, nasce dalle gelide vette dell’Himalaya tibetano per poi snodarsi attraverso Cina, India e Bangladesh, fino a sfociare nel Golfo del Bengala. Conosciuto con diverse denominazioni lungo il suo percorso – Yarlung Tsangpo in Tibet, Siang e Brahmaputra in India, e Jamuna in Bangladesh – questo fiume transfrontaliero rappresenta una fonte di sostentamento cruciale per centinaia di milioni di persone. Il Brahmaputra è un fiume sacro che ha una notevole valenza culturale in India. Il suo nome vuol dire figlio di Brahma ed è l’unico ad essere denominato al maschile mentre tutti i fiumi in India sono indicati al femminile. Questo per significare la sua imponenza e forza con la quale si precipita nel Gange per poi formare uno dei delta più grandi al mondo.Ma la Cina ha ambiziosi piani di sviluppo infrastrutturale lungo il suo corso superiore, in particolare la costruzione di dighe su larga scala. Tali progetti stanno destando preoccupazioni significative nelle nazioni a valle, in primis India e Bangladesh, in merito alla sicurezza idrica, all’equilibrio ecologico e alle delicate dinamiche di potere regionali. La gestione delle acque del Brahmaputra si è così trasformata in un intricato nodo geopolitico in cui si scontrano da un lato le aspirazioni energetiche della Cina legate a ragioni di sviluppo economico e dall’altra le preoccupazioni di India e Bangladesh per l’impatto sul vasto ecosistema a valle e sui timori che la Cina possa diventare un regolatore delle acque con un impatto geopolitico di notevole ampiezza.Estendendosi per circa 2.900 chilometri, il Brahmaputra non è semplicemente un corso d’acqua; esso incarna un’ancora di salvezza per la variegata gamma di ecosistemi e comunità che alimenta. Originando dal ghiacciaio Chemayungdung in Tibet, il fiume attraversa un paesaggio multiforme, spaziando dagli aridi deserti d’alta quota alle lussureggianti pianure alluvionali. Nel suo tragitto attraverso il Tibet, il fiume scorre verso est per circa 1.700 chilometri, incrementando significativamente il suo volume grazie al contributo di numerosi affluenti. Entrando in India attraverso l’Arunachal Pradesh, assume la denominazione di Siang, per poi emergere nelle pianure dell’Assam come il possente Brahmaputra. In questa fertile valle, il fiume si espande ulteriormente,

configurandosi come un ampio e ramificato corso d’acqua, di vitale importanza per l’agricoltura, i trasporti e l’identità culturale del popolo assamese. Infine, una volta giunto in Bangladesh, prende il nome di Jamuna e si fonde con il Teesta e altri fiumi prima di confluire nel Gange, dando vita al delta più esteso del pianeta, il fertile e densamente popolato delta del Bengala, per poi sfociare nel Golfo del Bengala.La rilevanza del Brahmaputra per i paesi collocati lungo il suo percorso si manifesta a diversi livelli. Per la Cina, il tratto tibetano del fiume rappresenta una notevole opportunità per la produzione di energia idroelettrica, elemento cardine della sua strategia energetica nazionale e volano di sviluppo per le regioni occidentali. Per l’India, in particolare per gli stati di Arunachal Pradesh e Assam, il fiume è essenziale per l’irrigazione, sostenendo un’ampia base agricola e garantendo la sussistenza di milioni di persone. Le sue piene annuali, pur essendo talvolta fonte di devastazione, depositano anche fertile limo, arricchendo i terreni agricoli. Il fiume riveste inoltre un profondo significato culturale e religioso in India, essendo venerato come il figlio di Brahma. In Bangladesh, il Jamuna è cruciale per l’agricoltura, la pesca e la navigazione interna. La natura dinamica del fiume e il suo contributo alla formazione e al mantenimento del delta del Bengala sono altresì di notevole importanza ecologica. Tuttavia, la regione è anche altamente vulnerabile ai disastri naturali, con India e Bangladesh