L’Occidente va verso una escalation della guerra in Ucraina?_di Arta Moeini

L’Occidente va verso una escalation della guerra in Ucraina?

A distanza di un anno, non si intravede la fine del conflitto

di ARTA MOEINI

Arta Moeini è Direttore di Ricerca dello Institute for Peace and Diplomacy and direttore-fondatore di AGON. @artamoeini

 

È passato appena un giorno dalla richiesta di carri armati tedeschi Leopard-2 da parte dell’Ucraina, quando il governo di Kiev ha chiesto ai Paesi della NATO di dimostrare ancora una volta la loro solidarietà con la fornitura di caccia F-16 di produzione statunitense. Sebbene gli esperti militari dubitino che questi veicoli modificheranno in modo significativo la situazione sul campo di battaglia, Kiev li pubblicizza come importanti simboli della determinazione politica dell’Occidente.

“La guerra è la continuazione della politica con altri mezzi”, scriveva Clausewitz nel 1832. A un anno dalla guerra russo-ucraina, qual è la politica dell’Ucraina? O l’America, la Germania e gli altri alleati della Nato? I ripetuti appelli dell’Ucraina per un maggiore sostegno e la risposta accomodante dell’Occidente sono un caso di sfruttamento della “pubblicità strategica”, di diplomazia performativa, di solidarietà dell’alleanza o di qualcosa di completamente diverso? Dopotutto, per quanto gli ucraini stiano combattendo contro le forze russe e subendo ingenti perdite per proteggere l’integrità territoriale dello Stato ucraino, oggi la Nato è apertamente impegnata in una guerra per procura che rischia di trasformarsi in un conflitto catastrofico tra Occidente e Russia.

Sebbene il realismo in politica estera possa aiutare a delineare, persino a prevedere, i contorni generali della guerra e a spiegare la politica di Mosca e Kiev, questa posizione realista mainstream, rappresentata da personaggi come John Mearsheimer, fornisce un resoconto incompleto del comportamento della maggior parte degli alleati occidentali, soprattutto degli Stati Uniti. Per comprendere il processo decisionale occidentale e le peculiari dinamiche interalleate della Nato, abbiamo bisogno di un realismo più radicale che prenda in seria considerazione le dimensioni non fisiche, psicologiche e “ontologiche” della sicurezza – comprendendo il bisogno di uno Stato o di un’organizzazione di superare l’incertezza stabilendo narrazioni e identità ordinate sul proprio senso di “sé”.

Tuttavia, i conti realisti “strutturali” – incentrati sull’anarchia sistemica, la sicurezza fisica, l’equilibrio di potere e le dimensioni politiche della strategia – possono aiutare a spiegare alcuni aspetti del processo decisionale strategico dell’Ucraina. In un recente studio per l’Institute for Peace & Diplomacy, di cui sono coautore, abbiamo analizzato le ragioni strutturali che guidano il calcolo strategico dell’Ucraina. Abbiamo suggerito che, in qualità di “equilibratore regionale”, l’Ucraina ha corso un rischio enorme sfidando le linee guida russe sul rifiuto esplicito da parte di Kiev delle offerte della Nato e sull’interruzione di qualsiasi integrazione militare con l’Occidente. Si trattava di una mossa massimalista che presupponeva il sostegno militare occidentale e rischiava di provocare attivamente Mosca a proprio svantaggio strategico.

Scegliendo la strategia più rischiosa, a somma zero, volta a ostacolare la sfera di influenza storica e geopolitica di una potenza regionale e civile vicina, l’Ucraina è stata forse imprudente, ma non per questo irrazionale. Come abbiamo scritto:

Praticamente tutte le alleanze di sicurezza americane oggi sono accordi asimmetrici tra gli Stati Uniti e gli equilibratori regionali – una classe di Stati regionali più piccoli e periferici che cercano di bilanciarsi con le medie potenze dominanti nelle rispettive regioni. In quanto grande potenza, l’America possiede una capacità intrinseca di invadere altri complessi di sicurezza regionale (RSC). In questo contesto, è ragionevole che gli equilibratori regionali cerchino di attirare e sfruttare il potere americano al servizio dei loro particolari interessi di sicurezza regionale“.

Fissare un obiettivo così elevato, tuttavia, significava di fatto che Kiev non avrebbe mai potuto avere successo senza un intervento attivo della NATO che spostasse l’equilibrio di potere a suo favore. In virtù della sua decisione, l’Ucraina, insieme ai suoi partner più stretti in Polonia e nei Paesi baltici, è diventata il classico “alleato di Troia” – Paesi più piccoli il cui desiderio di avere un peso regionale contro la media potenza esistente (la Russia) si basa sulla capacità di persuadere una grande potenza esterna e la sua rete militare globale (in questo caso, gli Stati Uniti e, per estensione, la Nato) a intervenire militarmente a loro favore. Come abbiamo notato nel nostro studio, “questo avviene con grandi rischi per l’equilibratore regionale e con grandi costi per la grande potenza esterna“. Infatti, in ultima analisi, l’accordo dipende dalla “minaccia dell’uso della forza e dell’intervento militare” da parte della grande potenza esterna, senza la quale l’equilibratore regionale fallirebbe.

L’ambizione strategica dell’Ucraina è quella di superare la Russia una volta per tutte e di staccarsi dal controllo storico di Mosca. Mettendo da parte le pretestuose e facili giustificazioni russe per l’invasione, che cercano di parodiare l’intervento militare della NATO in Jugoslavia, è lo schiacciamento di questa più grande ambizione ucraina a motivare il Cremlino. Questo spiega l’annessione della Crimea da parte di Mosca nel 2014, le sue aspirazioni agli accordi di Minsk e il ricorso finale all’azione militare.

Una volta iniziata l’invasione russa, l’obiettivo di Kiev di contrastare Mosca e mantenere intatti i propri territori è diventato impossibile senza un intervento militare occidentale. Il futuro dell’Ucraina come Stato sovrano dipendeva dalla sua capacità di organizzare con successo un’escalation. Dal punto di vista dell’Ucraina, quindi, il desiderio di ricevere forniture di armamenti sempre più sofisticati dalle nazioni occidentali più potenti non è motivato principalmente dal loro immediato impatto pratico e tattico – dopo tutto, la consegna e l’addestramento per questi sistemi saranno ancora lontani mesi. No, le richieste ucraine derivano in gran parte da ciò che l’introduzione di queste armi rappresenterebbe dal punto di vista politico e dalle conseguenze geostrategiche a lungo termine per la prossima fase della guerra.

È infatti nell’interesse di Kiev indirizzare la NATO verso un maggiore coinvolgimento nella guerra. L’Ucraina ha fatto ricorso a una combinazione di tattiche – tra cui la guerra d’informazione e lo sfruttamento del senso di colpa storico dell’Occidente – per istigare una cascata informativa e reputazionale tra i membri della NATO che assicurerebbe l’adesione alle richieste ucraine. Date le sue chiare debolezze a lungo termine in termini di truppe ben addestrate, artiglieria e munizioni, il governo Zelensky ha combattuto astutamente una guerra ibrida fin dall’inizio, sapendo che l’Ucraina non può sconfiggere la Russia senza che la Nato combatta al suo fianco. La domanda che ci si pone ora è se l’Occidente debba lasciarsi intrappolare in questa guerra, mettendo a rischio il destino del mondo intero.

Secondo la concezione materialista della sicurezza offerta dalla maggior parte dei realisti, per l’America e l’Europa occidentale non ci sono grandi vantaggi, e certamente non c’è un vero interesse nazionale o strategico, nel farsi trascinare in quella che è essenzialmente una guerra regionale in Europa orientale che coinvolge due diversi Stati nazionalisti. Da un punto di vista ontologico, tuttavia, un establishment di politica estera anglo-americano che si “identifica” fortemente con l’unipolarismo statunitense ha investito molto nel mantenimento dello status quo, impedendo la formazione di una nuova architettura di sicurezza collettiva in Europa, che sarebbe incentrata su Russia e Germania piuttosto che sugli Stati Uniti. Come ha osservato l’analista geopolitico George Friedman nel 2015: “Per gli Stati Uniti, la paura primordiale è… [l’accoppiamento di] tecnologia e capitale tedeschi, [con] risorse naturali russe [e] manodopera russa”.

Forse seguendo una logica simile, l’establishment statunitense ha lavorato per distruggere qualsiasi possibilità di formazione di un asse Berlino-Mosca allineandosi con il blocco Intermarium di Paesi dal Baltico al Mar Nero, opponendosi ripetutamente (e minacciando apertamente) i gasdotti Nord Stream e respingendo deliberatamente l’insistenza russa su un’Ucraina neutrale. In relazione all’Ucraina, l’obiettivo iniziale di un’alleanza ideologica occidentale orientata verso “valori condivisi”, come la Nato è diventata con la dissoluzione dell’URSS, era quello di trasformare il Paese in un albatros occidentale per la Russia[1], di impantanare Mosca in un vasto pantano per indebolire la sua potenza e la sua influenza regionale, e persino di incoraggiare un cambio di regime al Cremlino.

Se si accetta la logica di questa strategia, allora sembra plausibile un limitato sostegno militare occidentale agli obiettivi di guerra ucraini – diretto a creare una guerra d’attrito congelata. Tuttavia, anche in questo scenario, l’espansione della portata e del grado di tale sostegno fino a includere sistemi d’arma avanzati, come gli F-16 o i missili a lungo raggio, non è solo imprudente, ma sempre più suicida in qualsiasi calcolo costi-benefici. Un sostegno così esplicitamente ostile potrebbe far degenerare la guerra per procura in una guerra diretta e convenzionale – uno scenario da terza guerra mondiale, che il Presidente Biden insiste di voler evitare. Inoltre, nell’improbabile caso che tale assistenza militare espansiva riesca a cacciare le forze russe dal Donbass, per non parlare della Crimea (dove la Russia possiede una grande base navale), aumenterebbe drammaticamente la probabilità di un evento nucleare, dato che Mosca considera la protezione della sua roccaforte strategica nel Mar Nero come un imperativo esistenziale.

Perché, allora, l’Occidente continua ad assecondare l’Ucraina e a cedere alle pressioni reputazionali e al braccio di ferro dei nuovi membri della Nato nel corridoio Intermarium? Le cause sono molteplici e vanno dagli interessi privati e istituzionali dell’establishment internazionalista liberale alla diffusione di una visione del mondo manichea all’interno dell’alleanza. Il più importante, tuttavia, è il fenomeno della compulsione di gruppo verso l’escalation aggravata dall’insicurezza ontologica, che si verifica quando eventi storici mondiali improvvisi e tragici come l’invasione russa sconvolgono il senso unitario di ordine e continuità nel mondo.

Esacerbata dall’allargamento e dalla trasformazione della NATO in un colosso istituzionale di circa 30 nazioni con percezioni diverse della minaccia e della sicurezza, questa coazione ha plasmato e rafforzato una “identità” unificata tra le nazioni occidentali – una narrazione del tipo “noi contro loro”. In una condizione di insicurezza ontologica, le correnti socio-psicologiche ed emotive permettono di creare cascate di reputazione, di imporre il conformismo in nome dell’unità dell’Occidente e di rafforzare la “polarizzazione di gruppo” intorno alla scelta più rischiosa, che garantisce l’adozione di politiche più estreme ed escalatorie. E, cosa fondamentale, gli alleati-cavallo di Troia usano comprensibilmente queste dinamiche per promuovere i loro reali interessi nazionali e di sicurezza all’interno dell’alleanza, che danno loro un ruolo molto più importante nel processo decisionale di quanto il loro potere relativo potrebbe far pensare.

Un’analisi più attenta del discorso interalleanza all’interno della Nato rivela anche una psicologia attivista che si cela sotto il segnale politico e ideologico. Dato che l’ideologia – in particolare l’umanitarismo e il democratismo liberali – gioca un ruolo chiave nel mantenimento dell’alleanza, il suo processo decisionale è predisposto alla fallacia dell’action bias: l’idea che fare qualcosa sia sempre meglio che non fare nulla. Questa sorta di mentalità reciproca, che si rafforza a vicenda, tra i membri dell’alleanza che professano un'”etica della cura” attivista, interpreta di riflesso la responsabilità come azione, mentre rimprovera l’esitazione e la moderazione come disumane. La dinamica ricorda l’osservazione di Nietzsche ne La nascita della tragedia, secondo cui “l’azione richiede di essere avvolti da un velo di illusione“; in questo caso, il “velo di illusione” è fornito dal processo ontologico di formazione dell’identità e dalle narrazioni condivise di “responsabilità collettiva” e “unità occidentale”.

 

Nel contesto del processo decisionale interalleanza, un’etica di questo tipo non può fare a meno di assecondare le richieste che le vengono rivolte, soprattutto perché i pari più rumorosi possono mascherare questa costrizione con il presunto imperativo morale di promuovere l’unità occidentale, difendere i “nostri valori” e combattere il male reazionario. La ricerca di sicurezza ontologica di una grande potenza globale ed egemonica come gli Stati Uniti mette in primo piano la necessità di un’ideologia che le offra un senso di coerenza, che faccia apparire le sue azioni come significative e giustificate. Lo stesso fenomeno vale per la Nato, che – pur non essendo uno Stato ma un’istituzione – è oggi praticamente un alter-ego degli Stati Uniti.

Ora, questo potrebbe sembrare indicare una tensione intrinseca tra il desiderio di un racconto di ancoraggio su “chi siamo” e la più tradizionale sicurezza materiale che si basa sull’autoconservazione fisica. Ma se questo è vero in alcuni casi, soprattutto in relazione a grandi potenze ideologiche come gli Stati Uniti, la cui auto-narrazione idealistica dell’eccezionalismo americano spesso si scontra con i suoi interessi reali, la ricerca di sicurezza ontologica e fisica è più congruente negli Stati più piccoli e di medio livello, per i quali sia gli interessi che le identità sono più radicati, localizzati e reali.

Nell’Anglosfera, forse a causa dell’eredità dell’imperialismo e della realtà storica dell’unipolarismo, esiste attualmente uno scollamento tra gli autentici interessi nazionali, definiti in modo ristretto e concreto, e il comportamento del suo establishment di politica estera liberale e internazionalista, che privilegia la ricerca di una sicurezza ontologica con ramificazioni globali. Questo fatto deve essere rettificato. Fortunatamente, ci sono i primi segni che il Presidente Biden e almeno alcuni dei suoi consiglieri, tra cui il Capo degli Stati Maggiori riuniti degli Stati Uniti, Gen. Mark Milley, hanno percepito questa terribile realtà e le sue ricadute potenzialmente pericolose, e stanno iniziando a parlare della necessità di negoziati e di una soluzione diplomatica in Ucraina.

All’inizio del secondo anno di guerra, molti a Washington si sono finalmente resi conto che l’esito probabile di questa tragedia è lo stallo: “Continueremo a cercare di convincere [la leadership ucraina] che non possiamo fare tutto e niente per sempre“, ha detto questa settimana un alto funzionario dell’amministrazione Biden. Per quanto si parli di agenzia ucraina, questa dipende interamente dall’impegno della NATO a continuare a sostenere lo sforzo bellico di Kiev a tempo indeterminato. Un desiderio così massimalista di “vittoria completa” non solo è altamente distruttivo e fa pensare a un’altra guerra infinita, ma è anche imprudente; il suo stesso successo potrebbe scatenare un olocausto nucleare.

Mosca ha già pagato a caro prezzo le sue trasgressioni in Ucraina. Prolungare la guerra a questo punto, in una ricerca ideologica di vittoria totale, è discutibile sia dal punto di vista strategico che morale. Per molti internazionalisti liberali in Occidente, la richiesta di una “pace giusta” che sia sufficientemente punitiva per la Russia suggerisce poco più di un desiderio poco velato di imporre a Mosca una pace cartaginese. L’Occidente ha effettivamente ferito la Russia; ora deve decidere se lasciare che questa ferita si incancrenisca e faccia esplodere il mondo intero. Infatti, a meno che a Mosca non venga fornita una ragionevole via d’uscita che riconosca lo status della Russia come potenza regionale con i propri imperativi esistenziali di sicurezza strategica e ontologica, questo è il precipizio verso cui ci stiamo dirigendo.

https://unherd.com/2023/02/is-the-west-escalating-the-ukraine-war/

[1] Riferimento all’albatros appeso al collo dello Ancient Mariner , in segno di maledizione, nelle celebre poesia di Samuel Taylor Coleridge, The Rime of the Ancient Mariner, 1798. https://it.wikipedia.org/wiki/La_ballata_del_vecchio_marinaio

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Romain Bessonnet: Vladimir Putin cerca “sostegno russo per la guerra”, de L’editore , Romain Bessonnet

COLLOQUIO. Dopo la visita a sorpresa di Joe Biden in Ucraina, martedì il presidente Vladimir Putin ha parlato in un discorso fluviale davanti all’Assemblea federale russa. L’occasione per sfidare ancora l’Occidente, che accusa di aver orchestrato questa guerra. Decrittazione con Romain Bessonnet, autore di Poutine da solo (a cura di Jean-Cyrille Godefroy).

Fronte popolare: perché Putin parla adesso? È una risposta alla visita di sostegno a sorpresa di Biden in Ucraina?

Romain Bessonnet: Questo discorso era stato pianificato dallo scorso dicembre. Si tratta infatti di un discorso annuale (discorso all’assemblea federale, la riunione delle due camere del parlamento russo) previsto dalla Costituzione russa dal 1993. È la copia del discorso sullo stato americano dell’Unione. Di solito si svolge a giugno. Ma quella del 2022 era stata rinviata a causa della guerra in Ucraina.

Quindi, se gli eventi sono collegati, è prima di tutto una trovata pubblicitaria americana orchestrare un’immagine di Biden come leader del “mondo libero” contro il dittatore Putin. Biden che vuole inscenarsi come un Kennedy 2.0 che schernisce la dittatura russa come aveva fatto Kennedy durante il suo discorso a Berlino nel 1961. Da qui la sceneggiatura piuttosto oscena del suo discorso a Varsavia, a poche ore di distanza dal discorso di Putin. Biden conclude il suo discorso con una miriade di bambini di tutti i colori che portano bandiere ucraine e americane.

