NIENTE SCUSE: INCAPACI TOTALI, di Antonio de Martini

NIENTE SCUSE: INCAPACI TOTALI
Arriva l’8 settembre col suo solito ributtante strascico di lamenti e giustificazioni a posteriori. Precedo e chiudo.
A pagina 51 della biografia del Maresciallo Gustav Mannerheim scritta da Steven J Zaloga, ( Bloomsbury plc) leggo il testo di una dichiarazione del capo di SM tedesco Maresciallo Alfred Jodl – poi impiccato a Norimberga- così presentata dall’autore: “ both Mannerheim and Jodl were candid about Finland desire to extricate itself from the conflict, and Jodl remarked :
“ No nation has a higher duty than that which is dictated by the concern for the existence of the Homeland. All other considerations must take second place and no one has the right to demand that a nation shall go to its death for another”. ( ottobre 1943) .
Certo, c’era appena stato il trauma italiano, ma resta il fatto che Casa Savoia, lo Stato Maggiore italiano, Mussolini, Ciano e compagnia non seppero cercare altro che la salvezza personale, tranne qualche depresso grave che non seppe cercare nemmeno quella.
Non si parli di tragedie o manifesta inferiorità o guerra non sentita.
Si trattò di servilismo mellifluo da tutte le parti, mentre persino il capo di SM tedesco avrebbe capito e trattato decorosamente come avvenne con la Finlandia.
Abbiamo meritato tutto. Come riaccadrà nuovamente.

PUBLIO CORNELIO SCIPIONE L’AFRICANO MAGGIORE, a cura di Antonio de Martini

Spunti dal passato. Pro domo nostra_Giuseppe Germinario
PUBLIO CORNELIO SCIPIONE L’AFRICANO MAGGIORE
Il giocatore di scacchi
Aveva solo 17 anni Publio Cornelio Scipione, il futuro Africano, quando, nel 218 a.C., ebbe il primo incontro ravvicinato con Annibale. Era la battaglia sul Ticino, e fu la prima amarezza delle tante patite da Roma per la durata di sedici anni (tanto restò Annibale in Italia: si è calcolato che i romani ci abbiano rimesso 300 mila morti!!! E si dice che, in percentuale, ci fu un dispiegamento di forze e di mezzi, superiore a quelli dell’Italia nella prima guerra mondiale!). Publio, benché diciassettenne, ma ben messo nel fisico, si distinse per valore e salvò il padre e lo zio rimasti feriti.
Data l’età, a nessuno passò per la testa di affidargli le legioni. Lui seguì da vicino il modo di agire di Annibale sul piano militare, e ci ragionò sopra, fino ad arrivare a delle conclusioni. Elaborò un piano strategico. Proprio come fa uno scacchista sulla scacchiera. E l’obiettivo strategico finale era costringere Annibale a sloggiare dall’Italia. Come prima mossa, Publio si fece mandare in Spagna.
Per la Spagna, infatti, passava la via dei rifornimenti per l’esercito di Annibale, e lui aveva aperto la strada con il suo leggendario passaggio di Pirenei ed Alpi. Perché non per il mare? Prima della prima guerra punica i cartaginesi, di origine fenicia e quindi grandi navigatori, erano superiori ai romani sul mare. Ma, durante il primo conflitto, i romani, consapevoli della loro inferiorità marinara, s’erano inventati il sistema dei ponti corvi, passarelle uncinate di legno con cui agganciavano le navi nemiche per assalirle, mentre il combattimento tradizionale mirava allo speronamento. Finita la guerra, mentre Cartagine ebbe un periodo di grave crisi politica, i romani fecero progressi prodigiosi nella marineria, e dominavano il mare. Quindi da Cartagine (Tunisi) gli aiuti potevano arrivare solo per via terrestre.
Tanto più che in Iberia (Spagna) i cartaginesi avevano costruito una città, Nuova Cartagine (=Cartagena), una vera fortezza inespugnabile. Ed infatti Scipione non riusciva a venirne a capo. Tuttavia la presenza romana aveva bloccato il flusso verso l’Italia. Ma aveva fatto in tempo a passare Asdrubale, fratello di Annibale, che si diresse verso l’Italia, per riunirsi con il fratello ed insieme attaccare Roma direttamente. Ma venne intercettato sul fiume Metauro, in Romagna, e morirono tutti i suoi soldati e lui stesso. Ma questa storia merita un racconto a parte, che, vedrete, è meglio di un film.
Gli indigeni dell’Iberia mal sopportavano il dispotismo cartaginese – tranne quelli che, come sempre avviene in presenza di una guerra, pensarono cinicamente di sfruttare la situazione, mettendosi al servizio dell’invasore – , dato che i punici la facevano da padroni. E si allearono con i romani. Un lato della fortezza di Nuova Cartagine era protetto da una bassa palude, bassa, ma sufficiente ad impedire assalti da quella parte. Gli iberici, però, rivelarono a Scipione che, in certi giorni dell’anno, si alzava un vento così forte, ma così forte che spostava tutta l’acqua ed asciugava il suolo. E si stava avvicinando uno di quei giorni. Al momento giusto Scipione sferrò un violento attacco contro la parte opposta alla palude, e lì accorsero tutti i cartaginesi, lasciando incustodita la zona sulla palude: tanto c’era la palude! E fu allora che reparti predisposti ad hoc da Publio, attaccarono il lato lasciato incustodito, ma ora asciutto, ed entrarono nella fortezza. Fine dei rifornimenti!
Tornato a Roma, Scipione prese a sostenere che era giunto il momento di portare la guerra in Africa. Ma dovette fare i conti con i suoi avversari politici. Qui è necessario chiarire qualcosa. Noi diciamo Roma Atene Cartagine come se ognuna di queste fosse un unico blocco. In realtà all’interno di queste città la dialettica politica (alla Hegel o alla Marx, come preferite)vedeva l’opposizione tra proprietari terrieri (antichi detentori del potere economico e quindi politico), e mercanti (vedi anche il post su Temistocle), una nuova categoria di ricchi, che miravano ad una gestione a loro vantaggiosa di economia e politica, ma osteggiata dai vecchi egemoni. In Roma e in quel momento gli Scipioni, benché di antica aristocrazia, miravano all’affermazione politica personale, appoggiandosi al ceto mercantile. Dunque i “conservatori” romani non vedevano di buon occhio la prospettiva politica (rischiosa per loro) di un successo del massimo rappresentante della parte avversa. Una domanda: c’è differenza con le dinamiche politiche di oggi? E fu facile per loro ottenere anche l’appoggio del popolo, ricordando che Annibale era ancora in Italia, e non era saggio spostare armati in Africa. Al massimo – concessero – Scipione faccia da solo: metta insieme un esercito e faccia quello che vuole. Non lo ritenevano capace di tanto, ma lui invece lo fece. Si portò in Sicilia, dove trovò ed arruolò gli otto mila superstiti della battaglia di Canne (che stavano là dal 216, ma anche questa è storia che merita un racconto a parte: ha dell’incredibile, ed invece è STORIA! Di cosa non sono stati capaci i nostri antenati! Se solo recuperassimo una frazione della loro valentia! Intanto però impariamo a conoscerli meglio). E partì per l’Africa.
Ma non attaccò direttamente Cartagine. Non sarebbe stato prudente, perché verso oriente vi erano diverse piazzeforti cartaginesi, che andavano eliminate, onde evitare un attacco alle spalle durante l’assedio. E lui le prese ad una ad una (lo scacchista!), finché non restò l’ostacolo più grosso, due accampamenti, uno numidico ed uno cartaginese. La Numidia corrisponde grosso modo alla Mauritania, ed era uscita da una grave crisi dinastica, grazie all’intervento cartaginese, per cui re divenne Siface che si alleò con i punici, mentre il suo rivale, Massinissa, si schierò con i romani, e tutt’e due garantivano pregevoli truppe di cavalleria. Bene! Scipione provò a prenderli con la forza, ma non ci riusciva. Giocò d’astuzia: finse di volere intavolare delle trattative, e per questo mandò dei suoi luogotenenti a parlare con i capi cartaginesi nell’accampamento. Era uso che una delegazione si presentasse con un codazzo di servi e schiavi per le necessità materiali dei delegati. E mentre si svolgevano i confronti diplomatici, questi servi se ne andavano in giro a curiosare nell’accampamento. Tanto nessuno badava a degli schiavi! Ma Scipione aveva fatto travestire da schiavi i suoi migliori esperti di costruzione di accampamenti, e questi giravano senza controllo, facendosi i selfies, pardon!, memorizzando a puntino ciò che vedevano. Finite le consultazioni, la delegazione romana tornò da Scipione, con l’impegno ad andare di nuovo l’indomani, per portare le novità da parte del console. Invece in piena notte i romani assalirono con proiettili incendiari quei settori dell’accampamento numidico considerati più esposti. Il fuoco provocò una gran confusione, ma nessuno sospettò l’attacco romano. I cartaginesi, anzi, accorsero in aiuto dei loro alleati, ma su entrambi piombarono i romani, che ebbero partita vinta. I cartaginesi fecero un ultimo tentativo di resistere, ma ai Campi Magni furono sbaragliati. La strada per Cartagine era spianata!
Scipione si presentò sotto le mura di Cartagine, ed intimò la resa, dettando anche le condizioni. Ma accettò la tregua proposta dai cartaginesi, perché richiamassero Annibale in patria: l’aveva iniziata lui la guerra, dicevano, che la risolvesse lui! Anche in Cartagine si opponevano due partiti, i proprietari terrieri, che proponevano un’espansione nella terra d’Africa , e facevano capo alla famiglia degli Annoni; ed i mercanti, conquistatori ed imperialisti, che avevano nella famiglia Barca, quella di Annibale, l’elemento di punta. E Annibale, bestemmiando come un turco (non me ne vogliano i turchi, si dice così, senza malizia), pur non essendo mai stato sconfitto, dovette lasciare l’Italia. SCACCO MATTO!
Narra Livio che Annibale provò a giocare d’astuzia. Chiese ed ottenne un colloquio con il giovane rivale, lo colmò di elogi, e gli propose di lasciare le cose come stavano: lui si impegnava a rimanere in Africa, e Scipione se ne tornasse in Italia, ché i romani l’avrebbero adorato, per aver costretto Annibale ad andarsene. Scipione gli rispose che non era il caso per Annibale di fare il furbo: “Se domani mi costringi a combattere, due sono gli esiti possibili: o vinci tu, o vinco io. Ma, se vinci tu, allora sì che siamo al punto di partenza, se invece vinco io, per voi è finita! Decidi tu. A Cartagine conoscono le condizioni. Se non mi costringi a combattere, valgono quelle che sanno, ma se vinco, metteremo sul conto anche questa battaglia.”. E Annibale, per ragioni politiche interne, si vide costretto alla battaglia. E fu la prima ed unica sconfitta per lui: 18 ottobre 202 avanti Cristo, a Naraggara, presso Zama.
Un trionfo mai visto prima accolse Scipione al suo rientro a Roma: 16 anni, tanto era durata la presenza di Annibale in Italia, con 300 mila morti, ed un terrore panico difficile da sradicare dall’animo romano. “ANNIBALE ALLE PORTE!”, si esclamava con terrore anche secoli dopo, quando si profilava un pericolo per la città. Scipione poi amava far credere di essere anche lui l’UNTO DEL SIGNORE: andava spesso nel tempio di Giove nel foro, a parlare con il dio, diceva, che gli aveva suggerito tutte le mosse. E creò intorno a sé un fenomeno di culto della personalità.
I suoi avversari politici, però, non si arresero. Riuscirono a coinvolgerlo in una storiaccia di concussione (di cui il responsabile era quasi sicuramente il fratello Lucio), in margine alla guerra contro Antioco III di Siria: era LA MACCHINA DEL FANGO (non abbiamo inventato nemmeno quella!). E Publio, indispettito perché si era dubitato di lui, preferì andarsene in volontario e dorato esilio in Campania, in una villa a Literno, che dà il nome all’odierna località, Villa Literno. E si narra che andandosene promise di non mettere mai più piede a Roma:
INGRATA PATRIA NON AVRAI LE MIE OSSA. E così fu. E morì qualche mese prima che Annibale si suicidasse. I due grandi nemici uscirono insieme dalla Storia: sotto a chi tocca!
Molto divertente e ben fatto è il film di Magni: “Scipione detto anche l’Africano”. Grandi attori!
DOMENICA PROSSIMA VEDREMO COME E PERCHE’ NASCE LA DEMOCRAZIA (IN GRECIA).