che sperimentano frequentemente gravi inondazioni e siccità, rendendo la prevedibilità e la gestione del flusso del Brahmaputra di primaria importanza.La crescente attenzione della Cina verso lo sfruttamento del potenziale idroelettrico dei suoi fiumi, inclusi quelli che nascono in Tibet, ha suscitato preoccupazioni tra i paesi vicini situati a valle. Sebbene la Cina abbia già costruito diverse dighe di dimensioni minori sugli affluenti del Brahmaputra, la prospettiva di dighe su larga scala sul corso principale del fiume ha innescato forti preoccupazioni. Rapporti e dichiarazioni ufficiali cinesi hanno confermato i piani per la costruzione di importanti progetti idroelettrici sullo Yarlung Tsangpo. La Cina sostiene che questi progetti sono principalmente destinati alla produzione di energia idroelettrica per soddisfare la sua crescente domanda energetica e per promuovere lo sviluppo nella Regione Autonoma del Tibet. Pechino afferma di condurre valutazioni di impatto ambientale e che i progetti sono concepiti per minimizzare gli effetti a valle. Funzionari cinesi hanno inoltre rivendicato il diritto sovrano del paese di sviluppare le risorse all’interno del proprio territorio. Tuttavia, l’opacità che circonda questi progetti, inclusa la condivisione di piani dettagliati e dati idrologici in tempo reale, ha alimentato sospetti e apprensione in India e Bangladesh. Uno dei progetti più discussi è la proposta di una

mega-diga nella contea di Medog in Tibet, in prossimità del confine indiano. Sebbene i dettagli specifici rimangano scarsi, la sua potenziale portata ha generato timori di significative alterazioni del flusso del fiume a valle. Lo scopo dichiarato è spesso legato alla produzione di energia idroelettrica, ma persistono preoccupazioni riguardo a potenziali piani futuri per la deviazione dell’acqua, specialmente considerando la scarsità idrica della Cina nelle sue regioni settentrionali.La costruzione di dighe sul Brahmaputra da parte della Cina ha introdotto una significativa dimensione geopolitica nella gestione delle acque nella regione. L’acqua, risorsa fondamentale, possiede il potenziale di divenire fonte di conflitto o catalizzatore di cooperazione, e il caso del Brahmaputra esemplifica questo delicato equilibrio. Le principali preoccupazioni dell’India si concentrano sul potenziale per una riduzione del flusso d’acqua durante le stagioni secche, con gravi ripercussioni sull’agricoltura e sui mezzi di sussistenza di milioni di persone nella valle del fiume Brahmaputra. Il rilascio improvviso di ingenti volumi d’acqua dalle dighe durante la stagione dei monsoni potrebbe inoltre esacerbare le già frequenti e devastanti inondazioni in Assam e Bangladesh, senza un adeguato preavviso. Inoltre, l’India considera il controllo cinese su una risorsa idrica vitale come una vulnerabilità strategica. La mancanza di un meccanismo di condivisione dei dati robusto e trasparente da parte della Cina riguardo al flusso del fiume e alle operazioni delle dighe aggrava ulteriormente tali preoccupazioni, ostacolando un’efficace gestione delle inondazioni e la pianificazione agricola a valle. Il Bangladesh condivide simili preoccupazioni con l’India riguardo alla ridotta disponibilità d’acqua e all’aumento del rischio di inondazioni. Data la sua posizione come stato rivierasco più a valle, il Bangladesh è particolarmente vulnerabile a qualsiasi alterazione significativa del flusso del Brahmaputra. Il potenziale impatto sul delta del Bengala, una regione fragile ed ecologicamente significativa, rappresenta anch’esso una seria preoccupazione. I cambiamenti nel flusso di sedimenti dovuti alle dighe a monte potrebbero influire sulla formazione e sulla stabilità del delta, con conseguenze sulla sua biodiversità e sui mezzi di sussistenza dei suoi abitanti. Dal punto di vista cinese, lo