Proposte di pace, propositi di guerra_con Antonio de Martini

Il mondo occidentale, patrocinato dagli Stati Uniti, continua a offrire la propria rappresentazione come quella del mondo intero. Il conflitto in Ucraina non fa eccezione. La novità consiste proprio nel fatto che la verità che ci viene offerta in Europa e negli Stati Uniti questa volta è radicalmente diversa da quella accettata nel resto del mondo. L’amministrazione statunitense rivendica a buon diritto la compatezza conseguita, al momento, nel blocco di alleanze costruito nei decenni pur con qualche crepa; glissa nervosamente sulla neutralità e sulla aperta opposizione di un gran numero di stati nazionali e della gran parte della popolazione nel mondo al suo avventurismo. Dopo la Turchia, iniziano ad emergere nuovi attori di primo piano pronti ad esercitare una azione di mediazione. Lo stesso conflitto ucraino da essere l’oggetto univoco delle attenzioni si sta trasformando con il tempo nella leva per ridefinire le relazioni geopolitiche. La proposta impropria di mediazione della Cina assume questo significato. Nelle more, ancora una volta, i soggetti che vedranno restringere il proprio campo di azione saranno i centri politici europei. La direzione obbligata sarà quella dell’Africa. Ma in una condizione di estrema debolezza e con un retaggio coloniale e neocoloniale pesante come un fardello. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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LA QUESTIONE CURDA. IL SOLITO COSTOSO BAZAR?_di Antonio de Martini

DURA ORMAI DA OLTRE UN SECOLO E SERVE DA ALIBI AD OGNI AVVENTURA POLITICA E MILITARE NEL VICINO E MEDIO ORIENTE. ORA METTE ALLA PROVA LA STRATEGIA E COESIONE DELLA NATO

I Curdi non hanno mai avuto uno stato, perché la stragrande maggioranza non l’ha mai voluto. Non ne capiscono l’utilità e le funzioni. Vivono in clan e non vogliono padroni. Sono in gran parte nomadi e grazie al nomadismo difendono il loro stile di vita tradizionale, in questo simili agli iraniani.

Quando vessati, o ricercati dalle autorità, migrano in uno dei quattro stati di cui occupano una porzione ( Iran, Irak, Siria e Turchia). Il nomadismo e la latitanza, ne hanno spinte frazioni fin verso est – in Armenia- e ovest – in Libano.

Nessuno sa quanti siano, ma tutti si sbizzarriscono a dare i numeri che variano da 15 a 30 milioni a seconda della convenienza politica dei valutatori.

Il centro del Vicino Oriente si trova ad est della Mesopotamia, é un altopiano ed é abitato dai curdi. Vengono definiti ” una popolazione Indo europea” che vuol dire che non sono semiti come gli arabi e gli ebrei e – contrariamente agli iraniani- sono sunniti.

Quando col XIX secolo e la scoperta del petrolio gli europei iniziarono a praticare il ” divide et impera” , furono scoperti e valorizzati dai tedeschi prima ( contro gli inglesi), dai russi poi ( contro la NATO) ed infine dagli israeliani in cerca di contrappesi geopolitici agli arabi. Ma procediamo con ordine…

UN PO DI STORIA

Dai tempi di Dario e Ciro ( VIII secolo a.c.) i popoli dell’altopiano furono leali sudditi e soldati degli imperi che si sono succeduti nell’area, fino a che con la battaglia di Cialdiran ( 23 agosto 1514) che segna la massima espansione turca verso est, il territorio abitato dai curdi venne diviso in due tra gli imperi safavide e ottomano.

La situazione restò inalterata – turchi e persiani non si sono più combattuti da allora – fino alla fine della prima guerra mondiale (1918) quando le potenze vincitrici si spartirono il territorio ricco di petrolio.

Da quel momento, dopo un periodo di euforia post bellica in cui alla Società delle Nazioni si parlò di un Kurdistan indipendente, come vaticinato dai tedeschi perché si armassero contro gli inglesi che occupavano l’Iran, l’area abitata dai curdi risultò divisa in quattro: Iran, Siria e Irak – i due stati satellite di Francia e Inghilterra – e Turchia, dato che nessuno volle proseguire la guerra contro la neonata Repubblica turca di Mustafa Kemal che aveva dimostrato di voler combattere e aveva sconfitto in Anatolia greci e francesi e la cui guardia personale era composta da un battaglione curdo.

Dopo la seconda guerra mondiale, con l’ingresso della Turchia nella NATO ( a seguito della sua partecipazione nella guerra di Corea a fianco degli USA) la questione curda non si risvegliò fino a metà degli anni 80 , quando, istigati dall’URSS e in funzione anti NATO, il PKK ( partito curdo dei lavoratori) insorse in armi contro la Repubblica turca promuovendo azioni di guerriglia usando la tattica di rifugiarsi nei paesi vicini dopo le incursioni.

l più grosso sforzo per sedentarizzarli lo fece lo Scià Reza I, padre dell’ultimo regnante di Persia, ma la possibilità di spostarsi in uno dei paesi vicini, li ha sempre protetti anche contro queste “razionalizzazioni.”

I Curdi hanno combattuto contro ognuno dei paesi ospitanti, spesso contemporaneamente, finanziati da chi li combatteva in casa propria e usava a sua volta i curdi del vicino con finalità di disturbo analoghe.

Hanno preso le armi contro i turchi in Turchia (su mandato dell’URSS in funzione anti NATO), ma poi, su mandato siriano, quando la Turchia varò il grande piano agricolo dell’est costruendo molte dighe – 32 – minacciando, come poi avvenuto, di ridurre di oltre il 40% del gettito dell’Eufrate e dando il via alla crisi agricola che é stata una delle cause del conflitto in atto.

Il rapporto con gli israeliani, iniziato in funzione anti irachena ed ereditato poi dagli USA ha prodotto anche cocenti delusioni per via degli stop and go  ( specie nel 1991 e nel 2003) e dei finanziamenti a singhiozzo che seguivano l’andrivieni degli interessi USA.

Grazie alla lunghezza del conflitto siriano (per ora 12 anni) e della riluttanza israeliana e americana a intervenire direttamente con truppe proprie, una qualche stabilità di collaborazione sembra essere stata trovata, ma ha suscitato dubbi e sospetti della Turchia che dovrebbe considerare nemici i curdi del PKK e amici gli stessi guerriglieri se abbigliati come miliziani delle forze democratiche curde di indipendente siriana…

Fino a poco tempo fa, il solo paese con cui i curdi erano in pace era l‘Iran col quale condividono anche la struttura della lingua, benché – secondo la narrativa USA- dovrebbero essere in frizione in quanto sunniti. Oggi, il 90% dei partecipanti alla recente rivolta repressa nel sangue in Iran, é risultato di etnia curda e su di essi si é abbattuta la repressione degli Ayatollah, annullando l’ultimo rifugio oltrefrontiera di cui disponevano. Incassati i quattrini degli americani e l’amnistia degli Ayatollah, non c’é ragione che la situazione non torni tranquilla.

LA SITUAZIONE OGGI

Con i turchi esiste un residuo di guerra ex URSS gestito dal PKK ( partito curdo dei lavoratori) e da Abdullah Ocalan che tutti conosciamo per essere stato consegnato ai turchi da un altro avanzo del comunismo questa volta italiano.

Coi siriani esiste uno stato di pace, di guerra e di cooperazione ad un tempo: cooperano per difendere i villaggi curdi dall’ISIS e dai turchi che cercano di penetrare in territori siriani. Cooperano anche con gli USA per mantenere viva la leggenda dell’esercito libero siriano, zeppo di curdi e carente di arabi siriani. Non si tratta di incoerenza, bensì di residui di lealtà personali acquisite negli anni dai vari capi clan. L’idea base é che gli americani vanno sfruttati, coi siriani ci si arrangia comunque. Coi turchi no.

Sui curdi rimasti sull’altopiano, troneggiano le due famiglie egemoni da sempre: i Talabani che dominano nella zona di Erbil e i Barzani  che comandano nella capitale Sulmanya.

Un tentativo di impadronirsi di Mossul (e zone petrolifere adiacenti) e zone adiacenti, fu frustrato dal nuovo esercito iracheno.

La chiave di lettura della intera vicenda  è che i curdi, in realtà detestano il centralismo e lo combattono. Loro stanno sugli altopiani e gli arabi in pianura. Perché obbedirgli? 

Noi europei, crediamo che combattano per la democrazia, sconosciuta da queste parti, e ci stanno simpatici perché le foto delle soldatesse curde sono tutte  belleSono modelle israeliane fotografate per la propaganda anti Assad pagata dallo zio Sam.

In Svezia, rifugio gradito fino a ieri anche ai turchi perché lontano, gli esuli si sono organizzati, ormai sono centomila e – grazie alle superiori capacità di empatia tipiche dei levantini – radicati anche politicamente. Da bravi mediorientali idolatrano le bionde queste li apprezzano per l’attaccamento alla prole e la notizia che la Svezia richiede di associarsi alla NATO ha scatenato la fantasia mercantile di turchi e curdi che intendono sfruttare questa opportunità per ottenere vantaggi da tutte le parti in causa facendo sospirare indefinitamente la loro approvazione gli uni e sabotandola gli altri.