Perché siamo privi di una cultura strategica?, di Piero Visani

Qui sotto un saggio di Piero Visani, già pubblicato nel 2013. L’interesse, ovviamente, scaturisce dall’analisi dell’approccio di fondo che ha mosso le scelte di politica estera e di intervento militare delle classi dirigenti del nostro paese piuttosto che dall’approvazione o meno delle specifiche azioni nelle particolari contingenze politiche_Giuseppe Germinario

Perché siamo privi di una cultura strategica?

https://derteufel50.blogspot.com/2013/11/perche-siamo-privi-di-una-cultura.html?fbclid=IwAR3gPdagjKsfdP0q18-25135cqqH9I3TizVy-2-p_SL2m52DW78P5jxmCEQ
Peter Pace, Edmund Giambastiani, addirittura Marilyn Quagliotti: se si guarda al vertice militare delle Forze Armate statunitensi, vale a dire al braccio armato della maggiore potenza mondiale, i cognomi di origine italiana non mancano certo e occupano posizioni di assoluto prestigio. Peter Pace è un marine, addirittura il primo che sia riuscito a raggiungere l’ambita carica di Chairman of the Joint Chiefs of Staff, l’equivalente del nostro Capo di Stato Maggiore della Difesa; Edmund Giambastiani è oggi al vertice militare della NATO, dopo essere stato ai massimi livelli dell’U. S. Navy. Marilyn Quagliotti è un generale a due stelle dell’Esercito con il prestigioso incarico di vicedirettore della DISA (Defense Information Systems Agency) e anche lei – come i suoi due più titolati colleghi e forse in misura ancora maggiore, visto che si tratta di una donna – smentisce quelli che potremmo definire i luoghi comuni sulla “ridotta attitudine militare” degli italiani. Quello che si vuole dire, in sostanza, è che non si arriva ai vertici dell’apparato militare statunitense se non si hanno qualità di un certo tipo e, tra queste, la “ridotta attitudine militare” non è certamente un requisito necessario, anzi.

Malgrado ciò, malgrado il fatto che sia possibilissimo per elementi di chiara origine italiana farsi strada fino ai massimi gradi della più importante organizzazione militare del mondo, lo stereotipo di “mandolinai e pizzaioli”, di gente inaffidabile, che non sa battersi e tanto meno lo ama, ci perseguita da tempo. A quando risale la genesi di questo dato storico negativo? Tralasciando i repentini capovolgimenti di fronte che hanno fatto la storia di casa Savoia, cioè della casata che ha svolto un ruolo determinante nella storia d’Italia, e che tuttavia si riferiscono molto più alle sue vicende preunitarie che a quelle successive, è possibile trovare parecchie tracce di inaffidabilità e di scarsa propensione al combattimento nella storia italiana. Un esempio classico di inaffidabilità politica è rappresentato dai “giri di valzer” che caratterizzarono l’Italia giolittiana, con l’appartenenza formale alla Triplice Alleanza con gli Imperi centrali e le scelte politiche successive, esattamente antitetiche, che portarono l’Italia ad entrare nella Grande Guerra dalla parte dell’Intesa. A sua volta, un esempio classico di scarsa propensione al combattimento è rappresentato dalla rotta di Caporetto[i] e dai fenomeni che si verificarono durante ed a seguito della medesima, con i ben noti casi di “sciopero militare” mai troppo indagati da un lato e strumentalmente utilizzati per coprire le macroscopiche deficienze professionali degli alti comandi e del corpo ufficiali dall’altro.

Certo è che già al momento dell’ingresso dell’Italia nel primo conflitto mondiale la tesi che gli italiani “non sapessero” o “non amassero battersi” era una voce piuttosto diffusa e radicata, se tutti gli interventisti, compresi quelli della Sinistra nazionale[ii], reclamarono con forza la scelta della via delle armi proprio per smentire, anche e soprattutto con il loro personale esempio, tale fama disonorevole. Il loro sacrificio non fu vano, non solo perché portò alla vittoria del 1918, ma anche perché consentì il lievitare nel nostro Paese di un fenomeno come quello dell’arditismo, autentica smentita vivente, con la sua valentia delle armi e la sua estetica della morte, dei troppi luoghi comuni che circolavano a carico delle qualità militari degli italiani.