FP: Lei che è specialista dei discorsi di Putin, cosa dobbiamo ricordare in particolare di questo? Rottura o continuità?

RB: Questo discorso è una continuazione dei precedenti per la politica generale: denuncia delle élite occidentali che vogliono imporre il loro stile di vita alla Russia e al mondo intero, “sovranità” dell’economia russa rimpatriando nel Paese attività economiche strategiche. Inoltre, è una soddisfazione che è stata data al governo per la sua gestione dell’economia di fronte alla guerra economica lanciata dall’Occidente. L’economia infatti non è crollata, come aveva promesso Bruno Lemaire, il rublo non si è “svitato” come avevano promesso Macron e Biden.

Tuttavia, l’opzione “conservatrice” in termini di riduzione dell’inflazione e controllo della finanza pubblica (molto criticata, in particolare dalla sinistra e dai comunisti che invocano una politica monetaria espansiva sostenuta dalla pianificazione strategica) viene mantenuta.

La guerra in Ucraina ha, ovviamente, portato nuovi temi, in particolare un’enfasi sul sostegno sociale ai veterani e ai feriti di guerra. Nel campo dell’istruzione, Putin ha annunciato il ritorno al sistema sovietico di istruzione tecnica e tecnologica, rompendo con la Convenzione di Bologna che aveva allineato l’istruzione superiore russa agli standard europei.

Infine, l’evento su cui molti avevano ipotizzato era l’annuncio di un’offensiva su vasta scala. Questo annuncio non ha avuto luogo. Inoltre, non è stato fatto alcun annuncio sulle operazioni militari. Ciò è in linea con la gestione delle questioni militari da parte di Putin: i militari sono responsabili della tattica e della gestione tecnica, mentre il Presidente è colui che imposta la strategia e la gestione politica della guerra.

Inoltre, si fanno così pochi annunci in merito, è per lasciare il massimo margine di manovra nella gestione politica della guerra. In effetti, Putin vuole evitare di legarsi le mani con un’opzione massimalista che è militarmente irraggiungibile, o con un’opzione minimalista che sarebbe al di sotto di ciò che potrebbe raggiungere il potere russo.

Tuttavia, l’accento è stato posto sul fatto che si farà di tutto per dare all’esercito i mezzi per vincere la guerra, ad esempio l’assegnazione di alloggi gratuiti ai lavoratori dell’industria della difesa o il potenziamento di questi.

FP: Putin ha annunciato che sospenderà la partecipazione della Russia al trattato New Start, che limita gli arsenali nucleari. Bluff o grave minaccia?

RB: Putin ha annunciato la sospensione del trattato New Start, sulle armi strategiche offensive che consentiva ispezioni russe dei siti di lancio per i vettori strategici americani e viceversa. Ciò indicava un nuovo livello nella sfida della Russia all’Occidente. Inoltre, questo accordo non fu più applicato dagli americani, che rifiutarono di accettare le richieste russe di ispezione.

Inoltre, gli obiettivi di riduzione degli armamenti sono diventati piuttosto obsoleti, dato che la Russia ha un significativo vantaggio tecnologico nelle armi ipersoniche.

Infine, questo annuncio è una pietra nel giardino della Francia, perché Putin ha menzionato la necessità di includere la Francia e il Regno Unito nell’accordo, perché il nostro arsenale è diventato, dal nostro ritorno all’organizzazione militare integrata della NATO e il nostro allineamento sistematico con Washington sul dossier ucraino, un arsenale americano. Questo fa eco al discorso di Macron prima della conferenza di Monaco che chiedeva la presenza degli europei nei futuri negoziati sul disarmo russo-americano.

FP: Come viene generalmente percepito questo discorso in Russia e nel mondo? Cambia qualcosa dal punto di vista geopolitico?

RB: In Russia, è stato generalmente percepito come un appello alla mobilitazione. È anche una tappa nell’installazione del discorso ufficiale sul tema: “La Russia non è in guerra contro l’Ucraina, ma contro la NATO. Questo discorso consente alla popolazione russa di sostenere la guerra.

Questo discorso è tanto più credibile quando i leader europei chiedono la rieducazione dei russi (come il primo ministro estone Kaja Kallas alla conferenza di Monaco), o quando il Comitato del Congresso degli Stati Uniti per la cooperazione e la sicurezza in Europa organizza un’audizione sulla tema della “decolonizzazione (leggi: smembramento) della Russia”, tema sentito anche al Parlamento europeo, durante un convegno promosso da un dignitario (la signora Anna Fotyga) del partito al governo in Polonia.

Inoltre, l’applicazione, senza eccezioni, da parte dei paesi occidentali di un maccartismo di Stato, compreso il divieto di trasmissione di tutti i media russi (indipendentemente dalla loro posizione politica altrove), la sospensione dei collegamenti aerei e ferroviari con la Russia, l’interruzione del rilascio dei visti e la graduale chiusura delle frontiere terrestri sono le manifestazioni più visibili che dimostrano che è in atto una nuova guerra fredda. In questa guerra si invertono i ruoli tra il “mondo libero” e le “dittature”: Russia e Bielorussia tengono aperte le frontiere, mantengono la cooperazione culturale, sportiva e universitaria, non censurano gli artisti occidentali ed è l’Occidente che chiude, che punisce i giornalisti (Vladimir Soloviev, Marina Kim, Margarita Simonyan…), cantanti (Grigory Leps, Aleksandr Gazmanov, …) o registi (Nikita Mikhalkov), forse per paura che il “brutto modello russo” si diffonda in Europa. Oppure, l’idea sarebbe piuttosto che il popolo russo sia incorreggibile e che gli debba essere inflitta una punizione collettiva.

Così facendo, l’Occidente è sulla strada sbagliata: la Cina esporta massicciamente in Russia, l’India investe nel Paese. Reuters la scorsa estate ha mostrato che gli acquisti di carbone russo da parte dell’India sono stati effettuati in tre valute: Yuan cinese, Euro (ancora un po’) e Dirham degli Emirati Arabi Uniti. Le sanzioni e le altre confische di beni russi hanno inviato un chiaro segnale al resto del mondo: le vostre proprietà non sono più al sicuro con noi. Qualsiasi risorsa che detieni in Occidente è un mezzo di pressione politica sul tuo paese. Con il pretesto di punire i russi, abbiamo accelerato la dedollarizzazione del mondo e l’Euro è spacciato.

La “diplomazia del bastone” mostra i suoi limiti: nessun Paese in Asia (esclusi Giappone, Taiwan e Corea del Sud), America Latina, Africa o Medio Oriente applica sanzioni alla Russia. Le pressioni su Arabia Saudita, Turchia, Cile, Colombia o Israele (finora membri attivi del campo occidentale) per attuare le sanzioni si concludono con un licenziamento, particolarmente umiliante per l’establishment americano.

La Francia, rompendo con la sua tradizione di diplomazia a tutto campo, è bloccata nel suo tete-à-tète transatlantico e non è più udibile in questa parte del mondo. Anche sotto la Quarta Repubblica, la Francia aveva resistito al maccartismo e non aveva bandito il Partito Comunista sul suo territorio e non aveva perseguito una politica di lotta contro l’influenza comunista nella società, nonostante le insistenti richieste di Washington. Nel 2022, è stato con entusiasmo che i media Russia Today e Sputnik sono stati chiusi e che tutti i principali partiti francesi si sono uniti alla logica della guerra e delle sanzioni. Mentre durante la Guerra del Golfo del 1990, ancora una volta un attacco di un paese (l’Iraq) al suo vicino (Kuwait), si levarono forti voci per chiedere l’allentamento e la negoziazione (Jean-Pierre Chevènement, Georges Marchais, Generale Pierre-Marie Gallois). Non questa volta. Anche il Rassemblement national qui non ha preso la posizione controcorrente che aveva avuto il suo fondatore durante la Guerra del Golfo (si ricordi che Jean-Marie Le Pen aveva mantenuto il suo appoggio a Saddam Hussein, al quale aveva fatto visita nel bel mezzo della guerra) .

Lo smarrimento dello spirito critico dell’intera élite francese è tale che la rivelazione di un atto di terrorismo di Stato da parte degli Stati Uniti contro un’infrastruttura europea (Nord Stream) non fa discutere, che la rivelazione di Angela Merkel e François Hollande che i negoziati di Minsk erano stati una finzione e non avevano avuto altro motivo se non quello di guadagnare tempo per rafforzare le capacità militari dell’Ucraina. E “infarinare i russi” non è oggetto di alcuna critica, mentre negoziare in malafede è un reato di diritto internazionale e ogni fiducia tra russi ed europei è stata minata.

In questo quadro, il discorso di Vladimir Putin prende solo atto di questo confronto blocco contro blocco e della marcia in avanti verso una profonda divisione del mondo.

https://frontpopulaire.fr/international/contents/romain-bessonnet-vladimir-poutine-cherche-une-adhesion-des-russes-a-la-guer_tco_19962263

Trump contro l’impero: è per questo che lo odiano?_di CHRISTIAN PARENTI

Trump contro l’impero: è per questo che lo odiano?
CHRISTIAN PARENTI-15 FEBBRAIO 2023

Trump era ideologicamente incoerente e grossolanamente transazionale. Ma la minaccia che rappresentava per l’impero americano e quindi per il gigantesco Stato di sicurezza aiuta a stabilire il motivo per cui l’intelligence statunitense è intervenuta nelle elezioni del 2016 e del 2020.
Come presidente, Donald Trump ha elargito, ai ricchi, tagli fiscali e deregolamentazione. Tuttavia, contraddittoriamente, ha anche minacciato la struttura dell’egemonia globale americana che fa tanto per mantenere l’1% americano tremendamente ricco. In effetti, Trump ha intrapreso il più importante ridimensionamento del potere militare e diplomatico americano da quando l’attuale architettura dell’impero informale americano ha preso forma alla fine della Seconda Guerra Mondiale.

Trump ha fatto una campagna elettorale sulla fine della “costruzione della nazione” e poi, sorprendentemente, ha iniziato a concludere le “guerre per sempre” dell’America semplicemente facendo le valigie e andandosene. Non ha nemmeno iniziato nuove guerre. Trump ha ridotto di quasi la metà il numero delle truppe statunitensi in Iraq. In Afghanistan, ha dimezzato la forza di occupazione statunitense e ha negoziato un quadro per il ritiro totale. Ha cercato di porre fine al dispiegamento di truppe statunitensi sia in Somalia che in Siria e in entrambi i casi, nonostante l’opposizione del Pentagono e la lenta inadempienza, Trump è riuscito a ritirare la maggior parte del personale statunitense. In Siria, le basi improvvisamente abbandonate dalle forze speciali statunitensi sono state rilevate dai russi – uno sviluppo che ha spinto il New Yorker ad accusare Trump di aver “abbandonato la Siria”.

Peggio ancora, agli occhi dello Stato di sicurezza nazionale, Trump si è accanito contro le operazioni statunitensi in Germania e Corea del Sud, minacciando così cardini altamente strategici nel sistema globale del potere militare degli Stati Uniti. Ha anche fatto grandi passi avanti verso la normalizzazione delle relazioni con la Corea del Nord e la produzione di un trattato di pace sulla penisola coreana. In Libia, ha rifiutato l’escalation e ha lavorato con la Russia per un accordo di pace. In Venezuela, ha dapprima permesso a John Bolton e alla CIA di tentare un colpo di Stato in stile rivoluzione colorata, con a capo il bel ragazzo Juan Guaidó. Ma quando questo tentativo si è scontrato con la resistenza, Trump si è annoiato e ha iniziato a fare commenti lusinghieri sul “duro” leader venezuelano Nicolas Maduro e sui suoi “generali di bell’aspetto”, lamentandosi al contempo che il suo direttore del Consiglio di sicurezza nazionale John Bolton voleva coinvolgerlo “in una guerra”.

Capire come Donald Trump abbia minacciato l’impero americano e quindi il gargantuesco Stato di sicurezza e il relativo complesso industriale di appaltatori e think tank aiuta a stabilire il motivo per cui l’FBI e oltre 50 ex funzionari dell’intelligence hanno tentato attivamente di sopprimere la storia del laptop di Hunter Biden, mettendo così il pollice sulla bilancia durante le elezioni del 2020.


Ci aiuta anche a capire perché, nel 2016, la CIA, l’FBI, l’NSA e il Direttore dell’Intelligence nazionale abbiano tutti approvato la narrazione del Russiagate nonostante la mancanza di prove credibili. E ci aiuta a capire perché, come ha riferito Matt Taibbi, oltre 150 fondazioni filantropiche private si sono riunite per creare e finanziare l’Alliance for Securing Democracy, che a sua volta ha finanziato l’inquietante Hamilton 68, che ha promosso la bufala del Russiagate. In breve, questo spiega perché lo odiano.

Trump ha descritto la sua politica estera come “America First”, attingendo così a un filone di oltre un secolo di isolazionismo americano, o sentimento conservatore contro la guerra. Ma i suoi attacchi all’impero americano non erano ideologicamente coerenti. Odiava la NATO ma amava Israele. Aumentò la pressione su Cuba, ma fece il contrario con la Corea del Nord. Ha aumentato il budget militare anche se ha cercato di ritirare le truppe in tutto il pianeta. I suoi ragionamenti, quando sono stati fatti, sono stati grossolanamente transazionali.

Ad esempio, a sei mesi dall’inizio della sua amministrazione, Trump si è incontrato con i capi di Stato maggiore congiunti, sempre più preoccupati, al Pentagono, in una sala riunioni super-sicura chiamata “il serbatoio”. L’incontro è stato un tentativo di far ragionare il nuovo presidente. Come ha descritto il Washington Post, gli Stati Maggiori hanno cercato di “spiegare perché le truppe statunitensi erano dispiegate in così tante regioni e perché la sicurezza dell’America dipendeva da una complessa rete di accordi commerciali, alleanze e basi in tutto il mondo”. La presentazione prevedeva mappe e grafici per rendere la questione chiara e semplice.

Non impressionato, Trump ha definito i suoi generali “idioti e bambini” e “perdenti” che “non sanno più come vincere”. Mentre la sua rabbia saliva, ha chiesto di sapere perché gli Stati Uniti non ricevessero petrolio gratis come tributo per la presenza militare americana in Medio Oriente. “Abbiamo speso 7.000 miliardi di dollari, ci stanno fregando”, ha sbottato Trump. “Dov’è il fottuto petrolio?”.


Nonostante l’opposizione attiva all’interno della sua amministrazione, Trump ha anche attaccato importanti trattati, ordinando il ritiro degli Stati Uniti da: l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR); l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura (UNESCO); l’Accordo sul Clima di Parigi; e l’Organizzazione Mondiale della Sanità (perché Trump considerava l’OMS morbida nei confronti della Cina all’inizio della pandemia di Covid-19). Ha ritirato gli Stati Uniti dal Partenariato Trans-Pacifico (TPP), un accordo di libero scambio aziendale che aveva richiesto due anni di lavoro e che sarebbe stato il fulcro del “perno verso l’Asia” degli Stati Uniti. Con una raffica di tariffe punitive, Trump ha lanciato una guerra commerciale contro la Cina. Sebbene sia proseguita sotto Biden, il destabilizzante confronto economico di Trump con la Cina è stato uno shock per i leader economici e politici di tutto il mondo.

Accusando la Russia di aver imbrogliato, Trump ha posto fine al Trattato INF (Intermediate-Range Nuclear Forces) del 1987. Ma ha anche tenuto un cordiale vertice faccia a faccia con Putin a Helsinki che ha portato la paranoia del Russiagate della sua opposizione a livelli senza precedenti. Trump si è ritirato dal Trattato sui cieli aperti, un meccanismo quasi ventennale per prevenire la proliferazione delle armi. Ha iniziato a demolire il trattato di non proliferazione con l’Iran, faticosamente conquistato, e ha rivisto la Nuclear Posture Review americana per consentire, follemente, una risposta atomica in caso di attacco cibernetico!

L’aspetto più scioccante è che Trump ha ripetutamente espresso il desiderio di eliminare gli Stati Uniti dalla NATO, cosa che avrebbe distrutto la NATO se fosse stata attuata. Se la NATO andasse in frantumi, l’intero sistema globale incentrato sugli Stati Uniti – cioè il più grande, efficace, complesso e costoso progetto imperiale della storia mondiale – subirebbe una destabilizzazione sismica. L’impero americano non è inevitabile, non è naturale ed è ampiamente risentito. Continua a esistere solo grazie a una leadership costante, diligente e sofisticata. Trump, come un bambino che brandisce un martello, ha trascorso quattro anni quasi casualmente a fare buchi in questa delicata struttura.


Che cos’è il potere americano?
Dal 1945, l’egemonia globale americana si basa su un vasto sistema di infrastrutture: ambasciate, punti di ascolto, oltre 800 basi militari, mezzi navali, reti satellitari, cavi sottomarini, ecc. Si basa anche su una serie di relazioni multinazionali di lunga data che coinvolgono istituzioni statali, politici, diplomatici, ufficiali militari, appaltatori, reti di intelligence, imprese, dirigenti d’azienda, professionisti umanitari, specialisti accademici e giornalisti.

In tutto questo è centrale, ma spesso trascurato, il ruolo della costruzione del consenso al potere americano tra gli alleati. Questo consenso permette a Washington di usare gli alleati contro gli avversari. Ma è anche una forma di controllo su quegli stessi alleati. Così, la NATO serve a tenere i russi fuori dall’Europa occidentale, ma anche a controllare l’Europa, uno dei centri più potenti del capitalismo globale.

L’importanza del potere statunitense per la gestione del capitalismo globale nel suo complesso è stata ben descritta da Leo Panitch e Sam Gindin nel loro libro The Making of Global Capitalism:

“Lo Stato americano, nel processo stesso di sostegno all’esportazione di capitali e all’espansione delle imprese multinazionali, si è assunto sempre più la responsabilità di creare le condizioni politiche e giuridiche per l’estensione generale e la riproduzione del capitalismo a livello internazionale”. Come per l’impero regionale informale che gli Stati Uniti hanno stabilito nel proprio emisfero all’inizio del XX secolo, una corretta comprensione dell’impero globale informale che hanno stabilito a metà del secolo richiede… [l’identificazione] del ruolo internazionale dello Stato americano nel creare le condizioni per l’accumulazione del capitale”.

