Geminello Preterossi, Teologia politica e diritto, Editori Laterza_a cura di Teodoro Klitsche de la Grange

Geminello Preterossi, Teologia politica e diritto, Editori Laterza Bari 2012, pp. 295, € 25,00.

L’espressione “teologia politica” è polisensa. Di solito denota l’influenza della religione nell’ordinamento delle comunità umane; in altri casi la corrispondenza tra rappresentazione dell’ordine metafisico-teologico e quello politico; in altri quello della somiglianza tra concetti della teologia con quelli del diritto pubblico. Il tutto in un’epoca in cui la secolarizzazione appare compiuta, il cielo si è eclissato ed ha lasciato la terra, onde parlare di teologia politica sembra un’attività di archeologia culturale.

L’autore ritiene invece che: “La tesi fondamentale di questo libro è che la teologia politica sia inestinguibile. Anche al tempo della sua negazione, qual è quello presente. L’obiettivo che ci proponiamo è di scavare dentro questa insuperabilità. Sia facendone la genealogia, in modo da illuminare il nucleo teologico-politico della modernità e la costante riemersione di domande di senso in ambito secolare. Sia evidenziando le forme rovesciate che la teologia politica assume nel contesto ideologico neoliberale, cioè come teologia economica e teologia giuridica”. Al posto della teologia politica appaiono quindi quelle economica e giuridica “Ma interpretare quella crisi come tramonto o scomparsa sarebbe ingenuo. Piuttosto, con la teologia economica e quella giuridica si assiste alla  riproposizione in forme rovesciate, spesso ostili al primato del “politico”, dei problemi di legittimazione e delle esigenze ordinative che sono alla base del nucleo teologico-politico moderno e del suo lascito paradossale”. Per teologia economica (il termine è anch’esso polisenso) Preterossi intende in primo luogo “una proposta ermeneutica sul neoliberalismo che non si limiti a sottolinearne gli aspetti ideologici e le conseguenze sociali, ma individui in esso un paradigma di razionalità e di governo basato su altre logiche (e altri “assoluti”) rispetto alla costellazione di senso propria della trascendenza politica sovrana”: il tutto senza alcuna trascendenza (almeno apparentemente). Mentre con la formula “teologia giuridica” si intende sottolineare la tendenza alla moralizzazione della normativa giuridica”. Come la teologica economica è rivolta contro la sovranità degli Stati, ma, non è riuscita ad eliminare quello che Miglio chiamava “regolarità della politica” e, in un diverso discorso, Freund “i presupposti del politico”, e ancor meno le situazioni eccezionali. Che anzi si sono ripresentate in modi (la pandemia) e in teatri (la guerra in Europa) dove sembravano estinte. Segno che i quattro cavalieri dell’apocalisse non sono stati pensionati dalla “fine della storia”. L’inconveniente fondamentale del neo-liberalismo è di andare “in direzione di un modello di società che escluda qualsiasi dimensione di trascendimento simbolico del piano di immanenza… non solo non riesce più a fare ordine, ma per arginare illusoriamente tale ingovernabilità si finisce per revocare… tutti gli elementi costitutivi del “politico”, senza tuttavia la possibilità di istituzionalizzarli, renderli produttivi, travolgendo così anche la funzione della mediazione giuridica e sociale”. Guerra e stati d’eccezione (da anni nell’occidente globalista viviamo per lo più tra l’uno e l’altra) mostrano come “tutti i tentativi di aggirare o rimuovere la teologia politica ne subiscono la nemesi, pagando il prezzo della mancata assunzione delle sfide alle quali essa corrispondeva. Così che, in un quadro disarmante di inefficienza ordinativa, si finisce per replicarla surrettiziamente in forme compensative e politicamente inefficaci”. In effetti caratteristica della modernità “grazie a una serie di passaggi che siamo abituati a denominare “secolarizzazione”, (e che) la politica e la mediazione giuridica si sostituiscono alla religione come forza coesiva mondana. Ma non si tratta di una liberazione del religioso, cioè delle aspettative che in esso erano riposte. Quella sostituzione carica la politica della funzione simbolica istitutiva che era stata propria della religione”, e produttiva di coesione sociale perché esercita la funzione di mediare e decidere i conflitti. Per cui il riemergere del “politico” (e del teologico-politico) ai tempi dell’anti politica, ne prova l’insostituibilità.

La stessa “teologia economica” neoliberale “è una teologia politica “anti-politica” perché fa dell’immanenza un assoluto, Cioè una forma di trascendenza sacrale che nega se stessa. Infatti il neoliberalismo non è, se si guarda alla sua logica profonda, solo una teoria “economica”, ma una filosofia della spoliticizzazione dell’agire umano”. Analogamente la sua opposizione dialettica, ossia il “populismo”, non rinuncia al “fondo” teologico. Scrive l’autore che “”Ne deriva che o c’è dio o c’è il popolo: nelle società secolarizzate, è inevitabile che la fonte sia quest’ultimo. Il popolo prende il posto di dio come soggetto costituente. Il populismo, evocando il popolo, si ricollegata a questo passaggio decisivo della tradizione democratica moderna, che è un passaggio teologico-politico in senso schmittiano, quindi come sostituzione di una “trascendenza politica” moderna, emergente sul piano dell’immanenza a una trascendenza sacrale, in sé “trascendente””.

Preterossi conclude sostenendo (cosa ormai evidente) che la “teologia economica” alla lunga, non ha funzionato: al deficit di eccedenza politica non ha sostituito alcun surplus ordinante “Ciò ha causato una profonda crisi di legittimazione”, né ha suscitato legami comunitari. La “teologia giuridica” neppure: la tesi dell’autore è che “la saldatura di un diritto sempre meno preoccupato dell’effettività e della certezza con la morale neoliberale sia non solo il segno di una generale crisi del “giuridico”, ma allo stesso tempo il tentativo, disperato e fallimentare, di individuare una sfera legale eticamente immunizzata, che compensi la perdita di auctoritas delle istituzioni e l’inaridimento della sfera pubblica”. La teologia politica è così inestinguibile “in quanto esprime la struttura di fondo della metafisica politica moderna… L’unico modo per tenerla sotto controllo è riconoscerla, non contrapporvisi direttamente, o negarla. Se, come credo, la modernità può essere concepita come una forma di “auto-trascendenza dell’immanenza”, ciò significa che la teologia politica è un movimento interno alla modernità secolare”. Non è necessario che il fondamento sia di natura religiosa “Può essere anche di natura etico-politica, ideale (nella modernità matura è stato prevalentemente tale). Ma il punto è che il “contenuto etico” non può risolversi in compensazione soggettivistica, moralistica del vuoto d’identità collettiva”. Così “La teologia politica si ripropone oggi nella forma del simulacro. Non produce risposte politiche, ma surrogati di verticalità e di sicurezza”.

Resta il dubbio se vi siano forme di soggettività politica collocabili “oltre” la teologia politica, che l’autore ritiene auspicabili “di visioni politiche ambiziose, che non temano di confrontarsi con le “cose ultime”, abbiamo bisogno.. La politica come amministrazione va bene, forse, per tempi tranquilli. Non quando lo spirito torna a calzare gli stivali delle sette leghe”

Un saggio assai interessante ed esauriente, nel solco pensiero di Hobbes, Hegel e Schmitt.

Una notazione del recensore ad un libro così articolato e del quale ho cercato di rendere l’essenziale.

È noto che a partire da de Bonald, continuando per Donoso Cortes e arrivando a Maurice Hauriou la correlazione tra concezioni teologiche e forme politiche (non solo statali) è stato variamente affermato. Così per de Bonald il deismo era la concezione teologica sottesa al costituzionalismo liberale (il re che regna ma non governa), il teismo cattolico allo Stato assoluto; per Donoso Cortes il nocciolo del liberalismo era sempre deista, quello del socialismo ateo. Per Maurice Hauriou lo stato borghese era uno dei possibili esiti della dottrina teologica del diritto divino provvidenziale, mentre lo Stato assoluto lo era del diritto divino soprannaturale; il decano di Tolosa riteneva anche come questo fosse un  intervento (intervention) della metafisica sul diritto. Il quale ricopre come un guscio (couche) il fondo (fond) teologico, ma non può sfuggire a questa costante (o regolarità). La quale si manifesta chiaramente quando il diritto viene a mancare, come nel caso dei governi di fatto, fondati sulla “giustificazione teologica” e non sulla legalità delle procedure. Il fond teologico è così creatore di forme giuridiche. Resta da vedere quali forme possa creare il “pilota automatico” (versione tecnocratica della “mano invisibile”) tecno-globalista. Probabilmente nessuna (se coerente); ove apocrifo (e ipocrita) la consegna del destino delle comunità a poteri indiretti ed opachi. Colla prospettiva di avere un governo né visibile né responsabile.

Teodoro Klitsche de la Grange

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La NATO è nel panico dopo che i missili ipersonici russi Kinzhal hanno distrutto i patriots di Kiev ANDREW KORYBKO

La NATO è nel panico dopo che i missili ipersonici russi Kinzhal hanno distrutto i patriots di Kiev

ANDREW KORYBKO
18 MAG 2023

La Russia ha appena dimostrato che i suoi missili ipersonici possono perforare le difese della NATO con facilità, rappresentando così un cambio di rotta militare e forse presto anche diplomatico, se l’Occidente si renderà conto che è meglio accettare un cessate il fuoco dopo la fine dell’imminente controffensiva di Kiev piuttosto che intensificare la propria guerra per procura contro la Russia in una guerra convenzionale per perseguire la “balcanizzazione” di questa Grande Potenza.

La notizia falsa che è circolata all’inizio del mese, secondo la quale i Patriots di Kiev avrebbero abbattuto uno dei missili ipersonici russi Kinzhal, è diventata ancora più ridicola nei giorni successivi, poiché ora si sostiene che altri sei sarebbero stati abbattuti durante un recente attacco. Il riciclaggio di queste menzogne da parte dei media mainstream (MSM) non è dovuto solo al fatto che prendono per oro colato tutto ciò che dicono i loro proxy ucraini, ma comprende anche i loro stessi esperti militari che contribuiscono attivamente a questa campagna di disinformazione.

I Patriot statunitensi non hanno le capacità tecniche per tracciare e intercettare i proiettili ipersonici, ma non c’è nulla di cui vergognarsi, dato che al momento non esiste alcun sistema di difesa aerea al mondo in grado di farlo. Il problema dell’Occidente è quindi un problema di percezione, dato che gli Stati Uniti hanno pubblicizzato il loro dispiegamento in Ucraina al punto che l’opinione pubblica si aspettava che l’ex Repubblica sovietica diventasse invulnerabile a qualsiasi attacco russo.

Il Cremlino era consapevole degli interessi di soft power dell’Occidente nel trasferire questi equipaggiamenti in Ucraina, e per questo ha deciso abilmente di includere diversi missili ipersonici nella sua ultima serie di attacchi contro obiettivi militari, sapendo che non c’era modo di intercettarli e screditando così i propri avversari. Non solo, ma il 16 maggio sono riusciti a distruggere cinque lanciatori e un radar multifunzionale, secondo il rapporto del Ministero della Difesa russo condiviso il giorno dopo.

I filmati degli attacchi di quella notte sono poi apparsi sui social media, dopo di che coloro che li hanno condivisi sono stati arrestati dalla polizia segreta ucraina con il pretesto che ciò avrebbe potuto aiutare i servizi di intelligence militare della Russia. In realtà, Kiev è rimasta spiazzata dopo che lo stesso filmato ha mostrato come i missili della difesa aerea, del valore di milioni di dollari, siano stati sprecati nel tentativo di abbattere i Kinzhal. Anche gli Stati Uniti hanno confermato che i Patriot sono stati effettivamente danneggiati, ma hanno negato che siano stati distrutti.

Ciononostante, l’opinione pubblica ha potuto constatare di persona quanto Kiev fosse disperata nell’intercettare quei proiettili ipersonici, e molti hanno interpretato la conferma americana che i Patriot erano stati danneggiati come un appiglio limitato per distogliere il sospetto che fossero stati effettivamente distrutti. Il 16 maggio sarà quindi visto, col senno di poi, come un punto di svolta cruciale nella percezione popolare, poiché l’affermazione della Russia secondo cui i suoi Kinzhal avrebbero distrutto i Patriot è creduta da un numero crescente di persone dopo aver visto quel filmato.

Questo pone un grosso problema di reputazione per l’Occidente, che sostiene di essere in grado di difendere il proprio popolo in qualsiasi evenienza, soprattutto nel caso peggiore in cui la guerra per procura tra NATO e Russia in Ucraina si trasformi in un conflitto convenzionale diretto tra le due parti. Nessuno che abbia visto il filmato di martedì sera e abbia sentito parlare dei risultati ottenuti dalla Russia il giorno dopo può dire con sicurezza di credere ancora nella validità delle difese aeree della propria parte, dal momento che ora sono state smascherate come inutili dai Kinzhal.

Il Cremlino detiene attualmente il monopolio di questa tecnologia militare rivoluzionaria dopo essere stato il primo Paese al mondo a produrre questi missili e a utilizzarli in battaglia, il che significa che può perforare le difese aeree Patriot della NATO con facilità nello scenario peggiore descritto sopra. La precedente osservazione sulla difficoltà degli Stati Uniti di competere con la Russia in questo ambito non è una cosiddetta “propaganda” come potrebbero sostenere gli scettici, ma è stata confermata da The Hill due mesi fa.

Nel suo articolo del 14 marzo, in cui spiegava “Perché gli Stati Uniti stanno andando a tutto gas sui missili ipersonici”, scriveva che “gli Stati Uniti stanno aprendo la valvola di sfogo nella loro spinta a sviluppare e procurare missili ipersonici dopo essere rimasti indietro rispetto ai principali avversari stranieri, Cina e Russia, nella corsa alla messa in campo di un sistema di difesa potenzialmente in grado di cambiare le carte in tavola”, aggiungendo che “il Dipartimento della Difesa non ha ancora messo in campo le armi, e rimangono problemi nella base di produzione industriale e con le infrastrutture di test”.

Il più dannoso di tutti, The Hill ha anche informato il suo pubblico che “nemmeno gli Stati Uniti hanno attualmente un sistema di difesa adeguato per abbattere i missili ipersonici. I sistemi di difesa aerea, come i Patriot e i Terminal High-Altitude Area Defense, sono in grado di abbattere i missili balistici che raggiungono velocità ipersoniche, ma solo su piccole aree”. Questo fatto “politicamente scomodo” non solo scredita la campagna di disinformazione di questo mese, ma riafferma anche il dominio militare della Russia nel settore ipersonico.

In parole povere, il Cremlino ha piena fiducia nel fatto che i suoi Kinzhal raggiungerebbero con successo tutti i loro obiettivi nel peggiore scenario di una guerra convenzionale tra la NATO e la Russia, il che significa che Mosca potrebbe in teoria distruggere le capacità di secondo attacco nucleare dell’Occidente se effettuasse un primo attacco per prevenire i suoi nemici. I risultati ottenuti l’altro giorno a Kiev, dove ha distrutto cinque lanciatori Patriot e un radar multifunzionale, hanno messo i brividi ai guerrafondai della NATO e li hanno resi consapevoli di ciò che stanno affrontando.

Qualsiasi idea di cercare di “balcanizzare” la Russia con mezzi militari convenzionali come ultima risorsa, dopo il fallimento della loro guerra ibrida in Ucraina, è evaporata all’istante, poiché hanno capito che avrebbe potuto provocare il Cremlino a distruggere l’Occidente per autodifesa. Certo, alcune delle loro capacità di secondo attacco rimarrebbero probabilmente intatte e potrebbero essere utilizzate contro la Russia, ma il punto è che Mosca potrebbe prima infliggere loro danni inaccettabili se spinta a farlo.

Nonostante le affermazioni popolari del contrario da parte di molti dei principali influencer della comunità Alt-Media, la NATO non è “folle” nel senso che i suoi leader sono disposti a sacrificarsi purché la loro morte porti allo smembramento della Russia. Come tutte le élite, vogliono vivere il più a lungo possibile, motivo per cui ora ci penseranno due volte prima di assecondare la fantasia neoconservatrice di ricorrere a mezzi convenzionali per “balcanizzare” la Grande Potenza in questione dopo il fallimento della loro guerra per procura attraverso l’Ucraina.

In termini pratici, ciò suggerisce che potrebbero essere più disponibili a un cessate il fuoco una volta che la controffensiva di Kiev, sostenuta dalla NATO, terminerà entro l’inverno, aumentando così le prospettive che l’imminente missione di pace guidata dall’Africa in Russia e Ucraina possa guadagnare la loro approvazione e portare Kiev ad accettare questi termini. Il principale asse anglo-americano all’interno della NATO non potrebbe mai approvare l’iniziativa parallela guidata dalla Cina, quindi ne consegue che quella guidata dall’Africa potrebbe offrire loro un modo “salva-faccia” per sostenere un cessate il fuoco.

È prematuro prevedere il successo o meno di quest’ultima iniziativa, ma la rilevanza di questo sviluppo per il presente articolo è che può contribuire a dare alla NATO una “strategia di uscita” da questa guerra per procura, dopo che i suoi leader hanno appena capito quanto sarebbe suicida un’escalation in una guerra convenzionale. I Kinzhal russi hanno distrutto i loro Patriot a Kiev, dimostrando che il Cremlino è in grado di distruggere le difese aeree dell’Occidente con facilità, rappresentando così una svolta militare e forse anche diplomatica.

https://korybko.substack.com/p/nato-is-panicking-after-russias-kinzhal

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Nella terra desolata nulla si collega, di AURELIEN

Nella terra desolata
Nulla si collega.

AURELIEN
17 MAG 2023

Siamo in un momento strano della storia politica occidentale. Per la prima volta, possiamo vedere chiaramente che un vecchio sistema sta morendo, ma non riusciamo a capire come, o addirittura se, ne nascerà uno nuovo; e nemmeno come sarà, anche se dovesse nascere. Sembra che qualcosa sia andato storto nei meccanismi della storia e della politica.

Quando Gramsci ha prodotto la famosa citazione che ho appena riportato, scriveva in un’epoca in cui i cambiamenti politici discontinui erano piuttosto comuni. Le monarchie erano state sostituite da repubbliche, gli imperi erano crollati, i nazionalisti erano riusciti a creare nuovi Paesi o a dividere quelli vecchi, e forze politiche estremiste avevano preso il controllo di Paesi, compresa la sua Italia. Ma non c’erano solo forze politiche dietro questi cambiamenti, c’erano anche ideologie. I marxisti si aspettavano la rivoluzione, i nazionalisti le rivolte etniche, le espulsioni e il controllo del territorio, i conservatori i movimenti di rinnovamento per cancellare ciò che consideravano decenni di decadenza. Non mancavano le teorie politiche strutturanti a cui attingere: anzi, ce n’era una sovrabbondanza e tutti sembravano avere la propria teoria su come il mondo potesse essere rifatto.

Oggi abbiamo superato da tempo quella situazione. La morsa di quello che Mark Fisher ha notoriamente definito “realismo capitalista” sui pensieri e sulle convinzioni di chi detiene il potere e degli opinionisti di ogni tipo è tale che, a tutti i fini pratici, potrebbe anche non esistere un’alternativa. E come suggerirò, anche se si potesse trovare la volontà di realizzare un cambiamento, altri meccanismi utilizzati nella storia non sono più disponibili per realizzarlo. Non so se la battuta – attribuita a varie persone – secondo cui è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo sia davvero vera, ma in ogni caso, anche se si può immaginare qualcosa al di là del capitalismo, una cosa è immaginarla e un’altra è arrivarci davvero.

Se guardiamo alla storia – e lo faremo tra poco – vediamo che per realizzare un cambiamento politico fondamentale e discontinuo sono necessarie tre cose. Uno è un gruppo di individui con uno scopo comune (anche se non necessariamente identico). Il secondo è una visione chiara di ciò che si vuole, in termini di ideologia o almeno di obiettivi politici definiti. Il terzo sono le risorse e l’organizzazione in grado di realizzarlo. Avere solo due di questi elementi non è sufficiente. Tutto ciò può sembrare banale, ma in realtà lo sono molte cose della storia. E ci ricorda che la storia non è, di fatto, interamente il prodotto di forze cieche, ma piuttosto di una complessa interazione tra individui, gruppi e società.

