NON È UN MONDO PER IDEALISTI, di Pierluigi Fagan

Nel libro recensito nel post precedente, l’Autore Jacques Ellul sosteneva che qualsiasi società di massa moderna, a prescindere il regime politico, ha bisogno di propaganda (noi oggi la chiamiamo anche narrativa) per ottenere consenso e legittimità. Poiché sia la massa che la più colta opinione pubblica, nulla sa dei principali argomenti di cui si compone l’amministrazione e direzione di uno Stato, ecco il bisogno di dar loro non solo i fatti ma anche i giudizi, le opinioni accluse, a pacchetto. Di tutti i capitoli di cui è fatta la politica di uno Stato, il più alieno dalla mentalità non specializzata diceva esser la politica estera.
Il motivo per cui questo argomento è particolarmente alieno a tutti i cittadini governati sono tre. Il primo è che in genere, qualcosa si sa del proprio stato e nazione, ma praticamente nulla degli altri, vicini e lontani. Il secondo è che la mutevolezza delle opinioni pubbliche non permetterebbe lo sviluppo di alcuna strategia, almeno nei paesi seri. Tant’è che qui da noi è normale aderire alla Via della Seta, promettere porti e sedi per le compagnie di telecomunicazioni ai cinesi, poi cambia il governo e via dalla Via della Seta, dentro amicizia con Taiwan, porti e tlc solo agli occidentali. Magari tra quattro anni si rifà il contrario. Il terzo motivo è il più importante, l’argomento politica estera è nel dominio del realismo e della ragion di stato, ragione del tutto amorale. Le opinioni pubbliche invece sono morali o almeno coltivano questa auto-rappresentazione, hanno orrore della mancanza di buoni sentimenti che accompagna una normale politica estera che di suo è letteralmente “al di là del bene e del male”.
Forse qualcuno ricorderà che Putin, poco prima dell’inizio della guerra all’Ucraina, spese più di un’ora in televisione a reti unificate per spiegare ai cittadini varie cose tra cui che l’Ucraina non è un vero Paese, che in fondo è Russia per quanto nelle mani di traditori e malfattori, che gli stessi ucraini, fratelli del popolo russo se non russi occasionalmente in altra amministrazione, andavano liberati dal giogo di quei traditori malfattori. Si poteva definire questa la sua narrativa per giustificare la guerra al suo popolo. Un popolo in tutt’altre faccende affaccendato e come ogni altro popolo europeo, più dedito alla normale vita quotidiana, sogni, speranze, piccoli affari etc. . In particolare, i giovani che soprattutto nelle città, di nulla differiscono dai nostri, Internet, musica, sport, primi approcci sessuali e quant’altro. Sicuramente non facilmente inquadrabili militarmente e spinti con convinzione a combattere (ovvero rischiare la vita) contro quelli che percepivano come omologhi, tra l’altro dello stesso ceppo. Tant’è che Putin ha usato Wagner e ceceni, soprattutto nei combattimenti di città (notoriamente costosi in termini di vite umane) ed assai poco l’esercito propriamente detto.
I motivi dell’invasione dell’Ucraina erano strettamente geopolitici, Putin non aveva scelta per molti versi, ma ne abbiamo già discusso più di un anno fa e tanto ognuno poi usa le sue lenti per interpretare gli eventi. Tenevo solo a precisare che i motivi solidi dell’atto non erano e non sono comunicabili per varie ragioni, anche perché non verrebbero assolutamente compresi. Vale per l’una come per l’altra parte. La ragione geopolitica è semplicemente spaventosa per chi nutre convinzioni idealistiche.
Sul campo, già i ceceni a Mariupol, ma poi i Wagner con più forza a Bakhmut, avevano lamentato di non aver ricevuto sufficiente supporto dall’esercito regolare. La cosa funziona così, queste truppe professionali fanno il lavoro più sporco e rischioso della guerra in prima linea, lo sanno, lo accettano, vengono pagati bene per questo. Tuttavia, logica vuole che l’esposizione al rischio sia ben precisa ovvero che prima o poi, dopo aver sfondato o fatto il lavoro grosso, arrivi l’esercito e relativa logistica a consolidare la situazione velocemente. Pare così non sia andata e più di una volta.
Prigozhin di recente, e sempre a toni più alti, se la prende con Shoigu, Ministro della Difesa, il vero vice-Putin della faccenda. Faccio notare che Shoigu, ben prima della guerra, era dato come il più probabile successore di Putin che aveva promesso di non ricandidarsi alle prossime elezioni, anche per motivi di salute oltre altri più complessi da citare in breve. Putin pochi giorni fa dichiara di esser molto deluso da certi “generali da salotto”. I russi non fanno guerre sul campo da un po’, almeno su terra, ed è quindi vero che hanno molti quadri non proprio temprati alla bisogna. Ma la dichiarazione è da leggere come tentativo di far finta di dar sponda a Prigozhin ed i malumori dal fronte. Anche se dall’inizio del conflitto i russi hanno cambiato più e più volte generali chiave sul campo, oltre quelli morti, Putin non si è mai sognato di mettere in discussione Shoigu in quanto sa benissimo che il problema non è lui che anzi è il suo più fedele collaboratore.
Si consideri anche come il potere russo, contrariamente a quanto favoleggiato dai propagandisti occidentali, è tutt’altro che monolitico e quindi c’è più di una banda che vedrebbe con favore la dimissione di Shoigu per riaprire i giochi della successione. L’attuale rivolta di Prigozhin-Wagner sembra proprio pubblicamente rivolta contro Shoigu, per forzare la mano a Putin che non è messo in discussione, almeno ufficialmente. E’ chiaro che conta su qualche appoggio a Mosca.
Quanto alla poca partecipazione delle truppe regolari e quindi la responsabilità diretta del ministro (ovvero poi direttamente di Putin) si possono solo fare illazioni. Forse Putin immagina una guerra molto lunga e si riserva la riserva. Forse Putin sa quanto in fondo questa guerra sia impopolare laddove da film proiettato in televisione diventasse sempre più sangue e bare dei propri figli oltre un certo numero e con figli di cittadini e non contadini siberiani. Forse ci sono questioni a noi non note sulla necessità di presidiare i tanti vasti confini della federazione e le truppe scelte scarseggiano. Tant’è che oltre a mercenari e poco altro, fino ad oggi se l’è cavata più con droni e missili, neanche troppa aviazione e dopo le prime problematiche uscite, neanche la Marina e soprattutto gente del Donbass, la più motivata. O forse c’è tutto ciò e pure altro. Sta il fatto che il lamento di Prigozhin ora è diventata rabbia agita. Senz’altro ci sono obiettivi di faide interne il potere a Mosca e quindi accanto a Wagner c’è anche qualcun altro.
Del resto, se guardiamo la faccenda dal punto di vista di Prigozhin, deve esser arrivato al limite. Per quanto pagati, anche i mercenari hanno un limite al sacrificio supremo e quando questo sembra senza ragione o governato da una ragione eccessivamente cinica, difficile tenere gente del genere allineati e coperti, con le buone ormai non più da tempo, ma a questo punto neanche con le cattive. Quindi, forse, non aveva scelta.
In più, è anche possibile abbia annusato aria da “conflitto congelato”, un accontentiamoci che dava come prospettiva un suo certo ridimensionamento e conseguente regolamento di conti per le intemperanze più volte manifestate anche pubblicamente. Nell’ultima settimana Z. ha ammesso il fallimento della sua controffensiva, gli americani si sono mostrati “sorpresi e preoccupati” come se apprendessero le notizie dalla CNN (ricordo che fra un anno in USA si vota e Biden non ha interesse ad andare ad elezioni con impegni pressanti di guerra sul groppone), Putin ha ritirato fuori dichiarazioni da “be’ forse è il caso di vedere seriamente come sbrogliare questa matassa”.
Ora, fare previsioni presupporrebbe sapere cose che io non so oltreché una improvvida fiducia nella linearità di questo tipo di faccende. Immagino che decisivo sarà vedere nelle prossime ore cosa guadagna Wagner e se, quando, dove e come, i suoi alleati in alto proveranno ad uscire allo scoperto accendendo qualche altro fuoco, se ne hanno facoltà. Altresì, occorrerà vedere se e quanto gli americani e gli europei vorranno o sapranno tenere a freno gli ucraini che tenteranno di approfittarsene alla grande. Questa improvvida mossa potrebbe far diventare la questione Wagner una questione nazionale seria mobilitando anche i più renitenti in favore di Putin? Forse, dipende dallo stato interno dei russi che non conosciamo. Infine, se Putin non schiaccia i Wagner spazzandoli via in fretta, dovremo dedurne che lo stato interno alla linea di potere che dal Cremlino va nell’esercito in campo e nelle caserme è davvero fragilissima, con conseguenze gravi non solo per la guerra in corso ma più in generale per il suo stesso potere e relativo disequilibrio dell’area. Il sacrificio di Shoigu a Prigozhin mi sembrerebbe strano, ma dipende molto dallo stato interno gli equilibri del vertice di potere, Putin ne uscirebbe comunque molto male. Intanto si muovono i ceceni che invece sono stati accontentati a loro tempo in termini di potere e riconoscimento, diversamente dai Wagner.
Vediamo.

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PROPAGANDA, di Pierluigi Fagan