Trump, a quanto pare, non ha mai capito questo quadro generale. Al contrario, ha visto l’insieme di relazioni, alleanze, istituzioni e programmi che compongono l’ordine globale post-1945 a guida americana come poco più di un’attività di sicurezza mal gestita. Considerate il suo punto di vista sulla NATO:

“Li ho incontrati l’anno scorso. Stoltenberg, il Segretario Generale della NATO, un grande uomo. Un grande fan. Nessuno pagava i loro conti. L’anno scorso sono andato, un anno fa. Abbiamo raccolto 44 miliardi di dollari. Nessuno lo comunica. Me ne sono andato da poco e stiamo per raccogliere almeno un altro miliardo di dollari in più. Gli ho detto: ‘Devi pagare i tuoi conti'”.

Trump tratta i potenti alleati con la stessa cattiveria con cui trattava i subappaltatori ai tempi dell’immobiliare. Ricordiamo il vertice del G-7 del 2018: Trump è arrivato in ritardo, se n’è andato in anticipo e si è rifiutato di firmare un comunicato congiunto che riaffermava l’impegno del G-7 per un “ordine internazionale basato sulle regole”. Quando l’allora premier tedesco Angela Merkel gli fece pressione per firmare, Trump prese due caramelle Starburst dalla tasca, le lanciò sul tavolo della conferenza e sogghignò: “Tieni, Angela, non dire che non ti do mai niente”.

Nel 2020, la Commissione per le relazioni estere del Senato degli Stati Uniti ha descritto la politica estera di Trump come “caratterizzata da caos, negligenza e fallimenti diplomatici”. L’approccio impulsivo ed erratico del Presidente “ha offuscato la reputazione degli Stati Uniti come partner affidabile e ha portato al disordine nei rapporti con i governi stranieri”. La negligenza critica nei confronti delle sfide globali ha messo in pericolo gli americani, ha indebolito il ruolo degli Stati Uniti nel mondo e ha sprecato il rispetto accumulato in decenni. Dichiarazioni improvvise, come il ritiro delle truppe americane dalla Siria, hanno irritato gli alleati più stretti e colto di sorpresa i funzionari statunitensi”.

Mark Esper, che ha trascorso un anno e mezzo come secondo segretario alla Difesa di Trump, ha fatto dell’arte di bloccare l’attuazione delle direttive di Trump che distruggono l’impero. Quando Trump ha chiesto che un terzo del personale militare americano in Germania tornasse a casa, Esper ha elaborato un piano che prevedeva invece il “ridispiegamento” di 11.500 truppe, di cui più della metà sarebbe rimasta nel teatro europeo. Esper riuscì persino a far passare il ridispiegamento come un avanzamento del tradizionale programma americano di minaccia alla Russia.

Il libro di memorie di Esper ritrae Trump come facilmente distraibile: “Una discussione si fermava di botto e cambiava direzione quando un nuovo pensiero gli passava per la testa: vedeva qualcosa in televisione o qualcuno faceva un’osservazione che lo portava fuori strada”. Tuttavia, Trump è stato anche coerente nei suoi sentimenti di politica estera. “In qualche modo, spesso ci siamo ritrovati sugli stessi argomenti, come i suoi più grandi successi del decennio: La spesa della NATO, la Merkel, la Germania e il Nord Stream 2 [Trump voleva che fosse fermato], la corruzione in Afghanistan, le truppe americane in Corea e, per esempio, la chiusura delle nostre ambasciate in Africa”.

La squadra di Trump in politica estera ha lavorato per contrastarlo attivamente. Gary Cohn, il principale consigliere economico di Trump, si è spinto fino a rubare per due volte dalla scrivania del presidente documenti importanti che attendevano la firma presidenziale. Uno avrebbe ritirato gli Stati Uniti da un accordo commerciale con la Corea del Sud. L’altro avrebbe fatto uscire unilateralmente gli Stati Uniti dall’accordo di libero scambio nordamericano (NAFTA). In seguito, Trump ha rinegoziato il NAFTA, trasformandolo nell’Accordo Stati Uniti-Messico-Canada (USMCA), che di fatto includeva salari più alti per i lavoratori messicani del settore auto.

Trump ha regolarmente sminuito e insultato la sua squadra di politica estera. In una conversazione che includeva il primo ministro irlandese, Trump ha detto al suo consigliere per la sicurezza nazionale, il demenziale e bellicoso John Bolton: “John, l’Irlanda è uno di quei Paesi che vuoi invadere?”. Nel 2019, Trump ha licenziato senza tanti complimenti Bolton con un tweet.

Il primo segretario alla Difesa di Trump, Jim “Mad Dog” Mathis, si è apertamente opposto alla maggior parte delle mosse di politica estera dell’amministrazione. Scontento, Trump ha iniziato a chiamare Mathis “Cane moderato”. Nel gennaio 2019, quando Trump ordinò il ritiro delle truppe statunitensi dalla Siria, Cane Moderato si dimise.

Una “scossa” Nancy Pelosi dichiarò la svolta “molto grave per il nostro Paese”. Il senatore repubblicano Ben Sasse lo ha definito “un giorno triste per l’America”, mentre un Mitch McConnell “particolarmente angosciato” si è preoccupato apertamente di “aspetti chiave della leadership globale dell’America”.

Vandalizzare la NATO
L’aspetto più allarmante per l’establishment della sicurezza nazionale è stato il tentativo di Trump di tagliare di un terzo la presenza militare statunitense in Germania nel 2020. Considerata il “pilastro” della NATO, la Germania ospita 35.000 militari americani di stanza in 40 diverse installazioni. Le componenti aeree del Comando europeo e del Comando africano degli Stati Uniti hanno sede a Ramstein Air, in Germania. Questi mezzi basati in Germania – bombardieri, caccia, droni, elicotteri, aerei di sorveglianza AWAC, nonché le relative infrastrutture radar, di controllo del traffico aereo e di intelligence dei segnali – coprono 104 Paesi pronti a fornire “supporto alle basi di spedizione, protezione delle forze, costruzione e operazioni di rifornimento” anche in “condizioni austere”. La Germania ospita inoltre circa 150 missili nucleari statunitensi.

Sorprendentemente, le operazioni militari statunitensi più lontane dipendono dalle basi tedesche. Quando i soldati americani sono stati feriti da bombe sul ciglio della strada in Iraq, la loro prima tappa è stata un ospedale di supporto al combattimento locale, ma una volta stabilizzati i feriti sono stati immediatamente trasportati in aereo al Landstuhl Regional Medical Center presso la postazione dell’esercito americano a Landstuhl, in Germania, vicino alla base aerea di Ramstein. Tuttavia, nell’estate del 2020 Trump ha ordinato di ridurre lo schieramento in Germania di 12.000 unità, ovvero di un terzo.

“Non vogliamo più essere i fessi”, ha detto Trump ai giornalisti quando ha annunciato la mossa. “Stiamo riducendo le forze perché non pagano i conti; è molto semplice”. Quando Esper ha cercato di far passare il ritiro come un semplice ridispiegamento, Trump lo ha corretto: “La Germania è morosa, non ha pagato le tasse della NATO”.

https://twitter.com/i/status/1288502255914815488
Secondo quanto riferito, il dispiegamento ha “colto alla sprovvista” sia i funzionari tedeschi che alcuni leader militari americani, perché nessuno dei due gruppi è stato adeguatamente consultato nel processo, né c’è stata una pianificazione di alcun tipo associata a questa mossa epocale. Come già detto, Esper ha fatto tutto il possibile per distorcere e bloccare l’ordine di Trump.

Più importante della quantità di truppe che Trump ha cercato di ritirare, è il danno qualitativamente maggiore di questi ritiri da uno degli hub logistici più critici e high-tech dell’intero apparato imperiale. Il Council on Foreign Relations si è preoccupato ad alta voce del “messaggio agli alleati e agli avversari che gli Stati Uniti non sono più impegnati nella difesa europea”.

Assalto finale
Nel novembre 2019, mentre l’amicizia di Trump con il leader nordcoreano Kim Jong-un era in piena fioritura, il presidente americano ha iniziato a pensare di ritirare le truppe dalla Corea del Sud e ha chiesto alla Corea del Sud – e a tutti gli altri alleati che ospitano personale militare statunitense – di pagare “il costo più il 50%” per la protezione americana.

Trump ha iniziato ordinando il ritiro di 4.000 dei 28.000 militari statunitensi presenti in Corea del Sud. Come in Germania, i soldati, i marinai, il personale aereo e gli agenti dei servizi segreti americani in Corea del Sud fanno molto di più che sorvegliare il Paese. Infatti, proiettano la potenza americana nell’intera regione dell’Asia orientale e del Pacifico. La presenza militare statunitense in Corea del Sud è distribuita in quindici basi; una di queste, Camp Humphreys, è la più grande base militare del mondo. Come nel caso della Germania, la presenza degli Stati Uniti in Corea del Sud è il fulcro high-tech di un sistema di basi, di ali aeree e di flotte navali che si estende a tutta la regione. Le risorse della Marina americana in Corea del Sud supportano la Settima Flotta statunitense, con sede in Giappone, che contiene da 50 a 70 navi, 150 aerei e 27.000 marinai e marines.

Nel 2020, Trump ha annunciato di voler lasciare tutte le truppe statunitensi dall’Iraq e dall’Afghanistan. La seconda metà del mandato di Trump ha visto anche l’inizio della fine della guerra in Afghanistan. Anche se è stato Biden a presiedere il ritiro definitivo degli Stati Uniti dall’Afghanistan, le condizioni di tale ritiro sono state negoziate dall’amministrazione Trump. L’accordo americano con i Talebani prevedeva che le truppe statunitensi avrebbero lasciato l’Afghanistan entro 18 mesi, a condizione che i Talebani combattessero per contenere gruppi terroristici come lo Stato Islamico.

Chi disconosce il trattato di Trump con i Talebani non capisce come si è svolto il ritiro degli Stati Uniti dall’Afghanistan. Mentre tredici soldati americani sono stati uccisi in un attentato suicida dello Stato Islamico alle porte dell’aeroporto di Kabul e gli Stati Uniti hanno lasciato grandi quantità di hardware come Humvees ed elicotteri – in gran parte perché il Pentagono si è rifiutato di collaborare fino a quando non è stato troppo tardi – se l’amministrazione Trump non avesse raggiunto un accordo con i talebani, il ritiro degli Stati Uniti sarebbe stato una lotta disperata per fuggire.

Nel 2019, Trump si è momentaneamente interessato alla debacle libica. In modo tipico ha iniziato a corteggiare Khalifa Haftar, un signore della guerra cresciuto negli Stati Uniti che si è opposto al “governo” libico sostenuto dagli Stati Uniti e dalle Nazioni Unite. Ma poi, nonostante le notevoli pressioni esercitate da alleati americani come Turchia, Egitto e altri per impegnare maggiori risorse, Trump ha fatto marcia indietro e, ancora una volta sorprendendo gli alleati, ha chiesto un cessate il fuoco.

La missione degli Stati Uniti in Somalia, iniziata nel 2007, è stata descritta come “una pietra miliare degli sforzi globali del Pentagono per combattere Al Qaeda”. Chiunque guardi una mappa può vedere l’importanza strategica del Paese: all’estremità del Corno d’Africa, proteso nel Mar Arabico, non lontano dall’imboccatura del Golfo Persico, con una costa lungo un lato del Golfo di Aden che conduce a nord al Canale di Suez. Ma all’inizio di dicembre 2020, Trump (che in un’esibizione cruda aveva definito Haiti e gli Stati africani “Paesi di merda”) ha staccato la spina, ordinando il ritiro quasi totale delle 700 forze speciali statunitensi, dei consiglieri militari e degli agenti della CIA in Somalia.

La vista dall’interno
Mettetevi per un momento nei panni di persone come il direttore dell’FBI Christopher Wray o il suo predecessore James Comey. Osservando il vandalismo della politica estera di Trump, provereste una profonda preoccupazione. Se, come la maggioranza delle élite di Washington, vedete la leadership globale americana come fondamentalmente morale, persino vitale e indispensabile, allora gli attacchi sfacciati di Trump sono estremamente pericolosi. Da questo punto di vista, la cosa veramente responsabile da fare sarebbe sabotare la politica di Trump, la sua legittimità, la sua base e la possibilità di una sua rielezione.

Peggio ancora, Trump è un demagogo. Ha creato un movimento di base di seguaci profondamente devoti: il movimento America First che sottoscrive il suo slogan Make America Great Again, o MAGA. Anche loro chiedono un contenimento; la loro politica neo-isolazionista deve essere screditata per evitare che si diffonda e diventi mainstream.

L’FBI e la CIA sono intervenuti illegalmente nella politica interna, storicamente prendendo di mira i movimenti sociali di sinistra. Sappiamo che si sono infiltrati nella campagna elettorale di Trump del 2016 e che hanno lavorato per dipingerlo come un burattino russo durante tutta la sua presidenza. Dobbiamo credere che le agenzie di intelligence non sarebbero intervenute e non avrebbero potuto intervenire per impedire la rielezione di Donald Trump? O che non avrebbero tentato di intrappolare, poi perseguitare e punire severamente i MAGA che hanno manifestato per diverse ore al Campidoglio degli Stati Uniti il 6 gennaio 2021? Una simile proposta mi sembra ridicola. Eppure, molti dei miei amici di sinistra si rifiutano di esplorare le prove crescenti che suggeriscono che tali agenzie si sono mosse contro Trump e la sua base, perché non riescono a capire perché le agenzie di intelligence potrebbero avere ragioni pressanti per farlo.

Ma guardiamo all’estero. Trump ha minacciato l’intero sistema di egemonia globale degli Stati Uniti. L’ha minacciato per ragioni diverse e in modi diversi da quelli che potrebbero avere gli anti-imperialisti di base, ma ha comunque minacciato l’impero statunitense.

CHRISTIAN PARENTI
Christian Parenti è professore di ruolo di economia presso il John Jay College of Criminal Justice CUNY. È autore di cinque libri, l’ultimo dei quali è Radical Hamilton: Economic Lessons from a Misunderstood Founder (Verso 2020).

https://thegrayzone.com/2023/02/15/trump-empire-they-hated-him/

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Piero Visani, Contro il leviatano. Ripensare la politica, la storia, lo spettacolo_a cura di Teodoro Klitsche de la Grange

L’occasione anche per ricordare Piero Visani e la sua preziosa collaborazione con Italia e il mondo a tre anni dalla sua scomparsa. Giuseppe Germinario

Piero Visani, Contro il leviatano. Ripensare la politica, la storia, lo spettacolo, Oaks editrice, pp. 166, euro 20,00.

È veramente spiacevole recensire un libro come questo, postumo, sapendo che non se ne leggeranno altri. Perché Piero Visani, da me recensito negli ultimi anni, nei suoi lavori aveva testimoniato di un pensiero libero ed anticonformista, e al contempo, nel solco della migliore tradizione del pensiero politico (e giuridico) moderno.

Nell’introduzione il figlio Umberto riporta uno scritto indirizzatogli dal padre, che gli aveva “sempre cantato le lodi di una concezione antimercantilistica, antieconomicistica, antiutilitaristica, antispeculativa dell’esistenza”, e che è la migliore sintesi dei diversi scritti raccolti

E in effetti il libro consta di cinque parti: la prima sulla visione del mondo; la seconda sulla politica; la terza sulla guerra; la quarta sullo spettacolo; la conclusione, sugli scenari futuri.

Data la vastità dei temi, la sintesi sopra riportata, dovuta all’autore è quanto mai utile; tuttavia qualche altro passo può dare il senso di questo denso volume. Ad esempio sulla propaganda delle élites dirigenti che ci ha abituati a dissociare potere politico e militare da quello economico; e ancor più a dimenticare la “realtà effettuale” di guerra, nemico ed uso della forza (e così le condizioni di esistenza e azione politica). Ma a parte altro, la stessa propaganda criminalizza e indica al pubblico ludibrio chi non paga le imposte (di cui la classe dirigente vive), onde la considera l’autore così «si può essere  contrari al sogno di una grande Italia, in piena legittimità, ma essere favorevoli alla pratica di una “grande Equitalia” è davvero incredibile, è un obiettivo da minorati mentali. A meno che i “morti di fisco”, come i morti fatti dagli americani e dagli occidentali in genere, siano “meno morti”…». Visani peraltro, in tanti passi fa notare come le classi dirigenti  inette e in decadenza, predicano il bene, ma praticano alacremente lo sfruttamento della maggioranza governata. È inutile ricordare come, in Italia soprattutto, il servilismo e le prediche edificanti, hanno raggiunto il proprio apice proprio in coincidenza con il massimo prelievo fiscale, condizione per la (comodissima) vita delle stesse élite. Le quali vendono parole per rapinare beni.

Il buonismo imperante, il politicamente corretto si coniugano ad una incapacità di comprensione (e comunicazione) della realtà, ad una continua affabulazione, onde a seguire certi capi (?), il mondo di Bengodi della globalizzazione sarebbe già in atto e in via di completamento.

Tutt’al più, basta eliminare qualche disturbatore (già criminalizzato) per terminare l’opera (dell’uscita dalla storia). IN un quadro del genere un discorso come quello di Churchill che  prometteva agli inglesi sangue, sudore e lacrime prima di arrivare alla vittoria costituisce un esempio di cosa non dire. Ma a chi scrive l’illusione del mondo globalizzato (attenti alle votazioni all’Assemblea ONU – di segno opposto) ricorda quanto proclamato nella costituzione sovietica brezneviana, che il socialismo si era realizzato. Così bene che crollò una dozzina d’anni dopo; e di certe nuove illusioni non si può che augurarsi lo stesso.

