UCRAINA RUSSIA 32A PUNTATA il conflitto e la società Con Max Bonelli e Flavio Basari

Oggi continueremo a parlare del conflitto in Ucraina attraverso alcune immagini significative. Soprattutto, vi racconteremo della Russia e dei russi. Di un’altra Russia, diversa dalla scarna e faziosa narrazione che ci viene propinata. Cercheremo di constatare di aver eletto senza ragione un paese ed un popolo a nemico. Non solo! Di averne sottovalutato, a dispetto degli insegnamenti dai precedenti storici, la forza morale, la determinazione, la coesione e la capacità di adattamento. Un errore ancora non del tutto irreparabile, la cui protrazione rischierà di portare in casa propria quel collasso che il mondo occidentale, gli statunitensi in particolare, sta cercando di procurare in quel paese. Buon ascolto, con l’attenzione che meritano il contenuto e la statura dei partecipanti. Giuseppe Germinario

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SENTIMENTO E INDIFFERENZA POLITICA, di Teodoro Klitsche de la Grange

SENTIMENTO E INDIFFERENZA POLITICA

Malgrado il bombardamento anti-russo della comunicazione mainstream, non sembra, dai sondaggi ripetuti, che sia stata scalfita la maggioranza neutralista nell’opinione pubblica soprattutto, si legge, in Italia e in Romania; altrove, in Europa, tranne in quella orientale (e si capisce il perché) favorevoli e contrari si distribuiscono in blocchi pressoché uguali sull’aiuto all’Ucraina.

Dopo un simile spiegamento di mezzi, i risultati paiono modesti. Soprattutto in relazione all’argomento forte e più ripetuto, che si adagia sulle comprensibili aspirazioni degli europei, i quali dopo i due macelli collettivi del XX secolo, di aggressioni, guerre, ed aggressori non vogliono sentir neanche parlare.

Per cui appare facile demonizzare l’aggressore come turbatore della pace, e la resistenza allo stesso come justa causa.

Quale può essere il perché della tepidezza di buona parte dell’opinione pubblica? Le cause possono essere tante, ma ritengo che le principali siano:

  1. a) il timore di un’estensione (fino al coinvolgimento diretto) nella guerra;
  2. b) il non comprendere (perché non spiegato) quale possa essere l’interesse nazionale ad un esteso aiuto ad uno dei belligeranti;
  3. c) che la Russia, anche se aggressore, non ha tutti i torti (scontri nel Donbass, accordi di Minsk).

Quanto al timore dell’escalation, è bene tenerne conto, perché come sosteneva Clausewitz, è nella natura della guerra l’ascensione agli estremi. Tuttavia a rendere tale ipotesi poco verosimile è proprio il secondo elemento: la mancanza di un interesse nazionale, sia della Russia che dei popoli europei ad aggredirsi. Anzi tutto l’interesse è quello di convivere e commerciare pacificamente, per la complementarietà economica delle due aree. Relativamente al terzo aspetto è chiaro che la dissoluzione dell’Unione sovietica in Stati nazionali, le cui frontiere non coincidevano con l’omogeneità etnica, di guerre ne ha generate tante, sia nella superpotenza che nella Jugoslavia.

Basti ricordare per la prima: Georgia, Ossezia, Cecenia, Abkhazia, Nagorni_Karabach (salvo altri). Per cui la sussistenza, anche da parte dell’aggressore russo di una justa causa belli non è esclusa. Con la conseguenza che, contrariamente all’evoluzione del diritto internazionale nel XX secolo, la guerra, nel sistema westfaliano, è “giusta” da entrambe le parti.

Per cui che il sentimento ostile nei confronti dell’aggressore sia così tiepido a dispetto di tutti gli sforzi per suscitarlo e ravvivarlo non meraviglia.

Si aggiunge per l’Italia la storia degli ultimi secoli; di guerre l’Italia (prima il Regno di Sardegna) alla Russia ne ha mosse tre. La guerra di Crimea, l’intervento nella guerra civile del 1918-1921, il fiancheggiamento della Germania nell’operazione Barbarossa. Di converso l’unica volta che un esercito russo si è visto in Italia è nel 1799. Ma i russi, peraltro alleati di Stati italiani occupati dalla Francia, se ne andarono senza pretendere di tornare.

Gli è che né i russi hanno alcun interesse ad occupare l’Italia, né gli italiani la Russia. Si è cercato di compensare questa evidenza storica e politica col dipingere Putin come il diavolo guerrafondaio, affetto da aggressività compulsiva, emulo nel XXI secolo di Hitler. Ipotesi ancora più inverosimile dell’altra: vediamo perché.

É costante della Russia estendere la propria influenza a sud, in particolare intorno al Mar Nero.

Malgrado tutti gli sforzi dei professionisti dell’informazione per additare Putin come pazzo e/o malato, il Presidente russo non ha fatto altro che ripetere la politica dei suoi predecessori, da Ivan il Terribile a Pietro il Grande, da Caterina la Grande a Nicola I.

Il che rendeva assai prevedibili sia le intenzioni che il comportamento dello stesso. Ciò nonostante non è stato previsto il probabile, e neppure adottati comportamenti  idonei ad evitare che una situazione, da anni esplosiva, degenerasse in guerra.

Quando poi questa è scoppiata, non c’è stato altro da fare che cercare di coprire il tutto con la demonizzazione dell’aggressore, come mezzo per incrementare il sentimento popolare, improntato ad una paurosa indifferenza.

Scrive Clausewitz nel Von Kriege a proposito del sentimento politico, cioè l’odio e l’inimicizia verso il nemico che questo è “da considerarsi come un cieco istinto” e corrisponde al popolo; e che “Le passioni che nella guerra saranno messe in gioco debbono già esistere nelle nazioni”. Sicuramente in Polonia e in Ungheria, tenuto conto della storia le suddette passioni non mancano. Ma in Europa occidentale? Solo la Germania ha condotto nella storia e per geopolitica diverse guerre con la Russia, alternate a periodi di amicizia (spesso a scapito dei popoli che stavano “in mezzo”).

Ma Francia, Spagna, Italia (e non solo) non hanno né ragioni politiche e geo-politiche né una storia che identificasse nei russi il nemico principale e reale.

Per cui non restava che affidarsi alla propaganda, confermando, con lo scarso risultato, l’affermazione di Clausewitz.

Teodoro Klitsche de la Grange

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L’Europa deve resistere alle pressioni per diventare “seguace dell’America”, dice Macron_di Politico, Andrew Korybko ed altri

L’uomo sbagliato nel posto giusto; fuori tempo massimo; una ambizione smisurata rispetto alle forze disponibili; la rimozione di un convitato di pietra, la Russia, indispensabile alla costruzione di un equilibrio europeo fondato su sovranità ed indipendenza. Il giudizio lapidario su di un personaggio politico che sta cercando di assumere un ruolo da protagonista su temi, sull’anatema dei quali ha fondato la propria formazione culturale, la propria carriera dirigenziale, la propria fulminante carriera politica, la propria attività di Ministro e in ultimo, da Presidente, la composizione dei propri governi.

Qui sotto una serie di articoli ed interviste di e su Emmanuel Macron, tra i tanti che hanno accompagnato e seguito la visita del presidente di Francia in Cina, al cospetto di Xi Jinping, e nei Paesi Bassi. Con una sorprendente eccezione: la attenzione riservata dalla stampa francese inversamente proporzionale all’enfasi presidenziale.

Emmanuel Macron è immancabilmente attratto da una prosopopea che lo trascina spesso e volentieri nella millanteria e nella vanagloria tale da trasformare in farsa l’esito delle sue imprese. Il suo ultimo viaggio in Cina ne rappresenta forse l’iperbole.

  • fallendo a suo tempo nella proposta di viaggio in comune con il tedesco Scholz, ha voluto presentarsi come paladino e rappresentante dell’Europa, trascinando con sè nella missione la tapina von der Leyern, per poi accettare senza batter ciglio lo spartito di Xi, il quale ha riservato alla commissaria un ruolo, non nuovo per la verità, da protagonista di quarta classe e una anticamera nella penombra dei ripostigli della diplomazia cinese;
  • ha riconosciuto con colpevole ritardo, nelle attuali dinamiche geopolitiche, la prevalenza del fattore politico-militare rispetto a quello geoeconomico per porre sul piatto della diplomazia euro-franco-cinese il solo fattore economico;
  • è sembrato dare per scontato, nello stesso ambito geoeconomico, un rapporto paritario tra Europa e Cina, quando la realtà si è risolta nel pietìre accordi commerciali che favorissero le esportazioni francesi in Cina, compresi i poco graditi, dai sindacati transalpini,  trasferimenti di attività produttive strategiche glissando sulle limitazioni imposte all’introduzione di quelle cinesi in Europa, non particolarmente gradite a Xi;
  • ha chiesto a Xi di concedere il tempo necessario alle presunte ambizioni di autonomia europea, sapendo dell’interesse della Cina a protrarre il più possibile le dinamiche passate della globalizzazione. Ha glissato, però, su un aspetto sul quale la dirigenza cinese è sempre più cosciente, trasformando una tentazione in un miraggio in grado di ingannare solo se stesso. Se c’è un attore non disposto a concederlo, è l’attuale dirigenza degli Stati Uniti, l’alleata di ultima istanza;
  • ha additato, spesso e volentieri esplicitamente, la dirigenza russa di Putin come perturbatrice dei vecchi equilibri e come fattore scatenante delle pulsioni oltranziste della stessa dirigenza statunitense nei confronti del mondo e degli stessi europei per attrarre la dirigenza cinese verso una posizione di neutralità indifferente alle sorti della Russia, quando Macron stesso è parte in causa diretta e subordinata della faziosità suicida degli europei nel conflitto ucraino, ormai ultradecennale e nelle politiche di caos programmato nel mondo tutt’ora all’opera.

Non si sa quale delle seguenti tre pulsioni stia prevalendo nel dettato dei comportamenti politici del piccolo Zeus dell’Olimpo francese. 

  • l’ambizione cieca e mal riposta, intrisa di retorica logorroica, di un leader ferito, indispettito ed incapace di reagire direttamente ai pesanti colpi bassi dei suoi cugini-alleati anglo-americani, specie nel Pacifico e in Africa, chiedendo in cambio del nulla al suo interlocutore cinese l’abbandono di Putin e l’eventualità impossibile di una collaborazione proficua con la Francia e l’Europa, prive di ogni facoltà di volere;
  • la meschinità di chi, sotto l’aura retorica nobile, o sedicente tale, dell’europeismo cerca di ricavare benefici immediati, quanto fragili per la classe dirigente del proprio paese a scapito dei propri vicini di casa. Benefici illusori che verrebbero dall’erosione del primato dei rapporti economici sino-alemanni, anche essi resi sempre più fragili dal contesto geopolitico, per giungere alla riacquisizione di un ruolo significativo in Africa e nel Pacifico meridionale, dato quasi per perso definitivamente quello in Medio Oriente;
  • il servilismo più abbietto rispetto alla avventurosa “strategia” demo-neocon statunitense di accomunare i suoi due nemici, definiti mortali e contestualmente di separarli nella loro azione politica sempre più concordata ed integrata.

Il passato remoto, quello adolescenziale e quello recente e immediato di Emmanuel Macron fa presagire il peggio. Il nuovo Zeus di Francia è un pollo di allevamento di Soros e dei Rothschild sin dalla adolescenza in quota enarcato; da Ministro ha contribuito a sferrare i colpi conclusivi, con la svendita e le dismissioni, a buona parte dell’industria strategica francese. L’illuminazione sulla via del sovranismo e del recupero delle prerogative statali, anche in economia e nelle attività industriali, sanno di tardivo se non di posticcio. Sta di fatto che, nei suoi anni di presidenza, il peso dell’industria è passato dal 18 al 11% dell’economia francese; ben al di sotto dei già bassi standard europei. La stessa invocazione delle prerogative sovraniste in salsa europeista, sembrano spingere l’impegno prevalente verso l’adozione integralista di criteri di tutela dell’equilibrio climatico e di riconversione ecologica fatti apposta per dirottare risorse ed ambizioni lontano dai fattori decisivi di potenza e di equilibrio e coesione sociale. In questo, probabilmente, è in buona e numerosa compagnia. Tra gli ultimi arrivati, spero di sbagliare, anche se non coltivato sistematicamente, potrebbe inserirsi il redivivo Lula, dal Brasile, nella sua funzione di sirena. La durezza della posizione di Korybko, espressa in un articolo recente, ha certamente spiazzato; se tuttavia la si affianca ad un altro articolo che marca positivamente la posizione sulla dedollarizzazione assunta nel comunicato congiunto Lula-Xi e nel valore preminente dato ad essa da Korybko rispetto a quella sul conflitto ucraino, si può contestualizzare meglio il senso di una posizione così netta, presa a se stante. Non sono nella testa, tanto meno nello stato d’animo dell’autore. Probabile che tanta durezza dipenda dal timore che la Cina sia attratta da una visione bipolare della gestione del mondo, deleteria per la Russia, piuttosto che dal peso delle posizioni di Lula. Dopo aver precisato questo occorre, a mio modesto avviso, tuttavia qualche sottolineatura che potrebbe incrinare l’aura che molto spesso avvolge il progressismo radicale e rivoluzionario latino-americano e impedisce di comprendere le ragioni dei suoi frequenti e ricorrenti fallimenti. Lula è certamente un pragmatico, ma di un pragmatismo diverso da quello di Erdogan e più ambiguo. Di ciò fa parte il comunicato congiunto con Biden e il voto favorevole alla risoluzione ONU, entrambe di condanna esplicita dell’aggressione russa. Lula punta a costruire un club mondiale della pace che parte da queste posizioni, pur edulcorate da qualche dichiarazione critica sull’atteggiamento statunitense. Non a caso sul punto 9 del comunicato Xi-Lula, i due statisti procedono per vie parallele piuttosto che su una posizione unica e condivisa. Il Lula dell’ultima elezione poggia su basi diverse di quelle della precedente, fondata su un “sovranismo” populista ed assistenziale, significativo, ma dai troppi limiti tipici della sinistra di quell’area geografica e tradotti purtroppo anche in Europa, ultimamente, dai movimenti Podemos e 5stelle. Ha tirato fuori tutto il repertorio “woke” tipico del democratismo statunitense coniugandolo con il rivendicazionismo e il terzomondismo storico della propria area. Sono note anche le “trattative” intercorse per la sua riabilitazione dalle condanne, le quali hanno consentito la ricandidatura e la rielezione; per non parlare dei brogli da “Dominion” per altro comune ai due candidati. Penso che Lula, con qualche margine di autonomia, si stia inserendo comunque in quella componente democratica statunitense ormai propensa a prendere atto della dinamica multipolare per proseguire le vecchie politiche egemoniche sotto altre spoglie. Un discorso da approfondire con la cautela e il beneficio di inventario richiesta da una situazione ed una transizione tutta ancora da definire.

La seconda pulsione potrebbe essere alimentata dalla forza e dalla costanza di un movimento di protesta tanto potente ed ostinato, quanto mal diretto o sviato, a seconda dei casi, dalla presenza da una parte di un movimento gaullista incapace di coniugare ambizioni di potenza ed autonomia geopolitica ed esigenze di difesa e integrazione di interessi popolari e dall’altra di un movimento progressista fossilizzato in un rivendicazionismo economicista pasticciato ben disposto di fatto a concedere spazi e credibilità da statista al nostro. Spazi che lo porterebbero a coltivare residue ambizioni nei vecchi domini coloniali ormai perduti, con la supervisione compiaciuta e velenosa della dirigenza statunitense e l’illusione di poter scavare nelle contraddizioni della presenza sino-russa in Africa. Una mera illusione che ignora il dato fondamentale che l’influenza politico-economica cinese è sempre più perfettamente complementare all’influenza politico-militare russa in quella e presumibilmente ormai in altra aree dello scacchiere geopolitico; come pure che la reale intenzione della dirigenza statunitense in terra europea, con l’assottigliarsi della sua area di influenza globale, è quella di succhiare le risorse disponibili nei paesi dell’Europa Occidentale per riequilibrare la situazione socio-economica al proprio interno e sostenere gli sforzi e le ambizioni dei paesi dell’Europa Orientale disposti ad incalzare l’orso russo. 

La prima pulsione è forse la più pericolosa e pregiudizievole; rappresenta la minaccia più perniciosa alla sopravvivenza fisica ed esistenziale del nostro. Lo espone al ludibrio e alla sufficiente derisione dei suoi avversari geopolitici, come successo a suo tempo con Trump, come ripetutosi in questi giorni con Xi Jinping, grazie anche ad alcune clamorose gaffe nella conduzione delle conversazioni. Non siamo ancora al livello del nostro scomparso Luigino Di Maio; ma la scuola francese ha conosciuto comunque illustri predecessori del calibro di Napoleone III, nella fase terminale del suo regno e nella curiosa concomitanza di sottovalutazione della forza del nemico-avversario. Lo espone alla crescente rabbia popolare, la quale, però, in mancanza di una direzione lungimirante, difficilmente riuscirà a spodestarlo. Potrebbe lasciarlo, è la condizione più minacciosa, in balìa delle reazioni indispettite dei propri cugini-fratelli angloamericani, consapevoli del loro successo relativo in ambito NATO e UE, ma anche della fragilità di questa coesione raggiunta così forzosamente.

La sua ostinazione nell’individuare nella improbabile sconfitta russa, piuttosto che in una collaborazione paritaria, la condizione preliminare di emancipazione dei paesi e degli stati europei rivela l’essenziale.

Il raggio di luce offerto offerto da alcune dichiarazioni di Macron e, in parte, di Lula sono un successo di Xi e di Putin; molto meno di Macron.

La sua sembra la mossa piuttosto che di un condottiero impavido e coraggioso, di un naufrago prossimo ad annaspare tra i flutti.

Più prosaicamente, come adombrato da Korybko, buona parte del colloqui riservati tra Macron e Xi sono dedicati ormai a salvare il salvabile dei rapporti franco-cinesi.

Si vedrà come il combinato-disposto di questi tre fattori influenzeranno il futuro comportamento di Macron. La riluttanza tedesca e dei paesi dell’Europa Orientale a seguirlo in alcuni propositi, la perseveranza russa, l’indisponibilità cinese e la ripicca anglo-americana potrebbero combinarsi in un mix nefasto. Il suo slancio retorico europeista potrebbe ottenere il risultato paradossale, ormai ben radicato anche nella dirigenza statunitense, di affondare o ridurre a luce fioca una Unione Europea sempre più inutile e ridondante. Sino ad ora l’unica prerogativa di sovranità che il nostro riesce a coltivare con successo è quella ad uso interno; nella fattispecie nella repressione violenta del movimento di protesta, grazie anche alla complicità devastatrice di gruppi di provocatori incontrollati. Di sicuro la figura meno adatta e credibile ad impersonare il passato ed il futuro dignitoso della Francia e delle nazioni europee. Buona lettura, pur nella precarietà della traduzione di alcune parti degli articoli. Il tempo e le risorse sono quelle che sono. Giuseppe Germinario

“Per troppo tempo l’Europa non ha costruito questa autonomia strategica. Oggi la battaglia ideologica è stata vinta”, ha dichiarato Emmanuel Macron in un’intervista a Les Echos. Ma ora è necessario attuare questa strategia. La trappola per l’Europa sarebbe che, nel momento in cui ottiene un chiarimento della sua posizione strategica, si trovi coinvolta in uno sconvolgimento del mondo e in crisi che non sono nostre”.

Per il Presidente francese, l’autonomia strategica è fondamentale per evitare che gli Stati europei diventino “vassalli” quando l’Europa potrebbe essere “il terzo polo” di fronte a Stati Uniti e Cina. “Non vogliamo entrare in una logica di blocco a blocco”, ha aggiunto il Capo di Stato, che si è anche espresso contro “l’extraterritorialità del dollaro”. “La storia sta accelerando, e noi dobbiamo accelerare allo stesso tempo l’economia di guerra europea”, ha insistito il Presidente francese.Il Presidente francese insiste sul fatto che “la storia sta accelerando”.

Dopo il dialogo con il Presidente Xi Jinping, cosa possiamo davvero aspettarci dalla Cina sull’Ucraina?

Penso che la Cina stia facendo le stesse considerazioni  che stiamo facendo noi, con la differenza che oggi la priorità è militare.

Gli ucraini stanno resistendo e noi li stiamo aiutando. Non è il momento di negoziati, anche se sono, se necessario, per fissare le pietre miliari. Questo è lo scopo del dialogo con la Cina: consolidare approcci comuni

Uno: sostenere i principi della Carta delle Nazioni Unite.

Due: un chiaro richiamo sul nucleare e spetta alla Cina trarre le conseguenze del dispiegamento di armi nucleari in Bielorussia da parte del Presidente Putin pochi giorni dopo  essersi impegnato a non farlo.

Tre: un chiaro richiamo al diritto umanitario e la protezione dei bambini.

E quattro: la volontà per una pace negoziata e duratura.

Noto che il presidente Xi Jinping ha parlato di un’architettura di sicurezza europea. Ma non può esistere un’architettura di sicurezza europea finché ci saranno Paesi invasi o conflitti congelati.

Si può quindi notare che da tutto questo emerge una matrice comune.

L’Ucraina è una priorità per la diplomazia cinese? Forse no.

Ma questo dialogo ci permette di temperare i commenti che sono stati fatti su una forma di compiacenza della Cina nei confronti della Russia.

I cinesi sono ossessionati dal confronto con gli Stati Uniti, in particolare in particolare sulla questione di Taiwan; non tendono a vedere l’Europa  come una pedina tra i due blocchi?

Come europei, la nostra preoccupazione è la nostra unità. Questo è sempre stato il mio assillo. Noi dobbiamo dimostrare alla Cina che siamo uniti e questo è il significato di questa visita congiunta con il Presidente della Commissione Ur s u l a von der Leyen. Anche i cinesi si preoccupano della loro unità e Taiwan, dal loro punto di vista, ne fa parte.

È importante capire come ragionano. La domanda per noi europei è: Abbiamo interesse ad

accelerare sul tema di Taiwan? No, non è così. La cosa peggiore sarebbe pensare che noi europei dobbiamo essere dei seguaci su questo tema,  adattarci al ritmo americano e a una reazione eccessiva della Cina.

Perché dovremmo andare al ritmo scelto da altri?

A un certo punto, dobbiamo chiederci quale sia il nostro interesse. Qual è il ritmo. La Cina stessa dove vuole andare?  Vuole avere un approccio offensivo e aggressivo? Il rischio è di una strategia che si auto avvera; strategia del numero uno e del numero due su questo tema. Noi, europei, dobbiamo svegliarci. La nostra priorità non è quella di adattarsi all’agenda degli altri in ogni regione del mondo.

La trappola per l’Europa sarebbe che nel momento stesso in cui raggiunge un chiarimento della sua posizione strategica, in cui è più autonoma di prima di Covid, si trovi coinvolta in uno sconvolgimento del mondo e in crisi che non sono nostre. Se c’è un’accelerazione dell’esplosione del duopolio, non avremo il tempo  e i mezzi per finanziare la nostra autonomia strategica e diventare vassalli quando possiamo essere  il terzo polo, avendo qualche anno per costruirlo.