In realtà, per gli USA é un fatto di coerenza della loro narrativa anti russa, ma l’apporto militare svedese (e finlandese) é certamente minore di quello turco. Militarmente i Turchi possono reggere con oltre un milione e mezzo di uomini e il controllo degli stretti, il fronte sud della NATO mentre la Svezia esce da due secoli di neutralità durante la quale ha fornito all’ONU funzionari e caschi blu in gradite zone semitropicali.

Per i russi é importante propagandisticamente che la Scandinavia resti ufficialmente neutrale anche se sanno che é schierata con l’occidente (segnatamente gli inglesi) da sempre. Sono come l’Ucraina: di fatto sono già NATO, formalmente evitano di ostentare.

Nella realtà, la vicenda é stata sottovalutata dagli Europei del Nord e gli USA, pensando che Erdogan volesse solo mercanteggiare a fini elettorali e sopravvalutata da Erdogan che deve aver deciso che era il contenzioso che gli avrebbe risolto la vita.

Avrebbe sistemato in contemporanea la vicenda degli S400 russi ( comprati, irritando gli USA, per assicurarsi la supremazia aerea), la vicenda dell’ammodernamento dell’aeronautica con gli F16, sanando le casse dello stato con Putin e assicurandosi la rielezione a maggio. La campagna elettorale USA nel 24 e il recente terremoto hanno complicato la situazione, al punto che persino il cautissimo Consiglio supremo della Difesa italiano ha recentemente emesso un comunicato chiedendo più attenzione e il rafforzamento del fianco destro ( se preferite il fronte sud) della NATO rispetto al nord pompato per ragioni di polemica anti russa.

In questa differenza di valutazione tra i due più forti eserciti dell’Alleanza Atlantica potrebbe inserirsi la Russia con, ad esempio, una donazione di dieci tonnellate annue di oro per due lustri e la fornitura semi gratuita di greggio e gas per dieci anni, in cambio di un raffreddamento – già avviato da noi – con l’occidente.

Scompaginerebbe la NATO, comprometterebbe il controllo occidentale degli stretti e del Levante, costerebbe meno di una guerra e cambierebbe la carta geopolitica del mondo, chiudendo la porta dell’Asia agli USA e aprendo quella del mediterraneo alla Russia.

https://corrieredellacollera.com/2023/02/07/la-questione-curda-il-solito-costoso-bazar/

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TURCHIA: PAESE CHE VAI MAGISTRATO POLITICIZZATO CHE TROVI, di Antonio de Martini

IN VISTA DELLE DECISIVE ELEZIONI POLITICHE DI GIUGNO, CERCA DI METTERE FUORI LEGGE IL PARTITO KURDO HDP (10% DEGLI ELETTORI). MOSSA SUICIDARIA.

La catena televisiva AL JAZEERA ha informato gli ascoltatori giovedì scorso che , a seguito di una denunzia del partito AKP,( partito del presidente Erdogan che si ricandiderà alle presidenziali di giugno) presentata nel marzo 2021, la Corte Costituzionale turca ha disposto il blocco temporaneo dei finanziamenti pubblici del partito HDP – partito legale filo curdo- riservandosi una decisione definitiva entro il 10 gennaio p.v.

L’iniziativa del procuratore generale Bekir Sahin, mira a rendere illegale il partito, o almeno a privarlo dei circa 28 milioni di dollari annui di pubblico finanziamento, dopo che numerose cittadine dell’est del paese sono state commissariate e private dei sindaci HDP con l’accusa d’essere collusi con il PKK ( partito curdo dei lavoratori) che conduce la guerriglia antinazionale fin dal 1987 in chiave filo sovietica e anti NATO e che sopravvive ad onta della detenzione del suo capo ABDULLAH OCALAN arrestato in Italia e consegnato ai turchi dal governo D’ALEMA nel 1989.

Oltre alle ovvie implicazioni politiche e democratiche, l’eventuale conferma del sequestro ( e messa fuori legge) del partito curdo, ha un aspetto suicidario evidente al punto di sembrare una mossa degli avversari, ma come sappiamo, nessuno é al riparo dallo zelo dei cretini.

L’iniziativa del magistrato turco, fa seguito ad un’altra più grave decisione presa a carico del più qualificato avversario di Erdogan: Ekrem Imamoglu , sindaco di Istanbul ,membro del CHP ( partito kemalista), condannato, lo scorso dicembre, a due anni e sette mesi per “ offese a pubblici ufficiali” per aver criticato la decisione del Consiglio elettorale di Turchia ( YSK) che aveva invalidato la sua vittoriosa elezione a sindaco per pochi voti, sull’ex primo ministro Yildrim.

Replicate le elezioni, vinse con uno scatto di oltre mezzo milione di suffragi, ma rebus sic stantibus, non potrà candidarsi dato che come pena accessoria ha avuto l’interdizione dai pubblici uffici.

I cinque partiti principali del paese si sono coalizzati impegnandosi a concordare un candidato e a una riforma costituzionale in senso parlamentare.

Tra due giorni scopriremo la decisione della Corte Costituzionale e lo stato di salute della democrazia in Turchia.

https://corrieredellacollera.com/2023/01/07/turchia-paese-che-vai-magistrato-politicizzato-che-trovi/#like-35220

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La Turchia sta annegando nelle opportunità, di Kamran Bokhari

Ma i vincoli interni limiteranno la capacità di Ankara di capitalizzare.

In quasi tutte le direzioni, l’ambiente strategico della Turchia presenta opportunità per Ankara. I turchi trarranno vantaggio in particolare dalle crisi parallele che devono affrontare la Russia e l’Iran. Detto questo, lo stato dell’economia politica della Turchia è un serio vincolo. Ciò significa che ci sono limiti a quanto nell’immediato la Turchia potrà trarre vantaggio dagli spostamenti in atto nel bacino del Mar Nero e nel versante meridionale del Paese con il Medio Oriente.

Spazio per crescere

Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan in un discorso del 23 novembre in parlamento ha affermato che le operazioni aeree della Turchia contro le forze curde siriane nel nord della Siria sono solo l’inizio di un’offensiva terrestre molto più ampia che Ankara lancerà quando opportuno. Erdogan ha affermato che il suo paese è più determinato che mai a proteggere il suo confine meridionale espandendo il suo “corridoio di sicurezza” esistente all’interno del territorio siriano. Il giorno prima, Reuters ha riferito che gli aerei da guerra turchi hanno attraversato per la prima volta lo spazio aereo controllato dalla Russia e dagli Stati Uniti sopra la Siria per attaccare le posizioni separatiste curde siriane come rappresaglia per un attentato del 13 novembre a Istanbul. Un anonimo alto funzionario turco ha affermato che i turchi hanno coordinato i bombardamenti dell’F-16 con le autorità statunitensi e russe.

Controllo territoriale nel nord della Siria |  novembre 2022
(clicca per ingrandire)

Dal 2016, la Turchia è impegnata in diverse operazioni militari nel nord della Siria con l’obiettivo principale di contenere il separatismo curdo siriano. I separatisti hanno guadagnato terreno perché gli Stati Uniti li hanno sostenuti come prima linea nella guerra contro il gruppo dello Stato islamico. Ankara ha anche sostenuto una varietà di forze ribelli siriane contrarie al regime di Assad. Gli sforzi turchi sono stati ostacolati dagli sforzi di Mosca e Teheran per sostenere il presidente Bashar Assad. Il 2022 è stato una sorta di punto di svolta. La guerra della Russia in Ucraina ha gravemente minato la posizione politica interna ed estera di Mosca, mentre l’Iran sta affrontando una crescente rivolta generale interna.

Pertanto, né la Russia né l’Iran hanno la stessa larghezza di banda per trattare con la Siria che hanno avuto negli anni passati. Questa situazione in evoluzione crea le condizioni affinché la Turchia cerchi di approfittare dell’apertura e di fare serie incursioni sul suo fianco meridionale. È ancora troppo presto per prevedere con un certo grado di certezza quanto margine di manovra abbia la Turchia, ma senza un sostegno sostanziale da parte dei suoi alleati russi e iraniani, il regime di Assad vedrà probabilmente una rinascita delle forze ribelli che la Turchia ha un grande interesse a sostenere.

Il Medio Oriente allargato non è l’unica arena in cui la Turchia sta giocando un ruolo di primo piano. Ankara è stata anche un attore chiave nella guerra in Ucraina. Mantiene stretti legami con la Russia mentre fornisce droni alle forze ucraine. Il grado di influenza dei turchi in questo spazio di battaglia può essere misurato dall’accordo sul grano raggiunto a luglio, che Ankara ha mediato tra Mosca e Kiev. Gli sforzi turchi hanno consentito agli ucraini di riprendere le esportazioni di prodotti alimentari che erano stati interrotti dalla guerra e contenere la crescente insicurezza alimentare globale. Nelle scorse settimane i russi hanno minacciato due volte di annullare l’accordo, ma i turchi sono riusciti a convincerli a mantenerlo. La Turchia ha usato la sua posizione nel bacino del Mar Nero per far sembrare che stia negoziando sia con la Russia che con la NATO, che avvantaggia Erdogan vista l’immagine che vuole avere al suo interno. Ne beneficia anche la Turchia in quanto sembra che stia diventando un attore regionale.