Visani tratta di molte cose (film compresi): di idee, di autori, di mentalità, e sempre con un taglio originale e politicamente scorretto (ça va sans dire). È difficile trarre da una tale massa di giudizi un unicum prevalente. Tra i diversi possibili (e data l’abbondanza) ne ricordiamo tre:

Il primo è il disprezzo per le classi dirigenti attuali, in particolare per quella italiana (tuttavia il disprezzo è indirizzato anche a quella che l’aveva preceduta). Il secondo, correlato al precedente, è che le attuali élites (che secondo Max Weber vivono sia di politica che per la politica), vivono esclusivamente di, avendo cancellato dalla propria prospettiva di vivere per; così come di realizzare risultati invece di propagandare (buone) intenzioni.

Il terzo che la Weltanschaung globalista  appare come una scissione del rapporto – necessario in politica, come attività umana – tra ragione e passione.

Quello di cui è un esempio insuperato l’ultimo capitolo del Principe, dove l’unità politica d’Italia – in un mondo di Stati nazionali nascenti – era la condizione insostituibile per un’esistenza indipendente ed autonoma- Onde repubbliche e signorie, le quali avevano senso e funzione in un medioevo feudale, lo avevano perso con l’incipiente formarsi del mondo moderno.

La consapevolezza della diversità del contesto storico e politico era il presupposto di poter vivere liberi nella mutata situazione. Ragione (di Stato) e passione politica che la classe dirigente non riesce a coniugare. E che questo libro così interessante, che non dimentica mai tale rapporto, ci aiuta e sprona a fare.

Teodoro Klitsche de la Grange

L’Occidente non ha più tempo, di Irina Alksnis

Importante. Se questo report dell’agenzia Bloomberg rilanciato da Ria Novosti risponde al vero, gli Stati Uniti stanno preparando il quadro giuridico e politico per l’intervento in Ucraina della “coalition of the willing” proposta dal gen. (a riposo) David Petraeus nel settembre 2022. Sintesi: l’Ucraina non è più in grado di fornire le truppe sufficienti a resistere alla pressione russa. Dunque, intervento nella guerra ucraina di truppe di paesi membri della NATO, sotto la propria bandiera ma senza coinvolgere l’Alleanza atlantica, in seguito a richiesta di aiuto militare del governo ucraino. Truppe polacche, rumene, baltiche, etc., che entrano in conflitto con la Russia in Ucraina. Viene messo a rischio il territorio europeo, ma non il territorio statunitense. Ovviamente, questa decisione obbliga i russi a decidere se rispondere soltanto sul territorio ucraino, oppure anche sul territorio dei paesi che mostreranno la propria bandiera sul campo di battaglia ucraino. Dal pdv militare, è vantaggioso per la Russia colpire anche fuori dal territorio ucraino, per esempio i centri logistici polacchi, rumeni, etc. Dal pdv politico, è estremamente pericoloso farlo, perché sarebbe altrettanto difficile limitare il conflitto a interventi chirurgici: a colpi russi sul territorio polacco seguirebbero, incoraggiate dagli USA, ritorsioni polacche sul territorio russo, e così via in una serie di azioni e reazioni che potrebbero dar luogo a una escalation difficilissima da controllare. Roberto Buffagni

 

“L’Occidente non ha più tempo”. La NATO prepara l’Europa per l’invio in guerra

di Irina Alksnis*

L’agenzia Bloomberg, citando proprie fonti, ha riferito che uno di questi giorni i ministri della Difesa dei Paesi membri della NATO firmeranno un documento segreto che illustrerà le azioni dell’alleanza in condizioni di coinvolgimento simultaneo in un conflitto ad alta intensità ai sensi del quinto articolo della statuto dell’organizzazione, e anche – cosa più interessante – in eventi non coperti da questo paragrafo.

L’articolo 5 della Carta della NATO è il famosissimo paragrafo sulla difesa collettiva, quando l’aggressione contro uno dei membri dell’alleanza è considerata come un attacco all’organizzazione nel suo insieme, che comporta una risposta congiunta all’aggressione.

Il fatto che in realtà questo articolo sia una lettera fragile e che la NATO, se lo si desidera, avrà sempre l’opportunità di eludere l’intervento in qualsiasi conflitto, è stato detto a lungo e da molti. Ma l’insider di Bloomberg indica che Bruxelles sta attivamente gettando le basi proprio per un tale sviluppo di eventi – quando alcuni membri dell’alleanza saranno coinvolti in alcune ostilità in relazione alle quali la NATO non utilizzerà il quinto articolo.

Non ci vuole molto per cercare la causa di questi movimenti, si trova in superficie. Tanto più è chiaro che l’Occidente è caduto in una trappola lì: ha puntato tutto su una vittoria militare sulla Russia , ma chiaramente non torna. Nelle ultime settimane, le risorse mondiali più influenti e mainstream hanno scritto sempre più apertamente che e forze armate ucraine sono destinate alla sconfitta e nessuna fornitura di equipaggiamento occidentale le salverà.

La scommessa degli Stati Uniti e dell’Europa sulla vittoria sulla Russia per mano degli ucraini è già stata effettivamente vinta, il che significa che la questione di cosa fare dopo è all’ordine del giorno in modo più netto.

Se i fatti fossero accaduti qualche anno fa, l’Occidente avrebbe preso fiato, si sarebbe ritirato per un riordino militare e politico, per riprovarci qualche tempo dopo. È questa tattica che osserviamo da parecchi anni, quando dopo ogni duro, ma inefficace attacco al nostro Paese, seguiva un periodo di relativa calma e persino tentativi di normalizzare le relazioni tra i Paesi.

Il problema è che questa volta l’Occidente non ha tempo: il sistema globale mondiale, di cui è leader e principale beneficiario, si sta sgretolando, e sempre più velocemente. Non può permettersi di fermarsi e non può permettersi di ritirarsi. L’unica via d’uscita è andare avanti. E alla luce della diminuzione della riserva di mobilitazione ucraina, è necessario cercare nuova carne da cannone, e la sua fonte è ovvia: i paesi della NATO.

Ma qui entrano in gioco le sottigliezze interne delle relazioni nell’alleanza del Nord Atlantico. Il leader e l’attuale proprietario dell’organizzazione sono gli Stati Uniti. Hanno un interesse diretto, che non nascondono più, è gettare l’Europa nella fornace della guerra con la Russia (avendo ricevuto gravi vantaggi economici per questo), ma allo stesso tempo evitare uno scontro militare diretto con Mosca, poiché questo sarà inevitabilmente seguito da una catastrofe nucleare globale .

I piani della NATO annunciati da Bloomberg mirano a risolvere questo particolare problema. Da un lato, c’è un’attiva preparazione di procedure per ignorare il quinto articolo in caso di ostilità che coinvolga i paesi membri dell’organizzazione. D’altra parte, lo stesso documento segreto, secondo l’agenzia di informazione, è in gran parte dedicato al “raggiungimento degli obiettivi di spesa per la difesa”, cioè all’espropriazione dei membri più ricchi dei kulak, che per molti anni si sono ostinatamente sottratti allo stanziamento del famigerato due per cento del PIL per esigenze militari.

È chiaro che i polacchi e altri europei dell’Est sono i primi in fila per il sacrificio. Ma non c’è dubbio che gli Stati Uniti abbiano piani di vasta portata anche per l’Europa occidentale. E tenendo conto del successo di Washington nel soggiogare le élite locali e dirigere questi paesi lungo un percorso apertamente suicida, i piani degli americani di mandare il Vecchio Mondo al tritacarne sul fronte orientale, ancora una volta nella storia, potrebbero diventare realtà.

https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/24946-irina-alksnis-l-occidente-non-ha-piu-tempo-la-nato-prepara-l-europa-per-l-invio-in-guerra.html?fbclid=IwAR2CTJtO9InPFIE-7JHNHrFZ9YoNjNTkgPSgdDeIm0JnBX6jvf47qoNTsa8

La Cina ha lanciato una chiave inglese nella narrativa di Alt-Media negando che sia una minaccia per l’Occidente, di Andrew Korybko

Quelli della comunità Alt-Media che sostengono sinceramente la Cina dovrebbero immediatamente ricalibrare le loro narrazioni sulla sua politica nei confronti dell’Occidente dopo l’ultimo chiarimento del portavoce del ministero degli Esteri Wang Wenbin. La Repubblica popolare si difenderà sempre con orgoglio dall’aggressione non provocata di quel blocco de facto della Nuova Guerra Fredda, ma non si impegnerà mai nemmeno nelle sue aggressioni non provocate contro di loro. Fantasticare che la Cina sia ossessionata dalla lotta contro l’Occidente coltiva false aspettative sulla sua politica estera che a loro volta portano a confusione e delusione.

La Alt-Media Community (AMC) ha insistito per anni sul fatto che esiste una cosiddetta “alleanza sino-russa” che è unita in opposizione all’Occidente, la cui falsa affermazione è stata successivamente riciclata dal Mainstream Media (MSM ) per promuovere i propri interessi narrativi opposti polari. In realtà non esiste una tale “alleanza” , ma ciò non ha impedito all’AMC di negare che la Cina voglia allentare le tensioni con l’Occidente, soprattutto alla luce del recente incidente del pallone .

Invece, questa raccolta di presunti manager della percezione cinese ha presentato la narrativa fabbricata artificialmente nelle ultime due settimane, affermando che Pechino sta raddoppiando il suo grande corso strategico antiamericano e si sta preparando per un conflitto apparentemente inevitabile con quell’egemone in declino. Nulla potrebbe essere più lontano dalla verità, tuttavia, come dimostrato nientemeno che dal portavoce del ministero degli Esteri cinese Wang Wenbin nella sua risposta a una domanda posta dalla TASS russa giovedì.

Quando è stato chiesto di commentare il riferimento del Segretario generale della NATO Jens Stoltenberg alla Cina come una sfida all’alleanza, questo rappresentante ufficiale dello stato ha affermato che “Abbiamo ripetutamente sottolineato che la NATO nel cosiddetto nuovo concetto strategico ignora i fatti, chiama nero bianco e persiste nel posizionare erroneamente la Cina come una sfida sistemica. La Cina è seriamente preoccupata per questo e si oppone fermamente”. In sole due frasi, la Cina ha screditato la letterale teoria del complotto dell’AMC sulle sue intenzioni.

Questo sviluppo per impostazione predefinita dà credito anche alle osservazioni precedenti sul suo sincero desiderio di concludere una nuova distensione con gli Stati Uniti, o una serie di compromessi reciproci volti a raggiungere una “normalizzazione” comparativa nelle loro relazioni in modo che possano poi lavorare insieme per rilanciare la globalizzazione . Ciò farebbe avanzare i loro grandi interessi strategici condivisi rispetto alla conservazione del duopolio di superpotenze bi-multipolari sino-americane che ha caratterizzato le relazioni internazionali fino allo scorso anno.

I due collegamenti ipertestuali precedenti si collegano ad analisi dettagliate su questi due concetti, proprio come quello sull’incidente del pallone nel primo paragrafo porta i lettori a una visione altrettanto profonda di quel recente evento, che dovrebbe essere rivisto da coloro che vogliono saperne di più su di loro. Sono oltre lo scopo della presente analisi, ergo perché sono solo collegati e non spiegati, dal momento che questo pezzo si concentra solo sull’attirare l’attenzione su come la Cina abbia appena screditato uno dei principali dogmi dell’AMC.

La realtà “politicamente scomoda” per questa collezione di manager della percezione è che la Cina non è interessata a intraprendere mosse ostili, dure o ostili contro il Golden Globe dell’Occidente guidato dagli Stati Uniti Billion , ma piuttosto ha sempre preferito riforme graduali amichevoli, gentili e non ostili dell’ordine mondiale. Cambiamenti improvvisi nel sistema internazionale come quelli seguiti all’operazione speciale della Russia rischiano di interrompere quei processi di globalizzazione da cui dipende l’intera grande strategia della Cina .

Quelli dell’AMC che sostengono sinceramente la Cina dovrebbero quindi ricalibrare immediatamente le loro narrazioni sulla sua politica nei confronti dell’Occidente. La Repubblica popolare si difenderà sempre con orgoglio dall’aggressione non provocata di quel blocco de facto della Nuova Guerra Fredda , ma non si impegnerà mai nemmeno nelle sue aggressioni non provocate contro di loro. Fantasticare che la Cina sia ossessionata dalla lotta contro l’Occidente coltiva false aspettative sulla sua politica estera che a loro volta portano a confusione e delusione.

Gli analisti dovrebbero sempre aspirare ad articolare le politiche dei loro soggetti nel modo più accurato possibile per riflettere il modo in cui oggettivamente esistono, non distorcerle secondo i propri desideri soggettivi su ciò che dovrebbero o non dovrebbero essere. L’AMC è stato infettato dal cosiddetto ” pio desiderio ” sulla grande strategia cinese, e coloro che continuano a rifiutarsi di correggere le loro affermazioni al riguardo dopo l’ultimo controllo dei fatti di Wenbin potrebbero presto essere sospettati da alcuni di agire come agenti di disinformazione.

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Stati Uniti! Volontari di pace….eterna_con Gianfranco Campa

Definitisi in qualche maniera gli schieramenti attorno al gioco ucraino ed europeo i centri decisori prevalenti negli Stati Uniti volgono la loro attenzione verso quelle crepe che potrebbero far vacillare il muro costruito intorno alla Russia e, soprattutto, la suicida accondiscendenza delle leadership europee. Tornano alla ribalta i soliti arnesi, nella fattispecie Soros, in qualità di imbonitore impegnato a prefigurare gli scenari, e Samantha Power nella veste di braccio armato. Personaggi già visti all’opera negli Stati Uniti, in Europa, in Libia, in Siria, in ogni angolo dove occorre sostenere finti avversari e destabilizzare nemici dichiarati, amici superflui e figure che semplicemente vogliono tenersi lontano dalle cattive compagnie. La loro attenzione condita di perfidia, questa volta e non a caso, si è concentrata sull’Ungheria e l’India. Gli ossi da rosicare si stanno rivelando sempre più duri e meno digeribili. Nel frattempo i colorati e spensierati palloncini che solcano pazientemente il cielo si stanno rivelando un ostacolo imprevisto ai piani diplomatici tesi ad uscire dal cul de sac nel quale si è al momento cacciata la diplomazia statunitense. Buon ascolto, Giuseppe Germinario
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MASSA, POTENZA, ADATTAMENTO AL MONDO COMPLESSO, di Pierluigi Fagan