Come un numero crescente di Paesi europei che guardano più che mai agli Stati Uniti per la loro sicurezza, l’autonomia strategica europea ha ancora senso?

Certo che sì! Ma questo è il grande paradosso della situazione attuale. Da quando ho tenuto il discorso della Sorbona su questo tema cinque anni fa, quasi tutto è stato fatto. Abbiamo vinto la battaglia ideologica da un punto di vista gramsciano, se così si può dire. Cinque anni fa, si diceva che la sovranità europea non esisteva. Quando parlavo del tema dei componenti delle telecomunicazioni, a chi importava? A quel tempo, stavamo già dicendo ai paesi extraeuropei che l’Europa che consideravamo che si trattava di un’importante questione di sovranità e che avremmo adottato dei testi per regolamentare

Questo è ciò che abbiamo fatto nel 2018. Noto che la quota di mercato di autonomia strategica deve essere la battaglia dell’Europa”.

Per troppo tempo l’Europa non ha costruito la sua autonomia strategica. Oggi, la battaglia ideologica è vinta”, ha dichiarato Emmanuel Macron, in un’intervista a “Echos”. Ma ora è necessario attuare questa strategia.

“La trappola per l’Europa sarebbe che al momento in cui riuscisse a chiarire la sua posizione strategica, si trovi coinvolta in uno sconvolgimento e in una crisi a livello mondiale che non sarebbero nostre”. Per il Presidente francese, l’autonomia strategica è fondamentale  per evitare che gli Stati europei diventino “vassalli” L’Europa può essere “il terzo polo” di fronte agli Stati Uniti e alla Cina.

Non vogliamo essere un vassallo”, ha detto. “Non vogliamo entrare in una logica di blocco contro blocco”, ha aggiunto il Capo di Stato. Ha parlato anche contro la “extraterritorialità del dollaro”. “La storia sta accelerando, dobbiamo accelerare l’economia europea  in parallelo, insiste il Presidente.

Il Presidente francese insiste sul fatto che “la storia sta accelerando”.

Dopo il dialogo con il Presidente Xi Jinping, cosa possiamo davvero aspettarci dalla Cina sull’Ucraina?

Penso che la Cina stia facendo la stessa nostra  considerazione, con la differenza che oggi il momento è militare.

Gli ucraini stanno resistendo e noi li stiamo aiutando. Non è il momento per i negoziati, anche se sono per fissare le pietre miliari. Questo è lo scopo del dialogo con la Cina: consolidare approcci comuni.

L’Ucraina è una priorità per la diplomazia cinese? Forse no. Ma questo dialogo ci permette di temperare i commenti che sono stati fatti su una forma di compiacenza della Cina nei confronti della Russia.

I cinesi sono ossessionati dal confronto con gli Stati Uniti, in particolare sulla questione di Taiwan,non tendono a vedere l’Europa  come una pedina tra i due blocchi?

Come europei, la nostra preoccupazione è la nostra unità. Questo è sempre stato il mio cruccio. Noi dobbiamo dimostrare alla Cina che siamo uniti e questo è il significato di questavisita congiunta con il Presidente della  Commissione Ursula von der Leyen. Anche i cinesi  si preoccupano della loro unità e Taiwan, dal loro punto di vista, ne fa parte. È importante capire come ragionano.

La domanda per noi europei è: Abbiamo interesse ad accelerare sul tema di Taiwan? No, non è così. La cosa peggiore sarebbe  pensare che noi europei dobbiamo essere dei seguaci su questo tema, adattarci al ritmo americano e a una reazione eccessiva della Cina.

Perché dovremmo andare al ritmo scelto da altri? A un certo punto dobbiamo chiederci quale sia il nostro interesse. Qual è il ritmo da sostenere? La Cina stessa dove  vuole andare?  Vuole avere un approccio offensivo e aggressivo? Il rischio è di una strategia che si auto avvera; strategia del numero uno e del numero due su questo tema. Noi, europei, dobbiamo svegliarci. La nostra priorità non è quella di adattarsi all’agenda degli altri in ogni regione del mondo.

La trappola per l’Europa sarebbe che nel momento stesso in cui raggiunge un chiarimento della sua posizione strategica, in cui è più autonoma di prima di Covid, si trovi coinvolta in uno sconvolgimento del mondo e in crisi che non sono nostre.

Se c’è un’accelerazione dell’esplosione del duopolio, non avremo il tempo  e i mezzi per finanziare la nostra autonomia strategica e diventare vassalli quando possiamo essere il terzo, avendo qualche anno per costruirlo.

Con un numero crescente di  Paesi europei guardano più che mai agli Stati Uniti per la loro sicurezza, l’autonomia strategica europea  ha ancora senso?

Certo che sì! Ma questo è il grande paradosso della situazione attuale. Da quando ho tenuto il discorso della Sorbona su questo tema cinque anni, quasi tutto è stato fatto.  Abbiamo vinto la battaglia ideologica, da un punto di vista punto di vista gramsciano, se così si può dire. Cinque anni fa,  si diceva che la sovranità europea  non esisteva.

Quando parlavo del tema dei componenti delle telecomunicazioni, a chi importava?

A quel tempo, stavamo già dicendo ai paesi extraeuropei che per l’Europa si trattava di un’importante questione di sovranità e che avremmo adottato dei testi per regolamentare

Questo è ciò che abbiamo fatto nel 2018.

Noto che la quota di mercato di fornitori di apparecchiature di telecomunicazione in Francia si è ridotta in modo significativo, che non è il caso di tutti i nostri vicini.

Abbiamo anche stabilito l’idea di una difesa europea, di un’Europa più unita che emette debito insieme al momento della Covid. Cinque anni fa, l’autonomia strategica era una chimera. Oggi tutti ne parlano. È un cambiamento importante.

Ci siamo dotati di strumenti di difesa e di politica industriale.

Ci sono stati molti progressi: la legge sui chip, la legge sull’industria a zero emissioni e la Legge sulle Materie Prime Critiche,  questi testi europei sono gli elementi costitutivi della nostra autonomia strategica. Abbiamo iniziato a creare fabbriche di batterie, componenti a idrogeno o elettronici.

Erano completamente contrari all’ideologia europea solo tre o quattro anni fa! Ora abbiamo strumenti di protezione molto efficaci.

L’argomento sul quale dobbiamo essere particolarmente vigili è che la guerra in Ucraina sta accelerando la domanda di equipaggiamenti di difesa.

Tuttavia, l’industria europea della difesa non soddisfa tutte le esigenze e rimane molto frammentata, il che porta alcuni Paesi a rivolgersi a a fornitori americani o addirittura a fornitori asiatici su base temporanea.  Di fronte a questa realtà, dobbiamo diventare più potenti.

L’autonomia strategica deve essere nella battaglia dell’Europa. Non vogliamo dipendere da altri  questioni  critiche. Il giorno in cui non avrete più la possibilità di scegliere sull’energia, su come difendersi, sui social network, sull’intelligenza, reti sociali, sull’intelligenza artificiale perché non abbiamo più l’infrastruttura su questi temi, voi siete fuori dalla storia per un po’.

Qualcuno potrebbe dire oggi in Europa c’è più franco-germania e meno Polonia…

Io non lo direi. Non lo direi; ha creato un fondo europeo  per le munizioni con 2 miliardi, ma è rigorosamente europeo e chiuso.

Ma è chiaro che abbiamo bisogno di un’industria europea  che produca più velocemente. Abbiamo saturato la nostra offerta.

Mentre la storia accelera, abbiamo bisogno di una parallela accelerazione dell’economia di guerra europea.

Non stiamo producendo abbastanza velocemente. Anzi, guardate cosa sta succedendo per affrontare la situazione attuale: i polacchi stanno per comprare equipaggiamento coreano.

Ma da un punto di vista dottrinale, giuridico e politico, penso che non ci sia mai stata una tale accelerazione dell’Europa-potenza.

Abbiamo gettato le basi prima della crisi e c’è stata una tremenda crisi durante la pandemia, con progressi molto forti nella solidarietà finanziaria e di bilancio.

E abbiamo riattivato il formato Weimar con la Germania e Polonia. Oggi dobbiamo accelerare l’attuazione degli aspetti militari, tecnologici, energetici e finanziari per accelerare la nostra effettiva autonomia nella Unione Europea. Non vogliamo entrare in una logica a blocchi.

Al contrario, dobbiamo “deristificare” il nostro modello, per non dipendenza dall’altro, pur mantenendo una forte integrazione delle nostre  catene del valore, laddove possibile.

catene del valore. Il paradosso sarebbe che, in un momento in cui stiamo mettendo in atto gli elementi di una vera autonomia strategica europea, iniziamo a seguire la politica americana, per una sorta di riflesso di panico.

Al contrario, le battaglie da combattere oggi sono, da un lato, accelerare la nostra la nostra autonomia strategica e dall’altro di garantire il finanziamento delle nostre economie. Vorrei cogliere l’occasione per  sottolineare un punto: non dobbiamo dipendere dall’extraterritorialità del dollaro.

Joe Biden è un Donald Trump più educato?

Si impegna per la democrazia, per i principi fondamentali, alla logica internazionale, e conosce e ama l’Europa, tutto ciò è essenziale.

D’altra parte, fa parte di una logica americana trasparente che definisce l’interesse americano, clima e la sovranità americana. È la stessa battaglia. È la battaglia del nucleare, delle rinnovabili e della e della sobrietà energetica europea.

Sarà la battaglia dei prossimi dieci-quindici anni a venire. L’autonomia strategica è presumere che avremo convergenze di vedute con gli Stati Uniti

Ma che si tratti dell’Ucraina, del rapporto con la Cina o delle sanzioni, abbiamo una strategia; è a questo prezzo che le mentalità devono cambiare.

Resta il fatto che gli Stati Uniti con la legge sulla riduzione dell’inflazione (IRA), una politica che lei stesso ha definito che lei stesso ha definito  addirittura aggressiva…

Quando sono andato a Washington lo scorso dicembre scorso, ho messo il mio piede nella porta, sono stato persino criticato per averlo fatto in modo aggressivo.

Ma l’Europa ha reagito e prima alla fine del primo trimestre del 2023, in tre mesi, abbiamo avuto una risposta con tre testi europei.

Avremo la nostra IRA europea.

Agire così rapidamente è una piccola rivoluzione.

La chiave per essere meno dipendenti dagli americani è prima di tutto rafforzare la nostra industria della difesa, di concordare standard comuni.

Stiamo tutti investendo molto denaro, ma non si può avere dieci volte gli standard degli americani! Allora questo significa che dobbiamo accelerare la battaglia per il nucleare e le energie rinnovabili in Europa. Il nostro continente non produce nessun combustibile fossile.  Esiste una coerenza tra reindustrializzazione ed energie rinnovabili.

Il paradosso è che l’America sull’Europa è più forte che mai più forte che mai…

Abbiamo certamente aumentato la nostra dipendenza dagli Stati Uniti nel campo dell’energia, ma in una logica di diversificazione perché eravamo troppo dipendenti dal gas russo.

Oggi è un dato di fatto che siamo più dipendenti dagli Stati Uniti, dal Qatar e da altri.

Ma questa diversificazione era necessaria.

Per il resto, dobbiamo tenere conto delle conseguenze. Per troppo tempo l’Europa non ha costruito questa autonomia strategica per la quale mi sto battendo.

Io mi batto per questo. Oggi, la battaglia ideologica è stata vinta e le basi sono state gettate.

Questo ha un costo, che è normale. È lo stesso per quanto riguarda la reindustrializzazione della Francia: abbiamo vinto la battaglia ideologica,  le riforme, sono difficili, ma iniziamo a vedere i risultati; allo stesso tempo tempo, stiamo pagando il prezzo di ciò che di ciò che non abbiamo fatto in vent’anni. Questa è la politica! Bisogna resistere. Bisogna resistere.

https://www.lesechos.fr/monde/enjeux-internationaux/emmanuel-macron-lautonomie-strategique-doit-etre-le-combat-de-leurope-1933493

 

L’Europa deve resistere alle pressioni per diventare “seguace dell’America”, dice Macron
Il “grande rischio” che corre l’Europa è di rimanere “invischiata in crisi che non sono nostre”, afferma il presidente francese in un’intervista.

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Il “grande rischio” che corre l’Europa è di rimanere “invischiata in crisi che non sono nostre”, dice Macron | Ludovic Marin/ AFP via Getty Images
DI JAMIL ANDERLINI E CLEA CAULCUTT
9 APRILE 2023 12:39 CET

A BORDO DEL COTAM UNITÉ (AIR FORCE ONE FRANCESE) – L’Europa deve ridurre la sua dipendenza dagli Stati Uniti ed evitare di essere trascinata in un confronto tra Cina e Stati Uniti su Taiwan, ha detto il presidente francese Emmanuel Macron in un’intervista sul suo aereo di ritorno da una visita di Stato di tre giorni in Cina.

Parlando con POLITICO e due giornalisti francesi dopo aver trascorso circa sei ore con il Presidente cinese Xi Jinping durante il suo viaggio, Macron ha sottolineato la sua teoria dell'”autonomia strategica” per l’Europa, presumibilmente guidata dalla Francia, per diventare una “terza superpotenza”.

Ha detto che “il grande rischio” che corre l’Europa è quello di “rimanere invischiata in crisi che non sono nostre, il che le impedisce di costruire la sua autonomia strategica”, mentre volava da Pechino a Guangzhou, nel sud della Cina, a bordo del COTAM Unité, l’Air Force One francese.

Xi Jinping e il Partito Comunista Cinese hanno appoggiato con entusiasmo il concetto di autonomia strategica di Macron e i funzionari cinesi vi fanno costantemente riferimento nei loro rapporti con i Paesi europei. I leader del partito e i teorici di Pechino sono convinti che l’Occidente sia in declino e la Cina in ascesa e che l’indebolimento delle relazioni transatlantiche contribuirà ad accelerare questa tendenza.

“Il paradosso sarebbe che, presi dal panico, crediamo di essere solo dei seguaci dell’America”, ha detto Macron nell’intervista. “La domanda a cui gli europei devono rispondere… è nel nostro interesse accelerare [una crisi] su Taiwan? No. La cosa peggiore sarebbe pensare che noi europei dobbiamo diventare dei seguaci su questo argomento e prendere spunto dall’agenda degli Stati Uniti e da una reazione eccessiva della Cina”, ha detto.

Poche ore dopo che il suo volo ha lasciato Guangzhou per tornare a Parigi, la Cina ha lanciato grandi esercitazioni militari intorno all’isola autogovernata di Taiwan, che la Cina rivendica come suo territorio ma che gli Stati Uniti hanno promesso di armare e difendere.

Le esercitazioni sono state una risposta al tour diplomatico di 10 giorni della presidente taiwanese Tsai Ing-Wen nei Paesi dell’America centrale, che ha incluso un incontro con il presidente repubblicano della Camera degli Stati Uniti Kevin McCarthy durante il suo transito in California. Persone che hanno familiarità con i pensieri di Macron hanno detto che egli era felice che Pechino avesse almeno aspettato che egli fosse fuori dallo spazio aereo cinese prima di lanciare l’esercitazione simulata di “accerchiamento di Taiwan”.

Pechino ha ripetutamente minacciato di invadere l’isola negli ultimi anni e ha una politica di isolamento dell’isola democratica, costringendo gli altri Paesi a riconoscerla come parte di “una sola Cina”.

Colloqui su Taiwan
Macron e Xi hanno discusso “intensamente” di Taiwan, secondo i funzionari francesi che accompagnano il presidente, che sembra aver adottato un approccio più conciliante rispetto agli Stati Uniti e persino all’Unione Europea.

“La stabilità nello Stretto di Taiwan è di fondamentale importanza”, ha dichiarato la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, che ha accompagnato Macron per parte della sua visita, a Xi durante il loro incontro a Pechino giovedì scorso. “La minaccia di usare la forza per cambiare lo status quo è inaccettabile”.

Il presidente cinese Xi Jinping e il presidente francese Emmanuel Macron a Guangdong il 7 aprile 2023 | Pool Photo by Jacques Witt / AFP via Getty Images
Xi ha risposto dicendo che chi pensa di poter influenzare Pechino su Taiwan è un illuso.

Macron sembra essere d’accordo con questa valutazione.

“Gli europei non sono in grado di risolvere la crisi in Ucraina; come possiamo dire in modo credibile su Taiwan: ‘attenzione, se fate qualcosa di sbagliato noi saremo lì’? Se si vuole davvero aumentare le tensioni, questo è il modo per farlo”, ha detto.

“L’Europa è più disposta ad accettare un mondo in cui la Cina diventa un egemone regionale”, ha affermato Yanmei Xie, analista di geopolitica presso Gavekal Dragonomics. “Alcuni dei suoi leader ritengono addirittura che un tale ordine mondiale possa essere più vantaggioso per l’Europa”.

Nell’incontro trilaterale con Macron e von der Leyen di giovedì scorso a Pechino, Xi Jinping è uscito dal copione solo su due argomenti – Ucraina e Taiwan – secondo quanto riferito da chi era presente nella sala.

“Xi era visibilmente infastidito per essere stato ritenuto responsabile del conflitto in Ucraina e ha minimizzato la sua recente visita a Mosca”, ha detto questa persona. “Era chiaramente infuriato per gli Stati Uniti e molto arrabbiato per Taiwan, per il transito del presidente taiwanese negli Stati Uniti e [per il fatto che] le questioni di politica estera venivano sollevate dagli europei”.

In questo incontro, Macron e la von der Leyen hanno assunto posizioni simili su Taiwan. Ma Macron ha successivamente trascorso più di quattro ore con il leader cinese, molte delle quali con la sola presenza di traduttori, e il suo tono è stato molto più conciliante di quello della von der Leyen quando ha parlato con i giornalisti.

Avvertimento ai “vassalli
Macron ha anche sostenuto che l’Europa ha aumentato la sua dipendenza dagli Stati Uniti per le armi e l’energia e deve ora concentrarsi sul potenziamento delle industrie di difesa europee.

Ha anche suggerito che l’Europa dovrebbe ridurre la sua dipendenza dalla “extraterritorialità del dollaro americano”, un obiettivo politico chiave sia di Mosca che di Pechino.

“Se le tensioni tra le due superpotenze si surriscaldano… non avremo né il tempo né le risorse per finanziare la nostra autonomia strategica e diventeremo dei vassalli”, ha dichiarato.

Negli ultimi anni, Russia, Cina, Iran e altri Paesi sono stati colpiti dalle sanzioni statunitensi, basate sulla negazione dell’accesso al sistema finanziario globale dominante, denominato in dollari. Alcuni in Europa si sono lamentati della “weaponization” del dollaro da parte di Washington, che costringe le aziende europee a rinunciare agli affari e a tagliare i legami con i Paesi terzi o ad affrontare sanzioni secondarie paralizzanti.

Seduto nella cabina del suo aereo A330 con una felpa con cappuccio con la scritta “French Tech” sul petto, Macron ha affermato di aver già “vinto la battaglia ideologica sull’autonomia strategica” dell’Europa.

Non ha affrontato la questione delle garanzie di sicurezza degli Stati Uniti per il Continente, che fa grande affidamento sull’assistenza alla difesa americana nel contesto della prima grande guerra terrestre in Europa dalla Seconda Guerra Mondiale.

Essendo uno dei cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e l’unica potenza nucleare dell’UE, la Francia si trova in una posizione unica dal punto di vista militare. Tuttavia, il Paese ha contribuito alla difesa dell’Ucraina dall’invasione russa in misura molto minore rispetto a molti altri Paesi.

Come accade spesso in Francia e in molti altri Paesi europei, l’ufficio del Presidente francese, noto come Palazzo dell’Eliseo, ha insistito per controllare e “correggere” tutte le citazioni del Presidente da pubblicare in questo articolo come condizione per concedere l’intervista. Questo viola gli standard editoriali e la politica di POLITICO, ma abbiamo accettato le condizioni per poter parlare direttamente con il presidente francese. POLITICO ha insistito sul fatto che non può ingannare i suoi lettori e non pubblicherà nulla che il Presidente non abbia detto. Le citazioni riportate in questo articolo sono state tutte effettivamente pronunciate dal Presidente, ma alcune parti dell’intervista in cui il Presidente ha parlato ancora più apertamente di Taiwan e dell’autonomia strategica dell’Europa sono state tagliate dall’Eliseo.

I falchi della Cina dicono a Macron: lei non parla per l’Europa
Il presidente francese scatena la bagarre con le sue dichiarazioni a POLITICO su Cina, Stati Uniti e Taiwan.

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Macron ha detto che l’Europa rischia di rimanere “invischiata in crisi che non sono nostre, il che le impedisce di costruire la sua autonomia strategica” | Foto della piscina di Ludovic Marin/AFP via Getty Images
DI NICOLAS CAMUT
11 APRILE 2023 9:43 AM CET

Un gruppo di legislatori scettici nei confronti della Cina provenienti da tutto il mondo ha criticato le “osservazioni mal giudicate” del presidente francese Emmanuel Macron su Taiwan, rilasciate in una recente intervista a POLITICO.

I commenti di Macron “non solo non tengono conto del ruolo vitale di Taiwan nell’economia globale, ma minano l’impegno decennale della comunità internazionale a mantenere la pace attraverso lo Stretto di Taiwan”, ha dichiarato lunedì l’Alleanza interparlamentare sulla Cina (IPAC) in un comunicato.

“Va sottolineato che le parole del presidente non sono affatto in linea con i sentimenti delle legislature europee e non solo”, si legge nella dichiarazione, firmata da legislatori, tra cui 15 deputati delle legislature nazionali dell’UE, tra cui uno del partito di Macron in Francia, oltre a tre eurodeputati e 13 parlamentari del Regno Unito.

La dichiarazione rileva che le osservazioni di Macron sono particolarmente inopportune, nel contesto delle esercitazioni militari in corso da parte delle forze armate cinesi nello Stretto di Taiwan.

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La notizia arriva dopo che la scorsa settimana, in un’intervista a POLITICO, il presidente francese ha suggerito che l’Europa non dovrebbe farsi trascinare in un confronto tra Stati Uniti e Cina su Taiwan.

Macron ha detto che “il grande rischio” che corre l’Europa è quello di “rimanere invischiata in crisi che non sono nostre, il che le impedisce di costruire la sua autonomia strategica”.

“La domanda a cui gli europei devono rispondere… è nel nostro interesse accelerare [una crisi] su Taiwan? No”, ha detto Macron.

“La cosa peggiore sarebbe pensare che noi europei dobbiamo diventare dei seguaci su questo argomento e prendere spunto dall’agenda degli Stati Uniti e da una reazione eccessiva della Cina”, ha aggiunto.

I commenti del presidente francese hanno scatenato una raffica di reazioni su entrambe le sponde dell’Atlantico.

Mike Gallagher, presidente repubblicano del Comitato ristretto della Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti sul Partito Comunista Cinese, li ha definiti “imbarazzanti” e “vergognosi”, mentre Norbert Röttgen, deputato cristiano-democratico tedesco ed ex capo della commissione Esteri del Bundestag, ha twittato che Macron è “riuscito a trasformare il suo viaggio in Cina in un colpo di Stato per le pubbliche relazioni [del presidente cinese Xi Jinping] e in un disastro di politica estera per l’Europa”.