Sfortunatamente per i nostri destini di Nazione, la contrapposizione tra “i soliti quattro gatti” capaci di fare miracoli con l’ardimento e l’inventiva, e un’istituzione militare burocratica, misoneista, professionalmente discutibile e tecnicamente inetta, corrosa dal carrierismo e da clientelismi di tutti i generi, è una “sottile linea rossa” che percorre la storia nazionale dal 1918 in avanti, intinta (ci si perdoni la retorica, ma è necessaria) nel sangue dei suoi figli migliori: dalle intuizioni di Giulio Dohuet sul bombardamento strategico a quelle di Teseo Tesei sulla possibilità di usare mezzi navali modestissimi come moltiplicatore di forza di un Paese povero e scarsamente industrializzato, dalle imprese grandi e piccole degli eroi, noti e meno noti, della seconda guerra mondiale a fenomeni di “estetica della guerra” come la carica del “Savoia Cavalleria” ad Isbuschenskij (estate 1942), è tutta una storia di occasioni perdute, di opportunità vanificate, di sacrifici utili solo come prove testimoniali (e solo per chi fosse in grado di apprezzarli), affondati in un sistema di colossale inefficienza, di ritardo tecnologico, di compiaciuta autoesaltazione della propria ignoranza.

Il dramma vero, tuttavia, avviene dopo ed è quell’8 settembre 1943 che, a tutti gli effetti, segna la “morte della Patria”[iii], che getta deliberatamente una “Nazione allo sbando”[iv], che invia “tutti a casa” (almeno quelli che vorranno e riusciranno a tornarci) non soltanto in senso stretto, ma in senso lato, inducendoli a confondere il loro focolare, il loro piccolo Heimat, con la loro casa unica e vera – l’Italia -, privandoli di un senso di comunità, di Nazione, di destino che non fosse riservato alla loro dimensione personalissima e privatissima, inducendo gli uni a vergognarsi del passato e gli altri a vergognarsi del futuro, creando una dimensione di guerra civile permanente che ancora non si è ricomposta – e difficilmente appare in grado di ricomporsi – in una memoria condivisa, in cui non ci sia più da vergognarsi di alcunché.

Fatto oggetto di una pesante rimozione storica, ovviamente tutt’altro che disinteressata, in quanto intorno ad esso ruota tutta la legittimità di ciò che è venuto dopo, l’8 settembre è scarsamente compreso dagli italiani non solo nei suoi effetti sul piano interno, ma anche e soprattutto su quello internazionale. Un esercito che cessa di battersi e si sfascia in preda a varie forme di dissoluzione, dall’ammutinamento[v] alla fuga di massa; una flotta che si consegna al nemico, sono tutti fenomeni che non potevano certo rafforzare la stima del mondo nei confronti delle capacità belliche degli italiani, che peraltro già durante il secondo conflitto mondiale non erano certo rifulse per colpa di una classe militare di livello professionale decisamente basso[vi] e talvolta pure di dubbia lealtà.

Dopo la fine della seconda guerra mondiale, si apre una nuova fase storica, ma l’8 settembre è lì e non si può toglierlo facilmente di mezzo. E’ una presenza ingombrante, ma in realtà è molto più ingombrante – per le forze politiche emerse vittoriose dagli sconvolgimenti della guerra – la presenza di forze militari nazionali in quanto tali, perché nessuno le vuole: non le vogliono i comunisti, che le considerano l’unico ostacolo vero all’auspicato passaggio dell’Italia dal blocco occidentale a quello sovietico, ma non le vogliono e si limitano a tollerarle anche i moderati raccolti intorno alla Democrazia cristiana che, come cattolici, nutrono una più o meno spiccata diffidenza (a seconda del loro livello di riferimento agli orientamenti dottrinali delle origini) nei riguardi di tutto ciò che è militare.

Su questo sfondo, l’Italia repubblicana nasce afflitta da un’anomalia che è al tempo stesso una gravissima debolezza strategica: dispone di forze militari, perché non esiste Paese al mondo degno di questo nome che non ne disponga e perché la sua posizione al confine tra due blocchi in conflitto non è tale da consentire alle sue classi dirigenti di esserne priva, ma tali forze risultano totalmente delegittimate. Delegittimate sul piano politico, perché nessuno dei grandi partiti di massa le ritiene degne di rispetto, in quanto retaggio di un passato deprecabile (quello del militarismo fascista[vii]), e delegittimate sul piano culturale non solo perché la Costituzione repubblicana “ripudia la guerra”, ma soprattutto perché nessuno, all’interno del Paese, ragiona più in termini di sovranità nazionale (di cui le Forze Armate costituiscono ovviamente la massima espressione), ma solo di appartenenza a blocchi politici, ideologici ed economici contrapposti.

L’Italia del secondo dopoguerra è dunque una Nazione priva di una cultura militare e di una cultura strategica, e, conseguentemente, di una cultura nazionale. Non riesce dunque ad immaginarsi come Nazione, il che può anche essere comprensibile, considerato l’esito avuto da oltre due decenni di retorica ultranazionalista del fascismo, ma è terribilmente problematico. Cerca nuove forme di vita e di identità, nella forse comprensibile ma certo assurda speranza di definire nuovi percorsi, di trovare nuove strade, di inventare nuovi modelli di identità nazionale.

Questo potente complesso di illusioni trova facile alimento negli anni della “Guerra fredda”, quando il blocco moderato riunito intorno alla Democrazia cristiana non ha e deve avere altra preoccupazione se non quella di consumare la sicurezza prodotta da altri, in primo luogo dagli americani. Il contributo che le è richiesto è di tipo soprattutto formale: una struttura militare per certi versi piuttosto grande, in grado di articolarsi su divisioni e brigate da schierare al confine orientale, a difesa da un potenziale attacco del Patto di Varsavia. Su quale poi sia la reale consistenza operativa di tale struttura, non è il caso di soffermarsi troppo: chiunque abbia prestato il servizio militare obbligatorio in quegli anni ricorderà la modesta efficienza dei reparti e l’assai carente (usiamo un eufemismo) livello di tensione morale che li pervadeva. Non mancavano le eccezioni in positivo, sia chiaro, ma si perdevano nel mare magnum di un’istituzione che dava palesemente prova di non credere in se stessa (e lo si vedeva benissimo).

Questa situazione di privilegio, questa possibilità di consumare a basso costo la sicurezza prodotta da altri, è venuta progressivamente a mancare nel momento in cui, con la fine della “Guerra fredda” e il collasso dell’URSS e del blocco sovietico, l’Italia, come molti altri Paesi europei, si è trovata nella necessità di trasformarsi da consumatrice a produttrice di sicurezza, di definire un interesse nazionale e delle priorità strategiche atte a tutelarlo. Per noi, infatti, si è trattato di un autentico trauma e non eravamo in alcun modo attrezzati ad affrontarlo.

Fino a quel momento, l’appartenenza ad un blocco militare come la NATO ci aveva consentito di nascondere dietro un profilo internazionale le nostre carenze puramente nazionali. Nella nuova realtà, però, quel gioco delle parti non era più riproducibile. Occorreva assumersi responsabilità in proprio e, per farlo, eravamo totalmente privi degli strumenti adatti.

Lo strumento per eccellenza, cioè le Forze Armate in quanto tali, era ancora il problema più facile da risolvere: era sufficiente riconfigurarlo sulla base delle nuove realtà del mutato quadro strategico internazionale. Malgrado ciò, c’è voluto un quindicennio prima che il nostro corpo ufficiali si piegasse all’esigenza di dotare il Paese di uno strumento militare professionale su base volontaria. C’era tutto da guadagnare, in un passaggio del genere, in termini di legittimazione funzionale, visto che sarebbe profondamente mutata in senso professionale la natura dell’organizzazione militare, ma al contrario è stato fatto ogni sforzo per evitare questo approdo, peraltro inevitabile, nella difesa di uno status quo ispirata a considerazioni le più diverse, ma certo non professionali.