PROPAGANDA. Questo libro è stato scritto nel 1962, quindi privo di fenomeni come Internet ed i social, la globalizzazione, le televisioni private, i network tv on line, le emissioni satellitari e quelle via cavo, la mobilità cellulare, la segmentazione psicografica statistica ed i Big Data. Tuttavia, rimane opera di riferimento per lo studio del fenomeno dato ancora in molte facoltà (assieme a Bernays, Lasswell, Dobb dando in privato sempre una sbirciatina a Goebbels, rude ma efficace). Prima considerazione da fare è come molti pensatori, in Europa ma spesso anche negli Stati Uniti, negli anni ’60 avessero idee ben chiare sui profili fondamentali della società che è ancora la nostra società, peggiorata in alcuni tratti. Più che trarne il giudizio di “attualità” ci sarebbe da domandarci perché oggi riscopriamo mille ed una volta l’acqua calda, già riscaldata per bene sessanta anni fa. È chiaro che un problema che hanno le idee e gli impianti mentali critici e quindi non dominanti, è la loro dispersione nel tempo, non si accumulano, non fanno massa.
L’Autore è un inclassificabile francese. Storico del diritto, teologo protestante, critico della società della tecnica avvicinato a Gunther Anders, con tendenze anarco-libertarie, marxologo non marxista, anticipò i temi della decrescita. Qui, Jacques Ellul è in veste di sociologo, forse la sua specialità più completa e nitida.
Dato l’argomento e la recente attualità, ci sta bene iniziare dicendo che “c’è un propagandista ed un propagandato”. Il primo è spesso un funzionario di sistema che deve massaggiare psicologicamente gli individui-massa affinché siano conformi al sistema. Vale per le dittature quanto per le democrazie o pseudo tali. Secondi Ellul, la propaganda (che coincide con la divulgazione di una precisa immagine di uomo e mondo che dia ragione e senso) è una necessità delle società moderno-tecniche sotto qualsiasi regime politico. Alte le conoscenze del propagandista di psicologia sociale, individuale, del profondo, di sociologia, di mitologia, delle forme religiose così che, dall’alto del suo potere cognitivo, disprezza il propagandato per quanto l’abbia ben studiato o forse proprio per questo.
Coinvolge il razionale e l’irrazionale, il pubblico ed il privato, il conscio e l’inconscio, nonché tutti i media possibili ed immaginabili, questi sempre di proprietà o dello Stato o di capitalisti, come in Occidente. Meglio un solo media o comunque pochi ed accordati.
Nella società “liberali”, la libertà è ridotta ad avere due schieramenti che si odiano reciprocamente e sono impossibilitati al dialogo reciproco, da qui la mortificazione della pallida pretesa al pluralismo democratico a vantaggio di un bipolarismo di fatto. Tanto poi due poli pendono al centro e quindi la struttura di potere governa comunque. Questo cristallizza le immagini di mondo partendo da un poderoso lavoro di semplificazione di cui il propagandato è grato.
Quanta ansia per l’impreparazione e la paura derivata dalla continua torrenziale cascata di notizie incomprensibili, inquietanti ed ansiogene! Poiché i poteri richiedono comunque legittimità data dal popolo e poiché non si vede come gente che lavora otto ore al giorno più i trasferimenti e le cure personali possa sapere vagamente qualcosa di economia, finanza, tecnologia, geopolitica, cultura, politica, società, futuro, ambiente, ecco parole d’ordine, mantra, cori preconfezionati, slogan, testimonial, esperti, frammenti di razionalità lubrificati con ampie dosi di emotività nei cervelli deboli, distratti, immemori, dipendenti, scossi e resi incerti dall’ignoranza evidente affamata di Verità e cose buone da pensare.
Oggi, avendo sempre più problemi complessi e globali, la propaganda diventa vieppiù esasperatamente puntinista (attenzione ce la “n”), scintille di attenzione de-correlate, caleidoscopi impressionistici. L’ efficacia della propaganda ha precondizione nella sua vastità avvolgente, continuità, invisibile coerenza, ripetitività, per perversi versi, utilità nel dar ragione e senso a ciò che non ce l’ha. Più senso meno dissenso.
Conoscenza e sfruttamento scientifico dei meccanismi di contagio e sincronia delle masse, del fatto che come diceva Durkheim “il gruppo pensa ed agisce in modi del tutto differenti da come penserebbero ed agirebbero i suoi individui componenti se isolati”, l’odierno isolamento reciproco tra persone che non si trasmettono informazione e conoscenza reciprocamente (non dibattono) ma suggono dati ed interpretazioni da una fonte unica, pubblico che si fa una opinione o meglio acquisisce quella somministrata dato che non ha tempo e strumenti per farsene una propria, creano la situazione perfetta. La propaganda, come la pubblicità, non inventa quasi nulla, pesca tra pregiudizi, stereotipi, categorizzazioni, modelli, tradizioni, conformismi, miti profondi (c’è una primigenia fame del mito soprattutto da parte maschile), che già esistono (la Nazione, il lavoro, l’Eroe, la felicità, la libertà).
Un mito eterno è quello del Big Man che si adora mentre ti manipola e ti fotte, ne è appena morto uno che ha ricodificato i codici socioculturali, etici, morali, politici nostrani in un tripudio di convinti applausi dei suoi adoranti propagandati. Mi ero messo a fare l’elenco degli orfani addolorati al suo funerale, da Boldi a Razzi, una fotografia sociologica del livello dell’immaginario nazionale degli ultimi tre decenni, poi ho lasciato perdere, tanto di questi tempi è inutile. Se l’imbecille fosse in grado di rendersi conto di esserlo non lo sarebbe.
La tassonomia di Ellul è elaborata. C’è propaganda politica e sociologica, verticale ed orizzontale, di agitazione ed integrazione (modello partito di lotta ma poi di governo che cambia radicalmente argomenti e tono di voce. Tipo “contro i poteri forti” poi abbracci Elon Musk), razionale ed irrazionale. In Occidente tende a dar adattamento ad una insensata società individualistica di massa previa distruzione o indebolimento di ogni struttura intermedia. Gli accenni al prototipo americano del suo tempo danno l’idea di una vera e propria “radiazione sociale”, sono le forme, i modi, i simboli stessi della nostra società circostante a comunicare prima ancora che qualcuno li ordini in discorso.
Un altro sociologo più recente, George Ritzer (2005) ha avuto dieci edizioni in inglese fino a due anni fa, con un libro sulla forma McDonald di molte strutture sociali: efficienza, calcolabilità, prevedibilità, uniformità in un universo di McUniversità, McMedia, McBambini e da ultimo una McCoscienza di sé. Tutto ciò irradia la sua forma con coerenza direttamente dalla società, il discorso propagandistico diventa solo un accompagno. Il bisogno di semplificare i discorsi fa pari con quello di semplificare la società. I suoi effetti non sono superficiali e transitori, formano il mentale prima che per contenuti per forme, ad esempio dicotomizzare tutto (bene-male, giusto-sbagliato), giudicare ancor prima di analizzare, ordinare il pensiero nei sentieri già tracciati (che tanto si sa già dove vanno a finire), ossessionarsi nevroticamente al presente così che le cause sfuggono, non domandarsi mai “perché”? ovviamente cercando di superare le risposte da favolistica scadente.
Ultimamente, spingere compulsivamente bottoni su un parallelepipedo piatto da tenere davanti gli occhi. L’ efficacia della propaganda ha precondizione nella sua vastità avvolgente, continuità, invisibile coerenza, ripetitività.
L’altra sera mi sono imbattuto in una serata Rampini sulla 7, tema gli Stati Uniti d’America (di cui le bretelle del nostro riproducevano colori e forme della bandiera) ne seguirà una sulla Cina. Secondo Rampini che rivendicava con orgoglio la sua nuova cittadinanza americana, gli Stati Uniti sono fortissimi, inarrivabili e vincenti in tutti i principali items di potenza (armi, dollaro, Pil, tecnologia, demografia) e tali rimarranno, per nostra fortuna, ancora a lungo. L’unico problema è che ultimamente sembrano esser poco convinti di sé stessi (mannaggia!). Il titolo della puntata era “A cosa serve l’America’”, lui è americano, in pratica era una televendita travestita da info-approfondimento.
Aggiungo solo un ulteriore scorcio su tale Nathalie Tocci, una esperta convocata a spiegarci bene le cose. La signora che sembra dirigere un think tank di politica internazionale italiano salvo scoprire sul loro sito che ricevono quasi il 50% dei fondi da “enti e fondazioni estere” (senza vergogna), quando parlava degli Stati Uniti tendeva ad alzare le punte interne delle sopracciglia e quindi abbassare quelle esterne, come se stesse parlando partecipata del povero Cappuccetto Rosso in preda a mille insidie del mondo-bosco. Quando parlava di Russia e Cina faceva il contrario, abbassava le punte interne ed alzava quelle esterne come stesse parlando del lupo cattivo che si appresta a far la festa alla povera nonnina. Del resto, era sera tarda e le favole della buonanotte hanno il loro pubblico. Ho provato nostalgia per Luttwak.
Siamo alla regressione infantile delle opinioni pubbliche, il che fa il paio con un altro concetto di sociologia contemporanea, la “gamification”, ovvero mettere meccanismi di gioco in ambienti non giocosi come Internet, social, sistemi di apprendimento o di business, sollecitando partecipazione attiva e “spontanea”. Il recente scadimento qualitativo dei propagandisti fa il paio con quello dei propagandati e più in generale dà lo Spirito del tempo.
Termino in positività, che fare, quali antidoti, come superare questa condizione di servitù psico-intellettuale volontaria, propedeutica alla servitù volontaria di partecipare al termitaio sociale al ritmo dei tamburi suonati per noi dai propagandisti del sistema? Il tempo. Dal lavoro sulle cose al lavoro su sé stessi, ricavandone tempo da dedicare all’autoformazione della propria mentalità, una mentalità formata ha distanza critica dalla propaganda, rompe la magia, l’incanto, diventa immune, la guarda dall’alto in basso rompendo la servitù volontaria. Ma tra più tradizione, più lavoro, più ordine, più giustizia, più libertà, più innovazione, più sicurezza, più opportunità, le propagande politiche sembrano unanimi nell’evitare di promettere l’unico -più- che vi è necessario per decidere da voi, giudicare da voi, agire col pieno senso del voi: più tempo.
Meno lavoro, più tempo, meno propaganda. Questa è l’ultima, irrealizzabile, utopia.

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DELLE VERIFICHE EX POST, di Pierluigi Fagan

DELLE VERIFICHE EX POST. Avevamo lasciato tre possibili esiti interpretativi di ciò che è successo in Russia l’altro giorno, la vittoria (parziale) di Prigozhin, di Putin, una specie di pareggio. La nostra tesi principale tendeva però ad illuminare una componente che in questo teatro a tre (Prigozhin, Putin, Shoygu) mancava, la quarta gamba senza la quale il tavolo traballava. S’invitava cioè a guardare chi a Mosca poteva aver dato sponda a Prigozhin e senza il quale non si capisce quello che altrimenti sembra, autenticamente, un “pezzo da matto” di uno che matto non è.
Ho visto e sentito molte interpretazioni. È incredibile come la passione narrativa si libri senza peso sopra la realtà. Pensare che un manipolo di centurioni possa fare un colpo di Stato partendo da mille chilometri da Mosca, di una cosa come la Federazione russa, finanziati dall’Occidente o di testa propria, manca dei minimi requisiti di realismo. Inviterei tutti a provare a scrivere la sceneggiatura estesa di questa storia, capire in quanti si arriva a Mosca, con quante perdite, con quanto tempo usato dal nemico per prepararsi, dopo che si fa, chi occupa i ministeri, le televisioni, le agenzie di stampa, la banca centrale, le sedi dei servizi che ovviamente stanno lì buoni-buoni ad aspettare tremanti l’arrivo dei terribili Wagner, con Putin al sicuro in un bunker siberiano che mantiene tutte le linee di comando ed i codici nucleari. È che ai più comprendere la realtà non interessa affatto, interessa solo commentare la versione che occidentali e russi hanno interesse a proporre come suo sostituto.
Alcuni sono arrivati addirittura a credere che Prigozhin abbia preso i soldi dagli occidentali e li abbia parcheggiati in un furgone sotto il suo ufficio a Mosca. I conti offshore che sono lì apposta per queste cose, no, ci vogliono le mazzette di dollaroni fruscianti che viaggiano da Kiev a Mosca. Un mondo di matti.
Veniamo al discorso di ieri di Putin. Putin ha parlato di “patrioti manipolati nell’oscurità”, secondo la traduzione google della timeline in diretta di Ria Novosti che seguivo iersera. Prigozhin è quella “oscurità”? Non sembra, che fosse il capo di Wagner e quali fossero i suoi intendimenti era palese. “Tutti i militari ed i servizi sono rimasti fedeli al Paese” ha specificato visto che forse qualcuno ha nutrito dubbi. “Tutti i tentativi di creare disordine interno falliranno”, quindi ce ne sono stati o ce ne sono o ce ne potrebbero esser altri? Segue riunione con procuratore generale, il capo di stato maggiore, il ministro dell’Interno, il ministro della Difesa, il direttore dell’Fsb, il capo della Guardia nazionale, quello del Fso ( che può condurre operazioni di sorveglianza senza mandato, eseguire arresti e dare ordini ad altre agenzie dello Stato su base stimata di 50.000 effettivi) e il capo del comitato investigativo, ha detto Dmitry Peskov citato da Ria Novosti, tutti per capire cosa fare del solo Prigozhin e due tre generali suoi accoliti?
Prigozhin che intanto aveva ridimensionato il pezzo da matto a intemperanza occasionale dopo aver proclamato l’inizio di una “guerra civile”, sostenendo tesi di inutilità della guerra con piglio pari ad un portavoce NATO di origine ucraina. Era lo stesso Prigozhin che per mesi aveva contestato a Shoigu lo scarso impegno e decisione nello spianare gli ucraini?
Quelle dichiarazioni urlate in mondovisione che decostruivano tutta la propaganda del Cremlino di questi mesi, all’inizio della marcia su Mosca, che fine avevano? Erano dichiarazioni di uno che sta recitando la commedia dell’astuto “russian job”, d’accordo con Putin per dar copertura al trasferimento Wagner in Bielorussia, dicendo quello che in Russia nessuno può dire, come altri astuti interpreti del fronte filo-russo (che poi in realtà è una idea nata dagli ucraini ed amplificata ieri da Parsi su Libero) sostengono con sorriso di chi la sa lunga? Non quadra.
Dicono che i famigliari di Prigozhin fossero in mano Fsb da un secondo dopo l’inizio del film, probabile. Sembra credibile Putin sapesse dell’azione ed abbia lasciato mano libera per vedere chi a Mosca si faceva vivo in appoggio, appoggio senza il quale Prigozhin certo non avrebbe intrapreso l’azione poiché scemo non è, almeno non tanto quanto quelli che pensano possibili queste cose. Appoggio che è stato stroncato sul nascere o si auto-ritirato annusando presto l’aria di trappola lasciando l’intemerato da solo sulla via della sua fine.
Noi avevamo un corrispondente RAI a Mosca, lì da più di tredici anni, Marc Innaro, l’abbiamo ritirato da Mosca quando è arrivato l’ordine americano di ritirare tutti i corrispondenti, tranne BBC che rimane lì a sfornare versioni ed interpretazioni adeguate. Perché Innaro era lì da così lungo tempo e così altri prima di lui? Perché come accadeva ai tempi dei cremlinologi (che oggi su Repubblica chiamano criminologi dato che le nuove generazioni non conoscono la storia ed il lapsus freudiano è sempre dietro la lingua) o come capita coi vaticanisti o gli scrutatori degli Arcana imperii cinesi dei think tank americani, quegli ambienti sono difficili da penetrare e quindi ci vuole un lungo lavoro di contatto ben attento agli equilibri tra ciò che vieni e sapere e ciò che puoi dire, per fare il tuo mestiere. A volte non ti dicono neanche niente di diretto, ma puoi osservare gesti, assenze, segnali da decrittare, se conosci la lingua oscura delle geometrie di quel potere. Ma Innaro è stato subito accusato di essere filo-Putin e quindi adesso mandiamo a Mosca stagisti che si chiudono in albergo e ti dicono da lì quello che le agenzie battono da qui.
Non gliene frega niente a nessuno di sapere come stanno le cose davvero, da una parte debbono tenere in piedi la favola di Ivan il Terribile che tutto controlla e decide, dall’altra gli piace credere che sia vero e fanno il tifo per lui. È una vera filosofia della storia quella del Grande Uomo, ridurre cose complesse al semplice, un intero popolo cresciuto a Bach, Goethe, Hegel e Marx, si fa irretire da un pittore fallito per giunta austriaco, che problema c’è, è il totalitarismo baby!
La questione non è chiusa. Oggi Lukashenka ci farà sapere la versione ufficiale (quindi falsa) del perché ospita i Wagner, dopo il primo luglio vedremo quanti Wagner andranno in Bielorussia e quanti rientreranno nei ranghi. Col tempo vedremo anche cosa ne sarà dei Wagner africani e siriani. Voci inverificabili come ogni altra di questa faccenda, avevano detto due giorni fa che nel giro di telefonate di Putin agli alleati in cerca di non si sa cosa, più di una repubblica centroasiatica aveva declinato l’invito a dare una mano, forse ad ospitare loro i Wagner? I Wagner bielorussi continueranno a gestire il proprio network necessario alla geopolitica di Mosca da Minsk e dintorni e visto che ci sono terranno pure preoccupati gli ucraini? Siamo sicuri che Shoigu starà ancora lì tra tre mesi? Peskov aveva detto tempo fa che Putin avrebbe fatto sapere il prossimo novembre se si ricandiderà alle elezioni in teoria a marzo dell’anno prossimo. Manterrà l’impegno? Ci saranno elezioni davvero o data la “guerra” verranno post-poste? Dipenderà da come si metteranno le cose nella guerra sul campo?
L’importante è che la bolla di attenzione dei pesci rossi che si allarmano delle cose e vi prestano attenzione angosciata per un quarto d’ora si sia sgonfiata. Si può tornare alla Santanchè o alla polemica del giorno su cui litigare sui social. Putin è indebolito! Gridano da una parte. Putin è eterno! Rispondono dall’altra. Meglio non intromettersi, non c’è niente che provochi più rabbia di chi ti viene a sgonfiare il gioco con quella roba orribilmente complicata che è la realtà.