Questo aspetto tende a essere mascherato dal modo incruento in cui gli scienziati politici e gli storici discutono dei cambiamenti discontinui. I governi “perdono potere”, sono “minati” e “cacciati dal potere” o “rovesciati”. Ma in generale, la politica non funziona con la voce passiva. Come ho già sottolineato in un altro contesto, le decisioni politiche sono prese e portate avanti da persone nominate, che generalmente lavorano insieme. Forse i politici intelligenti sanno come navigare sulle maree della storia, ma concetti come “politica” (o anche “storia”) non hanno un’agenzia indipendente in questi casi. Quindi le domande che gli storici si pongono dovrebbero essere sempre di tipo pratico: ad esempio, si chiede Machiavelli, ne Il Principe, perché il regno di Dario, conquistato da Alessandro, non si ribellò ai successori di Alessandro alla sua morte? Ed egli fornisce una risposta pratica, basata sulla comprensione delle strutture di potere comparate.

Tutti i cambiamenti politici discontinui di successo (esclusi quindi i semplici colpi di Stato o le dimissioni forzate) si basano sul funzionamento dei tre fattori sopra citati. Alcuni esempi sono noti. I bolscevichi non erano il partito più ovvio ad emergere vittorioso dal caos che seguì la caduta dello zar nel 1917. Se il potere era davvero “per strada”, come pare abbia detto Lenin, allora c’erano altri gruppi più grandi che avrebbero potuto raccoglierlo. Ma i bolscevichi avevano una leadership di cospiratori e rivoluzionari professionisti, una chiara dottrina per prendere e mantenere il potere, nonché una buona idea di cosa farne, e le forze necessarie per prendere e mantenere gli obiettivi più importanti in una società moderna. E’ importante notare che da vent’anni, dopo la scissione con i menscevichi, disponevano di un’organizzazione disciplinata, strutturata per impartire ed eseguire gli ordini. Lo stesso processo poteva funzionare anche al contrario. Ad esempio, il cosiddetto putsch di Kapp del 1920 (dal nome di uno dei suoi leader), che mirava a rovesciare il nuovo sistema politico democratico in Germania, fallì perché un numero massiccio di tedeschi, organizzati dai sindacati, obbedì all’appello del governo per uno sciopero generale, e il colpo di stato crollò.

Qualcosa di analogo accadde in Francia nel 1944, mentre le forze alleate stavano attraversando il Paese. Gli Stati Uniti avevano intenzione di installare un governo militare in Francia e di gestirlo in prima persona. Praticamente tutte le forze politiche in Francia e in esilio si opposero all’idea, dai nazionalisti ai comunisti. Tuttavia, de Gaulle era stato in grado di unificare i vari movimenti della Resistenza sotto la guida del grande martire della Resistenza Jean Moulin, e un intero governo ombra era già pronto nel Paese per essere attivato al momento dell’invasione. Così, quando le forze americane arrivarono, scoprirono che le città erano già state conquistate, i collaborazionisti erano in carcere o morti e la Resistenza controllava il territorio in attesa dell’arrivo delle truppe francesi. Quindi, ancora una volta, una leadership unita, un obiettivo chiaro e gli strumenti necessari avevano trionfato. È per questo che le forze rivoluzionarie hanno tipicamente un’ala militare e una politica, quest’ultima non solo per fornire una direzione politica, ma anche per prepararsi a governare. In alcuni casi, come l’ANC nel 1994, questo ha funzionato bene, in altri, come i Talebani nel 2021, molto meno.

Forse possiamo iniziare a vedere un modello che sta emergendo. L’entusiasmo o il malcontento popolare non sono in grado di produrre cambiamenti da soli: devono essere incanalati in qualche modo. Le idee non hanno valore se non vengono accolte da qualcuno che ha potere. E in gran parte si tratta di potere relativo, piuttosto che assoluto: è sufficiente avere il bastone più grosso, non necessariamente un bastone oggettivamente enorme. Vediamo un paio di esempi per capire come funziona in pratica e, così facendo, per gettare un occhio freddo sull’incapacità della maggior parte di coloro che oggi scrivono di cambiamenti politici di capire come avvengono.

Pochi episodi nella storia hanno avuto conseguenze maggiori e più disastrose della presa di potere nazista nel 1933. (Quando ero giovane, i libri su quell’epoca erano o memorie (che si concentravano sugli anni della guerra, per ovvie ragioni) o storie giornalistiche di scrittori come William Shirer, che avevano osservato da vicino gli eventi in Germania. Il periodo tra il 1933 e il 1939 non suscitò grande interesse, se non come racconto morale di debolezza, inazione e disastro, o come storia incomprensibile di manovre politiche da parte di persone con nomi strani. Per i marxisti, Hitler fu “messo al potere” (notare ancora il passivo) dai capitalisti, o addirittura “dal potere del capitale”. La spiegazione più diffusa è che egli era stato “trascinato alla vittoria” nelle elezioni, da una popolazione tedesca che era stata giustamente punita in seguito dai bombardamenti britannici e americani.

Tuttavia, anche all’epoca, la lettura dei resoconti del periodo 1932-3 era confusa. Dopo tutto, non più di un terzo dell’elettorato votò per i nazisti e il loro sostegno si ridusse tra le due elezioni del 1932. E nelle elezioni del dicembre 1932, i consensi per i partiti socialista e comunista combinati superarono quelli per i nazisti. Tutto questo, e ai nazisti furono offerti (e accettati) solo due seggi nel gabinetto del nuovo governo. Quindi, in che modo esattamente i nazisti furono “spazzati via dal potere”? Solo di recente, grazie alle sintesi di storici come Richard Evans, le cose sono diventate più chiare. Il fatto è che i nazisti stavano giocando una partita diversa da quella dell’establishment politico tedesco.

A Von Papen e Hindenburg deve essere sembrata una mossa intelligente. I nazisti erano il maggior partito del Reichstag, ma non potevano formare un governo da soli. Si pensava che, se si fosse dato loro qualche posto nel gabinetto, avrebbero portato i loro voti, si sarebbe potuto finalmente formare un governo vero e proprio e si sarebbe potuta riprendere la normale vita politica in Germania. I nazisti non potevano essere una minaccia: erano dilettanti in politica e potevano essere facilmente contenuti dai politici professionisti. Anche l’insistenza di Hitler nel voler diventare Cancelliere poteva essere sopportata: non avrebbe avuto alleati nel Gabinetto, a parte Goering, il Ministro dell’Aviazione, ma avrebbe avuto una macchina governativa ostile con cui confrontarsi. È vero che Hitler consolidò rapidamente il suo potere e portò altri nazisti al governo, ma questa non è la parte più importante di ciò che accadde.

Perché i nazisti non stavano facendo politica democratica: potevano avere poca esperienza di governo, ma avevano molta esperienza di violenza e una forza paramilitare di 400.000 uomini (la Sturmabteilung, popolarmente nota come “Brownshirts”) per amministrarla. Furono le SA a portare Hitler al potere, piuttosto che al governo, imponendo il regime nazista in tutto il Paese. Quindi, i nazisti non avevano solo una leadership con idee convergenti e un programma politico (vago), ma anche una concezione della politica attraverso la forza bruta e una grande organizzazione nazionale in grado di applicare tale forza a livello locale. L’esercito era troppo piccolo per intervenire, e comunque Hitler era il cancelliere. La polizia era largamente impotente, soprattutto dopo la nomina di Goering a Ministro-Presidente della Prussia.

Nessuna di queste componenti sarebbe stata sufficiente da sola. Hitler era un abile tattico politico, ma c’erano in giro molti tattici altrettanto abili. Il programma nazista non era particolarmente diverso da quello di molti altri partiti dell’epoca: ripudiare Versailles, ricostruire il Paese, combattere la minaccia comunista, ecc. Esistevano anche altre forze paramilitari, in particolare legate al Partito Comunista Tedesco, ma erano molto più piccole e non avevano la stessa copertura nazionale delle SA. Come spesso accade in politica, c’era un buco da riempire e i nazisti lo individuarono e vi si precipitarono. Uno dei vantaggi di un approccio meccanicistico alla comprensione della presa del potere da parte dei nazisti, tra l’altro, è quello di mettere al suo posto tutte le iperventilazioni, di allora e di allora, su una nazione che “impazzisce” e si “getta nelle mani” di un pazzo delirante. In realtà, il popolo tedesco non si è gettato da nessuna parte.

Vorrei ora soffermarmi brevemente su un’altra svolta estremamente inaspettata dopo un terremoto politico: ciò che accadde in Iran nel 1978 e nel 1979. Non solo questo episodio è poco compreso in Occidente, ma tale incomprensione ha contribuito a un più ampio fraintendimento sulla natura stessa delle transizioni politiche discontinue. È comune dire (e l’ho sentito dire anche da studenti di relazioni internazionali) che il governo dello Scià “cadde” o fu “rovesciato” dagli islamisti guidati da Khomeini. La verità è molto più complessa (per esempio, Khomeini non era nemmeno nel Paese quando lo Scià se ne andò), ma per i nostri scopi è sufficiente notare che l’opposizione allo Scià era diffusa, e andava dagli islamisti all’estrema sinistra, ma che gli islamisti sono usciti dalla confusione e dal caos del 1978-82 con il controllo della situazione perché avevano una leadership unita (sotto il venerato Khomeini), una dottrina chiara (la dottrina di Khomeni del governo islamico, “né Est né Ovest”) e forze massicce a disposizione organizzate dalla gerarchia religiosa. L’Occidente è rimasto completamente sbalordito dall’esito, poiché non si è verificato nessuno degli scenari ipotizzati. Le moderne forze “filo-occidentali” erano troppo piccole ed eccessivamente concentrate nelle grandi città, e l’esercito era confuso, scoraggiato e riluttante ad agire.

Tuttavia, anche in questo caso c’era molta contingenza. È vero che milioni di persone hanno partecipato alle manifestazioni anti-Shah nel 1978, per alcuni versi le più grandi manifestazioni nella storia del mondo. Tuttavia, c’era poca unità di vedute tra di loro e poca idea di ciò che sarebbe seguito al regime dello scià. Le manifestazioni di massa non causano di per sé rivoluzioni, ma ne creano semplicemente la possibilità. Allo stesso modo, Khomeini era in esilio in Francia all’epoca e le ragioni che spinsero il governo francese a rimandarlo in patria con una tale pubblicità rimangono ancora oggi oscure e controverse. È molto probabile che i francesi (e gli Stati Uniti) lo vedessero come una figura tranquillizzante, un ecclesiastico moderato che avrebbe frenato gli eccessi della Rivoluzione e contribuito a controbilanciare una tendenza pericolosamente di sinistra tra i suoi sostenitori. Alcuni sostenitori del suo ritorno in Iran sembravano vederlo come l’equivalente del vescovo Desmond Tutu in Sudafrica, o addirittura di Gandhi. Ebbene, tutti possiamo sbagliare: in realtà, Khomeini era un abile politico che si trovava a suo agio con l’idea di usare la violenza contro gli oppositori dell’Islam (quindi eretici e apostati) e che esprimeva un’ideologia che faceva appello al generale sentimento anti-occidentale del Paese. Se Khomeini fosse rimasto in Francia, la storia recente della regione sarebbe stata molto diversa.

Da tutto questo, credo, emerge un punto su tutti: l’importanza di quelli che i francesi chiamano Corps intermédiaires, meglio tradotti come “strutture intermedie”. Si possono avere le menti strategiche più brillanti e le idee più meravigliose, ma è necessario un meccanismo di trasmissione per mettere in pratica queste idee. Nel caso del tentato colpo di Kapp, citato in precedenza, esisteva un movimento sindacale grande e potente, legato al Partito socialista, probabilmente il più grande ed efficace partito politico mai visto in una democrazia occidentale. Aveva un’impressionante capacità organizzativa, molti funzionari pagati e persino un proprio giornale. Così, quando ha indetto lo sciopero, la gente ha scioperato e il putsch è stato sconfitto. Il 1° maggio di quest’anno, le forze che si opponevano ai cambiamenti delle pensioni in Francia hanno ingrossato i normali cortei del Primo Maggio: circa un milione di persone erano in piazza in tutta la Francia. Il governo non ne ha tenuto conto.

La differenza non è solo nelle dimensioni e nella scala. Se qualche centinaio di migliaia di lavoratori dei servizi essenziali si fossero uniti allo sciopero, il Paese si sarebbe potuto fermare. Ma ciò non è accaduto, in parte perché le strutture intermedie non sono potenti e ben supportate come in passato (solo il 5% circa dei lavoratori francesi è iscritto a un sindacato), ma anche perché la struttura della forza lavoro è cambiata. Il servizio postale, ad esempio, che potrebbe avere un effetto attraverso un’azione sindacale, è ora in gran parte occasionale e i lavoratori non sindacalizzati a salario minimo svolgono gran parte del lavoro. I lavoratori non vivono più in comunità e hanno a malapena il tempo di conoscere i loro colleghi, in una forza lavoro che cambia continuamente e che non sviluppa mai solidarietà. In queste circostanze, un’organizzazione efficace è impossibile, anche se ci fosse una leadership forte (che spesso manca) o un insieme chiaro di obiettivi (che spesso manca anch’esso).

Come indicato, i sindacati erano molto spesso legati ai partiti politici e in molti Paesi questi stessi partiti esercitavano un’influenza strutturante sulla società. In Francia e in Italia, ad esempio, il Partito Comunista era una sorta di governo parallelo (e un vero e proprio governo in alcune città) che spesso forniva ai poveri servizi che lo Stato non poteva o non voleva fornire. I partiti politici di massa fornivano un’intera serie di meccanismi per ottenere risultati al di fuori del potere dello Stato e, se necessario, in opposizione ad esso. Ma l’epoca dei partiti politici di massa, e persino l’interesse ad averli, è finita da tempo.

In Gran Bretagna lo sciopero dei minatori del 1984 è durato così a lungo perché l’industria mineraria era l’intera vita di varie comunità e intere famiglie erano coinvolte in tutti gli aspetti del lavoro e della sua cultura. Mentre gli uomini presidiavano i picchetti, le donne organizzavano la sopravvivenza sociale della comunità, cosa impensabile oggi. Comunità di questo tipo non esistono più, intorno a un centro Amazon o a un parco a tema. Un tempo le comunità esistevano nei centri cittadini e nei quartieri popolari più poveri. Oggi non è più così: in tutto il mondo, con la morte degli anziani residenti, gli appartamenti e le case vengono acquistati da speculatori e milionari. Il centro della maggior parte delle città occidentali è un deserto di notte.

Oltre ai sindacati, ai partiti politici e alle comunità di lavoro, l’altro tipo di struttura intermedia era la Chiesa. Le chiese hanno svolto ruoli così diversi nel cambiamento politico che è impossibile generalizzare, ma come minimo hanno operato come centri comunitari, raggruppando le persone socialmente e dando loro una capacità di azione, anche se in disaccordo su alcune cose. (Analogamente, la rete nazionale di moschee in Iran ha svolto un ruolo chiave nello sviluppo delle strutture che hanno portato Khomeini al potere). La Chiesa cristiana è stata una forza di reazione e di progresso allo stesso tempo (ad esempio in America Latina) ed è stata un centro di resistenza sia contro il governo comunista in Polonia che contro il regime di apartheid in Sudafrica, negli anni Ottanta. A prescindere dalle questioni ideologiche, tuttavia, le chiese e le istituzioni religiose hanno spesso agito come meccanismi di coordinamento nella lotta per o contro il cambiamento politico. In Francia nel XIX secolo, ad esempio, la destra si organizzò attorno alla gerarchia ecclesiastica, così come la sinistra utilizzò la rete massonica nazionale.

È un’ovvietà dire che in generale queste reti non esistono più o, laddove esistono, servono a poco. Per esempio, in un paese occidentale medio nessun movimento che dipendesse dai sindacati per il suo sostegno potrebbe sperare di uscire trionfante da una competizione con il governo, ed è sempre più chiaro che le comunità virtuali di Internet sono proprio questo: virtuali, non reali. L’entusiasmo per l’uso dei social media nella Primavera araba si è ormai placato, poiché è diventato chiaro che la capacità di organizzare manifestazioni non è la stessa cosa della capacità di prendere e mantenere il potere. I beneficiari della Primavera araba in Tunisia e poi in Egitto non sono stati politici occidentali di classe media, ma movimenti politici islamisti che hanno potuto raccogliere i frutti di decenni di preparazione e organizzazione.

Questo non dovrebbe essere una sorpresa: la politica non tollera il vuoto e il gruppo meglio organizzato (o meno disorganizzato) tenderà a prevalere. Questi gruppi non devono necessariamente essere esplicitamente politici: a un estremo, la criminalità organizzata può spesso fornire una serie di funzioni statali surrogate, proprio perché è organizzata. La criminalità organizzata è notevolmente intollerante nei confronti della criminalità disorganizzata, che tende ad abbattere con metodi che non sarebbero politicamente accettabili in un sistema democratico. Ma l’esperienza di molti Paesi in crisi e in conflitto (Bosnia, Somalia, Liberia tra gli altri) è che tendono ad emergere dei para-stati, spesso a base etnica, che combinano le funzioni del racket e del contrabbando con un ordine pubblico approssimativo e pronto, oltre a garantire un certo grado di sicurezza.

È ovvio che uno dei criteri per sostituire o modificare pesantemente sistemi politici esauriti o screditati è l’esistenza di queste istituzioni intermedie, che possono fornire l’organizzazione e forse il personale per realizzare il cambiamento. Non è necessario che siano movimenti di massa per essere influenti: le varie società politiche che fiorirono nella Francia pre-rivoluzionaria ne sono un esempio. Ma il problema in Occidente è che attualmente non esistono quasi più. Il liberalismo considera tutte queste istituzioni come reliquie del passato, il cui unico effetto è quello di ostacolare il buon funzionamento del mercato. Il che va bene finché c’è un mercato e i vostri desideri e bisogni sono limitati a quelli che un mercato può, almeno teoricamente, fornire.

Il rischio ora è che i sistemi politici di molti Stati occidentali comincino a crollare e che nulla li sostituisca: l’anarchia nel senso popolare del termine. È abbastanza facile capire come ciò possa accadere. L’interesse e la fiducia dei cittadini nei sistemi politici esistenti si stanno riducendo in tutto il mondo occidentale. In molti Paesi, quasi la metà della popolazione si preoccupa di votare, anche alle elezioni nazionali. I partiti hanno ancora differenze tra loro, ma spesso sono relativamente minori e non corrispondono alle differenze di opinione e di interesse all’interno delle società stesse. Sebbene le questioni sostanziali di destra e sinistra siano in realtà salienti come non lo sono mai state, la distinzione operativa più importante nel modo in cui le persone si sentono è tra la minoranza (10-20% a seconda del Paese) che beneficia dell’attuale dispensazione neoliberale, o spera di farlo un giorno, e il resto, che non ne beneficia o teme di non farlo più. Non esiste un partito escluso in nessun Paese occidentale, anche se alcuni partiti, spesso etichettati come “estremi” di sinistra e di destra, raccolgono voti di protesta. Inoltre, nella maggior parte dei sistemi politici, il partito escluso è diviso tra più partiti con orientamenti e obiettivi superficialmente diversi. In Francia, quindi, gran parte del vecchio voto di sinistra si è diviso in due: la classe media è passata ai Verdi, mentre la classe operaia è andata all’Assemblea Nazionale di Le Pen. Eppure, in pratica, sarebbe possibile prendere il voto della classe operaia e medio-bassa tra i partiti sparsi della sinistra e il voto della classe operaia ora perso a favore della destra, e farne una coalizione vincente. L’ironia è che i leader della sinistra non riescono a rendersene conto o, se lo fanno, scelgono di non fare nulla perché trovano i sostenitori della destra comuni, rozzi e bigotti e non desiderano essere associati a loro. L’ulteriore ironia è che i punti di vista dell’elettore medio della RN e quelli dell’elettore medio del Partito Comunista non sono poi così distanti. Il problema è la leadership.

Quindi non ho idea di dove tutto questo possa andare a parare. Il problema è che se il sistema politico è screditato – e questo lo è sicuramente – allora la consueta progressione degli eventi, in cui un altro sistema lo sostituisce naturalmente, sembra essere stata invalidata questa volta. Poiché i partiti neoliberali elitari e carrieristi che dominano la politica occidentale sono per lo più in pessime condizioni, si presume che dovranno riformarsi (praticamente impossibile) o che scompariranno. E certamente è vero che godono di un sostegno popolare sempre minore e che sempre meno persone votano per loro. Anche negli Stati Uniti e nel Regno Unito, la gente si sta stancando della politica del “pushme-pullyou”, in cui il governo viene semplicemente estratto dal meno screditato dei due partiti principali in un dato momento. Ma supponiamo che questi partiti si disintegrino. Quali partiti subentreranno e come saranno strutturati e organizzati, e su quali basi? E se l’intero sistema di democrazia liberale indiretta crolla, quali forze sono in attesa di sostituirlo e come si organizzeranno? In alcune parti dell’Europa centrale e orientale, abbiamo assistito a divisioni etniche e nazionalistiche che sono state alla base di partiti politici e, purtroppo, di conflitti. Ma nel mondo post-etnico e post-politico di Bruxelles, nemmeno questo accadrà. Ho la sgradevole sensazione che ci stiamo dirigendo verso una vera e propria forma di anarchia: niente regole, niente OK. Non ci sono precedenti, per quanto ne so, di un sistema politico che cade senza che nulla lo sostituisca, o perlomeno senza nulla di valido. Crimine organizzato, qualcuno? Milizie islamiste?