I veri problemi, tuttavia, erano altri e consistevano essenzialmente nel dotare il Paese di una cultura strategica e di una cultura militare. Ma – e qui sta il punto – le due forze politicamente dominanti nel Paese, quella cattolica e quella comunista, erano impossibilitate a farlo dalla loro natura sostanzialmente a-nazionale, dal loro riferirsi ad ideologie internazionaliste profondamente diverse, ma certo prive di qualsiasi ispirazione nazionale. Occorreva trovare una soluzione che consentisse all’Italia di continuare a sviluppare una delle sue peculiarità storiche più negative, vale a dire fingere di fare quello che facevano gli altri, quando in realtà faceva qualcosa di profondamente diverso o, più probabilmente, non faceva nulla. Non c’era alcuna possibilità di sviluppare un concetto di interesse nazionale e tanto meno una cultura strategica nazionale, poiché la cosa fuoriusciva completamente dall’orizzonte culturale e si sarebbe tentati di dire anche antropologico di una classe dirigente che, per basse ragioni di bottega, aveva commesso il grave errore di identificare fascismo e Nazione, con la conseguenza che, invece di fare particolari danni al primo, ormai sconfitto, erano state inferte ferite irreparabili alla seconda, con esiti catastrofici per il futuro del Paese e della sua stessa percezione di sé. Ci sarebbe da interrogarsi a lungo se ciò sia avvenuto a caso o per una scelta politica precisa, ma non è questa la sede. Quel che conta davvero è che, nel momento in cui i mutamenti della politica internazionale richiedevano all’Italia un maggiore protagonismo in termini di produzione di sicurezza, il nostro Paese non disponeva di una cultura che gli consentisse di farlo. Semmai, era da tempo in preda ad una subcultura fatta di stereotipi negativi, di lassismo, di menefreghismo palesemente intesa a far pascere gli italiani, per di più con soddisfatto autocompiacimento, nei loro peggiori difetti, contenti di autorappresentarsi (non necessariamente di essere) nel modo peggiore possibile. E’ sufficiente pensare a certo cinema od a certa letteratura, in cui l’italiano o è cialtrone o non è, nel senso che la cialtroneria viene deliberatamente promossa come dato consustanziale, e ovviamente irrinunciabile, dell’identità nazionale[viii].

Poiché era inammissibile sottrarsi ad obblighi che scaturivano dalla nostra posizione internazionale ed anche da vincoli di alleanza e solidarietà con il mondo occidentale, la via che all’inizio degli anni Ottanta venne scelta per giustificare una sempre maggiore presenza italiana in campo internazionale, presenza affidata essenzialmente alle sue forze militari, fu quella delle “missioni di pace” che, a cominciare dal Libano (1982-1984), presero a diventare la stucchevole litania di accompagnamento di qualsiasi impegno italiano all’estero.

Come è fin troppo noto, c’era e c’è ben poco di realmente pacifico nelle missioni che hanno accompagnato il crescente impegno militare italiano all’estero degli ultimi due decenni. Nella maggior parte dei casi, erano interventi di stabilizzazione e – quel che è davvero importante rilevare e che tutti tendevano (e tendono) invece a sottorappresentare -, se la finalità di fondo era innegabilmente pacifica, non altrettanto lo erano (e non avrebbero potuto esserlo) le modalità di intervento, che, per evidenti motivi tecnici, erano invece di stampo militare tradizionale. Questo secondo aspetto è sempre stato deliberatamente nascosto, persino in occasione di eventi come la battaglia al check point “Pasta” a Mogadiscio (2 luglio 1993), mentre avrebbe dovuto essere rappresentato, anzi sovrarappresentato, anche per rispetto nei confronti dei nostri militari, dal momento che i giusti obiettivi di stabilizzazione di fondo dovevano essere talvolta ottenuti con il ricorso alle armi.

Anche se la nostra classe dirigente – politica e non – tende a negarlo (con pochissime eccezioni di rilievo, ad esempio il generale Carlo Jean), il vero problema di credibilità strategica internazionale dell’Italia dopo la seconda guerra mondiale e l’8 settembre 1943 consiste nel ricostituirsi una credibilità militare. Una grande opportunità in questo senso sarebbe stata offerta dalla partecipazione di una brigata terrestre alla Guerra del Golfo del 1990-91, dato che quel conflitto, che si svolgeva all’interno di una precisa deliberazione dell’ONU, godeva di una legittimazione politica assoluta, che nessuno avrebbe potuto scalfire. Per contro, si è preferito optare ancora una volta sull’impegno aereo e su quello navale, rinunciando a quello terrestre, molto più visibile e impegnativo. O, peggio, si è preferito arrivare con una presenza terrestre in forze a cose fatte, come nel caso del secondo conflitto iracheno, svoltosi peraltro in un quadro di legittimità internazionale assai più fragile, ciò che comunque è servito, in negativo, a consolidare a nostro carico una robusta fama di profittatori. Così come lo sono serviti, sempre in negativo, i milioni di dollari pagati ai rapitori in tentativi più o meno riusciti di recupero di ostaggi, esperiti pure quando un blitz di forze speciali, condotto anche non da soli ma in stretta collaborazione con gli americani, avrebbe enormemente giovato alla nostra immagine internazionale e alla nostra stessa autostima[ix].

La motivazione che viene addotta costantemente a scusante di comportamenti così timidi, rinunciatari o addirittura sgradevoli, da parte della dirigenza politica e militare, è che il Paese, nella sua intima essenza, non avrebbe la fibra per resistere ai drammi ed alle sofferenze di un conflitto. Gli eventi di Mogadiscio e quelli ben più gravi e recenti di Nassiriya (12 novembre 2003) hanno dimostrato invece esattamente il contrario, vale a dire che l’opinione pubblica italiana non è formata da “mammoni” o da vili, ma da cittadini consapevoli che qualunque tipo di impegno internazionale impone i suoi costi, anche in termini di vite umane. In tali occasioni, quindi, non ci sono state manifestazioni di piazza contro il governo, ma un dolore sentito, commosso, composto e partecipe, che spesso ha dato luogo a partecipazioni di folla assolutamente inattese a cerimonie, ufficiali e non, di omaggio ai caduti.

Il problema della mancanza di una cultura strategica non è dunque un problema di base, ma di vertice e, in particolare, di quella che è l’autorappresentazione degli italiani da parte della cultura dominante. Quello italiano è un popolo come gli altri, con pregi e difetti. Quella che è assolutamente peculiare, al punto da costituire un’autentica anomalia, è l’incultura strategica che viene diffusa dal vertice, un vertice che a nessun livello – politico, militare o culturale – riesce ad immaginare l’Italia come Nazione e i suoi cittadini come popolo, come comunità nazionale.

Questa non è purtroppo una novità: se guardiamo alla storia unitaria, i peggiori insuccessi militari italiani, da Adua[x] a Caporetto, dalle tante sconfitte della seconda guerra mondiale all’8 settembre, non sono frutto della codardia popolare, ma della gigantesca insipienza di una classe dirigente, politica e non, che di dirigente aveva soltanto il nome ed i relativi privilegi, non certamente la capacità di acquisire competenze di vertice e tanto meno quella di assumersi le proprie responsabilità. Spesso, nella storia nazionale, le masse si trovano in situazioni difficili e disperate e, salvo pochissime eccezioni, fuggono. Ma chi le ha messe in quelle condizioni, chi le ha gettate irresponsabilmente allo sbaraglio? Chi ha commesso errori politici e tecnici macroscopici? Chi, al momento buono, non si è fatto trovare con i propri soldati a condividere la sconfitta, ma già pronto a ricostruirsi una verginità, a rifarsi una carriera, a far dimenticare le proprie colpe?