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Commedia in più atti, di Roberto buffagni – L’INQUIETANTE AZIONE A DISTANZA, di Pierluigi Fagan

Tiro a indovinare sul fantastico episodio comico-carnevalesco appena conclusosi in Russia.
Prigozhin, un ibrido russo tra capitan Fracassa e Pulcinella degno della penna di Gogol’, si gonfia come un ranocchio per l’importante ruolo svolto dalla Wagner (che lui non dirige ma rappresenta e possiede) nella guerra in Ucraina. Inizia una faida in pubblico, con toni da pescivendola ubriaca, contro Shoigu e Gerasimov, accusandoli di tutto e di più. I due bersagli non rispondono pubblicamente per non dargli importanza, ma avviano la procedura per togliergli il pulpito da cui gridare a vanvera: integrazione della Wagner nell’esercito regolare.
Al dunque-ultimatum, Prigozhin rifiuta, e avvia un’azione dimostrativa. Non ha intenzione di fare un colpo di Stato, vuole solo fare un’escalation nella trattativa, persuaso che se muove i suoi soldati, il presidente Putin, costretto a scegliere tra gli eroi di Bakhmut e i corrotti e antipatici Shoigu e Gerasimov, sceglierà gli eroi popolari. Più o meno, come quando in una serrata trattativa uno tira fuori la pistola e non te la punta addosso, ma la posa sul tavolo e ti sorride.
Alla gran parte dei militari della Wagner Prigozhin racconta balle, NON dice che cosa ha intenzione di fare. Lo dice solo ai fedelissimi, quelli che probabilmente si sono intascati larghi bonus dai traffici in cui Prigozhin è maestro da sempre. Questi ultimi sono poi i 5.000 circa che sono partiti per Mosca.
Irrompe la realtà: l’adulto nella stanza, il presidente Putin, emette un comunicato inequivocabile: questa è insurrezione armata contro lo Stato in tempo di guerra, insomma è tradimento, guai a voi.
Travolto dalla dinamica che ha innescato, Prigozhin continua la sua farsesca azione sovversiva, ed emette comunicazioni sempre più assurde e contraddittorie. Le personalità che nei mesi precedenti lo avevano o incoraggiato o lasciato fare per loro ragioni (rivalità assortite nella classe dirigente russa), spariscono come nebbia al sole.
Prigozhin si accorge di essere rimasto solo come un cane in chiesa. Putin, dimostrandosi un grande statista e un uomo di raro equilibrio psicologico, gli fornisce una via d’uscita per evitare lo spargimento di sangue tra commilitoni in guerra, nonostante che ciò danneggi seriamente, almeno nel breve periodo, la sua immagine (chi comanda in Russia? Putin ha la situazione sotto controllo?).
Non credo che Prigozhin abbia concordato la sua azione con servizi segreti stranieri. È probabile che i servizi d’informazione stranieri abbiano avuto sentore delle sue intenzioni, e lo abbiano incoraggiato INDIRETTAMENTE. Il colpo di Stato aveva probabilità zero di riuscire: solo un pazzo tenta un colpo di Stato in un paese che sta VINCENDO una guerra. Era però ovviamente utile ai nemici della Russia il danno politico all’immagine internazionale della Russia che l’azione inconsulta di Prigozhin avrebbe provocato, e utile la distrazione dal fallimento catastrofico dell’offensiva ucraina.
La vicenda si è chiusa al meglio. Il danno politico è serio ma non irreparabile. L’ aspettativa di vita di Prigozhin non è migliorata. Il danno politico subito dalla Russia e dal suo presidente è serio ma non irreparabile. Nel prossimo futuro assisteremo a un giro di vite legale, che aumenterà i poteri di controllo dell’esecutivo, e a una serie di “spostamenti laterali” di personalità politiche e militari che non hanno fatto quel che dovevano fare. I nostalgici dell’URSS e dello zarismo avranno diverse soddisfazioni.
Sintesi: con la Russia non ci si annoia MAI.
Invito a leggere anche la bella analisi di Pierluigi Fagan, che ho appena letto e condiviso sulla mia pagina. Il “colpo di Stato” tra molte virgolette si Prigozhin è stata una cosa semiseria, e qui la racconto sorridendo; ma cose più serie avvengono all’interno della classe dirigente russa, dove è in gioco la successione al presidente Putin. Pierluigi le mette in luce da par suo.
L’INQUIETANTE AZIONE A DISTANZA. [O Wagner ed il Crepuscolo degli dei] Quando Newton osservò precisi movimenti nella rotazione dei pianeti intorno al Sole, dedusse una legge, la legge di gravità. Questa si basava su una “forza” ovvero qualcosa che attirava i pianeti tra loro evitando partissero per la tangente come in una giostra impazzita. Pur apprezzando con grande riconoscimento l’individuazione della sua legge, molti rimasero perplessi su questa “forza” misteriosa e definirono la cosa come una “inquietante azione a distanza”. Puzzava di metafisica più che di fisica.
Un paio di secoli dopo, Einstein, spiegò la faccenda in altro modo. Le masse curvano lo spazio come una biglia di ferro farebbe su un telo teso (lo spazio, anche se la metafora è in 2d e lo spazio è in 3D, anzi in 4d ma lasciamo da parte il tempo). I pianeti ruotano intorno al Sole e per la sola energia cinetica effettivamente schizzerebbero via per la tangente, ma, essendo lo spazio curvato dalla massa del Sole, sono altresì risucchiati verso di lui. La faccenda quindi è in equilibrio, i pianeti non schizzano via, non precipitano verso il Sole e noi siamo qui a poterne parlare.
La storiella ci serve per segnalare come la nostra ricerca delle cause, sia condizionata dall’inquadratura. Se non metti lo spazio o non consideri lo spazio una cosa, non puoi che dedurre una “forza” misteriosa che agisce a distanza, se metti lo spazio e lo consideri una cosa, c’è la sua curvatura e tutto torna nei meandri della semplice fisica.
Così, se non consideri lo stato del potere in Russia, stato che va ben oltre Putin a dispetto delle stupidaggini propagate dalla narrativa che doveva supportare la storiella “autocrazie monolitiche” vs “democrazie pluraliste”, quello di Prigozhin è un atto mosso da inquietanti forze di azioni a distanza (Americane? Britanniche? Ucraine? Etc.). Ne consegue che Prigozhin, essendo mercenario, avrà preso i soldi (ma già ne aveva un bel po’) per produrre chissà quale risultato poi. Arrivare a Mosca con le sue truppe scelte? Cioè assaltare il centro di una potenza multi atomica con almeno 800.000 affettivi regolari al centro di una rete di alleanze internazionali, con i vantati 25.000 spartani (sicuri? ma chi li ha contati?)? Diventare Zar? Diventare ministro al posto di Shoigu? Mostrare le debolezze di Putin per poi ripiegare a Minsk dove fra qualche mese berrà il famoso brodino al polonio stirando le zampe ma con un sacco di soldi sotto il materasso? È evidente che molta gente abbia l’immaginario condizionato dai fumetti e da Netflix e piuttosto che avventurarsi a scrivere di politica farebbe meglio a concentrarsi su Zerocalcare e fare “critica culturale” che almeno è più innocua.
Se consideri lo stato del potere in Russia, può darsi la faccenda diventi un po’ più complicata ma più realistica. Partiamo dal “potere di Putin”. Ma davvero qualcuno pensa che un uomo solo abbia il potere di soggiogare un primo livello che domina un secondo, che domina un terzo e via giù fino alla massa? O forse c’è una costruzione in equilibrio di forze di cui la stella centrale è l’equilibratore, equilibratore per altro necessario al funzionamento di tutto il sistema di cui le parti sono appunti parti?
Putin annuncia che non si presenterà alle prossime elezioni del 2024 e lo fa mesi e mesi prima del 24 febbraio dell’anno scorso. I motivi sono vari ma tutti solidi, tutti gli analisti di ogni parte del mondo sapevano questo, non era in discussione. Si capisce che normalmente i più si occupano dei casi propri e non stanno certo lì a seguire le questioni di politica interna russa. E si capisce che i più come non pensano al passato che ignorano non pensano neanche al futuro e quindi non notano che manca un anno alle elezioni presidenziali russe, sempre che si tengano? Chissà, magari a qualcuno a Mosca premeva render noto a Putin che quelle elezioni si dovranno tenere, guerra o non guerra, perché i pretendenti al trono (le parti) sono lì in fervida attesa per giocarsi la partita; quindi, la partita si dovrà giocare o salta tutto il gioco.
Prigozhin ha agito senz’altro per suoi personali motivi di sopravvivenza pratica, ma nessun analista ha mai pensato fosse un pazzerellone, gli si attribuiscono lucida razionalità e ben sviluppato senso strategico che in genere comporta anche una notevole furbizia. Non si può escludere che abbia mandato e ricevuto segnali a qualcuno nell’altro schieramento (Britannici? Ucraini?). Ma propri perché lucido e razionale, non potete pensare che un tipo così si metta a marciare su Mosca per diventare Zar o ministro della Difesa, magari pagato dalla CIA, senza scadere nel format Netflix, irrealistico, favolistico, inconsistente. Forse così ragionano i commentatori sulla 7, pagati per fare intrattenimento, non certo Prigozhin. Senza la fisica del potere vale qualsiasi storiella. E’ proprio per non mostrare la fisica pluralista del potere in Russia che i commentatori televisivi inventano storielle (Putin è pazzo, Putin vuol essere Zar, Putin ha il cancro, Putin è malvagio, Putin è un Hitler che ce l’ha fatta) che inducono ad inventare contro-storielle.
Ma se mettete Prigozhin dentro la dinamica della successione al potere russo la cosa prende più senso, forse la fisica del potere ci può aiutare Lì ci sono nazionalisti puri e duri, ma poi da vedere se di ultradestra o sinistra, neoconservatori ortodossi, slavofili, asiatisti multipolaristi, filo-tedeschi in gramaglie, oligarchi (gente che sta perdendo vagonate di soldi, in molti casi), politici filo occidentali ma non tanto per ragioni politiche bensì per volgari ragioni di college per i figli e ville di lusso in posti caldi ed eleganti che piacciono a tutti, più che dacia vista Caspio direi, militari (importanti in Russia, ma con molteplici idee e sfumatura), gente con semplice volontà di potenza esuberante (ce ne è in politica ovunque nel mondo), ma poi anche quelli che pensano che i russi siano gli europei orientali e non certo gli asiatici occidentali, che si disgustano all’idea di stringere la mano di un pakistano o un tagiko delle steppe ed in fondo disprezzano anche un piccolo cinese giallo e incomprensibile, nonché i liberali “perché non diventiamo come gli europei veri?”, più quelli che vorrebbero la Russia così o la Russia colì e chi più ne ha più ne metta, inclusi quelli che provengono da più di 200 etnie e vorrebbero più posti al sole di quelli di San Pietroburgo, i boiardi di Stato (tra cui Gazprom che pare Putin abbia autorizzato poco tempo fa a farsi una sua forza armata modello Wagner), poi quelli che in Ucraina vorrebbero più guerra tra cui Prigozhin fino all’altro ieri o niente guerra come Prigozhin ieri, se mettete tutto queto allora forse il pezzo da matto di Prigozhin che non è un cuoco ma uno che ha fatto i soldi son la ristorazione tanto quanto c’è chi li ha fatti con le palazzine e le televisioni, porta a pensare che c’è un pezzo di storia che né conosciamo, né possiamo conoscere visto che qui nessuno ha interesse ad indagare e loro sono comunque ben contenti di celare.
Prigozhin e Putin o Shoigu, dato per successore certo da tutti gli analisti occidentali ben prima dell’inizio della guerra in Ucraina, sono i pianeti del sistema visibile. Ma per capire forse ciò che sta succedendo in Russia conviene allargare l’inquadratura e se non c’è un Einstein a spigarci la geometria non euclidea dello spazio politico russo, dobbiamo portare pazienza e dire “non so”. Ma almeno so di non sapere, che è già un bel passo avanti, di questi tempi.
In fondo, il “potere” in Russia funziona esattamente come da qualsiasi altra parte nel mondo, cambia solo il format con cui si esprime la sua fisica.
Può darsi Prigozhin e chi con lui abbia perso, magari ieri Fsb s’è presentata a casa di qualcuno e non certo col sorriso, non lo sappiamo e chissà se mai lo sapremo. L’hanno mollato e Luka (su mandato di Putin) ha fatto veramente da intermediario per salvare Wagner che è una struttura importante per la geopolitica russa (vedi Africa). O forse Prigozhin e chi con lui ha vinto e Putin, nei prossimi giorni, settimane, mesi, mostrerà che la gara alla successione si terrà (chissà, magari nei giorni scorsi al Cremlino girava la voce che non si poteva andare ad elezioni stando in guerra), nulla è deciso (da lui) e lui si limiterà a fare da arbitro ed equilibratore del gioco che è poi il bene comune di tutte le parti in competizione. O forse ha pareggiato, Putin ha preso qualche impegno ma chissà poi se lo manterrà; tuttavia, prima di mettersi davvero e sparare conveniva a tutti passare ad altra metrica e riportare tutto sotto il velo di Maya che “il mondo ci guarda” tra cui gli alleati, ieri comprensibilmente nervosi, inclusi quelli gialli. Troppa competizione può rompere il trono per cui si compete, a chi conviene? Pare neanche a Washington convenga trovarsi con un punto interrogativo in cima a 1500 testate nucleari operative.
Ansia da “ma come è andata davvero?”? Contenetela, è cattiva consigliera della cognizione. Un consiglio? Non andate troppo vicino alle notizie, per lo più sono false o distorte, altre decisive, mancano.
Quindi, si vedrà. Dispiace, ma anche su Netflix quando sembra che si stia arrivando al finale della serie, ti rimandano ad una nuova stagione. I processi politici e la storia uguale.