Forse stiamo entrando in una terra desolata dal punto di vista politico. “Sulle sabbie di Margate”, scriveva TS Eliot in un’omonima poesia, “non riesco a collegare nulla con nulla”. Beh, stava scrivendo di uno dei suoi abituali esaurimenti nervosi, che poi ha superato. Ma forse ora non c’è davvero una cura per il crollo di un intero sistema.

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SEMPRE PIÚ FITTA, di Teodoro Klitsche de la Grange

SEMPRE PIÚ FITTA

Qualche lettore ricorderà che nei primi tempi della guerra in Ucraina notavo che la clausewitziana “nebbia della guerra” era particolarmente densa e fuorviante perché alimentata a piene mani da una comunicazione tutt’altro che imparziale, informata ed esperta: con risultati spesso sconcertanti, a cominciare dal piano logico.

In occasione della controffensiva ucraina si è raggiunto un apice della (cattiva) informazione. Vediamo perché:

  1. a) in primo luogo della controffensiva sappiamo tutto leggendo il giornale o guardando la televisione: luogo (Dombass); entità delle forze ucraine (8 brigate in addestramento); tempo (imminente – ma rimandato già più volte nella sua imminenza perdurante); esiti politici (la caduta di Putin) e così via, vagamente precisando.

Ora la nebbia clausewitziana è frutto sia della natura della guerra che delle misure dei comandanti, tutte volte a non far capire al nemico i propri piani e obiettivi. Perché, a conoscerli, è facile prendere le contromisure. Non occorre aver fatto la scuola di guerra: basta ricordare l’Aida, quando Amonasro cerca di carpire, tramite la figlia, i piani di Radames. Nella storia militare vi sono poi dei casi clamorosi di “depistaggio” fornendo false (ma credibili) informazioni. Uno dei quali – così noto che ci è stato realizzato un film – consistente nel confondere  i tedeschi sul luogo dove sarebbe avvenuto lo sbarco degli alleati nel 1944. I servizi inglesi lo prepararono così accuratamente da trarre in inganno – anche a sbarco avvenuto in Normandia – Hitler, convinto che ce ne sarebbe stato un secondo a Calais.

La conseguenza logica non è solo che se uno dei contendenti ti dice che attaccherà a Charkiv invece che a Kiev, sicuramente non attaccherà Charkiv, probabilmente neppure Kiev, ma da un’altra parte, dove meno è atteso; ma anche che le informazioni più credibili sono quelle che non sono diffuse. I (falsi) piani dello sbarco in Francia furono messi dagli 007 inglesi sul cadavere di un ufficiale britannico fatto ritrovare agli spagnoli (e quindi dai tedeschi), e non pubblicati sul Times; se li avesse letti sul giornale, Hitler avrebbe creduto ad un espediente dell’Intelligence Service.

C’è da chiedersi per quale ragione la comunicazione mainstream è così lontana da una rappresentazione credibile (e coerente) della situazione. Perché se le notizie fuorvianti sono fornite – come in gran parte sono – dagli uffici dei belligeranti (e dei loro alleati) sarebbe il caso di citarne la fonte (almeno) e, in certi casi di scrivere due righe di commento. Cosa che qualche rara volta avviene, ma quasi sempre no. Escluso che tali mezzi possano trarre in inganno il nemico, per la loro disarmante ingenuità, occorre individuare altri obiettivi. Un analista attento come Pietro Baroni definisce la “guerra psicologica” come “L’insieme delle operazioni, delle azioni, delle iniziative tendenti a conseguire l’obiettivo di assumere e mantenere il controllo di grandi strati di masse e di pilotarne le opinioni, i giudizi e le conseguenti manifestazioni, agendo sulla ricettività istintiva, sull’emotività e sul processo formativo delle valutazioni”. Nel caso gli obiettivi non sono Putin o Zelensky, ma l’opinione pubblica, occidentale soprattutto. Dalla quale occorre far approvare le misure a favore dell’Ucraina, in modo da attenuare l’onere dei sacrifici e dei rischi che comportano. A tal fine è necessario rappresentare la situazione bellica in modo conforme agli scopi da raggiungere.

E il divario tra ciò che è e ciò che si rappresenta è l’inganno e la simulazione occorrente.

Teodoro Klitsche de la Grange

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UCRAINA: COME STA CAMBIANDO LA NARRAZIONE OCCIDENTALE DELLA GUERRA _di “Simplicius the Thinker”

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UCRAINA: COME STA CAMBIANDO LA NARRAZIONE OCCIDENTALE DELLA GUERRA

di “Simplicius the Thinker”, 17 maggio 2023

Alcuni giorni fa, è stato pubblicato da “Foreign Affairs” un articolo[1] firmato da due dei principi ereditari delle pessime prese di posizione militari filo-ucraine, gli eminenti Michael Kofman e Rob Lee. Sembrava un’occasione troppo ghiotta per lasciarsi sfuggire l’opportunità di dare un’occhiata sotto il cofano dell’attuale narrazione da parte dei due principali propagandisti, e a che cosa è stato ritenuto così importante da giustificare un’urgente prima pagina di “Foreign Affairs”.

Di solito, quando alle “personalità” militari o politiche viene ceduta la parola su una piattaforma di questo tipo, è per lanciare un appello urgente alla solidarietà, una sorta di prefabbricato urgente rivolto al mondo dei loro devoti NATO. Ed è quello che hanno fatto; insieme, Kofman e Lee hanno suonato il campanello d’allarme affinché il mondo occidentale presti attenzione alle loro parole riguardo alle mutevoli prospettive dell’OMU e alla direzione che stanno prendendo le cose.

 

Il taglio del loro articolo converge con un tema che sta attraversando l’Europa e l’intera struttura occidentale che sostiene l’Ucraina. Si tratta della lenta presa di coscienza che nelle ultime settimane ha fatto sudare freddo gli euro-apparati: che le prossime offensive dell’Ucraina non si riveleranno in alcun modo decisive; che l’Ucraina non ha alcuna possibilità reale, nel presente o nel futuro a breve termine. Che l’unico modo per andare avanti senza subire una sconfitta storica umiliante è quello di “dare un calcio al barattolo” e concentrarsi sulla costruzione di una coalizione favorevole alla guerra per il futuro, che possa sperare di eguagliare il potenziale di sostegno economico-militare a lungo termine della Russia.

 

Questo è l’arco generale dell’appello disperato di Kofman-Lee. Con toni accuratamente moderati e riflessivi, in modo da non causare troppo panico o allarme tra i loro decisamente fragili sostenitori del NAFO, Kofman-Lee costruiscono lentamente l’argomentazione secondo la quale non ci si deve aspettare alcun tipo di successo drammatico o decisivo, e perché invece la narrazione deve spostarsi verso la costruzione di infrastrutture di sostegno a lungo termine per l’Ucraina, per essere in grado di combattere quello che ora probabilmente sarà un conflitto che si trascinerà molto a lungo.

“L’Ucraina è anche desiderosa di dimostrare che, nonostante mesi di brutali combattimenti, le sue forze armate non sono esaurite e sono ancora in grado di sfondare le linee russe.

 

In effetti, ciò che seguirà a questa operazione potrebbe essere un altro periodo indeterminato di combattimenti e logoramento, ma con ridotte forniture di munizioni all’Ucraina. Questa è già una guerra lunga e probabilmente si prolungherà. La storia è una guida imperfetta, ma suggerisce che le guerre che durano più di un anno sono destinate a protrarsi per almeno altri anni e sono estremamente difficili da concludere. Una teoria occidentale del successo deve quindi evitare una situazione in cui la guerra si trascina, ma in cui i Paesi occidentali non sono in grado di fornire all’Ucraina un vantaggio decisivo.”

Negli ultimi articoli ho sottolineato più volte come la narrazione stia iniziando a oscillare verso questa direzione. Ovunque si guardi, si vedono eurocrati e nomenklatura tecno-fascista dei vari Stati occidentali che ora condizionano le loro opinioni pubbliche ad accettare l’inevitabile indecisione della prossima offensiva. Lo vediamo soprattutto nei recenti titoli dei giornali che invitano a concentrarsi sulla futura costruzione di infrastrutture e sulla sostenibilità dello sforzo bellico:

Questo thread su Twitter del Dr. Snekotron[2] evidenzia i problemi.

 

Egli afferma che gli Stati Uniti non “esauriranno mai veramente i fondi” per sostenere l’Ucraina, ma… ci sono alcune sfumature importanti:

Si sta verificando un cambiamento nella natura degli aiuti. Ci sono due tipi di assistenza militare: PDA e USAI. La prima consiste nel prelevare armi dalle scorte militari statunitensi, mentre la seconda consiste in nuovi ordini. https://comptroller.defense.gov/Budget-Execution/pda_announcements/… https://comptroller.defense.gov/Budget-Execution/USAI_Announcements/[3]

La stragrande maggioranza del sostegno è stata finora fornita dalla Presidential Drawdown Authority (PDA), che in pratica consiste nell’invio all’Ucraina di armi dalle proprie scorte, invece di costruirne di nuove:

La stragrande maggioranza dei pacchetti è stata costituita da PDA, come nel caso degli enormi pacchetti di gennaio, ma da allora le richieste di PDA si sono ridotte e gli ordini USAI sono aumentati in modo sostanziale. Gli Stati Uniti vogliono rendere questa guerra sostenibile, in linea con la propria produzione.

 

 

È chiaro che gli Stati Uniti sono sempre più diffidenti nei confronti della riduzione delle scorte di armi strategicamente rilevanti. Tuttavia, come sapete se mi seguite, la produzione statunitense non aumenterà molto nel prossimo futuro, il che significa che il ritmo delle consegne di attrezzature all’Ucraina sarà limitato.

Egli fa riferimento al fatto che non ci sono aumenti sostanziali della produzione, perché l’aumento effettivo della produzione è estremamente difficile, in particolare nell’attuale clima economico e di mercato volatile. Quindi, Snekotron conclude che, sebbene gli Stati Uniti possano avere “denaro illimitato” in un certo senso, ci sarà ancora una grande restrizione nelle forniture agli Emirati Arabi Uniti per il prossimo futuro.

 

Le nazioni occidentali hanno dato all’Ucraina una nuova vita ricostruendo il suo esercito da zero a costo delle loro limitate scorte. Ma ora che queste sono esaurite e prosciugate, il percorso verso la ristrutturazione magica delle loro economie zoppicanti in splendide potenze industriali sembra piuttosto tenue.

 

Il duo di disinformatori sembra sostenere che i leader europei abbiano semplicemente speso per le loro forniture di armi nella speranza di “lavarsene le mani”, o di dare l’impressione di aver contribuito a spuntare una casella per non essere ostracizzati, nella prospettiva che l’offensiva imminente risolverà tutto e non dovranno più occuparsi del problema. Tuttavia, Kofman-Lee avverte che questa offensiva probabilmente non creerà alcun incentivo per “Putin a fermare” la guerra:

Scommettendo troppo sull’esito di questa offensiva, i Paesi occidentali non hanno segnalato efficacemente il loro impegno per uno sforzo prolungato. Se questa operazione si rivelasse l’apice dell’assistenza occidentale a Kiev, Mosca potrebbe ritenere che il tempo sia ancora dalla sua parte e che le forze russe, ormai allo stremo, possano alla fine logorare l’esercito ucraino. Che la prossima operazione dell’Ucraina abbia successo o meno, il leader russo potrebbe avere pochi incentivi a negoziare. Affinché l’Ucraina possa sostenere lo slancio e la pressione, gli Stati occidentali devono assumere una serie di impegni e piani per il seguito di questa operazione, piuttosto che mantenere un approccio attendista. Altrimenti, l’Occidente rischia di creare una situazione in cui le forze russe siano in grado di riprendersi, stabilizzare le loro linee e cercare di riprendere l’iniziativa.

Poi, ironicamente, riconoscono alla Russia il merito di aver fatto esattamente ciò che avrebbe dovuto fare, le manovre strategiche intelligenti, il che è in netta contraddizione con ciò che entrambi dicevano in quel momento in pubblico. Qui scrivono che il ritiro ordinato e “riuscito” della Russia dalla riva destra di Kherson ha permesso loro di accorciare le linee e di concentrare la manodopera in modo molto più favorevole, il che era ovviamente il punto.

 

Continuano ad affermare che le “offensive invernali” della Russia sono state un fallimento, ma non possono che citare Ugledar come esempio, ancora una volta attingendo alla borsa della propaganda favorita per affermare che i Marines hanno ricevuto “migliaia di vittime”, nonostante il fatto che i registri ufficiali delle vittime abbiano registrato perdite minime durante l’intero periodo dell’assalto (poche centinaia), e che la falsa narrativa che circonda gli attacchi di Ugledar si basa esclusivamente su una serie di due o tre brevi video modificati in modo fuorviante che mostrano incidenti minori a livello di plotone o inferiore.

 

Quando si rivolgono a Bakhmut, fanno una dichiarazione strana, assurda:

Mosca non aveva le forze necessarie per accerchiare Bakhmut, cosa che avrebbe potuto portare a una vittoria significativa, quindi si concentrò sulla vittoria più simbolica della conquista della città stessa.

Cioè prendere Bakhmut accerchiandola sarebbe stato “significativo”, ma prendere la città “in sé” è un declassamento? Perché esattamente? Suppongo che la loro argomentazione farlocca sia: “Beh, perché accerchiando la città si sarebbe potuto intrappolare un gran numero di truppe e distruggerle”. Ma qual è la differenza? Quando l’Ucraina ha continuato a far affluire molte più truppe di quante ne avesse mai immaginato di doverne utilizzare, il metodo della macinatura lenta ha di fatto provocato all’AFU molte più perdite di quante ne avrebbe prodotte anche un “accerchiamento”.

In ogni momento, la città aveva al proprio interno solo 20-30.000 soldati contemporaneamente, con un numero maggiore di truppe nelle periferie e nei quartieri periferici. “Circondandola”, Wagner avrebbe potuto potenzialmente distruggerne 15-25k, ma invece, come ha spiegato Prigozhin, ha inflitto più di 50-60k perdite all’AFU, che è stata costretta ad arginare il flusso incessante di perdite inviando a rinforzo carne da cannone, una “difesa territoriale” da quattro soldi, più e più volte, fino al punto in cui ha cominciato a scioccare persino i suoi sostenitori occidentali. Durante il periodo peggiore, hanno ammesso alla televisione occidentale che la durata di vita di un soldato “in carne ed ossa” sul fronte di Bakhmut era di circa quattro ore o meno. E più volte gli ufficiali dell’AFU hanno ammesso che le loro perdite erano in genere di due compagnie al giorno (400-500 uomini).

Infatti, proprio oggi un nuovo rapporto di un ufficiale occidentale che fornisce copertura a Bakhmut ha affermato quanto segue sui recenti eroici tentativi “offensivi” dell’Ucraina di sbloccare Bakhmut:

 

Secondo uno degli ufficiali della NATO che ha fornito il supporto al quartier generale per i contrattacchi sui fianchi del gruppo Bakhmut il 12 maggio, l’Ucraina ha subito una delle più grandi perdite dal 2014 – 1.725 persone sono state uccise.

Gli attacchi della 2a brigata Azov sul fianco meridionale e di due brigate meccanizzate e un battaglione di fucilieri motorizzati sul fianco settentrionale sono stati fermati e le perdite sono state pari a un reggimento.

Il rapido ritiro delle truppe russe in pianura e il bombardamento dei carri armati, dell’artiglieria e degli aerei russi sulla linea di difesa preparata ad alta quota hanno causato pesanti perdite.

Un gran numero di mercenari stranieri e di gruppi di estrema destra sono bloccati a Bakhmut. Le Forze armate ucraine stanno cercando da diversi giorni di allentare la pressione sul gruppo per poterlo ritirare, ma la Russia vanifica questi tentativi con un massiccio bombardamento.

In breve, egli afferma che un intero reggimento è stato annientato solo perché Zelensky potesse avere i suoi due minuti di bella figura sulla televisione occidentale, per il fatto che un piccolo e insignificante angoletto sul fianco di Bakhmut era stato “liberato” per qualche giorno.

Alla luce di quanto sopra, si può davvero pensare che “circondare la città” avrebbe fornito una “vittoria più significativa” di un massacro di sei mesi che ha distrutto – come raccontato da molti soldati dell’AFU – il meglio del loro personale?

Kofman-Lee fanno poi la seguente ammissione:

La maggior parte delle perdite russe subite a Bakhmut sono state causate da Wagner, e la maggior parte delle perdite di Wagner sono state subite da galeotti poco addestrati. Queste perdite sono importanti, ma la perdita di galeotti incide sullo sforzo bellico complessivo della Russia molto meno della perdita di soldati regolari o di personale mobilitato, soprattutto al di fuori di contesti come Bakhmut. I detenuti di Wagner rappresentano un investimento minimo e non sono individui sottratti all’economia, quindi le loro perdite non hanno ramificazioni politiche.

E alla fine, si ritrovano ad essere d’accordo con il mio punto di vista, in modo tortuoso, e in realtà contraddicono il loro stesso punto precedente sul fatto che il rapido accerchiamento di Bakhmut sarebbe stata una “vittoria più significativa”:

Ma l’Ucraina potrebbe anche scoprire che le forze e le munizioni spese per difendere Bakhmut, in un terreno relativamente sfavorevole, imporranno un vincolo alle operazioni di quest’anno. Inoltre, gli assalti di Wagner hanno bloccato un numero significativo di forze ucraine durante l’inverno, dando alle forze armate russe il tempo di stabilizzare le loro linee e di trincerarsi.

Improvvisamente ammettono che il lungo lavoro potrebbe aver impoverito in modo critico l’AFU non solo in termini di manodopera ma anche di materiale, per un discutibile scambio con alcuni galeotti. Inoltre, sono implicitamente d’accordo con quanto dichiarato dallo stesso Prigozhin sullo scopo di Bakhmut, che era quello di dare alle forze russe il tempo di mobilitarsi e addestrarsi dopo il settembre dello scorso anno, quando la mobilitazione era stata annunciata per la prima volta.

A lungo termine, l’importanza delle risorse spese da entrambe le parti nella battaglia sarà probabilmente il fattore più importante. Se l’Ucraina avrebbe potuto adottare un approccio migliore in questo caso sarà oggetto di dibattito tra gli storici.

Ma certo, Kofman-Lee. Un evidente tentativo di dissimulare e coprire le proprie perdite.

La sezione successiva è orientata al futuro. Si cerca di valutare le possibilità di UA nelle prossime offensive. La loro dichiarazione di apertura non dà fiducia:

La sfida che l’Ucraina deve affrontare è che, nonostante l’afflusso di equipaggiamenti occidentali, le sue forze armate sono in gran parte mobilitate, di qualità non omogenea, e si addestrano secondo un calendario ridotto. Inoltre, nel corso dell’ultimo anno, l’esercito ucraino ha subito perdite significative. Molti giovani ufficiali, sottufficiali, soldati veterani e truppe precedentemente addestrate dalla NATO hanno perso la vita nei combattimenti. Si tratta di un periodo di tempo molto breve per i soldati appena mobilitati per padroneggiare un nuovo equipaggiamento e condurre un addestramento ad armi combinate come unità.

Beh, direi. Questo grafico mostra il numero di ufficiali che l’Ucraina ha perso.

 

Poi arriva un’ammissione enorme, se non comica:

Quindi: L’Ucraina è stata istruita “alla maniera della NATO”, MA… a quanto pare la NATO non è in grado di combattere senza la superiorità aerea. Woops! Sembra che questa sia una cosa che avrebbe dovuto essere segnalata in anticipo ai poveri topi da laboratorio dell’AFU, no? Il fatto è che l’intera bufala dell'”addestramento NATO” è stata perpetrata dai cinici governanti occidentali per quasi un decennio. È stato ampiamente notato fin dalle prime fasi della guerra del Donbass, dal 2014 in poi, dagli stessi soldati dell’AFU, che gli addestratori della NATO erano di fatto inferiori alle truppe ucraine che pretendevano di addestrare. Il motivo è che le loro “conoscenze” sono meramente teoriche e ciò che si impara rapidamente sul campo di battaglia è che nulla è paragonabile alla vita reale, all’esperienza di prima mano di un guerriero in carne ed ossa, che ha effettivamente visto il combattimento, non nelle pagine soffocanti di un libro di testo, ma nel caos estenuante delle trincee stesse.