Gli Stati Uniti hanno lottato per anni su come trattare con la Turchia di Erdogan, che, pur essendo un alleato della NATO, si è sempre più impegnata in politiche estere unilaterali che sono in conflitto con gli interessi statunitensi. Tuttavia, il ruolo della Turchia nella guerra in Ucraina si è rivelato utile a Washington, il che spiegherebbe come i turchi siano riusciti a ottenere la cooperazione degli Stati Uniti per i loro ultimi attacchi aerei contro i separatisti curdi. Anche se gli Stati Uniti non hanno guardato dall’altra parte, non stanno facendo nulla per scoraggiare la Turchia. Allo stesso modo, l’influenza della Turchia con una Russia isolata a livello internazionale significava che non doveva preoccuparsi che i russi creassero problemi agli attacchi aerei turchi.

Siria e oltre

L’invio di forze di terra sarà molto più complicato, tuttavia, perché è lì che i turchi probabilmente incontreranno gli iraniani, più specificamente le milizie a guida iraniana. Il braccio operativo all’estero del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche di Teheran, la Forza Quds, ha fatto il lavoro pesante per garantire che il regime di Assad non crolli contro una ribellione condotta da milizie islamiste in gran parte sunnite. La Forza Quds ha mobilitato, addestrato e sostenuto diverse decine di migliaia di miliziani che, anni dopo aver aiutato il regime di Assad a reprimere l’insurrezione, rimangono schierati e non lontano dalle regioni della Siria settentrionale dove i turchi cercano di espandere la loro presenza.

Mentre gli iraniani hanno dato scacco matto ai turchi nel Levante, negli ultimi due anni si è sviluppato il contrario nel Caucaso meridionale. Con l’assistenza militare turca, in particolare la fornitura di droni Bayraktar, l’Azerbaigian alla fine del 2020 è stato in grado di invertire l’equilibrio di potere nella regione del Nagorno-Karabakh, dove l’Armenia dal 1994 aveva il sopravvento. Avendo guadagnato una grande quantità di territorio, l’Azerbaigian ora ha un confine molto più lungo con il rivale Iran. Gli iraniani, che sono alleati degli armeni, sono stati allarmati da questo sviluppo sin dalla guerra del 2020, ma lo sono ancora di più ora, poiché i disordini interni si sono diffusi alle parti etniche azere dell’Iran nordoccidentale vicino al confine con l’Azerbaigian.

La situazione ha spinto l’Iran a condurre esercitazioni militari su larga scala il mese scorso vicino al confine con l’Azerbaigian. Mentre l’Iran è sulla difensiva, la Turchia spera di beneficiare della vittoria dell’Azerbaigian sull’Armenia. La Turchia ha negoziato un corridoio che la collegherebbe direttamente all’Azerbaigian attraverso l’exclave di Baku di Nakhchivan e attraverso il territorio armeno, dando alla Turchia la capacità di attingere alle risorse energetiche della regione trans-caspica e oltre, fino all’Asia centrale. Criticamente, questa regione è stata una sfera di influenza russa, ei turchi hanno fatto irruzione nel Caucaso meridionale ben prima dell’indebolimento della Russia nella guerra in Ucraina.

I Balcani sono un altro vecchio terreno di calpestio turco dove i turchi vorrebbero ravvivare la loro influenza. Gli accordi di Dayton del 1995, che hanno posto fine alla guerra in Bosnia, hanno creato un complesso accordo politico tra le sue popolazioni bosgnacche, serbe e croate. Gli Accordi di Dayton sono stati sottoposti a crescenti tensioni, soprattutto a causa degli sforzi della semiautonoma repubblica serba di etnia serba per la secessione dalla federazione bosniaca. I russi sono alleati dei serbi e Mosca è stata a lungo sconvolta dall’intervento occidentale in Kosovo. Il presidente russo Vladimir Putin ha persino giustificato la guerra in Ucraina tracciando un’analogia con il bombardamento della Serbia da parte della NATO e il sostegno all’indipendenza del Kosovo.

I serbi stanno probabilmente assistendo all’indebolimento della loro Russia protettrice con grande trepidazione e si chiedono cosa significhi per il loro futuro nei Balcani occidentali. Se la Russia cerca di innescare il conflitto in questa regione per contrastare le sue perdite in Ucraina o non è in grado di aiutare i suoi alleati serbi che hanno sfidato gli accordi di Dayton, i Balcani occidentali potrebbero precipitare nel conflitto. Ciò creerebbe un’apertura per la Turchia per venire in aiuto dei suoi alleati bosniaci in un modo molto più robusto di quanto abbia fatto negli anni ’90, specialmente con la Turchia che oggi persegue aggressivamente lo status di grande potenza e con le fortune in declino della Russia.

Il vincolo Erdoganomico

Nonostante i vuoti geopolitici che si stanno formando attorno ad essa, i vincoli interni di Ankara costringeranno i turchi a scegliere le loro battaglie ea dare priorità ai loro sforzi di conseguenza. Il futuro del regime di Erdogan, dopo quasi 20 anni al potere, è in discussione, con il presidente che dovrà affrontare le elezioni il prossimo anno. Il 2023 segna anche il centenario della moderna repubblica turca. Erdogan inizialmente ha presieduto un decennio di rinascita economica come primo ministro, ma l’economia turca ha preso una brutta piega nel 2013 quando sono scoppiate le proteste contro Erdogan, un anno prima che assumesse il controllo della presidenza e guidasse il paese verso l’autoritarismo.

Valutazione dell'approvazione del lavoro del presidente Erdogan, ottobre 2022
(clicca per ingrandire)

Da allora, la valuta del paese ha perso il 75% del suo valore e l’inflazione è all’85%, mentre Erdogan continua a resistere all’aumento dei tassi di interesse. La situazione finanziaria della Turchia ha imposto un’inversione delle politiche di Erdogan verso il Medio Oriente. Non molto tempo fa, la Turchia era alle prese con tutti i principali attori del Medio Oriente sostenendo le forze dei Fratelli Musulmani sulla scia della rivolta della Primavera Araba. Un decennio dopo, Erdogan ha fatto baldoria per migliorare i legami con Israele, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e, più recentemente, Egitto. Proprio la scorsa settimana, la Turchia e l’Arabia Saudita sarebbero state in trattativa per un deposito saudita di 5 miliardi di dollari presso la banca centrale turca. La banca centrale turca ha accordi di swap in valute locali con molte delle sue controparti per un valore totale di 28 miliardi di dollari. I turchi hanno firmato un accordo con la Corea del Sud per quasi 1 miliardo di dollari,

Questa pazzia di indebitamento è guidata dalla necessità di Erdogan di cercare di sostenere il più possibile la situazione economica in vista delle elezioni presidenziali e parlamentari del prossimo anno, previste per il 18 giugno. Sei partiti di opposizione, di cui almeno due guidati da ex Erdogan, si sono uniti per mettere in campo un candidato comune contro Erdogan e ripristinare la democrazia parlamentare nel paese. Gli indici di gradimento per il Partito per la giustizia e lo sviluppo di Erdogan sono precipitati a causa del peggioramento delle condizioni economiche. C’è anche la questione se il voto sarà libero ed equo. Indipendentemente dall’esito, le situazioni politiche ed economiche interne continueranno a limitare la capacità della Turchia di sfruttare le numerose opportunità geopolitiche che emergono attorno all’Eurasia.

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Le trappole del Medio Oriente_con Antonio de Martini

Il pendolo dei focolai di crisi continua ad oscillare tra l’Europa e Taiwan con una tappa obbligata, ormai da decenni, in Medio Oriente. L’Iran e la Turchia tornano alla ribalta con l’emergere di pesanti crisi interne, ma con alcune novità determinanti: la capacità di reazione e di movimento delle classi dirigenti dominanti e del ceto politico da queste espresso; il contesto geopolitico che vede emergere nuovi grandi attori e che riesce ad offrire una sponda meno precaria a questa volontà di resistenza e di intraprendenza. Gli schemi adottati in Libia e in Siria si rivelano quindi meno efficaci, non ostante la serietà dei problemi interni ai rispettivi paesi. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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L’Ucraina è una cartina tornasole_con Antonio de Martini

L’Ucraina si sta rivelando una vera e propria cartina di tornasole in grado di rivelare gli interessi di fondo, la coerenza dell’azione dei vari attori rispetto a questi e la postura e statura di questi nell’agone internazionale. La Russia, l’Ucraina, la Turchia e l’Italia sono l’oggetto di attenzione di questa conversazione con Antonio de Martini. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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La Turchia, l’Italia e il realismo_di Giuseppe Gagliano

Articolo come sempre ben centrato nella sua consueta essenzialità. Il focus è incentrato su uno Stato, la Turchia e un capo di governo, Erdogan, destinati ad assumere, nella veste di una potenza di media grandezza, un ruolo di primo piano in un ampio, se non addirittura sovradimensionato, in assenza di supporto e placet da parte dei grandi, spazio che va dall’area turcomanna, ai Balcani, all’Europa Orientale, al vicino oriente, al Mediterraneo Centro-Orientale, all’Africa Sahariana e Sub-sahariana. Offre altresì uno spunto interessante sulle miserie domestiche per caratterizzare ulteriormente, a seconda dei casi, la postura rispettivamente di plenipotenziario, di luogotenente e di cerbero di Mario Draghi, sotto le mentite spoglie di Capo di Governo. Non so se avete notato l’apparente discrasia tra l’annuncio trionfalistico e denso di aspettative per il prestigio del paese che ha accompagnato l’investitura a Presidente del Consiglio di Mario Draghi e il tono dimesso che ha accompagnato le particolari e specifiche prestazioni del nostro nell’agone internazionale. Un po’ c’entra la goffaggine con la quale il nostro si è avventurato nelle sue scorribande, specie esterne e prospicienti al suo territorio di elezione e di coltura, l’Europa; una sorta di ripetitore automatico, spesso gracchiante ed approssimativo. Tantissimo c’entra il merito della sua missione e la natura dell’esercizio delle sue funzioni.