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AUTUNNI e PRIMAVERE, di Pierluigi Fagan

AUTUNNI e PRIMAVERE. Queste stagionalità sono usate, in varie culture, come metafore dei cicli vitali. Negli autunni la vita appassisce e si prepara al letargo, si riduce; nelle primavere rinasce, fiorisce. Vi sono primavere ed autunni della vita personale, della vita naturale, della vita sociale e del corso storico, della vita del pensiero.
La teoria di Darwin è conosciuta come teoria dell’evoluzione, ma Darwin non usò mai il termine “evoluzione” nella prima edizione dell’Origine (1859), come Marx non usò quasi mai il termine “capitalismo”. In entrambi i casi, interpreti successivi hanno coniato i concetti appiccicati poi come etichette alla loro teoria generale. Dobbiamo dedurre che questi pensatori non avessero capacità concettuale di sintesi o dobbiamo ipotizzare che le sintesi in seguito apposte fossero pertinenti e precise solo fino ad un certo punto?
Quanto a Darwin si tratta sicuramente del secondo caso. In realtà, Darwin voleva solo rispondere ad una domanda ben precisa: da dove provengono le nuove specie? Del resto, questo intento è ciò che fa il titolo della sua opera principale. Posta la domanda, Darwin risponde: le nuove specie vengono fuori da un complesso processo naturale. Risposta oggi per noi scontata, ma non lo era affatto ai suoi tempi. Ai suoi tempi (seconda metà del XIX secolo), l’immagine di mondo era strutturata sulla vigenza di verità dell’Antico testamento. Ma lasciamo da parte questa ricostruzione storica e continuiamo il discorso principale.
Qual è il processo naturale ipotizzato da Darwin per spiegare le fasi primaverili della vita ovvero quando si produce il molteplice plurale? L’inglese, del tutto ignaro esistesse il DNA ed i geni, la pensava così: in natura si produce continuamente varietà, le varietà vengono selezionate dalla natura stessa in base al loro essere adatte al contesto (ecologie naturali, vegetali ed animali, e clima), tali varietà più adatte si riproducono e diventano lo standard di una data epoca e di un certo luogo. Quando cambia il contesto, varietà prima adatte possono diventare non più adatte, nuove ne prendono il posto. Il processo è sempre dinamico, cambia sempre perché cambia sempre il contesto naturale.
In effetti, noi e la natura siamo su una palla per lo più di terra che gira intorno ad una stella. Ad essa ci avviciniamo e da essa ci allontaniamo, l’asse terrestre vacilla su sé stesso. Il tutto ha effetti sull’atmosfera e da qui il motore del cambiamento costante delle condizioni naturali; quindi, della vita che nel contesto si ambienta. Pensando a quanto si sono dannati l’anima a cercare il famoso “motore della storia” certi pensatori, vien da sorridere. Perché cercare un motore quasi che la situazione originaria sia una statica, quando la situazione del contesto in cui ambientiamo la vita è dinamico di sua natura? È un tipico caso, non certo l’unico, di disallineamento tra mondo ed immagine di mondo.
È un caso “tipico” nella cultura occidentale. In Cina, ad esempio, la più antica scrittura sapienziale (ovvero la più antica scrittura punto ovvero il più antico complesso di pensieri anticamente in forma orale), s’intitolava “Libro dei Mutamenti”. Pare che gli antichi cinesi avessero ben chiaro che il Tutto muta di continuo e cercarono di trovare buoni consigli per aiutarsi a capire in anticipo come mutasse per poi consigliare il da farsi. Altresì, la loro più antica scrittura storica, più o meno coeva dalla prima scrittura storica occidentale che avemmo con Erodoto, si chiamava “Annali delle Primavere ed Autunni”.
Se la vita è ambientata su un tapis roulant o se preferite un fiume o un vento o qualcosa che corre sempre e chissà dove va, ne consegue in via logica il problema dell’adattamento. Non vi vestite e non mangiate e non vivete in autunno come in primavera, no?
A differenza di Darwin, noi oggi sappiamo da dove viene questa incessante produzione di varietà vitale. Di recente, s’è trovato che sarebbero esistite delle molecole-stampo che riproducono le molecole tipo in certi processi chimici pre-biotici. Siamo cioè ancora nella chimica inorganica. Ad un certo punto, poco dopo che s’era formata la Terra, iniziano anche i processi organici e la riproduzione, pensiamo, venne guidata da molecole RNA e solo dopo un bel po’ da altre più complesse dette DNA. Sta il fatto che questo processo di copia+incolla non è sempre del tutto preciso, fa errori. È perché fa “errori” che vengono fuori le novità.
Curioso noi si chiami “errore” il meccanismo da cui dipende l’esistenza di tutta la vita. Del resto, il linguaggio riflette l’immagine di mondo, la nostra è gravata dall’ingegnerismo moderno ottocentesco ed è certo che in ingegneria un errore produce catastrofe. Peccato che tra vita ed ingegneria si sia in dominii del tutto diversi, come tra intelligenze naturali ed artificiali.
Ad ogni modo, l’elemento fondante l’esistenza della vita è la varietà, produzione incessante di varietà e novità, per l’ovvio motivo che se l’esistenza è ambientata in un flusso costante di cambiamento, ciò che va bene (è adatto) oggi, potrebbe non esserlo domani. Così, l’esistenza degli uomini, individuale e sociale, sembra una eterna corsa in perenne ritardo in cui noi cerchiamo una qualche forma di ordine che fermi il tempo, spazzata poi via dallo scorre del tempo che cambia il contesto in cui noi cerchiamo di fissare un ordine.
Darwin, come ogni pensatore, è da ambientare nella mentalità della sua epoca o geo-epoca poiché le caratteristiche storiche variano a seconda del tempo e della geografia. Trovò quindi idoneo chiamare il meccanismo che sceglie le varietà adatte “selezione naturale”. Immerso nella cultura anglosassone che dalla concezione della vita “solitary, poor, nasty, brutish and short” di Hobbes (Leviatano) passa al catastrofismo malthusiano (Malthus era centrale nella cultura della famiglia Darwin), corso che poi arriva alla definizione cardine di economia del barone L.C. Robbins, un economista inglese marginalista “L’economia è la scienza che studia la condotta umana nel momento in cui, data una graduatoria di obiettivi, si devono operare delle scelte su mezzi scarsi applicabili ad usi alternativi.”, la cultura di questo popolo è ossessionata da scarsità, lotta per la sopravvivenza ed il predominio.
Segue documentario su National Geographic in cui qualche bestia divora e dilania un’altra bestia in maniera orripilante. In alternativa, qualche CEO di successo che ti spiega beffardo e compiaciuto del suo amaro realismo disincantato, ma anche un po’ sadico che o mangi o sei mangiato e quindi intanto corri, poi si vedrà. Poi magari l’intera vita si è sviluppata per simbiosi (la vita terrestre viene da cellule e le cellule si sono formate per aggregazione cooperativa di cose prima aliene le une alle altre), l’intero regno vegetale e dei funghi non si divora reciprocamente, molti animali sono vegetariani, molti altri sono sociali e si danno mutuo appoggio; tuttavia, non è questa l’immagine di mondo che piace agli anglosassoni. Se la vita fosse come la immaginano gli anglosassoni si sarebbe estinta da tempo.
In effetti, il concetto di selezione naturale, severo giudice che ne salva uno su un milione a seconda di quanto è cattivo, feroce ed egoista, andrebbe annegato nel più ampio concetto di vaglio adattivo ovvero va tutto più o meno bene secondo varietà (poi certo, ci sono qualità e qualità di pura esistenza ed assieme alla cooperazione c’è anche la competizione), salvo quelli che proprio non sono adatti o sfortunati (poiché certe volte è puramente questione di sfortuna, caso e contingenza visto la natura non l’ha creata un ingegnere).
Quindi, il senso della vita, non la mia o la tua, la vita come processo, è la varietà perché cosa è adatto oggi non è detto lo sia domani e del domani non v’è certezza, come diceva il poeta della giovinezza. La qualcosa vale anche per le società, i modi sociali, i modi economici, i sistemi di pensiero, le idee. Nelle fasi autunnali questa varietà si riduce, gli ordini si sclerotizzano, le immagini di mondo si fanno pensiero unico, dogmatico e prepotente, la varietà è bandita, ci si deve uniformare alla Verità che è -sempre- Una, la mente appassisce. Nelle fasi primaverili la varietà esplode, la diversità fiorisce, gli ordini diventano plastici alla ricerca di nuovi assetti, le immagini di mondo diventano “Cento scuole”, il giardino del pensiero diventa fertile e dinamico, così le idee, i pensatori di idee, le forme di vita associata, le verità tornano al loro statuto naturale che è relativo, relativo alla condizione, alla situazione, all’inquadratura, al luogo, al tempo, a ciò che funziona meglio in quel contesto che non è più quello di ieri e non è ancora quello di domani.
Dopodiché, in questa variata ecologia delle verità, a noi portatori di pensiero, rimane il gioco della discussione, del confronto, del dibattito, della dialettica, della verifica tra fatti e teorie, del cercar di convincerti del mio mentre tu provi a convincermi del tuo, del grande scontro-incontro tra immagini di mondo. Così è sempre stato e speriamo così sempre sarà.
Oggi, qui in Occidente, siamo nella fase autunnale (anche Braudel usò la metafora a proposito delle fasi finanziarie del capitalismo), ma prima o poi speriamo torni la primavera e come diceva il cinese “…che cento fiori fioriscano, che cento scuole di pensiero gareggino”. Ovvero: in tempi che cambiano profondamente e velocemente, pluralizza o perisci.

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CONTRO E CON, di Pierluigi Fagan

CONTRO E CON. In un libro sulla strategia di uno storico americano di Yale, ho trovato una citazione interessante di F. S. Fitzgerald. In un racconto dell’Età del jazz, lo scrittore definiva l’intelligenza come “La capacità di tenere due idee opposte in mente nello stesso tempo ed insieme di conservare la capacità di funzionare”.
Personalmente non avrei definito questa situazione come marcatore dell’intelligenza (termine semplice ed unico dentro il quale c’è una cosa molteplice di complessa definizione), tuttavia lo spunto di pensare quadri ampi come composti anche da cose che riteniamo opposte, senza farsi paralizzare dagli allarmi su queste che definiamo “contraddizioni”, lo trovo interessante.
In Logica e Psicologia cognitiva, ampia ricerca ha ribadito come i nostri apparati mentali siano per forza di cose riduttivi della complessità del reale. Banalmente, ma inevitabilmente, si tratta sempre di far entrare tanto (mondo) in poco (mente). È un semplice principio di economia cognitiva. Quanto alla “mente collettiva”, certamente più menti in sistema danno più varietà di una singola mente; tuttavia, una mente è operativamente sovrana nel pensiero mentre un gruppo di menti non lo sono, non sono cioè un unico cervello(corpo) con tutte le sue operatività disponibili. Ad esempio, il principio di coerenza ideologica può esser allentato dentro una singola mente, più difficilmente in un consesso di menti.
Principio di non contraddizione (o A o non A) e di bivalenza (vero o falso), ci impongono scelte binarie, prive di sfumature, incertezze, compresenze. Tra i criteri di funzionamento del mentale, troviamo una sorta di principio di semplicità, assunto in logica ed epistemologia già dai tempi di Occam col suo rasoio, come criterio di inferenza alla miglior spiegazione possibile. Il principio è a sua volta bivalente. Vero è che quando si mettono troppe variabili accessorie per sostenere una tesi, è speso sintomo di non aver compreso bene la questione e di voler difendere la nostra interpretazione a tutti i costi inventando punti di supporto. Ma è vero anche che ci sono questioni che non si presentano semplificabili se non violentandole per farle sembrare più semplici di quanto non siano.
Altresì, il criterio di conservatività, dice che si preferiscono le spiegazioni che ci costringono a modificare i minor numero possibile delle nostre credenze, soprattutto tra quelle consolidate. Acquisendo una certa immagine di mondo, ad esempio, sarà più probabile noi si violenti i fatti per renderli coerenti con l’impianto, piuttosto che andare a modificare l’impianto (Letto di Procuste). Per altro, sono pochissimi coloro in grado di mettere mano all’impianto, noi le immagini di mondo, per lo più, le acquisiamo non le creiamo. Ci sono momenti storici, si pensi al Rinascimento come transizione tra medioevo e moderno, in cui questi criteri possono andare in reciproco urto. La teoria copernicana era certo occamiana rispetto a quella tolemaica, tuttavia era tellurica per l’impianto idm. Se la preferivate andavate in urto al criterio di conservatività, se sceglievate la tolemaica andavate in urto al criterio di semplicità. Il caso citato è sintomatico in fasi storiche di transizione poiché quello che cambia nelle transizioni è, al contempo, il mondo e ciò si riflette nella sua immagine.
Gli studi sulla razionalità limitata (Simon) hanno ben individuato che per limiti di tempo mentale, spazio mentale, attentività, limitatezza delle informazioni, difficoltà a calcolare le catene delle conseguenze di uno o più linee di pensiero intrecciate tra loro, l’apparato mentale deve operare in maniera sotto-determinata rispetto a molti fenomeni che prende in esame.
La dissonanza cognitiva (Festinger), è poi quella tendenza che abbiamo nella mente a rendere a forza coerenti cose che non lo sono poiché ci sono veri e propri meccanismi neurali, frutto del processo evo-adattativo, che ci danno uno stato mentale disagiato quando appunto si formano dissonanze. Non è che sentendo dei fruscii nel profondo della boscaglia potevamo permetterci un sereno dibattito interno sulle cause (coniglio ovvero mangio o tigre dai denti a sciabola ovvero sono mangiato) per decidere il da farsi, dovevamo deliberare presto una reazione coerente con le impressioni ed il principio di sopravvivenza.
Quanto citato all’inizio di Fitzgerald diceva, appunto, non solo la difficoltà a contemplare due cose opposte allo stesso tempo, ma mantenere spazio mentale per continuare a funzionare senza farsi paralizzare dalla dissonanza che chiama con urgenza l’appianamento della contraddizione.
Infine, molti di questi meccanismi così come sono presenti nella nostra singola mente, sono presenti nelle altre menti e quindi nel sistema mentale collettivo. Il “sistema mentale collettivo” come forme e contenuti ovvero l’immagine di mondo condivisa da quel specifico gruppo o come “spirito del tempo” della propria società in una data epoca. A dire che se pure ad uno venisse in mente di forzarne o indebolirne la vigenza, si metterebbe fuori il collettivo pensante con gravi effetti di solitudine mentale, quindi sociale. Ci sono studi precisi in psicologia sociale che dimostrano quanto neuralmente sia dolorosa la solitudine. Non a caso l’ostracismo è stata probabilmente la più antica pena sociale imposta dal gruppo al singolo (mi riferisco al Paleolitico), tanto quanto imitazione e spirito gruppale (spesso gregario) o senso di appartenenza, sono stati selezionati perché adattativi. Adattativi perché spingono a stare in gruppo e nella contesa sociale, come nella sfida adattiva al contesto, si sa che “l’unione fa la forza”.
Si tenga conto che il principio di non contraddizione, non dice cosa compone la diade, dice solo che logico-linguisticamente non possiamo dire la cosa è il suo esatto contrario. Tant’è che si usano lettere simboliche per enunciarlo: A, B, terzo non dato. È l’immagine di mondo, quella individuale in accordo a quella collettiva o sociale a porre al posto di A, B, terzo non dato, i contenuti specifici.
Così, il principio di bivalenza (o è vero o è falso) non specifica cosa è vero e cosa è falso. Anche quando lo anneghiamo dentro ad esempio le logiche fuzzy che danno criteri di verità a scala 100 (da 0 totalmente falso a 1 totalmente vero per cui 0,50 è metà vero e metà falso), è poi l’immagine di mondo a riempire il meccanismo di contenuti e giudizi.
Se mi limito a prender in esame il fatto che nella guerra in Ucraina c’è un aggredito ed un aggressore, che sia logica bivalente o fuzzy, è indiscutibile vero che i russi sono gli aggressori e gli ucraini gli aggrediti. Se però al fatto metto le cause come si fa in ogni processo (altrimenti molto processi neanche andrebbero a giudizio se ci limitassimo al fatto finale, si deve conoscere la “storia” del fatto), allora il principio di bivalenza è troppo stretto con la sua pretesa di verità semplice e in logica fuzzy avrò il mio bel da fare per calcolare tutte le influenze causali che hanno portato all’atto. Non solo avrò il mio bel da fare perché ci sono molte variabili, ma poiché per lo più vige la razionalità limitata, mancanza di tempo e spazio cognitivo e soprattutto spaventosa mancanza di informazioni (geopolitiche, geostoriche, militari) presso le opinioni pubbliche, ma anche perché quelle che si presumono “informate” spingeranno a farla più facile del dovuto. È proprio per non operare mentalmente in tale modo che qualcuno ha letteralmente imposto a coloro che si esprimono pubblicamente di ribadire ogni volta che ci si deve fermare all’evidenza del semplice fatto finale poiché questa riduzione semplificante ha la forza di mobilitare il giudizio emotivo che chiude l’accesso al ragionamento.
Così, volevo solo dar seguito all’utilizzo dell’espressione “contro e con” in alcuni post recenti oltre al fatto che, in talune fasi storiche ad esempio quelle di transizione, si consiglierebbe di non allarmarsi troppo se in alcuni casi ci troviamo d’accordo ora con questo, ora con quello che pure tendiamo a ritenere antitetici. Valutando ad esempio il giudizio politico, assai spesso ci si può trovare abbastanza vicini alla politica estera di X pur essendo del tutto contrari alla sua politica interna o viceversa. Vale anche per i sistemi ideologici, le immagini di mondo, le credenze fondamentali. Si può esser critici sulla scienza o forse più sullo scientismo para-religioso e non per questo diventare antiscientifici di principio o al contrario antifilosofici (finendo così con l’essere filosofici).
L’importante, come diceva un vecchio pensatore, sarebbe avere il coraggio (e la capacità, in genere sotto-coltivata) di servirsi della nostra propria intelligenza, di pensare con la propria testa, di pensare anche a come pensiamo prima di farci sempre travolgere dalla foga di dire la qualsiasi su qualsivoglia. Direi anzi che pensare di esser contro e con, al contempo, rispetto certi pensieri o pensatori, in certe farsi storiche come la nostra, è necessario per dare al pensiero la possibilità di adeguare l’intelletto alle cose, senza negare le cose per difendere l’intelletto, senza paura di avventurarsi in percorsi sperimentali che ci rendono un po’ più soli ed incerti, senza la cocciuta convinzione che il nostro intelletto è il migliore tra quelli possibili, senza accusare di tradimento chi pur condivide una buona parte di idm, ma non tutta.
Le transizioni sono periodi di torsioni cognitive che andrebbero accettate con la dovuta forza e coraggio mentale. Altrimenti la difesa di certi presupposti diventa dogmatica, la sindrome che annuncia la prossima fine della vita di molti pensieri, pensati e pensatori.