sviluppo delle risorse idroelettriche in Tibet è considerato cruciale per la crescita economica e lo sviluppo regionale del paese. Pechino sostiene che i suoi progetti sono sostenibili e tengono nella dovuta considerazione gli impatti a valle, rivendicando inoltre il diritto sovrano di utilizzare le risorse all’interno del proprio territorio. Strategicamente, il controllo sulle sorgenti di importanti fiumi come il Brahmaputra conferisce alla Cina una significativa leva nelle sue dinamiche di potere regionali. L’assenza di un quadro giuridico internazionale globale che governi il Brahmaputra complica ulteriormente la situazione. A

differenza del fiume Indo, regolato da un trattato tra India e Pakistan, non esiste un accordo generale per il Brahmaputra che coinvolga tutti e tre gli stati rivieraschi. Sebbene siano in vigore alcuni accordi bilaterali tra India e Cina per lo scambio di dati idrologici durante la stagione delle inondazioni, questi sono spesso ritenuti insufficienti per affrontare le maggiori preoccupazioni. Al di là delle immediate tensioni geopolitiche, la costruzione di grandi dighe sul Brahmaputra comporta anche significative implicazioni ambientali ed ecologiche. Le dighe possono alterare il regime di flusso naturale del fiume, influenzando i modelli di migrazione dei pesci, interrompendo l’ecosistema fluviale e potenzialmente portando alla perdita di biodiversità. I cambiamenti nel flusso di sedimenti possono influire sulla fertilità delle terre agricole a valle e sulla stabilità del delta del Bengala. Le conseguenze ecologiche a lungo termine della costruzione di dighe su larga scala in una regione sismicamente attiva come l’Himalaya richiedono inoltre un’attenta considerazione. Il futuro del Brahmaputra e la stabilità geopolitica della regione dipendono dalla ricerca di un percorso verso la cooperazione e la gestione sostenibile delle acque. Il dialogo e la trasparenza sono fondamentali. La Cina deve impegnarsi in modo più proattivo con India e Bangladesh, condividendo informazioni dettagliate sui suoi progetti di dighe e sui loro potenziali impatti. L’istituzione di un meccanismo di condivisione dei dati robusto e affidabile, che vada oltre la sola stagione delle inondazioni, è cruciale per costruire fiducia e consentire alle nazioni a valle di prepararsi a eventuali cambiamenti nel flusso d’acqua. Esplorare la possibilità di un accordo globale sulla gestione delle acque transfrontaliere che coinvolga tutti e tre gli stati potrebbe fornire un quadro per affrontare le preoccupazioni e garantire un uso equo e sostenibile delle risorse del fiume. Tale accordo potrebbe comprendere aspetti come la condivisione di informazioni, il monitoraggio congiunto e meccanismi di risoluzione delle controversie. In definitiva, il fiume Brahmaputra dovrebbe essere visto come una risorsa condivisa, un’ancora di salvezza vitale che connette tre nazioni. Affrontare le sfide geopolitiche associate alla sua gestione richiede un passaggio da azioni unilaterali a soluzioni collaborative, riconoscendo l’interconnessione della regione e la responsabilità condivisa di garantire la salute del fiume e il benessere dei milioni di persone che dipendono da esso. Le acque agitate del Brahmaputra servono come un potente promemoria della complessa interazione tra sviluppo, geopolitica e il bisogno fondamentale di una gestione sostenibile delle risorse nel XXI secolo.Il vasto e imponente altopiano tibetano, spesso definito la “Torre d’Acqua dell’Asia”, è la sorgente di alcuni dei fiumi più importanti del mondo. Da queste altitudini glaciali e dalle nevi perenni