Fu un articolo di Agamben del 2013 ad attirare allora la mia attenzione sul saggio di Kojève che prospettava l’idea dell’Impero latino. Da allora seguii questa traccia del pensiero come alternativa tra l’idea di un pieno ritorno allo stato nazionale o la continuazione della tormentata confederazione economico-giuridica dell’UE. Le ragioni erano le stesse di Kojève anche se sono passati più di settanta anni e quindi il mio punto di partenza non aveva nulla a che fare con le contingenze ideologiche del sovranismo e dell’europeismo. Kojève è detto filosofo, ma quello che scrisse sull’Impero latino lo scrisse soprattutto come funzionario del governo francese di cui poi divenne esponente della burocrazia direttiva (nelle istituzioni OEEC-CECA-UNCATD-GATT). K restringeva l’idea di impero europeo di Kalergi, alla comunità dei popoli latini.
Del resto, anche Kalergi, venti anni prima, era partito dallo stesso problema di Kojève, problema che continuiamo ad avere: che rapporti di forza ci sono tra i popoli europei e quelli anglosassoni o russi o cinesi (Kalergi temeva il Giappone dati i suoi tempi o forse la madre) o oggi anche la vasta area asiatica che è un sistema con un certo grado di vari tipi di similarità, pur nelle sue ricche partizioni etniche? O attualizzando l’agenda: come gestiranno gli europei il problema dell’Africa che crescerà nei prossimi trenta anni circa di altri due terzi di popolazione, età media intorno ai venti anni, per un rilevante totale di 2,5 mld, in genere poveri mentre noi saremo 0,5 mld, in genere ricchi?
Europa è geopoliticamente per destino geografico obbligata a definire i suoi gradi di interrelazione con Asia, Arabia, Africa. Qualunque società vogliate immaginar desiderabile avere nei prossimi trenta anni, questa dovrebbe esser quanto più possibile in grado di autodeterminarsi, ma poiché gli europei vivono in un ambiente di potenze che tentano di usarla a loro fini o che domani potrebbero minacciarla, tale facoltà si ottiene solo con la potenza. La potenza non scaturisce di per sé dalla massa, ma ne ha precondizione. Non ha alcuna rilevanza se a voi la “potenza” non piaccia come concetto o idea, è il contesto eco-politico in cui viviamo ad imporla. Non ci piaceva neanche fino ad un anno fa ed infatti ci siamo svegliati con una guerra terribile all’uscio di casa perché ci occupavamo più delle nostre paturnie ideologiche interne invece di curare le nostre relazioni confinarie, capendo dove andava a parare il Grande Gioco del Mondo.
L’Italia da sola potrebbe fare molto di più in politica estera come mi sembra sottolinei sempre Caracciolo, tuttavia quella non sarà mai “potenza”. Gli stati nazionali europei emergono da una specifica geo-storia. Basta prendere un Atlante se vi fa fatica qualche libro di storia e capirete come questa parte di mondo sia dedita alla speciazione varietale. Ma se queste furono le condizioni imperfette di partenza, due guerre fratricide hanno suicidato ogni condizione di possibilità di poter esprimere potenza. Nessun stato europeo da solo, neanche la Germania, ha la massa degli asiatici, degli indiani, cinesi, americani e financo russi e contraendo le proprie possibilità sul tavolo dei globali, ne avrà progressivamente sempre di meno.
Quale fosse l’interesse dell’Europa sul problema russo-ucraino era chiaro: non far scoppiare nessuna guerra, mediare e costringerli a trovare e rispettare un ….. di accordo. L’hanno fatto? Non hanno fatto rispettare gli accordi di Minsk, poi si sono svegliati attoniti davanti al mantra dell’aggressore e dell’aggredito scendendo di fatto come fronte di una proxy war degli americani contro i russi ed in parte viceversa. L’interesse geostrategico dell’Europa era fare guerra al proprio fornitore di gas con cui confina e svenarsi in spese militari per supportare il proprio non interesse? Per quanto gli europei siano strani, tutto ciò si spiega solo con un profondo difetto di potenza. La sottomissione di una antica civiltà, ormai senile per quanto aliena alla saggezza come poche, la culla della “democrazia” e della filosofia, un clamoroso fallimento adattivo.
Quindi il problema è sempre quello dei nostri due K precedenti, come fondere popoli, per ottenere potenza?
Fondere popoli è esercizio complesso e la sua precondizione è data dalla cultura e dal tempo. Il tempo è necessario per compiere i molteplici processi di una tale costruzione, tempo storico che esonda di molti gradi l’attualità, chi vive nell’attualità non ha sufficiente spazio mentale per affrontare questa questione, non è in grado di ospitarla mentalmente. Chi davanti a questo argomento si mette a pensare a Macron o Scholz o il neoliberismo o il globalismo lasci perdere, stiamo parlando di un altro livello.
Poi c’è la cultura poiché la natura stessa di definizione di “popolo” è culturale. Le stesse fusioni operate tra XV e XVI secolo e seguenti per formare gli stati-nazione europei si compirono operando suture lungo linee di diversa identità relativa. Ancora oggi baschi, catalani, isolani (corsi, ad esempio) hanno parziale rigetto delle varie unificazioni pur in condizioni di omogeneità relativa con coloro con cui si sono associati. Meno problematiche ma ancora presenti differenze interne agli stati, soprattutto in Spagna, Francia, Italia e relativamente anche la Germania. Lasciando sospeso lo statuto “europeo” del Regno Unito che è un problema a sé. Se quindi la definizione stessa di popolo è culturale questi progetti di unificazione tra diverse entità che ormai hanno una soggettività secolare distinta, è un problema culturale.
Per questa ragione l’Unione europea non ha alcuna possibilità storica di unificarsi compiutamente perché c’è un eccesso di eterogeneità. Dai matrimoni alle fusioni societarie ai partiti, eccesso di eterogeneità porta al fallimento di fusione ovvero al rigetto. Da questo punto di vista, l’Europa geostorica ha varie aree di relativa omogeneità interna che rimane eterogeneità reciproca. L’area latino-mediterranea con anche l’area greca, l’area anglosassone, l’area germano-balto-scandinava, l’area slavo-carpato-danubiana che però è geostoricamente assai tormentata e tutt’altro che omogenea. Se i popoli europei capissero il problema della loro dotazione di potenza per il nuovo problema della convivenza planetaria e non più regionale come è stato per due millenni passati, è a queste aree che dovrebbero riferirsi per progetti di progressiva fusione federale. Tra loro, queste nuove entità potrebbero rimanere in una intesa confederale che non abbia istituzioni centrali se non quelle necessarie a supervisionare una qualche forma di mercato in comune (ma non di moneta) e magari una forza armata continentale non esclusiva.
Kalergi fu forse il primo a comprendere questa questione della potenza necessaria alle dinamiche di scenario di una piattaforma mondo tra Prima e Seconda guerra euro-mondiale, ma non comprese il vincolo culturale. Del resto, era austro-ungarico. Questa posizione era diversa dalla sottile tradizione di utopico unionismo europeo che risale all’ecumene cristiano poi fino a Kant ed alcuni idealisti del XIX secolo. Tutti questi ragionavano ancora come se lo scenario fosse solo la convivenza europea. Se Kalergi fu il primo a comprendere il problema esterno, Kojève fu il primo a comprendere la necessità di un certo grado di omogeneità culturale, cosa che mi sembra sfugga ad Agamben. Né una astratta ragione di filosofia politica o geostorico-politica, tantomeno ragioni economiche possono mediare i problemi di fusione culturale.
Noi italiani siamo la dimostrazione pratica di come tali fusioni andrebbero fatte con tempo e criterio. Dall’Italia dei Comuni e principati alla tarda unificazione dall’alto del XIX secolo, pur avendo ampi gradi di omogeneità culturale relativa, siamo la dimostrazione vivente di come processi mal condotti lascino intatte molte contraddizioni che poi minano la compattezza del soggetto geostorico che si voleva unificare.
Questo argomento però non ha alcuna possibilità di esser discusso prima ancora che condiviso. Manca la conoscenza diffusa sotto il profilo storico e geografico, manca la conoscenza relativa a quanto il mondo sia oggi e sempre più domani il contesto decisivo. Manca la conoscenza dei vari aspetti di necessaria profilazione culturale e di contro abbiamo varie teorie supportate con estrema passione, a favore o contro, su lo Stato-nazione, l’Unione in atto, il fatto economico, l’euro, l’idea di società, la diatriba tra nazionalismo e cosmopolitismo, tutte cose che purtroppo non dovrebbero aver alcun vero peso nel discutere questo problema.
In fondo, anche gli unificatori dell’Italia, per quanto commisero vari errori, avevano chiaro che il problema principale era esterno quel “…calpesti e derisi perché non siam popolo, perché siam divisi”. Allora il problema era verso la Francia, il Regno Unito ed ovviamente la Germania e l’Austria Ungheria. Oggi il problema è la convivenza euroasiatica, il Mediterraneo, la Turchia ed il Medio Oriente, nonché il mondo arabo ed il grande problema africano, l’emancipazione dall’Impero anglosassone. Ma anche le questioni climatico-ambientali, quelle di potenza tecnologica, di dotazione militare, demografiche, energetiche ed ovviamente economiche e finanziarie ed anche poi culturali come scelta di civiltà, di come la nostra antica civiltà intende affrontare il XXI e seguenti secoli visto che il moderno è terminato.
Per affrontare questi problemi ci vuole massa a base di potenza tra coloro che sono in grado di darsi un interesse comune, quindi non certo con gli europei del nord o dell’est e tantomeno con gli anglosassoni che vivono su un’altra piattaforma continentale.
Qualunque società vi piaccia immaginare, dovete prima dotarvi di un soggetto politico statale in grado di sopravvivere al meglio nel contesto di un mondo di prossimi 10 miliardi di umani. Ma non essendo in grado neanche di intavolare la discussione, preferiamo dedicarci a discutere se è meglio farlo liberale o conservatore o socialista, un tipico caso di idealismo impotente in cui la forma si pensa prima della sostanza.

https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-l-u2019impero-europeo?fbclid=IwAR0bvO53rpSYaEs_7Z6GWrM2OFNdm1-_8d-n0b0Du4GBIXfBmV1Cnz2XPyc

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La “gara di logistica” autodichiarata dalla NATO conferma la crisi militare-industriale del blocco, di Andrew Korybko

A un anno dalla guerra. Qualche bilancio.

Articolo come sempre interessante di Andrew Korybko. A corollario allego il dossier fondamentale del CSIS, Centro Studi Strategici Internazionali statunitense, tradotto in italiano,sull’argomento_Giuseppe Germinario

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L’aspetto sorprendente di questa dinamica strategica è che le capacità militari-industriali combinate delle due dozzine e mezzo di Paesi del blocco non possono competere con quelle del singolo avversario russo. Questa constatazione dimostra a sua volta quanto sia potente il complesso militare-industriale della Russia, che è ancora in grado di sostenere lo stesso ritmo, la stessa scala e la stessa portata dell’operazione speciale in corso in Ucraina, nonostante le sanzioni contro di essa, mentre 30 Paesi del miliardo d’oro non possono fare collettivamente lo stesso.

Nell’ultimo mese si è speculato sul motivo per cui il Golden billion dell’Occidente guidato dagli Stati Uniti ha cambiato così decisamente la sua “narrazione ufficiale” sul conflitto ucraino , passando da una prematura celebrazione della presunta “inevitabile” vittoria di Kiev a un serio avvertimento sulla sua potenziale sconfitta in questa guerra per procura

Ciò ha assunto la forma di commenti correlati da parte del Primo Ministro,  del Presidente,  e del Capo dell’Esercito polacchi , nonché del Presidente e dello Stato Maggiore degli Stati Uniti, dopo i quali il New York Times ha ammesso che le sanzioni sono fallite.

Il  motivo per cui hanno deciso di spostare in modo così deciso la “narrazione ufficiale” è che la crisi militare-industriale della NATO, di cui il New York Times ha messo in guardia lo scorso novembre e che è stata poi accennata dal Segretario della Marina di Biden  il mese scorso, è finalmente diventata innegabile. Mettendo a tacere tutte le speculazioni precedenti, lunedì il Segretario Generale della NATO ha dichiarato la cosiddetta “corsa alla logistica” contro la Russia proprio con questo pretesto, confermando così la paralizzante crisi militare-industriale del blocco.

 Secondo la trascrizione della conferenza stampa preministeriale di Jens Stoltenberg, condivisa dal sito ufficiale della NATO in vista dell’incontro con i ministri della Difesa dell’alleanza anti-russa, egli ha dichiarato quanto segue, rilevante per questo argomento:

“È chiaro che siamo in una corsa logistica. Capacità fondamentali come munizioni, carburante e pezzi di ricambio devono arrivare in Ucraina prima che la Russia possa prendere l’iniziativa sul campo di battaglia.

……

I ministri si concentreranno anche sui modi per aumentare la nostra capacità industriale di difesa e ricostituire le scorte. La guerra in Ucraina sta consumando un’enorme quantità di munizioni e sta esaurendo le scorte alleate. L’attuale tasso di spesa per le munizioni dell’Ucraina è molte volte superiore al nostro attuale tasso di produzione. Questo mette a dura prova le nostre industrie della difesa.

Ad esempio, il tempo di attesa per le munizioni di grosso calibro è passato da 12 a 28 mesi.

Gli ordini effettuati oggi verrebbero consegnati solo due anni e mezzo dopo. Dobbiamo quindi aumentare la produzione. E investire nella nostra capacità produttiva.

Si tratta di una questione che abbiamo iniziato ad affrontare l’anno scorso, perché ci siamo resi conto che per fornire un enorme sostegno all’Ucraina, l’unico modo era quello di attingere alle nostre scorte esistenti. Ma ovviamente, a lungo termine, non possiamo continuare a farlo: dobbiamo produrre di più, per essere in grado di fornire munizioni sufficienti all’Ucraina, ma allo stesso tempo garantire di avere munizioni sufficienti per proteggere e difendere tutti gli alleati della NATO, ogni centimetro del territorio alleato.

……

Naturalmente, nel breve periodo, l’industria può aumentare la produzione con un maggior numero di turni, utilizzando maggiormente gli impianti di produzione esistenti. Ma per ottenere un aumento significativo è necessario investire e costruire nuovi impianti. Vediamo una combinazione tra un maggiore utilizzo della capacità esistente e la decisione di investire in una maggiore capacità. Questo è iniziato, ma abbiamo bisogno di più.

……

Quello che ho detto è che l’attuale tasso di consumo di munizioni è più alto, più grande dell’attuale tasso di produzione. Questo è un dato di fatto. Ma poiché ne siamo consapevoli da tempo, abbiamo iniziato a fare qualcosa. Non ce ne stiamo seduti a guardare mentre succede.

……

E naturalmente l’industria ha la capacità di aumentare la produzione anche a breve termine, a volte su capacità non utilizzate o non sfruttate. Ma anche quando si ha una fabbrica in funzione, si possono fare più turni. Si può lavorare anche durante i fine settimana.

……

Quindi sì, abbiamo una sfida. Sì, abbiamo un problema. Ma i problemi sono lì per essere risolti e noi stiamo affrontando questo problema e abbiamo strategie per risolverlo sia a breve termine che a più lungo termine come industria della difesa mobilitata. E se c’è qualcosa che gli alleati della NATO, le nostre economie e le nostre società hanno dimostrato per decenni, è che siamo dinamici, adattabili, in grado di cambiare quando necessario.

……

”E permettetemi di aggiungere che, naturalmente, anche la sfida di avere munizioni a sufficienza è una grande sfida per la Russia. Questo dimostra che si tratta di una guerra di logoramento e che la guerra di logoramento diventa una battaglia logistica e noi ci concentriamo sulla parte logistica della capacità di difesa, sulla capacità dell’industria della difesa di aumentare la produzione”.

Come dimostrato dalla conferenza stampa di Stoltenberg, non ci dovrebbero essere dubbi sul fatto che la NATO stia vivendo una crisi militare-industriale senza precedenti, responsabile di rimodellare le narrazioni dei suoi membri e la strategia complessiva nei confronti del conflitto ucraino.

 Questa auto-dichiarata “gara di logistica”, che egli ha anche descritto come una “guerra di logoramento”, dimostra innanzitutto che il blocco non era preparato  a condurre una prolungata guerra per procura contro la Russia, altrimenti avrebbe preventivamente riattrezzato i propri complessi militari-industriali di conseguenza. La recente ammissione del New York Times che le sanzioni antirusse sono un fallimento suggerisce anche che la NATO ha completamente sbagliato i calcoli in questo senso, aspettandosi che la Russia collassasse a seguito di tali restrizioni, cosa che non è accaduta.

Questi due fattori aggiungono un contesto cruciale al motivo per cui la “narrazione ufficiale” del miliardo d’oro sul conflitto è cambiata in modo così decisivo nell’ultimo mese. Semplicemente non possono sostenere il ritmo, l’entità e la portata della loro assistenza armata a Kiev, soprattutto dopo che le loro tanto sbandierate sanzioni non sono riuscite a catalizzare il collasso economico della Russia o, per lo meno, a dare al loro proxy un vantaggio in questa “gara logistica”/”guerra di logoramento”. Di conseguenza, sono stati costretti a cambiare il modo in cui presentano questo conflitto al loro popolo.

 Il fatto più significativo è che il Presidente polacco, nella sua  recente intervista a Le Figaro, non ha escluso lo scenario di concessioni territoriali alla Russia da parte di Kiev ,  che secondo lui dovrebbe essere una scelta esclusiva del Paese e non dei repubblicani contrari alla guerra. Anche Stoltenberg si è lasciato sfuggire, durante la sua ultima conferenza stampa, che “dobbiamo continuare a fornire all’Ucraina ciò di cui ha bisogno per vincere. E per raggiungere una pace giusta e sostenibile”, che non ha incluso la sua solita condanna esplicita dello scenario di concessione territoriale.

 “Questa stessa “pace giusta e sostenibile”, secondo Dave Anderson del Jerusalem Post, può essere ottenuta rinunciando finalmente alle proprie rivendicazioni territoriali. Nel suo articolo su come “Ucraina può vincere contro la Russia rinunciando al territorio, non uccidendo le truppe”, pubblicato per coincidenza lo stesso giorno della conferenza stampa di Stoltenberg, ha sostenuto che questa rapida risoluzione delle dispute territoriali dell’Ucraina con la Russia potrebbe portare a un’accelerazione della sua ammissione alla NATO.

Questo risultato garantirebbe in modo duraturo la sua sicurezza, rappresentando così una vittoria sulla Russia, almeno secondo la visione di Anderson. Nel contesto più ampio di questa analisi e in particolare dell’interpretazione delle osservazioni di Stoltenberg nella sua ultima conferenza stampa, il suo articolo può quindi essere visto come l’ultimo contributo a spostare decisamente la “narrazione ufficiale” sul conflitto ucraino nella direzione di precondizionare l’opinione pubblica occidentale ad accettare una sorta di “compromesso” con la Russia.

 Tutto questo, va ricordato al lettore, avviene a causa della crisi militare-industriale della NATO che ostacola le capacità dei suoi membri di sostenere il ritmo, la portata e l’entità dell’assistenza armata a Kiev. La loro “gara logistica”/”guerra di logoramento” contro la Russia è ovviamente a favore di Mosca, dopo che la Grande Potenza eurasiatica ha dimostrato di avere davvero i mezzi per sostenere il ritmo, l’entità e la portata della sua operazione speciale, nonostante le sanzioni senza precedenti del Golden billion contro di lei.

 Se qualcuno continuasse a negare l’esistenza di una crisi militare-industriale della NATO nonostante la sorprendente ammissione di Stoltenberg di lunedì, allora dovrebbe essere messo al corrente del rapporto esclusivo di Politico pubblicato lo  stesso giorno, che rafforza la sua affermazione. Quattro funzionari statunitensi senza nome hanno dichiarato che il loro Paese non può inviare a Kiev i “sistemi missilistici tattici dell’esercito” (ATACMS) richiesti perché “non ne ha da parte”.

Questa rivelazione dovrebbe quindi servire come la proverbiale “ciliegina sulla torta” che dimostra che la NATO si trova in questo momento nel mezzo di una crisi militare-industriale così grave che lo stesso leader statunitense non può nemmeno permettersi di risparmiare importanti munizioni che potrebbero dare ai suoi proxy a Kiev il vantaggio di cui hanno disperatamente bisogno in questo momento. L’aspetto sorprendente di questa dinamica strategica è che le capacità militari-industriali combinate delle due dozzine e mezzo di Paesi del blocco non possono competere con quelle del loro singolo avversario russo.

Questa intuizione, a sua volta, dimostra quanto sia potente il complesso militare-industriale della Russia, che è ancora in grado di sostenere lo stesso ritmo, la stessa scala e la stessa portata dell’operazione speciale in corso in Ucraina, nonostante le sanzioni contro di essa, mentre 30 Paesi del miliardo d’oro non possono fare collettivamente lo stesso. Se l’offensiva su larga scala di cui si parla dovesse concretizzarsi, probabilmente infliggerebbe un colpo mortale ai proxy della NATO, grazie al vantaggio della Russia in questa “gara logistica”/”guerra di logoramento”, costringendoli così a cedere finalmente le loro regioni contese.

https://korybko.substack.com/p/natos-self-declared-race-of-logistics

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 LA CRIMINALITÀ ORGANIZZATA COME SOGGETTO POLITICO. SECONDA PARTE a cura di Luigi Longo

 LA CRIMINALITÀ ORGANIZZATA COME SOGGETTO POLITICO. SECONDA PARTE

a cura di Luigi Longo

Connie, per tutta la vita ho cercato di

                                               elevarmi socialmente, perché credevo

                                               che in alto tutto fosse legale e corretto.