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DAL POSSESSO DEI MEZZI DI PRODUZIONE AL CONTROLLO DEI MEZZI DELL’INTENZIONE, di Pierluigi Fagan

DAL POSSESSO DEI MEZZI DI PRODUZIONE AL CONTROLLO DEI MEZZI DELL’INTENZIONE. Una delle parzialità che coglie gli studiosi dei processi storici, è data dal concetto e dal campo categoriale che applicano a premessa della loro ricerca. Il concetto di “capitalismo”, un concetto di un sociologo tedesco dei primi del Novecento, W. Sombart e non di Marx come invece molti credono, è un concetto che taglia la realtà con una categoria socioeconomica. Ma i fatti socioeconomici accadono negli Stati e nelle relative nazioni. Come nella neurologia visiva ci sono sistemi neurali che colgono solo le forme orizzontali o solo le verticali o solo le fisse o solo il movimento etc. ma poi tutti assieme danno la visione umana, così la nostra conoscenza del mondo dovrebbe forse scalare queste gabbie categoriali e produrre sintesi di più alto livello. Quanto al “capitalismo”, ad esempio, non è un caso che quello veneziano o genovese fossero diversi tra loro e da quello olandese che poi risulterà diverso da quello anglo-britannico, che poi risulterà diverso da quello americano e questo poi nella sua versione primo o secondo Novecento. Forme, demografia, localizzazione e morfologia, dotazioni di materie prime o energia o ricchezza finanziaria, livelli di conoscenza, mentalità, tradizioni, obiettivi geostrategici dei vari attori stato-nazionali, modificano la semplice categoria socioeconomica che non declinata e contestualizzata rischia di diventare molto astratta. Così l’analisi critica continua a leggere la realtà passando dal generico capitalismo all’altrettanto generico neoliberismo come se la struttura del mondo nascesse dalle teorie economiche.
Quanto il termine medio dello stato e relativa nazione pesi nell’argomento, lo si nota oggi in diretta. Economisti e sociologi derivati da conoscenze molto settoriali, stanno scoprendo che la logica del principale operatore capitalistico coordinato ed intenzionato ovvero gli Stati Uniti d’America, oggi si preoccupa di difendere il proprio status geopolitico più che solo quello economico, ciò dato che è a loro noto che è da questo che deriva lo status economico e finanziario e non certo il contrario. Per ogni attore della prima citata sequenza storica del “capitalismo” quale indagata da Braudel ed Arrighi più e meglio di altri, si può rinvenire come gli interessi geopolitici della potenza hanno incanalato il processo di sviluppo della propria versione di capitalismo.
Passiamo così a segnalare un movimento di intenzioni della nostra principale potenza planetaria, gli Stati Uniti d’America. Conosciamo la svolta neolib-global-politico culturale imposta al mondo occidentale dai primi anni ’80. Reagan e Thatcher erano anglosassoni, il globalismo veniva dall’interesse americano espresso nel Washington consensus, la partizione conservatori (destra) progressismo (secondo questa cultura: “sinistra”) è tradizione fondante il sistema politico inglese-britannico-americano, quindi anglosassone (tory-whig/rep-dem). Dato il collasso sovietico, la “sinistra” euro-occidentale ovvero quella che ha genetica culturale in Marx, è entrata in una crisi ontologica poiché ancorché l’albero di sinistra aveva molte fronde lontane dalle radici, in senso di immagine di mondo un ramo è pur sempre un di cui del sistema “albero-radici”.
Piano-piano, ed oggi in maniera conclamata, s’è politicamente imposta la partizione conservatori – progressisti anche all’Europa occidentale. L’estensione egemonica culturale è stata pervasiva, dall’accademia alla cultura pop. La cattura egemonica anglosassone dell’Europa occidentale, anche usando l’Europa orientale a cui gli euro-occidentali sono sensibili per semplici ragioni di ovvia geografia ancorché le due parti abbiamo storie radicalmente diverse, è giunta al suo pieno compimento con la guerra in Ucraina. Attivato il trappolone ed invitato la Russia a farsi odioso nemico conclamato (ma i russi non avevano strategicamente altra opzione), gli USA possono oggi contare su un quasi perfetto allineamento strategico. Qualcosa di simile stanno cercando di replicare nel Pacifico usando il pericolo del c.d. “espansionismo cinese”.
Alla fine, gli Stati Uniti presiederanno un sistema che avrà un secondo livello basato sulla fratellanza anglosassone (Canada, Australia, Nuova Zelanda). A questo nucleo sarà collegato il sottosistema europeo occidentale sempre disarticolato dal “divide et impera” e messo anche sottopressione in vari modi, tra cui utilizzando la problematica parte orientale (balto-polacca-slava-danubiana). Negata come inesistente la minaccia di voler far entrare l’Ucraina della NATO all’inizio del conflitto, sia Stoltenberg che Draghi al MIT hanno iniziato il processo di abituazione sull’inevitabilità della cosa. Parallelamente, sospese tutte le procedure di selezione in passato strette e rigide, Ucraina, Georgia, Moldavia entreranno di gran carriera nell’UE. Non è possibile rinvenire alcuna logica economica in questo allargamento, infatti, la logica non è economica, ma geopolitica e non certo per interesse europeo. La nuova postura americana prevede di replicare un sistema simile, a base di alleanza soprattutto militare, ma anche cultural-tecnologica, in area asiatico-pacifica.
Con ciò, gli strateghi americani hanno pensato di risolvere il problema dell’annunciata transizione al mondo multipolare, destino ineluttabile per semplici ragioni di dinamica demografico-storica. Poiché qui da noi si fa spesso più analisi e critica info-culturale che fattuale, a molti sembra che “multipolare” sia una sorta di ideologia a piacere (o dispiacere, dipende dai punti di vista). Ma prima di esser vestita di ideologia, la cosa è un semplice fatto. Semplicemente, non è in altro modo possibile immaginare il funzionamento di una umanità a 8, prossimi 10 miliardi di individui segmentati in “n” civiltà e 200 stati, di cui molti accedono di recente e per la prima volta alle funzioni ordinatrici e di sviluppo dell’economia moderna che molti chiamano capitalismo, (illuminandone un aspetto che però non è l’unico ovvero l’accumulazione di capitale). Gli strateghi americani sono assai meno sprovveduti di quanto gli sprovveduti tendano a ritenere proiettando la propria sprovvedutezza a standard universale. Che il mondo andasse irreversibilmente verso un destino multipolare è noto da almeno venti anni, se non trenta. Se questo è il gioco, gli Stati Uniti hanno implementato una complessa strategia di costruzione sistemica, per presentarsi al tavolo di gioco con la maggior potenza, diretta ed indiretta, sotto il dominio di una unica intenzione coordinata.
Ma poiché questo nuovo sistema occidentale-orientale a base di democrazie ordinate dal mercato ed un mercato dominato dalle intenzioni e convenienze americane, ha pur sempre le proprie fragilità e contraddizioni interne e poiché l’economia e la finanza rimangono negli intenti l’ordinatore di questo tipo di società, c’è da scrutare che idee hanno oltreatlantico in merito a questo specifico campo.
L’idea principale sembra originare dai tempi della IIWW, quando gli americani cominciano a pensare a nuove tecnologie più complesse ed al destino del mondo con loro a capo. La Cibernetica (1948) deriva da uno scienziato, che era stato chiamato a risolvere il problema delle retroazioni nei sistemi di puntamento e lancio (sistemi missili-radar britannici alle prese coi V2 tedeschi). Lo stesso anno, altri due scienziati formalizzavano la Teoria dell’informazione (1948) le cui radici risalivano a sviluppi anche precedenti. Messe a sistema queste conoscenze sotto l’egida del governo e delle forze armate americane (tra cui la Marina finanziatrice del progetto di von Neumann di realizzare il primo computer su logica di Turing e poi promotrice anche della prima rete da cui origina Internet), sono l’unica invenzione significativa della seconda metà del ‘900, il campo detto dell’Information Communication Technology.
Oggi si parla e discute molto di A.I.. Ma l’operazione strategica più rilevante è più ampia ed è sussunta nell’acronimo NBIC, il cui intento strategico venne pubblicizzato venti anni dalla prima istituzione scientifica americana la National Science Foundation assieme al Dipartimento al Commercio USA. Anche a dire quanta poca informazione derivi dall’inquadrare il capitalismo come impresa di individui bramosi di profitto, non notando quanta istituzione si mobiliti per curarne le necessarie condizioni di possibilità. Tra l’altro, con certe chiavi di analisi sfugge il livello strategico che si muove sempre con ampio anticipo facendo piani e progetti poi promossi con la potenza di vario livello, cose che porta poi alcuni ingenui risvegliati dell’ultima ora a scambiare per “complotti”. Il “pianificare nel tempo” si chiama strategia, non complotto. Davos risponde a Washington non il contrario.
Ad ogni modo, il NBIC è un progetto di sviluppo parallelo e poi convergente lungo gli assi delle nanotecnologie, delle biotecnologie, di tutto ciò che funzione a base di informazione (secondo la teoria matematica non secondo il mondo dei media comunque arruolato per la sua funzione di propaganda) ed il grande mondo della cognizione umana, cervello-mente-corpo. Le nanotecnologie ( N) sono necessarie a nuove biotecnologie (B) funzionanti secondo i principi della teoria dell’informazione (I) ed hanno come fine il corpo e soprattutto la mente umana, la cognizione (C).
Da qui il perno del conflitto tra USA e Cina che parte da Taiwan oggi leader e di gran lunga nello sviluppo e produzione dell’unità base dell’impero informativo ovvero i semiconduttori, le leggi di Biden per proteggere e promuovere il “reshoring” di tutte le imprese che trattano questi campi (mentre in Europa ci sono ancora gli ingenui credenti della mano invisibile), la cattura egemonica euro-pacifica per formare il primo giocatore di multipla potenza del gioco multipolare, l’obiettivo di integrare il problema dei mezzi di produzione e financo di quelli monetari-finanziari per assicurarsi il controllo diretto dell’intenzionalità dell’unità fondamentale degli ordini sociali, politici, geopolitici, culturali, economici e finanziari: il corpo e la mente umana.
Che tutto ciò basterà magari con accanto un po’ di pittura verde e briciole di keynesismo di guerra a tenere in piedi l’ordine sociale economico è improbabile, per questo si rende necessario lo sforzo per il controllo delle intenzioni e delle mentalità umane, per adattarle alla inevitabile contrazione.
Così, gli Stati Uniti pensano di poter affrontare il XXI secolo, essere il principale soggetto geopolitico intenzionale in grado, all’interno della sua più ampia forma sistemica, di controllare il motore dell’intenzione umana: il singolo corpo-mente. Basterà?