 

Questa intervista di Saker a Dmitry Orlov, ad esempio, ha evidenziato il fatto:

E questo articolo[4] del 2017:

Che ha evidenziato come gli istruttori della NATO addestrassero i combattenti ucraini con sistemi d’arma che gli stessi istruttori non avevano la minima idea di come caricare o maneggiare. Le foto hanno mostrato istruttori NATO che insegnavano in modo scorretto all’AFU come caricare le mitragliatrici DShK, per non parlare dei tipi di munizioni sbagliate.

Tuttavia, come ha sottolineato un soldato ucraino attento, tutto ciò che le immagini sono servite a dimostrare è che gli “esperti” della NATO non hanno alcuna idea di come maneggiare le armi utilizzate dall’esercito ucraino.

Di conseguenza, dopo il corso di istruzione condotto con l’aiuto degli istruttori della NATO, i mitraglieri ucraini non sanno nemmeno come caricare correttamente i nastri munizioni delle loro mitragliatrici pesanti, afferma il combattente volontario Roman Donik.

Ma torniamo a Kofman-Lee:

 

Tuttavia, la situazione è meno propizia per le forze ucraine di quanto non fosse a Kharkiv a settembre. Il compito dell’Ucraina è arduo. Non solo deve avere successo, ma deve anche evitare di estendersi eccessivamente.

Poi, discutono di un aspetto di cui ho scritto in un recente rapporto:

 

La sfida dell’imminente offensiva è che, nonostante le alte aspettative, sembra essere un’operazione monca. È probabile che l’Ucraina riceva una sostanziosa iniezione di munizioni di artiglieria prima di questa operazione, ma questo pacchetto offrirà una finestra di opportunità piuttosto che un vantaggio duraturo.

Avevo accennato al fatto che una “fuga di notizie” sosteneva che all’Ucraina era stata assegnata una scorta di munizioni di circa 10-14 giorni per qualsiasi offensiva imminente. Ricordiamo che un’offensiva è un periodo ad “alta intensità” in cui si sparano in genere molte più munizioni rispetto alle normali fasi posizionali a bassa intensità, come gran parte della fase attuale. Quindi, se attualmente l’Ucraina spara circa 2-6 mila proiettili al giorno, durante l’offensiva potrebbe essere destinata a spararne più di 20 mila al giorno. Il che significa che per un ipotetico periodo di 14 giorni, potrebbero avere qualcosa come ~300k proiettili preparati e immagazzinati.

 

Kofman-Lee stanno riconoscendo questo fatto: che l’offensiva sarà una “finestra” limitata di alto sostegno, durante la quale è improbabile che l’Ucraina riesca a ottenere importanti svolte decisive.

In effetti, alla fine di quest’anno l’Ucraina potrebbe essere costretta a combattere con meno munizioni per l’artiglieria o la difesa aerea rispetto a quanto spendeva durante l’offensiva invernale russa.

 

In questo caso si riconosce che dopo che l’AFU avrà esaurito le sue scorte durante l’imminente “offensiva”, a causa della “miopia” degli obiettivi di fornitura dei partner occidentali, l’Ucraina potrebbe benissimo trovarsi con una dotazione molto più ridotta di quella che ha avuto nell’ultimo semestre o giù di lì. In breve, la situazione del sostentamento dell’Ucraina per la seconda metà del 2023 potrebbe apparire palesemente disastrosa.

 

In un’altra ammissione che apre gli occhi, Kofman-Lee notano come l’attenzione per le “wunderwaffen” che cambiano le carte in tavola non abbia portato altro che delusioni, poiché nessun sistema è abbastanza potente da vincere completamente una guerra. La cosa triste è che qualsiasi stratega militare competente avrebbe potuto dirlo anche molto prima della guerra, ma sono stati i pagliacci filo-occidentali che hanno insistito nell’illudersi con fantasie così grossolane.

Tuttavia, ciò che è rimasto costante è che gli analisti e i politici che credevano che il prossimo sistema d’arma inviato in Ucraina avrebbe cambiato le carte in tavola sono rimasti costantemente delusi. Guerre convenzionali di questa portata richiedono un gran numero di attrezzature e munizioni e programmi di addestramento su larga scala. La capacità conta, ma non ci sono proiettili d’argento.

Dopo aver fatto così bene per tutta la durata dell’articolo, realizzando e riconoscendo per la prima volta nella loro carriera di imbroglioni una cruda onestà, concludono con una nota tipicamente stonata. È comprensibile, naturalmente, che dopo aver presentato un’immagine così pessimistica ai loro seguaci, che abbiano voluto a tirarli su di morale, per non spegnere del tutto le loro speranze.

 

Così hanno perorato con questo ingannevole slogan a livello di CNN:

Detto questo, la Russia non sembra ben posizionata per una guerra eterna. La capacità della Russia di riparare e ripristinare gli equipaggiamenti dal magazzino sembra così limitata che il Paese si affida sempre più agli equipaggiamenti sovietici degli anni ’50 e ’60 per riempire i reggimenti mobilitati. Mentre l’Ucraina acquisisce migliori equipaggiamenti occidentali, le forze armate russe assomigliano sempre più a un museo dei primi anni della Guerra Fredda.

È curioso che se ne parli. Proprio ieri, il vice primo ministro russo e ministro del commercio e dell’industria Denis Manturov ha riferito i seguenti aggiornamenti:

 

  1. Nel primo trimestre del 2023 sono stati prodotti più carri armati che nell’intero 2022.

 

  1. Il numero di colpi sparati è 7 volte superiore a quello del 2022.

 

  1. Il volume totale della produzione militare aumenterà di 4 volte nel 2023.

 

Questi dati si aggiungono a quelli precedentemente riportati[5] dall’amministratore delegato di Rostec, Chemezov, secondo cui la Russia ha prodotto più di 300 elicotteri nei primi mesi di quest’anno, rispetto ai circa 150 di tutto l’anno scorso.

Facendo un’estrapolazione, in passato la Russia produceva circa 150-250 carri armati all’anno, mentre Medvedev ha promesso di portarli ad oltre 1600. Sebbene questo numero includa i carri armati ristrutturati e aggiornati, che in realtà ne costituiscono la maggior parte, è comunque indicativo di una vasta produzione industriale. I nuovi dati di Manturov fanno luce su questo aspetto. Non è chiaro se si riferisca solo ai nuovi prodotti o al totale che include anche le ristrutturazioni e gli aggiornamenti, ma di certo indicano un numero colossale che probabilmente va ben oltre quello che incompetenti dalla mentalità ristretta come Kofman-Lee sono in grado di riconoscere.

 

Il fatto è che l'”Occidente”, alimentato dal mulino della propaganda di “analisti” inetti come quelli sopra citati, subirà un forte shock e un brusco risveglio quando comincerà a vedere gli effetti dell’aumento senza precedenti dell’economia russa che si diffondono sul campo di battaglia. Per ora non si vedono solo perché la Russia continua ad aspettare, come una pantera nella savana, l’occasione giusta per colpire. Ma se queste premesse errate sono quelle con cui l’Occidente sceglie di continuare a operare per comprendere le dinamiche del campo di battaglia, il futuro sarà costellato di dissonanze cognitive e di dita puntate come difficilmente possiamo immaginare. È solo a danno dell’Ucraina e dell’Occidente che si cerca disperatamente di minimizzare e sminuire la rivitalizzazione industriale senza precedenti della Russia.

Allo stato attuale, ciò che seguirà la prossima offensiva rivelerà se i Paesi occidentali stanno armando l’Ucraina per aiutare Kyiv a ripristinare completamente il controllo territoriale o solo per metterla in una posizione migliore per i negoziati.

Credo che tutti noi conosciamo la risposta a quanto sopra.

 

Il loro commiato finale è un ultimo urgente appello alle potenze occidentali affinché “pensino oltre” l’offensiva e si concentrino invece sul sostegno all’Ucraina nell’aldilà:

Come sono cambiate rapidamente le cose. Ricordiamo che solo all’inizio dell’anno la narrativa era che l’imminente offensiva post-invernale avrebbe “spezzato” la Russia e sarebbe stato il colpo finale per porre fine alla guerra. Una miriade di titoli del MSM ci hanno raccontato la storia di una Russia allo stremo, con Putin “alle corde” e in attesa del colpo del K.O. Peccato che non abbiano informato il pubblico che Putin stava semplicemente imitando Ali nello Zaire, quando anche Foreman era troppo impaziente di finire il suo avversario apparentemente alle corde.

In effetti, i funzionari ucraini si sono affannati ad annunciare che la “guerra sarebbe finita” quest’estate, o addirittura entro maggio.

Ora, improvvisamente, il tono sta cambiando. I MIC occidentali si affannano a cercare opzioni di “sostegno” e strategie di sopravvivenza a lungo termine, misure di mitigazione dell’erosione del morale, ecc. Come ho detto, è probabile che molti Paesi europei stiano semplicemente facendo la loro parte per “lavarsene le mani” del conflitto, in modo da non essere accusati di slealtà nei confronti dell’ordine euro-tecnocratico-globalista. In realtà, il minimo indispensabile è solo quello di dare all’Ucraina un ultimo colpo di scena televisivo, con il quale sperare di ottenere un’importante leva psicologica sulla Russia da utilizzare nei negoziati che seguiranno. L’obiettivo più probabile, a rigor di logica, è la centrale nucleare ZNPP di Energodar.

 

Solo oggi, il Ministero della Difesa russo[6] ha annunciato l’abbattimento di sei missili Storm Shadow in totale, per cui quel prodigio su cui molti contavano per annunciare la distruzione del ponte di Kerch da lontano, è già stato relegato nella stessa pattumiera dei risultati mediocri che i Javelin e gli HIMAR tengono attualmente al caldo.

 

L’unica speranza finale che l’UE/UA hanno è la cieca preghiera che l’apparente inattività della Russia e la sua concentrazione sulla sola Bakhmut negli ultimi mesi siano segni rivelatori di un’incapacità logorante e di un esaurimento delle forze, piuttosto che del paziente accumulo che chiaramente rappresenta. L’Ucraina scommette fatalmente sull’idea che la Russia abbia e continuerà a “ritirarsi” fino a quando non sarà trovata una soluzione negoziale favorevole all’Ucraina.

 

È un peccato che non vedano il “ritiro” per quello che è in realtà:

[1] https://www.foreignaffairs.com/ukraine/russia-war-beyond-ukraines-offensive

[2] https://twitter.com/snekotron/status/1658171215045877767

[3] https://comptroller.defense.gov/Budget-Execution/USAI_Announcements/

https://comptroller.defense.gov/Budget-Execution/pda_announcements/

[4] https://sputnikglobe.com/20170326/ukraine-nato-instructors-criticism-1051978949.html

[5] https://www.bitchute.com/video/FDxevsSRKSoV/

[6] https://www.bitchute.com/video/HuL4ooOaHCpR/

 

Oltre l’offensiva ucraina
L’Occidente deve preparare l’esercito del Paese a una lunga guerra
Di Michael Kofman e Rob Lee
10 maggio 2023
Un membro del servizio ucraino spara una granata anticarro vicino a Bakhmut, Ucraina, maggio 2023
Un membro del servizio ucraino spara una granata anticarro vicino a Bakhmut, Ucraina, maggio 2023
Sofiia Gatilova / Reuters
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Mentre l’offensiva invernale russa giunge al suo culmine, l’Ucraina è pronta a prendere l’iniziativa. Nelle prossime settimane, l’Ucraina intende condurre un’operazione offensiva, o una serie di offensive, che potrebbero rivelarsi decisive in questa fase del conflitto. Questa non è l’unica opportunità rimasta all’Ucraina di liberare una quantità sostanziale di territorio e di infliggere una grave sconfitta alle forze russe, ma l’imminente offensiva potrebbe essere il momento in cui l’equipaggiamento militare, l’addestramento e le munizioni occidentali disponibili si intersecano meglio con le forze messe a disposizione dall’Ucraina per questa operazione. L’Ucraina è anche desiderosa di dimostrare che, nonostante mesi di brutali combattimenti, le sue forze armate non sono esaurite e sono ancora in grado di sfondare le linee russe.

I politici, tuttavia, hanno posto un’enfasi eccessiva sull’imminente offensiva senza considerare sufficientemente ciò che avverrà dopo e se l’Ucraina è ben posizionata per la fase successiva. È fondamentale che i partner occidentali dell’Ucraina sviluppino una teoria di vittoria a lungo termine per l’Ucraina, poiché anche nella migliore delle ipotesi, è improbabile che l’imminente offensiva ponga fine al conflitto. Infatti, ciò che seguirà a questa operazione potrebbe essere un altro periodo indeterminato di combattimenti e logoramento, ma con ridotte forniture di munizioni all’Ucraina. Questa è già una guerra lunga e probabilmente si prolungherà. La storia è una guida imperfetta, ma suggerisce che le guerre che durano più di un anno sono destinate a protrarsi per almeno altri anni e sono estremamente difficili da concludere. Una teoria occidentale del successo deve quindi evitare una situazione in cui la guerra si trascina, ma in cui i Paesi occidentali non sono in grado di fornire all’Ucraina un vantaggio decisivo.

L’Ucraina può anche ottenere successi sul campo di battaglia, ma ci vorrà tempo per tradurre le vittorie militari in risultati politici. L’Occidente deve anche prepararsi alla prospettiva che questa offensiva non raggiunga il tipo di guadagni visti durante le operazioni di successo dell’Ucraina a Kharkiv e Kherson. Scommettendo troppo sull’esito di questa offensiva, i Paesi occidentali non hanno segnalato efficacemente il loro impegno per uno sforzo prolungato. Se questa operazione si rivelasse l’apice dell’assistenza occidentale a Kiev, Mosca potrebbe ritenere che il tempo sia ancora dalla sua parte e che le forze russe, ormai allo stremo, possano alla fine logorare l’esercito ucraino. Che la prossima operazione dell’Ucraina abbia successo o meno, il leader russo potrebbe avere pochi incentivi a negoziare. Affinché l’Ucraina possa sostenere lo slancio e la pressione, gli Stati occidentali devono assumere una serie di impegni e piani per il seguito di questa operazione, piuttosto che mantenere un approccio attendista. Altrimenti, l’Occidente rischia di creare una situazione in cui le forze russe siano in grado di recuperare, stabilizzare le loro linee e cercare di riprendere l’iniziativa.

Rimanete informati.
Analisi approfondite con cadenza settimanale.
UN INVERNO BRUTALE
Dopo le sconfitte successive a Kharkiv e Kherson, l’esercito russo era vulnerabile in vista dell’inverno. Ma anche le forze armate ucraine hanno subito perdite e consumato munizioni in quelle operazioni, il che le ha costrette a concentrarsi sulla propria ricostituzione. Nonostante l’ottimismo precedente sulla possibilità che l’Ucraina potesse spingere il suo vantaggio fino all’inverno, le forze armate ucraine non erano in una posizione forte per sostenere l’offensiva e ottenere ulteriori guadagni sul campo di battaglia. La mobilitazione e il successo del ritiro dalla riva destra di Kherson hanno aiutato la Russia a stabilizzare le sue linee, a costruire una riserva e a sviluppare una rotazione più sostenibile per le unità fuori dalla linea del fronte. L’esercito russo ha anche iniziato a costruire difese più sofisticate lungo il fronte in Ucraina con campi minati, ostacoli anticarro e trincee. Accorciando il fronte e aumentando il numero di effettivi dispiegati, le forze armate russe hanno anche aumentato la densità delle forze rispetto al terreno che stavano difendendo. Ne è seguito un periodo di logoramento in cui nessuna delle due parti ha avuto un vantaggio significativo.

Fortunatamente per l’Ucraina, la leadership politica russa si è dimostrata impaziente, abbandonando la strategia difensiva e sostituendo il più competente generale Sergey Surovikin con Valery Gerasimov, il capo dello Stato Maggiore russo, come comandante delle forze in Ucraina. Gerasimov ha lanciato un’offensiva mal concepita e intempestiva nel Donbas a partire dalla fine di gennaio. L’esercito russo, ancora in convalescenza, non era in grado di condurre operazioni offensive, dato il suo deficit di qualità delle forze, di equipaggiamento e di munizioni. Mosca aveva mobilitato più di 300.000 effettivi, che ha rapidamente utilizzato per rifornire le forze russe, ma non è riuscita a ripristinare un sufficiente potenziale offensivo. La quantità conta, ma un esercito non può ricostruire la propria qualità in pochi mesi.

In pratica, quindi, l’offensiva invernale della Russia dipendeva da una piccola percentuale delle sue forze armate, soprattutto dalla fanteria di marina e dalle unità aviotrasportate, che avevano subito pesanti perdite nel corso della guerra e facevano sempre più affidamento sul personale mobilitato come rimpiazzo. A Bakhmut, la maggior parte dei combattimenti è stata condotta dall’organizzazione paramilitare Wagner, affiliata allo Stato, invece che dalle forze armate regolari, che hanno svolto un ruolo di supporto. In generale, l’esercito russo ha dimostrato di non essere più in grado di condurre operazioni di combattimento su larga scala. Ha invece condotto attacchi localizzati con formazioni più piccole e distaccamenti d’assalto.

L’esercito russo ha comunque tentato di attaccare lungo sei assi – Avdiivka, Bakhmut, Bilohorivka, Kreminna-Lyman, Marinka e Vuhledar – sperando di mettere a dura prova le forze armate ucraine su un ampio fronte. Ma rispetto alla battaglia del Donbas del 2022, la Russia ha avuto un vantaggio minore nell’artiglieria durante queste campagne, e questa carenza ha ulteriormente limitato il suo potenziale offensivo. Le forze russe hanno ripreso l’iniziativa attraverso questi assalti e hanno bloccato le forze ucraine, ma nonostante le migliaia di vittime, l’esercito russo ha guadagnato poco territorio e l’offensiva non ha portato a una svolta significativa. Al contrario, l’offensiva russa ha indebolito ulteriormente le sue forze armate con un dispendio di uomini, materiali e munizioni. Queste perdite daranno all’Ucraina la migliore opportunità di lanciare una controffensiva. I tentativi della Russia di conquistare il Donbas quest’anno hanno anche dimostrato che la strategia di Mosca continua a soffrire di uno squilibrio tra obiettivi politici e mezzi militari.

LA BATTAGLIA PER BAKHMUT
Tuttavia, nella battaglia per Bakhmut, col tempo la posizione dell’Ucraina è diventata precaria. Le forze armate ucraine sono state parzialmente avvolte da febbraio e non godono più di un rapporto di logoramento così favorevole come un tempo. Bakhmut è circondata da alture, che hanno dato alle forze russe un vantaggio una volta conquistati i fianchi meridionali e settentrionali, rispettivamente a gennaio e febbraio. La situazione sembrava disastrosa all’inizio di marzo. Sebbene l’Ucraina abbia stabilizzato i fianchi impegnando ulteriori forze, consentendole di mettere in sicurezza la restante via di rifornimento principale della città, le forze russe hanno ora catturato la maggior parte della città. Mosca non aveva le forze necessarie per accerchiare Bakhmut, cosa che avrebbe potuto portare a una vittoria significativa, quindi si è concentrata sulla vittoria più simbolica della conquista della città stessa.

Rispetto alla battaglia di Vuhledar e ad altre parti del fronte durante l’offensiva invernale russa, il rapporto di logoramento dell’Ucraina a Bakhmut è meno favorevole e una parte minore delle perdite russe proviene da unità d’élite. Elementi della 106a Divisione aviotrasportata delle Guardie russe e altre unità militari russe stanno operando lungo il fronte di Bakhmut, ma Wagner sta conducendo la lotta, in particolare nella città stessa. La maggior parte delle perdite russe subite a Bakhmut sono state causate da Wagner, e la maggior parte delle perdite di Wagner sono state causate da detenuti poco addestrati. Queste perdite sono importanti, ma la perdita di galeotti incide sullo sforzo bellico complessivo della Russia molto meno della perdita di soldati regolari o di personale mobilitato, soprattutto al di fuori di contesti come Bakhmut. I detenuti di Wagner rappresentano un investimento minimo e non sono individui sottratti all’economia, quindi le loro perdite non hanno ramificazioni politiche. Data la forte dipendenza di Wagner dai detenuti, non è chiaro se questo approccio si sarebbe dimostrato efficace al di fuori di un contesto urbano come Bakhmut.