Questa irresponsabilità di vertice si è sposata, nel secondo dopoguerra, con una assoluta estraneità delle culture dominanti – cattolica e comunista – alla dimensione nazionale. E quando, nel corso degli anni Novanta, la Prima Repubblica è stata travolta dagli scandali e si è profilata per un attimo la possibilità di un cambiamento, ci si è ben presto resi conto che nessun cambiamento era possibile, dal momento che, se la dimensione politica era in crisi (poi in larga misura rientrata) non lo era per niente la dimensione metapolitica. Non a caso – e crediamo si tratti di affermazione assolutamente incontestabile – il quadro di riferimento culturale in cui si sono svolte le “missioni di pace” all’estero condotte dal governo Berlusconi è il medesimo di quelli in cui si sono svolte le missioni precedenti: lagnosa insistenza sull’ossimoro “soldati di pace”, sovrarappresentazione della “via italiana al peacekeeping” (la tesi che vuole che gli italiani – in quanto “brava gente” – siano molto più capaci di altri popoli ad entrare in relazione con le popolazioni locali: un wishful thinking che cerca di recuperare “in positivo” gli stereotipi che ci portiamo addosso in ambito internazionale – simpatici, allegroni, maniaci del calcio e delle donne, e soprattutto gente “con il cuore in mano” (che all’estero suona in realtà come “inutilmente chiassosi ed emotivi”) – per farne un punto di forza, prescindendo proprio da alcuni fattori fondamentali in certi contesti, come l’impiego della forza stessa, la credibilità e l’effettivo controllo sul territorio, e lasciando comprensibilmente cadere un velo di silenzio su pratiche non propriamente esaltanti, come l’elargizione massiccia di grandi quantità di denaro ad amici e soprattutto a nemici, potenziali e non, a fini di stabilizzazione in nostro favore delle aree affidate al nostro controllo); nessun tentativo di rilegittimazione – ovviamente graduale e progressiva – della funzione militare come funzione “guerriera”.

Sotto quest’ultimo profilo, occorre riconoscere che il governo Berlusconi, ammesso e non concesso che l’abbia cercata, non ha trovato alcuna sponda, sotto il profilo metapolitico, in ambito militare, e non solo perché, restringendo i bilanci della Difesa più ancora di quanto avessero fatto i precedenti esecutivi di centrosinistra, se ne è comprensibilmente alienato le simpatie, ma anche e soprattutto perché – e, tra tutte le anomalie fin qui riscontrate, questa è forse la maggiore – i militari italiani, a parte le solite ristrettissime eccezioni, sembrano i più contenti, da parecchio tempo a questa parte di essere ossimori viventi, di “essere non essendo”, di rinunciare consapevolmente alla loro funzione primaria (quella guerriera) per andare alla ricerca di funzioni altre che restituiscano loro una parvenza di legittimità in un contesto dove, in questo caso del tutto a ragione, percepiscono di non averne alcuna[xi]. Non è un caso che, nel nostro Paese, la più instancabile promotrice della figura risibile dei “soldati di pace” sia proprio l’istituzione militare, con qualche correttivo parziale dovuto ad una residua forma di ritegno, ma con un’insistenza degna di miglior causa. Se, infatti, una modestissima legittimazione su questo versante è stata con il tempo (forse) trovata, il problema (che, sia detto per inciso, sembra sfuggire del tutto ai militari) è che si tratta di una legittimazione a-funzionale, nel senso che sono riusciti a legittimarsi ad essere ciò che non dovrebbero essere. Non ci sembra un gran risultato.

Se si guarda a tutto questo, non è difficile approdare alla conclusione che siamo privi di una cultura strategica per il semplice fatto che siamo impossibilitati ad averne una. La cultura che in questo campo si è consolidata nel nostro Paese negli ultimi decenni è talmente solida da essere diventata – con i meccanismi tipici dei totalitarismi più raffinati, quelli “dolci” – un obbligo a cui nessuna persona di retto sentire è in grado di sottrarsi, per un automatismo di pensiero tipico delle “democrazie guidate”, che è quello per cui si è liberi di pensare ciò che ci viene chiesto di pensare. Se poi per caso questa persona fosse dotata di tanto coraggio o di tanta incoscienza, ci penserebbe il sistema di valori edificato dalla cultura dominante a sottolinearne la “diversità” (quella che si combatte a parole, quando non fa comodo evidenziarla per delegittimare l’avversario), l’estraneità, la stramberia, l’appartenenza a quella che il mondo anglossassone (che la sa lunga in materia, in quanto è l’inventore di tale sistema) è solito definire una lunatic fringe, cioè una frangia di emarginati che non è il caso di prendere troppo sul serio, in quanto lunatici, simpatico eufemismo per non dire pazzi. E’ sufficiente partecipare ad un dibattito pubblico, anche a livelli molto modesti, per constatare di persona, prima ancora di essere contrastati dal moderatore (cosa che, se si sostengono certe tesi, avviene quasi regolarmente, dovunque si sia invitati a parlare), che il problema non è ovviamente quello di esprimere liberamente le proprie idee (questo si può benissimo farlo, tanto nessuno ascolta), ma semmai essere chiamati a farlo in un contesto culturale talmente condizionato da fare apparire provenienti da un altro pianeta (ed essere trattati, per quanto cortesemente, di conseguenza).

Con questo, il cerchio si chiude, ma all’interno del cerchio non rimangono soltanto pochi malcapitati, ma un intero Paese che oggi è costretto dalla sua cultura dominante a “pensare cooperativo”, a fare continue attestazioni di becero pacifismo in una realtà che è sempre più competitiva e che potrebbe presto diventare anche conflittuale. La logica sequenziale non è uno dei punti di forza né della cultura né del carattere nazionale, ma, se venisse usata almeno una volta, potrebbe forse indurre qualche mente di funzionalità anche non superiore alla media a chiedersi quali vantaggi abbia prodotto, per l’Italia come comunità nazionale, ispirare le proprie logiche ad un “buonismo” di facciata (ché la realtà sottostante – come sappiamo – è alquanto diversa e lascia spazio a fenomeni dove il “cattivismo” malavitoso è, a tutti i livelli, assai diffuso) e ad una concezione irenica del mondo: non granché, si potrebbe dire, vista la nostra caduta a picco in tutte le più importanti classifiche internazionali, a favore di Paesi che molti italiani continuano a considerare (anche se magari, in nome del “politicamente corretto”, si astengono dal dirlo) un’accozzaglia di selvaggi.

Il fatto è che, per “pensare strategico” e per avere una cultura conseguente, occorre immaginarsi come popolo, come Nazione, come comunità di destino, non come un insieme malamente coeso di individui e interessi permanentemente in conflitto tra loro. Occorre avere un’etica della responsabilità e degli obiettivi condivisi. Occorre, in una parola, “fare sistema”, come si dice oggi, con un neologismo che può piacere o meno, ma che comunque rende bene l’idea. Sfortunatamente, poco o nulla di tutto questo sta avvenendo e la cosa non è casuale, ma frutto di crescenti ritardi culturali. Accade infatti che coloro che si ritengono all’avanguardia e che continuano a ripetere – a trent’anni di distanza – slogan che andavano bene (forse) a metà degli anni Settanta, sono ovviamente scivolati in retroguardia, anche se non se ne sono accorti. Se continuano ad avere successo, è perché detengono importanti posizioni di potere e perché i loro slogan di amore e fratellanza universali sono quelli che si sposano meglio con quell’”etica dell’irresponsabilità” che pare esercitare un’attrazione irresistibile su una significativa componente dei nostri connazionali. I fautori dell’”impegno” politico nei roaring Seventies sono diventati oggi fautori di un irenismo e di un “buonismo” che si sposa nel migliore dei modi con la paura di affrontare il mondo (e il mercato) che è tipica di chi sa che da un confronto globale ha tutto da perdere e poco o nulla da guadagnare, da chi non ha voglia di impegnarsi, di lottare, di sforzarsi, e preferisce le piccole certezze di un’esistenza garantita (che avrò per me, mio figlio – ormai è chiaro – non ne avrà alcuna: ecco uno splendido esempio di senso della comunità e della continuità…), di un anonimato, di un rifugiarsi nel cantuccio che sarebbe anche allettante, almeno per qualcuno, se potesse durare in eterno, ma che invece è frutto di un capitale faticosamente accumulato in passato ed ora in via di dissoluzione per eccesso di consumo irresponsabile.