L’IPAC è un gruppo di legislatori di 29 Paesi e del Parlamento europeo che mira a “lavorare per una riforma del modo in cui i Paesi democratici si approcciano alla Cina”, compreso lo “sviluppo di una risposta coerente alla [sua] ascesa”.

https://www.politico.eu/article/china-skeptic-mps-emmanuel-macron-speak-europe/

https://www.politico.eu/article/emmanuel-macron-china-america-pressure-interview/

I legislatori francesi visiteranno Taiwan, dice il ministro degli Esteri dell’isola
Il viaggio arriva dopo che Emmanuel Macron ha scatenato un putiferio dicendo che l’Europa dovrebbe evitare di “farsi coinvolgere in crisi che non sono nostre”.
I legislatori francesi visiteranno Taiwan, ha dichiarato lunedì il ministro degli Esteri dell’isola, mentre la Cina intensifica le esercitazioni militari intorno all’isola autogovernata.

Joseph Wu ha dichiarato che il Senato e l’Assemblea nazionale francese hanno mostrato sostegno a Taiwan e che i politici francesi si recheranno nella capitale “molto presto”, secondo quanto riportato da Bloomberg, che ha aggiunto che la delegazione dovrebbe viaggiare domenica.

Il governo di Taiwan “verificherà con loro di che tipo di supporto aggiuntivo abbiamo bisogno”, ha aggiunto Wu.

I suoi commenti fanno seguito alla visita del presidente francese Emmanuel Macron in Cina la scorsa settimana, durante la quale ha dichiarato a POLITICO che l’Europa dovrebbe evitare di farsi trascinare in un confronto tra Pechino e gli Stati Uniti su Taiwan. La Cina considera l’isola parte del suo territorio, una rivendicazione respinta da Taipei.

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“Il paradosso sarebbe che, presi dal panico, crediamo di essere solo dei seguaci dell’America”, ha detto Macron.

“La domanda a cui gli europei devono rispondere… è nel nostro interesse accelerare [una crisi] su Taiwan? No. La cosa peggiore sarebbe pensare che noi europei dobbiamo diventare dei seguaci su questo argomento e prendere spunto dall’agenda degli Stati Uniti e da una reazione eccessiva della Cina”, ha aggiunto Macron nell’intervista, in osservazioni che hanno scatenato una tempesta sui social media e la reazione del senatore repubblicano Marco Rubio.

Wu non ha specificato quali legislatori francesi si recheranno a Taipei e l’Assemblea nazionale e il Senato francesi non hanno risposto alla richiesta di commento di POLITICO.

Pechino ha appena completato tre giorni di esercitazioni militari vicino a Taiwan come ritorsione per l’incontro tra la presidente Tsai Ing-wen e il presidente della Camera degli Stati Uniti Kevin McCarthy, avvenuto mercoledì scorso in California.

Le esercitazioni – che Pechino ha definito un “severo avvertimento” – hanno visto la Cina praticare attacchi di precisione e bloccare l’isola. Taipei ha dichiarato che domenica circa 70 aerei cinesi hanno sorvolato Taiwan e sono state avvistate anche 11 navi.

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I commenti del presidente francese a POLITICO sulla necessità di non essere coinvolti in un conflitto tra Stati Uniti e Cina hanno irritato i cittadini dell’Est che sono favorevoli a legami più stretti con gli americani.

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Le reazioni riflettono le divisioni che da tempo serpeggiano in Europa su come difendersi al meglio | Ludovic Marin/AFP via Getty Images
DI JACOPO BARIGAZZI
11 APRILE 2023 19:58 CET

Smettetela di allontanare l’Europa dagli Stati Uniti, si sono detti sgomenti i funzionari dell’Europa centrale e orientale martedì, mentre i commenti del presidente francese Emmanuel Macron continuavano ad avere ripercussioni in tutto il continente.

Dopo una visita in Cina la scorsa settimana, Macron ha fatto sobbalzare gli alleati della metà orientale dell’UE, mettendo in guardia il continente dal farsi trascinare nella disputa tra Stati Uniti e Cina su Taiwan, l’isola autogovernata che Pechino rivendica come propria, e implorando i suoi vicini di evitare di diventare “vassalli” di Washington e Pechino.

I commenti hanno scosso i paesi vicini al confine orientale dell’UE, che storicamente hanno favorito legami più stretti con gli americani – soprattutto in materia di difesa – e hanno spinto per un approccio più morbido nei confronti di Pechino.

“Invece di costruire un’autonomia strategica dagli Stati Uniti, propongo un partenariato strategico con gli Stati Uniti”, ha dichiarato martedì il primo ministro polacco Mateusz Morawiecki, prima di partire per gli Stati Uniti per una visita di tre giorni.

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Di Giorgio Leali
In privato, i diplomatici sono stati ancora più franchi.

“Non riusciamo a capire la posizione di [Macron] sulle relazioni transatlantiche in questi tempi così difficili”, ha dichiarato un diplomatico di un Paese dell’Europa orientale che, come altri, ha parlato a condizione di anonimato per potersi esprimere liberamente. “Noi, come UE, dovremmo essere uniti. Purtroppo, questa visita e le osservazioni francesi che l’hanno seguita non sono d’aiuto”.

Le reazioni riflettono le divisioni che da tempo serpeggiano in Europa su come difendersi al meglio. Macron ha a lungo sostenuto la necessità che l’Europa diventi più autonoma dal punto di vista economico e militare – una spinta che molti nell’Europa centrale e orientale temono possa alienare il prezioso aiuto degli Stati Uniti nel tenere a bada la Russia, anche se sono favorevoli a rafforzare la capacità dell’UE di agire in modo indipendente.

“Nell’attuale mondo di cambiamenti geopolitici, e soprattutto di fronte alla guerra della Russia contro l’Ucraina, è ovvio che le democrazie devono collaborare più strettamente che mai”, ha dichiarato un altro diplomatico di alto livello dell’Europa orientale. “Dovremmo tutti ricordare la saggezza del primo ambasciatore americano in Francia, Benjamin Franklin, che ha giustamente osservato che o restiamo uniti o saremo impiccati separatamente”.

Macron, ha sbuffato un terzo alto diplomatico della stessa regione, ha fatto ancora una volta il libero professionista: “Non è la prima volta che Macron esprime opinioni che sono sue e non rappresentano la posizione dell’UE”.

Una polemica che si fa strada
Nella sua intervista, Macron ha toccato un argomento teso all’interno dell’Europa: come dovrebbe bilanciarsi rispetto alla lotta tra le superpotenze di Stati Uniti e Cina.

Il presidente francese ha incoraggiato l’Europa a tracciare la propria rotta, avvertendo che l’Europa corre un “grande rischio” se “si lascia coinvolgere in crisi che non sono nostre, il che le impedisce di costruire la propria autonomia strategica”.

Macron ha detto di volere che l’Europa diventi un “terzo polo” per controbilanciare la Cina e gli Stati Uniti nel lungo periodo | Foto in piscina di Jacques Witt/AFP via Getty Images
Si tratta di una posizione che ha molti aderenti in Europa e che si è fatta strada anche nella politica ufficiale dell’UE, in quanto i funzionari lavorano per garantire che le linee di approvvigionamento del continente non siano completamente vincolate alla Cina e ad altri paesi su tutto, dalle armi ai veicoli elettrici.

Macron ha detto che vuole che l’Europa diventi un “terzo polo” per controbilanciare la Cina e gli Stati Uniti nel lungo periodo. Un imminente conflitto tra l’Europa e Washington, ha sostenuto, metterebbe a rischio questo obiettivo.

Tuttavia, a est, i funzionari hanno lamentato il fatto che il leader francese stesse semplicemente trattando gli Stati Uniti e la Cina come se fossero essenzialmente la stessa cosa in un gioco di potere globale.

I commenti, ha detto il secondo diplomatico, sono stati “inopportuni e inappropriati per mettere sullo stesso piano Stati Uniti e Cina e suggerire che l’UE dovrebbe mantenere una distanza strategica da entrambi”.

Un diplomatico dell’Europa centrale ha liquidato la posizione di Macron come “piuttosto oltraggiosa”, mentre un altro funzionario della stessa regione l’ha definita un tentativo di “distrarre da altri problemi e mostrare che la Francia è più grande di quello che è” – un riferimento alle proteste che stanno sconvolgendo la Francia a causa delle riforme pensionistiche di Macron.

La frustrazione nell’Europa centrale e orientale deriva in parte dalla sensazione che il presidente francese non abbia mai chiarito chi sostituirà Washington in Europa – soprattutto se la Russia espanderà la sua guerra oltre l’Ucraina, ha dichiarato Kristi Raik, responsabile del programma di politica estera del Centro internazionale per la difesa e la sicurezza, un think tank dell’Estonia, un Paese di circa 1,3 milioni di persone che confina con la Russia.

Si tratta di un punto emotivo per la metà orientale dell’Europa, dove i ricordi dell’era sovietica persistono.

“Sentiamo Macron parlare di autonomia strategica europea e in qualche modo tacere completamente sulla questione, che è diventata così chiara in Ucraina, che la sicurezza e la difesa europea dipendono fortemente dagli Stati Uniti”, ha detto Raik.

Raik ha sottolineato, naturalmente, che i Paesi europei, in particolare la Germania, si stanno affannando per aggiornare le proprie forze armate. Anche la Francia si è impegnata a incrementare notevolmente i propri bilanci per la difesa.

Ma questi cambiamenti, ha avvertito, richiederanno “molto tempo”.

Se Macron “vuole dimostrare seriamente che mira davvero a un’Europa capace di difendersi”, ha sostenuto Raik, “dovrebbe anche dimostrare che la Francia è disposta a fare molto di più per difendere l’Europa nei confronti della Russia”.
La posta
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A BORDO DEL COTAM UNITÉ (AIR FORCE ONE FRANCESE) – L’Europa deve ridurre la sua dipendenza dagli Stati Uniti ed evitare di essere trascinata in un confronto tra Cina e Stati Uniti su Taiwan, ha detto il presidente francese Emmanuel Macron in un’intervista sul suo aereo di ritorno da una visita di Stato di tre giorni in Cina.

Parlando con POLITICO e due giornalisti francesi dopo aver trascorso circa sei ore con il Presidente cinese Xi Jinping durante il suo viaggio, Macron ha sottolineato la sua teoria dell'”autonomia strategica” per l’Europa, presumibilmente guidata dalla Francia, per diventare una “terza superpotenza”.

Ha detto che “il grande rischio” che corre l’Europa è quello di “rimanere invischiata in crisi che non sono nostre, il che le impedisce di costruire la sua autonomia strategica”, mentre volava da Pechino a Guangzhou, nel sud della Cina, a bordo del COTAM Unité, l’Air Force One francese.

Xi Jinping e il Partito Comunista Cinese hanno appoggiato con entusiasmo il concetto di autonomia strategica di Macron e i funzionari cinesi vi fanno costantemente riferimento nei loro rapporti con i Paesi europei. I leader del partito e i teorici di Pechino sono convinti che l’Occidente sia in declino e la Cina in ascesa e che l’indebolimento delle relazioni transatlantiche contribuirà ad accelerare questa tendenza.

“Il paradosso sarebbe che, presi dal panico, crediamo di essere solo dei seguaci dell’America”, ha detto Macron nell’intervista. “La domanda a cui gli europei devono rispondere… è nel nostro interesse accelerare [una crisi] su Taiwan? No. La cosa peggiore sarebbe pensare che noi europei dobbiamo diventare dei seguaci su questo argomento e prendere spunto dall’agenda degli Stati Uniti e da una reazione eccessiva della Cina”, ha detto.

Poche ore dopo che il suo volo ha lasciato Guangzhou per tornare a Parigi, la Cina ha lanciato grandi esercitazioni militari intorno all’isola autogovernata di Taiwan, che la Cina rivendica come suo territorio ma che gli Stati Uniti hanno promesso di armare e difendere.

Le esercitazioni sono state una risposta al tour diplomatico di 10 giorni della presidente taiwanese Tsai Ing-Wen nei Paesi dell’America centrale, che ha incluso un incontro con il presidente repubblicano della Camera degli Stati Uniti Kevin McCarthy durante il suo transito in California. Persone che hanno familiarità con i pensieri di Macron hanno detto che egli era felice che Pechino avesse almeno aspettato che egli fosse fuori dallo spazio aereo cinese prima di lanciare l’esercitazione simulata di “accerchiamento di Taiwan”.

Pechino ha ripetutamente minacciato di invadere l’isola negli ultimi anni e ha una politica di isolamento dell’isola democratica, costringendo gli altri Paesi a riconoscerla come parte di “una sola Cina”.

Colloqui su Taiwan
Macron e Xi hanno discusso “intensamente” di Taiwan, secondo i funzionari francesi che accompagnano il presidente, che sembra aver adottato un approccio più conciliante rispetto agli Stati Uniti e persino all’Unione Europea.

“La stabilità nello Stretto di Taiwan è di fondamentale importanza”, ha dichiarato la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, che ha accompagnato Macron per parte della sua visita, a Xi durante il loro incontro a Pechino giovedì scorso. “La minaccia di usare la forza per cambiare lo status quo è inaccettabile”.

Il presidente cinese Xi Jinping e il presidente francese Emmanuel Macron a Guangdong il 7 aprile 2023 | Pool Photo by Jacques Witt / AFP via Getty Images
Xi ha risposto dicendo che chi pensa di poter influenzare Pechino su Taiwan è un illuso.

Macron sembra essere d’accordo con questa valutazione.

“Gli europei non sono in grado di risolvere la crisi in Ucraina; come possiamo dire in modo credibile su Taiwan: ‘attenzione, se fate qualcosa di sbagliato noi saremo lì’? Se si vuole davvero aumentare le tensioni, questo è il modo per farlo”, ha detto.

“L’Europa è più disposta ad accettare un mondo in cui la Cina diventa un egemone regionale”, ha affermato Yanmei Xie, analista di geopolitica presso Gavekal Dragonomics. “Alcuni dei suoi leader ritengono addirittura che un tale ordine mondiale possa essere più vantaggioso per l’Europa”.

Nell’incontro trilaterale con Macron e von der Leyen di giovedì scorso a Pechino, Xi Jinping è uscito dal copione solo su due argomenti – Ucraina e Taiwan – secondo quanto riferito da chi era presente nella sala.

“Xi era visibilmente infastidito per essere stato ritenuto responsabile del conflitto in Ucraina e ha minimizzato la sua recente visita a Mosca”, ha detto questa persona. “Era chiaramente infuriato per gli Stati Uniti e molto arrabbiato per Taiwan, per il transito del presidente taiwanese negli Stati Uniti e [per il fatto che] le questioni di politica estera venivano sollevate dagli europei”.

In questo incontro, Macron e la von der Leyen hanno assunto posizioni simili su Taiwan. Ma Macron ha successivamente trascorso più di quattro ore con il leader cinese, molte delle quali con la sola presenza di traduttori, e il suo tono è stato molto più conciliante di quello della von der Leyen quando ha parlato con i giornalisti.

Avvertimento ai “vassalli
Macron ha anche sostenuto che l’Europa ha aumentato la sua dipendenza dagli Stati Uniti per le armi e l’energia e deve ora concentrarsi sul potenziamento delle industrie di difesa europee.

Ha anche suggerito che l’Europa dovrebbe ridurre la sua dipendenza dalla “extraterritorialità del dollaro americano”, un obiettivo politico chiave sia di Mosca che di Pechino.

Macron è da tempo un sostenitore dell’autonomia strategica dell’Europa | Ludovic Marin/AFP via Getty Images
“Se le tensioni tra le due superpotenze si surriscaldano… non avremo né il tempo né le risorse per finanziare la nostra autonomia strategica e diventeremo dei vassalli”, ha dichiarato.

Negli ultimi anni, Russia, Cina, Iran e altri Paesi sono stati colpiti dalle sanzioni statunitensi, basate sulla negazione dell’accesso al sistema finanziario globale dominante, denominato in dollari. Alcuni in Europa si sono lamentati della “weaponization” del dollaro da parte di Washington, che costringe le aziende europee a rinunciare agli affari e a tagliare i legami con i Paesi terzi o ad affrontare sanzioni secondarie paralizzanti.

Seduto nella cabina del suo aereo A330 con una felpa con cappuccio con la scritta “French Tech” sul petto, Macron ha affermato di aver già “vinto la battaglia ideologica sull’autonomia strategica” dell’Europa.

Non ha affrontato la questione delle garanzie di sicurezza degli Stati Uniti per il Continente, che fa grande affidamento sull’assistenza alla difesa americana nel contesto della prima grande guerra terrestre in Europa dalla Seconda Guerra Mondiale.

Essendo uno dei cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e l’unica potenza nucleare dell’UE, la Francia si trova in una posizione unica dal punto di vista militare. Tuttavia, il Paese ha contribuito alla difesa dell’Ucraina dall’invasione russa in misura molto minore rispetto a molti altri Paesi.

Come accade spesso in Francia e in molti altri Paesi europei, l’ufficio del Presidente francese, noto come Palazzo dell’Eliseo, ha insistito per controllare e “correggere” tutte le citazioni del Presidente da pubblicare in questo articolo come condizione per concedere l’intervista. Questo viola gli standard editoriali e la politica di POLITICO, ma abbiamo accettato le condizioni per poter parlare direttamente con il presidente francese. POLITICO ha insistito sul fatto che non può ingannare i suoi lettori e non pubblicherà nulla che il Presidente non abbia detto. Le citazioni riportate in questo articolo sono state tutte effettivamente pronunciate dal Presidente, ma alcune parti dell’intervista in cui il Presidente ha parlato ancora più apertamente di Taiwan e dell’autonomia strategica dell’Europa sono state tagliate dall’Eliseo.

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Conversazione

Norbert Röttgen
@n_roettgen
#Macron has managed to turn his China trip into a PR coup for Xi and a foreign policy disaster for Europe. With his idea of ​​🇪🇺 sovereignty, which he defines in terms of distance rather than partnership with the USA, he is increasingly isolating himself in Europe.
Lingua originale: inglese. Traduzione di.
#Macron è riuscito a trasformare il suo viaggio in Cina in un colpo di stato per Xi e in un disastro di politica estera per l’Europa. Con la sua idea di 🇪🇺 sovranità, che definisce in termini di distanza piuttosto che di partenariato con gli USA, si sta sempre più isolando in Europa.

La retorica di Macron sull’autonomia strategica dell’Europa è una conseguenza diretta del suo viaggio in Cina

ANDREW KORYBKO
10 APR 2023

È importante sottolineare la tempistica delle sue ultime parole, condivise dopo aver incontrato il presidente Xi per circa sei ore, secondo quanto riportato da Politico. Il leader cinese è chiaramente convinto che il suo omologo francese sia sincero nelle sue intenzioni, altrimenti non avrebbe dedicato così tanto del suo prezioso tempo, ricordando quanto sia impegnato a gestire tante altre questioni in tutto il mondo.

Domenica Politico ha pubblicato un articolo esclusivo che riporta la conversazione dei suoi giornalisti con il Presidente francese Macron durante la sua visita in Cina, durante la quale ha parlato con entusiasmo del suo obiettivo di rendere l’Europa un attore strategicamente autonomo nelle relazioni internazionali. A riprova delle sue intenzioni, ha criticato l’idea che l’Europa debba seguire l’esempio degli Stati Uniti nel provocare la Cina su Taiwan, cosa che ha suscitato una forte condanna da parte di molti commentatori americani in tutto il continente.

Essi hanno giustificato questa presa di posizione suggerendo che il Presidente Xi sia riuscito a convincerlo a cenare e cenare durante il suo viaggio a Pechino, dividendo così il leader francese e il Commissario europeo Von Der Leyen, quest’ultimo noto per essere un falco pro-USA e potenzialmente in grado di guidare la NATO. Per quanto riguarda la reazione della comunità degli Alt-Media (AMC) all’ultima retorica di Macron, essi l’hanno prevedibilmente respinta, convinti che la sua visita non servisse ad alcuno scopo pratico e non fosse altro che teatro.

In realtà, “il viaggio di Macron e Von Der Leyen in Cina ha avuto uno scopo molto pragmatico”. I due stavano valutando cosa sarebbe dovuto accadere perché la Cina oltrepassasse la “linea rossa” dell’UE armando la Russia, mentre la Cina voleva sapere se avrebbe oltrepassato la propria “linea rossa” sanzionandola se ciò fosse accaduto. Il leader francese sembra sinceramente preoccupato per lo scenario in cui gli Stati Uniti potrebbero esercitare pressioni sull’UE affinché si “sganci” dalla Cina in quel caso, mentre Von Der Leyen probabilmente vuole che ciò avvenga per promuovere gli obiettivi degli Stati Uniti.

A proposito di questi ultimi, gli Stati Uniti hanno interesse a rafforzare ulteriormente la loro egemonia, già riaffermata con successo, sull’Europa a scapito dell’autonomia strategica di quest’ultima, al fine di trasformare la loro “sfera d’influenza” sul Miliardo d’oro in un unico polo nell’ambito dell’imminente triforcazione delle relazioni internazionali. Gli strateghi statunitensi ritengono che questo sia l’unico modo in cui il loro Paese possa mantenere il maggior numero possibile di orpelli dell’unipolarismo di fronte agli sforzi congiunti dell’Intesa sino-russa di dare vita al multipolarismo.

Il direttore generale del Consiglio russo per gli affari internazionali (RIAC) Andrey Kortunov ha spiegato a lungo, alla fine dello scorso anno, nel suo articolo su “Una nuova coesione occidentale e un nuovo ordine mondiale”, che gli Stati Uniti hanno una probabilità piuttosto alta di riuscire almeno in parte in questo intento, che dovrebbe essere letto per intero da tutti gli scettici dell’AMC. Sarà quindi molto difficile per Macron realizzare il suo obiettivo di trasformare l’Europa in un attore strategicamente autonomo nelle relazioni internazionali.

Tuttavia, non si può negare il potente simbolismo delle sue ultime parole, che contraddicono le richieste degli Stati Uniti ai loro vassalli europei di seguire sempre la loro guida nella Nuova Guerra Fredda per “solidarietà” con le “democrazie simili” di fronte alle “minacce autoritarie” presumibilmente poste da Cina e Russia. Ciò rafforza l’osservazione che Macron è sincero in ciò che ha detto, anche se sta deliberatamente o illusoriamente negando quanto sia difficile per l’UE sfidare in modo significativo gli Stati Uniti su qualsiasi cosa.

È anche importante sottolineare la tempistica delle sue ultime parole, condivise dopo aver incontrato il presidente Xi per circa sei ore, secondo quanto riportato da Politico. Il leader cinese è chiaramente convinto che il suo omologo francese sia sincero nelle sue intenzioni, altrimenti non avrebbe dedicato così tanto del suo prezioso tempo, considerando quanto sia impegnato ad affrontare tante altre questioni in tutto il mondo. Ciò suggerisce che il Presidente Xi non sta dando per scontato il “disaccoppiamento” dalla Cina esercitato dagli Stati Uniti.

Una cosa è che il blocco si “sganci” dalla Russia sotto la pressione degli Stati Uniti e un’altra è che faccia lo stesso quando si tratta della Cina, che è il suo principale partner commerciale. Sarebbe uno svantaggio reciproco se ciò accadesse, ma l’UE ne soffrirebbe molto di più della Repubblica Popolare a causa della stabilità economico-finanziaria molto più precaria della prima. Con queste premesse, Macron ha voluto far sapere che la Francia cercherà almeno di opporsi a qualsiasi complotto statunitense se la Cina arma la Russia.