Durante le precedenti offensive ucraine, l’appoggio dell’esercito russo era costituito dalla fanteria aerotrasportata e navale, non dalle forze di Wagner. Per la Russia, quindi, è possibile che le pesanti perdite subite dalle unità d’élite a Vuhledar, come la 40a Brigata di Fanteria Navale e la 155a Brigata di Fanteria Navale, siano state più importanti dal punto di vista strategico delle perdite relative a Bakhmut. Le perdite a Vuhledar potrebbero rendere difficile per le forze russe difendersi dall’imminente offensiva ucraina. Ma l’Ucraina potrebbe anche scoprire che le forze e le munizioni spese per difendere Bakhmut, in un terreno relativamente sfavorevole, imporranno un vincolo alle operazioni di quest’anno. Inoltre, gli assalti di Wagner hanno bloccato un numero significativo di forze ucraine durante l’inverno, dando alle forze armate russe il tempo di stabilizzare le proprie linee e di trincerarsi.

Bakhmut è importante soprattutto per ragioni politiche e simboliche. Dal punto di vista strategico, è una porta d’accesso a Slovyansk e Kramatorsk, ma l’Ucraina continua a tenere un terreno difensivo migliore a ovest della città. Catturarla non aiuta molto le forze russe ad avanzare ulteriormente e potrebbero avere difficoltà a difenderla in seguito. Ma alla fine, la strategia militare è politica, in quanto collega le operazioni militari con gli obiettivi politici. La leadership ucraina vuole evitare di dare alla Russia qualsiasi tipo di vittoria che potrebbe rafforzare il morale russo, e ha scelto di continuare a difendere Bakhmut.

È quindi troppo presto per giudicare l’effetto della battaglia per Bakhmut su questa guerra. Il risultato sarà più chiaro con il senno di poi. Le forze ucraine hanno evitato l’accerchiamento e sono riuscite a infliggere costi elevati alle forze armate russe, anche se la maggior parte delle perdite sembra riguardare le unità Wagner. A lungo termine, il significato delle risorse spese da entrambe le parti nella battaglia sarà probabilmente il fattore più importante. Se l’Ucraina avrebbe potuto adottare un approccio migliore in questo caso sarà oggetto di dibattito tra gli storici.

ALLE PRESE CON L’INCERTEZZA
L’Ucraina ha cercato di costruire una forza in grado di condurre un’offensiva in aggiunta alle formazioni attualmente schierate. Kiev ha costituito tre corpi d’armata composti da brigate di fanteria meccanizzata (o motorizzata). Queste nuove unità comprendono circa nove brigate di manovra armate in gran parte con equipaggiamento fornito dall’Occidente e almeno tre generate dall’Ucraina. Queste brigate saranno probabilmente composte da personale appena mobilitato, forse con un nucleo di soldati esperti. Le unità saranno sostenute da diverse brigate d’assalto, come parte dello sforzo del Ministero degli Interni ucraino di creare una forza di “Guardia offensiva” a sostegno. Ma mentre l’offensiva si avvicina, non è chiaro quale percentuale di queste unità sarà completata per l’operazione, o se le brigate di supporto saranno assemblate in tempo.

La sfida che l’Ucraina si trova ad affrontare è che, nonostante l’afflusso di equipaggiamenti occidentali, le sue forze sono in gran parte mobilitate, di qualità non omogenea, e si addestrano in tempi ristretti. Inoltre, nel corso dell’ultimo anno, l’esercito ucraino ha subito perdite significative. Molti giovani ufficiali, sottufficiali, soldati veterani e truppe precedentemente addestrate dalla NATO sono stati dispersi nei combattimenti. Si tratta di un periodo di tempo molto breve per i soldati appena mobilitati per padroneggiare un nuovo equipaggiamento e condurre un addestramento ad armi combinate come unità. In generale, il vantaggio dell’Ucraina è stato che come forza si è dimostrata più adattabile, più motivata e più gratificata dall’iniziativa rispetto all’esercito russo.

L’Ucraina ha combattuto la guerra a modo suo, con un misto di comando di missione a livelli inferiori e, a volte, di comando centralizzato di tipo sovietico ai vertici. Ha posto una forte enfasi sull’artiglieria e sul logoramento rispetto alla manovra, integrando al contempo la precisione e l’intelligence occidentali per i colpi a lungo raggio. L’approccio occidentale è stato quello di addestrare le forze ucraine alla manovra ad armi combinate, nel tentativo di farle combattere in modo più simile a quello di un esercito della NATO, analogamente a quanto l’Occidente ha insegnato nei precedenti programmi di addestramento e assistenza. La sfida di questo approccio è che i militari della NATO non sono abituati a combattere senza la superiorità aerea, specialmente quella stabilita e mantenuta dalla potenza aerea americana, o almeno con le capacità logistiche e di supporto che gli Stati Uniti di solito portano in battaglia. Di conseguenza, i soldati ucraini devono affrontare le difese preparate della Russia senza il tipo di supporto aereo e logistico a cui i loro istruttori occidentali sono abituati da tempo.

Spetta a chi perde decidere quando una guerra è finita.
Le difese russe non sono impenetrabili, ma potrebbero essere abbastanza forti da attutire le forze ucraine su più linee difensive, guadagnando tempo per far arrivare i rinforzi. La loro difesa in profondità è progettata per impedire che uno sfondamento tattico ottenga effetti strategici, in particolare per impedire a uno sfondamento ucraino di generare slancio. L’imminente offensiva metterà quindi alla prova l’attuale teoria del successo di Kiev e delle capitali occidentali che vi contribuiscono: le forze ucraine, addestrate ed equipaggiate con sistemi occidentali, possono combattere in modo più efficace e sfondare le linee russe fortificate.

Sia le nuove formazioni ucraine che i preparativi difensivi russi saranno in gran parte non testati all’inizio dell’offensiva, rendendo difficile prevedere il corso delle prossime battaglie. Allo stesso modo, non è chiaro se l’Occidente abbia fornito sufficienti capacità di supporto all’offensiva ucraina, come attrezzature per lo sfondamento, macchine per lo sminamento e attrezzature per i ponti. Nonostante l’attenzione comune per gli oggetti di grande valore, come carri armati o jet da combattimento, sono i mezzi di supporto, la logistica e l’addestramento che spesso hanno l’effetto maggiore nel tempo.

Le ingenti forze mobilitate della Russia si sono dimostrate inefficaci nel condurre operazioni offensive durante l’inverno, ma per le unità poco addestrate è più facile difendersi che attaccare. Non è chiaro quale effetto avrà il logoramento delle unità russe d’élite e il dispendio di munizioni durante l’offensiva invernale della Russia sulla prossima offensiva dell’Ucraina. Sebbene le forze armate russe si stiano preparando alla controffensiva ucraina, la Russia ha speso male risorse preziose e il morale russo potrebbe essere basso, rendendo le sue forze vulnerabili. I fattori soft e intangibili, difficili da misurare, sono probabilmente a favore dell’Ucraina. Tuttavia, la situazione è meno propizia per le forze ucraine di quanto non fosse a Kharkiv a settembre. Il compito dell’Ucraina è arduo. Deve non solo avere successo, ma anche evitare un eccessivo allungamento.

LA LUNGA STRADA DA PERCORRERE
La sfida dell’imminente offensiva è che, nonostante sia gravata da grandi aspettative, sembra essere un affare isolato. È probabile che l’Ucraina riceva una consistente iniezione di munizioni di artiglieria prima dell’operazione, ma questo pacchetto offrirà una finestra di opportunità piuttosto che un vantaggio duraturo. Gli sforzi occidentali per sostenere l’Ucraina risentono di una mentalità a breve termine, che prevede la fornitura di capacità appena in tempo o come spinta per l’operazione offensiva, ma con poca chiarezza su ciò che seguirà.

Che abbia successo o meno, l’Ucraina potrebbe assistere a un altro periodo di combattimenti indeterminati dopo questa offensiva, paragonabile a quello che ha seguito i successi a Kharkiv e Kherson. Il motivo è duplice: I Paesi occidentali hanno effettuato investimenti chiave in capacità produttive in ritardo rispetto a questa guerra, e gran parte del sostegno dell’Occidente sembra concentrarsi sul breve termine, per poi vedere cosa succederà dopo. Il vuoto tra gli sforzi occidentali è colmato dagli sforzi russi per stabilizzare le linee e ricostituire, insieme a prolungati periodi di logoramento. In effetti, l’Ucraina potrebbe essere costretta a combattere con meno munizioni di artiglieria o di difesa aerea alla fine di quest’anno rispetto a quanto spendeva durante l’offensiva invernale russa.

Tuttavia, ciò che è rimasto costante è che gli analisti e i politici che credevano che il prossimo sistema d’arma inviato all’Ucraina avrebbe cambiato le carte in tavola sono rimasti costantemente delusi. Guerre convenzionali di questa portata richiedono un gran numero di attrezzature e munizioni e programmi di addestramento su larga scala. La capacità conta, ma non ci sono proiettili d’argento. L’Ucraina probabilmente riprenderà il territorio nella sua prossima offensiva e potrebbe sfondare in modo significativo le linee della Russia. Ma anche se l’Ucraina ottenesse una vittoria militare, o una serie di vittorie, ciò non significa che la guerra finirebbe a quel punto. Spetta a chi perde decidere quando una guerra è finita, e questo conflitto ha la stessa probabilità di continuare come una guerra al di là del confine russo-ucraino.

A questo punto, ci sono poche prove che il Presidente russo Vladimir Putin voglia porre fine al conflitto, anche se l’esercito russo sta affrontando una sconfitta. Potrebbe cercare di continuare come una guerra di logoramento, indipendentemente dalle prospettive per le forze russe sul campo di battaglia. Putin potrebbe ritenere che questa offensiva rappresenti il punto più alto dell’assistenza occidentale e che, col tempo, la Russia possa ancora esaurire le forze armate ucraine, magari nel terzo o quarto anno di conflitto. Queste ipotesi possono essere oggettivamente false, ma finché Mosca crederà che la prossima offensiva sia un caso isolato, potrà pensare che il tempo sia ancora dalla parte della Russia. Allo stesso modo, se l’Ucraina avrà successo, né la sua società né la sua leadership politica saranno disposte ad accontentarsi di qualcosa di diverso dalla vittoria totale. In breve, è improbabile che la prossima offensiva crei buone prospettive per i negoziati.

Tra i Paesi occidentali ci sono visioni contrastanti su come potrebbe finire la guerra.
Detto questo, la Russia non sembra ben posizionata per una guerra definitiva. La capacità della Russia di riparare e ripristinare l’equipaggiamento dal magazzino sembra così limitata che il Paese si affida sempre più all’equipaggiamento sovietico degli anni ’50 e ’60 per riempire i reggimenti mobilitati. Mentre l’Ucraina acquisisce migliori equipaggiamenti occidentali, le forze armate russe assomigliano sempre più a un museo dei primi anni della Guerra Fredda. Ci sono anche crescenti segnali di tensione nell’economia russa, dove i ricavi della vendita di energia sono sempre più limitati dalle sanzioni e dall’allontanamento dell’Europa dal gas russo. Anche se Mosca può continuare a mobilitare manodopera e a portare sul campo di battaglia vecchi equipaggiamenti militari, la Russia dovrà affrontare crescenti pressioni economiche e carenze di manodopera qualificata.

Le forze russe in Ucraina devono ancora affrontare un problema strutturale di manodopera e, nonostante una campagna di reclutamento nazionale, Mosca dovrà probabilmente mobilitarsi di nuovo per sostenere la guerra. È disperato che non lo faccia. Se l’Occidente riesce a sostenere lo sforzo bellico dell’Ucraina, allora, nonostante la sua capacità di recupero e le sue riserve di mobilitazione, la Russia potrebbe trovarsi in una situazione di svantaggio crescente nel tempo. Negli ultimi mesi, i Paesi europei hanno iniziato a fare i necessari investimenti nella produzione di artiglieria e ad emettere contratti di approvvigionamento, anche se alcune di queste decisioni arrivano a più di un anno dall’inizio della guerra.

Alcuni possono sperare che un’offensiva di successo possa portare a un armistizio negoziato, ma questo deve essere bilanciato con la prospettiva che un cessate il fuoco produca semplicemente un periodo di riarmo, dopo il quale Mosca cercherà probabilmente di rinnovare la guerra. Se un armistizio favorisca la Russia o l’Ucraina è discutibile. La Russia cercherà certamente di riarmarsi, ma l’entità dell’assistenza militare occidentale all’Ucraina è incerta. Di conseguenza, il modo in cui questa guerra si conclude potrebbe portare a una guerra successiva. Dopo tutto, l’attuale conflitto è la continuazione dell’invasione russa dell’Ucraina del 2014.

Tra i Paesi occidentali ci sono visioni contrastanti su come potrebbe finire la guerra. Una sconfitta per Mosca non equivale a una vittoria per Kiev, e non è necessario viaggiare molto in Europa per scoprire che non tutti definiscono una vittoria ucraina allo stesso modo. Alcuni vedono la situazione attuale come una sconfitta strategica per Mosca; per altri, questo risultato rimane indeterminato. Allo stato attuale, ciò che seguirà la prossima offensiva rivelerà se i Paesi occidentali stanno armando l’Ucraina per aiutare Kyiv a ripristinare completamente il controllo territoriale o solo per metterla in una posizione migliore per i negoziati.

Anche se l’imminente offensiva ucraina farà molto per definire le aspettative sulla futura traiettoria di questa guerra, la vera sfida è pensare a ciò che verrà dopo. L’offensiva ha consumato la pianificazione, ma un approccio sobrio riconoscerebbe che sostenere l’Ucraina sarà uno sforzo a lungo termine. È tempo, quindi, che l’Occidente inizi a pianificare più attivamente il futuro, al di là della prossima offensiva. La storia dimostra che le guerre sono difficili da terminare e spesso proseguono ben oltre le fasi decisive dei combattimenti, anche con il proseguimento dei negoziati. Per l’Ucraina e i suoi sostenitori occidentali, una teoria della vittoria deve basarsi sulla resistenza, affrontando le esigenze di qualità, capacità e sostegno delle forze a lungo termine dell’Ucraina. Gli Stati Uniti e l’Europa devono fare gli investimenti necessari per sostenere lo sforzo bellico ben oltre il 2023, sviluppare piani per operazioni successive – ed evitare di riporre le loro speranze in un singolo sforzo offensivo.

MICHAEL KOFMAN è direttore del programma di ricerca Russia Studies Program presso il Center for Naval Analyses e Senior Fellow aggiunto presso il Center for a New American Security.
ROB LEE è Senior Fellow del Programma Eurasia del Foreign Policy Research Institute.

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UNA CIVILTA’ IN CRISI (2/2)_di Pierluigi Fagan

UNA CIVILTA’ IN CRISI (2/2). Le società animali e quelle umane più di altre, andrebbero intese come veicoli adattivi. Gli individui creano e si adattano alla società che aiuta ad adattarsi al mondo. Una civiltà è un meta-sistema, meno definito di quanto sia una società propriamente detta ma col vantaggio della massa. L’unità metodologica qui è la società, la società si adatta e partecipa della civiltà la quale aiuta ad adattarsi al mondo.
Lo stato di crisi precedentemente illustrato (precedente post, link sottostante) percorre tutti i livelli che vanno dalla civiltà alle società componenti, singole nazioni o gruppi di esse più omogenei, da queste alla loro composizione interna per strati, ceti, classi, funzioni, fino ai singoli individui. In una crisi adattiva, ognuno di questi soggetti, singoli o collettivi, si trova nella difficile situazione di esser, al contempo, “contro e con” qualcun altro.
Si può guadare con simpatia l’odierna emersione di nuove potenze interne altre sfere di civiltà, se non altro perché questo può muovere la struttura della nostra civiltà, aprire a possibili cambiamenti. Ma tali cambiamenti dovrebbero vederci pronti a farci carico della ridefinizione della nostra civiltà, non certo aspirare ingenuamente ad esser cambiati da altre civiltà. Ogni civiltà è aliena all’altra. Le civiltà possono e dovrebbero dialogare e scambiarsi idee, tratti e caratteri, ma rimangono soggetti con fini, scopi e modi integralmente diversi e di fondo, reciprocamente competitivi.
Così, la crisi della nostra civiltà ci riguarda integralmente tutti sebbene ognuno di noi abbia porzioni di distinguo e dissenso con la sua forma attuale. Ci riguarda come società che dovrebbe perseguire il proprio interesse nazionale ma “contro e con” altre società similari, il che vale anche per la dialettica tra ceti, classi e funzioni interne alla singola società, fino al livello individuale e nelle aspettative tra interessi teorici e pratici, financo dentro noi stessi.
Lo stato di crisi ontologica della civiltà occidentale e di ogni sua componente interna è certo la crisi dei suoi modi, strutture e dei suoi usuali processi di organizzazione, ma è anche la crisi del proprio mentale. Per gli umani, il mentale, è stata la principale e per altro molto potente arma adattativa. L’umano mostra una peculiarità cerebro-mentale che frappone tra intenzione ed azione uno spazio, in quello spazio c’è la simulazione degli effetti di ogni possibile azione, il pensiero. Il pensiero è una azione off line, una ipotesi di azione non ancora agita in attesa di diventare atto, soggetta a strategia, simulazione e valutazione. Tramite questa novità biologico-funzionale, abbiamo perso ogni tratto adattivo animale non più necessario (pelo, artigli, canini e potenti mascelle, agilità e muscoli etc), diventando al contempo uno degli animali più morfologicamente fragili a livello individuale quanto operativamente il più potente a livello collettivo o comunque sicuramente il più adattivo.
A questa dotazione mentale generale diamo il nome di “immagine di mondo”, ne sono dotate le civiltà, le società a gruppi o singolarmente prese, gli strati (ceti, classi e funzioni interne), gli individui. Oltre che nella scomoda situazione dell’esser al contempo “contro e con”, noi oggi ci troviamo con un mentale disallineato ai tempi. Il nostro mentale distilla i cinque secoli del moderno, anche se alcune strutture di pensiero che hanno funzione profonda, architettonica e fondazionale, risalgono a secoli e millenni addietro (greco-romani, cristianesimo). A seconda di quanta epocalità vogliamo riconoscere al passaggio storico nel quale siamo capitati, verificheremo anche la più o meno profonda inadeguatezza di ampie parti del nostro mentale. Siamo in una epoca nuova con una mentalità vecchia.
Quello che preoccupa più di ogni altra cosa di questa fase storica è proprio la mancanza di coraggio mentale. In Occidente, i complessi ideologici vanno irrigidendosi in tristi scolastiche, non si nota alcuna primavera del pensiero, in nessun campo che non sia attuativo-strumentale (tecnica). L’assenza di creatività del nostro pensiero è pari all’impressione di inoltrata anzianità delle nostre società alla fine di più di un ciclo storico.
La mentalità occidentale ha due problemi principali. Il primo è di forma. Una civiltà e viepiù la sua crisi adattiva, è un problema eminentemente complesso ovvero dotato di molte parti, molte interrelazioni tra queste parti, processi non lineari ovvero non-meccanici, un sistema posto in un contesto turbolento. Che si usino discipline scientifiche o storico-sociali o pensiero riflessivo, nel moderno abbiamo sviluppato singoli tagli, singoli sguardi, singole metodologie disciplinari. Ancorché proficuo spezzettare oggetti o fenomeni per ridurne la dimensione alle nostre limitate facoltà mentali, tutto ciò non torna mai alla visione completa, non arriva mai al “com-prendere”, al prendere assieme. L’intero in rapporto al suo contesto ci sfugge sistematicamente e con esso la facoltà di poterlo maneggiare.
Il secondo problema è dato dal fatto che ognuna di queste discipline è ingombra di teorie, per lo più locali, ma non solo. Il paesaggio teorico è una intricata foresta di legami e rimandi tessuti nel tempo storico proprio, periodi storici in cui la nostra civiltà si trovava in un punto ben diverso della sua curva adattiva ed altrettanto il contesto-mondo. In molte discipline cruciali per la comprensione allargata vige un paradigma meccanico-atemporale che governa l’indagine ed il pensiero su cose che però sono storico-biologiche. Sono quattro secoli che la nostra foga di fare ha portato a tipo ideale macchine idrauliche, fontane, orologi, il modello sistemico del primo moderno. Poi è stata la volta della macchina a vapore, oggi il computer. Ma niente del nostro essere umani, bio-sociali e mentali, ha a che fare con queste infondate analogie, è proprio la logica di comprensione che è disallineata. Infine, questo paesaggio teorico ha una sua propria consistenza interna che, nel tempo, si è allontanata dalla natura del proprio oggetto producendo una ingombrante selva di problemi fittizi e mal posti, stratificati in quadri polemici alimentati dalla competizione ideologica ed accademica, sempre più alla deriva di realtà.
Quello che manca per muoversi dentro lo stato di crisi in cerca dell’uscita non è un altro modello di società col suo immancabile lungo elenco di “vorrei che così fosse” qualora ci venisse concesso il ruolo di “legislatore del mondo”, ma un metodo per pensarla, discuterla e condividerla, tentarla, farla evolvere assieme ad altri.
In effetti il problema millenario del potere sociale è semplice. Di volta in volta, ristretti gruppi segnati da qualche specialità sociale (anagrafica, di genere, militare, religiosa, etnica, politica, oggi economica o forse più finanziaria), pur competendo tra loro per la quota di potere effettivo, sono stati strettamente solidali nella difesa del principio strutturale per cui Pochi dominano i Molti prendendosi la gran parte dei vantaggi adattivi del vivere in forma associata. Quando si è vissuto fasi di relativa abbondanza i Pochi hanno condiviso qualche briciola, quando si sono vissute fasi restrittive i Pochi hanno semplicemente scaricato tutta la contrazione sui Molti. Ai Molti questo principio pratico primo del potere sfugge, discutono di questa o quella miglior forma di società ed immagine di mondo come fosse loro permesso di decidere di questo o di quella versione quando il problema è proprio come rispondere alla domanda fondamentale “chi decide?”. Non “cosa” decidere, questo dovrebbe venire dopo, prima si deve porre il soggetto, il “chi?” ed il modo, il “come?”.
Quella che ci sembra essere una imprescindibile transizione adattativa, ha il duplice carattere del mentale e del reale, ma per costruire il secondo va trovato e condiviso il modo politico nel primo.
Quanto al mentale, la nuova era storica ci chiede di conoscere gli interi, il “penoso elenco di severe problematiche” cui abbiamo accennato (1/2), richiede conoscenze geo-storiche, culturali, ambientali, economiche, sociali, politiche, intrecciate tra loro, a valle di una nuova definizione di umano che non sarà più l’animale che fa, ma l’animale che pensa prima di fare. C’è da sviluppare un nuovo corso della conoscenza parallelo a quello sin qui svolto, un corso integrato, sistemico-olistico, che possa dare anche nuove condizioni di possibilità al pensiero per superare i pantani forestali di intrecci teorici non più utili poiché limitati e non più corrispondenti alla realtà. Un certo ritorno “ritorno alla realtà” s’impone date le caratteristiche del passaggio storico.
Quanto al reale sociale, è evidente che le società della civiltà occidentale, quantomeno quelle che non ne sono state il centro propulsore ovvero quelle anglosassoni, non possono più esser ordinate dal fatto economico. S’impone un ordinamento politico strutturato da una teoria forte della democrazia. Le civiltà, sino ad oggi, sono stati oggetti che abbiamo considerato dopo che si erano formate e sviluppate, nessuno le ha progettate ex-post. Se, come pare necessario, ci troviamo nella necessità di modificare le nostre forme di vita associata nel profondo e nel loro intreccio multidimensionale, non possiamo non presupporre una partecipazione ampia e costante di una ben vasta massa critica di associati, è la società intera che deve auto-trasformarsi.
Il processo di adattamento ad un mondo così inedito, mutato e mutante nel profondo, oltretutto con tempi accelerati, a livello di società-civiltà, sembra ci porti a dover diluire il potere sociale a quante più sue componenti di modo che il sistema di cui facciamo parte mostri agilità e prontezza coordinata al cambiamento deciso dalla massa critica. Il cambiamento dei fondamenti impone il ritorno ai fondamentali del nostro pensiero politico, all’eterna battaglia tra il potere dei Pochi e quello dei Molti. Nel mondo dei viventi, i sistemi complessi più adattivi sono autorganizzati. La forma politica del principio di autorganizzazione è la democrazia reale. Ci manca una teoria forte della democrazia.
Questo, a mio avviso, il più urgente compito per un pensiero che abbia a traguardo l’azione trasformativa ed adattativa.