L’”assenza dalla Storia” – il sogno neanche tanto proibito di una parte non trascurabile di italiani – è però un sogno impossibile, perché non ci si può assentare dalla dinamica storica, anche se molti provano seriamente a farlo. Su questo sfondo, la speranza che l’Italia possa cominciare a “pensare strategico” è più di un sogno, è probabilmente un’autentica utopia. Che però, come tutte le utopie, ha quanto meno il merito di indicare obiettivi, di porre traguardi. E ci si può muovere nella sua direzione per piccoli passi, senza traumi particolari, alla sola condizione di voler sottrarsi al nullismo odierno, alle parole d’ordine sbagliate, alle false verità ripetute stancamente come slogan di regimi totalitari. In caso contrario, perdurerà e ovviamente si aggraverà una condizione di vuoto culturale che è soprattutto una condizione di vuoto strategico. Quel che è certo è che, in futuro, o acquisiremo una dimensione internazionale competitiva, e tutti gli strumenti utili a farlo, tra cui una cultura strategica e una militare, o cesseremo letteralmente di esistere e ritorneremo ad essere quell’”espressione geografica” di cui parlava con disprezzo il Metternich. Il vero problema è che questa è probabilmente una prospettiva assai allettante per molti italiani.

Piero Visani

 

NOTE

 

[i] Su Caporetto, si leggano le illuminanti considerazioni di M. SILVESTRI, Caporetto. Una battaglia e un enigma, Mondadori, Milano 1984, in particolare per quanto concerne il “filo rosso” che lega l’”Italia caporetta” a quella dell’8 settembre 1943 e, per molti versi, a quella di sempre.

[ii] In proposito chi scrive, giovane laureando in Storia all’Università di Torino con una tesi di storia militare, all’inizio degli anni Settanta ebbe il privilegio di raccogliere in tal senso la testimonianza diretta di uno dei massimi storici militari italiani, Piero Pieri, ormai molto anziano ma ancora lucidissimo nel riaffermare la propria volontà, quale interventista di Sinistra, di “dimostrare al mondo che gli italiani sapevano battersi”.

[iii] Sul tema, resta fondamentale il saggio di E. GALLI DELLA LOGGIA, La morte della patria, Laterza, Roma-Bari 1996.

[iv] Sul tema si legga l’interessantissimo saggio di E. AGA ROSSI, Una nazione allo sbando. L’armistizio italiano del settembre 1943, nuova edizione, Il Mulino, Bologna 1998.

[v] Sono note, ad esempio, le polemiche sulla reale natura dei fatti di Cefalonia del settembre 1943.

[vi] Si leggano, sul tema, le impietose ma in larga misura condivisibili valutazioni di G. ROCHAT, Le guerre italiane 1935-1943. Dall’impero d’Etiopia alla disfatta, Einaudi, Torino 2005.

[vii] La questione meriterebbe un’indagine a parte. Quello che si può dire in questa sede è che, se il fascismo fosse stato realmente militarista, al di là di qualche modesta esibizione di facciata, avrebbe fatto ogni sforzo per ammodernare le forze armate e, soprattutto, per sottrarle al controllo di un corpo ufficiali ottusamente conservatore, misoneista e, in non pochi casi, professionalmente incompetente.

[viii] Per fare un esempio molto chiaro, si pensi all’interpretazione di uno sport molto popolare come il calcio in due film diversi, ma entrambi piuttosto noti (il secondo addirittura premiato con l’Oscar per il migliore film straniero nel 1992): Fuga per la vittoria (Escape to Victory) di John Huston (1981) e Mediterraneo di Gabriele Salvatores (1991). Nel primo, il calcio è uno strumento con il quale dei combattenti, per quanto in misura largamente prevalente civili in uniforme e non soldati di professione, cercano di ridicolizzare il nemico e al tempo stesso di farne uno strumento per sottrarsi alla prigionia; dunque è un mezzo, non un fine. Nel secondo, il calcio è la rivendicazione dell’identità nazionale: nel mezzo di una bufera planetaria, la partitella (neppure una partita regolare in uno stadio vero, come nel film precedente) in un campetto di fortuna di un’isola greca è il modo per riconoscersi, per affermare (sic) un sé, per trasmettere al mondo il messaggio: “gli altri facciano pure le guerre, noi ci facciamo la partita” e – quel che è peggio – ci riconosciamo come tali solo quando la facciamo. Qui dunque il calcio è un fine, non un mezzo; è il punto di convergenza di un’identità fragile, è l’esteriorizzazione dell’irresponsabilità più totale.

[ix] Su questo sfondo, la vicenda di Fabrizio Quattrocchi e della sua nobilissima rivendicazione a “far vedere come muore un italiano” si pone a livelli di altezza tali da risultare gravemente stridente con il resto. Il che ne accresce ovviamente la portata.

[x] Su Adua e la mancanza di preparazione e di professionalità che già in quella circostanza (ma c’erano illustri precedenti come Custoza e Lissa nel 1866) venne palesata dalla classe militare italiana, si veda D. QUIRICO, Adua. La battaglia che cambiò la storia d’Italia, Mondadori, Milano 2004.

[xi] Il tema in questione è sostanzialmente tabù nel nostro Paese, per cui, essendo chi scrive uno dei pochi che ha cercato di svilupparlo, per altro in semiclandestinità, è purtroppo costretto a ricorrere all’autocitazione: cfr. P. VISANI, Forze Armate, mass media ed opinione pubblica nell’Italia attuale. Cause e problemi di un difficile rapporto, Roma 1994

cretini e (AL) potere, di Antonio de Martini

Aneddoti e ricostruzioni illuminanti_Giuseppe Germinario

LARGO AI CRETINI

I giovani italiani degli anni 50, ebbero le prime notizie della guerra da un libro che riscosse notorietà: Navi e Poltrone di Antonino Trizzino.

Il libro, molto preciso nella descriziomne degli eventi, narra le vicissitudini della guerra navale nel Mediterraneo, attribuendo, senza prove, le nostre perdite e sconfitte al tradimento di alti gradi della Marina.

Ora che le vicende belliche passate non interessano più granché, la storiografia ci sta spiegando che gli inglesi disponevano delle chiavi dei cifrari tedeschi, giapponesi ed anche italiani.

abbiamo anche appreso che gli inglesi ( e i tedeschi) avevano il radar, frutto delle ricerche di Guglielmo Marconi e della società che aveva creato in Gran Bretagna, perché nella natia Bologna nessuno se lo era filato.

Gli inglesi protessero i loro progressi tecnologici con grande cura, disposti anche a perdere una battaglia pur di non rivelare come vincevano le guerre. L’industria e lo stato si coordinavano in uno sforzo nazionale coordinato.

Noi italiani siamo invece ancora oggi in preda ad atteggiamenti paranoici che cercano la spiegazione di tutto nel tradimento della Patria, nell’odio tra italiani e nell’intrigo. Si cerca tutto e non si spiega nulla. Come a Genova oggi.

Nella realtà italiana di sempre, c’è diffidenza generalizzata verso il nuovo, malattie mentali diventate moda apprezzabile, disprezzo verso la tecnologia, ammirazione verso la furbizia da tre soldi e ricerca delle apparenze.

Esempi?

La tecnologia: Guglielmo Marconi fu nominato presidente della Accademia d’Italia, ma le sue scoperte considerate utili solo per la propaganda, al punto che il Vaticano lo sciolse dal vincolo matrimoniale in cambio della costruzione della Radio vaticana.

Fermi fu lasciato partire ( per le sciagurate leggi razziali che colpivano la moglie) benché avesse già posto le basi dell’energia nucleare. Un concorrente in meno per la cattedra.

La megalomania: aver fatto la guerra senza mai essersi chiesti come mai il nemico di notte ci vedeva e noi no.
Come mai le nostre navi venivano intercettate in mare e affondate. Come mai i nostri rifornimenti erano colpiti con precisione millimetrica. .

Il pressapochismo: dopo l’occupazione dell’Albania, ci addentrammo in territorio greco con pattuglie e scoprimmo che i greci stavano fortificando a ritmo forsennato la zona di accesso verso Atene. I nostri avvertirono l’alto comando che senza un attacco immediato non sarenno più potuti passare.

L’alto comando ignorò l’avvertimento ( come oggi furono ignorati gli avvertimenti del ponte di Genova….).

L’autoassoluzione per evitare accuse agli amici: Dopo l’attacco al porto di Taranto dove ci silurarono in porto una corazzata ed altro noviglio, quando una commissione tedesca ( su richiesta giapponese…) ci chiese quali ammaestramenti avessimo tratto dall’evento, rispondemmo che si era trattato di una fatalità che ci colse di sorpresa !