Tutto sommato, anche se potrebbe essere irrealistico aspettarsi che la Francia sfidi con successo gli Stati Uniti su questo tema, è disonesto minimizzare l’importanza simbolica dell’ultima retorica di Macron. Nel caso in cui l’imminente controffensiva di Kiev vacilli e quindi non spinga la Cina a sentirsi costretta ad armare la Russia come ultima risorsa per garantire preventivamente la propria sicurezza nazionale, c’è la possibilità che i presidenti Xi e Macron cerchino insieme di mediare un cessate il fuoco nella guerra per procura tra NATO e Russia.

Gli interessi di entrambi i Paesi verrebbero serviti da un’attenuazione del conflitto: quello della Cina di posizionarsi come superpotenza diplomatica e quello della Francia di dare una spinta alla prevista autonomia strategica dell’Europa. Inoltre, sarebbero anche in grado di scongiurare lo scenario peggiore del loro “disaccoppiamento”, pressato dagli Stati Uniti, che Washington potrebbe cercare di imporre a Bruxelles sfruttando il pretesto di rispondere al potenziale armamento della Russia da parte della Cina, che potrebbe verificarsi nelle condizioni sopra descritte.

Ci sono molte variabili al di fuori del controllo di entrambi che potrebbero annullare lo scenario migliore, ma gli osservatori non dovrebbero lasciarsi fuorviare dalle ultime insinuazioni dei media mainstream, secondo cui Macron si sarebbe “venduto” alla Cina, o dalle affermazioni dell’AMC, secondo cui sarebbe un impostore. Le ultime parole del leader francese sono sincere, soprattutto quelle simbolicamente significative sull’intenzione di resistere alle pressioni statunitensi su Taiwan, dimostrando così che le sei ore trascorse con il Presidente Xi sono state fruttuose.

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Il viaggio di Macron e Von Der Leyen in Cina ha avuto uno scopo molto pragmatico
ANDREW KORYBKO
8 APR

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L’UE voleva sapere cosa sarebbe successo perché la Cina superasse la “linea rossa” di Bruxelles armando la Russia, mentre la Cina voleva sapere se l’UE sarebbe stata disposta a superare la “linea rossa” di Pechino in quello scenario, sanzionandola in risposta. Entrambe le parti volevano anche esplorare fino a che punto l’altra si sarebbe spinta se si fosse sentita costretta dalle circostanze o sotto pressione da parte degli Stati Uniti, ergo un altro motivo per cui tutti hanno ritenuto abbastanza importante trovare il tempo per incontrarsi nei giorni scorsi.

Molti nella comunità dei media alternativi (AMC) hanno ignorato l’importanza del viaggio in Cina del presidente francese Macron e del commissario europeo Von Der Leyen, insinuando che il presidente Xi abbia sprecato il suo tempo prezioso incontrandoli per diversi giorni per nulla. In realtà, il loro viaggio ha avuto uno scopo pragmatico, in quanto ha permesso a ciascuna parte di parlare apertamente delle proprie preoccupazioni in questo momento cruciale della transizione sistemica globale, motivo per cui tutte le parti hanno trovato il tempo di incontrarsi a Pechino.

Se è vero che i due rappresentanti europei speravano di convincere la controparte cinese a vedere la guerra per procura tra NATO e Russia in Ucraina nel loro stesso modo, non è stata questa la ragione principale per cui tutti hanno trovato il tempo di uscire dai loro impegni la scorsa settimana. Ciò che li ha riuniti a Pechino è stato l’imminente punto di inflessione che si sta rapidamente avvicinando nel suddetto conflitto.

L’imminente controffensiva di Kiev sarà un momento di svolta. Da un lato, potrebbe riuscire a respingere la Russia verso i suoi confini precedenti al 2014, nel qual caso la Cina potrebbe sentirsi costretta ad armare Mosca come ultima risorsa per scongiurare preventivamente la possibilità di una sua sconfitta. Questo a sua volta spingerebbe gli Stati Uniti a fare pressione sull’UE affinché sanzioni la Repubblica Popolare, aumentando così le possibilità di un rapido disaccoppiamento, che danneggerebbe entrambi i loro interessi e farebbe avanzare quello degli Stati Uniti.

D’altra parte, però, la controffensiva di Kiev potrebbe alla fine non ottenere grandi risultati, come dimostra il rapporto del Washington Post di un mese fa sulla scarsa efficienza delle sue truppe. In questo scenario, la Russia potrebbe o sfruttare lo slancio per fare una grande breccia attraverso la linea di contatto e oltre, oppure incoraggiare seriamente Kiev ad accettare un cessate il fuoco. L’ultima possibilità sarebbe certamente sostenuta dalla Cina e molto probabilmente anche dalla Francia.

Considerando la grande posta in gioco strategica legata all’esito dell’imminente controffensiva di Kiev, che probabilmente porterà o a un disaccoppiamento Cina-UE secondo il primo scenario o alla mediazione congiunta di Cina e Francia per un cessate il fuoco secondo il secondo, aveva senso che si incontrassero tutti prima del tempo. Il vero motore degli eventi sono gli Stati Uniti, i loro partner polacchi dell’Europa centrale (che comprendono gli Stati baltici) e i loro procuratori a Kiev, il cui successo o la cui mancanza condizionerà il futuro dei legami Cina-UE.

Non è detto che le cose vadano per forza così, ma il fatto è che è improbabile che l’UE sia in grado di resistere efficacemente alle pressioni sanzionatorie degli Stati Uniti nel caso in cui la Cina si senta costretta ad armare la Russia come ultima risorsa, come è stato spiegato in precedenza. Sanno quanto sarebbe doloroso per le loro economie già in difficoltà, soprattutto perché questo scenario drammatico potrebbe spingerle oltre il limite di una vera e propria recessione, ma è proprio per questo che due dei loro massimi rappresentanti hanno voluto parlare con il Presidente Xi.

Anche lui ha voluto parlare con loro per chiarire che la Cina non ha ancora armato la Russia, ma forse anche per spiegare perché potrebbe sentirsi costretta a farlo in senso ipotetico, senza confermare direttamente questo piano di emergenza a causa della delicatezza della questione. In parole povere, l’UE voleva sapere cosa sarebbe dovuto accadere perché la Cina oltrepassasse la “linea rossa” di Bruxelles armando la Russia, mentre la Cina voleva sapere se l’UE sarebbe stata disposta ad oltrepassare la “linea rossa” di Pechino in quello scenario, sanzionandola in risposta.

Entrambe le parti volevano anche esplorare fino a che punto l’altra si sarebbe spinta se si fosse sentita costretta dalle circostanze o sotto pressione da parte degli Stati Uniti, ergo un altro motivo per cui tutti hanno ritenuto abbastanza importante trovare il tempo di incontrarsi nei giorni scorsi. Se i rappresentanti europei avessero avuto il solo scopo di fare propaganda al Presidente Xi per convincerlo a schierarsi dalla loro parte nella guerra per procura tra NATO e Russia, il viaggio non avrebbe avuto luogo.

I principali influencer dell’AMC hanno quindi sbagliato di grosso nel valutare lo scopo della visita della scorsa settimana, che non ha tenuto conto della ragione pragmatica per cui tutte e tre le parti hanno dato priorità all’incontro in questo momento specifico. Era importante che parlassero apertamente di come reagiranno ai due scenari più probabili che emergeranno dall’imminente controffensiva di Kiev, che li porterà a separarsi sotto la pressione degli Stati Uniti o a lavorare insieme per mediare un cessate il fuoco.

Nel periodo intermedio tra il loro incontro e qualsiasi di queste due traiettorie i loro legami siano spinti, tutte le parti hanno almeno avuto qualcosa di tangibile da mostrare con le dichiarazioni rilasciate da Macron e Von Der Leyen dopo i rispettivi incontri con il Presidente Xi. La TASS russa ha richiamato l’attenzione su tre punti salienti delle prime, riguardanti il sostegno a un ordine mondiale multipolare sancito dall’ONU, la pace in Ucraina basata sul diritto internazionale e la sovrapposizione su molte altre questioni.

Anche se i cinici potrebbero affermare che queste dichiarazioni hanno più simbolismo che sostanza, sono almeno qualcosa su cui tutte le parti possono basarsi nello scenario in cui la Cina non si senta costretta ad armare la Russia come ultima risorsa o l’UE resista in larga misura alle pressioni degli Stati Uniti per sanzionarla se ciò dovesse accadere. In ogni caso, il Presidente Xi non sprecherebbe il suo tempo prezioso inscenando un photo-op di più giorni solo per il gusto di rilasciare alcune dichiarazioni di circostanza, quindi si dovrebbe dare per scontato che l’intento della Cina sia sincero.

Questa intuizione scredita ulteriormente la conclusione troppo semplicistica dell’AMC, secondo cui l’intero viaggio è stato una gigantesca perdita di tempo per tutti e non ha portato a nulla di utile per le tre parti. Forse non si è riusciti a evitare la peggiore sequenza di eventi descritta in precedenza, ovvero il loro disaccoppiamento accelerato sotto la pressione degli Stati Uniti, ma l’intento era quello di discutere apertamente del futuro dei loro legami in quel contesto, nel tentativo di mitigare le conseguenze reciprocamente svantaggiose nel caso in cui ciò si verificasse.

https://korybko.substack.com/p/macron-and-von-der-leyens-trip-to?utm_source=post-email-title&publication_id=835783&post_id=113487519&isFreemail=true&utm_medium=email

Il “residuo secco” della visita di Macron in Cina
gilbertdoctorow Senza categoria 11 aprile 2023 54 minuti
A volte conviene trattenere il fuoco, lasciare che i leader del mainstream in Occidente, in Russia e altrove facciano prima un passo avanti con le loro valutazioni di eventi importanti come la visita di Macron in Cina la scorsa settimana, prima di esprimere un’opinione indipendente da diffondere attraverso i media alternativi. A questo proposito, sono lieto di aver beneficiato dei resoconti del Financial Times, del Figaro, di Le Monde e Les Echos, del sito web Politico.eu e dei programmi di informazione e analisi russi Sixty Minutes e Evening with Vladimir Solovyov prima di sedermi a scrivere su quello che definirei il “residuo secco” della visita congiunta di Macron in Cina della scorsa settimana in compagnia della Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen.

Ricordiamo che alla vigilia di questa visita il Financial Times, Euronews, la BBC e altri media occidentali mainstream hanno puntato l’attenzione su un solo aspetto dell’imminente vertice: quello che Macron e von der Leyen avrebbero detto al Presidente Xi. In poche parole, si trattava di esortare i cinesi ad esercitare pressioni sul Cremlino e a portare i russi al tavolo della pace alle condizioni di Kiev. La von der Leyen ha poi aggiunto, parlando con i giornalisti prima del viaggio, un altro punto: mettere in guardia i cinesi dall’inviare armi alla Russia per non incorrere in “conseguenze” nelle relazioni danneggiate con l’Unione Europea. Come breve coda alla copertura del FT prima della visita, ci è stato detto che c’era un certo numero di “leader d’affari” che viaggiavano con Macron, anche se non c’era alcuna indicazione su cosa, o cosa, avrebbero fatto.

La prima notizia emersa dai media mainstream al termine della visita di Macron e von der Leyen è stata che i cinesi hanno risposto in modo molto riservato ai consigli gratuiti dei visitatori europei. Si dice che Xi abbia sorriso educatamente in risposta alla richiesta di intervenire con i russi e quindi di partecipare più attivamente alla mediazione della pace. Prima di lasciare Pechino, la Von der Leyen ha dichiarato ai giornalisti che Xi aveva ascoltato il suo suggerimento di alzare il telefono e parlare con Zelensky. Ma, ha osservato, la risposta di Xi è stata che lo avrebbe fatto solo al momento opportuno.

Tuttavia, già il 7, il FT sembrava ammettere che la Cina avrebbe potuto avere un ruolo nel rapporto con i visitatori europei. Lo si legge in un articolo intitolato “Tè con Xi: Macron ha un tocco personale mentre la visita in Cina mette in evidenza le differenze nell’UE”. Si veda il seguente estratto:

Macron, che è stato accompagnato in Cina da decine di imprenditori francesi, è stato affiancato per una parte della sua visita di tre giorni dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, in un gesto di comunanza di intenti europei nei confronti di Pechino. Tuttavia, qualsiasi senso di unità è stato compromesso da accordi che hanno lusingato il leader francese con un banchetto, una parata militare e altri orpelli di una visita di Stato, mentre la von der Leyen è stata esclusa da molti dei sontuosi eventi.

Il significato pratico di tutto ciò è illustrato in una citazione di John Delury, esperto di Cina dell’Università Yonsei di Seul:

La strategia di Xi è: Macron viene con le mani tese e loro lo abbracciano; [von der Leyen] esprime la posizione europea più dura e loro cercano di metterla ai margini”, ha detto.

Nello stesso numero del 7 aprile del Financial Times, troviamo un articolo di opinione di Sylvie Kauffmann, direttore editoriale di Le Monde, dal titolo allettante: “L’Europa si sta orientando verso un nuovo rapporto con la Cina”. Il contributo più prezioso dell’articolo è forse costituito dai due paragrafi finali:

L’UE sta costruendo strumenti per proteggersi dalle interferenze straniere. Sta anche imparando a comportarsi come una potenza mondiale. Le parole dure di Von der Leyen e Macron a Pechino possono aver sorpreso la leadership cinese.

Tuttavia, Macron aveva con sé più di 50 amministratori delegati che viaggiavano con lui. E la Cina è il principale partner commerciale dell’UE. Una Cina più assertiva e un’Europa più assertiva stanno ora cercando di trovare un terreno comune in un mondo in cui le realtà geopolitiche si scontrano con gli interessi economici.

Naturalmente, nel corpo del suo articolo la Kauffmann non ci ha detto una parola su ciò che quei 50 CEO possono aver ottenuto in Cina o su quale terreno comune Cina e UE possono trovare. Tuttavia, come persona che ha seguito la Kauffmann nel tempo, penso che l’elegante vacuità della sua scrittura possa essere ciò che la rende così attraente per il FT oggi come lo era in passato per l’International Herald Tribune. Nel 2013, ho scritto una critica al suo articolo sull’IHT che portava un titolo che oggi sembra particolarmente piccante: “Come l’Europa può aiutare Kiev”. Le mie osservazioni iniziali dicevano tutto:

L’articolo di Kauffmann dimostra che la scrittrice parla per luoghi comuni e commette errori di fatto e di interpretazione che, data la sua posizione di prestigio nei media mainstream, pochi, se non nessuno, mettono in evidenza.

Per chi volesse approfondire la questione della pigrizia intellettuale della Kauffmann che spiega questa vacuità, rimando alla mia raccolta di saggi La Russia ha un futuro? (2015) pag. 91 e seguenti.

Quindi, il FT, una delle principali fonti di informazione economica per un pubblico globale, non ha fornito ai suoi lettori alcuna informazione sull’aspetto commerciale della visita della delegazione francese in Cina. Questo è straordinario, poiché gli amministratori delegati non si recano mai in visita di Stato dai loro presidenti per negoziare sul posto. Vengono a firmare contratti o lettere d’intenti preparati con largo anticipo dai dirigenti delle loro sedi centrali e dai country manager. Questo è lo scenario che ho visto più volte quando ho partecipato ai vertici russo-statunitensi durante la mia attività di consulente per i consigli di amministrazione di alcune grandi aziende internazionali. Pertanto, suppongo che i francesi abbiano fatto un ottimo lavoro per nascondere all’opinione pubblica gli affari che potrebbero aver concluso a Pechino, per evitare la censura degli altri 27 Stati membri dell’UE, molti dei quali sono sicuramente molto gelosi dei possibili successi francesi in questi tempi di sanzioni alla Russia e di minacce di sanzioni secondarie agli amici della Russia.

Tra poco darò un’occhiata all’interessante notizia che ieri ha scosso i commentatori dei media occidentali, e presumibilmente anche il loro pubblico: l’intervista che Emmanuel Macron ha rilasciato ai giornalisti di Politico.eu e Les Echos. Prima, però, desidero richiamare l’attenzione su come la televisione di Stato russa ha presentato la visita di Macron in Cina al suo pubblico nazionale. Dall’inizio alla fine.

La differenza sostanziale è che i principali talk show politici russi, Sixty Minutes e Evening with Vladimir Solovyov, che mescolano la presentazione di video tratti da media mainstream per lo più occidentali e i commenti di esperti, hanno dato la parola a sinologi professionisti. Tra questi spiccava Nikolai Nikolaevich Vavilov. Il trentottenne Vavilov si è imposto come un’autorità pronta a trasmettere al pubblico televisivo ciò che i cinesi comunicano sia a parole che con il linguaggio del corpo in riferimento alla cultura tradizionale del Regno di Mezzo. Persino il prepotente conduttore televisivo Solovyov ha taciuto e ha lasciato che fosse Vavilov a parlare.

Va detto che Vavilov si è laureato all’Università Statale di San Pietroburgo. Il suo sito web ci informa che nel corso di dieci anni ha studiato e lavorato in varie regioni della Cina. Già durante gli anni dell’università è stato inviato in Cina dal suo consigliere di facoltà per partecipare a uno scambio di studi da Stato a Stato. Dal 2008 al 2013 ha lavorato per aziende commerciali e manifatturiere russe in tre province cinesi. Dal 2013 al 2015 ha lavorato presso l’agenzia di informazione statale cinese Xinhua. È autore di due libri in lingua russa, Uncrowned kings of Red China (2016) e The Chinese Authorities (2021).

Cosa ha detto Vavilov alla televisione russa sulla visita di Macron? In primo luogo, in contrasto con i notiziari occidentali, ancor prima che Macron atterrasse a Pechino, Vavilov ha spiegato che i cinesi hanno permesso che il viaggio andasse avanti, nonostante le intenzioni pubblicamente dichiarate dai visitatori di fargli la predica, cosa profondamente offensiva e che fa riemergere amari ricordi della dominazione coloniale del XIX secolo, perché la Cina aveva i suoi piani per il risultato. Questi erano quelli di ricordare alla Francia i vantaggi economici del rimanere politicamente amichevole con Pechino e di bloccare importanti progetti con le principali società francesi che possono portare in Cina nuove importanti tecnologie.

Vavilov ha anche sottolineato che la conversazione telefonica pubblicizzata di Macron con Joe Biden prima di partire per Pechino lo ha fatto apparire come un burattino di Washington agli occhi dei suoi ospiti cinesi. La loro massima priorità sarebbe quella di rompere questo rapporto.

Nel corso della visita, Vavilov e altri hanno fornito dettagli rilevanti sulle diverse accoglienze riservate a Macron e alla von der Leyen. Abbiamo appreso con sorpresa che la von der Leyen non si è recata in Cina con il jet di Macron. È arrivata invece con un volo commerciale. All’arrivo, non è stato steso alcun tappeto rosso per lei, non c’erano guardie d’onore militari e alti funzionari cinesi ad accoglierla. Ha semplicemente ricevuto il trattamento standard dei VIP all’interno della sala arrivi. Quando Xi ha ricevuto Macron e la von der Leyen per un colloquio congiunto, i due erano seduti a un tavolo rotondo molto grande, a diversi metri di distanza l’uno dall’altro. Si trattava di una disposizione simile a quella che Vladimir Putin aveva adottato per i suoi incontri con Scholz e altri a Mosca durante l’apice della crisi del Covid. Tuttavia, la Cina si è lasciata Covid alle spalle e la particolare distanza dei posti a sedere all’incontro serviva a sottolineare la distanza politica delle parti, soprattutto quella della von der Leyen.

Nessun dettaglio era troppo piccolo per sfuggire ai commenti degli esperti russi. L’insolito colore blu del panno che copriva il tavolo della riunione sarebbe stato inteso sia come un riferimento allo sfondo blu della bandiera dell’Unione Europea, appesa al muro, sia come un riferimento a uno stato di lutto, dal momento che il blu è il tessuto legato alle bare dei defunti in Cina per la cerimonia di sepoltura.

Allo stesso tempo, va detto che i media russi non hanno detto una parola su eventuali accordi commerciali conclusi dalla delegazione francese. Il muro del silenzio su questa vicenda sembra essere stato davvero molto efficace.

La Von der Leyen ha ricevuto un’agenda molto scarna durante il suo soggiorno a Pechino. È stata esclusa dai grandi banchetti e dagli altri eventi principali della visita di Stato di Macron. Nulla di tutto ciò è sfuggito alla delegazione imprenditoriale o ai giornalisti francesi e stranieri che hanno seguito la visita. In breve, è stata ridimensionata.

La prova che la Cina aveva una propria agenda per la visita di Stato di Macron e che l’ha avuta ampiamente vinta, mentre l’agenda politica dei visitatori è fallita, è arrivata ieri con la pubblicazione di un’intervista che Emmanuel Macron ha rilasciato a Politico e Les Echos nel corso di due voli sull’Air Force One francese. Una tratta di volo è stata da Pechino a Guangzhou, nel sud della Cina. L’altra è stata sul volo di ritorno a Parigi.

Si veda: https//www.politico.eu/article/emmanuel-macron-china-america-pressure-interview/ e https://www.lesechos.fr/monde/enjeux-internationaux/emmanuel-macron-lautonomie-strategique-doit-etre-le-combat-de-leurope-1933493.

Confrontando le due pubblicazioni, l’articolo di Les Echos è più sostanzioso. Tuttavia, di seguito utilizzerò il testo inglese di Politico come materiale di base.

Data la preparazione anticipata a questo epilogo della visita, i media russi hanno preso con filosofia ciò che Macron ha detto ai giornalisti, mentre i media occidentali stanno ancora riverberando lo choc che Macron ha dato nell’incontro informale con i giornalisti.

L’Europa deve resistere alle pressioni per diventare “seguace dell’America”, dice Macron. Il ‘grande rischio’ che corre l’Europa è di rimanere ‘invischiata in crisi che non sono nostre’, dice il presidente francese in un’intervista”. Questo è il titolo e il sottotitolo che Politico ha assegnato alla sintesi dell’intervista.

Il sito cita più diffusamente Macron per quanto riguarda la “crisi” che ha in mente:

Il paradosso sarebbe che, presi dal panico, crediamo di essere solo dei seguaci dell’America. La domanda a cui gli europei devono rispondere… è nel nostro interesse accelerare [una crisi] su Taiwan? No. La cosa peggiore sarebbe pensare che noi europei dobbiamo diventare dei seguaci su questo argomento e prendere spunto dall’agenda degli Stati Uniti e da una reazione eccessiva della Cina…

In un’altra parte del testo, Politico ha riassunto alcuni punti chiave delle osservazioni di Macron che meritano di essere citati:

Macron ha anche sostenuto che l’Europa ha aumentato la sua dipendenza dagli Stati Uniti per le armi e l’energia e deve ora concentrarsi sul potenziamento delle industrie di difesa europee.

Ha anche suggerito che l’Europa dovrebbe ridurre la sua dipendenza dall'”extraterritorialità del dollaro americano”, un obiettivo politico chiave sia di Mosca che di Pechino.