Mario Draghi, ammantato dell’aura di supertecnocrate, è stato invocato per sistemare la farraginosa macchina amministrativa quel tanto che bastasse per avviare e mettere in atto il PNRR. Al di là delle aspettative illusorie affidate al piano e al netto dei suoi aspetti compromettenti e vincolanti, il nostro sta deludendo nell’ambito riformatore, sta ampiamente conseguendo altresì l’obbiettivo di vincolare ulteriormente le future politiche economiche e, conseguentemente, le dinamiche geopolitiche del nostro paese al carro NATO-UE ormai sempre più simbiotico. La missione ormai nemmeno tanto più occulta ed imprescindibile è un’altra: condurre con mano i paesi europei dell’area mediterranea all’interno delle spericolate strategie dell’attuale leadership americana. Con poco sforzo Spagna, Portogallo e Grecia hanno seguito il buon pastore in ordine ed allineati. Vigilare sui comportamenti di Macron in Francia e Scholz in Germania. I due conoscono sin troppo bene la propensione gregaria e la fonte primaria della sua affiliazione. E’ evidente lo scarso gradimento riguardo alla sua ossessiva presenza; hanno il serio problema, a prescindere dalla loro indole e propensione politica, di dover fronteggiare i forti impulsi di autonomia presenti all’interno dei rispettivi paesi. Che sia questa la funzione essenziale da svolgere lo si deduce dalla irrilevanza dei risultati ottenuti in ambito UE da Mario Draghi in materia di calmieramento e compensazione dei danni seguiti alla pedissequa attuazione delle sanzioni nominalmente ai danni della Russia. L’aspetto più pernicioso, che rivela per altro definitivamente lo spessore umano della persona e dell’uomo di governo, si è manifestato nella postura assunta di recente nei confronti della Turchia. A fronte di qualche risultato raggiunto nel campo degli scambi commerciali e delle commesse industriali, in settori nei quali per altro l’Italia ha mantenuto parzialmente la capacità produttiva ma perso significativamente il controllo strategico, risalta l’accettazione acritica della superiore postura strategica assunta dalla Turchia in aree di interesse vitale dell’Italia, a cominciare dal controllo degli hub energetici del Mediterraneo Orientale per finire con la gestione della crisi libica. Il tutto ovviamente in linea con l’accettazione pedissequa dei nuovi orientamenti statunitensi nei confronti della Turchia, ma particolarmente onerosi per il nostro paese. Dal punto di vista simbolico la irridente anticamera imposta a Draghi e a mezzo governo italiano in attesa del vertice è stata una significativa illustrazione della reale condizione geopolitica del nostro paese della quale il nostro luogotenente non fa che prendere atto e perseguire, perfezionandola. Questo commento non è una gratuita e sterile manifestazione di livore nei confronti di un personaggio tanto estraneo quanto influente nell’agone politico italiano. Vuole stigmatizzare la tragica e grave condizione nella quale sta trascinando il paese grazie alla sua pedissequa e solerte esecuzione dei dictat statunitensi. Non è demerito suo esclusivo. Ad esso contribuiscono la grettezza della quasi totalità della nostra classe dirigente e, con la parziale eccezione di parte degli ambienti vaticani, la condizione inebetita dell’intero ceto politico. Quest’ultima è ancora una volta patrimonio comune delle compagini che sostengono il governo e della forza di opposizione: la prima a partire dalla veste assunta dal Partito Democratico, il quale per esplicita ed ostentata ammissione, ha scelto una postura “discreta” e riservata proprio per non ostacolare il cammino di Draghi; la seconda, Fratelli d’Italia, assumendo una posizione ostentatamente più realista del re tale da farla apparire pienamente corresponsabile dei prossimi disastri annunciati. Sulla base degli antefatti, molto probabilmente Mario Draghi riuscirà a sgattaiolare senza particolari danni in tempo utile per sfuggire al prossimo redde rationem; addirittura con qualche benemerenza e lascito aggiuntivo. Il cerino acceso rimarrà in mano ai suoi improbabili epigoni. In quel momento, ormai prossimo, il paese dovrà seguire necessariamente una delle due vie obbligate: una opzione autonoma ed indipendente, dai costi comunque pesanti, tale da tirarsi fuori dalla trappola costruita dall’avventurismo disperato dell’attuale leadership statunitense; la continuità nelle attuali per così dire “scelte” che avranno per epilogo l’individuazione definitiva nella Russia del capro espiatorio responsabile del disastro autolesionistico economico-sociale prossimo a venire e relativo corollario di una politica apertamente bellicista, del tutto autolesionistica per l’intero continente europeo. Il compimento tragico di un percorso avviato con la 1a guerra mondiale e proseguito con la 2a. Un paese come l’Italia, il quale quattro anni fa, ha ostentatamente rifiutato di giocare nel Mediterraneo le carte che le sono state offerte, non merita alcuna considerazione, almeno sino a quando non vorrà liberarsi delle proprie nullità al comando. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Come le democrazie liberali a volte si piegano alla ragion di Stato. Il caso della Turchia e dell’Egitto. Il corsivo di Giuseppe Gagliano

Numerosi sono i cantori dei supremi valori della democrazia liberale. Valori, questi, che tuttavia – almeno nel contesto della politica estera – vengono profondamente ridimensionati di fronte alla ragion di Stato. Per non dire vanificati. Ieri con l’Egitto. Oggi con la Turchia.

Questa discrasia tra la realtà effettuale e i nostri ideali è pienamente giustificabile e comprensibile all’interno di una determinata cornice teorica quale quella del realismo ma diventa priva di legittimità e di giustificazione se si abbraccia un approccio di tipo liberale alla politica internazionale. Cosa ha indotto il nostro paese a consolidare i propri legami con la Turchia dopo le dichiarazioni di Mario Draghi fatte lo scorso anno a proposito del premier Erdogan definito un dittatore ? Vediamole in breve.

In primo luogo la necessità di contenere i flussi migratori proventi della Libia, sulla quale ormai la Turchia esercita una politica di influenza sempre più rilevante che ha in breve tempo marginalizzato quella italiana; in secondo luogo, grazie al gasdotto Tap l’Italia avrà sempre più bisogno della Turchia. E avrà sempre più bisogno della Turchia come delle nazioni africane e di quelle mediorientali perché l’Italia ha da molto tempo rinunciato ad avere una politica energetica autonoma.

Quanto alle sinergie strette tra Italia e Turchia nel settore degli armamenti queste non fanno altro che consolidare quelle che già esistono da molto tempo, come abbiamo avuto modo di indicare in un articolo precedente. Se poi guardiamo alle scelte poste in essere dal premier turco sia in relazione al vertice di Madrid della Nato – dove è riuscito a ottenere, senza troppo clamore, che in cambio di un suo ‘sì’, in relazione all’ingresso di Helsinki e Stoccolma nella Nato, la Finlandia e la Svezia promettessero di non prestare più sostegno ai leader curdi che Ankara considera ‘terroristi’ -, sia a indurre gli USA a rivedere la loro decisione di non vendere i 40 caccia F16 il vero vincitore del vertice di Madrid è certamente il premier turco.

Forse sulla carta e sui preziosi volumi di diritto internazionale e di filosofia della politica i valori della democrazia sono sacri e puri – come l’amore narrato nei film hollywoodiani – ma nel contesto della realtà conflittuale, quale è quella della politica internazionale, questi valori vengono profondamente ridimensionati e relativizzati. Ecco che allora la realtà concreta nella quale viviamo assomiglia a una via di mezzo fra un dramma e una tragica farsa.

https://www.startmag.it/mondo/turchia-egitto-italia-ragion-di-stato/?fbclid=IwAR01QO-5qz7R_tQLpoOGDb3c83f-DfpOfnKyd9vufBZmVgoMqtKPKi9CTq8

Perché la Turchia è improvvisamente “molto più cauta” a vendere droni a Kiev?_ di Andrew Korybko

Basandosi sul pretesto di emanare pragmaticamente un’aura di neutralità più convincente al fine di mediare, si spera, la pace tra le parti in conflitto, Ankara sembra nascondere la sua preoccupazione non dichiarata che Kiev non possa vincere contro Mosca; una realtà che il mondo intero sta cominciando sempre più a rendersi conto oltre che essere testimoniato dal decisivo spostamento della “narrativa ufficiale” nelle ultime settimane.