nascono circa dieci grandi fiumi che alimentano le vite e le economie di miliardi di persone in numerosi paesi a valle. Il controllo che la Cina esercita su questo altopiano strategico conferisce un potere significativo sulla gestione di queste risorse idriche transfrontaliere, con implicazioni geopolitiche di vasta portata per l’intera regione asiatica. Questa “idro-egemonia” cinese, derivante dal suo dominio sulle sorgenti di questi fiumi vitali, solleva preoccupazioni cruciali riguardo alla sicurezza idrica, all’equilibrio ecologico e alla stabilità politica dei paesi che dipendono dalle acque tibetane.Il Tibet è la culla di una rete idrografica cruciale per l’Asia. Tra i dieci principali fiumi che traggono origine da questo altopiano si annoverano: lo Yangtze (Fiume Azzurro), il fiume più lungo dell’Asia, vitale per l’agricoltura, l’industria e l’energia idroelettrica cinese; il Fiume Giallo (Huang He), culla della civiltà cinese e fondamentale per l’irrigazione e l’approvvigionamento idrico della Cina settentrionale; il Mekong, che attraversa Cina, Myanmar, Laos, Thailandia, Cambogia e Vietnam, sostenendo l’agricoltura, la pesca e la vita di milioni di persone nel Sud-est asiatico; il Brahmaputra (Yarlung Tsangpo), che fluisce attraverso Cina, India e Bangladesh, cruciale per l’agricoltura e i mezzi di sussistenza nelle regioni nord-orientali dell’India e in Bangladesh; l’Indo, che alimenta l’agricoltura e le popolazioni di India e Pakistan, con un’importanza storica e strategica significativa; il Salween, che attraversa Cina, Myanmar e Thailandia, noto per la sua biodiversità e le sue aree selvagge; l’Amu Darya, un tempo noto come Oxus, che scorre attraverso Afghanistan, Turkmenistan, Uzbekistan e Tagikistan, vitale per l’irrigazione in Asia centrale; il Syr Darya, che attraversa Kazakistan, Kirghizistan, Uzbekistan e Tagikistan, anch’esso fondamentale per l’agricoltura in Asia centrale; il fiume Tarim, il fiume più lungo della Cina interna, essenziale per l’agricoltura e la sopravvivenza nelle regioni aride dello Xinjiang; e il fiume Sutlej, un importante affluente dell’Indo, che scorre attraverso Cina e India, cruciale per l’irrigazione e l’energia idroelettrica nel nord dell’India. Questi fiumi rappresentano arterie vitali per i paesi a valle, fornendo acqua per l’irrigazione di vaste aree agricole, sostenendo ecosistemi delicati, alimentando la produzione industriale e fornendo acqua potabile a miliardi di persone. La dipendenza di queste nazioni dalle risorse idriche che nascono in Tibet è profonda e significativa.Il controllo delle sorgenti di questi fiumi conferisce alla Cina notevoli vantaggi strategici. In primo luogo, la produzione di energia idroelettrica: la Cina ha intrapreso un ambizioso programma di costruzione di dighe sull’altopiano tibetano, sfruttando il potente flusso di questi fiumi per generare enormi quantità di energia idroelettrica, fondamentale per alimentare la sua crescita economica e

ridurre la sua dipendenza dai combustibili fossili. In secondo luogo, il potenziale di deviazione delle acque: sebbene attualmente non implementato su vasta scala, il controllo delle sorgenti fluviali offre alla Cina il potenziale teorico di deviare significative quantità d’acqua per soddisfare le proprie esigenze, in particolare nelle regioni settentrionali del paese che soffrono di scarsità idrica. Questa possibilità, anche se non immediata, genera preoccupazioni nei paesi a valle. Terzo, la leva geopolitica: la capacità di influenzare il flusso di fiumi transfrontalieri fornisce alla Cina una potente leva geopolitica nei confronti dei paesi a valle. Il controllo di una risorsa vitale come l’acqua può essere utilizzato come strumento di pressione diplomatica, economica o persino politica in caso di tensioni o negoziati. Infine, lo sviluppo delle regioni occidentali: i progetti di costruzione di dighe e infrastrutture idriche contribuiscono allo sviluppo economico e all’affermazione del controllo cinese nelle regioni occidentali, incluso il Tibet, un’area di importanza strategica per Pechino.I