Se le tensioni tra le due superpotenze si surriscaldano… non avremo né il tempo né le risorse per finanziare la nostra autonomia strategica e diventeremo dei vassalli”, ha dichiarato.

In un inciso per i lettori alla fine dell’articolo, Politico spiega che l’Eliseo aveva insistito sul diritto di “correggere” tutte le citazioni del presidente che avrebbe pubblicato come condizione per concedere l’intervista. L’Eliseo ha acconsentito, ma, come si legge qui: “Le citazioni riportate in questo articolo sono state tutte effettivamente pronunciate dal presidente, ma alcune parti dell’intervista in cui il presidente ha parlato ancora più francamente di Taiwan e dell’autonomia strategica dell’Europa sono state tagliate dall’Eliseo”.

Guardando l’articolo più esteso di Les Echos, richiamo l’attenzione sulle dichiarazioni piuttosto importanti attribuite a Macron per quanto riguarda l’autonomia strategica dell’Europa:

Il paradosso è che la presa americana sull’Europa è più forte che mai…

Abbiamo certamente aumentato la nostra dipendenza dagli Stati Uniti nel settore dell’energia, ma nella logica della diversificazione, perché eravamo troppo dipendenti dal gas russo. Oggi, il fatto è che dipendiamo di più dagli Stati Uniti, dal Qatar e da altri. Ma questa diversificazione era necessaria.

Per il resto, bisogna tenere conto degli effetti della riprogettazione. Per troppo tempo l’Europa non ha costruito l’autonomia strategica per la quale mi sono battuto. Ora la battaglia ideologica è stata vinta e i fondamenti sono stati fissati. C’è un prezzo da pagare per questo, ed è normale. È come per la reindustrializzazione francese: abbiamo vinto la battaglia ideologica, abbiamo fatto le riforme, sono dure, e cominciamo a vederne i risultati, ma allo stesso tempo stiamo pagando per la ceramica rotta di ciò che non abbiamo fatto per vent’anni. Questa è la politica! Bisogna mantenere la rotta.

A questo vorrei aggiungere un’altra citazione di Macron riportata da Les Echos che è rilevante per la discussione odierna:

Joe Biden è solo una versione più educata di Donald Trump?

È attaccato alla democrazia, ai principi fondamentali, alla logica internazionale; e conosce e ama l’Europa. Tutto questo è essenziale. D’altra parte, si inserisce nella logica bipartisan americana che definisce gli interessi americani come priorità numero 1 e la Cina come priorità numero 2. Questo va criticato? Questo va criticato? No, ma dobbiamo tenerne conto.

Ho inserito queste ampie citazioni perché ritengo che dimostrino come Emmanuel Macron abbia un’eccessiva intellettualizzazione dei processi politici. Nelle sue osservazioni ai giornalisti ha persino fatto un riferimento al pensatore marxista italiano Antonio Gramsci. Non c’è dubbio che la maggior parte di loro sia rimasta sconcertata.

Il punto è che Macron vive in un mondo parallelo. Le uova si rompono quando si fa una frittata è il suo punto di vista su come è stata approvata la riforma delle pensioni. Sembra essere altrettanto indifferente alla realtà oggettiva in ambito geopolitico. Non riesco a capire come possa dire che l’Europa potrebbe diventare un vassallo se questo o quello dovesse accadere, e non vedere lo status attuale dell’Europa come inequivocabilmente quello di un vassallo rispetto all’egemone statunitense. Questa ottusità deve essere trasferita nella sua valutazione delle relazioni con la Cina e nel modo in cui ha condotto le conversazioni con Xi tête-à-tête per quasi sei ore con la sola presenza di interpreti.

Macron si considera ovviamente un uomo del destino. Questo è stato palesemente chiaro già all’inizio del suo primo mandato, quando ha pronunciato il suo discorso a una sessione congiunta del Congresso e si è posto in linea con l’unico altro francese ad essere stato così onorato, il generale De Gaulle. La domanda è quale destino lo attende. Sarà la ghigliottina, in senso figurato?

Concludo questo esame del “residuo secco” della visita di Macron in Cina citando un articolo apparso sul Financial Times di oggi.

“Emmanuel Macron’s Taiwan remarks spark international backlash”, scritto dai giornalisti del FT a Parigi, Bruxelles e Washington. I passaggi chiave sono i seguenti:

Il presidente francese Emmanuel Macron è stato messo sotto tiro per aver detto che l’Europa dovrebbe prendere le distanze dalle crescenti tensioni tra Stati Uniti e Cina su Taiwan e forgiare la propria indipendenza strategica su tutto, dall’energia alla difesa.

Diplomatici e legislatori statunitensi e dell’Europa centrale e orientale hanno rimproverato a Macron di essere morbido nei confronti di Pechino e preoccupantemente critico nei confronti degli Stati Uniti, soprattutto se si considera che Washington è stato un convinto sostenitore dell’Europa nell’affrontare le conseguenze dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Gli analisti hanno trovato i commenti particolarmente inopportuni, dato che la Cina sta effettuando esercitazioni militari su larga scala nello stretto di Taiwan in risposta alla visita del presidente taiwanese negli Stati Uniti la scorsa settimana….

…il viaggio ha suscitato malessere in alcuni ambienti anche per il modo in cui il presidente francese è stato accompagnato da una grande delegazione di leader commerciali e per l’annuncio di un lucroso accordo in Cina da parte del produttore francese di jet Airbus.

Tutto ciò dimostra che, con o senza la copertura di avere al suo fianco il Presidente della Commissione europea, anche senza la divulgazione pubblica dei risultati ottenuti dalla delegazione imprenditoriale, Emmanuel Macron non è riuscito a evitare le critiche degli altri Stati membri dell’UE, guidati ovviamente dai Paesi baltici e dall’Europa dell’Est, per la sua visita di Stato in Cina più di quanto non sia riuscito a fare il Cancelliere Scholz lo scorso novembre, quando non ha preso alcuna precauzione per proteggere gli interessi commerciali della Germania durante l’incontro con Xi. Noto che l’accordo di Airbus era stato annunciato una settimana prima del viaggio, presumibilmente per evitare imbarazzi durante la visita stessa. L’accordo era incentrato sulla creazione di una seconda linea di produzione Airbus in Cina, raddoppiando la produzione esistente. Si presume che ci sia anche una lettera di intenti per l’acquisto di un certo numero di aeromobili Airbus da Tolosa.

©Gilbert Doctorow, 2023

https://gilbertdoctorow.com/2023/04/11/the-dry-residue-from-macrons-visit-to-china/

Dichiarazione congiunta tra la Repubblica francese e la Repubblica popolare cinese.

Pubblicata il 7 aprile 2023

Parte del dossier :

Visita di Stato in Cina.

Contenuto

1

Rafforzare il dialogo politico e promuovere la fiducia politica reciproca

2

Lavorare insieme per promuovere la sicurezza e la stabilità nel mondo

3

Promuovere gli scambi economici

4

Incrementare gli scambi umani e culturali

5

Rispondere congiuntamente alle sfide globali

Su invito del Presidente della Repubblica popolare cinese Xi Jinping, il Presidente della Repubblica francese Emmanuel Macron si è recato in visita di Stato nella Repubblica popolare cinese dal 5 al 7 aprile 2023. Alla vigilia del 60° anniversario dell’istituzione delle relazioni diplomatiche tra Cina e Francia, i due capi di Stato hanno ricordato le solide fondamenta delle relazioni tra i due Paesi e l’amicizia tra i due popoli. Hanno discusso approfonditamente i loro punti di vista sulle relazioni bilaterali, sulle relazioni UE-Cina e sulle principali questioni regionali e internazionali, decidendo di lanciare nuove prospettive per la cooperazione franco-cinese e di cercare un nuovo impulso per le relazioni UE-Cina, in linea con le dichiarazioni congiunte adottate il 9 gennaio 2018, il 25 marzo 2019 e il 6 novembre 2019.

 

Rafforzare il dialogo politico e promuovere la fiducia politica reciproca

  1. Francia e Cina manterranno incontri annuali tra i due capi di Stato.

 

  1. La Francia e la Cina sottolineano l’importanza degli scambi ad alto livello, del loro dialogo strategico, del loro dialogo economico e finanziario ad alto livello e del loro dialogo ad alto livello sugli scambi umani per promuovere lo sviluppo della loro cooperazione bilaterale e concordano di tenere una nuova sessione di questi dialoghi entro la fine dell’anno.

 

  1. La Francia e la Cina riaffermano la volontà di continuare a sviluppare il loro stretto e solido partenariato strategico globale sulla base del rispetto reciproco della loro sovranità, integrità territoriale e dei loro principali interessi.

 

  1. La Francia e la Cina convengono di approfondire gli scambi su questioni strategiche e, in particolare, di approfondire il dialogo tra il Teatro meridionale dell’Esercito Popolare di Liberazione cinese e il Comando delle Forze francesi nell’area Asia-Pacifico (ALPACI), al fine di rafforzare la comprensione reciproca delle questioni di sicurezza regionale e internazionale.

 

  1. La Cina, nell’anno del 20° anniversario dell’istituzione del partenariato strategico globale Cina-UE, ribadisce il suo impegno per lo sviluppo delle relazioni UE-Cina, incoraggia gli scambi ad alto livello per promuovere la convergenza di vedute su questioni strategiche, potenziare gli scambi umani, affrontare congiuntamente le sfide globali e promuovere la cooperazione economica in modo proattivo ed equilibrato. La Francia, in quanto Stato membro dell’Unione europea, condivide questi orientamenti e vi contribuirà.

 

  1. La Francia riafferma il suo impegno a favore della politica di una sola Cina.

 

Promuovere insieme la sicurezza e la stabilità nel mondo

  1. Francia e Cina, membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, collaborano per trovare soluzioni costruttive, basate sul diritto internazionale, alle sfide e alle minacce alla sicurezza e alla stabilità internazionali. Credono che le differenze e le controversie tra gli Stati debbano essere risolte pacificamente attraverso il dialogo e la consultazione. Cercano di rafforzare il sistema internazionale multilaterale sotto l’egida delle Nazioni Unite in un mondo multipolare.

 

  1. Francia e Cina ribadiscono la loro adesione alla Dichiarazione congiunta dei Capi di Stato e di Governo di Cina, Francia, Russia, Regno Unito e Stati Uniti (P5) del 3 gennaio 2022 per prevenire la guerra nucleare ed evitare la corsa agli armamenti. Come si legge nella dichiarazione, “una guerra nucleare non può essere vinta e non deve mai essere combattuta”. Entrambi i Paesi chiedono di astenersi da qualsiasi azione che possa aggravare il rischio di tensioni.

 

  1. I due Paesi intendono rafforzare il coordinamento e la cooperazione per preservare congiuntamente l’autorità e l’efficacia del regime di controllo degli armamenti e di non proliferazione e per far progredire il processo internazionale di controllo degli armamenti. La Francia e la Cina ribadiscono il loro impegno a promuovere in modo equilibrato i tre pilastri del Trattato di non proliferazione delle armi nucleari (TNP), ossia il disarmo nucleare, la non proliferazione nucleare e l’uso pacifico dell’energia nucleare, e a rafforzare costantemente l’universalità, l’autorità e l’efficacia del TNP.

 

  1. Entrambe le parti sostengono tutti gli sforzi per ripristinare la pace in Ucraina sulla base del diritto internazionale e degli scopi e principi della Carta delle Nazioni Unite.

 

  1. Entrambe le parti si oppongono agli attacchi armati contro le centrali nucleari e altri impianti nucleari pacifici, sostengono l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA) nei suoi sforzi per svolgere un ruolo costruttivo nella promozione della sicurezza degli impianti nucleari pacifici, compresa la garanzia della sicurezza dell’impianto di Zaporizhia.

 

  1. Entrambi i Paesi sottolineano l’importanza del rigoroso rispetto del diritto umanitario internazionale da parte di tutte le parti in conflitto. Chiedono in particolare la protezione delle donne e dei bambini, vittime del conflitto, e l’aumento degli aiuti umanitari nelle aree di conflitto, nonché la fornitura di un accesso sicuro, rapido e senza ostacoli per l’assistenza umanitaria in conformità con gli impegni internazionali.

 

  1. I due Paesi continueranno le loro consultazioni nel quadro del dialogo strategico franco-cinese.

 

  1. La conclusione del Piano d’azione congiunto globale sulla questione nucleare iraniana (JCPoA) nel 2015 è stato un importante risultato della diplomazia multilaterale. Francia e Cina ribadiscono il loro impegno a promuovere una soluzione politica e diplomatica sulla questione nucleare iraniana. Ribadiscono il loro impegno a lavorare per preservare il regime internazionale di non proliferazione nucleare e l’autorità e l’efficacia delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza. Ribadiscono il loro sostegno all’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica in questo contesto.

 

  1. Francia e Cina proseguiranno le strette consultazioni sulla penisola coreana.

 

  1. I due Paesi concordano di proseguire gli scambi attraverso il dialogo franco-cinese sulle questioni cibernetiche.

 

Promuovere gli scambi economici

  1. La Francia e la Cina si impegnano a garantire condizioni di concorrenza eque e non discriminatorie per le imprese, in particolare nei settori della cosmesi, dei prodotti agricoli e agroalimentari, della gestione del traffico aereo, della finanza (banche, assicurazioni, gestori patrimoniali), della sanità (attrezzature mediche, vaccini), dell’energia, degli investimenti e dello sviluppo sostenibile. A tal fine, i due Paesi si stanno adoperando per creare un ambiente favorevole alla cooperazione commerciale, per migliorare l’accesso delle imprese ai rispettivi mercati, per migliorare il contesto imprenditoriale e per garantire il rispetto dei diritti di proprietà intellettuale di tutte le imprese di entrambi i Paesi. Nel campo dell’economia digitale, compreso il 5G, la parte francese si impegna a continuare a trattare le richieste di licenza delle aziende cinesi in modo equo e non discriminatorio sulla base delle leggi e dei regolamenti, compresi quelli relativi alla sicurezza nazionale, di entrambi i Paesi.

 

  1. La Francia e la Cina intendono continuare a rafforzare la loro cooperazione pragmatica in tutte le aree del settore dei servizi e sostenere gli scambi economici e commerciali tra le istituzioni e le imprese di entrambi i Paesi sulla base del reciproco vantaggio, al fine di promuovere lo sviluppo del commercio dei servizi. La Francia è pronta ad accettare l’invito a partecipare alla Fiera internazionale dei servizi della Cina del 2024 (CIFTIS) come ospite d’onore.

 

  1. La Cina e la Francia desiderano intensificare il loro partenariato nei settori agricolo, agroalimentare, veterinario e fitosanitario. Accolgono con favore la garanzia di accesso al mercato per i prodotti a base di carne di maiale, l’apertura del mercato per il baby kiwi e per le proteine lattiero-casearie nell’alimentazione animale, nonché l’approvazione di 15 stabilimenti per l’esportazione di carne di maiale. Le autorità competenti di entrambi i Paesi risponderanno quanto prima alle future richieste di approvazione di aziende che esportano prodotti agricoli e agroalimentari, tra cui la carne e l’acquacoltura, alle richieste di registrazione di ricette a base di latte per lattanti, che soddisfano i requisiti delle rispettive leggi e regolamenti sulla sicurezza alimentare, nonché alle richieste di apertura del mercato presentate dalle rispettive autorità. Le due parti proseguiranno gli scambi e la cooperazione nei settori del bestiame da latte e del vino, nonché sulle indicazioni geografiche (IG), in particolare per la registrazione delle IG per i vini della Borgogna. La Francia sosterrà la richiesta della Cina di aderire all’Organizzazione Internazionale della Vigna e del Vino (OIV) il prima possibile, nonché l’organizzazione da parte della Cina di una conferenza internazionale sul settore vinicolo.

 

  1. 20. La Francia e la Cina accolgono con favore la conclusione di un accordo sulle condizioni generali che concretizza l’acquisto da parte di società cinesi di 160 aerei Airbus. Esamineranno a tempo debito le esigenze delle compagnie aeree cinesi, in particolare in termini di voli cargo e a lungo raggio, alla luce della ripresa e dello sviluppo del mercato dei trasporti e della flotta cinese. Entrambe le parti accolgono con favore il rafforzamento della cooperazione tra l’Agenzia europea per la sicurezza aerea (EASA) e l’Amministrazione dell’aviazione civile cinese (CAAC) e continueranno ad accelerare il processo di certificazione sulla base di standard di sicurezza internazionali reciprocamente riconosciuti, in particolare per quanto riguarda i programmi H175, Falcon 8X e Y12F. Accolgono con favore la conclusione di un accordo tra le compagnie di entrambi i Paesi sui carburanti sostenibili per aerei. Continuano inoltre a perseguire la cooperazione industriale, compreso il progetto della nuova linea di assemblaggio Airbus a Tianjin.

 

  1. 21. La Francia e la Cina sostengono il ripristino della connettività aerea al livello precedente alla pandemia il più presto possibile, in modo coordinato tra le autorità dell’aviazione civile e in vista di un ritorno all’applicazione dell’Accordo tra il Governo della Repubblica Popolare Cinese e il Governo della Repubblica Francese sul Trasporto Aereo, firmato il 1° giugno 1966, e dei relativi accordi sulla libertà aerea. Alle compagnie di entrambe le bandiere devono essere date eque e pari opportunità di operare voli tra i due Paesi. Essi sosterranno l’approfondimento degli scambi umani ed economici, compresa la facilitazione dei visti per il settore privato e la comunità imprenditoriale.

 

  1. Entrambe le parti accolgono con favore la cooperazione tra le istituzioni spaziali dei due Paesi sulla navicella Chang’e 6 e sugli studi congiunti di campioni extraterrestri.

 

  1. Nel desiderio comune di passare a un sistema energetico decarbonizzato, Francia e Cina stanno sviluppando una cooperazione pragmatica nel campo dell’energia nucleare civile nell’ambito dell’Accordo di cooperazione per gli usi pacifici dell’energia nucleare tra i due governi. I due Paesi sono impegnati a portare avanti la cooperazione nucleare su questioni di ricerca e sviluppo all’avanguardia, in particolare sulla base dell’accordo tra l’Autorità cinese per l’energia atomica (CAEA) e la Commissione francese per l’energia atomica (CEA). I due Paesi sostengono lo studio da parte delle aziende di entrambi i Paesi della possibilità di rafforzare la loro cooperazione industriale e tecnologica, in particolare sulla questione del ritrattamento delle scorie nucleari.

 

  1. La Cina e la Francia accolgono con favore i risultati raggiunti dall’accordo intergovernativo del 2015 sui partenariati nei mercati terzi. Entrambe le parti stanno lavorando al follow-up e all’attuazione dei progetti di cooperazione nei mercati terzi già individuati. Entrambi i governi incoraggiano le imprese, le istituzioni finanziarie e gli altri attori a esplorare nuovi progetti di cooperazione economica strutturata nei mercati terzi, sulla base degli elevati standard internazionali applicabili.

 

Potenziamento degli scambi umani e culturali

  1. 25. Preoccupate di promuovere la protezione e la valorizzazione della diversità delle espressioni culturali nel mondo, la Francia e la Cina sostengono l’approfondimento della loro cooperazione nel campo della creazione e della valorizzazione delle opere culturali e incoraggeranno una ripresa dinamica degli scambi e della cooperazione in campo culturale e turistico. I due Paesi accolgono con favore la conclusione di una dichiarazione d’intenti sulla cooperazione nel campo della cultura tra i due Ministeri della Cultura.

 

  1. Entrambe le parti co-organizzeranno l’Anno franco-cinese del turismo culturale nel 2024 e sosterranno l’organizzazione di eventi di alta qualità in Francia e in Cina, in particolare tra il Castello di Versailles e la Città Proibita e tra il Centre Pompidou e il West Bund Museum. Entrambe le parti si impegnano a facilitare la circolazione delle mostre nel rispetto delle leggi di entrambi i Paesi, in particolare per quanto riguarda gli aspetti doganali e logistici, e si adopereranno per garantire l’integrità e la restituzione delle opere esposte al pubblico nell’ambito delle mostre sostenute.

 

  1. Entrambe le parti riaffermano la volontà di rafforzare la cooperazione nel campo delle industrie culturali e creative e il loro potenziale di diffusione al più ampio pubblico possibile, in particolare nei settori della letteratura, del cinema, del documentario televisivo, dell’editoria (compresi i videogiochi), della musica, dell’architettura e delle tecnologie digitali attraverso coproduzioni, partenariati per i diritti d’autore, concorsi e scambi di artisti

 

  1. 28. La Francia e la Cina si impegnano a intensificare la loro cooperazione bilaterale nel campo della protezione, del restauro e della valorizzazione del patrimonio culturale. I due Paesi accolgono con favore la conclusione di una tabella di marcia sulla cooperazione in materia di patrimonio culturale, in particolare per quanto riguarda la presenza di esperti cinesi accanto a équipe francesi nel cantiere di restauro della Cattedrale di Notre-Dame a Parigi, la cooperazione per la protezione, il restauro e lo studio dell’esercito di terracotta, i progetti di cooperazione intorno al Tempio di Gongshutang e alla Tomba di Maoling e la promozione di gemellaggi tra siti francesi e cinesi del Patrimonio mondiale. I due Paesi proseguiranno gli sforzi congiunti per prevenire e combattere i furti, gli scavi clandestini, l’importazione e l’esportazione illecita di beni culturali. Ribadiscono il loro pieno sostegno alla Fondazione ALIPH per la protezione del patrimonio nelle zone di conflitto.

 

  1. La Francia e la Cina riaffermano l’importanza che attribuiscono alla cooperazione per l’insegnamento della lingua dell’altro, attraverso la quale si forgiano l’amicizia e la comprensione reciproche. Si adopereranno per rinnovare l’Accordo di cooperazione linguistica tra i due governi firmato nel giugno 2015, incoraggeranno lo sviluppo dell’insegnamento delle due lingue nelle scuole di entrambe le parti e la moltiplicazione dei corsi bilingui, e promuoveranno gli scambi e la formazione degli insegnanti di lingue.

 

  1. Francia e Cina ribadiscono il loro impegno a rafforzare la cooperazione nel campo dell’istruzione superiore e della formazione professionale. Incoraggeranno lo sviluppo di partenariati tra istituti di istruzione superiore, come gli istituti franco-cinesi, e promuoveranno insieme la ripresa reciproca della mobilità di studenti e insegnanti. Faciliteranno inoltre gli scambi tra scuole. A tal fine, le due parti istituiranno una procedura di visto agevolata per questi pubblici. Le due parti organizzeranno al più presto una nuova sessione della commissione mista franco-cinese sull’istruzione.

 

  1. I due Capi di Stato convengono che la prossima Commissione mista franco-cinese sulla scienza e la tecnologia si terrà al più presto per definire le principali linee guida della cooperazione scientifica bilaterale e del “Centro congiunto franco-cinese per la neutralità del carbonio”, destinato a promuovere la cooperazione scientifica e tecnologica nel campo della neutralità del carbonio. Francia e Cina intendono promuovere lo scambio di ricercatori, in particolare attraverso il programma di partenariato scientifico franco-cinese (partenariato Hubert Curien – Cai Yuanpei). Le due parti intendono inoltre proseguire l’attuazione del programma “Giovani talenti Francia-Cina” per rafforzare gli scambi tra i giovani ricercatori di entrambi i Paesi e promuovere la cooperazione nei settori prioritari e lo sviluppo di attività di ricerca congiunte.