                                               Ma più in alto salgo, e più il fetore aumenta.

Michael Corleone*

 

Propongo la lettura di alcuni stralci tratti dalle opere di: Karl Marx, Il Capitale. Critica dell’Economia politica, Einaudi Torino, 1975, libro primo; Umberto Santino, La mafia come soggetto politico, di Girolamo editore, Trapani, 2013; Vincenzo Ruggiero, Perché i potenti delinquono, Feltrinelli, Milano, 2015; Etienne de La Boètie, Discorso sulla servitù volontaria, Piccola biblioteca della felicità, Milano, 2007.

Perché suggerisco la lettura di questi stralci?

Perché i citati scritti portano a riflettere su quattro questioni importanti: 1) la propaganda, l’ideologia, la mistificazione e l’inganno della cattura di Matteo Messina Denaro (latitante da 30 anni con coperture istituzionali a tutti i livelli che sono indicative delle relazioni tra la mafia e i decisori che utilizzano lo strumento stato per l’affermazione del proprio potere e dominio sociale) che segue la stessa scenografia di altre catture eccellenti da quella di Michele Greco a quella di Bernardo Provenzano; 2) l’ipotesi che la criminalità organizzata (mafia, n’drangheta, camorra, quarta mafia, eccetera) sia una questione che riguarda la struttura sociale della cosiddetta società capitalistica; cioè, la criminalità organizzata non è una patologia della società de le magnifiche sorti e progressive che va estirpata, ma è una configurazione sistemica della società dove il potere legale e il potere illegale si intrecciano, si innervano; 3) gli agenti strategici della criminalità organizzata fanno parte del blocco di potere e di dominio che decide le sorti del Paese; 4) la cattura di Matteo Messina Denaro chiude una fase della mafia non più sufficiente per le nuove trasformazioni (la stessa riflessione può valere anche per le altre organizzazioni criminali che si stanno ristrutturando e trasformando) che la vecchia società gravida di una società nuova impone e si apre a nuove configurazioni (nuove alleanze, nuove direttrici, nuove strategie) che tengono conto delle trasformazioni che la fase multicentrica impone e determina con i nuovi modelli sociali che avanzano nello scontro tra le potenze mondiali per l’egemonia (abbiamo visto come Matteo Messina Denaro, espressione di gruppo di potere, era ben introdotto nelle trasformazioni della cosiddetta transizione energetica così come lo sono le altre criminalità organizzate).

Preciso che i suddetti agenti strategici non vanno confusi con quelli che gestiscono ed eseguono le strategie; un esempio storico è la morte di Enrico Mattei, i cui mandanti sono da ricercare nei cotonieri lagrassiani per il loro progetto di sviluppo servile agli Stati Uniti, ma è opera degli esecutori che gestiscono ed eseguono gli ordini strategici. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino avevano intuito quale fosse la profondità del problema (questo era il terzo livello di cui parlava Giovanni Falcone, non altro) che necessitava di altri saperi e di altri soggetti in grado di capire, conoscere, interpretare e agire per contrastare un modello sociale egemone (gramscianamente inteso di consenso e di coercizione) basato sulla violenza del dialogo politico, dove la coercizione viene attuata anche con mezzi criminali e non con raffinati metodi democratici. Nella lotta alla criminalità organizzata non bastava l’aspetto giudiziario insufficiente e in via di costruzione, oltre ai limiti dati dalla farsa della divisione dei poteri che scambia gli equilibri egemonici degli agenti strategici dominanti con l’autonomia dei poteri.

A questo punto pongo tre domande: esiste una sorta di azione giuridica preventiva con cui ridurre il potere della criminalità organizzata considerato che tutte le Relazioni del Ministero dell’Interno al Parlamento sulla attività svolta e i risultati conseguiti dalla Direzione Investigativa Antimafia presentano mappature dei territori con la loro spartizione delle aree di controllo, di influenza e le relative relazioni internazionali (anche con supporto informatico contenente le proiezioni mafiose regionali-specificità provinciali) con tanto di riferimento dei decisori della sfera militare e della sfera economica (legale e illegale) della criminalità organizzata e relative relazioni internazionali? Quali sono le conseguenze politiche delle suddette relazioni ministeriali (qui la politica è intesa come prassi reale di cambiamento!)? L’azione giuridica esprime un libero rapporto o esprime un vincolo sistemico del rapporto di potere e di dominio?

La criminalità organizzata, declinata nelle varie realtà regionali (Sicilia-mafia; Calabria-n’drangheta; Campania-camorra; Puglia-quarta mafia; eccetera) con le relative articolazioni territoriali e ramificazioni nazionali e internazionali, è presente in tutte le sfere sociali tramite l’intreccio tra potere legale e potere illegale storicamente dato. Pertanto, non bisogna fermarsi all’aspetto giudiziario che riguarda solo la sfera militare e la sfera economica della criminalità organizzata (e poco sa delle altre sfere sociali: istituzionale, politica, territoriale, eccetera) ma occorre allargare lo sguardo all’insieme della società cosiddetta capitalistica. La peculiarità della criminalità organizzata è nello strumento violento del conflitto tra gli agenti strategici non nella finalità dell’accumulazione del denaro (inteso sia come rapporto sociale del capitale sia come investimento in sé) che rientra nelle relazioni sociali del funzionamento del sistema capitalistico basato sia sul potere che si viene a configurare nelle diverse sfere sociali sia sul dominio dell’intera società.

Chi deve allargare lo sguardo e farsi portatore di un nuovo modello sociale della maggioranza della popolazione? Chi deve dare nome al volgo disperso di manzoniana memoria? Occorre un nuovo soggetto storico di trasformazione che tenga conto della lezione della storia rivoluzionaria che, dispiace per Giambattista Vico, non va ridotta solo all’eterogenesi dei fini ma va letta soprattutto per la mancata costruzione di un soggetto sessuato come sintesi di differenze di intendere i rapporti sociali storicamente dati (oggi forse cominciano a esserci le condizioni per riflettere seriamente).

In questa cornice di ipotesi di ragionamento ho pensato al capolavoro di Karl Marx sulla violenza, sulla illegalità, sulla legge come strumento della criminalità nell’accumulazione originaria che ha preparato la strada al nuovo modello sociale basato sul modo di produzione capitalistico; così come ho pensato a Umberto Santino, fondatore e direttore del Centro siciliano di documentazione “Giuseppe Impastato” di Palermo (il primo centro studi sulla mafia e altre forme di criminalità organizzata sorto in Italia, 1977), che con i suoi lavori sulla mafia come soggetto politico può stimolare ricerche strutturali nelle altre regioni di consolidata e storica presenza della criminalità organizzata con le loro articolazioni territoriali, nazionali e internazionali. L’importanza delle radici, della storia, dell’ambiente, del costume, eccetera del territorio è fondamentale per gli agenti strategici criminali per costruire reti sociali e radicamento territoriale (inteso nell’accezione più ampia: città, campagna, ambiente, paesaggio): i teorici del superamento dello stato (quanta confusione tra stato e nazione e tra nazione e nazionalismi) devono andare a lezione da loro per capire il senso profondo di appartenenza ad una nazione come espressione storica e territoriale di un popolo; così come mi è sembrato utile il lavoro dello studioso Vincenzo Ruggiero, docente di Sociologia e direttore del Crime and Conflict Research Centre presso la Middlesex University di Londra, sull’intreccio tra potere legale e potere illegale che “convocando accanto alla criminologia e alla sociologia una vasta serie di altri saperi, dall’economia alla filosofia, […] illumina passo dopo passo la sottile ragnatela di strategie che consentono al potere di stare contemporaneamente dentro e fuori dalla legge, di piegare il discorso pubblico alle proprie necessità di giustificazione, di costruire contesti in cui i propri scopi possano assumere le sembianze degli scopi di tutti e di ciascuno”; infine ho pensato al concetto di servitù di Etienne de La Boètie, esperto ellenista e un conoscitore del pensiero e della saggezza antiche (1530-1563), come espressione di una ricerca della libertà come fondamento di un nuovo ordine sociale capace di valorizzare la individualità personale e sociale come espressione di un popolo che vive un determinato territorio (sul concetto di libertà si legga il Guglielmo Tell di Friedrich Schiller, Fratelli Fabbri Editori, Milano, 1968) chiamato nazione (possiamo chiamarlo paese per una nuova ri-elaborazione del concetto di nazione) in maniera autodeterminata in relazione ai diversi e peculiari territori mondiali.

 

* L’epigrafe è tratta dal film Il padrino, parte III, di Francis Ford Coppola, trilogia dei Corleone, 1990.

 

 

3.VINCENZO RUGGIERO, PERCHÉ I POTENTI DELINQUONO, FELTRINELLI, MILANO, 2015, pp. 10-185.

 

Introduzione

 

La forza dirompente del potere […] gli individui e i gruppi potenti possono trasgredire le regole che pure li favoriscono, possono ignorarle o riscriverle se ostacolano la loro azione, possono reclamare che i loro interessi corrispondono agli interessi di tutti e per questo vanno sostenuti dagli interventi governativi.

 

L’insufficienza delle leggi, delle norme, delle strategie tecniche, amministrative, ambientali, architettoniche, o semplicemente poliziesche per combattere e arginare il potere con la sua criminalità.

 

I potenti commettono violazioni mentre dichiarano implicitamente lealtà verso le loro stesse leggi, stimolando così “comportamenti di orda”, vale a dire condotte imitative incoraggiate dal loro visibile successo. Vi è un misto di consenso e imitazione, di coercizione e occultamento.

 

Una distinzione schematica tra norme come riflesso di valori universali applicati a tutti e norme come repertorio di tecniche per la perpetuazione del potere. […] l’apatia politica potrebbe degenerare in rapporti sociali disfunzionali, mentre l’assenteismo dalla vita pubblica potrebbe incoraggiare individualismo estremo e criminalità. “Giocare a bocce da soli” è ormai divenuta un’espressione comune per descrivere il declino dello spirito pubblico, la perdita del senso di comunità e il crescente egoismo.

 

Il potere criminale e non (mia specificazione, LL) è esercitato da attori (agenti strategici, mia specificazione, LL) il cui potere costituisce una risorsa disponibile anche in altri contesti e per altre iniziative, attori che, dopo aver utilizzato il proprio potere per commettere crimini, possono facilmente tornare nelle altre sfere della loro esistenza e continuarlo a esercitarlo.

 

1.Una classificazione criminologica

 

Crimini di potere

 

La formulazione “i crimini del colletto bianco sono crimini commessi da persone rispettabili e di alto status sociale nel corso della loro occupazione” […] In alternativa a “crimini dei colletti bianchi” sono state suggerite definizioni come devianza di èlite, devianza ufficiale e devianza d’impresa […] Altre definizioni intese a ridurre il raggio di quella originaria e identificare condotte più specifiche sono: reato economico, crimine politico, delitto governativo e criminalità degli affari.

 

 

 

Agenti di stato e attori economici

 

Il conflitto tra gruppi […] diventa causa prima, esclusiva variabile esplicativa della criminalità dei potenti, mentre le stesse definizioni di criminalità diventano l’esito di battaglie ingaggiate nell’arena del diritto, dove i potenti riescono a distanziarsi dalle imputazioni di illegalità e attribuirle ai deboli.

 

Organizzazioni e loro costituenti

 

Quando le organizzazioni diventano complesse, le responsabilità vengono decentrate, mentre chi ne fa parte si ritrova in un ambiente opaco nel quale i fini da perseguire e le modalità per perseguirli si fanno vaghi e negoziabili. Le organizzazioni possono essere “meccaniche” oppure “organiche”, con le prime che operano in condizioni di relativa stabilità, e le seconde che si adattano a condizioni mutevoli […] Le pratiche illegali possono essere il risultato delle mutate condizioni, in quanto è in opera un impulso incessante teso a individuare nuovi modi di raggiungere gli obiettivi e, di conseguenza, di innovare attraverso la reinvenzione o la violazione delle regole. Ogni organizzazione, d’altro canto, è costituita da individui e gruppi che perseguono i propri limitati interessi, sebbene i conflitti interni vengono raramente resi ufficiali ma nascosti dietro immagini pubbliche di armonia […] Le alleanze si intrecciano e si dissolvono, i fini contingenti e il clima di costante antagonismo caratterizzano l’esistenza quotidiana delle organizzazioni, i cui obiettivi sono indefiniti quanto l’esito delle lotte di potere che si combattono al loro interno.

 

Concorrenza senza freni, arroganza pervasiva e un’etica della titolarità (o del merito). Ecco perché la devianza germoglia non solo nelle taverne e nei lupanari, ma anche negli uffici delle grandi compagnie corporate (estendibile a tutte le sfere sociali, mia precisazione LL).

 

Crimine operativo di potere

 

Il primo tipo di “crimine di potere” […] si manifesta quando i gruppi e gli individui potenti violano le loro stesse regole e la loro stessa filosofia.

 

 

 

Crimine di potere gangsteristico

 

[…] quegli episodi che vedono attori potenti commettere reati convenzionali. […] imprenditori che rubano, investono capitali in droghe illecite o finanziano sequestri di persone, spinti da urgente bisogno di danaro […] Queste condotte vanno collegate ai contesti che consentono l’accesso a reddito illegale supplementare, a situazioni che offrono la prospettiva di profitti rapidi quando nella routine degli affari si avvertono declino o crisi. A questo proposito, si potrebbe ipotizzare l’esistenza di “isole illegali” a disposizioni delle imprese, le quali possono farvi delle incursioni periodiche o occasionali pur mantenendo il proprio status di imprese legittime.

 

Crimine di potere delegato

 

[…] il “crimine di potere delegato” comporta l’utilizzo da parte di attori ufficiali potenti di un braccio armato illegittimo o clandestino. Si tratta di un crimine commesso per interposta persona.

 

Crimine di potere associato

 

[…] i reati commessi congiuntamente da individui o gruppi legittimi e illegittimi. Anche in questo caso i reati consistono nell’erogazione di un servizio illegale, su delega ricevuta da attori legali, con un accordo tra le parti che però si presenta come esplicita transizione tra pari.

 

Crimine di potere filantropico

 

“Gli stati moderni uccidono e saccheggiano su una scala che nessuna banda di rapinatori potrebbe emulare”. […] I criminali filantropi, insomma, riescono a respingere l’etichetta criminale da se stessi e dalla propria attività e a persuadere gli altri che i loro fini corrispondono ai fini della collettività.

 

Crimine di potere fondativo

 

Molti crimini di potere fondativo si verificano nella sfera economica e riguardano, ad esempio, la legislazione sul lavoro, che è soggetta alla logica sperimentale degli imprenditori (il lavoro nero può diventare flessibilità, ad esempio). Altri vanno attribuiti alle grandi imprese, che nel violare le regole cercano di creare di nuove, in una corsa che vede la legge inseguire l’economia, non viceversa (per esempio, il caso dell’ex Ilva di Taranto, mia precisazione LL). Tuttavia, il terreno più significativo nel quale si verificano crimini di potere fondativo è quello contrassegnato dall’uso di una risorsa cruciale: la violenza. […] In nome dell’emergenza, comunque, le libertà sacrificate potrebbero non essere ripristinate: l’idea di uno scambio tra libertà e sicurezza è a sua volta fondante e ridisegna i diritti umani e civili mentre decriminalizza la loro violazione.

 

E’ l’economia stupido!

 

Clinton […]: è l’economia, stupido!

Attraverso questa espressione, vorrei designare quei reati di potere che sono collocati all’estremo del continuum legale-illegale, vale a dire quell’area dove il comportamento economico e quello criminale si confondono e rivelano una intima contiguità. Penso a pratiche legittime ma dannose, a condotte ispirate dai valori cardinali delle economie di mercato. Queste pratiche possono essere associate allo sfruttamento senza limiti del lavoro e della natura, o alle innovazioni perpetue introdotte nel sistema produttivo alle quali Schumpeter aveva dato il nome di processo di creazione distruttiva. In questo terreno, gli studiosi hanno ampia scelta: possono analizzare la natura criminale della distanza tra costi e prezzi (come in Weber), l’origine criminale dell’accumulazione capitalistica (come in Marx), le specifiche qualità psicologiche che dispongono gli imprenditori a saccheggiare il prossimo (come Sombart).

 

Conclusione

 

I delitti dei potenti sono esempi di come le condotte in se stesse riprovevoli e le condotte proibite per legge possono convivere nella medesima categoria. Il crimine dei potenti, insomma, incorpora mala in se e mala prohibita, ma anche comportamenti che non sono ancora percepiti come mala tout court in quanto nessuna

legge li proibisce […].

 

 

 

  1. Paura del futuro

 

Mercati e comunità

Seguendo una distinzione weberiana, il potere implica l’uso o la minaccia dell’uso della forza su coloro che ricevono ordini, mentre il dominio va interpretato come propensione legittimata, interiorizzata, a ubbidire.

“Il potere è la probabilità che un attore in un rapporto sociale imponga il proprio volere contro ogni resistenza. La dominazione è la probabilità che un ordine di un determinato contenuto venga eseguito. La disciplina è la probabilità che, grazie all’abitudine, un ordine riceva obbedienza immediata e automatica” (Weber…).