 Il Wall Street Journal ha citato il presidente dell’Agenzia per l’industria della difesa di Turchia, Ismail Demir, il quale ha affermato che il suo paese è “molto più attento” al momento quando si tratta di vendere droni a Kiev. Secondo lui, “La Turchia è l’unico paese che credo possa chiamare entrambe le parti e portarle al tavolo della pace. Come puoi farlo se mandi decine di migliaia di armi ad una parte?” Il suo annuncio politico coincide con la narrativa dei media mainstream occidentali (MSM) guidati dagli Stati Uniti sul conflitto che si sta spostando in modo decisivo dal “porno della vittoria” che celebra i cosiddetti “successi militari” di Kiev alla realtà che la consegna della NATO contro la Russia è vistosamente sopravanzata visti i costanti progressi di Mosca nel Donbass.

Si ipotizza che i “Tre Grandi” dell’UE – Francia, Germania e Italia – potrebbero aver lanciato durante la visita dei loro primi ministri a Kiev la scorsa settimana una proposta di cessate il fuoco che ha preceduto l’ex presidente degli Stati Uniti Trump nella sua accusa contro paesi europei, senza specificare quali, per aver fatto molto meno del necessario quando si tratta di assistere militarmente quell’ex Repubblica Sovietica. La marea del conflitto ucraino non è cambiata poiché è sempre stata a favore della Russia, ma il MSM ha mentito al riguardo fino a quando è diventato impossibile proseguire senza screditare al massimo la loro causa; da qui l’inversione narrativa delle ultime settimane. Di fronte a questa realtà e non volendo seguire il destino di una nave che affonda, la Turchia ha saggiamente deciso di cambiare tono anche lei.

Sarebbe un vero imbarazzo per il crescente complesso militare-industriale della Grande Potenza se ulteriori esportazioni dei suoi droni armati di fama mondiale non portassero Kiev ad emergere vittoriosa dopo che Ankara ha già un track record dei suoi partner regionali in Azerbaigian e Libia i quali hanno vinto le loro rispettive guerre con l’assistenza dei suoi prodotti. È proprio vero che la Turchia dovrebbe anche porre attenzione agli interessi della Russia, sia per il ruolo insostituibile di Ankara finora svolto nell’ospitare i colloqui di pace tra Mosca e Kiev, ma anche per ragioni pragmatiche legate alla regolamentazione responsabile della loro rivalità; il motivo per cui questa posizione corrente è però ora pubblicizzata, è probabilmente dovuto alla realtà innegabile emergente nel Donbass.

Una cosa è che la Turchia sia d’accordo con Kiev, dando ai suoi droni un credito parziale per la presunta “sconfitta” della Russia nella cosiddetta “Battaglia per Kiev”, che in realtà è stata solo un diversivo per tutto questo tempo e un’altra interamente per il suo partner potenzialmente d’accordo al cessate il fuoco ipotetico dei “Tre Grandi” in futuro che si tradurrà nella cessione di ulteriore territorio a Mosca mentre si fa ancora attivamente affidamento sui droni di Ankara per vincere. Il primo può essere considerato un successo sufficiente nella sfera pubblica in modo da non sollevare dubbi sul presunto impatto “rivoluzionario” dei suoi droni sui conflitti stranieri, mentre il secondo contraddirebbe quel ritrovato mito a scapito dell’esercito e del complesso industriale turco.

Basandosi sul pretesto di emanare pragmaticamente un’aura di neutralità più convincente al fine di mediare, si spera, la pace tra le parti in conflitto, Ankara sembra nascondere la sua preoccupazione non dichiarata che Kiev non possa vincere contro Mosca, dato che il mondo intero sta cominciando sempre più a rendersi conto, oltre che testimoniato dal decisivo spostamento della “narrativa ufficiale” nelle ultime settimane. Tuttavia, questo cambiamento politico implicito non avrebbe dovuto essere pubblicizzato come invece ha appena fatto Demir, cosa che potrebbe aver inteso servire al duplice obiettivo di segnalare alla comunità internazionale la serietà della situazione e di strizzare l’occhio al grande partner strategico russo, geograficamente vicino.

L’identità dell’Algeria, di Bernard Lugan

Qui sotto tre importanti articoli tratti dal bollettino mensile di Bernard Lugan “L’Afrique Réelle”. Si parla di Algeria. Un paese da sempre cruciale per il prestigio acquisito in Africa e per gli interessi e gli appetiti dei paesi europei mediterranei scatenati e coltivati da oltre due secoli. Un paese che diventerà ancora più strategico per la Spagna, la Francia e l’Italia, vista la posizione e soprattutto l’entità delle risorse energetiche, sia pure in declino e minerarie, ancora più essenziali a seguito della miope e masochistica politica di sanzioni nei confronti della Russia. I malumori tra i tre paesi non hanno tardato infatti ad affiorare, vista la concomitante situazione di paralisi e il blocco di forniture petrolifere in Libia. Il regime algerino ha perseguito in questi ultimi anni una politica di allontanamento dalla Francia, accentuando i rapporti con Cina e Russia. Sarà facile previsione, l’emergere del tentativo di approfittare della fragilità e delle debolezze del regime, le cui radici sono così bene esposte negli articoli di Lugan, per reinserirsi nel gioco geopolitico africano, partendo però dalla zavorra dei pesanti retaggi della colonizzazione e del progressivo disinvestimento economico della Francia in quell’area. L’Italia, al contrario, potrebbe ancora giocare qualche carta legata al sostegno alla guerra di indipendenza algerina e al ruolo dell’ENI di Mattei in quell’area. La inerzia del vincolo europeo e dell’Alleanza Atlantica giocano in direzione contraria, come del resto già successo in Libia, in un contesto però, allora molto più favorevole all’Occidente e con attori locali, come la Turchia, dalle ambizioni allora appena sbocciate. La condizione propizia per ridursi al ruolo di ascari. A conferma della postura particolare del nostro paese, la notizia del ritiro dei militari e del presidio ospedaliero italiani da Misurata, in Libia. Il nostro miserabile ceto politico ha avuto l’ennesima occasione per riacquisire un ruolo autonomo e costruttivo in quell’area. Si è avuto notizia che il vero motivo del rinvio delle elezioni generali in Libia, a novembre scorso, è stata l’eventualità, confortata da sondaggi che lo davano ad oltre il 50%, che vincesse Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi, l’unica figura al momento in grado di garantire l’alleanza tra le due principali tribù attualmente in conflitto. Lo avevamo già sottolineato ripetutamente in questi anni. Dall’Italia, non ostante i legami storici con quella famiglia, nulla è pervenuto. Buona lettura, Giuseppe Germinario

L’identità dell’Algeria
Nel 2004 Mohamed Chafik ha posto una domanda “Perché il Maghreb arabo non arriva a costituirsi? »
E ha dato la risposta seguente: “È proprio perché non è arabo”.
Questa domanda e risposta è stata inclusa in un articolo pubblicato su Le Amazigh world, (n°53, novembre 2004), il cui titolo esplosivo era: “E se decolonizzassimo il Nordafrica per il meglio? Il che significava che dopo la colonizzazione francese i berberi dovrebbero liberarsi di quattordici secoli di colonizzazione araba…
In Algeria come in tutto il Maghreb, i berberi costituiscono il vecchio sfondo della popolazione.
Charles-André Julien ha scritto in riguardo dicendo che “Marocco, Algeria e
Tunisia sono popolati da berberi qualificati audacemente arabi”. (Vedi il mio libro su questo
Storia dei berberi).
Oggi, i berberofoni – e non tutti i berberi – rappresentano solo il 25% circa della popolazione dell’Algeria Questo declino è il prodotto di una storia complessa che ha conosciuto un’accelerazione dall’indipendenza nel 1962 che vide il trionfo dell’ideologia arabo-musulmana.
Fu quindi costruito il nuovo stato attraverso lo sfratto dei maquisard Berberi dall’esercito di frontiera che aveva vissuto la guerra, lontano dai combattimenti, nei campi della Tunisia e del Marocco.
Tuttavia, come il colonnello Boumediene la cui madre era Chaoui, i suoi leader, anche quando loro non erano arabi, furono acquisiti all’ideologia arabista. Per loro, la berberità rappresentava un pericolo esistenziale per costruire il nazionalismo algerino. Ecco perchè,
nell’agosto del 1962, appena acquisita l’indipendenza, il governo algerino abolì la cattedra di Kabyle dell’Università di Algeri.
La legittimità del regime si è radicata poi sulla negazione della storia dell’Algeria e la sua composizione etnica, la rivendicazione berbera essendo presentata dal “Sistema”
Algerino come una “cospirazione separatista diretta contro l’Islam e la lingua araba”. Per i leader algerini, il fatto di essere musulmani impone proprio di associare la nazione alla civiltà arabo. I più radicali sostenitori dell’ideologia arabo-islamica hanno anche sostenuto che i berberi erano usciti dalla storia e che loro non posso andare in paradiso se non  attaccandosi ai lignaggi arabi. Quanto al ministro algerino dell’Educazione Nazionale, ha dichiarato nel 1962 che “I Berberi sono un’invenzione dei Padri Bianchi”…
Poiché i berberisti hanno rifiutato il dogma fondatore dell’Algeria araba, visto che l’amazighité sosteneva la composizione duale, araba e berbera, il partito FLN ha parlato di deriva “etnica”, “razzista” e “xenofoba” che minaccia di distruggere lo stato.
Questo è il motivo per cui i Kabyles e il Chaoui si ritrovarono cittadini di un mondo algerino arabo-musulmano che nega la propria identità. Da qui il problema dell’identità del Paese e del non detto esistenziale che paralizza il paese.