 

  1. 32. In vista dei Giochi Olimpici e Paraolimpici di Parigi del 2024, i due Capi di Stato desiderano fare dello sport un elemento importante delle relazioni bilaterali, in particolare per quanto riguarda gli scambi di giovani sportivi, lo sviluppo di infrastrutture sportive e la condivisione di competenze nell’industria sportiva.

 

Affrontare insieme le sfide globali

  1. Nel contesto delle crisi alimentari che, secondo le Nazioni Unite, colpiranno 323 milioni di persone entro il 2022, entrambe le parti si impegnano a preservare la stabilità del mercato, a evitare restrizioni ingiustificate alle esportazioni di fattori di produzione e prodotti agricoli e a rendere più fluide le catene di approvvigionamento alimentare globali, a partire dalla facilitazione delle esportazioni di cereali e fertilizzanti. Entrambe le parti stanno lavorando per raggiungere questi obiettivi, anche attraverso l’iniziativa FARM (Food and Agriculture Resilience Mission) e la China Global Food Security Initiative.

 

  1. 34. Francia e Cina concordano sull’importanza di aumentare il sostegno ai Paesi più colpiti dalla crisi alimentare, compresi i partner africani, per costruire sistemi alimentari resilienti e sostenibili. A questo proposito, entrambe le parti intendono promuovere la cooperazione internazionale contro la perdita e lo spreco di cibo e per la produzione locale. A tal fine, forniranno un sostegno congiunto alle organizzazioni responsabili di affrontare il problema dell’insicurezza alimentare, in particolare l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO), il Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo (IFAD) e il Programma alimentare mondiale (PAM), nonché alle istituzioni finanziarie multilaterali e bilaterali e ai donatori.

 

  1. La Francia e la Cina sottolineano il loro sostegno al sistema commerciale multilaterale basato sulle regole e incentrato sull’OMC, si impegnano a costruire un ambiente commerciale e di investimento libero, aperto, trasparente, inclusivo e non discriminatorio, appoggiano la necessaria riforma dell’OMC e sostengono un esito positivo della 13a Conferenza ministeriale dell’OMC.

 

  1. 36. La Francia e la Cina intendono cooperare per affrontare le difficoltà di accesso ai finanziamenti nelle economie emergenti e in via di sviluppo e per incoraggiare un’accelerazione della loro transizione energetica e climatica, sostenendo al contempo il loro sviluppo sostenibile. La Cina parteciperà al Vertice per un nuovo accordo finanziario globale che si terrà a Parigi nel giugno 2023. La Francia parteciperà al terzo Forum “Belt and Road” per la cooperazione internazionale.

 

  1. I due Paesi concordano di rafforzare la cooperazione nell’ambito del G20, in modo che il G20 svolga il suo ruolo di forum principale per la cooperazione economica globale e lavori, in conformità con gli impegni assunti dai leader al Vertice di Bali, per far avanzare la riforma del sistema monetario e finanziario internazionale.

 

  1. 38. Francia e Cina sostengono l’attuazione del Quadro comune per l’alleggerimento del debito adottato dal G20 e dal Club di Parigi, a cui hanno aderito nel novembre 2020, in un contesto di fragilità dei Paesi in via di sviluppo. Entrambe le parti ribadiscono il loro impegno per un’attuazione tempestiva, prevedibile, ordinata e coordinata del Quadro comune e il loro sostegno all’agenda del debito adottata in occasione della riunione dei ministri delle Finanze e dei governatori delle banche centrali del G20 nel febbraio 2023.

 

  1. Entrambe le parti accolgono con favore l’approvazione da parte del Vertice del G20 di Bali degli impegni di allocazione volontaria dei Diritti Speciali di Prelievo (DSP) e invitano i membri del G20 e gli Stati disposti a incrementare la loro mobilitazione, con un aumento dello sforzo al 30% dei DSP mobilitati per i Paesi del G20, al fine di raggiungere rapidamente l’obiettivo di 100 miliardi di dollari adottato al Vertice del G20 di Roma.

 

  1. Il clima, la biodiversità e la lotta al degrado del territorio sono tra le priorità condivise da Francia e Cina. Entrambi i Paesi si impegnano a perseguire un elevato livello di ambizione in linea con l’Appello all’azione di Pechino lanciato nel novembre 2019 e nell’ambito della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC) e del suo Accordo di Parigi, nonché del Quadro globale sulla biodiversità di Kunming-Montreal (di seguito “Quadro di Kunming-Montreal”), la cui adozione nella seconda parte della Convenzione sulla diversità biologica (COP15) è accolta con favore da entrambe le parti. La Cina, assumendo la presidenza della COP15 per i prossimi due anni, intende collaborare attivamente con la Francia per la piena ed efficace attuazione del Quadro di Kunming-Montreal. Francia e Cina accolgono con favore il contributo attivo del Fondo di Kunming e dello strumento che verrà creato nell’ambito del Fondo mondiale per l’ambiente al finanziamento della biodiversità. Entrambi i Paesi accolgono con favore il lavoro presentato al One Forest Summit di Libreville.

 

  1. 41. La Francia e la Cina si impegnano a comunicare entro la COP16 le loro strategie nazionali riviste e i piani d’azione allineati al quadro globale sulla biodiversità. La Cina prenderà favorevolmente in considerazione l’adesione alla High Ambition Coalition for Nature and People. Entrambi i Paesi contribuiscono all’obiettivo di ridurre i sussidi che danneggiano la biodiversità di 500 miliardi di dollari all’anno.

 

  1. Francia e Cina riaffermano i rispettivi impegni di neutralità climatica.

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Sovranità, controllo industriale e transizione energetica (2), di Jean-Paul Bouttes

Siamo alla seconda parte dell’articolo di Jean-Paul Bouttes. Il ruolo dello Stato dovrà essere necessariamente determinante. Molto di più contano gli indirizzi concreti che lo Stato sceglie e in base ai quali si possono favorire o pregiudicare i destini di un paese. Richiamare il gaullismo, nell’attuale contesto e con le attuali figure politiche, pare pretestuoso e strumentale.

Articolo comunque interessante al netto della evidente rischiosa, avventata forzatura della scelta strategica compiuta dalla UE. Giuseppe Germinario

Sintesi

Le questioni energetiche sono una questione di prosperità e di sovranità dello Stato. Gli anni 1945-1990 in Francia illustrano come sia stato possibile esplorare nuove strade e impiegare rapidamente e su vasta scala tecnologie innovative adatte a queste sfide essenziali per il nostro Paese. Anche gli ultimi decenni in Cina e negli Stati Uniti dimostrano l’efficacia di questo metodo. Esso si basa sul ruolo fondamentale dello Stato nel padroneggiare le condizioni per il successo industriale e può consentire di rilanciare il settore e di riconquistare la potenza e la prosperità che gli sono proprie, a condizione che una visione politica sia condivisa dai vari attori. Nella prima parte di questo studio, Jean-Paul Bouttes ci riporta indietro nel tempo per svelare le caratteristiche principali del periodo che ha visto la Francia diventare pioniera nel campo dell’energia nucleare.

Nella seconda parte, l’autore allarga il discorso alla transizione energetica, basandosi su esempi esteri e più recenti di successo industriale, come i pannelli fotovoltaici in Cina o la versione americana (Advanced Research Projects Agency-Energy, ARPA-E) dei Programmes d’investissements d’avenir (PIA). Lo studio si conclude con la situazione francese, dove gli ultimi due decenni sono stati segnati da un declino delle nostre competenze industriali, in particolare nei nostri tradizionali punti di forza (nucleare, fossile, rete), dalle difficoltà di EDF, Areva, Framatome, Alstom e, cosa più preoccupante, dai fallimenti dei tentativi industriali nel fotovoltaico e nell’eolico onshore.

https://www.fondapol.org/etude/souverainete-maitrise-industrielle-et-transition-energetique-2/

Jean-Paul Bouttes,

ex direttore della strategia e delle previsioni e capo economista di EDF, ex docente di economia all’École Polytechnique.

Leggi anche

Copyright: William Beaucardet; PWP; CAPA Pictures
Fonte: EDF R&D Les Renardières, Dipartimento ENERBAT [foto ritoccata]. PVLab, laboratorio fotovoltaico, simulatore solare continuo per valutare le prestazioni dei pannelli solari.
https://www.fondapol.org/etude/souverainete-maitrise-industrielle-et-transition-energetique-2/216_nucleaire_ii_couv_fond/

Elenco delle abbreviazioni e degli acronimi utilizzati nel secondo volume

AIE: Agenzia internazionale per l’energia.
ARPA-E: Advanced Research Projects Agency-Energy.
ASN: Autorité de sûreté nucléaire (Autorità per la sicurezza nucleare).
BARDA: Autorità per la ricerca avanzata e lo sviluppo in campo biomedico.
BPA: Bonneville Power Authority.
BPI: Banque publique d’investissement (Banca pubblica d’investimento).
CCGT: turbina a gas a ciclo combinato.
CCS: cattura e stoccaggio del carbonio.
CEA: Commissariat à l’énergie atomique (Commissione per l’energia atomica).
CEGB: Central Electricity Board.
Cnes: Centre national d’études spatiales (Agenzia spaziale nazionale francese).
DARPA: Defense Advanced Research Project Agency.
DGA: Direction Générale de l’Armement (Direzione Generale degli Armamenti).
DOE: Dipartimento dell’Energia.
EDF: Électricité de France.
EJ: exajoule.
EOR: enhanced oil recovery.
EPR: reattore pressurizzato europeo.
ETI: entreprise de taille intermédiaire (impresa di dimensioni intermedie).
OCSE: Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico.
Onera: Office national d’études et de recherches aérospatiales (Agenzia nazionale di ricerca aerospaziale francese).
PIA: Piani per gli investimenti futuri.
PMI: Piccole e medie imprese.
PUC: Commissioni di pubblica utilità.
R&S: Ricerca e Sviluppo.
PWR: reattore ad acqua pressurizzata.
SMR: piccolo reattore modulare.
TVA: Tennessee Valley Authority.

Le sfide della transizione energetica per i prossimi tre decenni sono notevoli, in termini di necessità di innovazione tecnologica e di capacità di diffondere massicciamente in tutto il mondo sistemi energetici più sobri, più efficienti e, soprattutto, decarbonizzati grazie all’elettricità. La padronanza industriale di questi sistemi tecnici sarà quindi al centro delle prospettive di sviluppo delle varie regioni del mondo. Sia la Cina che gli Stati Uniti sembrano aver preso la misura della dimensione industriale di queste sfide, a differenza dell’Europa, in particolare della Francia, che è in contrasto con la sua storia recente. Questo articolo propone un’analisi delle ragioni del ritardo e delle vie d’uscita della Francia, ispirandosi agli approcci cinesi e americani e allo spirito che ha animato l’azione pubblica tra il 1945 e il 1975.

I
Parte
Il successo della transizione energetica: efficienza economica e sovranità

https://www.fondapol.org/etude/souverainete-maitrise-industrielle-et-transition-energetique-2/#chap-1
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1
Le sfide dei prossimi tre decenni: il ritorno della geopolitica, obiettivi climatici rafforzati con emissioni nette zero

Note
1. Cfr. Agenzia Internazionale dell’Energia (AIE), Net Zero by 2050, 2021; Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), Global Warming of 1.5°C, 2019, Climate Change 2022. Mitigazione del cambiamento climatico, 2022.
2. A maggior ragione se ci accontentiamo di obiettivi sempre più ambiziosi senza interrogarci sulle modalità credibili per raggiungerli e sulle condizioni di successo.
3. A patto che si riesca a portare a maturazione questo nuovo settore dell’idrogeno a basse emissioni di carbonio nei prossimi decenni.
Prendersi il tempo di guardare con attenzione al periodo storico 1945-1975 è davvero di grande interesse in un momento in cui dobbiamo intraprendere una transizione energetica ancora più ambiziosa e rapida su scala globale, in un contesto geopolitico ancora una volta permanentemente sensibile e conflittuale: Le sfide che dobbiamo affrontare in campo energetico sono infatti vicine a quelle dei decenni della ricostruzione e della modernizzazione, quando abbiamo dovuto trovare forme di azione collettiva che ci permettessero di inventare nuove tecnologie, portarle a maturazione e distribuirle su larga scala con efficienza, perseveranza e reattività.

Gli impegni per la riduzione delle emissioni di gas serra assunti alla COP21 di Parigi nel 2015 portano a obiettivi energetici particolarmente impegnativi, che rompono con le tendenze degli ultimi due decenni, tra cui l’obiettivo di raggiungere zero emissioni nette di CO2 (“emissioni nette zero”) entro il 2050-20601. La tabella di marcia è costituita da alcuni punti chiave che forniscono le indicazioni rilevanti, anche se sembra difficile, nella prospettiva odierna, rispettare le scadenze2.

Stabilizzare il consumo energetico mondiale entro il 2050

La stabilizzazione del consumo mondiale di energia può comportare una riduzione significativa di quello dei Paesi sviluppati e quindi disaccoppiare il consumo di energia dalla crescita del PIL attraverso un risparmio energetico molto significativo, che può essere ottenuto in particolare riducendo in modo significativo l’intensità energetica degli usi. Questi risparmi energetici possono essere ottenuti con l’impiego di tecnologie efficienti: pompe di calore, LED per l’illuminazione, processi industriali efficienti, abitazioni a basso consumo energetico. Ciò può comportare anche cambiamenti nei nostri comportamenti individuali e collettivi: sobrietà energetica attraverso cambiamenti nell’organizzazione della mobilità, del lavoro e dell’abitazione, in particolare l’equilibrio città/campagna e una nuova pianificazione territoriale. Il controllo industriale di queste nuove infrastrutture (città e abitazioni, trasporti, telecomunicazioni e telelavoro) e le tecnologie efficienti per l’uso dell’energia saranno quindi al centro del successo di queste misure.

Decarbonizzazione completa del mix elettrico

È essenziale decarbonizzare completamente il mix elettrico per gli usi attuali dell’elettricità, ma anche sostituire l’elettricità ai combustibili fossili negli edifici, nei trasporti e nell’industria, ove possibile, e produrre idrogeno3 utilizzando l’elettricità decarbonizzata per gli usi più difficili da elettrificare, come il trasporto a lunga distanza (aerei, trasporto marittimo internazionale) o alcuni processi industriali. Questa sostituzione dovrebbe portare a un aumento di due volte e mezzo della produzione e del consumo di elettricità a livello mondiale entro il 2050. Entro tale data, le centrali elettriche che utilizzano combustibili fossili dovrebbero essere chiuse (a meno che non siano dotate di cattura e stoccaggio della CO2), dovrebbe essere costruito un parco elettrico globale pari a circa tre volte l’attuale in termini di capacità installata, utilizzando tecnologie decarbonizzate (idroelettrico, pannelli fotovoltaici ed eolici, nucleare), e le reti di trasmissione e distribuzione dovrebbero essere sviluppate in modo coerente con l’ubicazione dei siti di produzione e dei nuovi usi dell’elettricità. Inoltre, dovrebbe essere assicurata una quota sufficiente di impianti di produzione e stoccaggio controllabili per garantire l’equilibrio tra domanda e offerta in tutti gli orizzonti temporali.

2
Il ruolo dello Stato: lungimiranza sistemica, controllo industriale e sovranità

Note
4. Cfr. Oliver E. Williamson, Markets and Hierarchies: Analysis and Antitrust Implications, The Free Press, 1975; Jean-Paul Bouttes, “Organisation du secteur électrique et déréglementation: quelques références théoriques” e “L’organisation des systèmes électriques: un premier état des lieux”, Economia delle fonti di energia e dell’ambiente, n. 36, 1988, pp. 81-110 e pp. 111-134; Jean-Paul Bouttes e Raymond Leban “Concurrence et réglementation dans les industries de réseau en Europe. Du cas général à celui de l’électricité”, Journal des économistes et des études humaines, vol. 6, n. 2-3, giugno-settembre 1995, pp. 413-448; Jean-Paul Bouttes e Jean-Michel Trochet, “La conception des règles des marchés de l’électricité ouverts à la concurrence”, Économie publique, études et recherches, n. 14, 2004; Jean-Paul Bouttes, “Sécurité d’approvisionnement et investissements dans l’électricité”, Revue de l’Energie, n. 566, luglio-agosto 2005.
5. Cfr. Jean-Paul Bouttes, Raymond Leban e Pierre Lederer, Organisation et régulation du secteur électrique : un voyage dans la complexité, Cerem, 1993; Thomas P. Hughes, Networks of Power. Electrification in Western Society 1880-1930, John Hopkins University Press, 1993; Jean-Paul Bouttes e François Dassa, Europe de l’électricité. Une perspective historique, Institut français des relations internationales (Ifri), novembre 2016.+
6. Per una prima versione degli scenari a “emissioni nette zero” nel settore elettrico per la Francia, si veda Réseau de transport d’électricité (RTE), Futurs énergétiques 2050, 2022.
7. Cfr. Agenzia Internazionale dell’Energia (AIE), rapporti World Energy Outlook, anni 2020, 2021 e 2022, e Net Zero by 2050. A Roadmap for the Global Energy Sector, 2021.
8. Con i loro “convertitori di energia”, occupano molto più spazio e mobilitano molto più materiale per unità di energia prodotta rispetto alle energie dense come il petrolio o il gas, o alle energie molto dense come il nucleare (cfr. Vaclav Smil, Power Density. A Key to Understanding Energy Sources and Uses, The MIT Press, 2016).+
9. Si veda lo scenario Announced Pledges Case (APC), in Net Zero by 2050…, op. cit.
Le tre ragioni principali della forte relazione tra elettricità e sovranità economica, e del ruolo di primo piano svolto dallo Stato in questo settore negli anni 1945-1975, si ritrovano nel nuovo contesto odierno. Come accade anche oggi e per i prossimi decenni, il settore elettrico appare allora come essenziale per la vita economica del Paese, per la sua potenza industriale e per la sicurezza dell’approvvigionamento energetico.

L’elettricità è un bene essenziale per l’economia e viene utilizzata massicciamente nelle case, nelle fabbriche e nei territori. Ha irrigato tutte le attività del Paese durante i Trente Glorieuses in Francia. La sua efficienza economica è stata un elemento chiave per la prosperità del Paese. Lo Stato svolge un ruolo essenziale nell’efficienza di questo settore per garantire la coerenza e il coordinamento degli investimenti nelle centrali elettriche, nelle reti e nello sviluppo degli usi. Questi richiedono anche notevoli investimenti da parte dei consumatori, il che rende necessari segnali di prezzo e tariffe che riflettano i costi di utilizzo a lungo termine. Gli equilibri tra domanda e offerta devono essere garantiti per tutti gli orizzonti temporali, compreso il breve termine, in tempo reale, per evitare il fenomeno del crollo della rete “come un castello di carte”. La “mano visibile” delle autorità pubbliche è quindi necessaria di fronte ai fallimenti del mercato costituiti dal “monopolio naturale” delle reti e dalle “esternalità di rete” tra le centrali, le reti e gli usi4.

La necessità di questo coordinamento statale è stata sempre più percepita dagli attori nel periodo tra le due guerre, con i primi passi significativi verso l’elettrificazione e l’interconnessione delle reti in Francia. Il periodo di crescita sostenuta e di investimenti che ha caratterizzato i decenni 1945-1975 ha reso ancora più rilevante l’organizzazione del settore decisa nel 1946 con la creazione di EDF, che riunisce tutte le società private di generazione e di rete. Il “modello industriale” dell’elettricità si è affermato nel periodo 1920-1960 nella maggior parte dei Paesi sviluppati con una grande diversità istituzionale, che riflette le diverse storie politiche, giuridiche ed economiche, ma anche secondo alcuni principi comuni: società di rete con un monopolio a livello di regione o di Paese, integrate verticalmente con la produzione, legalmente o tramite contratti a lungo termine, i cui investimenti e prezzi di vendita sono controllati dalle autorità pubbliche locali o nazionali5.

I prossimi tre decenni 2022-2050 dovrebbero essere ancora più impegnativi in termini di coordinamento degli investimenti nella produzione, nelle reti e negli usi: Gli scenari “emissioni nette zero” prevedono un’elettrificazione che dovrebbe passare dal 20% della domanda finale di energia a più del 50%, il che implica un forte aumento della produzione di energia elettrica in Francia, con mezzi di produzione decarbonizzati ad alta intensità di capitale come il nucleare, i pannelli fotovoltaici e le turbine eoliche, e un notevole sviluppo delle reti per accompagnare questi nuovi usi e queste nuove centrali, tanto più che la quota di energia intermittente, solare o eolica, sarà significativa6.

Possiamo aggiungere che questo requisito di coordinamento sarà dello stesso ordine per lo sviluppo di alcuni usi: Ad esempio, lo sviluppo dei veicoli elettrici dovrà essere coerente con quello delle infrastrutture di ricarica pubbliche e private e con il potenziamento a monte delle reti di distribuzione e di trasporto, il cui costo è almeno dello stesso ordine di grandezza di quello delle batterie dei veicoli elettrici; anche per lo sviluppo delle reti di idrogeno, come complemento dell’elettricità per alcuni usi difficilmente elettrificabili, sarà essenziale un coordinamento a lungo termine tra lo sviluppo di questi usi, gli elettrolizzatori, le reti di trasporto tecnicamente in grado di trasportare e distribuire l’idrogeno e i sistemi di stoccaggio dell’idrogeno.

Le autorità pubbliche dovranno quindi possedere competenze strategiche di previsione e pianificazione di questi sistemi elettrici ed energetici decarbonizzati, per poter alimentare i decisori politici e poi attuare queste decisioni a livello operativo, creando i giusti quadri istituzionali e inviando i giusti segnali di incentivo a tutti gli attori.

Anche il controllo industriale di queste tecnologie elettriche decarbonizzate è essenziale per la potenza industriale e la competitività del Paese. Si tratta di tecnologie avanzate, con significativi incrementi potenziali di produttività, e quindi di una fonte di crescita a lungo termine e di posti di lavoro qualificati, se non ci accontentiamo di servizi a basso valore aggiunto, ma produciamo i componenti industriali e le apparecchiature chiave con i relativi servizi a valore aggiunto (digitali e 4.0) nel Paese. È quindi una sfida importante ripristinare le prospettive di progresso economico e sociale in un momento in cui stiamo mettendo in discussione le leve della crescita a lungo termine con i dibattiti sulla stagnazione secolare e i vincoli che la necessità di proteggere gli ecosistemi e il nostro pianeta, nonché i rischi geopolitici, pongono oggi alle economie. Come abbiamo visto nella storia dell’energia nucleare, questo controllo industriale implica che non ci limitiamo alla funzione di ricerca e sviluppo (R&S) a monte, che è ovviamente essenziale, o al marketing e alle vendite a valle, ma che ci interessiamo ad avvicinare i laboratori e le fabbriche per l’innovazione di processo, al tessuto industriale, con in particolare i fattori di produzione, le macchine utensili e i materiali critici, e alla catena di approvvigionamento industriale nel suo complesso.