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IL SIGNORAGGIO DEL SISTEMA FINANZIARIO. UNA RIFLESSIONE, di Luigi Longo

IL SIGNORAGGIO DEL SISTEMA FINANZIARIO. UNA RIFLESSIONE

di Luigi Longo

La finanza è un’arma, la politica è sapere

quando tirare il grilletto.

don Vito Lucchesi*

Ho trovato utile lo scritto Signoraggio e green transition di Marco Della Luna, apparso sul suo sito www.marcodellaluna.info il 26/2/2023, perché stimola una riflessione sul ruolo del denaro a partire da un campo delicato ma non fondamentale come il sistema finanziario che viene utilizzato dagli agenti strategici dominanti e sub-dominanti per le loro strategie di potere e di dominio (qui il denaro è inteso come rapporto sociale la cui accumulazione e appropriazione seguono diverse strade nelle ineguali sfere costituenti la società economica, politica, culturale, sociale).

Lo scritto fa riflettere, inoltre, sulla egemonia del sistema finanziario basato sulla valuta del dollaro (USA) che viene messa in discussione dall’avanzare di altri sistemi finanziari basati sulle valute dello yuan, del rublo, della rupia (che esprimono altri modelli di sviluppo ancora da capire bene) del costruendo polo asiatico che ha dato una svolta decisiva, a seguito dell’aggressione Usa alla Russia via Nato-EU-Ucraina, alla fase multicentrica mondiale. Pepe Escobar, riportando una sintesi dell’intervista a Sergey Glazyev (ministro incaricato per l’Integrazione e la Macroeconomia dell’Unione Economica dell’Eurasia nonché noto politico ed economista russo), così scrive << In sostanza, secondo Glazyev, la Russia, pesantemente sanzionata, non assumerà un ruolo di leadership nella creazione di un nuovo sistema finanziario globale. Questo ruolo potrebbe spettare all’iniziativa di sicurezza globale della Cina. La divisione in due blocchi sembra inevitabile: la zona dollarizzata – con l’eurozona incorporata – in contrasto con la maggioranza del Sud globale che utilizzerà un nuovo sistema finanziario e una nuova valuta commerciale per gli scambi internazionali. A livello interno, le singole nazioni continueranno a fare affari nelle loro valute nazionali. >> (1). Sulla efficacia relativa delle sanzioni, nei confronti della Russia da parte degli USA-NATO, e sul non sense del considerare un indicatore economico come il PIL (Prodotto Interno Lordo) per misurare la forza di una nazione riporto una interessante osservazione di Giorgio Ardeni e Francesco Sylos Labini:<< Il Pil totale della Federazione Russa, valutato in termini reali a prezzi 2017 a parità di potere d’acquisto […] tra il 1990 e il 2021 è cresciuto di pochissimo, passando dai 3.180.000 ai 4.080.000 miliardi di dollari. Il Pil pro capite, dopo il crollo degli anni Novanta, è invece passato dai 12.358 dollari del 1998 ai 27.960 del 2021, a metà circa tra quello cinese e quello europeo, quindi. Il Pil totale di Russia e Bielorussia, però, rappresenta appena il 3,3% del Pil occidentale o dei Pca (Paesi capitalistici avanzati, mia precisazione) (Stati Uniti, Anglosfera, Europa, Giappone, Corea del Sud). Inoltre, una delle maggiori entrate per la Russia era rappresentata dall’esportazione di gas e petrolio verso l’Europa. Per questo motivo, allo scoppiare della guerra, si era convinti che la Russia, con l’imposizione delle sanzioni, sarebbe stata schiacciata economicamente. Tuttavia, il rublo ha guadagnato l’8% rispetto al dollaro e il 18% rispetto all’euro dalla vigilia dell’ingresso in guerra. L’economia russa non solo ha retto bene il peso delle sanzioni, ma è stata capace di rivolgersi verso altri Paesi per l’esportazione di materie prima e l’importazione di tecnologia (quello che era un tempo l’accordo con la Germania, energia a basso costo in cambio di tecnologia) mentre l’industria bellica, fino ad ora, è riuscita a rifornire l’esercito. Come spiegare questa dinamicità economica se il Pil è così modesto? (corsivo mio, LL).

La guerra diventa un test dell’economia politica, è il grande rivelatore: ci si chiede come questo Pil insignificante possa affrontare la guerra e continuare a produrre missili. Todd fa notare che il motivo è che il Pil è una misura fittizia della produzione (corsivo mio, LL), soprattutto per un Paese con grandi risorse di materie prime come la Russia: «Se si sottrae dal Pil americano metà delle sue spese sanitarie sovrafatturate, poi la “ricchezza prodotta” dall’attività dei suoi avvocati, dalle carceri più affollate del mondo, poi da un’intera economia di servizi scarsamente definiti tra cui la “produzione” dei suoi 15-20.000 economisti con uno stipendio medio annuo di 120 mila dollari, ci rendiamo conto che una parte importante di questo Pil è solo vapore acqueo. La guerra ci riporta all’economia reale, rende possibile capire quale sia la vera ricchezza delle nazioni, la capacità produttiva e quindi la capacità di guerra. Se torniamo alle variabili materiali, vediamo l’economia russa. Nel 2014, abbiamo messo in atto le prime importanti sanzioni contro la Russia, ma essa ha da allora aumentato la sua produzione di grano, che va da 40 a 90 milioni di tonnellate nel 2020. Mentre, grazie al neoliberismo, la produzione americana di grano, tra il 1980 e 2020, è passata da 80 a 40 milioni di tonnellate. La Russia è anche diventata il primo esportatore di centrali nucleari. Nel 2007, gli americani hanno spiegato che il loro avversario strategico era in un tale stato di decadimento nucleare che presto gli Stati Uniti avrebbero avuto una capacità di primo colpo atomico su una Russia che non avrebbe potuto rispondere. Oggi i russi sono in superiorità nucleare con i loro missili ipersonici. La Russia ha quindi un’autentica capacità di adattamento. Quando vuoi prendere in giro le economie centralizzate, sottolinei la loro rigidità, mentre quando fai l’apologia del capitalismo, ne vanti la flessibilità. Giusto. Affinché un’economia sia flessibile, prendi ovviamente il mercato dei meccanismi finanziari e monetari. Ma prima di tutto, hai bisogno di una popolazione attiva che sappia fare delle cose. Gli Stati Uniti hanno ora più del doppio della popolazione della Russia (2,2 volte nelle fasce di età degli studenti). Resta il fatto che con proporzioni da parte di coorti comparabili di giovani che fanno istruzione superiore, negli Stati Uniti, il 7% sta studiando ingegneria, mentre in Russia è il 25%. Ciò significa che con 2,2 volte meno persone che studiano, i russi formano il 30% di più ingegneri. Gli Stati Uniti colmano il buco con studenti stranieri, ma che sono principalmente indiani e ancora più cinesi. Questa risorsa di sostituzione non è sicura e già diminuisce. È il dilemma fondamentale dell’economia americana: può affrontare la concorrenza cinese solo importando forza lavoro qualificata cinese. Propongo qui il concetto di bilanciamento economico. L’economia russa, da parte sua, ha accettato le regole operative del mercato (è persino un’ossessione per Putin quella di preservarle), ma con un ruolo grandissimo dello Stato (corsivo mio, LL). E si tiene anche la sua flessibilità della formazione di ingegneri che consentono gli adattamenti, sia industriali che militari». Sulla produzione di armi Todd aggiunge:<< Una delle cose sorprendenti in questo conflitto, e questo lo rende così incerto, è che pone (come qualsiasi guerra moderna) la questione dell’equilibrio tra tecnologie avanzate e produzione di massa. Non vi è dubbio che gli Stati Uniti abbiano alcune delle tecnologie militari più avanzate, che a volte sono state decisive per i successi militari ucraini. Ma quando si entra nella durata, in una guerra di logoramento, non solo dalla parte delle risorse umane, ma anche di quelle materiali, la capacità di continuare dipende dal settore della produzione di armi più basso. E troviamo, vedendolo ritornare dalla finestra, la questione della globalizzazione e il problema fondamentale degli occidentali: abbiamo trasferito una proporzione tale delle nostre attività industriali che non sappiamo se la nostra produzione di guerra può proseguire. Il problema viene ammesso. La Cnn, il New York Times e il Pentagono si chiedono se l’America riuscirà a rilanciare le catene di produzione di questo o quel tipo di missile. Ma non sappiamo se i russi saranno in grado di seguire il ritmo di un tale conflitto. Il risultato e la soluzione della guerra dipenderanno dalla capacità dei due sistemi di produrre armamenti» >>. (2).

Dopo questa lunga e interessante considerazione, riprendo la mia riflessione. Leggere il denaro come rapporto sociale permette di capire come si configurano gli agenti strategici egemonici (sia nelle diverse sfere sociali sia nell’insieme della società) che decidono le sorti delle rispettive potenze mondiali di appartenenza, delle loro aree di influenza e dell’equilibrio/squilibrio nelle diverse fasi del sistema mondiale (monocentrica, multicentrica e policentrica).

Nelle società occidentali e orientali (non interessa in questo scritto evidenziare le loro differenze storiche), basate sul modo di produzione capitalistico, il lavoro, la natura, le risorse, le materie prime sono merci e vengono utilizzate tenendo conto di un solo parametro che è quello della razionalità strumentale (minimo costo e massimo risultato) senza curarsi delle conseguenze sociali (nelle diverse articolazioni che compongono i popoli) e naturali (nelle diverse declinazioni ambientali, paesaggistiche, ecologiche e territoriali). << Il disvelamento, ormai indispensabile, dell’ideologia che predica la predominanza della razionalità del minimo mezzo (o massimo risultato) implica la comprensione che quest’ultima è invece puramente strumentale […] ed è dunque subordinata all’azione strategica, alle sue finalità di conflitto per conseguire una supremazia. Questo conflitto è politico in qualsiasi sfera sociale (economica, politica, ideologico-culturale) si esprima (corsivo mio, LL), pur se viene svolto con modalità particolari (e con diverse “ampiezze d’orizzonte”) nelle differenti sfere >> (3).

Pertanto la transizione ecologica (la green transition), che presuppone una rivoluzione dentro il capitale in termini di produzione e riproduzione della vita e delle sue forme territoriali (dalle città alle campagne), così come viene avanzata, a prescindere dal suo reale utilizzo e coordinamento mondiale, ha come obiettivo non un modello sociale basato sul benessere individuale e sociale dentro gli equilibri della natura ma un modello che produce la distruzione economica, politica e sociale di Paesi che, non avendo la forza per uno sviluppo autodeterminato (a partire dagli interessi della maggioranza della popolazione), sono sottoposti alle scelte strategiche delle potenze mondiali che impongono (con il consenso e con la coercizione) il loro modello di sviluppo egemone, basato su tecnologie e risorse rinnovabili, non mature, credendo di affrontare così gli squilibri sociali e naturali prodotti da uno sviluppo ineguale!: è solo pura ideologia nell’accezione marxiana del termine. Si pensi, per esempio, al processo di americanizzazione del territorio europeo, campo ancora poco esplorato e studiato.

Così Marco della Luna: << E’ controverso quanto delle alterazioni climatiche in atto sia naturale e quanto di origine antropica; ma è evidente che, senza profondi e rapidi mutamenti, una catastrofe per via climatica o di esaurimento delle risorse o di inquinamento è inevitabile e imminente – salvo forse ricorrere a complottistiche azioni di depopolamento rapido.

L’Occidente e l’Unione Europea in particolare stanno imponendo misure molto costose di green transition, dalla fine dei motori termici e delle caldaie di riscaldamento ai cappotti per le case. Centinaia di miliardi solo per l’Italia. Tali misure sono ancora allo stadio della speculazione politico-ideologica, perché non ha senso che ci imponiamo onerose restrizioni mentre il resto del mondo continua come prima, facendoci concorrenza; e anche perché esse materialmente non sono realizzabili, dato che, per alimentare tutte le automobili elettriche e le pompe di calore la produzione di elettricità dovrebbe essere ventuplicata in 12 anni (80 centrali termonucleari nella sola Italia). Ma presto, se non sopravverrà prima la catastrofe, e se Cina, India etc. si lasceranno coinvolgere, sarà giocoforza fare una conversione seria e molto costosa preparata da una adeguata ricerca tecnologica, che questo mondo, indebitato per un multiplo della somma dei PIL, non può sostenere. Se la catastrofe invece sopravverrà, bisognerà poi finanziare la ripartenza, e anche questo richiederà molto denaro. >> (4).

Il denaro (5), sia inteso come processo di accumulazione del capitale (la marxiana formula di D-M…P…M’-D’) (6), sia inteso come creazione dal nulla (7) da parte dello Stato (considerato come strumento nei rapporti sociali della società storicamente e territorialmente data), viene gestito come mezzo del conflitto tra gli agenti strategici delle diverse sfere sociali (economica, finanziaria, politica, culturale, eccetera), in particolare da quelli della sfera finanziaria che va vista come parte di un blocco politico egemone teso alle strategie, alla gestione e alla esecuzione del potere e del dominio. L’espansione finanziaria (8) rappresenta sia le crisi profonde e sistemiche delle società cosiddette capitalistiche dei singoli Paesi, sia le fasi di transizione (crisi d’epoca) caratterizzate dal conflitto tra potenze per il dominio mondiale come questa che stiamo vivendo. Secondo Fernand Braudel:<< [Ogni] sviluppo capitalistico di tale portata sembra annunciare, entrando nello stadio dell’espansione finanziaria, una sorta di maturità: [è] il segnale dell’autunno >> (oggi decadenza del ciclo egemonico statunitense) (9).

Pertanto, per dirla con Domenico de Simone, << In questo sistema i valori monetari nascondono ricchezza reale che viene sottratta a chi la produce per essere distribuita in maniera ineguale nel mercato finanziario sulla base dei rapporti di forza e non di capacità produttive. Le emissioni monetarie ed i titoli del debito pubblico sono gli strumenti a mezzo dei quali viene operata questa indebita appropriazione di ricchezza.>> (10). La destrezza nell’uso degli strumenti finanziari serve alla lotta tra gli agenti strategici per la conquista della loro egemonia sia nella sfera di appartenenza (economica, finanziaria, politica, culturale, eccetera) sia nell’insieme della società (11). Vedere la sfera della finanza in maniera autonoma ed egemonica, invece di considerarla come parte del conflitto nelle strategie politiche, è fuorviante perché non fa capire il conflitto strategico tra gruppi dominanti per il potere (nelle diverse sfere sociali) e per il dominio (nell’insieme della società) sia a livello nazionale sia a livello mondiale. In questa logica il processo di de-dollarizzazione (12) in atto è la messa in discussione di un ordine mondiale coordinato dagli USA (la fine della fase monocentrica) basato sul sistema finanziario del dollaro che è l’espressione di un modello di sviluppo economico, sociale e politico, di un modo di intendere la produzione e riproduzione della vita. La ricerca di un nuovo ordine (il nuovo nomos schmittiano) (13) avanzato dalle potenze che stanno configurando il polo asiatico, presuppone la nascita di un sistema finanziario basato sulle diverse monete (negli scambi Paese-Paese e mondiali) che sarà espressione di un nuovo modello, di una nuova idea di società (tutta da capire) in un mondo multicentrico dove l’equilibrio dinamico tra le potenze sarà garantito da una condivisione basata sul rispetto, sull’autodeterminazione, sulla democrazia, sulla sovranità e sul vantaggio reciproco nelle relazioni tra i Paesi.

Sullo sfondo si giocano due diversi modi di intendere le relazioni mondiali: da una parte, gli USA, come espressione di una egemonia assoluta dell’Occidente (modello monocentrico) e dall’altra, Cina e Russia (in particolare), come espressione di una egemonia relativa dell’Oriente in cui la diversità storica, territoriale e sociale sia mezzo di confronto, di crescita e di stimolo (modello multicentrico) (14). Spero che si affermi il modello multicentrico!