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SISTEMI PENSANTI, di Pierluigi Fagan

SISTEMI PENSANTI. Come testimonia la foto del settore cervello-mente (in senso letterale, psicologia o psicoanalisi o logica o altro attinente le funzioni mentali stanno altrove) della mia biblioteca, sono anni che studio l’argomento. Pare ovvio che l’interesse per i prodotti della mente come, ad esempio, le immagini di mondo, chiami curiosità sugli organi che li producono. Vengo dalla lettura del saggio di uno tra i più noti neuroscienziati, S. Dehaene, francese, sulla coscienza [Coscienza e cervello, Cortina, 2014]. Il testo mi sollecita delle riflessioni.
Dovete sapere che sebbene tutte le cose importanti dell’essere propriamente umani provengano dal nostro cervello-mente, la scienza ha approcciato il tremendo argomento solo di molto recente. C’era un motivo tecnico ovvero che il cervello produce mente quando è vivo al pari del corpo di cui è parte. Ma un organo così complesso era impossibile da studiare in vivo, di solito la scienza biologica parte da dissezioni di cose morte. Solo negli ultimi decenni si sono prodotte tecnologie che riescono a farci sapere qualcosa del ciò che accade lì mentre funziona.
Ma c’era forse anche un motivo culturale aggiunto. Abbiamo prodotto talmente tanto pensato, a base di credenze di ogni tipo, tra cui alcune metafisiche rilevanti come la credenza dell’anima e della sua possibile eternità (l’eternità presuppone l’immaterialità, ovvio), che sembra noi si sia ritrosi ad andare a scoprire come funzionano le cose lì dove tutto questo origina.
Per dirne una, non c’è libro sul cervello-mente che non citi una o più volte Cartesio e la sua idea dualistica della cosa estesa (materia) e la cosa pensante (mente o anima), incluso il celebre “L’errore di Cartesio” influente best seller di A. Damasio. Studiai a suo tempo il problema studiando Cartesio in filosofia. A riguardo ho sempre avuto una idea eccentrica. Partendo da elementi biografici ovvero gli scambi epistolari col fidato amico Marsenne (teologo) o il fatto che il Discorso sul metodo ospiti in poco più di una scarsa paginetta questa idea pur rilevante (ricordo che questa fu la prima opera colta prodotta in francese volgare, a dire quanto Cartesio evitasse e temesse l’accademia del tempo che parlava solo latino) o la sua precipitosa fuga verso la Svezia per sentirsi più libero, pare che il nostro fosse letteralmente terrorizzato da quello che era successo a Galilei.
Poiché non era certo un cuor di leone, è forse ipotizzabile che Cartesio non fosse poi così convintamente certo di questa impostazione dualista, semplicemente voleva lasciar intatto il mondo mentale che poi era sede dell’anima, per non urtare le credenze fondamentali per sbizzarrirsi poi col suo meccanicismo materiale sui corpi. Del resto, il dualismo non è nato con Cartesio, le fonti più antiche sono orfico-misterico-pitagoriche, platoniche ed ovviamente cristiane. Stiamo parlando di qualcosa come duemila anni prima che il francese presentasse la sua versione ed è anche strano che in queste ricostruzioni del sistema delle idee, gli studiosi stessi si sveglino a notare Cartesio e non la lunghezza ed importanza della tradizione precedente. Piacevolezze degli studi disciplinari non comunicanti.
A ciò si è aggiunta una peculiarità specifica del nucleo centrale della cultura occidentale degli ultimi decenni, il nucleo americano. Derogo qui dall’utilizzo della categoria “anglosassone” poiché tra americani e britannici ci sono molte similarità, ma anche alcune differenze, la geostoria conta. Gli americani si sono convinti che l’unico discorso pubblico ammesso, l’ancoraggio di verità, debba essere scientifico (filosofia analitica, logica formale, matematizzazione di tutto ed il suo contrario come in “economics”).
Poiché hanno lungamente ritenuto che con metodo scientifico non si potesse dire niente di argomenti come la coscienza, arrivando pure a dubitare esista tal cosa, hanno ficcato il tutto in una cosa che hanno chiamato “scatola nera” ovvero qualcosa che non si può conoscere dentro ma solo per ciò che emana fuori, il comportamento, ad esempio. Ovviamente, dalle tesi di laurea alla richiesta di fondi per ricerche, alle pubblicazioni e relative carriere, a nessuno veniva in mente di andar a ficcar il naso lì dove era, implicitamente, vietato. La gran parte dell’A.I. risente di questa impostazione. Lo stesso assioma che la consistenza materiale di ciò che fa il cervello (neuroni, assoni, dendriti, spine, neurotrasmettitori, architettonica, elettricità, cellule gliali, sistema nervoso-corporeo di un animale sociale etc.) è ininfluente perché tanto ciò che ci interessa è il suo risultato che è “informazione” e come tale si possono creare sistemi di informazione al silicio, da cui l’espressione programmatica che è la promessa di creare intelligenza non biologica (artificiale), regge tutta l’impresa.
Ma non è dimostrato, forse dimostrabile anche perché sappiano così poco del cervello-mente (ed anche di “intelligenza”) che pare un po’ assurdo noi si pensi di poter replicare qualcosa che neanche sappiamo bene cosa sia e come funzioni. Tant’è che dei tanti studiosi messi a sistema nell’impresa A.I., mancano sistematicamente i neuro-biologi (che potrebbero dire come funzionano le cose nei cervelli veri) ed abbondano gli ingegneri che sono persone degnissime ma non si capisce cosa sappiano di quei neuroni la cui funzione vorrebbero replicare. Così, come alcuni stanno spiegando (ad esempio il N. Cristianini, La scorciatoia, il Mulino 2023), in effetti l’A.I. è una impresa dedita a manipolare il comportamento umano, non a replicare l’intelligenza umana.
Ad ogni modo, negli ultimi soli tre decenni, alcuni hanno invece cominciato ad “aprire” la scatola (in realtà a rilevarne da fuori il funzionamento) per vedere lì come funzionano le cose. Ed è sintomatico che Dehaene, allievo di J.P. Changeux, non usi il termine “informazione” più delle virgole come accade nei tanti testi sull’argomento americani, sebbene debba spendere più di duecento pagine del suo libro, prima di giungere al dunque. Ed è altresì sintomatico che giunga al dunque, partendo da una osservazione di R. Cajal, premio Nobel del 1906 in condominio col nostro Golgi, gente che sezionava fette di cervello per capire com’era fatto. Sintomatico perché questi studiosi facevano la cosa più ovvia ovvero guardare la cosa per capire com’era fatta nella speranza di capire come funzionava. A molti studiosi del campo, oggi, sembra che interessi dire come funziona senza occuparsi più di tanto com’è fatto l’organo.
Ricordo una deliziosa intervista sul FT di un “Sir-qualcosa” di cui non ricordo il nome, che è ritenuto il più o uno dei più importanti neurochirurghi del mondo; quindi, uno che nella cosa ci mette le mani. Interrogato su cosa pensasse dell’A.I. confessava di non riuscire speso a capire di cosa si occupassero questi studiosi, a lui risultava un altro mondo quanto a cervello da cui una mente. Nel mio piccolo, dopo venticinque anni di professione a certi livelli, è lo stesso smarrimento che ho lungamente provato quando sono diventato uno studioso, riguardo i testi di economia. Per dirvene una anche qui, l’economia comportamentale che negli ultimi anni ha mietuto premi Nobel come grande scoperta recente sul comportamento economico umano assai meno razionale del lungamente presupposto (assioma necessario a rendere l’economia una materia “scientifica”), è da decenni e decenni base del plesso di conoscenze del marketing commerciale. Forse gli economisti non lo sapevano ed hanno reinventato cose stranote ma non assunte in accademia. La conoscenza è una impresa sociale, politica, economica oltreché propria dei suoi paradigmi ed è poco conosciuto quanto venga distorta dalle immagini di mondo.
Era la scusa per fare riflessioni sparse più ampie. In sé, quello che sostiene il francese, semmai vi interessa l’argomento specifico, è più o meno lo stesso di ciò che hanno sostenuto e sostengono altri, come i concetti di “informazione integrata” di G. Tononi, gli “assemblaggi di cellule di D. Hebb, il “pandemonio” di J. Selfridge, i “rientri” di G. Edelmann, la “coalizione neurale” di F. Crick e C. Koch, le “zone di convergenza” di Damasio. Il nostro lo chiama “spazio di lavoro globale” e sarebbero regioni della corteccia prefrontale e non solo, collegate poi anche al talamo (che è evolutivamente molto antico), in cui ci sono alte densità di cellule particolarmente grandi, con assoni particolarmente spessi ed a lunga gittata (che arrivano anche a due metri), con dendriti particolarmente spessi con un grandissimo numero di spine, che creano un sistema iperconnesso a due vie (emettono e ricevono). Questa sarebbe la coscienza (o “stato di coscienza”), aree di neuroni densamente interconnessi tra loro e con tutte le altre principali parti del cervello, che scaricano assieme sincronicamente e si eccitano l’un l’altro allungando il tempo di eccitazione, che poi sarebbe quello di attenzione cosciente. Altri, si danno da fare ad inibire il funzionamento di altre cellule e regioni, da cui la spiegazione del fatto che il nostro stato cosciente può trattare solo una cosa per volta. Il resto è tutto inconscio, preconscio, subliminale, memorie, sfuggevolezze, nuclei dell’emozione, sistemi disconnessi (come quello che regola il respiro) etc.
Naturalmente il tizio non s’è svegliato una mattina con l’idea come fanno i più a proposito dei tanti temi che ci spingono a dire la qualunque sul qualsivoglia. Ci sono firme della coscienza rilevate, controprove, deduzioni, decine di esperimenti inclusa l’analisi degli stati di non coscienza dal coma al vegetativo, al locked-in, al sonno. Di base però, mi sembrava interessante segnalare come l’andare presso le cose che vogliamo conoscere, prima di esprimere idee e giudizi, sia meglio del contrario. Spesso, evitazione della materia come della realtà, sono presupposti necessari per liberarci nell’empireo che ci piace tanto, quello puramente mentale, ideale, spirituale. Poi, se questa tesi è valida, quanto ed euristica per ulteriori approfondimenti si vedrà. A me pare intuitivamente consistente, la più consistente tra quella di cui ho letto nei volumi di cui alla foto, per quel che vale…
Poi tutto ciò ha a che fare con le immagini di mondo solo in parte. Il dominio proprio delle idm sarebbe l’auto-coscienza o coscienza riflessiva o metacognizione. Ma questo è argomento da “…non aprite quella porta” (cioè categoria film horror).

Gabriele Germani

Ottimo post, pensare che l’ha scritto di getto, non osiamo pensare cosa fa quando si concentra 😃
Sul tema: per capirci qualcosa di più, nel 2014 iniziai un secondo percorso di laurea in Psicologia, cercando di approfondire ToM, filosofia della mente, neuroscienze, filosofia del linguaggio e archeologia della mente. Notai da subito come, nonostante in Italia avessimo delle eccellenze (due tra tutti: Rizzolatti e Gallese), la formazione universitaria fosse per lo più concentrata su marketing-lavoro, in ultima istanza clinica, dove la psicoanalisi ha un ruolo marginale.
Un vero peccato, perché la questione “mente” è a monte di un altro mare di problemi che ci riguardano tutti da vicino.

Claudio Raveli

Gabriele Germani concordo sull’ottimo e anche di più, per quanto ho potuto comprendere, attribuito al post.
Voglio qui dire che Pierluigi Fagan ha colto in pieno come le qualità attribuite alla AI siano mistificatorie e di fatto fonte di manipolazione che inizia proprio dalla sua definizione di Intelligenza artificiale.
E ha colto anche in pieno il neopositivismo meccanicistico di stampo statunitense degno di una situazione simile a quella descritta in “Noi” romanzo distopico risalente a un secolo fa di E. Zamiatin ,dove ogni attività umana è ridotta a formula matematica e sulla matematica, oggi, non a caso viene privilegiata quella applicata a scapito di quella generale e di base che non ha applicazioni pratiche immediate, come si può inferire da chi ha ottenuto le ultime medaglie Fields.

Claudio Bramby

Ho partecipato proprio questo fine settimana ad un incontro molto intenso ed estremamente interessante di 3 giorni a Prato sul tema “Scienza e Spiritualità” dove uno degli argomenti era proprio incentrato sulla coscienza e l’I.A. Erano presenti, tra gli altri, Federico Faggin (consiglio la lettura del suo recente libro “Irriducibile”) e alcuni teologi (Padre Paolo Gamberini e Paolo Squizzato) che hanno proposto la nuova visione del “Post-teismo” e di coscienza legata ad una nuova interpretazione del divino, molto legata ai recenti sviluppi della fisica quantistica. Relativamente all’I.A. Faggin ha espresso molto chiaramente la diffeeenza e i limiti della stessa rispetto alla coscienza umana e le ricerche e studi che la sua fondazione sta portando avanti. Grazie Pierluigi Fagan del suo contributo che aiuta il pensiero collettivo in questa critica fase del cammino umano.