Anche in questo caso, anche se il discernimento è più delicato se si vuole evitare di fare cattiva “meccanica industriale”, lo Stato ha un ruolo importante da svolgere riguardo a queste “esternalità positive verticali e orizzontali” per facilitarle e verificare che siano ben attuate: dare la sua visione di lungo periodo, possibilmente coerente, fondata e robusta, dei bisogni del Paese; semplificare le normative e renderle coerenti; sviluppare le infrastrutture pubbliche e i relativi bandi di gara con le giuste forme contrattuali e in tempo utile. È necessario inventare, in modo pragmatico, politiche industriali adeguate alle nuove poste in gioco e rilevanti per accompagnare le imprese industriali così come gli enti locali e le iniziative territoriali.

L’elettricità, vettore energetico per eccellenza, è stata chiaramente il mezzo privilegiato per contribuire alla sicurezza dell’approvvigionamento energetico della Francia in un periodo dominato dai combustibili fossili, petrolio e carbone, di cui il Paese era privo. L’energia idroelettrica e l’elettricità nucleare hanno quindi contribuito a ridurre la nostra dipendenza energetica nella misura in cui il combustibile uranio o la fabbricazione di attrezzature chiave (in questi due settori) sono stati padroneggiati.

Nei prossimi anni, con l’elettrificazione della maggior parte degli usi, il sistema elettrico sarà ancora più essenziale per la sovranità e la resilienza del Paese di fronte ai rischi sistemici e geopolitici (come la guerra della Russia in Ucraina). Ma il fatto che la geopolitica del petrolio possa essere eliminata tra qualche decennio non significa che le questioni di sovranità scompariranno gradualmente. Al contrario, come spiega chiaramente l’Agenzia Internazionale dell’Energia (AIE)7 nelle sue recenti pubblicazioni, le fonti di preoccupazione sono destinate a moltiplicarsi.

Si prevede che il nostro approvvigionamento energetico ed elettrico si affidi sempre meno ai combustibili e sempre più alle tecnologie decarbonizzate ad alta intensità di capitale. La sicurezza dell’approvvigionamento che prima riguardava i combustibili fossili (petrolio, gas) dovrebbe quindi riguardare progressivamente le attrezzature e i materiali critici delle tecnologie a bassa emissione di CO2 come il nucleare, i pannelli fotovoltaici o le turbine eoliche, oltre a quelli associati alla rete elettrica. Inoltre, poiché l’energia solare ed eolica sono energie a bassissima densità8 , le quantità di materiali critici mobilitati (terre rare, cobalto, nichel, rame, ecc.) saranno considerevoli e richiederanno l’apertura di numerose miniere e impianti di lavorazione in tutto il mondo, il che richiederà tempo – da uno a due decenni – e anticipazioni.

I sistemi elettrici che saranno al centro del nostro approvvigionamento dipenderanno in larga misura da sistemi digitali, con un gran numero di programmi software essenziali per garantire l’equilibrio tra domanda e offerta. Il rischio di attacchi informatici sarà quindi anche al centro delle questioni di sovranità energetica e industriale. Va notato che più aumenta la quota di energie intermittenti nel mix elettrico, più il funzionamento a breve termine e in tempo reale del sistema dovrà fare affidamento sull’elettronica di potenza e su un’automazione sofisticata, nonché su strumenti di controllo digitali, il che implica che gran parte di questi strumenti tecnologici richiederà un’innovazione, la cui affidabilità dovrà essere dimostrata. Questa caratteristica costituisce anche una sfida per l’affidabilità degli equilibri tra domanda e offerta di energia elettrica, che potrebbe essere ridotta anche dal rischio di attacchi informatici.

L’esame dei diversi scenari al 2050 mostra una grande variabilità nei tassi di penetrazione delle tecnologie decarbonizzate, e quindi nei fabbisogni di petrolio e gas durante questo periodo di transizione. Questi ultimi dovrebbero dipendere anche dalla capacità di catturare la CO2 e, soprattutto, di trovare siti geologici affidabili per il suo stoccaggio. Se lo scenario “emissioni nette zero” dell’AIE per il 2021 prevede 20 milioni di barili/giorno nel 2050 (solo il 20% del consumo attuale), basterà fare un passo indietro9 per arrivare a 80 o 100 milioni di barili/giorno, cioè quanto oggi. Sapendo che dobbiamo costantemente investire in nuovi giacimenti (o in ampliamenti di quelli esistenti) per compensare il naturale esaurimento dei giacimenti (un calo del 3-4% all’anno), possiamo immaginare i rischi di sotto- o sovra-capacità, e quindi la volatilità dei prezzi nei prossimi decenni. Oggi ne stiamo purtroppo vivendo gli inizi con l’aumento dei prezzi del petrolio e del gas, che si è verificato anche prima della guerra della Russia in Ucraina, a causa della rapida ripresa della domanda mondiale dopo i forti cali dei primi due anni della pandemia e del fortissimo rallentamento degli investimenti degli ultimi anni (incertezza sulla velocità della transizione energetica, pandemia e bassa domanda, assenza di contratti a lungo termine non indicizzati al mercato spot).

Infine, la geopolitica dell’idrogeno potrebbe sostituire e/o integrare quella del petrolio e del gas. L’idrogeno non è una fonte di energia come il petrolio o il carbone, ma un vettore energetico come l’elettricità e quindi deve essere prodotto. Attualmente viene prodotto principalmente da combustibili fossili, gas, mediante steam reforming, e quindi emette molta CO2 (10 tonnellate di CO2 emesse per 1 tonnellata di idrogeno prodotto). L’idrogeno decarbonato può essere prodotto sia dall’elettrolisi dell’acqua utilizzando elettricità decarbonata (nucleare o rinnovabile), sia installando un sistema di cattura e stoccaggio della CO2 con il processo di steam reforming (a condizione che ne venga catturata un’alta percentuale, cosa non ovvia). Queste tecnologie sono ancora molto costose e la filiera dell’idrogeno decarbonizzato deve dimostrare di aver superato la fase dei dimostratori e di aver raggiunto la maturità economica per poter essere diffusa e integrare i sistemi elettrici decarbonizzati, che saranno comunque essenziali per avere idrogeno a bassa emissione di CO2. In questa transizione verso la maturità, uno dei fattori chiave, oltre a una drastica riduzione del costo degli elettrolizzatori, è rappresentato da un’elettricità decarbonizzata molto economica e abbondante.

La Germania, che conta su volumi considerevoli di idrogeno entro il 2040-2050, vista la rinuncia al nucleare, non sarà in grado di produrli in buone condizioni sul proprio territorio a causa della mancanza di quantità sufficienti di elettricità decarbonizzata, a causa dei vincoli di spazio per la costruzione di ulteriori pannelli solari o turbine eoliche (o per la realizzazione delle relative reti) e dei vincoli di costo dovuti al basso livello di insolazione del Paese. Si sta quindi valutando la possibilità di importare idrogeno su scala massiccia da aree più favorevoli in termini di bassi costi dell’elettricità (Nord Africa, Medio Oriente, Russia, ecc.), fatti salvi ovviamente i costi di trasporto dell’idrogeno su lunghe distanze. Sapendo che questo idrogeno sarà centrale, non solo per rifornire la loro industria, ma anche per far funzionare i mezzi di picco e semi-base essenziali per gli equilibri domanda-offerta del loro sistema elettrico basato principalmente su energie intermittenti, si possono misurare i rischi geopolitici assunti sui sistemi energetici ed elettrici, non solo tedeschi ma anche europei, tenendo conto delle interconnessioni tra i sistemi nazionali.

II
Parte
Strategie energetiche e ruolo dello Stato: gli esempi della Cina (pannelli fotovoltaici) e degli Stati Uniti (preparazione delle tecnologie future e ARPA-E)

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Negli ultimi decenni l’energia e l’elettricità sono state al centro di tre dimensioni importanti per lo sviluppo a lungo termine delle nostre società:

affrontare la sfida del cambiamento climatico;
trovare nuove fonti di crescita e di progresso;
conservare un margine di manovra in un mondo segnato dal ritorno della geopolitica e dai limiti della globalizzazione.
Mentre negli ultimi anni l’Europa e la Francia non hanno preso realmente le misure di questo nuovo contesto, grandi potenze come la Cina e gli Stati Uniti hanno iniziato ad attuare strategie di sovranità economica nel settore energetico, con i loro punti di forza e di debolezza. Sembra utile condividere alcuni elementi su questi due esempi che illustrano bene il modo in cui questi Stati si stanno mobilitando per sviluppare e attuare queste strategie, tenendo conto dei loro interessi a lungo termine, dei loro vantaggi comparativi e delle loro storie e tradizioni istituzionali molto diverse.

1
Cina

Note
10. Si veda il libro del suo ex leader, Zhenya Liu, Global Energy Interconnection, Academic Press, 2015.
11. Si veda International Energy Agency (IEA), Solar PV Global Supply Chains, 2022.
12. Ibidem, pag. 58 e segg.
13. Ibidem, pag. 106 e segg.
14. La diaspora scientifica cinese svolgerà un ruolo importante in questa ascesa di potere.
15. Hanno anche messo in funzione impianti AP1000, tecnologia americana di terza generazione, con prestazioni industriali molto migliori rispetto agli americani di Vogtle – costi di investimento da due a tre volte inferiori -, così come hanno fatto per la tecnologia francese.
La Cina, Paese del continente, ha un notevole fabbisogno energetico. Pur disponendo di scarse riserve di petrolio e di gas, possiede riserve di carbone, di cui è oggi di gran lunga il primo produttore e consumatore mondiale, ma con i principali difetti di questa energia legati alle elevate emissioni di CO2 e all’inquinamento locale (soprattutto quando il carbone viene utilizzato senza passare attraverso centrali elettriche dotate di sistemi di controllo dell’inquinamento da SOx, NOx e particolato). Negli ultimi due decenni ha quindi attuato una strategia di controllo industriale su larga scala, sia per il fabbisogno interno che per l’esportazione, di tutte le tecnologie di produzione prive di CO2: Pannelli fotovoltaici, energia nucleare, energia idraulica, turbine eoliche, cattura e stoccaggio di CO2 per le centrali a carbone, batterie, elettrolizzatori, ecc. Un’attenzione specifica è rivolta all’anello chiave delle reti di trasmissione (corrente continua e alternata, elettronica di potenza e relativo software di controllo), con in particolare una strategia di acquisizione di partecipazioni nelle reti elettriche di altri Paesi per controllare la funzione di acquisto ed esportare le attrezzature cinesi (linee ad altissima tensione per la trasmissione a lunga distanza). La grande società di rete pubblica State Grid svolge un ruolo importante grazie ai suoi forti legami con il tessuto industriale dei produttori cinesi10.

La Cina può far leva sulle sue competenze industriali di “produttore mondiale”, sulla presenza di molti materiali critici necessari nel suo sottosuolo e sulla capacità dello Stato di attuare politiche pubbliche coerenti. Il suo metodo articola una visione e una strategia chiare e sostenibili, poiché queste due dimensioni sono profondamente legate ai suoi interessi a lungo termine, con un’attuazione proattiva che si concentra su un’azione forte sugli ecosistemi industriali, sia a livello verticale, dalla funzione di R&S alla fabbrica, sia a livello orizzontale, dalla produzione di componenti chiave e macchine utensili agli input e ai materiali critici. La costruzione della sua posizione iper-dominante nel mondo nel settore fotovoltaico ne è un’eccellente illustrazione.

La storia recente dell’industria fotovoltaica

La radiazione solare è la fonte di energia con il potenziale maggiore e più sostenibile, ma è diffusa e non direttamente utilizzabile dall’uomo per esigenze concentrate e significative. Il collettore-convertitore di energia solare più promettente è il pannello fotovoltaico, che converte la radiazione solare in energia elettrica. Questa conversione sfrutta l’effetto fotoelettrico: i fotoni della luce solare, raggiungendo alcuni materiali che sono semiconduttori (oggi soprattutto il silicio monocristallino), provocano un movimento di elettroni nei loro atomi che può essere trasformato in una corrente elettrica. Questo principio, scoperto da Antoine Becquerel nel 1839 e spiegato da Albert Einstein solo nel 1905, fa riferimento alla fisica quantistica, scoperta all’inizio del XX secolo contemporaneamente alla radioattività. Solo negli anni ’60 sono state realizzate le prime costosissime realizzazioni, utilizzate per alimentare i satelliti. Solo negli anni ’80 e ’90 sono nati i pannelli fotovoltaici per l’uso stazionario in aree lontane dalle reti di interconnessione. Il fotovoltaico ha quindi molti punti in comune con il nucleare civile: sono entrambe fonti di energia con un forte potenziale sostenibile, l’una perché è l’energia di flusso più abbondante, l’altra per l’esistenza di riserve di uranio (235 e 238) e di torio che rappresentano un notevole volume di energia (data la loro estrema densità energetica, a differenza della radiazione solare). In entrambi i casi, sono necessari convertitori di energia ad altissima tecnologia, che sfruttano recenti scoperte scientifiche la cui maturità economica risale solo agli anni ’70-’80 per l’energia nucleare e agli anni ’10 per i pannelli fotovoltaici. Questi convertitori trasformano queste due fonti di energia in elettricità, aprendo così la più ampia gamma di utilizzi possibili.

L’industria di produzione dei pannelli fotovoltaici e i moduli che ne costituiscono il nucleo sono quindi un esempio molto importante e complementare delle condizioni per il successo industriale. L’energia nucleare beneficia di significative economie di dimensione che portano a impianti di produzione di grandi dimensioni e a grandi cantieri dove vengono assemblati i principali componenti dell’impianto. Da questo punto di vista, è rappresentativa di altri impianti come le centrali a gas o a carbone dotate di cattura e stoccaggio del carbonio (CCS) o le turbine eoliche offshore in ambienti marini difficili. I pannelli solari, invece, sono rappresentativi di un’apparecchiatura industriale ad alta tecnologia e su piccola scala, prodotta per lo più in fabbrica e in grandi quantità, con significative economie di scala nelle dimensioni delle fabbriche che producono il modulo e i suoi componenti; lo stesso vale per le batterie o gli elettrolizzatori.

La storia della padronanza industriale di questa tecnologia è rapida e recente: si gioca essenzialmente tra i primi pannelli fotovoltaici, molto costosi e di alta qualità, utilizzati sui satelliti nello spazio a partire dagli anni Sessanta, e lo spostamento di gran parte dell’industria in Cina e nel Sud-Est asiatico nell’ultimo decennio, che rende competitivi i pannelli solari “terrestri e stazionari” e apre la possibilità di uno sviluppo significativo nel mix elettrico globale (3% del mix oggi, una quota ancora modesta, ma con tassi di crescita annuali molto significativi).

Questa storia comprende tre grandi periodi, a partire dalle due crisi petrolifere, durante i quali i Paesi OCSE, soprattutto gli Stati Uniti ma anche Giappone, Germania e Francia, hanno avviato programmi di ricerca per passare dall’energia spaziale a quella terrestre. Questa prima fase, iniziata nel 1974, ha permesso, grazie a importanti innovazioni, di dividere i costi spaziali di un fattore superiore a quattro o cinque, per arrivare a livelli di prezzo di 500 dollari/MWh nei primi anni 2000. Si tratta di un prezzo ancora dieci volte troppo alto per le grandi reti interconnesse, ma abbastanza promettente da indurre diversi Paesi industrializzati a istituire programmi di sostegno per avviare la seconda fase, dal 2000 al 2010, in vista delle sfide a lungo termine del cambiamento climatico.

La Germania è stata la prima a farlo, seguita da Spagna, Italia e Francia. Le tariffe di alimentazione preferenziali saranno dell’ordine di 400-600 euro/MWh nel corso di questo decennio, innescando un aumento significativo della produzione di pannelli solari, con un conseguente volume considerevole di sussidi, soprattutto in Germania, che, complessivamente, ammonteranno a diverse centinaia di miliardi di euro. I costi totali di produzione dell’energia elettrica da ciclo combinato a gas o nucleare si aggirano infatti intorno ai 50 euro/MWh, cioè da otto a dieci volte più economici.

Questa prima ondata di industrializzazione, in particolare negli Stati Uniti, in Germania e in Giappone, ma anche in parte in Francia (Photowatt è uno dei pionieri del fotovoltaico), ha permesso una prima serie di innovazioni di processo nelle fabbriche nel decennio 2000-2010, che potenzialmente avrebbero potuto consentire una significativa riduzione dei costi. Tuttavia, la domanda massiccia e imprevista di alcuni fattori produttivi, in particolare il silicio cristallino, ha portato a notevoli aumenti dei prezzi: il fotovoltaico è diventato il principale utilizzatore di silicio prima dell’industria dei semiconduttori, con un conseguente aumento dei prezzi del silicio cristallino di un fattore compreso tra 5 e 10. Questo episodio illustra la necessità di prestare attenzione ai costi dei materiali critici e dei collegamenti chiave. Di conseguenza, fino alla fine degli anni 2000 si sono osservate solo modeste diminuzioni dei prezzi dei pannelli.

Alla fine degli anni Duemila, l’istituzionalizzazione a lungo termine del sostegno all’energia solare in Europa e negli Stati Uniti e l’intensità della concorrenza tra gli operatori hanno indotto i produttori a delocalizzare la produzione in luoghi dove potevano trovare condizioni e competenze favorevoli. La Cina, che si è preparata per questo, coglierà l’opportunità. L’inizio della terza fase è previsto per il 2010. Si tratta di uno spostamento dell’industria verso la Cina (e il Sud-Est asiatico), con la stabilizzazione del mercato del silicio a livelli di prezzo bassi. I costi scenderanno poi molto rapidamente grazie soprattutto all’efficienza industriale della Cina: i costi di produzione dei moduli si quintuplicheranno tra il 2010 e il 2022 e il costo di produzione del silicio cristallino si quintuplicherà rispetto al 2010 a partire dal 2015, con un forte aumento della capacità cinese anche in questo segmento11. Questo è l’elemento strutturale che spiega perché i livelli di prezzo dell’elettricità prodotta dai pannelli sono ormai vicini alla competitività in alcuni sistemi elettrici, per le fattorie a terra, senza considerare i costi legati all’intermittenza, tenendo conto che i costi dei tetti devono essere moltiplicati per due o tre per le abitazioni residenziali.

La strategia cinese di controllo industriale

I risultati ottenuti dall’industria cinese nell’ultimo decennio in termini di riduzione dei costi e di quota di mercato globale nell’intera catena del valore del fotovoltaico sono impressionanti. I costi sono stati ridotti di almeno 5 volte, consentendo al fotovoltaico di essere oggi economicamente maturo nello spazio tecnologico. La quota di mercato globale della Cina è superiore all’80% in tutti i settori: produzione di silicio cristallino, lingotti, wafer, celle e moduli. La maggior parte del restante 20% è prodotto nel Sud-Est asiatico da operatori cinesi per aggirare i dazi doganali sulle apparecchiature prodotte in territorio cinese. L’Europa importa l’84% dei suoi moduli dalla Cina e il 60-80% dei moduli prodotti altrove dipende da celle importate dalla Cina. Una serie di incidenti (esplosioni o altro) nel 2020 in quattro mega-fabbriche cinesi di silicio cristallino (una delle quali produce l’8% della domanda) ha portato a un calo del 4% della produzione globale annuale e a una triplicazione dei prezzi tra il 2020 e il 2021.12 Una parte significativa della produzione cinese di silicio cristallino sarà importata dalla Cina.

Una parte significativa della produzione di apparecchiature si trova in un piccolo numero di province cinesi, in particolare nello Xinjiang (la regione degli Uiguri), che produce oltre il 40% del silicio cristallino cinese, una produzione che richiede molta elettricità a basso costo. Questo grazie all’abbondanza di carbone del territorio. Lo Xinjiang possiede anche molte risorse naturali, petrolio, gas, vento, materiali. La Cina dispone di elettricità a basso costo, soprattutto grazie al carbone nazionale, che viene utilizzato dall’industria dei pannelli fotovoltaici. L’elettricità è infatti un input importante per la produzione dei pannelli, insieme a molti beni intermedi come il vetro, i prodotti chimici e molti materiali come l’argento. La Cina ha un tessuto industriale completo che produce questi beni intermedi in modo particolarmente efficiente, a differenza della Francia e di altri Paesi europei che hanno perso alcune delle loro industrie. La Cina produce anche la maggior parte delle materie prime e/o la loro raffinazione necessarie all’industria dei pannelli solari: alluminio, antimonio, cadmio, molibdeno, tellurio, stagno, zinco, rame e raffinazione dell’indio.

Questa strategia cinese è innanzitutto una strategia a lungo termine, attuata per tempo, che le ha permesso di superare le tre fasi chiave descritte nell’esempio del programma nucleare francese13. Negli anni ’90, l’industria cinese stava guadagnando slancio nei settori della chimica, dei semiconduttori e dell’elettronica rilevanti per il solare e le università cinesi, come l’Accademia delle Scienze, stavano investendo nella scienza legata a questi temi14. All’inizio degli anni 2000, il governo cinese ha scelto il solare come industria chiave per la sua economia e le sue esportazioni, in vista dei primi significativi programmi di sostegno economico in Europa e negli Stati Uniti. Questa decisione si traduce concretamente in obiettivi per la produzione di celle e moduli nel 10° Piano quinquennale 2001-2005 e per la produzione di polisilicio cristallino e delle necessarie macchine utensili nell’11° Piano quinquennale 2006-2010, partendo dall’iniziale dipendenza del 95% della Cina dalle importazioni di silicio cristallino. L’obiettivo è poi chiaramente quello di sviluppare le esportazioni verso Europa, Stati Uniti e Giappone. L’Accademia delle Scienze, le principali università cinesi, la Commissione Nazionale per lo Sviluppo e le Riforme (NDRC), sotto l’autorità del Consiglio di Stato presieduto dal Primo Ministro, e il Ministero della Scienza e della Tecnologia si stanno coordinando sotto l’egida del governo, con l’aiuto di consulenti statali che sono grandi ingegneri e scienziati ben integrati nelle reti internazionali, L’obiettivo era quello di mettersi al passo con le migliori innovazioni tecniche di europei, americani e giapponesi, leader in questo campo, per perfezionarle e utilizzarle in fabbriche più grandi e di migliore qualità (“camere bianche” per la produzione ad alta tecnologia). Questo decennio di aggiornamento scientifico, di “dimostratori industriali” e di risalita nella catena del valore consentirà loro di raggiungere quote di mercato del 20-30% nel 2010 e di essere pronti a passare alla fase di diffusione massiccia su larga scala negli anni 2010-2020.

Questa massiccia diffusione è legata principalmente al boom di obiettivi e sussidi in Europa nel 2010-2013 (a seguito dei primi piani clima-energia) e alla decuplicazione delle prospettive di esportazione verso l’OCSE, ma anche la Cina fisserà obiettivi di penetrazione del solare nel mix elettrico cinese nell’ambito delle sue prime politiche climatiche. Lo sviluppo del mercato interno consentirà alla Cina di attutire gli effetti di stop-and-go delle politiche occidentali e di procedere al contempo verso la limitazione delle sue (ancora modeste) emissioni di CO2.