Marco Della Luna però non aiuta a capire come si configurano gli agenti strategici egemoni che sono dati dal conflitto in tutte le diverse sfere della società, che possono avere pesi specifici diversi (il marxiano fascio di luce che illumina) nelle differenti fasi della storia nazionale e mondiale, quando sostiene che :<< […] tutto il denaro, tranne quello metallico, viene creato (dalle banche centrali e da quelle ordinarie) senza una copertura aurea (o di altro genere), ossia dal nulla e a costo pressoché nullo, e prestato (agli stati e ai soggetti privati) contro interesse. Il denaro legale è costituito dalle banconote delle banche centrali. Il restante denaro è denaro contabile o scritturale, generato in piccola parte dalle banche centrali, e per il 90% circa dalle altre dalle banche, mediante semplice scritturazione contabile (ripeto: senza copertura in oro o altro valore). La Banca d’Italia, nei suoi bollettini, attesta che le banche italiane creano così ogni anno mediamente 1.000 miliardi di euro – che vanno a debito dei prestatari. La moneta contabile o scritturale non preesiste al prestarla, non viene prelevata da una riserva o altra voce di bilancio, bensì (per quanto suoni lontano dal pensiero comune) viene creata con l’atto di prestarla, digited into existence and lent into circulation. Orbene, mentre le leggi prevedono e regolano la creazione e immissione della moneta legale (banconote), niente dicono della moneta contabile o scritturale, la quale, giuridicamente, sia che si concreti come saldo attivo di conto corrente, che come importo di un assegno circolare o altro, costituisce una promessa di pagamento/ricognizione di debito di moneta legale (banconote) da parte della banca emittente verso il titolare del conto corrente o il legittimo portatore dell’assegno. Solo che l’aggregato di tale moneta è circa il decuplo dell’aggregato della moneta legale esistente, la quale per giunta è quasi interamente detenuta dai cittadini – sicché i depositi bancari e gli assegni circolari sono scoperti al 998 per mille circa – ma non è questo il problema, almeno finché non parte un bank rush, ossia una corsa al ritiro dei depositi! Il problema centrale è che la potestà di creazione ed emissione della moneta contabile-scritturale, che è il sangue dell’economia, non è prevista né disciplinata dalle leggi, anche se le leggi bancarie (ad es. TUB art. 10) non autorizzano le banche a creare moneta, ma solo a intermediarla – quindi, in realtà, questa potestà è negata, esclusa dalla legge (con la conseguenza giuridica che tutta l’attività di creazione monetaria in questione è illecita, quindi sono illeciti i contratti di mutuo, etc. etc.). Essa è però detenuta ed esercitata di fatto (e non di diritto), sotto le mentite spoglie di “esercizio del credito”, in regime di cartello, dai titolari di licenza bancaria, ossia dalla comunità bancaria, creando ed emettendo questa moneta contabile, che non può essere la moneta legale “Euro”, col nome abusivo di “Euro”. E’ esercitata privatamente, senza rendere conto all’interesse generale delle sperequazioni, dei danni, degli abusi, stante che le banche centrali, che dovrebbero sorvegliare sull’esercizio del credito, sono controllate dagli stessi titolari delle licenze bancarie, i quali hanno un potere condizionante sulla politica, data anche la loro capacità di dare il rating al debito pubblico.>>.

La domanda che si pone, a questo punto, è: chi detiene il potere della creazione del denaro dal nulla e quale ruolo assume questo capitale finanziario sia nella messa a valore dei differenti sistemi di sviluppo territoriali nazionali sia nell’allargamento delle aree di influenza delle nazioni-potenze? (15).

La ricchezza come mezzo di potere degli agenti strategici per il dominio nella società è illimitata (già Aristotele parlava della crematistica come produzione della ricchezza senza limiti) (16) e non è condizionata, se interpreto correttamente Marco Della Luna, dal fatto che:<< il sistema monetario moderno è compatibile solo con un’economia in continua espansione, perché si basa sulla moneta indebitante: il money supply è generato mediante prestiti (allo stato, ai privati) gravati di interessi composti, che, matematicamente, nel tempo, aumentando il capitale dovuto, ossia la base per gli interessi che via via maturano, richiedono che il sistema crei nuova moneta, sempre a debito, per pagare gli interessi e rimborsare eventualmente il capitale. La moneta emessa a debito crea dunque, macroeconomicamente, una necessità di continua crescita del fatturato come condizione per evitare il default >>, perché il limite infinito del processo di accumulazione del capitale è una conditio sine qua non della sua esistenza come modello di produzione e riproduzione della società storicamente e territorialmente data (17). David Harvey sostiene che << Il capitale […] crea un paesaggio fisico e relazioni spaziali adeguati ai suoi bisogni e ai suoi scopi (sia nella produzione che nel consumo) in un certo punto del tempo, solo per scoprire che ciò che ha creato diventa antagonista ai suoi bisogni in un punto futuro nel tempo. Fa parte della dinamica dell’accumulazione capitalistica la necessità di “costruire interi paesaggi e relazioni spaziali solo per farli a pezzi e ricostruire di nuovo in futuro” […] I regimi di valore regionali possono essere annidati a scale diverse. Sono identificabili negli Stati. […] I regimi di valore regionali sono configurazioni instabili e fluttuanti di influenza e di potere che esistono e hanno manifestazioni potenti anche se non hanno una definizione materiale chiara. Abbiamo iniziato questa esplorazione dello spazio e del tempo entro cui le leggi del moto del valore si impongono, con l’affermazione, più che plausibile, che è nella natura del capitale stesso conquistare e costruire il mercato mondiale. Ora, dopo aver percorso il terreno contraddittorio su cui queste leggi devono operare, vediamo che è nella natura del capitale anche frantumare l’uniformità, l’omogeneità e la razionalità sovrasensibile del mercato mondiale, in così tanti frammenti potenzialmente pericolosi e incompatibili di eterogeneità, differenza e sviluppo geografico disuguale, indipendentemente da tutti gli errori irrazionali umani che macchiano di sangue e fango la storia collettiva dell’umanità. Che tutto questo si trasformi in lotte geopolitiche fra blocchi di potenze sulla scena mondiale è questione di grande rilievo. La storia geopolitica del capitalismo è stata una faccenda piuttosto sgradevole (e continua a esserlo minacciosamente). Considerazioni che derivano dalla creazione di regimi di valore distinti nello spazio e nel tempo hanno un ruolo delicato in quella geografia storica.>> (18).

Il problema che si pone, in conclusione di questa riflessione, a partire dal sistema di signoraggio finanziario, è quello di capire qual è il ruolo che gli agenti strategici svolgono, sia attraverso il processo di accumulazione del capitale sia attraverso la creazione dal nulla della moneta, nel determinare il sistema di sviluppo territoriale sia a livello delle nazioni sia a livello mondiale (con relative aggregazioni territoriali: grandi aree, macroregioni, altro). La sovranità e l’autodeterminazione dei sistemi territoriali non va inquadrata nella logica economicistica ma nella logica dell’insieme delle sfere che compongono la società cosiddetta capitalistica. La comprensione di quanto fin qui sostenuto se fosse agito dai nuovi soggetti sessuati (19) che hanno consapevolezza dell’interezza della vita vissuta (che dà un senso alla esistenza) porterebbe alla trasformazione della realtà sociale storicamente e territorialmente data con la costruzione di un nuovo ordine sociale (20).

Intanto la fase multicentrica è decisamente avviata e le potenze mondiali in ascesa (il costituendo polo asiatico allargato) (21) sono decisamente determinate a mettere in discussione quello che Marco Della Luna definisce << […] il signoraggio monetario, come strumento di dominio globale, sia in via di affiancamento col signoraggio biologico, iniziato con le sementi ogm terminator, con le quali multinazionali come Monsanto mettono gli agricoltori in condizione di dipendenza rigida da esse per la fornitura sia dei semi che della chimica, senza di cui non possono produrre. Iniziato così anni or sono, oggi continua con farmaci modificanti il DNA e l’RNA dell’uomo, e con cose come la carne sintetica. Credo che stiamo passando da un sistema finanziario basato sulla moneta indebitante e che si regge sull’espansione consumistica di beni e servizi ad alto impatto ambientale (come l’automobile), quindi insostenibile, a uno sempre basato sulla moneta indebitante e sull’espansione consumistica, ma di beni e servizi medico-farmaceutici, a basso impatto ambientale, quindi eco-sostenibile. La popolazione, sempre più immuno-depressa e malata (o che si percepisce malata), spenderà il reddito disponibile per curarsi (con farmaci più o meno efficaci e tossici). Questo sistema agevolerà anche la soluzione del problema ecologico per via demografica, incidendo sulla fertilità e sulla durata media della vita, che già si sono ridotte. […] esiste anche, ed è importantissimo per gli equilibri geopolitici, il signoraggio monetario internazionale, attuato dagli USA dal ’44 in poi, e soprattutto dal 1971, ossia da quando Nixon liberò il Dollaro dalla convertibilità aurea, così da permettere a Washington di comperare da tutto il mondo a costo zero, semplicemente stampando carta (o digitando numeri) e imponendo la sua accettazione e il suo uso come moneta obbligatoria di riserva e per i pagamenti internazionali, soprattutto delle materie prime. Imposizione attuata mandando ora la CIA, ora le forze armate, in giro per il mondo a eliminare i governi (Indonesia, Cile, Iraq, Libia…) che, tentando di usare altre valute, minacciavano questo dominio del Dollaro, dal quale dipende anche la capacità degli USA di operare globalmente come estrattore (predatore) ‘imperiale’ di ricchezze prodotte da altri e di mantenere il loro enorme apparato militare e alti livelli di consumismo interno anche dopo il trasferimento all’estero di gran parte della loro capacità produttiva.

Da tempo si parla di crisi di questo signoraggio internazionale del Dollaro, di un processo in corso di de-dollarizzazione globale – processo che è il fulcro della proxy war in Ucraina >>.

*L’epigrafe è tratta dal film di Francis Ford Coppola, Il Padrino. Trilogia dei Corleone, parte terza, 1990.

NOTE

1. Pepe Escobar, Sergey Glazyev: “la strada verso il multipolarismo finanziario sarà lunga e irta di ostacoli”, www.comedonchisciotte.com, del 15/3/2023. Per un approfondimento su questi temi si rimanda a Pepe Escobar, Lo zar russo della geoeconomia Sergey Glazyev introduce il nuovo sistema finanziario globale, www.comedonchisciotte.com, del 22/4/2022 e a Sergev Glazvev, L’ultima guerra mondiale, Knizhny Mir, Mosca, 2016, (traduzione russo-inglese).

2. Pier Giorgio Ardeni-Francesco Sylos Labini, Mondo senza pace la responsabilità delle grandi potenze e la necessita di un nuovo equilibrio-economico, www.left.it, 30/3/2023, pp.7-9; si veda anche Patricia Adams e Lawrence Solomon, L’ascesa della Russia, www.maurizioblondet.it, 17/4/2023.

3. Gianfranco La Grassa, Finanza e poteri, Manifestolibri, Roma, 2008, pag.19; per una maggiore comprensione della differenza tra razionalità strumentale e razionalità strategica si legga tutta la parte Per una nuova indipendenza, pp.25-102.

4. Su questi temi intrecciati con la guerra scatenata dagli Usa (via Nato-Europa-Ucraina) contro la Russia si veda anche F.William Engdahl, L’agenda verde a zero emissioni di carbonio è impossibile sotto tutti i punti di vista, www.comedonchisciotte.org, 13/4/2023; Stefano Fantacone-Demostenes Floros, Crisi o transizione energetica? Come il conflitto in Ucraina cambia la strategia europea per la sostenibilità, Diarkos, Santarcangelo di Romagna (RN), 2022; Valeria Poletti, Il costo sociale della guerra, www.ariannaeditrice.it, 9/5/2023.

5. Sul termine denaro per distinguerlo da quello di moneta si rinvia a Carlo Boffito, Teoria della moneta, Einaudi, Torino, Parte terza, 1973; Suzanne De Brunhoff, La moneta in Marx, Editori Riuniti, Roma, 1973; Andrea Fumagalli, Suzanne De Brunhoff, Karl Marx e il dibattito sulla moneta, www.sinistrainrete.info, 19/4/2023. Così Alfred Sohn-Rethel:<< E’ il denaro e proprio il denaro nella sua forma monetaria, prodotta per la prima volta nel 680 a.C. nella Ionia, il termine di mediazione che stabilisce il nesso tra la realtà sociale e l’identità concettuale delle stesse astrazioni formali. Infatti l’astrattezza dello scambio delle merci si manifesta solo nel denaro coniato. Finché il denaro si presenta ancora nella sua rozza forma metallica come oro, o argento o rame ecc. e deve essere diviso, pesato, esaminato nel suo titolo in ogni traffico, viene trattato ancora nella sua forma naturale in modo non diverso dagli altri oggetti d’uso. Solo quando un’autorità monetaria assume in suo potere questi atti fisici garantendoli in maniera credibile, è possibile stampare sui pezzi di metallo che essi servono solo per lo scambio, ponendoli in contrasto esplicito con gli oggetti d’uso […] >>, in Alfred Sohn-Rethel, Il denaro, l’apriori in contanti, Editori Riuniti, Roma, 1991, pag. 9 e oltre pp. XI-55.

6. Karl Marx, Il Capitale. Critica dell’economia politica, Einaudi, Torino, 1975 [si rimanda alle parti che riguardano a) la teoria del valore del denaro (Libro primo); b) il finanziamento della produzione capitalistica (Libro secondo); c) le strutture del credito (Libro terzo).

7. Sulla creazione della moneta dal nulla in regime di monopolio si vedano gli scritti di Fabio Bonciani pubblicati sul sito www.comwdonchisciotte.org, a mò di esempio segnalo Fabio Bonciani, Cenerentola, Biancaneve e i bilanci in rosso delle banche centrali! www.comedonchisciotte.org, 4/4/2023.

8. Sulle fasi storiche dell’espansione finanziaria si rimanda a Giovanni Arrighi, Beverly J. Silver, Caos e governo del mondo. Come cambiano le egemonie e gli equilibri planetari, Bruno Mondadori, Milano, 2003.

9. Citato in Giovanni Arrighi, Capitalismo e (dis)ordine mondiale, a cura di Giorgio Cesarale e Mario Pianta, Manifestolibri, Roma, 2010, pag.146.

10. Domenico de Simone, Un milione al mese a tutti: subito! Edizioni Malatempora, Roma, 1999, pag. 30; Domenico de Simone Per un’economia dal volto umano, Edizioni Malatempora, Roma, 2002; Domenico de Simone, Un’altra moneta, Edizioni Malatempora, Roma, 2003.

11. Si vedano: le tre storie emblematiche sulla finanza e sulle frodi mercantili raccontate da Carlo Maria Cipolla, Tre storie extra vaganti, il Mulino, Bologna, 1994; il gioco sui titoli di Stato da parte della potente famiglia dei Rothschild per le loro strategie di arricchimento e di potere in Giovanni Fasanella e Antonella Grippo, Italia oscura, Sperling&Kupfer, 2016, pp.233-258; il conflitto degli agenti strategici tramite le banche raccontato da Lodovico Festa, Guerra per banche. L’Italia contesa tra economia, politica, giornali e magistratura, Boroli Editore, Milano, 2006.

12. Sul processo di de-dollarizzazione si veda Manlio Dinucci, Si allarga la ribellione all’impero del dollaro, www.voltairenet.org, 24/4/2023; Domenico Moro, Le conseguenze di breve e lungo periodo della guerra, www.comedonchisciotte.org, 27/4/2023; Pepe Escobar, La de-dollarizzazione ingrana la quarta, www.maurizioblondet.it, 29/4/2023. Sugli aspetti finanziari all’interno della ciclicità della storia si legga Federico Dezzani, Geopolitica, credito, mercati e cicli, www.federicodezzani.altervista.org, 4/4/2023; Qiao Liang, L’arco dell’impero. Con la Cina e gli Stati Uniti alle estremità, a cura del Generale Fabio Mini, Leg edizioni, 2021, soprattutto pp. 116-173.

13.Carl Schmitt, Il nomos della terra, Adelphi Edizioni, Milano, 2003; Carl Schmitt, Terra e mare, Adelphi Edizioni, Milano, 2006; Luigi Garofalo, Intrecci schmittiani, il Mulino, Bologna, 2020.

14. Radhika Desai e Michael Hudson, La Russia abbandona l’occidente neoliberale per unirsi alla maggioranza mondiale, www.italiaeilmondo.com, 19/4/2023.

15.Su questi temi si rimanda per approfondimenti a Qiao Liang, L’arco dell’impero, op. cit., pp.175-200; Giovanni Arrighi Caos e governo, op.cit., pp. 43-112; Pietro Ratto, I Rothschild e gli altri. Dal governo del mondo all’indebitamento delle nazioni: i segreti delle famiglie più potenti, Arianna Editrice, Bologna, 2015.

16.Sulla crematistica si legga Aristotele, La politica, Editori Laterza, Bari, 1966; sul concetto del limite interpretato come l’insieme della società nelle diverse fasi della storia umana si veda Remo Bodei, Limite, il Mulino, Bologna, 2016. Su questi temi si rimanda, inoltre, a Costanzo Preve-Luca Grecchi, Marx e gli antichi Greci, Petite Plaisance editrice, Pistoia, 2005.

17. Si veda Karl Marx, Il Capitale. Critica dell’economia politica, Einaudi, Torino, 1975, Libro terzo, terza sezione, pp.299-373.

18.David Harvey, Marx e la follia del capitale, Feltrinelli, Milano, 2018, pp. 135-136 e pag. 172.

19.Ricordo, con Costanzo Preve, che le grandi masse popolari non possono vivere a lungo senza più nessuna chiave interpretativa della riproduzione sociale (produzione e riproduzione dell’intera vita individuale e sociale), pena la caduta in sindromi di demenza generalizzata in Costanzo Preve, La demenza generalizzata del popolo italiano. Un enigma storico da decifrare, www.ariannaeditrice.it, 27/12/2011; si veda anche Costanzo Preve, Elogio del comunitarismo, Controcorrente edizioni, Napoli, 2006.

20.Maria Zambrano, La confessione come genere letterario, Bruno Mondadori, Milano, 1997; John Berger, Paesaggi, il Saggiatore, Milano, 2019.

21.Sul ruolo che potrebbe avere l’India (altra potenza in ascesa) nel polo asiatico si veda Andrew Korybko, Foreign affairs ha pubblicato un’analisi straordinariamente perspicace sulle relazioni tra India e Stati Uniti, www.italiaeilmondo.com, 9/5/2023.