Pierluigi Fagan

Claudio Bramby Vorrei precisare una cosa su “spiritualità” accennata nel testo in un contesto che poteva dare l’impressione una mia postura critica. Non credo esista nulla del mentale che non si possa riportare al cerebrale (o corporeo in senso lato), di questo mentale fa parte la spiritualità che è una indagine o un plesso di esperienze degnissime e umanissime, quindi interessantissime. Io sono convintamente evo-adattativo quindi ogni cosa dell’umano, mi porta sempre a domandarmi se ha avuto una funzione adattativa, non solo verso l’esterno anche verso l’interno. Ad esempio l’intera nostra complessione, come ogni forma vivente, tende a farci esistere al più a lungo possibile. Di contro, per altre vie, abbiamo sviluppato coscienza ed autocoscienza della nostra certa morte. Questa contraddizione insanabile, potrebbe aver favorito certe nostre idee che non vanno affatto svalutate, ma indagate, comprese, allacciate con altre. Sta il fatto che è provato che chi ha tali convinzioni e soprattutto le pratica e meglio se non da solo, ha meno disturbi mentali ed altri accidenti. Il cervello è una farmacia ambulante, premia le cose “buone da pensare”, poi magari bisogna vedere buone per cosa, ma questo è un altro discorso.

Cristiano Iera

Ok, mi piace molto la dissertazione filosofica e cognitiva, e per questo leggo assiduamente tutti i post di Germani e di Fagan, ma forse prima di parlare della possibilità di neuromimesi (ossia creare strutture simili a quelle cerebrali per emularle) dovreste conoscere il lavoro che IBM sta portando avanti da diversi anni (siamo alla release 4) con il TrueNorth Neurosynaptic System, che è un processore neuromorfico per il quale sono stati usati componenti “nuovi”, ossia non le solite porte logiche o gate array con cui sono fatti i processori tradizionali, ma dei dispositivi a semiconduttori dotati della capacità di interconnettere nodi di calcolo/memoria (non c’è distinzione come nei chip “tradizionali”) mediante vere e proprie “sinapsi”, esattamente come un cervello. La release 4 del sistema supera il milione di nodi, e ora la scalabilità è solo un problema tecnologico. Avere questi dispositivi pone anche il problema di programmarli, o meglio, metterli in condizioni di apprendere, trattandosi di reti neurali. Ciò richiede stratificazioni logiche, più o meno come quelle dei linguaggi di programmazione, solo che i microprogrammi in questo caso non sono sequenze di istruzioni deterministiche, ma descrizioni dei modi di funzionamento della rete neurale. Anche Intel sta lavorando, da qualche anno, a un chip neuromorfico basato su una nuova categoria di semiconduttori (Loihi versione 2, anche questo ha circa un milione di nodi per chip, ed è stata già annunciata la v3). Tutto ciò significa esattamente “andar dentro” al funzionamento logico di un “cervello emulato”, anche se – per ora – in modo primitivo. Comincerà a essere un po’ meno primitivo fra poco tempo, visti gli sviluppi che sta avendo neuralink e altri progetti simili. Per interfacciarsi con i percorsi neurali biologici bisognerà anche decodificarne la logica di funzionamento, cosa che si sta già progettando di fare non più secondo la logica della “scatola nera” di una volta, ma secondo la “scatola trasparente”: l’immissione nel tessuto cerebrale di alcuni milioni / miliardi di nanomacchine, indirizzabili tramite una codifica trasmessa a mezzo risonanza magnetica codificata, ognuna delle quali si lega elettrochimicamente ad un assone e ne comunica all’esterno lo stato. E’ come se facesse una misurazione dei potenziali elettrochimici cellula per cellula, sinapsi per sinapsi. E’ come un MDS (sistema di sviluppo utilizzato per fare il debug del microcodice dei microprocessori) collegato direttamente al cervello che consentirà di capire il significato puntuale di ogni segnale elettrochimico con cui il cervello funziona. L’obiettivo finale è anche di creare nanomacchine indirizzabili in grado di alterare lo stato degli assoni.
Una ulteriore direzione di sviluppo è quella della realizzazione di porte logiche in biomateriali su nanoscala, ossia porte logiche elettrochimiche che possano essere inserite direttamente “in vivo” e collegate alle fibre nervose, mantenendo però l’architettura “tradizionale” delle macchine sequenziali programmabili.

Pierluigi Fagan

Cristiano Iera Grazie per le informazioni. Citavo appunto questa linea di ricerca su computer organici e molecolari in una discussione più sotto. Credo, tra l’altro, sia la strada più rilevante per il futuro, un futuro cibernetico di umanità (non tutta, ovvio) potenziata. Che poi era l’intento strategico originario espresso nel Rapporto Converging Technologies for Improving Human Performance NANOTECHNOLOGY, BIOTECHNOLOGY, INFORMATION TECHNOLOGY AND COGNITIVE SCIENCE del 2002, promosso da National Science Foundation e Dipartimento al commercio USA.

Vincenzo Guida

Tra i tanti metodi matematici che si utilizzano nel campo dell’inteligenza arteficiale, le reti neurali artificiali sono senz’altro quello la cui ispirazione deriva dalla neurobiologia. Una rete neurale artificiale e’ costituita da un network topologico in cui different input vengono trasformati in un set di ouput tramite una funzione di trasferimento non lineare. Essa e’ stata concepita come emulazione del sistema neuronale biologico. I ricercatori di AI si domandano quotidianamente come addestrare questa rete in maniera efficiente e prendono a prestito idee che derivano dalla neurobiologia o almeno da quello che capiamo della neurobiologia. Dire che i matematici che lavorano sulla AI non si ispirano alla biologia e’ ingeneroso. Esiste pero’ una piu’ sottile considerazione da fare. Le reti neurali sono solo una branca della AI ed una branca che funziona molto bene per i problemi di apprendimento supervisionato. L’apprendimento supervisionato si occupa di problemi come distinguere l’immagine di un cane da quella di un gatto, ad esempio. Esistono pero’ problemi in cui il compito di apprendimento non e’ predefinito, ma si chiede all’AI di ricercare pattern nei dati, di formulare raccomdazioni su un problem anon predefinito, di catalogare, di distinguere… sono i cosiddetti problemi di apprendimento non supervisionato. Gli esperti di AI hanno svilupato algortmi per questo tipo di problemi, ma non sono ispirati alla biologia, la grande frattura tra neurobiologia e AI comicia li’ secondo me.

Pierluigi Fagan

Vincenzo Guida Giusto distinguo, concordo. Leggendo anche qualcosa di A.I., da tempo, mi pare si sottovalutino cose come la plasticità della materia cerebrale, la creatività del connettoma, gli influssi chimici corporei, la stessa ambientazione corporea, la sensibilità. Ma è un discorso complicato e poi la mia, ammetto, è una posizione un po’ prevenuta verso la riduzione del tutto mentale ad informazione. Tuttavia, anche si concentrassero solo su certi funzionamenti del cerebro-mentale, sono e sempre più saranno senz’altro in grado di sviluppare cose mirabolanti. Le reti neurali artificiali, come per altro tutto questo discorso anche versante bio, sono centrali nell’esplorazione del concetto di complessità.

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LA CAOSIFICAZIONE DEGLI AMERICANI, di Pierluigi Fagan

In un doppio post recente sulla crisi della civiltà occidentale, ponevo come un sottosistema a sé le società anglosassoni, gli Stati Uniti d’America, la Gran Bretagna ed altre tre minori. Riguardo gli USA, c’è da segnare come, finita la presidenza Trump, le notizie date qui su quel mondo sono semplicemente sparite. Sulla Gran Bretagna, talvolta, qualche europeista prova piacere a raccontare i significativi malesseri britannici addebitandoli alla Brexit, ma niente di più. Infine, col nuovo governo, siamo diventati “amici preferiti” tanto dell’uno che dell’altro. Nel caso americano ne va anche della coerenza di allineamento geopolitico con attualità nel conflitto ucraino, posizione super-partes nello schieramento politico italiano che per altro, secondo scarni sondaggi, non rifletterebbe per niente il sentimento maggioritario del Paese. Quindi sugli USA, dal punto di vista interno, non c’è niente da dire?

Nel 2022, una storica americana specializzata in conflitto civile (fondazione storica degli States), ha fatto clamore, sostenendo che in base alla letteratura di analisi storica generale, si potevano sintetizzare alcuni punti di crisi che potevano far prevedere l’imminente rischio di scoppio di una “stasis”. Secondo B.F. Walter, gli Stati Uniti sono oggi dei perfetti candidati a piombare nella guerra civile. È stata seguita da altri autori e molta eco mediatica, sia americana che britannica, hanno amplificato il tema ponendolo al centro del dibattito pubblico.

In un recente articolo di L. Caracciolo sulla Stampa, lo studioso usa questa espressione “Oggi l’America non si piace più. Come può affascinare gli altri?”. Buon annusatore dello spirito del tempo, Caracciolo si è convertito già dall’editoriale sull’ultimo numero di Limes ora in edicola, alla verità dell’epocale transizione dei poteri nel mondo, segnalando come gli Stati Uniti abbiano perso l’aurea e con essa il soft power.

Ribadisce George Friedman sulla stessa rivista, nel titolo della sua analisi “Gli Stati Uniti sono prossimi a un collasso interno”, sorbole! L’elenco di Friedman cita “rivendicazioni sociali al picco di intensità, questioni morali, religiose, culturali”, poi ci sono i fallimenti bancari, le revisioni strategiche verso la globalizzazione, il grande punto interrogativo cinese, ombre scure sui Big Five dell’on-line (che per altro licenziano a manetta) e le oscure sorti progressive dell’A.I., la Nasa che pare non sappia più come fare una tuta da astronauta, figuriamoci mandarlo sulla Luna; permangono attriti sui flussi migratori e sempre forti sulla convivenza razziale. C’è anche una profonda crisi interstatale/federale che arriva fino al ruolo del Congresso e della Corte Suprema. “Mai nella storia, vi è stato un tale livello di rabbia e disprezzo reciproco tra gli americani”, è la nota inquietante di Friedman. Se ne danno davvero di santa ragione su questo e su quello a livelli veramente pre-isterici, quando non si sparano e fanno e parlano di cose in modi davvero bizzarri (Dio, aborto, transessuali che risulterebbero solo lo 0,5% della popolazione, tradizionalismo e progressismo, pedofilia, complotti surreali et varia).

Questa agitazione, che più d’uno ha interesse a radicalizzare, trova il suo inferno su Internet ed i social. Quanto ai social, è il formato stesso dell’interazione anonima, con scritto privo di corredo facciale e comportamentale, costretto in spazi più da battuta che da discorso argomentato (woke! cristofascista!), la clausura nelle piccole comunità dei comuni pensanti che si eccitano a vicenda, a dar benzina a braci già ardenti. Radicalizzazione ci mette del tempo a costruirsi e non si smonta in tempi brevi, deposita rancori, astio, odio viscerale. Alla fine, non è più una questione di argomenti ma di irrigidimenti.

Sebbene sia una nazione di 330 milioni di persone (con, si stima, 400 mio di armi private, molte di livello militare) e pure con una composizione assai varia, tende a spaccarsi semplicemente in due ed il formato “noi contro loro”, alimenta il suo stesso radicalizzarsi semplificando. La semplificazione, del resto, è un tratto caratteristico della mentalità americana empirico-pragmatica ovvero sovrastimante il fare al posto -o priva- del pensare.

L’aspettativa di vita in America è in caduta libera da circa un decennio: è arrivata a 76,1 anni (da noi è da cinque a dieci anni di più). Grandi balzi in avanti tanto della mortalità infantile che di quella generale: diffusione armi ormai fuori controllo (in America oltre 200 persone al giorno vengono ferite da armi da fuoco, 120 vengono uccise. Di queste 120, 11 sono bambini e adolescenti), tasso di omicidi tra adolescenti +40% in due anni, overdosi ed abuso farmaci, incidenti auto. Nelle scuole, a molti bambini è imposto un corso di comportamento nel caso qualcuno entrasse in classe sparando con un mitra. E meno male che sono pro-life!

Al 10° posto per teorica ricchezza pro-capite in realtà gli USA sono 120° per uguaglianza di reddito (WB 2020), dopo l’Iran ma prima del Congo (RD). L’ascensore sociale è rotto da almeno trenta anni, ammesso prima funzionasse davvero. Americani poveri, in contee povere, in stati del Sud, muoiono fino a venti anni prima degli altri. Gli afroamericani cinque anni -in media- prima dei bianchi. Col solo 4,5% della popolazione mondiale hanno il 25% della popolazione carceraria, spaventoso il grafico di incremento negli ultimi trenta anni. La media europea è di 106 incarcerati su 100.000 abitanti, in US è 626, sei volte tanto che è primato mondiale. Fatte le debite proporzioni tra morti per overdose e popolazione totale, per ogni morto in Italia ce ne sono 50 in USA. Sebbene abbiano meno del 5% di popolazione mondiale spendono il 40% del totale mondo in spesa militare (a cui aggiungere le armi interne). Se ci si annoia coi libri di storia, basta guardare nell’immaginario la produzione cinematografico-televisiva per capire quanto attragga culturalmente la violenza, da quelle parti. La violenza è la cura dei contrasti sociali, atteggiamento pre-civile.

Avendo a norma sociale il libero perseguimento della felicità versione successo economico-sociale su base competitiva delle qualità individuali nel far soldi, non avendo idea di come il gioco sia truccato, mancando tradizione di pensiero e di analisi di tipo europeo (ad esempio per classi), questa massa di reietti, che spesso vivono in condizioni subumane, ovviamente arrabbiati quando non rintontiti da tv-alcol-farmaci-droghe, vengono reclutati dalle varie élite per sostenere o combattere ora questo, ora quel diritto civile. Il che alimenta questa tempesta di odio reciproco a livello di “valori”, che siano della ragione o della tradizione, ma mai economico-sociali.

I “bianchi” sono oggi il 58% ma nel 1940 erano l’83% ed ancora nel 1990 il 75%, il trend è chiaro. Già si sa che perderanno la maggioranza assoluta nel 2044, tra due decenni. Peggio per la quota WASP dentro il cluster “bianchi”, con età media più alta, in piena sindrome Fort Apache.