L’identità algerina. La questione al cuore di tutto

Per loro, la berberità rappresentava un pericolo esistenziale per costruire il nazionalismo algerino. Ecco perchè, nell’agosto del 1962, quindi, appena acquisita l’indipendenza, il governo algerino abolì la cattedra di Kabyle dell’Università di Algeri.
La domanda fondamentale a cui il sistema algerino rifiuta di rispondere è quella dell’identità del Paese:
è esclusivamente arabo-islamica o berbera e arabo-islamico? Per i sostenitori della tesi
dell’arabismo, il berbero infatti è un pericolo politico e il mantenimento di Amazigh una minaccia nella misura in cui questa lingua afferma un’identità che porta a un indebolimento, a uno sgretolamento della nazione algerina. Ecco perché il nazionalismo algerino, che è prima di tutto un islamismo arabo, è stato costruito contro la berberità.
Questo rifiuto dell’evidenza storica ed etno-politica si basa su un postulato che è l’islamizzazione, la quale avrebbe segnato la fine della storia dei berberi, la loro conversione all’Islam; li aveva inscritti irreversibilmente nell’area culturale dell’Islam, e quindi dell’arabo.

I BERBERI DALLA CONQUISTA ARABA ALLA CONQUISTA FRANCESE

Tra l’inizio del I secolo e l’anno 1830 i Berberi videro fermarsi i Romani, i Vandali, i
Bizantini, Arabi, Ottomani e Francesi.

Non essere implicati nei primi combattimenti che i Bizantini realizzarono nella regione di
Cartagine contro gli invasori arabo-musulmani, i berberi entrarono in battaglia soltanto
durante la quarta campagna di conquista (673-681), quando Abu al-Muhajir volle sottometterli.
L’anima della resistenza era allora Kusayla (Qusayla), capo della tribù Awréba degli Aurès. Nel 683 quest’ultimo intercettò e uccise il leader arabo Uqba ben Nafi el Firhy, poi ha preso Kairouan mentre gli arabi sopravvissuti abbandonarono Ifriqiya (l’odierna Tunisia), per ritirarsi verso oriente, fino alla Cirenaica.
Nel 687 Kusayla perse la vita nella battaglia di Mems (Sbiba), vicino a Kairouan e il suo
esercito fu sciolto. La resistenza berbera si è sfilacciata poi, una donna ha preso il comando degli ultimi gruppi di combattenti. Conosciuta nella storia sotto il nome di Kahina o Kahena (la strega) affibbiatale dagli arabi, anche lei apparteneva ad una tribù degli Aurès, gli Jarawa.
Ha vinto diverse battaglie, in particolare a Miskyna, nella regione di Costantino, contro le
truppe di Hassan bin Numa che furono respinte a Gabes. Nel 695 vinse nella regione di Tabarqua, poi, nel 698 (o nel 702), fu sconfitta nella regione di Gabès.
La leggenda riporta che avrebbe poi chiesto ai suoi due figli, Ifran e Yezdia, di convertirsi
all’Islam per salvare il suo lignaggio; poi si diede alla macchia prima di trovare la morte vicino a un pozzo che porta ancora il suo nome, Bir Kahina, a circa 50 km a nord di Tobna. Gli arabi la decapitarono e ne portarono la testa al Califfo.
Questa sconfitta non ha portato all’arabizzazione dei Berberi, ma semplicemente alla loro islamizzazione, tutto il Maghreb rimanendo etnicamente berbero fino al XII-XIIIesimo secolo, epoca delle migrazioni delle tribù arabe Beni Hillal.
Allora, era dalla fine del XVI secolo che i Berberi di tutto il Maghreb, quindi dell’Algeria,
hanno perso il controllo del proprio destino a causa della scomparsa dei loro ultimi tre regni, quello dei Merinidi nell’attuale Marocco, quello degli Zianides o Abd el-Wadides che si estendeva su parte dell’Algeria da Tlemcen a Bougie, e così via degli Hafsid che includeva la Tunisia più il Costantino. Da quel momento, il Marocco era governata da dinastie arabe (allora Saadiani alawiti), mentre i regni di Tlemcen e Tunisi passarono sotto controllo Ottomano. La scomparsa degli stati berberi fu parallela all’ascesa delle tribù arabe entrate al servizio dello Stato Cherifiano nel Marocco e della Porta Ottomana nelle Reggenze di Algeri e Tunisi.
Durante il periodo ottomano, i Kabylies e gli Aurès non sono mai stati controllati dal potere
di Algeri.
Per restare solo negli ultimi anni precedenti alla conquista francese, nel 1813, il fallimento di Omar Agha davanti a Tunisi è stato attribuito al tradimento dei contingenti Kabyle. Alcuni dei loro capi furono quindi decapitati, il che causò la rivolta. Nel 1824, la parte orientale della Cabilia si sollevò. I Mezzaia attaccarono Bougie intanto che i Beni Abbès tagliarono la strada Algeri-Costantino. Infine, alla vigilia della conquista francese, l’Ouaguenoun e l’Aït Djennad era in ribellione contro Algeri.
Il periodo francese ha portato all’emarginazione del berberismo perché, contrariamente a
una narrazione popolare, in Algeria, la colonizzazione attraverso il suo giacobinismo è stata benefica per l’ideologia arabo-musulmana e la lingua araba. Tanto più che una volta sconfitto Abd el-Kader, la lealtà degli “arabi” verso la Francia fu quasi totale, soprattutto durante la rivolta kabyle del 1871 che fu in parte schiacciato dagli schermagliatori “arabi” reclutati nell’ovest del paese.
Se l’insurrezione di Kabyle del 1871 trasse la sua forza dal suo sostegno etnico, ciò costituì anche la sua debolezza perché non riesce a coinvolgere le popolazioni arabizzate dell’Algeria occidentale. Da parte loro, negli anni ’40 dell’Ottocento, i Kabyles erano rimasti
lontano dalla guerra guidata da Abd el-Kader.
Nel 1871 in Cabilia la lotta fu aspra, i villaggi appollaiati dovettero essere presi uno dopo l’altro. Il 5 maggio Mokrani è stato ucciso e suo fratello Bou Mezrag lo ha sostituito. Nella loro ritorsione, i francesi avevano la “mano pesante”: le esecuzioni a morte, deportazioni in Nuova Caledonia, tasse di guerra, confisca di terre, distruzione di piantagioni, villaggi ecc.
Questa guerra ha lasciato un tale ricordo ai giacobini coloniali che si sono poi impegnati a combattere l’identità Kabyle come facevano le loro controparti metropolitane allo stesso tempo con i Bretoni o baschi; una politica che ha grandemente giovato alla lingua araba.
Mentre, da secoli, il blocco linguistico berbero aveva mantenuto le sue posizioni contro l’arabo, in pochi decenni di presenza francese si ritirò, si ritrasse e si frammentò. Blida e Boufarik, totalmente di lingua berbera al tempo della conquista francese era così diventata di lingua araba nel 1962. Quanto alla stessa Cabilia, il Berbero vi si ritirò seguendo l’esempio di Bouira o Dellys oggi in gran parte arabizzato. Anche l’emigrazione di Kabyle in Francia ha favorito questa deberberizzazione.

IL COLPO DELL’ESERCITO DELLE FRONTIERE (ESTATE 1962)

Durante l’estate del 1962, nell’Algeria appena indipendente, le contraddizioni contenute durante i sette anni di guerra contro la Francia vennero alla luce tra il GPRA (Governo Provvisorio della Repubblica Algerina) e l’ALN (Esercito di Liberazione Nazionale) comandato dal 1960 dal colonnello Houari Boumediene. Intatto perché profughi in Tunisia e Marocco, l’esercito di frontiera aveva appena combattuto le forze francesi. Il presidente del GPRA, Benyoucef Benkhedda non ha avuto paura di dire a questo proposito che: “Alcuni ufficiali che hanno vissuto fuori non hanno conosciuto la guerra rivoluzionaria come i loro fratelli nella macchia (…)”.