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UNA CIVILTA’ IN CRISI (1/2)_di Pierluigi Fagan

UNA CIVILTA’ IN CRISI (1/2). Chiariamo prima il punto di vista del nostro discorso. Il nostro punto di vista è storico, osserviamo l’oggetto civiltà, quella occidentale nello specifico, dal punto di vista del corso storico. L’argomento è vasto e complesso e soffrirà delle riduzione ad un post.
Questa civiltà che si fa nascere coi Greci duemilasettecento anni fa, è stata per più dell’ottanta-per-cento del suo tempo, un sistema per lo più locale ed interno. Per il resto, dal XVI secolo in poi, nel periodo che chiamiamo moderno, il sistema ha avuto un big bang inflattivo che si è esteso a livello planetario, non già cooptando al suo interno spazio, popoli e natura, ma sottomettendoli o sfruttandoli. Va precisato che a noi qui non interessa proferire alcun giudizio morale, ci interessa solo l’analisi funzionale. In questi cinque secoli, la civiltà occidentale si è sovralimentata potendo alimentare il suo piccolo interno con un relativo dominio su un molto più grande esterno, ha potuto contare cioè su vaste e ricche condizioni di possibilità.
All’interno di questo frame temporale detto moderno, di cinque secoli, la civiltà occidentale è cambiata nel profondo. A livello di composizione, ha visto una migrazione interna del suo punto centrale che dal Mediterraneo greco e poi romano, è passato prima alla costa europea nordoccidentale, poi ha saltato la Manica ambientandosi in Inghilterra (poi Gran Bretagna, poi Regno Unito), poi ha saltato l’Atlantico ambientandosi nel Nord America. Si potrebbe anche dire che provenendo da una zona che per sua natura geografica è iperconnessa (Europa, Asia, Medio Oriente, Nord Africa), si sia progressivamente isolata prima continentalmente, poi insularmente, poi finendo addirittura in una terra al riparo di due vasti oceani. L’isolamento geografico è però valso la facoltà di dominare lo spazio circostante senza rischiare troppo una controreazione come si è sempre verificato nelle dinamiche espansive degli imperi-civiltà terrestri.
A livello di bilancio energetico (qui in senso termodinamico in senso allargato), una regione del mondo ha progressivamente dominato gran parte del mondo, ha enormemente dilatato il suo spazio vitale.
Tali condizioni hanno permesso alla originaria parte europea della civiltà, di frazionarsi in piccoli stati. Europa ha una media di territorio/popolazione per Stato molto al di sotto della media mondiale. In Europa c’è un numero di stati all’incirca pari a quelli dell’intera Asia o Africa stante che il suo spazio è quattro o tre volte più piccolo. Per altro, tale comparazione non è neanche del tutto corretta poiché sono stati proprio gli imperi europei a frazionare per propri interessi imperial-coloniali sia lo spazio asiatico che africano che chissà quali altre dinamiche avrebbero avuto se lasciati liberi di esplorare il proprio spazio di possibilità. Questa strana partizione localista europea ha dato segni di evidente squilibrio sistemico per ben due volte nel secolo scorso, accelerando il processo di migrazione del centro di civiltà nell’isola britannica e poi nell’isola continentale nordamericana.
Questi “Stati” ognuno con un suo popolo detto “nazione”, si sono sempre più ordinati con un sistema doppio di tipo economico-politico. Sul piano economico, gli occidentali hanno elaborato un sistema sovralimentato per materie ed energie per lo più prese dall’esterno. A tale sovralimentazione materiale, hanno affiancato altre due sovralimentazioni immateriali. La prima fatta da denaro creato dal nulla che anticipa il valore che poi si pretende venga restituito (estinguendo il debito dell’anticipazione) rilasciando una eccedenza detta profitto. Tale profitto si è accumulato o reinvestito per alimentare nuovi cicli. La seconda fatta dall’enorme sviluppo di conoscenze, saperi e pratiche tecniche e scientifiche. Materie, energie, denaro e conoscenze sono finite dentro una macchina produttiva-trasformativa. Questa macchina, attraverso il lavoro umano, è diventata il cuore ordinativo di queste società, ogni produttore è anche consumatore. Dalla macchina sono usciti due flussi, uno dei prodotti o servizi venduti al mercato per ottenere la restituzione del capitale iniziale più il profitto, l’altro di rifiuti o di lavorazione o di consumo.
Sul piano politico, l’ordinamento è stato creare un sistema originale nelle forme ma non poi così tanto nella sostanza che abbiamo chiamato, impropriamente, democrazia o in vena di sprezzo per la logica linguistica (ossimori): democrazia di mercato. La sostanza è quella solita di ogni civiltà da cinquemila anni ovvero il fatto che una parte minore (Pochi), domina e governa con alterne fortune una parte maggiore (i Molti). L’originalità, che più che democratica va detta repubblicana, è stata che i Molti hanno avuto (per altro solo da qualche decennio di questi cinque secoli), la facoltà di esprimere una qualche gradimento o meno per il tipo di interpreti del formato che non è stato mai messo in discussione.
La “crisi” nella quale è entrata la civiltà occidentale, è data dalla più o meno improvvisa restrizione di tutte queste condizioni di possibilità contemporaneamente. Per questo la si chiama “crisi sistemica”. In un sistema, lo stato di crisi comunque generato è sempre la crisi di tutte le sue parti e relative interrelazioni.
L’assetto per il quale questo sistema minore di occidentali ha potuto dominare un ben più ampio spazio per sovralimentarsi, oggi non si dà più e sempre meno si darà nell’immediato futuro. C’è una logica storico-demo-fisico-culturale sotto questa nuova impossibilità, non è argomento oggetto di volontarismo o discussione, è un fatto ineliminabile. Restringendosi sempre più lo spazio delle possibilità esterno, si va screpolando la tenuta interna del sistema.
Nei fatti, il centro americano-anglosassone ha una sua logica e dinamica tendenzialmente divergente dallo spazio europeo. A sua volta, questa Europa che ha una precaria ontologia geografica e geostorica, risulta un sistema debolissimo, anziano, iperfrazionato, viziato con una strana convinzione post-storica che ha pensato che il nuovo ordine fosse appaltabile ad una pura dinamica (mercato) in luogo di una statica (stato poi più o meno dinamico). Una sorta di ontologia dei flussi tutta forma e niente sostanza. Quella antica sindrome del pensiero occidentale per la quale queste genti pensano che poiché una cosa può esser pensata questo la rende esistente (nota come sindrome dei Cento talleri) e funzionante nel concreto.
La parte economica del suo ordinamento ha perso l’esclusività essendosi oggi replicata in tutto il mondo. Inoltre, a differenza di questo “resto del mondo”, l’Occidente ha già prodotto tutto ciò che gli serviva e da tempo continua a produrre cose che non servono più a niente se non a tenere in stentata vita il sistema. Infine, l’Occidente continua ad avere molti bisogni che però non evade perché non sono trasformabili in merci e prestazioni.
Ma in più, qui si verifica che il grande big bang iniziato a metà XIX secolo come cascate di invenzioni generative (vapore, meccanica, fisica, chimica, sanitaria, elettronica), nella seconda metà del Novecento ha prodotto solo il campo ICT che oggi si prova a declinare anche nel bio. Tant’è che s’è data per persa la produzione materiale rifugiandosi in uno stanco sogno immateriale di tipo finanziario che ha fatto perdere al cuore della macchina produttiva la sua funzione ordinativa sociale (lavoro, redditi). Alcuni pensano ciò stato un errore anche perché la nozione di errore comporta la reversibilità. Purtroppo, non c’è alcuna reversibilità, si poteva e doveva gestire il problema diversamente (globalizzazione scellerata), non c’è dubbio, ma il fondo della dinamica di perdita dell’impeto produttivo tradizionale era ed è irreversibile.
Sebbene gli stessi occidentali si ritengano “materialisti” forse non è a tutti chiaro quanto “vale” l’ICT o il NBIC (nano-bio-info-cognitivo) rispetto al tradizionale produttivo propriamente materiale.
La parte politica è diventata il sottosistema che ha concentrato in sé tutte queste dinamiche restrittive tentando di assorbirle senza gestirle. Ne è conseguito il disfacimento della forma presuntamente democratica in favore di un repubblicanesimo privatizzato ovvero la perdita di ogni nozione propria di res pubblica.
La breve analisi ci porta in dote questo penoso elenco di severe problematiche: a) rapporti tra Occidente e Mondo; b) rapporti interni ad Occidente (sfera anglosassone e continentale); c) inconsistenza degli Stati-nazione europei e della forma sistemica che gli europei hanno pensato di darsi in questi ultimi sessanta anni; d) fine ciclo storico di vita dell’economia moderna per il solo Occidente; e) tragedia delle forme politiche interne gli stati occidentali.
Tutte le problematiche convergono infine nella società in cui e di cui tutti viviamo. (1/2)

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Gli intellettuali e FB, di Vincenzo Costa

Gli intellettuali e FB
Un caro amico, ma di quelli proprio cari che si conoscono da almeno trent’anni, dice di non accettare dibattiti su FB, che i luoghi del dibattito sono altri: libri, articoli, etc. Premesso che la libertà di ognuno è insindacabile e che l’amicizia viene prima di ogni giudizio politico, resta che questa tesi è – secondo me- aristocratico-reazionaria, per diverse ragioni che investono la nozione stessa di cultura nel mondo della vita mediatizzato:
1) la filosofia europea inizia nelle piazze, che corrispondono a quella piazza virtuale che è oggi FB e gli altri social. Socrate poteva anche non andarci.
2) i social hanno mille limiti e altrettanti pericoli, ma sono ormai l’ambiente entro cui si muovono i flussi culturali.
3) quel criterio esclude dalla circolazione del senso tutti, lo limita a quattro gatti. Alla fine per partecipare al dibattito bisigna aver letto per anni la Logica di Hegel e tutto Adorno in tedesco.
4) i social sono un potente correttivo all’intellettualismo, come lo sono le lezioni per gli studenti. Mentre tra studiosi si fa in fretta a perdersi dietro a intenzionalità, contraddizione dialettica etc. nei social e a lezione non puoi bleffare: devi essere chiaro, per cui rappresentano un luogo di pulizia concettuale.
5) la circolazione delle idee e la riflessività sono cambiata nelle società contemporanee, avvengono per “diffusione” (qui sono oscuro, vero, ma credo si capisca): i concetti si diffondono come un’epidemia, attraverso criteri di rilevanza dettati dalle urgenze del presente.
6) ovviamente i social non sono un luogo privilegiato. Senza libri, articoli, luoghi deputati a discussioni più a grana fine saremmo più poveri, ma i social sono sorgente genuina di nuove idee, permettono lo scambio e la circolazione del senso tra mondo della vita e sistema culturale, e senza di essi questa circolazione si interrompe e il sistema culturale diventa autoreferenziale e inutile.
7) quell’idea è difensiva: ha paura dell’esposizione, di rischiarsi nel fuoco della piazza. Alla fine crea una nicchia di significato, in cui si riconosco gli adepti, e così concetti tutt’altro che definiti e che forse sono scemenze senza capo né coda diventano categorie interpretative della realtà.
8 ) c’è molta molta spocchia in quella posizione, della serie: non discuto con voi merdacce, se volete leggete i miei libri. Ecco, questo proprio no, questo è- per come intendo io la cultura e la sua funzione- inaccettabile.
9) alla base c’è forse l’aristocratismo Francofortese, la sua incapacità di comprendere la nozione di cultura popolare, ma questo richiederebbe davvero se non un libro almeno una serie articolati di post.
10) la verità è che FB è faticoso, se si cerca di usarlo come luogo di circolazione del senso, e certo ognuno di noi è già gravato da tante cose. E tuttavia, dato il sistema mediatico esistente, rappresenta l’unico spazio di intersoggettivita’ discorsiva, l’unico luogo di incontro e di scambio di idee. Poi chiaro che ci sono momenti in cui diviene necessario prendersi delle pause, ma questo deriva solo dai limiti di tempo e di energia.

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Africa, prima la politica_di Bernard Lugan

In Africa, a sud del Sahara, la costruzione degli Stati precoloniali era basata sull’etnicità.
Quando hanno portato a gruppi multietnici, in genere non hanno avuto successo.
Di fatto senza futuro. I controesempi sono rari: l’entità dei Toucouleur e alcuni imperi musulmani nati dalla jihad, esempi che hanno avuto successo.
Imperi musulmani nati dalla jihad, che sono stati in effetti dei parziali “agglomeratori” o “coagulatori” etnici.
Oggi, a sud del Sahara, con le tre eccezioni di Botswana, Lesotho ed Eswatini (ex Swaziland), tutti e tre monoetnici e dove quindi c’è confusione o osmosi tra etnia, nazione e Stato, non esiste un unico gruppo etnico, nazione e Stato, non c’è stata coagulazione etnica da nessuna parte.
L’Etiopia fa eccezione per la sua profondità storica, ma il divario etnico è così profondo che non è stata egualmente in grado di raggiungere lo stesso livello di coesione.
Le divisioni etniche sono così profonde da minacciare permanentemente la sua coesione, come ha appena dimostrato l’ultima guerra in Tigray.
Gli attuali sviluppi politici, che avvengono attraverso un rifiuto sempre più marcato del “modello democratico occidentale”, dimostrano che il futuro è in un sistema in cui la rappresentanza dei gruppi piuttosto che degli individui. Si tratterebbe di una vera e propria rivoluzione culturale perché, in ultima analisi, sono i fondamenti filosofici delle società democratiche “occidentali” a essere messi in discussione.
Ma la sopravvivenza dell’Africa sud-sahariana dipende da questo, e non può più essere messa in discussione. La posta in gioco è la sopravvivenza dell’Africa sud-sahariana, che non può più continuare a determinarsi secondo questi imperativi morali stranieri che la stanno lentamente uccidendo?

IL QUADRUPLICE PROBLEMA POLITICO
DELL’AFRICA

Nel 1968, Georges Balandier scriveva che: “(…) i nuovi Stati africani [hanno] il compito di realizzare rapidamente e allo stesso tempo (rivoluzioni) che la storia aveva scaglionato nel tempo [devono] reintegrarsi in una società che si è organizzata al di fuori di loro […]”. Questa osservazione evidenzia chiaramente i problemi politici che l’Africa indipendente dovette affrontare.

I quattro problemi principali che l’Africa deve affrontare sono:
1) La questione della trasposizione delle istituzioni politiche occidentali che ha causato il caos in Africa.
La ragione di ciò è che in Africa, dove l’autorità non è condivisa, l’autorità non è condivisa; si è proceduto senza alcuna preventiva creazione di contro-poteri con la conseguenza che la modalità di rappresentanza e di associazione al governo dei popoli minoritari li ha condannati dalla matematica elettorale ad essere esclusi dal potere per l’eternità.
2) L’idea di Nazione non è la stessa in Europa e in Africa perché, in un caso, l’ordine sociale si basa sugli individui e nell’altro sui gruppi. Tuttavia, il principio “un uomo, un voto”,
vieta di prendere in considerazione l’unica realtà politica africana, che è la comunità.
3) Gli Stati sono gusci giuridici vuoti che non coincidono con le patrie carnali che sono alla base delle vere radici umane.
4) I confini tracciati dalla colonizzazione sono sconosciuti e spesso incomprensibili. a livello locale. È importante rendersi conto che nell’Africa antica, i territori dei popoli
e che non si usciva dalla propria casa per entrare subito nella casa del vicino.
Tra i nuclei nucleari territoriali esistevano vere e proprie “zone cuscinetto”, che a volte si spostavano, appartenenti a nessuno dei due. In alcuni casi, questi spazi potevano essere attraversati da entrambe le parti da una parte o dall’altra. Altrove, erano il dominio degli spiriti in cui ci si poteva avventurare solo sacrificando a loro.
Le frontiere hanno anche distrutto, in modo irrimediabile, l’equilibrio interno delle grandi aree di allevamento dove la millenaria transumanza è stata interrotta dalla suddivisione degli spazi.
I confini hanno anche fatto sì che le persone siano state tagliate fuori da queste linee di demarcazione artificiali. Altrove, la colonizzazione ha altrettanto artificialmente riunito un mondo che era stato frammentato in numerose entità etniche, tribali o di altro tipo, addirittura di villaggio, al fine di renderle amministrativamente coerenti, ma che non avevano alcuna vocazione a diventare Stati.
Gli ex colonizzatori erano ben consapevoli di questi quattro
problemi nell’Africa sud-sahariana. Ecco perché, per tre decenni, dal 1960 al 1990, la priorità è stata costruire o rafforzare gli Stati. Poiché bisognava bruciare le tappe, gli Stati africani che erano emersi dalle divisioni coloniali hanno preso la “scorciatoia autoritaria”.
Per questo motivo, di norma, il partito unico si identificava con lo Stato che doveva essere essere creato. I particolarismi etnici erano allora combattuti e persino negati come potenziali fattori di divisione e indebolimento dell’edificio statale emergente.
Questa realtà ha dominato per tutto il periodo della “guerra fredda”, che per l’Africa corrispondeva al periodo della sua indipendenza.
Durante questa sequenza di confronto ideologico, la priorità per entrambi i blocchi è stata quella di mantenere le loro posizioni in Africa e quindi lo status quo politico era ricercato attraverso regimi forti su cui entrambe le parti potevano contare.
Poi, negli anni Novanta, dopo la scomparsa del blocco sovietico e di fronte ai fallimenti dell’Africa in campo politico, economico e sociale, la questione del potere è stata sollevata.
Nel 1990, in occasione della Conferenza franco-africana di La Baule, il presidente François Mitterrand affermò che l’Africa indipendente era fallita per mancanza di democrazia, e condizionò l’aiuto francese all’introduzione di un sistema multipartitico.
Il continente è stato quindi sottoposto a un vero e proprio “diktat democratico” che ha portato alla caduta del sistema o alla sua ridefinizione e, di conseguenza, all’indebolimento degli Stati che erano stati costruiti con tanta fatica.
Il risultato è stato che in tutta l’Africa francofona il crollo del sistema monopartitico ha portato a una cascata di crisi e guerre, con il multipartitismo che ha aggravato la situazione. Il sistema multipartitico ha esacerbato l’etnismo e il tribalismo che erano stati contenuti e incanalati dal partito unico.
partito. Il risultato è stato il trionfo dell’etnomatematica elettorale, con la vittoria delle etnie più numerose sulle meno numerose.
Il principale problema politico che l’Africa sud-sahariana deve affrontare è in definitiva chiaro. A non lasciare che le forze motrici della storia africana, non riuscendo a ritrovare il dinamismo perso con la colonizzazione.
Si tratta di trovare un modo istituzionale per permettere la convivenza etnica in modo che i popoli più numerosi non siano automaticamente i detentori di un potere matematico scaturito dalle urne.
La soluzione potrebbe quindi essere cercata in un sistema in cui la rappresentanza vada ai gruppi e non più ai singoli. Ma perché ciò avvenga, sarebbe importante ripudiare il sistema occidentale basato sul principio democratico di “un uomo, un voto”.

LE RAGIONI DEL FALLIMENTO DI SETTE
DECENNI DI “SVILUPPO

Più di settant’anni di politica di “sviluppo” si sono tradotti in un totale fallimento in Africa per tre ragioni principali; tutte e tre legate alla proiezione di ideologie “occidentali” su un corpo sociale che è antropologicamente impossibilitato ad assorbirle”.
Le tre ragioni principali sono
1) Il primato dato all’economia.
In tutti i modelli proposti o, più precisamente, imposti all’Africa sud-sahariana, l’economia è sempre stata messa in primo piano. Il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e la Banca Mondiale, con l’obiettivo di integrare l’Africa nell’economia globale, hanno cercato di costringere i paesi africani alla deregolamentazione, alla privatizzazione e alla liberalizzazione.
I veri problemi del continente non sono fondamentalmente economici, ma politici, istituzionali e sociologici. Il primo errore di questo mezzo secolo perduto è quindi quello di avere sempre dato la priorità all’economia, come hanno fatto e continuano a fare tutti i progetti di sviluppo, mentre ci troviamo prima di tutto di fronte a un evidente problema politico.
2) Il rifiuto di prendere in considerazione la nozione di differenza.
Le nostre definizioni universalistiche ci impediscono, anzi ci vietano, di vedere l’evidenza della differenza. Gli africani non sono poveri europei dalla pelle scura. Ed è perché il corpo sociale africano non è quello dell’Europa o dell’Asia, che l’innesto non è avvenuto.
Come se un giardiniere che insiste nell’innestare un albero di prugne su una palma si stupisce che nonostante le montagne di fertilizzante versate su di esso, la sua operazione non riesca.
Le ricette utilizzate in Asia e altrove hanno fallito in Africa semplicemente perché abbiamo un caso comprovato di incompatibilità delle colture. Quindi non è continuando ad affogare gli africani negli aiuti e nei sussidi che alla fine finiranno per assomigliare agli europei, agli asiatici o agli americani.
3) Il presupposto democratico.
Durante gli anni Novanta si è ipotizzato che lo sviluppo fosse fallito a causa della mancanza di democrazia.
Di conseguenza l’Africa è stata sottoposta a un vero e proprio “diktat democratico”.
Il risultato è stata la matematica elettorale, con il potere automaticamente assegnato
ai gruppi etnici più numerosi, che ho definito etno-matematica.
In Africa, dove la questione preliminare non è economica ma politica, gli esperimenti costituzionali importati sono quindi falliti. Non sono al passo con le realtà continentali, non permettono ovviamente ai diversi gruppi etnici che compongono gli Stati risultanti dalle divisioni coloniali di convivere in un’armonia sociale che integri le nozioni contraddittorie di unità di destino e di rispetto delle differenze.
Infatti, in Africa, l’autorità non è condivisa e l’idea di contropotere è sconosciuta.
In queste condizioni, gli Stati emersi dalla decolonizzazione non sono stati in grado di inventare uno strumento di rappresentazione o di associazione dei popoli minoritari.
Tolti dal potere, questi ultimi non hanno altra scelta che sottomettersi o ribellarsi.
Tra sottomissione o rivolta, nozioni che non sono molto portatrici del potenziale di fusione nazionale.
È per questo che i giovani Stati africani non sono stati in grado di trasformarsi in nazioni come avevano postulato gli ex colonizzatori.
Il fallimento era stato addirittura previsto e come avrebbe potuto essere altrimenti?
Costruiti entro confini artificiali che imprigionano popoli diversi senza un passato comune,
questi Stati non sono altro che gusci giuridici vuoti che non coincidono con le patrie carnali
che sono il fondamento delle vere radici. Inoltre, l’idea di nazione non è una realtà.
L’idea di Nazione non è la stessa in Europa e in Africa, poiché in un caso l’ordine sociale è basato sugli individui e nell’altro sui gruppi.

Tuttavia, il principio europeo-americano di “un uomo, un voto”, vieta precisamente di prendere in considerazione la grande realtà politica africana costituita da gruppi (etnie, tribù, clan o stirpi).
La soluzione non è ovviamente economica e non comporta un nuovo e inutile aumento degli aiuti. Non è nemmeno sociale o sanitaria, perché l’auspicabile miglioramento delle condizioni di vita non affronta le cause del disastro.

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