Un sondaggio 2022 dava a 40% tra i dem e 52% tra i rep, favorevoli a separare stati rossi e blu in una sorta di secessione ideologica e atti politico-giudici locali, nonché la pratica tradizionale del -gerrymandering-, una sorta di sartoria dei collegi elettorali per predeterminare la vittoria di certi candidati nelle forme della rappresentanza che non è mai proporzionale, sembra esser andata in questa direzione negli ultimi anni. Alcuni rep, da un po’, propagandano l’idea di alzare l’età del voto per evitare che i più giovani portino voti ai dem. Questa idea di divorzio territorial-ideologico è inedita e dà il senso della profondità della frattura sociale. Lo screditamento reciproco dei rappresentanti locali e federali dei due partiti è all’apice.

Del resto, il crollo di fiducia è molto ampio: chiesa, polizia, giornalisti, intellettuali, accademia e scuola stessa ed ovviamente i politici che spesso in realtà sono cercatori di posizione sociale disposti a tutto. La guerriglia condotta sulla legittimità dei voti, potrebbe adombrare una ipotesi ventilata sul “voto contingente” dove in mancanza di un chiaro pronunciamento (ovvero contestato), ad ogni stato viene attribuito un voto, essendo la maggioranza degli stati (che hanno però minor popolazione) repubblicani, ecco qui realizzata l’intenzione che sempre più spesso esce da certe bocche “Noi siamo una Repubblica, non una democrazia”, il che -per altro- è una limpida verità.

È del resto certificato da studi di Princeton e Northwest sui contenuti delle leggi deliberate dal Congresso, già di dieci anni fa, che gli Stati Uniti sono una oligarchia e non una democrazia. È questa oligarchia che ha interesse ad incendiare il sottostante, lì dove il popolo si scanna per questioni di diritti civili, razza, prevalenza sessuale e non per diritti sociali, qualità della vita, ridistribuzione dei redditi e potere connesso.

Ci sono presupposti per verificare questa profezia di una ipotetica guerra civile, profezia che dato il grande rilievo media dato in America rischia di diventare del tipo “… che si auto-avvera”? Ci sono parecchie ragioni per dubitarne, sempre che s’immagini barricate e vasti disordini per strada accompagnati da terrorismo interno. Tuttavia, per quanto l’analisi dovrebbe esser più profonda di quanto permetta un post, questa analisi specifica sulla crisi interna la società americana certifica che è il cuore della civiltà occidentale ad esser in crisi profonda.

Per questo agli europei si consiglierebbe di allentare i legami trans-atlantici, gli americani sono destinati ad una continuata contrazione di potenza mondiale mentre all’interno danno sempre più di matto su tutto tranne che sul continuo aumento delle diseguaglianze, malattia mortale per ogni società.

Parecchia della fenomenologia perversa qui brevemente descritta, ha già contagiato le nostre società. Dal globalismo-neoliberale alla lagna unidimensionale sui diritti civili e non sociali che eccita l risposta tradizionalista, l’intero immaginario che percola dalle serie tv e dal cinema, l’intero Internet e la logica dei social, ora dell’A.I. che discende da un preciso milieu psico-culturale comportamentista (cioè finalizzato al controllo del comportamento e della cognizione, altro che “intelligenza”), la ripresa europea ed italiana nelle produzione e commercio di armi, la distruzione democratica già programmata dai primi anni ’70, la demagogia, l’ignoranza aggressiva, il drastico scadimento qualitativo delle élite, la scomparsa della funzione intellettuale, il semplicismo, l’infantile entusiasmo tecnologico, una irrazionale fede sul ruolo della tecnica, le epidemie di solitudine sociale e depressione, la farmaco-dipendenza, la plastificazione corporea e la manipolazione neurale. La crisi del centro anglosassone del sistema occidentale irradia da tempo tutta l’area di civiltà, anche dove l’antropologia culturale, sociale e storica, sarebbe ben diversa.

Si consiglierebbe di cominciare a programmare un divorzio, una biforcazione dei destini, una rifondazione dell’essere occidentali che chiuda la parentesi anglosassone. Viaggiare i tempi complessi con questa gente alla guida potrebbe esser molto pericoloso.

https://pierluigifagan.wordpress.com/2023/05/28/la-caosificazione-degli-americani/

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UNA CIVILTA’ IN CRISI (2/2)_di Pierluigi Fagan

UNA CIVILTA’ IN CRISI (2/2). Le società animali e quelle umane più di altre, andrebbero intese come veicoli adattivi. Gli individui creano e si adattano alla società che aiuta ad adattarsi al mondo. Una civiltà è un meta-sistema, meno definito di quanto sia una società propriamente detta ma col vantaggio della massa. L’unità metodologica qui è la società, la società si adatta e partecipa della civiltà la quale aiuta ad adattarsi al mondo.
Lo stato di crisi precedentemente illustrato (precedente post, link sottostante) percorre tutti i livelli che vanno dalla civiltà alle società componenti, singole nazioni o gruppi di esse più omogenei, da queste alla loro composizione interna per strati, ceti, classi, funzioni, fino ai singoli individui. In una crisi adattiva, ognuno di questi soggetti, singoli o collettivi, si trova nella difficile situazione di esser, al contempo, “contro e con” qualcun altro.
Si può guadare con simpatia l’odierna emersione di nuove potenze interne altre sfere di civiltà, se non altro perché questo può muovere la struttura della nostra civiltà, aprire a possibili cambiamenti. Ma tali cambiamenti dovrebbero vederci pronti a farci carico della ridefinizione della nostra civiltà, non certo aspirare ingenuamente ad esser cambiati da altre civiltà. Ogni civiltà è aliena all’altra. Le civiltà possono e dovrebbero dialogare e scambiarsi idee, tratti e caratteri, ma rimangono soggetti con fini, scopi e modi integralmente diversi e di fondo, reciprocamente competitivi.
Così, la crisi della nostra civiltà ci riguarda integralmente tutti sebbene ognuno di noi abbia porzioni di distinguo e dissenso con la sua forma attuale. Ci riguarda come società che dovrebbe perseguire il proprio interesse nazionale ma “contro e con” altre società similari, il che vale anche per la dialettica tra ceti, classi e funzioni interne alla singola società, fino al livello individuale e nelle aspettative tra interessi teorici e pratici, financo dentro noi stessi.
Lo stato di crisi ontologica della civiltà occidentale e di ogni sua componente interna è certo la crisi dei suoi modi, strutture e dei suoi usuali processi di organizzazione, ma è anche la crisi del proprio mentale. Per gli umani, il mentale, è stata la principale e per altro molto potente arma adattativa. L’umano mostra una peculiarità cerebro-mentale che frappone tra intenzione ed azione uno spazio, in quello spazio c’è la simulazione degli effetti di ogni possibile azione, il pensiero. Il pensiero è una azione off line, una ipotesi di azione non ancora agita in attesa di diventare atto, soggetta a strategia, simulazione e valutazione. Tramite questa novità biologico-funzionale, abbiamo perso ogni tratto adattivo animale non più necessario (pelo, artigli, canini e potenti mascelle, agilità e muscoli etc), diventando al contempo uno degli animali più morfologicamente fragili a livello individuale quanto operativamente il più potente a livello collettivo o comunque sicuramente il più adattivo.
A questa dotazione mentale generale diamo il nome di “immagine di mondo”, ne sono dotate le civiltà, le società a gruppi o singolarmente prese, gli strati (ceti, classi e funzioni interne), gli individui. Oltre che nella scomoda situazione dell’esser al contempo “contro e con”, noi oggi ci troviamo con un mentale disallineato ai tempi. Il nostro mentale distilla i cinque secoli del moderno, anche se alcune strutture di pensiero che hanno funzione profonda, architettonica e fondazionale, risalgono a secoli e millenni addietro (greco-romani, cristianesimo). A seconda di quanta epocalità vogliamo riconoscere al passaggio storico nel quale siamo capitati, verificheremo anche la più o meno profonda inadeguatezza di ampie parti del nostro mentale. Siamo in una epoca nuova con una mentalità vecchia.
Quello che preoccupa più di ogni altra cosa di questa fase storica è proprio la mancanza di coraggio mentale. In Occidente, i complessi ideologici vanno irrigidendosi in tristi scolastiche, non si nota alcuna primavera del pensiero, in nessun campo che non sia attuativo-strumentale (tecnica). L’assenza di creatività del nostro pensiero è pari all’impressione di inoltrata anzianità delle nostre società alla fine di più di un ciclo storico.
La mentalità occidentale ha due problemi principali. Il primo è di forma. Una civiltà e viepiù la sua crisi adattiva, è un problema eminentemente complesso ovvero dotato di molte parti, molte interrelazioni tra queste parti, processi non lineari ovvero non-meccanici, un sistema posto in un contesto turbolento. Che si usino discipline scientifiche o storico-sociali o pensiero riflessivo, nel moderno abbiamo sviluppato singoli tagli, singoli sguardi, singole metodologie disciplinari. Ancorché proficuo spezzettare oggetti o fenomeni per ridurne la dimensione alle nostre limitate facoltà mentali, tutto ciò non torna mai alla visione completa, non arriva mai al “com-prendere”, al prendere assieme. L’intero in rapporto al suo contesto ci sfugge sistematicamente e con esso la facoltà di poterlo maneggiare.
Il secondo problema è dato dal fatto che ognuna di queste discipline è ingombra di teorie, per lo più locali, ma non solo. Il paesaggio teorico è una intricata foresta di legami e rimandi tessuti nel tempo storico proprio, periodi storici in cui la nostra civiltà si trovava in un punto ben diverso della sua curva adattiva ed altrettanto il contesto-mondo. In molte discipline cruciali per la comprensione allargata vige un paradigma meccanico-atemporale che governa l’indagine ed il pensiero su cose che però sono storico-biologiche. Sono quattro secoli che la nostra foga di fare ha portato a tipo ideale macchine idrauliche, fontane, orologi, il modello sistemico del primo moderno. Poi è stata la volta della macchina a vapore, oggi il computer. Ma niente del nostro essere umani, bio-sociali e mentali, ha a che fare con queste infondate analogie, è proprio la logica di comprensione che è disallineata. Infine, questo paesaggio teorico ha una sua propria consistenza interna che, nel tempo, si è allontanata dalla natura del proprio oggetto producendo una ingombrante selva di problemi fittizi e mal posti, stratificati in quadri polemici alimentati dalla competizione ideologica ed accademica, sempre più alla deriva di realtà.
Quello che manca per muoversi dentro lo stato di crisi in cerca dell’uscita non è un altro modello di società col suo immancabile lungo elenco di “vorrei che così fosse” qualora ci venisse concesso il ruolo di “legislatore del mondo”, ma un metodo per pensarla, discuterla e condividerla, tentarla, farla evolvere assieme ad altri.
In effetti il problema millenario del potere sociale è semplice. Di volta in volta, ristretti gruppi segnati da qualche specialità sociale (anagrafica, di genere, militare, religiosa, etnica, politica, oggi economica o forse più finanziaria), pur competendo tra loro per la quota di potere effettivo, sono stati strettamente solidali nella difesa del principio strutturale per cui Pochi dominano i Molti prendendosi la gran parte dei vantaggi adattivi del vivere in forma associata. Quando si è vissuto fasi di relativa abbondanza i Pochi hanno condiviso qualche briciola, quando si sono vissute fasi restrittive i Pochi hanno semplicemente scaricato tutta la contrazione sui Molti. Ai Molti questo principio pratico primo del potere sfugge, discutono di questa o quella miglior forma di società ed immagine di mondo come fosse loro permesso di decidere di questo o di quella versione quando il problema è proprio come rispondere alla domanda fondamentale “chi decide?”. Non “cosa” decidere, questo dovrebbe venire dopo, prima si deve porre il soggetto, il “chi?” ed il modo, il “come?”.
Quella che ci sembra essere una imprescindibile transizione adattativa, ha il duplice carattere del mentale e del reale, ma per costruire il secondo va trovato e condiviso il modo politico nel primo.
Quanto al mentale, la nuova era storica ci chiede di conoscere gli interi, il “penoso elenco di severe problematiche” cui abbiamo accennato (1/2), richiede conoscenze geo-storiche, culturali, ambientali, economiche, sociali, politiche, intrecciate tra loro, a valle di una nuova definizione di umano che non sarà più l’animale che fa, ma l’animale che pensa prima di fare. C’è da sviluppare un nuovo corso della conoscenza parallelo a quello sin qui svolto, un corso integrato, sistemico-olistico, che possa dare anche nuove condizioni di possibilità al pensiero per superare i pantani forestali di intrecci teorici non più utili poiché limitati e non più corrispondenti alla realtà. Un certo ritorno “ritorno alla realtà” s’impone date le caratteristiche del passaggio storico.
Quanto al reale sociale, è evidente che le società della civiltà occidentale, quantomeno quelle che non ne sono state il centro propulsore ovvero quelle anglosassoni, non possono più esser ordinate dal fatto economico. S’impone un ordinamento politico strutturato da una teoria forte della democrazia. Le civiltà, sino ad oggi, sono stati oggetti che abbiamo considerato dopo che si erano formate e sviluppate, nessuno le ha progettate ex-post. Se, come pare necessario, ci troviamo nella necessità di modificare le nostre forme di vita associata nel profondo e nel loro intreccio multidimensionale, non possiamo non presupporre una partecipazione ampia e costante di una ben vasta massa critica di associati, è la società intera che deve auto-trasformarsi.
Il processo di adattamento ad un mondo così inedito, mutato e mutante nel profondo, oltretutto con tempi accelerati, a livello di società-civiltà, sembra ci porti a dover diluire il potere sociale a quante più sue componenti di modo che il sistema di cui facciamo parte mostri agilità e prontezza coordinata al cambiamento deciso dalla massa critica. Il cambiamento dei fondamenti impone il ritorno ai fondamentali del nostro pensiero politico, all’eterna battaglia tra il potere dei Pochi e quello dei Molti. Nel mondo dei viventi, i sistemi complessi più adattivi sono autorganizzati. La forma politica del principio di autorganizzazione è la democrazia reale. Ci manca una teoria forte della democrazia.
Questo, a mio avviso, il più urgente compito per un pensiero che abbia a traguardo l’azione trasformativa ed adattativa.

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