L’intelligence inglese, invece, capì dall’interessamento giapponese ( nella commissione tedesca che venne a indagare, c’era una spia) che il giappone aveva deciso un attacco aeronavale e capi ( dalle domande circostanziate dei giapponesi) che si sarebbe trattato di Pearl Harbour.

La persecuzione dei capaci: Felice Ippolito aveva portato l’ente italiano per l’energia nucleare a livelli di eccellenza: Lo accusarono di aver usato a Cortina d’Ampezzo la jeep dell’ente per una gita. la coalizione dei cretini ( dal magistrato al politico, al giornalista) fece il resto. Al fisofofo Gallupi, offrirono la possibilità di un concorso a cattedra a Napoli, solo dopo che assurse a fama europea.

Anni dopo, Achille Albonetti, sempre del CNEN, subì la stessa sorte a causa del suo attivismo.

L’assessore di Roma – non ricordo più il nome) che costruì lo svincolo del muro torto e i sottopassaggi dei lungotevere ( senza i quali la circolazione sarebbe impossibile oggi) fu scartato dalla DC e i suoi piani bocciati, per timore che diventasse sindaco.

I dieci eminenti cittadini che fecero un ” appello per una Nuova Repubblica” denunziando la partitocrazia nel 1965, subirono l’ostracismo per trenta anni.
Giano Accame, quando si accorsero di lui, non trovò un posto per oltre venti anni, dato che ogni direttore temette di essere soppiantato da uno scrittore tanto più capace.

Il generale Mori, riesce a catturare il capo della Mafia? Da quel giorno, – sono passati quattordici o quindici anni, è sotto inchiesta per motivi cangianti come la pelle di un camaleonte. L’unica costante è il gruppo dei cretini che ne ha ostacolato la carriera.

Cambiano i regimi, le ideologie e i governanti, ma la selezione a rovescio della classe dirigente è il presidio dell’equilibrio di potere nelle città come nei governi nazionali: l’intelligenza, la cultura e il senso del dovere devono soccombere di fronte alle esigenze dei mediocri e degli ignoranti che trionfano.

Insomma, da quando i costruttori dell’impero di Roma si trasferirono a Costantinopoli ( La nuova Roma ) lasciando la città in mano a schiavi, liberti ed eunuchi, , questi crearono la cultura del dominio dei mediocri in un atteggiamento permanente contro l’eccellenza, la capacità e il valore individuale.

E il cristianesimo è il custode di questa ideologia della mediocrità imbelle presentata come “amore per i più svantaggiati, deboli e i giovani”. Di che amore si tratti in realtà, cominciano a scoprirlo in questi giorni anche i più distratti..

IL CASO DE LORENZO ALTRA PROVA DEL PREVALERE DEI CRETINI.

Tra i casi di persone capaci e intelligenti oppresse dai mediocri, merita un citazione speciale quello del generale Giovanni de Lorenzo.

Dopo la defenestrazione del generale Cadorna che fece seguito a Caporetto nel 1917, è stato l’unico caso di un generale destituito dall’incarico di capo di Stato Maggiore dell’Esercito.

L’accusa lanciata dal settimanale l’Espresso era di aver tentato un colpo di Stato con la complicità del Presidente della Repubblica Antonio Segni mentre era comandante generale dell’arma dei carabinieri.
In realtà colpiva il capo di Stato maggiore che aveva cancellato un triennio di forniture FIAT concordate con il predecessore ( Aloia).

L’occasione nacque perché de Lorenzo ( penna bianca per i suoi del SIFAR) si era attirato le ire del nuovo presidente della Repubblica Giuseppe Saragat, per aver – come da compito di istituto- indagato sui candidati alla presidenza.

Il capo del centro di controspionaggio di Roma – il colonnello Fiorani- aveva rivelato i dettagli della inchiesta al figlio di Saragat suo compagno di merende a Parigi dove entrambi avevano lavorato in Ambasciata.

Quando Saragat chiese di vedere il dossier, gli fu risposto che era stato distrutto – vero- ma Fiorani spiegò che se fosse stata fatta una richiesta di informazioni all’Arma territoriale, si sarebbe poptuto ricostruire il dossier.

La ricostruzione – riguardava i comportamenti malati del padre del presidente caduti sotto l’occhio dei CC di Torino e la vicenda del fratello morto suicida sul pianerottolo di una prostituta – scatenò l’ira furibonda dell’interessato che chiese l’immediato arresto di de Lorenzo.

Ci volle del bello e del buono per dissuaderlo e ad accontentarsi della destituzione, ma aveva fatto i conti senza le cautele prese dall’ex capo servizio che aveva custodito copiosa documentazione, penalmente rilevante, a carico dei più bei nomi della classe di governo.

Trattative furono svolte tramite un consigliere di Stato ( Lugo) , gli fu offerta la nomina ad Ambasciatore ( in Brasile), ma il generale tenne duro e giunse a querelare l’Espresso, ma fu tutto inutile.

Dalla CIA giunse il generale Walters che tentò una mediazione , ben sapendo che de Lorenzo si era limitato a compiere doveri previsti dai protocolli NATO ( ad es schdatura degli elementi comunisti attivi anche sul piano clandestino) e di quelli presenti nelle FFAA ( circolare R/300).

De Lorenzo fu destituito come se avesse perso una guerra e per difendersi dall’ arresto si fece eleggere deputato.

Al suo posto, nominarono il generale Vedovato , fratello di un deputato DC.

Il suo autista, fedele e ncolpevole, fu trasferito alla stazione di Acilia in modo che dovesse fare un paio di ore di viaggio ogni giorno per recarsi in caserrma.

Tutto questo fu reso più facile dal tradimento della fiducia posta da de Lorenzo nel generale Allavena che lo aveva sostituito al SIFAR. Un soggetto meno che mediocre al cui fratello la FIAT diede una concessionaria ancora attiva.

Poco dopo Allavena scopri di avere un cancro allo stato terminale. Scrisse, a riprova della mediocrità, su carta intestata, una lettera al suo vecchio capo ammettendo che , se avesse saputo di morire in così breve tempo, non l’avrebbe tradito.

La storia è lunga e l’ho condensata in sei post sul http://corrieredellacollera.com dei mesi di settembre e ottobre 2011 se qualcuno volesse tutti i dettagli.

Quel che conta ai fini di questa storia, è che appena sorse un uomo che aveva reso l’intelligenceitaliano interlocutore privilegiato degli USA nel Mediterraneo e al costo di settemila biciclette aveva convinto l’Alfa Romeo a cedere tremila Giuliette motorizzando le forze dell’ordine, il sistema ( Agnelli ) lo espulse e colpì senza badare agli uomini ne ai mezzi.

e tanto meno alle istituzioni.
I mediocri coi miliardi sono una vera iattura.

A PROPOSITO DEI CRETINI ECCO UN ESEMPIO A SPESE DI UN PICCOLO MAGGIORE E DELL’ITALIA.

Maggiore, ebreo, istriano, piccolo di statura. Il maggiore Pettorelli Lalatta ( all’epoca Finzi), capo del servizio “I” della Prima Armata schierata in trentino nel 1917 ha un colpo di fortuna: un sottufficiale boemo si presenta alle nostre linee come ” parlamentario” a nome del suo comandante di battaglione. Vogliono disertare trattandone i termini.

Il maggiore intuisce che potrebbe essere vero, va in prima linea, attraversa le trincee e incontra il tenente PIVKO, comandante di un battaglione bosniaco, nativo sloveno, che ha deciso di non limitarsi a disertare, ma di infliggere il massimo dei danni alla prosopopea austro-ungarica.

In pochi pericolosi incontri notturni sul fronte fanno un piano. Carzano è a soli 40 km da Trento e la zona è difesa da un velo di truppe dato che il grosso viene ammassato in Veneto dove si sta preparando un attacco frontale.

Una penetrazione a sorpresa prenderebbe alle spalle l’intero esercito nemico e porrebbe termine alla guerra.

Finzi riesce fortunosamente a giungere fino a Cadorna che approva il piano audacissimo.

Finzi studia ogni particolare: gli uomini fedeli a Pivko faranno da guide ai nostri reparti, mentre agli altri militari nemici verrà dato vino con oppio per addormentarli. Tutta la linea tenuta dal battaglione sarà sgombra per l’intera notte.