Nel 1958, dopo la creazione del GPRA (Governo della Repubblica algerina) a Tunisi,
i conflitti sono stati esacerbati tra tre forze:
1) Tra il “nocciolo duro” di questo organismo, composto di Krim Belkacem, Abdelhafid Boussouf e di Lakhdar Bentobbal da un lato, e i cinque prigionieri detenuti in Francia dopo il dirottamento del loro aereo il 22 ottobre 1956, vale a dire Ahmed Ben Bella, Hocine Ait Hamed, Mohamed Boudiaf, Mostefa Lacheraf e Mohamed Kheder d’altro canto.
2) Tra il GPRA e l’esercito di frontiera, l’ALN (Esercito di Liberazione Nazionale), di stanza in Marocco e in Tunisia.
3) Tra l’esercito di frontiera e i superstiti del macchia dall’interno. L’esercito di frontiera ha riconosciuto l’EMG (Staff Generale), guidato dal colonnello Boumediene quando i sopravvissuti della macchia dell’interno obbedivano al GPRA.
La presa del potere da parte dei sostenitori dell’esercito dei confini, uniti nel “gruppo Oujda” si realizzò in sette passaggi:
1) Iniziano Ahmed Ben Bella e Houari Boumediene con il loro colpo di stato nel maggio 1962 quando il GPRA è stato convocato per indire il congresso del CNRA (Consiglio Nazionale della Rivoluzione Algerina) (Meynier, 2003 e Haroun, 2005). Il loro obiettivo
era quello di raddoppiare il GPRA istituendo la carica politica che avrebbero controllato.

2) Il 28 maggio, dall’inizio dell’incontro, l’atmosfera era estremamente tesa tra Benyoucef
Benkheda, il nuovo presidente del GPRA[1] e il suo vicepresidente, Ben Bella, che inveì contro di lui.
La gestione collegiale poi implose e invece del dibattito sugli “accordi di Evian” si parlò di potere. Intorno a Ben Bella, un gruppo di pressione riesce a far adottare il modello socialista e il partito unico.
A seguito della votazione per eleggere i membri dell’ufficio politico per gestire l’inizio dell’indipendenza, Krim Belkacem, Abdelhafid Boussouf e Lakdar Bentobal, tutti e tre i ministri del GPRA, sono stati messi in minoranza, con alcuni delegati che li hanno accusati
di essere stati coinvolti nell’assassinio di Abbane Ramadan nel 1957.
Sconfessato, Benyoucef Benkheda lasciò l’incontro, mentre Krim Belkacem, nonostante sia stato inserito in minoranza, divenne il principale interlocutore della Francia ai colloqui di pace finali, a Parigi con il riconoscimento del solo GPRA.
Quanto a Ben Bella, è andato al Cairo e da lì in Marocco, dove si unì al colonnello Boumediene, Ahmed Boumenjel e il colonnello Chaâbani che ritenevano che il GPRA non avesse legittimità a governare un’Algeria indipendente.
3) I combattenti della macchia hanno quindi tentato la mediazione. Il 24 e 25 giugno, i wilayas II, III, IV, la Zona Autonoma di Algeri e i rappresentanti della federazione di Francia dell’FLN si riunirono a Bordj Zemmoura, in Cabilia. Annunciarono la creazione di un “comitato interwilaya”, poi condannarono la “ribellione” dell’EMG (esercito dei confini) e chiesero al GPRA di fare altrettanto.
4) Il 30 giugno il GPRA si riunisce e licenzia l’EMG. In risposta, il 2 luglio, Ben Bella e
Boumediene chiesero ai capi dei wilaya di mettersi agli ordini dell’EMG e ordinano
all’esercito di frontiera di prepararsi e dirigersi verso l’Algeria.
5) L’11 luglio, i capi di wilaya IV impedirono a Benyoucef Benkheda, il presidente di
GPRA, di tenere un incontro a Blida, intanto che Ben Bella si sarebbe stabilito a Tlemcen. È stato raggiunto lì, il 16, dal colonnello Boumediene e da Ferhat Abbas. Quest’ultimo, che era comunque un sostenitore dell’instaurazione di un potere civile, radunato nel “clan
di Tlemcen” contro il GPRA di Benyoucef Benkhedda[2] .
D’ora in poi, due coalizioni si opposero, il “gruppo di Algeri” e il “gruppo di “Tlemcen”.
Il secondo ha istituito un ufficio politico[3] che ha annunciato di aver preso in mano i destini dell’Algeria. Il colpo di mano era in corso.
6) Il 23 luglio, Mohammed Boudiaf e Aït Ahmed, separati dal “gruppo Tlemcen” che accusavano di voler instaurare una dittatura in Algeria si stabilirono nel paese di Kabyle, a Tizi Ouzou, da dove hanno lanciato un appello agli algerini per opporsi al colpo di stato. Il 27 Luglio, sono stati raggiunti lì da Krim Belkacem. Da quel momento, quindi, c’era un terzo gruppo, il “Gruppo Tizi Ouzou”.
7) Il 25 luglio il comandante Larbi Berredejem del wilaya II prese Costantino e si unì al
“Gruppo Tlemceno”. I combattimenti hanno avuto luogo
in città poi, il 29 luglio, la wilaya IV prese il controllo di Algeri, rimuovendo la città dalla ZAA (Zona Algeri autonomi) i cui capi furono arrestati. il 29 agosto si sono verificati violenti scontri ad Algeri; in seguito, il 4 settembre, Ben Bella ha preso posizione ad Orano da dove ordinò alle sue truppe di andare a marciare su Algeri, provocandoo violenti
combattimenti, in particolare a Boghari, Sidi Aïssa e Clef.

Il 9 settembre Ben Bella e il colonnello Boumediene entrarono ad Algeri alla testa dell’esercito di frontiera.
Le elezioni per l’Assemblea Costituente furono fissate il 20 settembre 1962, su liste singole, dopo la dichiarazione di Ben Bella che “la democrazia è un lusso che l’Algeria non può ancora permettersi”.
Il 25 settembre Ferhat Abbas è stato eletto presidente dell’Assemblea Nazionale e  proclamò la nascita della Repubblica Democratica Popolare d’Algeria; poi Ben Bella fu nominato per formare il primo governo dell’Algeria indipendente. I combattenti interni erano stati quindi espulsi da quelli esterni e i politici dai militari.
Il congresso “fondatore” di Soummam era ben dimenticato.
Per combattere questo colpo di stato, un anno dopo, alla fine di settembre 1963, ex dirigenti di wilaya II e IV, così come i leader politici riuniti ad Aïn El Hammam, una cinquantina di chilometri a est di Tizi Ouzou, decisero di prendere le armi.
Nei giorni che seguirono, il governo mandò l’esercito ma la guerra civile fu fermata.
Il conflitto algerino-marocchino, la “guerra delle sabbie”, aveva temporaneamente riconciliato i due campi in una sacra unione.
Nel luglio del 1964, di fronte alla deriva autoritaria del potere e dei suoi disastrosi orientamenti economici, Ait Ahmed e Mohamed Boudiaf crearono il CNDR (Consiglio Nazionale per la Difesa della rivoluzione) e fondarono la macchia, in sostanza in Cabilia. Il colonnello Chaabani, capo di wilaya 6 (Sahara), ha cercato di marciare su Algeri,
ma fu arrestato e fucilato l’8 settembre. Quanto a Aït Hamed, fu arrestato il 17 ottobre 1964 con sentenza di morte. Perdonato, si rifugiò in Svizzera fino al 2001. La repressione del regime è stata feroce ed il mito della rivoluzione unita si era imposto sulla realtà.
Installato al potere con il supporto di Boumediene,
e sotto la sua supervisione, il 19 giugno 1965, Ben Bella, che stava cercando di liberarsi dalla presa militare, fu rovesciato dal colonnello Boumediene presidente del Consiglio della Rivoluzione, che lo fece rinchiudere a Tamanrasset, dove fu imprigionato per sedici anni.

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Il Kazakistan mantiene le sue opzioni aperte, ma non troppo_di Ekaterina Zolotova

Oggi presentiamo due articoli, rispettivamente di oneworld.press nel testo precedente e di geopoliticalfutures, qui sotto, incentrati praticamente sulla stessa area geografica. Uno spazio strategico a suo tempo pienamente integrato nella ex Unione Sovietica ed ora rimasto sotto la sfera di influenza russa, non più però in maniera univoca. Il Kazakistan fa parte di questa area in una posizione privilegiata; è un immenso paese, poco popolato, strategicamente importante come crocevia nelle comunicazioni, come detentore di importanti materie prime, come punto di incontro delle dinamiche geopolitiche della Russia, della Cina, dell’area turcomanna, quindi della Turchia. Dispone di una classe dirigente in grado di districarsi con una certa autonomia all’interno di queste dinamiche. Koribko parla di una “grande strategia” della Russia tesa alla creazione di un ordine internazionale genuino basato sul rispetto della Carta dell’ONU. La realtà è invece più modesta e circoscritta, tesa a recuperare almeno in parte il sistema di relazioni vigente ai tempi dell’URSS. Le novità sono piuttosto altre: è un progetto che si interseca con altri a carattere sia economico che politico-militare in una sorta di cerchi concentrici ed intersecantisi; gli attori protagonisti sono almeno tre (Russia, Turchia e Cina) con il quarto (Stati Uniti) appena defilato; si può parlare di sistema di relazioni ancora relativamente instabili, tipiche di una fase multipolare ancora in divenire; le dinamiche geoeconomiche assumono un ruolo peculiare e ancora relativamente autonomo rispetto a quelle geopolitiche. Il testo di Geopolitical Futures mantiene certamente un tono più prudente e attendista. Buona Lettura, Giuseppe Germinario

Il Kazakistan mantiene le sue opzioni aperte, ma non troppo

Mosca non è poi così preoccupata per un fondamentale riorientamento politico rispetto al suo vicino.