Simmel mostra che le relazioni “molecolari” determinano i fenomeni sociali e che le aggregazioni e i sistemi “preservano la loro visibilità ed esercitano le loro funzioni solo se sostenuti giorno dopo giorno da una moltitudine di piccoli, invisibili episodi di interazione”. I gruppi potenti […] riproducono se stessi e il proprio modo di operare grazie alle modalità poco appariscenti con le quali scelgono gli obiettivi e i mezzi per raggiungerli. Quello che è importante notare è che tutto questo avviene attraverso rapporti “molecolari”, tra individui connessi e integrati in “reti” di costante e minuta interazione. […] “Sui lunghi periodi storici, le reti di fiducia più persistenti formate da predatori efficaci sono costituite da agenti governativi che svolgono semplicemente le loro funzioni” (Tilly…). Le reti di fiducia possono trasformare e catturare dei segmenti rilevanti delle attività governative: ad esempio, acquistare favori da burocrati e politici, ricoprire cariche pubbliche per servire interessi privati e creare dal nulla “delle agenzie governative interamente dedite ai vantaggi di gruppi specifici” […] Le relazioni “molecolari” di Simmel, dalle quali l’analisi delle reti di fiducia sembra derivare, spiegano perciò come possono prendere forma quegli aggregati durevoli dai quali origina la criminalità dei potenti, e come quest’ultima possa divenire uno tra gli altri aspetti del dominio. […] Anche il desiderio astratto di dominare, secondo Simmel, si inscrive in una relazione sociale. I “super-ordinati” ricavano soddisfazione dal fatto che è il loro volere a determinare le azioni e le sofferenze dei “sub-ordinati”. Il significato di un atto di dominazione consiste perciò nella consapevolezza da parte di chi lo esercita della propria efficacia nel dominare. D’altro canto, il desiderio di dominio incorpora una certa attenzione per la persona dominata, e il concetto di società sparisce soltanto quando una delle due parti coinvolte nell’interazione viene eliminata.

  1. La legge del potere

 

La legge come truffa

 

La legge, che sia positiva, incerta, vestita di penombra o indeterminata, costituisce comunque un veicolo attraverso cui le ideologie egemoni e le ineguaglianze sociali si riproducono. Qui arriva Trasimaco, ben accolto nella tradizione marxista, secondo il quale occorre sempre svelare le relazioni sociali inique che si nascondono dietro le categorie giuridiche: l’ingiustizia viene riprodotta ed esacerbata da statuti e costituzioni. […] “Le relazioni tra soggetti sono semplicemente l’altra faccia delle relazioni tra i prodotti del lavoro diventati merci”, asserisce Pashukanis (…), reiterando così che il diritto è un aggregato di regole artificiali, un’astrazione inanimata che giustifica lo sfruttamento. Le norme giuridiche non avrebbero senso in società prive di un’economia monetaria e di mercato e il soggetto giuridico, per questo motivo, “ha la propria base materiale nella persona che opera nei mercati egoisticamente” (…).

 

Insaziabilità e regole d’eccezione

 

Le categorie giuridiche sono politicamente orientate e “le èlite sociali si sono raramente preoccupate dell’ordine sociale in astratto, ma dell’ordine sociale concreto e delle norme specifiche che promuovono i loro interessi economici, politici e di status” (Chambliss e Mankoff…) […] Secondo Schmitt, le leggi vanno esaminate contestualmente, nell’ambito in cui assumono validità, e non possono sostituire l’autorità sovrana, che a volte è costretta a ignorare le procedure, a prendere decisioni di fronte al mutare delle circostanze e a esprimere comando e dominio che prescindono dai dettati legislativi (Gottfried…). In breve, contrariamente all’apparato esplicativo che da Trasimaco giunge fino a Marx, Schmitt suggerisce che la razionalità è l’ultima delle caratteristiche che dobbiamo attribuire alla legge. […] I criminali potenti […] assumeranno la qualità di “funzioni”, agenti del progresso privi di obblighi rispetto alle norme stabilite. La legittimità del loro agire, penseranno, è testimoniata dal successo che conseguono.

 

 

 

 

Norme e azione

 

I criminali potenti vengono aiutati nella loro impresa dalla plasticità dei principi di giustizia, che sono mutevoli e offrono a una varietà di azioni umane una corrispondente, legittima esplicazione. Questa plasticità connota la legge, che non va vista come arena di un mondo separato o delimitato dai suoi stessi principi: la sua agilità la rende sensibile agli eventi che hanno luogo in altre sfere, come quella politica, quella economica, o nella vita quotidiana. […] La logica giuridica, insomma, deriva dalle reti sociali che le danno significato e forma. Parafrasando Latour, possiamo affermare che la verità giuridica senza una rete sociale che la sostiene è come un filo elettrico senza elettricità, un gas senza tubature, una conversazione telefonica senza telefono.

 

Cavalieri fuorilegge

 

I sostenitori della stretta legalità vanno ritenuti dei formalisti, in quanto fanno derivare le norme di condotta dai testi scritti, senza attribuire una speciale funzione ai valori, alle inclinazioni ideologiche o alla cultura di chi amministra la giustizia. Per i formalisti è un compendio di testi, come una Bibbia, “e il compito del giudice e di altri operatori di giustizia consiste nel discernere e applicare la logica di quel compendio” (Posner…). Chi si limita a interpretare i testi giuridici è indifferente alle conseguenze pratiche delle sue interpretazioni. Al contrario, i realisti sono sensibili all’esito che deriva dall’applicazione delle norme scritte, e ne esaminano le conseguenze sistemiche insieme a quelle specifiche, contingenti. […] Nel primo caso i potenti confermeranno che la loro impunità si deve al sostegno preferenziale che ricevono dalle norme, mentre nel secondo caso invocheranno il proprio diritto a ignorarle e, pragmaticamente, modificarle. […] Per Holmes […] la contesa politica equivale a un processo naturale di selezione, e a vincere è sempre il più forte. Il diritto, a sua volta, rifletterà sempre la forza relativa delle parti sociali in conflitto.  E se cambiamento legislativo deve esserci, che sia semplice e rapido, e soprattutto che segua la traiettoria e l’evoluzione del potere, la sua accumulazione e polarizzazione: “Gli interessi più forti devono trovare rispecchiamento nella legislazione che, al pari di altri dispositivi umani e animali, tendono a favorire la sopravvivenza dei più forti” (Posner…). […] Don Chisciotte e Sancho Panza simboleggiano il dibattito sulla storia della giurisprudenza, esprimendo stupore di fronte all’uso che i potenti fanno del diritto. Non vi è segno di umanità o divinità nelle pratiche di cui i nostri eroi sono testimoni: la gente comune viene gettata in galera, mentre gli ufficiali crudeli e i ripugnanti proprietari di schiavi sono protetti dalle leggi. […] i potenti utilizzano e allo stesso tempo sfidano le leggi, avendo il diritto di sospendere i diritti e di disegnarne altri a loro vantaggio. […] Queste leggi sono state create da coloro che regolarmente le violano. E se tra i potenti vi è qualche genuino cavaliere che prova un senso di vergogna, particolarmente se di lignaggio elevato, la maggioranza è costituita da bulli volgari e fuorilegge.

 

  1. Dominazione, egemonia e violenza

 

[…] la politica mette in gioco il potere, vale a dire la capacità dei gruppi sociali di mantenere o modificare i modelli della convivenza e le modalità di distribuzione delle risorse. Inoltre, fornisce definizioni dello stato [da intendere come luoghi istituzionali dove viene esercitato il dominio degli agenti strategici egemonici, LL], spiega la sua abilità nel creare consenso e la sia idoneità a promuovere rapporti significativi con i cittadini, tra i cittadini e con gli altri stati.

 

La polis dell’èlite

 

La polis è allo stesso tempo un artificio sociale e una associazione naturale, in quanto gli esseri umani sono animali politici per natura. E in maniera altrettanto “naturale” mirano all’eudaimonia, a quella condizione generale di benessere che è un fine in se stesso, qualcosa che gli umani perseguono senza chiedersene motivo [mica tanto un fine in se stesso. C’è la questione del senso della vita, LL]. Questo fine sufficiente a se stesso può essere raggiunto attraverso la ragione, che guida i nostri atti e conferisce valore alla vita (Aristotele…). “La vita buona è una vita durante la quale esercitiamo bene questa funzione, cioè uniformemente ai dettati dell’eccellenza e della virtù” (Stalley…). […] Soltanto una piccola frazione di cittadini, comunque, sarà in grado di conseguire la virtù, anche se è necessario lo sforzo di tutti affinchè la polis possa prosperare. La maggioranza […] dovrà mettere la minoranza in condizioni di dedicarsi allo svago, alla contemplazione, alle imprese collettive che creano benefici materiali ma anche valori condivisi. Ecco perché Aristotele concepisce una polis abbastanza piccola da consentire a coloro che vi abitano di conoscersi l’un l’altro e di interagire costruttivamente. Ma questa concezione della polis come aggregato dai fini comuni non può esistere “senza l’esistenza degli schiavi e degli stranieri residenti che non sono legittimi membri della polis e non condividono i privilegi”. […] l’èlite sia il “guardiano” della legge e della moralità, incapsulate in un’unica parola, nomos, una serie di regole che vincolano gli “animali umani”, stabiliscano i costumi, guidano le pratiche e, in ultima istanza, suggeriscono una distinzione tra quello che è giusto e quello che non lo è. La criminalità dei potenti, in questa prospettiva, rivela l’abilità dell’èlite di controllare, modificare e ricostruire un nomos favorevole alle sue azioni. […] Le violazioni della legge da parte dei gruppi potenti vengono analizzate da Aristotele congiuntamente alle cause dei conflitti tra fazioni. L’èlite, con la sua “passione per l’ineguaglianza” e il suo “senso di superiorità”, si sente in diritto  di possedere i vantaggi di cui gode e manifesta un crescente appetito per vantaggi sempre nuovi. Le sue azioni illecite sono il risultato di uno “stato d’animo”, che fa apprezzare oltre misura “i profitti e gli onori” […]. La promulgazione di nuove regole, che rientra tra i poteri politici dell’èlite, permetterà di decriminalizzarne le condotte.

 

La polis di Dio

 

[…] Il mondo della politica, secondo sant’Agostino (…), è caratterizzato da interesse privato, mancanza di attenzione per il benessere collettivo e coesistenza del bene e del male. I destinati alla salvezza e i destinati alla dannazione tendono anch’essi ad amalgamarsi, anche se costituiscono due classi di persone che Agostino designa col nome collettivo e allegorico di città: la città di Dio e quella terrena. Nella seconda troviamo la progenie mai affrancata di Adamo ed Eva, giustamente condannati per la loro “caduta”. Si tratta di persone aliene all’amore di Dio, come dimostrano la loro disposizione ribelle, l’attrazione che provano per i beni materiali e il desiderio di dominare gli altri. Sono questi i fondatori dello stato politico, che si suppone dominato da volgarità, abusi e ingordigia. La mancanza di giustizia rende i gruppi politici simili a bande di criminali, anche perché nessun stato incorpora la giustizia vera, e la legittimità di qualsiasi regime politico va valutata solo in termini relativi. Il confine tra quello che è legale e quello che è illegale cambia con la distanza che separa il potere politico dalla giustizia vera, che i sistemi terreni, comunque, non raggiungeranno mai. […] Al potere, tuttavia, è concesso delinquere sia quando persegue il bene più elevato sia quando è motivato da fini più bassi. La salvezza, in altre parole, è assicurata a tutti, anche a coloro che si macchiano di azioni deprecabili: la fede libera ognuno dall’obbligo di compiere atti virtuosi, la rettitudine del credente trascende la legge e la moralità.

 

Potere come contratto

 

Rousseau ritiene che le società stabili e democratiche siano ispirate da una “religione civile”, vale a dire da sentimenti intensi di obbligazione reciproca, appartenenza e dovere. I cittadini legati tra loro da simili sentimenti esprimono attaccamento per uno specifico ordine sociale e politico […]. In questo modo, all’ordine sociopolitico viene attribuita una forma di santità che richiede dedizione e affetto per le istituzioni e le norme. Chi dissente dai principi di questa religione civile deve essere bandito, in quanto gli asociali non sono in grado di apprezzare la giustizia e sono sempre disposti a complottare per sovvertirla. “Il senso civico, quindi, è incompatibile con la critica all’assetto politico”, né è accettabile che un individuo si separi dal gruppo: il sistema richiede unanimità (Nussbaum…).

 

Tra ragione e passione

 

[…] L’autorità politica, secondo Montaigne, non si basa sulla ragione, e tanto meno sulla legge naturale. Gli attori politici seguono una necessità umana e prendono decisioni in circostanze mutevoli, contingenti, per cui l’ordinamento politico è una sintesi di bisogni immanenti, passione umana e depravazione. […] Montaigne traccia il profilo del regno della politica come regno di attività umana nel quale ha luogo il conflitto sulla distribuzione delle risorse. La politica, insomma, non viene assimilata al dibattito razionale o alla conciliazione pacifica degli interessi, ma a un repertorio di intimidazioni, minacce e violenze […] La criminalità dei potenti, da questo punto di vista, consiste in azioni pratiche che stabiliscono nuove norme attraverso la violazione di quelle correnti, in un susseguirsi di iniziative avventurose che mirano a conservare o espandere i privilegi. Siamo lontani dal razionalismo di Cartesio, secondo cui la politica unisce conoscenza intima ed esercizio pubblico del potere, una sfera di azione umana nella quale le autorità diffondono ragione e insegnano rispetto per il benessere della collettività […]. Siamo anche distanti dalla giustizia universale di Leibniz, che annulla il male rendendo il potere politico il risultato dell’amore divino e della perfezione. Piuttosto, siamo molto prossimi alla nozione di Pascal (…) secondo cui il potere riflette la pura volontà del sovrano e la forza costituisce lo strumento chiave della vita pubblica. Si tratta di una forza che, contemporaneamente, rende accettabile ogni condotta dei potenti, fa dei privilegi altrettanti meriti e della loro approvazione un segno di ordine sociale.

La variabile “forza” fa ritorno in Voltaire (…), il quale non la condanna come criminale ma la glorifica come mezzo per sconfiggere le energie sparse che sfidano l’autorità centrale. Al contrario, in Vico (…) potere e forza si combinano in una miscela adatta a governare i conflitti sociali e bilanciare gli interessi in concorrenza. Il crimine, in questa formulazione, si può intravedere nel suggerimento che i governi, per sopravvivere, devono adottare tecniche e modalità arbitrarie, e che il potere politico ideale si costituisce come apparato unitario capace di fare dell’impostura uno strumento accettabile. Il potere, quindi, per funzionare come potere, deve essere criminale. […] Montesquieu sembra evocare una nozione di potere come capacità di forgiare soggetti che accetteranno ogni sua manifestazione, benevola o malvagia. La criminalità dei potenti, da questo punto di osservazione, rientra tra i mezzi necessari utilizzati dai governi per tenere salda l’unità nazionale.

 

Imperativi e sovrastruttura

 

In Kant […] lo sviluppo culturale della specie umana trova ancora nella guerra uno strumento indispensabile al suo perfezionamento, nonostante la “mercificazione” degli altri che la guerra comporta. […] Kant (…) articola la sua dottrina di “male radicale” parallelamente alla sua filosofia delle legge morale: esiste negli umani un nemico invisibile che spinge alla competizione, all’amore per se stessi, all’invidia, alla dipendenza dal potere, all’avidità, alla corruzione. […] La criminalità dei potenti […] è tra le innumerevoli manifestazioni di questo “male radicale”, è un esito della realtà incorreggibile della natura umana. […] anche le componenti separate, criminali, dello stato fanno parte del “tutto” come unica entità reale esistente. Forse è per questo motivo che, mentre invoca punizioni di severità crudele nei confronti dei criminali di strada, evita di enumerare le pene adatte a sanzionare i criminali potenti (Ruggiero…) Questi ultimi, nella sua costruzione filosofica, sono privi di specifica singolarità, sono perciò logicamente inesistenti. Seguendo la sua classificazione, possiamo collocare la criminalità dei potenti tra gli atti involontari di chi non ha intenzione di violare le leggi e che condivide con le persone oneste l’opinione di che cosa si debba intendere per comportamento accettabile. I criminali potenti, in altre parole, possono anche negare la validità e la supremazia morale di certe norme in determinate circostanze, ma non negano il carattere universale delle leggi nel loro complesso. […] L’autorità politica non è idonea a incoraggiare la moralità, né incorpora la spiritualità dei cittadini; è semplicemente il potere organizzato di una classe che ne opprime un’altra. […] la politica viene ritenuta una componente della sovrastruttura, un corollario della base economica che dà fondamento a un sistema sociale (Marx…) Il potere politico, quindi, emana rapporti sociali prevalenti in uno specifico assetto produttivo e riflette quei rapporti, caratterizzati da antagonismo e sfruttamento. Sradicare entrambi, ad esempio attraverso un cambiamento radicale, implica che si ponga fine alla politica in quanto strumento di dominazione, ma significa anche appropriarsene affinchè il cambiamento possa aver luogo. […] Nella tradizione marxista, l’ideologia è un sistema di rappresentazioni, con la sua logica e il suo rigore, che offre immagini, miti, idee e concetti, narrazioni e discorsi che aiutano i gruppi a dare un senso al contesto in cui vivono. Le sue funzioni costituiscono un repertorio di strumenti simbolici e materiali che ci consentono di interpretare le condizioni della nostra esistenza (Althusser…). Da una prospettiva marxista […] i gruppi potenti che operano nella sfera economica e in quella politica sono criminali per definizione, in quanto hanno interesse a perpetuare e intensificare l’ineguaglianza e lo sfruttamento. L’ideologia che sostiene il loro operare non è che un artificio capace di neutralizzare le imputazioni di criminalità, una gamma di convinzioni che vengono trasmesse alla sfera giuridica per essere trasformate in impunità. I potenti, in questo senso, si battono per sfuggire ai processi di stigmatizzazione e ai meccanismi dell’etichettamento, mirando a presentare le loro condotte come legittime e altamente morali. Per questo motivo […] i pensatori di fede marxista sostengono che, per comprendere a fondo la criminalità dei potenti, occorre esaminare le condotte socialmente dannose, non soltanto quelle formalmente criminalizzate.

 

Ideologia come scienza?