Come da promessa a Cadorna, Finzi parte alla testa del primo reparto di bersaglieri incaricato di prendere Carzano e assicurare il passaggio al resto dei nostri approfittando della notte. la strada è una valle priva di ostacoli. Al mattino , entrando in una Trento sguarnita di forze, la guerra sarà praticamente vinta. Cadorna assegna due divisioni della prima Armata a questa operazione.

Quando dopo ore di trepidazione Finzi torna indietro per vedere come mai la brigata comandata dal generale Zincone che doveva essere la prima a partire, non avanza, si accorge che – benché consapevoli che la via fosse libera- i soldati vengono avviati per un camminamento singolo dilatando i tempi come se fossero di giorno e sotto il fuoco.

Cerca Zincone e lo trova semi sbronzo assieme al comandante di Armata – il generale ETNA, un figlio naturale del re – mentre stanno disputandosi a tavolino l’onore di entrare a Trento.

Invita Zincone a muovere rapisissimo la brigata. Il vile rifiuta.

Ormai albeggia, le vedette dell’artiglieria austriaca danno l’allarme, inizia il fuoco di sbarramento, affluiscono in tutta fretta reparti raffazonati di riserva. Il battaglione di bersaglieri che presidiava Carzano viene sterminato.

La reazione di Cadorna è furibonda: una commissione presieduta dal generale Pecori Giraldi indaga e riferisce.

L’essere figlio naturale del re non salva Etna che assieme a Zincone vengono destituiti e le divisioni componenti la prima armata – che viene sciolta- vengono assegnate alle altre grandi unità.

Lo stato maggiore dell’Armata che aveva osteggiato il piccolo maggiore che aveva osato fare da solo un piano audace e fattibile viene disperso.

A Finzi, decorato dell’Ordine Militare di Savoia ( la massima onorificenza) , viene tappata la bocca. e quando nel 1928 pubblica un libro sulla ” Occasione perduta” di Carzano, il libro viene sequestrato. Cadorna scrive in quei giorni al figlio che ha provato “la più grande furia di tutta la guerra”.

Un mese dopo gli austriaci attaccano a Caporetto.

Se avessimo sfondato, non ci sarebbe stata ne Caporetto, ne la rivoluzione russa di ottobre dato il crollo austriaco.

Sabato e domenica 16 settembre prossimo, a Carzano si commemora il sacrificio dei nostri bersaglieri assieme ai quali ha voluto essere sepolto anche il piccolo maggiore diventato generale. Partecipa tutto il paese.
Partecipa, come ogni anno, una rappresentanza austriaca, la associazine bersaglieri con fanfare locali e nessuno dello Stato Maggiore dell’Esercito. Meglio così.

Tra i bersaglieri di Carzano, c’era un certo Mursia ed è all’omonimo all’editore, discendente del bersagliere, che dobbiamo la fortuna di una limitata ristampa dell’opera dell’ormai generale Pettorelli Lalatta negli anni sessanta.

Il tenente Ljudevit Pivko, considerato in Slovenia un eroe nazionale, finì la guerra al comando di un battaglione italiano e contribuì alla creazione di reparti di irredentisti slavi.
Il sottufficiale che fece da “parlamentario”, quando nel 1938 Hitler occupò la Cecoslovacchia, fu impiccato.

Il libro di memorie, interessantissimo, di Pivko, ” Abbiamo vinto l’Austria Ungheria” è edito in italiano dalla Goriziana.

PER FINIRE

Dopo il martellamento sistematico dei media che tendono a colpevolizzare tutti gli italiani per ” le persecuzioni antiebraiche” credo sia il momento di intervenire e chiarire – se necessario con più post – che un popolo intero non è mai razzista al completo, nemmeno i tedeschi.

Si tratta di decisioni prese a tavolino per delegittimare, quando non addirittura derubare intere categorie di cittadini.

La vicenda, sordida in ogni aspetto, inizia, come al solito, con i pareri di autorevoli esperti. In questo caso di dieci ” scienziati” di cui però nessuno fa il nome, perché aprirono la via alle persecuzioni, alla sostituzione di libri di testo, alla decadenza da cattedre universitarie, alla disponibilità di posti nel pubblico impiego, fino all’assecondare le persecuzioni fisiche una volta iniziata la guerra.

Il 14 luglio 1938, si noti la data, i seguenti professori pubblicarono il Manifesto che diede una “base scientifica” all’esistenza di una ” razza italiana”.

Firmatari, furono i professori:

Lino Businco
Lidio Cipriani
Arturo Donaggio
Leone Franzi
Guido Landra
Nicola Pende
Marcello Ricci
Franco Savorgnan
Sabato Visco
Edoardo Zavattari

A ottobre, il Gran Consiglio del Fascismo emanò una direttiva su come trattare gli ebrei e il 17 Novembre, il re Vittorio Emanuele III firmò una delibera del Consiglio dei ministri , addirittura inasprita rispetto a quanto chiesto da Gran Consiglio.

Le banche non furono da meno: Poiché un ebreo non poteva possedere terreni con un estimo superiore a cinquemila lire e proprietà di valore che superasse le ventimila, si aprì un lucroso mercato.

Venne costituito un ENTE PUBBLICO : l’EGELI ( Ente per la gestione e liquidazione immobiliare con Regio Devreto del 27 marzo 1939).

I beni sottratti ai legittimi proprietari vennero gestiti da diciannove banche tra le quali: ISTITUTO SAN PAOLO di TORINO; MONTE DEI PASCHI di SIENA; CASSA DI RISPARMIO DELLE PROVINCIE LOMBARDE; ISTITUTO DI CREDITO FONDIARIO DELLE VENEZIE e di VERONA: ecc
Noterete tutti l’assenza del Banco di Napoli e di altri istituti meridionali.

I dieci ” scienziati” non si limitarono agli scritti, presero accordi diretti e operativi con Hitler, Himmler ed altri, alimentarono il dibattito con un apposito ufficio ( che si disputrono tra Visco e Pende) e con la rivista ” La Difesa della Razza” cui collaborò Amintore Fanfani oltre che il futuro PCI Zangrandi.

A presiedere ” Il tribunale della razza” , un giurista di vaglia, ( stavo per dire di razza) primo presidente della Corte d’Appello: Gaetano Azzariti, che divenne nel 1957 il primo presidente della Corte Costituzionale di questa Repubblica.

Al dibattito partecipò volentieri anche ” La civiltà cattolica “, rivista dei gesuiti, auspicando “una soluzione del problema ghetto”.
Durante il conflitto, furono deportati ottomila ebrei italiani ( di cui 700 bambini).
Al manifesto aderirono 300 personalità a partire dai principali gerarchi ed alcuni intellettuali che non avreste mai dett.

Il grosso del popolo rimase estraneo a questa scelta sciagurata che divise un popolo fino ad allora non aveva conosciuto fratture di rilievo.

E’ lo stesso senso di estraneità che proviamo oggi di fronte alle commemorazioni fasulle che la TV ci impone oggi, ma senza fare nomi per non dispiacere ai parenti ancora annidati in RAI.
.

Va detto che esistettero anche oppositori fieri e dignitosi e il numero dei più attivi buoni pareggia, grosso modo, quello dei più cattivi di segno opposto.

In Israele hanno creato il Muro dei Giusti che ospita 17.500 nomi. Di questi 295 ( tra cui Perlasca) sono italiani.

Centocinque istituti religiosi della capitale ospitarono ebrei in fuga. Come vedete, l’Italia si divise a metà e i soliti zeloti conformisti cretini si annidarono dove poterono ( ministeri, enti, polizie) , sopravvissero alla reazione post bellica e ci hanno governato con riti e decreti ( e sequestri di beni da amministrare con discrezione) similari solo che hanno cambiato bersagli. Con gli ebrei non conviene più.

Questi ed altri dettagli – e tanti altri nomi illustri – potrete leggerli nel bel libro di un amico oggi purtroppo scomparso, FRANCO CUOMO.

Si intitola ” I DIECI” edito tra i saggi di BADINI, CASTOLDI; DALAI

Da questo resoconto sommario, si deduce che la legge dei cretini è valida anche quando la storia segna i momenti di lutto più tragici.
Resistono a tutto e tronano a galla.