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L’invasione russa dell’Ucraina ha mostrato al mondo fino a che punto Mosca si sarebbe spinta per proteggere i suoi interessi. E mentre la guerra infuria, molti si chiedono se altri punti importanti lungo la periferia della Russia, tra cui Georgia, Bielorussia o il Caucaso meridionale, potrebbero essere i prossimi. Forse nessun luogo è più preoccupante dell’Asia centrale, che separa la Russia dalla Cina e dall’Iran e la isola dall’instabilità proveniente dall’Afghanistan. Questi paesi sono inondati di risorse naturali che la Russia può sfruttare, si trovano lungo importanti rotte commerciali verso il Medio Oriente e l’Europa e sono una fonte affidabile di lavoro per i posti di lavoro russi.

Il Kazakistan è il paese più importante dell’Asia centrale. Vanta l’economia più sviluppata e più grande della regione, già strettamente integrata con quella russa attraverso la Comunità degli Stati Indipendenti e l’Unione Economica Eurasiatica. Ha un unico spazio doganale con la Russia, è membro dell’Organizzazione del Trattato sulla sicurezza collettiva e in generale dipende più dalla Russia come partner commerciale e di investimento rispetto ad altri paesi. Il Kazakistan condivide il confine terrestre più lungo con la Russia e ospita quindi un’ampia minoranza di etnia russa, che costituisce quasi il 20% della popolazione.

Per questi motivi, il Kazakistan è stato storicamente considerato un partner russo affidabile. Ma ultimamente non è stato così. Il governo di Nur-Sultan si è espresso nella migliore delle ipotesi in modo ambiguo su questioni su cui il Cremlino si aspettava una sorta di sostegno se non addirittura unità. Ad esempio, il Kazakistan ha dichiarato la sua neutralità sulla guerra in Ucraina e ha consentito proteste a sostegno dell’Ucraina. Ha iniziato a considerare la rotta di trasporto transcaspica, che aggira la Russia, per le merci dalla Cina all’Europa. Funzionari del governo stanno tenendo colloqui economici con i rappresentanti occidentali e stanno dialogando con le forze statunitensi che promettono protezione dalle sanzioni anti-russe (anche se il Kazakistan ha affermato che non aiuterebbe Mosca a bypassare quelle stesse sanzioni per paura di scontrarsi con loro).

Ciò solleva una domanda importante: questa è solo un’assicurazione a breve termine o il Kazakistan si sta allontanando dalla Russia?

Mezzo pivot

In particolare, il perno dalla Russia è iniziato molto prima dell’invasione dell’Ucraina. Il Kazakistan ha privilegiato la neutralità e una politica estera multiforme sin da quando ha ottenuto l’indipendenza dall’Unione Sovietica, anche se, come tutti gli ex satelliti sovietici, aveva legami economici, politici e culturali esistenti che non poteva permettersi di tagliare. Ma negli ultimi decenni, il Kazakistan ha compiuto progressi significativi nella ricostruzione della sua economia, nell’accelerazione della crescita del prodotto interno lordo e nella diversificazione dei legami commerciali ed economici con partner in tutto il mondo, anche aderendo a organizzazioni come l’Organizzazione mondiale del commercio. Si sta anche allontanando dalla cultura politica del suo fondatore: Nursultan Nazarbayev, che fino a poco tempo fa era l’unico presidente che il paese avesse mai avuto, era in gran parte un prodotto del sistema sovietico ed esercitava il controllo dall’alto dello stato – in un certo senso che promuove l’indipendenza e sottolinea l’identità nazionale.

L’economia del Kazakistan è ancora strettamente integrata con quella russa, ovviamente, quindi Mosca la vede ancora come un’entità instabile e dipendente. Ma pochi altri condividono questo punto di vista. La maggior parte dei paesi vede il Kazakistan come un attore indipendente e partecipante al commercio internazionale, un paese in via di sviluppo dinamico con notevoli risorse naturali che tuttavia rimane nella sfera di influenza della Russia. Ma con l’economia russa allo sbando, i paesi ora vedono il Kazakistan come qualcosa che potrebbe essere strappato dalle grinfie della Russia.

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Le sanzioni russe aiutano anche il Kazakistan in questo senso. La pandemia di COVID-19 ha contratto l’economia kazaka, che è alla ricerca di modi per mantenere la stabilità, favorire la crescita economica e limitare la sua esposizione alla Russia. A tal fine, le società kazake che in precedenza spedivano merci in Europa attraverso la Russia stanno cercando corridoi alternativi come la suddetta rotta commerciale transcaspica. E l’attenzione al Kazakistan prestata da altri paesi , in particolare quelli occidentali abbastanza ricchi da aiutare il Kazakistan a diversificare, sta mettendo pressione anche sulla Russia.

Opzioni di pesatura

Se è vero che l’invasione russa dell’Ucraina ha reso il Kazakistan particolarmente nervoso, data la sua numerosa popolazione russa e i rischi punitivi degli scambi commerciali con la Russia, ci sono molte ragioni per cui Nur-Sultan vuole tenere Mosca vicina, almeno a breve termine .

Per quanto riguarda la sicurezza, ha ancora bisogno di buoni legami con il suo vicino molto più forte. Nonostante il relativo successo economico, il Kazakistan è stato a lungo un paese politicamente instabile. I disordini di gennaio , ad esempio, sono stati tenuti a bada in gran parte grazie alla CSTO filorussa. Inoltre, condivide un confine con paesi molto più instabili la cui volatilità potrebbe diffondersi in Kazakistan e condivide un enorme confine con la Russia. A differenza dell’Ucraina, la NATO non ha una presenza reale nelle vicinanze e sarebbe più difficile sostenere il Kazakistan e reagire ai problemi lì.

Opinioni kazake sul conflitto ucraino
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Economicamente, il Kazakistan è molto più dipendente dal commercio e dagli investimenti russi di quanto non lo sia l’Ucraina e fa affidamento su di esso per beni come il grano a buon mercato. Questo grazie alla sua vicinanza geografica e alla sua appartenenza all’Unione economica eurasiatica, dalla quale non ha fretta di andarsene. E sebbene il Kazakistan stia cercando di ridurre la sua dipendenza dal commercio russo, non è particolarmente interessato ad andare all-in con un paese come la Cina che potrebbe essere il suo principale acquirente di materie prime e potrebbe quindi dettare i prezzi. I paesi più lontani sono semplicemente una scommessa più sicura.

Tuttavia, la geografia e la distanza sono in alcuni casi ostacoli da superare, esacerbati dall’incapacità del Kazakistan di gestire i processi di trasporto. Qui è dove la Russia ha il vantaggio. Non solo la Russia confina con il Kazakistan, ma l’EAEU è la via principale per l’esportazione di merci kazake, in particolare petrolio, attraverso ferrovie e oleodotti in territorio russo che collegano il Kazakistan con il Mar Nero e l’Unione Europea. La diversificazione non è solo una questione di denaro; il conflitto tra Armenia e Azerbaigian e il fatto che Tagikistan, Uzbekistan e Turkmenistan utilizzino tutti i propri standard, rendono difficile lo svolgimento del commercio in Asia centrale.

Demograficamente, i russi etnici in Kazakistan di solito non si considerano kazaki. E con più russi che fuggono dalla Russia, è probabile che le enclavi di espatriati russi crescano. In effetti, gli ex satelliti sovietici sono considerati buoni posti in cui vivere per molti russi a causa delle loro somiglianze linguistiche e culturali, con il Kazakistan che sta diventando una delle destinazioni più popolari per coloro che lavorano con aziende straniere. I russi portano con sé competenze e servizi e, cosa importante, la domanda di beni e servizi locali kazaki.

Dal punto di vista di Mosca, il recente comportamento del Kazakistan non è la minaccia dell’Ucraina semplicemente perché la diversificazione economica non significa necessariamente che si stia avvicinando all’Occidente. Tutti gli incontri nel mondo non cambiano il fatto che le opportunità di finanziamento e di investimento da USA e UE sono limitate; ci sono altri candidati redditizi, e nessuno dei due è troppo desideroso di ripristinare le infrastrutture di trasporto in un luogo in cui la Russia è ancora attiva e influente. Invece, il Kazakistan è ansioso di stabilire legami più stretti con Cina, Turchia e Iran e di espandersi ulteriormente nel mercato asiatico, il che potrebbe effettivamente avvantaggiare Mosca se il Kazakistan fosse un hub di transito neutrale con buone relazioni con la maggior parte delle potenze mondiali. Anche così, la Russia comprende che ha bisogno di mantenere l’economia kazaka in fermento in modo che non abbia un governo instabile al suo confine.

I funzionari in Kazakistan stanno valutando le loro opzioni, ma alla fine si rendono conto che non possono rimproverare del tutto la Russia. Il suo comportamento recente è semplicemente una tattica a breve termine intesa a mantenere l’economia sul punto. Il Kazakistan continuerà a cercare di essere amico di chiunque potrà, per quanto con cautela.

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