 

[…] Il modello base-sovrastruttura postulato dal marxismo […] viene criticato in quanto traccia una linea troppo netta tra un mondo materiale ritenuto scientificamente osservabile e un mondo fantasmatico popolato da illusioni, costruzioni artificiali e astratte. Si suggerisce, al contrario, che l’analisi dovrebbe svelare come la verità viene prodotta attraverso pratiche e dispositivi logici che in se stessi non sono né veri né falsi (Foucault…) […] i sistemi di potere non distorcono o deformano la verità, ma la creano e la rafforzano, e spesso lo fanno ai margini della società, dove il vero e il falso sono inizialmente concepiti prima di essere utilizzati dalle diverse istituzioni per i loro rispettivi propositi (Foucault…) […] l’innovazione ha luogo ai margini, in aree periferiche inesplorate dove le norme vengono simultaneamente osservate e ignorate, e dove nuove norme hanno la possibilità di prendere forma. E’ qui che le condotte innovative vengono valutate e il loro potere normativo sondato. Ai margini, in altre parole, troviamo un’area grigia dove i comportamenti attendono l’esito di un conflitto etico che determinerà se le pratiche possono diventare routine o vanno bandite. […] le condotte degli attori potenti sono pragmatiche, nel senso che ignorano i principi preesistenti e i precedenti giuridici, così come tralasciano di considerare l’ingiustizia sociale che possono potenzialmente produrre. […] la criminalità dei potenti può possedere forza fondativa, nel senso che può ispirarsi a una logica “sperimentale” e, sospinta da una filosofia consequenzialista, trasformare vecchie pratiche, innovare, creare di nuove e sancirne la legittimità.

 

Antiumanesimo

 

[…] il potere è costretto a limitare l’incertezza e, allo stesso tempo, minimizzare le reazioni individuali e collettive al suo operare. Ridurre la complessità, allora, comporta anche la riduzione delle sfere nelle quali i cittadini possono esprimere giudizio, il che impedisce a questi ultimi di valutare le condotte dei potenti. Per il potere, le decisioni sono importanti, ma lo sono anche le decisioni non prese, le proposte mai considerate e le idee innovative mai ascoltate. “Governare un paese significa controllare l’agenda politica, definire quello che è pensabile e impensabile, e tutto questo viene sempre fatto dietro la facciata della democrazia (Walzer…). Le attività selettive e riduttive si trasformano in impunità al cospetto della criminalità dei potenti; questo avviene in quanto i cittadini interagiscono con le fonti del potere solo sporadicamente e in sfere estremamente limitate della loro vita sociale. Ricevono ingiunzioni, delibere vincolanti, ma la complessità della condizione in cui vivono non consente loro di orientarsi eticamente e politicamente. Negando orientamento ai cittadini e riducendone l’autonomia di giudizio, i potenti possono rendere invisibile la propria criminalità. […] In realtà, la scelta elettorale riproduce i sistemi che neutralizzano il conflitto e, attraverso l’esercizio parziale e selettivo del potere, nascondono le pratiche non ortodosse che li attraversano. Insomma, impegnati come sono in un’economia del consenso, i gruppi potenti si liberano dalle interferenze e dal dissenso politico e si sottraggono al giudizio sulla propria condotta.

 

Politica, violenza, morte

 

Una linea di pensiero all’interno della teoria politica esamina il passaggio dal “potere di detrazione” al “potere di organizzazione”. La fine delle monarchie europee, si sostiene, segna il declino del diritto da parte dei potenti di impossessarsi delle cose, del tempo, dei corpi e della stessa vita (Foucault…). […] sul concetto di “organizzazione”, che racchiude nuove strategie per controllare, potenziare, monitorare, ottimizzare e appunto organizzare: in breve, il potere di generare forze, ordinarle, alimentarle anziché reprimerle. […] Il potere “prende in carico” la vita, si infiltra nei corpi, non si limita a distruggerli, cataloga i viventi attribuendo loro un rango in termini di valore e utilità. […] Il potere sovrano comporta il diritto di dichiarare lo stato di eccezione, di sospendere la legge e i diritti in nome della protezione dei soggetti da pericoli fondati e improvvisi (Santner…). Durante i pericoli di emergenza i cittadini vengono trattati come corpi nudi, appena meritevoli di esistere (Agamben…). Qui siamo ben oltre la continuazione della politica con altri mezzi postulata da von Clausewitz. […] La politica comporta criminalità, violenza e guerra, essendo un terreno di conflitto, dove ognuno sceglie gli amici e i nemici (Schmitt…). E la guerra è parte essenziale della politica: quando la teoria politica si incontra con la disciplina delle relazioni internazionali, ne risulta un’analisi della criminalità dei potenti di grande interesse. […] Si tratta di una forma estrema di criminalità dei potenti che induce l’adozione di forme basse di sopravvivenza: uccidere conferisce la sensazione di immortalità, in quanto consente di sopravvivere (Ruggiero…). La guerra causa vittimizzazione di massa, violazione dei diritti umani e una gamma infinita di crimini di stato. Le zone belliche diventano enormi mercati gestiti da grandi imprese e da gruppi criminali (Whyte…). […] la tortura diventa azione patriottica, e lo stupro un atto di eroismo (Ruggiero…). Chi combatte riceve uno stipendio, ma insieme a questo una licenza non scritta di saccheggiare, e può assaporare l’emozione di uccidere senza i sensi di colpa. […] In altre parole, la guerra è criminogena, mentre i “crimini di guerra” sono norma e includono atti predatori e violenti compiuti da polizie, eserciti e bande paramilitari. In molti casi non è facile distinguere tra forze dell’ordine, soldati, mercenari e criminali: tutti ricoprono la funzione di agenti del controllo sociale e i delitti diventano parte integrante delle loro rispettiva missione. Il coinvolgimento diretto di compagnie private, agenzie per la sicurezza e aziende che forniscono servizi militari e consulenza paramilitare descrive la creazione di un apparato complesso il cui profilo è vago e in cui il militarismo missionario, l’impeto predatorio e la corruzione si fondono in una miscela inedita. Gli eventi recenti dimostrano che la guerra si manifesta come forma di crimine economico e dei potenti, e che la sua stessa illegalità trascende la sfera economica, essendo frutto di decisioni unilaterali non autorizzate dagli organismi internazionali (Sands…). Infine, la guerra è illegale negli strumenti utilizzati: tortura, sequestri di persona, armamenti proibiti. In questo modo, i crimini di guerra e i crimini dei potenti si confondono sovrapponendosi.

[…] In Gramsci, la dominazione mira a soggiogare o anche a liquidare i gruppi rivali, ma è la leadership, la capacità di comando, che permette l’esercizio del potere, attraverso la diffusione di idee e valori che vengono interiorizzati e, lentamente, formano un sistema morale e normativo dominante.

 

5.Attività umana ingloriosa

 

Per comprendere la criminalità dei potenti dalla prospettiva del pensiero economico, dobbiamo enumerare una serie di nozioni preliminari. In primo luogo, la nozione che spesso le attività inizialmente disprezzate diventano gradualmente onorabili. Max Weber (…) con la domanda: come hanno potuto l’accumulazione di danaro, l’amore per il lucro e l’avidità senza freni trionfare su tanti altri valori più nobili? La fame per i soldi e i possessi erano tra i peccati più gravi, al pari dell’attaccamento al potere e l’intemperanza sessuale. Anche la ricerca della gloria veniva condannata, come quella degli elogi: entrambe viste come vane e peccaminose. In un lungo processo, i mutamenti nella sensibilità collettiva, particolarmente nella sfera religiosa, riescono a “cristianizzare” le attività dei mercanti-banchieri e degli usurai e, allo stesso tempo, a imporre ad attori economici il precetto della fraternità. I filosofi, simultaneamente, si rassegnano alla fragilità umana; Hobbes e Spinoza, in maniera diversa, avvertono che gli esseri umani vanno presi così come sono, non come vorremmo che fossero, mentre Vico ammonisce che solo qualche sognatore potrebbe abitare la Repubblica perfetta di Platone, e Rousseau chiarisce che la sua ricerca di governo ideale è basata sulla natura reale delle donne e degli uomini (Hirschman…).

La passione malevole, d’altro canto, possono servire propositi più elevati di cui gli umani non sono consapevoli, e anche i desideri di possesso più ostinati possono risultare innocui, se non benefici. Il commercio, in questa maniera, diventa un deterrente contro l’ostilità, richiedendo cooperazione, accordo e scambio mutevolmente vantaggioso. […] Dal tardo diciassettesimo secolo in poi, la “gentilezza” del commercio viene messa in contrasto con la rudezza delle interazioni tradizionali. Montesquieu (…) espone la dottrina del doux commerce, che raffina e civilizza gli esseri umani, distanziandoli dai barbari. Fare soldi diventa una passione “calma”, e nessuna innovazione nella vita materiale degli individui può cancellare i sentimenti innati di solidarietà. Hume (…) ipotizza che persino il più sfrenato amore per se stessi può annullare “la nostra disposizione alla benevolenza e alla generosità, a sentimenti come la fratellanza, l’amicizia, la compassione e la gratitudine”.

E’ ovvio che questi pensieri sono rivolti alle passioni potenzialmente distruttive, quelle nutrite dalle persone potenti, che sono in grado di causare danno su larga scala, e la cui sete di eccessi, guadagni e gloria va temperata, almeno nell’immaginario sociale. I limiti imposti agli eccessi vengono presumibilmente stabiliti dalla “scienza economica”, che trova terreno propizio per il suo sviluppo ben prima di poter vantare ufficialmente status di scienza.

La ferocia, l’avarizia e l’ambizione, i tre vizi odiati da Giambattista Vico (…), si trasformano grazie a forze divine in appropriatezza civica con l’aiuto della ragione e dell’empatia, che sono inscritte nelle transazioni commerciali. Viene identificato un artificio civilizzatore capace di controllare il potere e di tradurre i suoi atti in operazioni costruttive: la concupiscenza può essere gestita e disposta in maniera da favorire un perfetto ordine sociale, la fragilità umana e l’ingordigia trasformate nel loro opposto: benessere generale e generosità. Simultaneamente, il danaro acquista legittimità pur essendo ostacolo alla salvezza, i mercanti e chi li finanzia vengono apprezzati perché favoriscono gli scambi con popoli remoti, gli avidi vengono rimossi dalla prima linea dei potenziali dannati, e persino gli usurai trovano il loro posto nella coscienza cristiana, diventando peccatori redimibili: il Purgatorio “laverà” la loro anima mentre aspetteranno con pazienza di essere ricevuti in Paradiso (Lefevre…, Le Goff…).

[…] In quanto mezzo peculiare per lo scambio, il danaro si presta idealmente alla rapina, anche perché nessuno può stabilire la sua origine (Simmel…). Quando lo scambio monetario viene finalmente purificato dalla colpa, dal peccato e dal crimine, finisce per coincidere con la totalità delle relazioni umane. I soldi diventano lo strumento assoluto, il punto unificante di ogni proposito e strategia, assumendo alcuni tratti che attribuiamo all’idea di Dio. L’essenza della nozione di Dio vuole che ogni diversità e contraddizione raggiunga unità in Lui, in quanto Lui è la coincidentia oppositorum. L’antica opposizione contro le transizioni monetarie da parte di clerici e credenti di fedi diverse era dovuta a quella che veniva percepita come un’analogia tra l’universo economico e quello cosmico. Si intravedeva, insomma, una pericolosa competizione tra interessi monetari e interessi religiosi. Il danaro, che attraversa indisturbato la fase di “rapina” dello sviluppo economico, giunge in fretta alla fase di “corruzione”. Questo accade quando la polarizzazione della ricchezza comincia ad accelerare, portando l’ineguaglianza materiale ai livelli orrendi dei nostri tempi. Più che ogni altra forma di misurazione di valore, il danaro rende possibili la segretezza, l’invisibilità e il silenzio degli scambi. Come nota Simmel, comprimendo il valore in un pezzo di carta, e lasciandolo scivolare da una mano all’altra, si può costruire una fortuna. Privo di forma, astratto, il danaro può essere investito in luoghi remoti, e perciò può essere sottratto allo sguardo dei vicini. Anonimo, incolore, inodore, furtivo, mobile, rapido e silente, il danaro non rileva la propria fonte, non necessita di certificato di nascita.

 

Autodeterminazione

 

La struttura sociale tende a tracciare barriere tra potere politico e potere economico, in maniera da scongiurare la trasmutazione dell’uno nell’altro. Tuttavia, può sempre accadere che le condizioni nelle quali quelle barriere vengono erette a loro volta si modifichino grazie all’iniziativa economica. Ogni contesto sociale, in verità, cela le reti di individui e gruppi appartenenti a sfere diverse che ne determinano il profilo e le possibilità di azione. Le reti sono associazioni costituite da soggetti che, nonostante la diversità di interessi, compongono un tutto omogeneo che garantisce una certa continuità operativa (Latour…). […] La criminalità dei potenti si avvale di queste reti e connessioni, che promuovono il movimento costante da un gruppo occupazionale all’altro, causando sedimentazione di consorzi e alleanze, solidarietà e complicità tra i rappresentanti di sfere di azioni formalmente distinte. I criminali potenti , insomma, professionisti dell’èlite che con loro amalgamano i valori, rafforzano lealtà e insieme continuano a colpire con furia giovanile. Questa furia viene animata da un linguaggio monetario che traduce ogni aspirazione in desiderio predatorio, e viene aiutata dalla bancarotta morale delpensiero economico. Il pensiero economico come utopia, o piuttosto come distopia, offre alla criminalità dei potenti numerose opportunità analitiche per poter essere concepita, compiuta e giustificata.

 

6.L’etica del potere

 

Costume, opportunità, fiducia

 

Il potere ha sempre bisogno di un amalgama di coercizione e consenso, è sempre chiamato a diffondere rassicurazione, e anche i criminali potenti devono offrire di se stessi un’immagine di criminali affidabili (Friedrich…)

 

Conclusione

 

Con Pascal, i potenti possono santificare le proprie scelte reclamando la purezza dei propri fini. In questo modo, i reati dei potenti possono diventare parte del costume, in una espansione evolutiva che genera reati sempre nuovi e più dannosi.

Ogni giustificazione dell’autorità si basa sulla fragilità degli esseri umani, da Hobbes a Kant. Il primo abolisce la società e le relazioni che vi si svolgono, sostituendo il tutto con puri rapporti di potere tra individui e sovrano. Il secondo vede negli umani dei pezzi di legno ricurvo, incapaci di moralità, se non costretti dalle leggi. Il potere, perciò, viene interpretato come il risultato della fragilità umana, anch’esso incontrollabile legno ricurvo (Esposito…). […] Il loro habitus [ dei potenti, mia precisazione], acquisito tramite l’interiorizzazione di una cultura e incorporato in una serie di abilità pratiche (Vaughan…, Bourdieu…), consente loro una costante ascesa sociale: si tratta di un habitus che include procedure lecite e illecite e ne suggerisce le opportune giustificazioni. La criminalità dei potenti, in ultima analisi, contribuisce a riprodurre l’assetto di potere nelle società, presentandosi come consonante con le norme che vengono violate.

 

Conclusione

 

Il potere, ovviamente, consiste nel costringere qualcuno, gli piaccia o meno, a fare qualcosa […] il potere quando è autore di reato, ha bisogno di inviare codici, diffondere narrazioni e valori che siano accettabili e riproducibili. Può servirsi di segretezza e occultamento, coercizione e violenza, ma […] non può fare a meno di generare meraviglia e imitazione. […] il potere come un’entità diffusa, una sorta di infezione pandemica che si occulta, viola le sue stesse leggi, sprigiona violenza, promuove emulazione e, allo stesso tempo, neutralizza chi vorrebbe opporvisi. Questo quadro disastroso è, ovviamente, incompleto, in quanto non contempla l’esistenza di soggettività altre inclini a perseguire la giustizia sociale. E’ vero, d’altro canto, che ai soggetti altri vengono negate le risorse per costituire identità autonome (Honneth…). I potenti hanno sicuramente ridotto le capacità degli esclusi di narrare e articolare le loro esperienze di ingiustizia. Gli esclusi, proprio in quanto tali, non sono forse in grado di farsi riconoscere come soggetti meritevoli di stima, credibilità e soggettività. E’ con intensa trepidazione che dovremmo tutti attendere e contribuire a questo processo di riconoscimento.

 

 

  1. 4. ETIENNE DE LA BOÈTIE, DISCORSO SULLA SERVITÙ VOLONTARIA, PICCOLA BIBLIOTECA DELLA FELICITÀ, MILANO, 2007, 25-77.

 

E’ il popolo che si fa servo e si taglia la gola; che, potendo scegliere fra essere soggetto o essere libero, rifiuta la libertà e sceglie il giogo; che accetta il suo male, anzi lo cerca…

 

Vi è una sola cosa che – non so perché – gli uomini non hanno la forza di desiderare: la libertà, un bene tanto grande e dolce! Non appena la si perde, sopraggiungono tutti i mali possibili e senza di essa, tutti i gli altri beni, corrotti dalla servitù, perdono gusto e sapore. Sembra che gli uomini tengano in poco conto la libertà, infatti, se la desiderassero, l’otterrebbero; si direbbe quasi che rifiutino di fare questa preziosa conquista perché è troppo facile.

 

Cerchiamo piuttosto di capire, se è possibile, come questa ostinata volontà di servire si sia radicata così profondamente da far credere che lo stesso amore della libertà non sia poi così naturale.

 

Dunque, la libertà è naturale e ritengo che non solo siamo nati con lei, ma anche con la passione di difenderla.

 

Così dunque, visto che ogni creatura dotata di sentimento è infelice nell’asservimento e aspira alla libertà; visto che gli animali, pur assuefatti al servizio degli uomini, si lasciano dominare solo dopo aver manifestato la volontà contraria, quale sventura ha potuto snaturare l’uomo – il solo che sia nato per essere veramente libero – sino a fargli smarrire il ricordo del suo stato originario e il desiderio di riacquistarlo?

 

Gli uomini nati sotto il giogo, poi nutriti e allevati nell’asservimento, sono paghi, senza guardare più lontano, di vivere così come sono nati e non pensano affatto di avere altri beni e altri diritti che non siano quelli che hanno trovato: prendono come stato di natura il proprio stato di nascita.

 

La tendenza naturale del popolo ignorante, in genere più numeroso nelle città, è di mostrarsi sospettoso verso chi lo ama, fiducioso verso chi lo inganna.

 

I teatri, i giochi, le farse, gli spettacoli, i gladiatori, gli animali esotici, le medaglie, i quadri e altre droghe di questo genere erano per i popoli antichi l’esca della servitù, il prezzo della libertà perduta, gli strumenti della tirannide.

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