paesi a valle dei fiumi tibetani nutrono una serie di preoccupazioni significative riguardo al crescente controllo cinese sulle risorse idriche. La sicurezza idrica è la prima di queste preoccupazioni, con il timore principale che si verifichi una potenziale riduzione del flusso d’acqua, soprattutto durante le stagioni secche, a causa della costruzione e della gestione delle dighe a monte. Ciò potrebbe avere un impatto devastante sull’agricoltura, sull’industria e sull’approvvigionamento idrico domestico in paesi come India, Bangladesh, Vietnam, Cambogia, Laos, Thailandia, Myanmar, Pakistan e le nazioni dell’Asia centrale. In secondo luogo, la gestione delle inondazioni: le preoccupazioni riguardano anche il potenziale per rilasci improvvisi e massicci di acqua dalle dighe cinesi durante la stagione dei monsoni, che potrebbero esacerbare le inondazioni a valle, causando danni significativi e perdite di vite umane. La mancanza di preavviso e di coordinamento in tali situazioni è un motivo di forte ansia. Terzo, gli impatti ecologici: la costruzione di dighe altera il regime di flusso naturale dei fiumi, con conseguenze negative sugli ecosistemi fluviali, sulla biodiversità e sul trasporto di sedimenti. La riduzione del flusso di sedimenti può compromettere la fertilità dei terreni agricoli a valle e la stabilità dei delta fluviali, come nel caso del delta del Mekong e del delta del Bengala. Quarto, la mancanza di trasparenza e condivisione dei dati: una delle maggiori fonti di frustrazione per i paesi a valle è la limitata condivisione da parte della Cina di dati idrologici dettagliati e informazioni sui progetti di costruzione di dighe. Questa mancanza di trasparenza rende difficile per le nazioni a valle prevedere e prepararsi ai cambiamenti nel flusso d’acqua. Infine, lo strumento geopolitico: esiste la percezione che la Cina possa utilizzare il suo

controllo sulle risorse idriche come strumento di coercizione politica o economica nei confronti dei paesi vicini, creando un clima di sfiducia e tensione regionale. A differenza di alcuni fiumi transfrontalieri che sono regolati da trattati internazionali specifici, non esiste un accordo globale che governi l’uso delle acque dei fiumi che nascono in Tibet e attraversano più paesi. Questa mancanza di un quadro giuridico internazionale completo rende difficile la risoluzione delle controversie e la promozione di una gestione equa e sostenibile delle risorse idriche. La cooperazione regionale in materia di gestione delle acque è ulteriormente complicata da sensibilità politiche, tensioni storiche e dinamiche di potere asimmetriche tra la Cina e i suoi vicini. Sebbene esistano alcuni accordi bilaterali per lo scambio di dati idrologici, la loro portata e la loro efficacia sono spesso limitate. È importante notare che la costruzione di dighe su larga scala all’interno del Tibet ha anche significative conseguenze ambientali e sociali per la regione stessa. Questi progetti possono portare allo spostamento di comunità locali, alla perdita di habitat naturali e alla degradazione di ecosistemi fragili sull’altopiano tibetano.Il controllo dei fiumi che nascono dal “Tetto del Mondo” conferisce alla Cina un potere considerevole nella regione asiatica. La sua capacità di influenzare il flusso di queste arterie vitali ha profonde implicazioni geopolitiche, sollevando preoccupazioni cruciali per la sicurezza idrica, l’equilibrio ecologico e la stabilità politica dei paesi a valle. Per evitare potenziali conflitti e garantire una condivisione equa e sostenibile di queste risorse preziose, è fondamentale promuovere una maggiore cooperazione, trasparenza e dialogo tra la Cina e i suoi vicini. Solo attraverso un approccio collaborativo sarà possibile navigare le acque del potere e assicurare un futuro idrico sicuro e prospero per l’intera regione.