Il periodo 2010-2022 è quello che, dopo l’accumulo di competenze scientifiche e industriali, prototipi e dimostratori, farà la differenza con i leader tedeschi, giapponesi o americani. La Cina dimezzerà o triplicherà i costi di produzione dei componenti della catena del valore rispetto a quelli dei leader tedeschi, giapponesi o americani e garantirà all’industria cinese la fornitura di materiali e input critici. Questa strategia industriale, che combina efficienza economica e sovranità, può essere attuata nel caso del fotovoltaico impostando le seguenti azioni

Visibilità a lungo termine data dalla politica agli attori industriali, alle province e alle autorità locali, con, oltre alla coerenza delle regole del gioco nel tempo (volume e livello dei contratti a lungo termine o delle tariffe di alimentazione, tariffe doganali, bandi di gara pubblici, collegamento con le reti, ecc.), un sostegno mirato all’industria in caso di calo delle esportazioni;
incoraggiare lo sviluppo di gigafabbriche per sfruttare le economie di scala e gli effetti di apprendimento;
coordinamento degli industriali privati e dei laboratori scientifici per trovare e diffondere innovazioni incrementali nei processi (fili di diamante per tagliare i wafer nel 2018), e per stare un passo avanti rispetto ai costi di produzione;
sostegno al tessuto industriale e a un ecosistema industriale di qualità in grado di produrre input chiave a costi competitivi (vetro, acciaio, chimica, polimeri) inferiori del 10-30% rispetto ai nostri;
un passaggio a monte della catena del valore nella produzione di macchine utensili negli stabilimenti di produzione e assemblaggio di componenti chiave (al posto dei tedeschi);
produzione e fornitura di materiali critici.
Per un’attuazione efficace, vi sono due aspetti strutturanti:

una forte azione sugli ecosistemi industriali, sia a livello verticale, avvicinando la funzione di R&S alle fabbriche, sia a livello orizzontale, assicurando la produzione in Cina di tutti i fattori di produzione e degli anelli chiave delle catene del valore, nonché sviluppando le competenze e le professioni chiave (come hanno fatto la CEA e l’EDF per l’energia nucleare dal 1950 al 1990);
una forte coerenza a lungo termine delle varie politiche pubbliche che inquadrano il funzionamento di questo settore e consentono iniziative locali e private.
La strategia cinese non è priva di interrogativi. È deliberatamente orientata alle esportazioni e crea un’eccessiva dipendenza dalla maggior parte dei Paesi per i beni strumentali strategici.

Il fabbisogno cinese di pannelli fotovoltaici rappresenta solo il 30-35% della domanda mondiale, che la Cina attualmente soddisfa all’80-90%, con una sovraccapacità di un fattore 2 in molti settori (ad eccezione dell’attuale silicio cristallino, ma i programmi di investimento dovrebbero sviluppare questa produzione nel breve-medio termine). L’introduzione di barriere doganali per proteggersi e il ricorso a sussidi per superare i momenti di difficoltà sono chiaramente troppo sistematici per essere accettabili e potrebbero rivelarsi pericolosi, anche per gli equilibri commerciali e per la stessa Cina, se dovessero continuare e generalizzarsi a batterie, elettrolizzatori, energia nucleare o reti, come sembra stia accadendo gradualmente.

È inoltre evidente che parte del vantaggio competitivo è dovuto a norme ambientali meno restrittive in Cina rispetto all’Europa (emissioni di CO2, controllo degli scarichi chimici delle fabbriche e legge sulle miniere), nonché alle condizioni di lavoro delle popolazioni locali, che andrebbero esaminate (nello Xinjiang, ad esempio). È particolarmente sorprendente che i nostri Paesi non ne tengano conto nelle loro regole di confine e nei bandi di gara che pubblicano. Detto questo, queste ultime osservazioni spiegano probabilmente una parte significativa ma minoritaria del vantaggio competitivo della Cina, che fa riferimento innanzitutto a una strategia di controllo industriale di qualità e alle competenze industriali e scientifiche dello Stato cinese. Se le istituzioni cinesi non sono certo trasponibili, noi potremmo comunque prendere il meglio delle loro idee, come hanno fatto attingendo in gran parte ai nostri successi passati e alle nostre innovazioni tecnologiche e organizzative. Come contraltare, possiamo anche ricordare che i cinesi hanno recentemente messo in funzione due impianti EPR, con tecnologia nucleare di terza generazione di concezione francese, a costi di investimento da due a tre volte inferiori a quelli di Flamanville, per ragioni simili a quelle che ci hanno permesso di fare il doppio degli americani qualche decennio fa15.

2
Gli Stati Uniti

Note
16. Si veda, ad esempio, Dipartimento dell’Energia (DOE), Quadrennial Technology Review 2015, 2015.+
La strategia energetica di un Paese pragmatico e reattivo, ma soprattutto ricco di fonti energetiche e di competenze scientifiche e industriali.

A differenza della Cina, gli Stati Uniti sono stati dotati per natura di un’eccezionale gamma di fonti energetiche, sia fossili che rinnovabili, e hanno ereditato lo status di leader della seconda rivoluzione industriale, quella dell’elettricità e del petrolio, degli anni 1880-1945. Gli Stati Uniti sono il maggior produttore mondiale di petrolio, davanti ad Arabia Saudita e Russia – nel 2020, 19,5 milioni di barili/giorno, contro 11,8 e 11,5 milioni rispettivamente – e il maggior produttore mondiale di gas, davanti a Russia e Iran – nel 2020, 32,7 exo-joule (EJ) contro 24,8 e 8,3 rispettivamente. Hanno inoltre aree particolarmente ventose (Midwest, Texas, ecc.) e soleggiate (California, Stati Uniti sud-occidentali, ecc.). Il loro tessuto industriale è alla frontiera tecnologica nel settore dell’elettricità, con in particolare le aziende pioniere General Electric e Westinghouse tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX secolo.

Nel corso del XX secolo, gli Stati Uniti hanno consolidato questo primato scientifico e industriale, in particolare grazie alla Seconda Guerra Mondiale, che ha permesso loro di integrare i migliori scienziati europei nelle proprie università e laboratori di ricerca (in particolare nel campo nucleare con il Progetto Manhattan, nei missili e nello spazio, nelle telecomunicazioni, nella chimica degli esplosivi, ecc.) Poi la crisi petrolifera ha spinto il Paese a lanciare nei suoi principali laboratori e università ambiziosi programmi di ricerca sulle nuove energie che potessero contribuire a ridurre l’uso dei combustibili fossili. Di conseguenza, il Paese gode tuttora di una posizione di leadership scientifica “naturale” nei settori delle energie decarbonizzate, come il nucleare e il fotovoltaico, così come nei combustibili fossili (petrolio e gas di scisto) o nelle reti intelligenti, grazie alla padronanza dei semiconduttori e della tecnologia digitale.

La prima parte della strategia americana consiste nello sfruttare questa duplice padronanza delle fonti energetiche abbondanti e dei convertitori di energia e uso. I loro vantaggi comparativi consentiranno di raggiungere gli obiettivi di efficienza economica e di sovranità in modo più semplice e pragmatico. Questa strategia di efficienza economica e di sovranità viene attuata a breve e medio termine attraverso le politiche energetiche degli Stati: in questo senso, gli Stati Uniti sono molto più decentralizzati dell’Unione Europea. Gli Stati sono responsabili del loro mix energetico ed elettrico, nonché delle principali regole del gioco relative alle normative e alle forme di concorrenza nel settore dell’elettricità (prezzi di mercato vs. tariffe regolamentate per i clienti finali, forme di concorrenza e/o monopoli, ecc.) Da parte sua, il livello federale si concentra sul secondo aspetto, ossia il lungo termine, le questioni internazionali e le relazioni interstatali all’interno degli Stati Uniti: gli scambi di elettricità, gas e petrolio con la regolamentazione delle reti di interconnessione e delle relazioni commerciali tra Stati, in particolare attraverso la Federal Energy Regulatory Commission, le questioni di sovranità e le relazioni internazionali, nonché la ricerca e lo sviluppo per prepararsi al futuro su questi ultimi aspetti con il Dipartimento dell’Energia (DOE), il cui ruolo è importante.

In parte a causa di questa energia fossile abbondante e a buon mercato, gli Stati Uniti sono partiti due decenni fa da una situazione caratterizzata da una mediocre efficienza energetica. Infatti, il suo consumo di energia ed elettricità pro capite era circa il doppio di quello dei Paesi europei o giapponesi allo stesso livello di sviluppo. Il loro mix di elettricità era costituito per il 70% da combustibili fossili e dominato per il 50% dal carbone, rispetto al mix europeo del 2000, che era molto meno ad alta intensità di carbonio, con solo il 50% di combustibili fossili e quasi un terzo di energia nucleare, mentre il resto proveniva da fonti rinnovabili, soprattutto idroelettriche. Sono stati quindi in grado di migliorare le loro prestazioni in termini di risparmio energetico e, soprattutto, di riduzione relativa delle emissioni di CO2, nonostante politiche climatiche moderatamente ambiziose – le loro prestazioni su questi due fronti rimangono meno buone di quelle dell’Europa di oggi -, perché queste misure erano spesso naturalmente redditizie per gli attori, in particolare la sostituzione del gas naturale al carbone, sempre più grazie allo shale gas. Le innovazioni tecnologiche che hanno permesso lo sfruttamento del gas di scisto (fratturazione idraulica, trivellazione orizzontale, additivi chimici per migliorare la permeabilità e il recupero del gas) sono probabilmente la “rivoluzione energetica” più significativa degli ultimi vent’anni, insieme ai guadagni di produttività ottenuti dai cinesi nel fotovoltaico e alle numerose innovazioni nel risparmio energetico, grazie in particolare alle tecnologie elettriche efficienti (LED, pompe di calore, processi industriali, ecc.). Nel 2021 gli Stati Uniti avranno un mix elettrico composto “solo” dal 22% di carbone, dal 38% di gas, e ancora da circa il 19% di nucleare e il 6% di idroelettrico, con l’ulteriore penetrazione di turbine eoliche (9%) e fotovoltaiche (4%): una “rivoluzione energetica” grazie al sostegno governativo a queste energie, al gas e alle rinnovabili, sostegno che è mirato soprattutto a livello di R&S e di dimostratori. Va inoltre sottolineato che la penetrazione delle rinnovabili è significativa negli Stati americani, dove i livelli di insolazione e di vento sono notevoli e dell’ordine del doppio di quelli francesi.

Il principale motore del declino del carbone è quindi legato alla sua sostituzione con l’abbondante ed economico gas di scisto. È interessante notare che queste innovazioni sono state possibili solo grazie alla perseveranza del sostegno dato dalle autorità pubbliche a ingegneri, geologi e imprenditori texani dall’inizio degli anni ’80, dopo la crisi petrolifera, fino all’inizio degli anni 2000. La politica di R&S e di apertura delle opzioni tecnologiche del DOE ha permesso di sviluppare idee e prototipi in prodotti industriali, con le aziende che hanno fatto il resto grazie agli aumenti di produttività legati alle innovazioni di processo e alle economie di scala al momento della prima diffusione massiccia, nella seconda metà degli anni 2000, innescata dal significativo aumento dei prezzi del gas sui mercati internazionali. Questo successo illustra l’importanza di un forte coinvolgimento delle autorità pubbliche in termini di sostegno finanziario solo nelle fasi a monte dei prototipi e dei dimostratori industriali, con importi relativamente modesti; la diffusione massiccia è considerata auspicabile solo quando la competitività è dimostrata, un ragionamento simile a quello dei leader francesi tra il 1966 e il 1971 per la scelta dei settori e i primi impegni dei reattori ad acqua pressurizzata (PWR), e contrario a quella che è stata la politica europea sulle rinnovabili. In questa fase di diffusione massiccia, le autorità pubbliche devono quindi favorire altri strumenti di azione, come la coerenza delle diverse normative (organizzazione della concorrenza per i contratti a lungo termine, ecc.

Preparare il futuro con tecnologie decarbonizzate: un ruolo centrale per lo Stato federale

La preparazione del futuro è quindi centrale per il governo federale, che tradizionalmente dispone del DOE e di grandi laboratori pubblici (Argonne, Idaho, Lawrence Livermore) simili alla Commissione francese per l’energia atomica (CEA). Il governo federale può contare anche sulle importantissime esigenze e risorse del Dipartimento della Difesa, per la fornitura di energia alle numerose basi americane sul territorio nazionale o in altri Paesi e per il funzionamento di alcuni sistemi d’arma. In particolare, il nucleare è stato utilizzato per la propulsione di sottomarini e portaerei fin dagli anni Sessanta, il che spiega l’interesse a lungo termine per i reattori di piccole dimensioni e le innovazioni nel campo dei piccoli reattori modulari (SMR), dato che il numero di reattori militari è superiore a quello dei reattori civili negli Stati Uniti. Questa collaborazione tra difesa ed energia ha permesso agli Stati Uniti di mantenere un alto livello di attività di ricerca negli ultimi anni, per rimanere alla frontiera tecnologica e disporre delle migliori tecnologie nucleari nel momento in cui è necessario fare un salto di qualità in termini di decarbonizzazione, riducendo la quota del gas.

Per completare il sistema, le autorità pubbliche americane hanno deciso, sulla base delle raccomandazioni delle accademie nazionali, di creare nel 2007 un’agenzia incaricata di promuovere la ricerca in campo energetico su progetti innovativi e rischiosi, coinvolgendo i principali laboratori pubblici, l’industria e le università: l’Advanced Research Projects Agency-Energy (ARPA-E). L’idea è quella di fornire i mezzi per identificare le lacune nei programmi di ricerca esistenti con uno strumento ispirato alla Defense Advanced Research Project Agency (DARPA), un’agenzia creata nel 1958 inizialmente nel campo dello spazio e dei missili di fronte ai progressi dell’Unione Sovietica. Questa agenzia sarebbe diventata un modello per l’organizzazione di una ricerca audace ed efficace. Concentrandosi in questo caso su questioni militari, avrebbe svolto un ruolo importante in molti campi come l’intelligenza artificiale o la genesi di Internet. Nel 2006 ha anche ispirato la creazione dell’Autorità per la ricerca avanzata e lo sviluppo biomedico (BARDA), che ha contribuito alle risposte a Covid-19.

La missione di ARPA-E è garantire che la R&S americana consenta di costruire e testare prototipi e dimostratori industriali per tutte le tecnologie chiave del futuro mix energetico americano. Il suo funzionamento è strutturato su tre livelli:

analisi di previsione scientifica e tecnologica con roadmap tecnologiche per diversi decenni;
un piano strategico di azioni da realizzare nell’arco di alcuni anni;
su queste basi, l’organizzazione di bandi di gara e il finanziamento di progetti, dalla ricerca ai prototipi, ai dimostratori e agli impianti di produzione.
Gli studi di previsione tecnologica per trentacinque anni16 e le strategie tecnologiche/settoriali per dieci anni mobilitano le migliori competenze scientifiche e industriali al servizio del Paese, provenienti dalle accademie scientifiche, dai grandi laboratori pubblici e dal mondo industriale. Si tratta di un’operazione chiaramente diversa da quella, sempre più diffusa in Francia e in Europa, dei gruppi di interesse con una presenza significativa di alti funzionari, finanzieri o economisti che non sono esperti in campo tecnologico. Negli Stati Uniti, è sulla base di questi approcci informati e coerenti, che permettono di dare visibilità a lungo termine agli attori, che i finanziamenti vengono assegnati a laboratori pubblici o privati, a start-up o a grandi gruppi industriali, a seconda dei casi, e sempre sotto la supervisione di persone con una reale esperienza e una riconosciuta conoscenza scientifica e industriale.

Il terzo livello di ARPA-E ha obiettivi che, a prima vista, possono essere simili a quelli di France Relance, France 2030 o dei Piani di Investimento Futuri (PIA) in materia di energia, ma con un forte quadro prospettico e strategico sulle questioni tecnologiche ed energetiche e competenze industriali e scientifiche esperte, due dimensioni fondamentali per essere rilevanti in questo settore.

III
Parte
E la Francia?

https://www.fondapol.org/etude/souverainete-maitrise-industrielle-et-transition-energetique-2/#chap-3
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Gli ultimi due decenni sono stati quelli del “sorgere dei pericoli” nel settore energetico: l’aumento delle preoccupazioni legate al cambiamento climatico e all’urgenza della transizione energetica, il ritorno della geopolitica con gli attentati dell’11 settembre 2001, la rivalità tra Stati Uniti e Cina e la messa in discussione delle fonti di potenziale crescita a lungo termine e dell’accesso alle energie che consentono lo sviluppo economico e sociale. In un momento in cui grandi regioni del mondo come la Cina e gli Stati Uniti seguono con determinazione le strategie industriali e tecnologiche di lungo periodo che abbiamo appena citato, l’Europa, e in particolare la Francia, vede peggiorare le proprie prestazioni energetiche ed elettriche (prezzi dell’energia e dell’elettricità, dipendenza energetica, ecc.) e soprattutto, tema preoccupante per il futuro, indebolire il proprio tessuto industriale e le proprie capacità di sviluppo tecnologico. Analizzeremo più da vicino le ragioni di questa situazione in Francia e proporremo alcune linee d’azione ispirate da risorse tratte dalla nostra storia e da quelle più recenti di Cina e Stati Uniti.

1
Negli ultimi vent’anni, le prestazioni del settore elettrico sono diminuite e il tessuto industriale è diventato più fragile.

Note
17. Cfr. Matthieu Glachant, “Le point de vue d’un économiste sur la rénovation énergétique des logements et sa régulation”, Réalités industrielles-Annales des Mines, n. 2022/2, maggio 2022, pp. 19-21.
18. Mireille Campana, Jean-François Sorro e Quentin Peries-Joly, “Opportunités industrielles de la transition énergétique”, Conseil général de l’économie, de l’industrie, de l’énergie et des technologies, febbraio 2017.
Il settore elettrico francese, ereditato dai cinque decenni precedenti all’inizio del XX secolo, è uno dei più efficienti al mondo in termini di emissioni di CO2, competitività e sicurezza dell’approvvigionamento grazie a un mix elettrico basato sul 75% di nucleare e sul 15% di idroelettrico: le emissioni dirette di CO2 della Francia sono pari a 5-6 tonnellate di CO2 per abitante, rispetto a quasi il doppio della Germania, grazie al suo mix basato per metà su lignite e carbone e per metà su gas I prezzi dell’elettricità in Francia sono tra i più bassi d’Europa, in particolare grazie alla padronanza industriale del nucleare (costi di investimento dimezzati rispetto agli Stati Uniti) e alla qualità della gestione operativa del sistema integrato produzione-trasporto-distribuzione. La padronanza dell’intera catena di valore del nucleare e la quota di energia idroelettrica contribuiscono in larga misura a ridurre la dipendenza energetica della Francia e le hanno permesso di esportare volumi significativi di elettricità ai paesi vicini per diversi decenni.

Queste prestazioni si sono gradualmente deteriorate negli ultimi due decenni, soprattutto a causa di una politica energetica esitante in un contesto globale di accelerata deindustrializzazione del Paese. La pressione delle idee dominanti e una visione a breve termine hanno infatti spinto a privilegiare il gas, i cui prezzi erano relativamente bassi dal controshock petrolifero del 1986 fino alla seconda metà degli anni 2000, rispetto al nucleare. Sono state quindi interrotte le politiche di elettrificazione degli usi, favorendo il gas, soprattutto per il riscaldamento degli edifici, anche se emette CO2, a differenza dell’elettricità, che è ampiamente decarbonizzata. La tendenza è stata quella di favorire scenari con un basso fabbisogno di energia elettrica, per mostrare chiaramente la volontà di non affidarsi al nucleare. Per i nuovi investimenti nella produzione di energia elettrica, le autorità pubbliche favoriranno anche i cicli combinati a gas con un complemento di energie rinnovabili intermittenti, eolico e fotovoltaico, grazie a sussidi significativi che contribuiranno a un progressivo aumento dei prezzi dell’elettricità.

Inoltre, le politiche di risparmio energetico, essenziali per la transizione energetica, sono state spesso inefficaci e poco mirate, determinando elevati sussidi a carico dei francesi a fronte di scarsi risultati in termini di risparmio energetico e, soprattutto, di minori emissioni di CO2: così, negli ultimi anni, le diagnosi di prestazione termica hanno sovrastimato di 2 o 3 volte i risparmi associati alle misure raccomandate. E, proprio come le normative termiche, queste diagnosi hanno privilegiato l’energia primaria, un criterio di difficile comprensione e di nessun interesse in Francia, a scapito di un criterio basato sull’importo della bolletta energetica, che è comunque fondamentale per le famiglie meno privilegiate, e sulle emissioni di CO2, la cui riduzione è il principale obiettivo per il pianeta. Strumenti economici come i certificati di risparmio energetico o i regolamenti termici per le abitazioni sono stati mal concepiti dal punto di vista economico (mancanza di padronanza delle griglie analitiche legate ai fallimenti del mercato e ai costi di transazione) e manipolati in base alle influenze di gruppi di interesse e associazioni17. Le emissioni dirette di CO2 della Francia sono rimaste più o meno stabili negli ultimi due decenni, intorno alle 5 tonnellate di CO2 pro capite, ma ciò è dovuto in gran parte alla deindustrializzazione del Paese, che ci ha portato a “esportare” le emissioni legate ai nostri modelli di consumo e a “importare” sempre più carbone tedesco e, soprattutto, cinese: le emissioni totali di CO2 che integrano l’intera impronta di CO2 sono quindi, nel 2020, dell’ordine del doppio delle emissioni dirette, con circa 11 tonnellate di CO2 pro capite. Stiamo quindi perdendo gradualmente competitività, riduzione complessiva delle emissioni di CO2 e sicurezza degli approvvigionamenti.

In questo contesto globale di accelerata deindustrializzazione del Paese, l’indebolimento del tessuto industriale è ancora più preoccupante. Stiamo assistendo a una perdita di competenze e di controllo industriale sui nostri vantaggi comparativi storicamente ereditati. Questo vale per Alstom, la cui attività ha risentito in particolare dello stop-and-go europeo sul mercato del ciclo combinato a gas, e, naturalmente, per l’industria nucleare. Le esitazioni sul posto e sull’interesse del nucleare hanno portato a posticipare l’impegno per il dimostratore industriale EPR dal 1997 al 2006 e ad aspettare fino ad oggi per dare il segnale di un impegno per una serie di unità. Per più di due decenni, quindi, l’industria non ha avuto visibilità su prospettive credibili per le centrali nucleari di terza generazione. Sapendo che in termini di prototipi o dimostratori per altre tecnologie promettenti che sono oggetto di progetti negli Stati Uniti, in Canada, in Cina e in Russia, come gli SMR o i reattori veloci, la Francia ha interrotto il suo progetto di reattore veloce Astrid nel 2019, e solo recentemente ha lanciato un progetto SMR (Nuward).

L’altra sfida per i prossimi anni è quella di prolungare la vita delle unità nucleari esistenti: la maggior parte di esse è stata commissionata tra il 1980 e il 1990 e avrà 40 anni tra il 2020 e il 2030. È noto che questo tipo di impianti può essere esteso a 60 anni. Negli Stati Uniti ci si sta preparando per estendere alcune di esse a 80 anni. La Francia ha avviato un ambizioso programma di grandi lavori di ristrutturazione (il “Grand Carénage”), che mira a portare le sue centrali di generazione 2 a un livello di sicurezza che dovrebbe essere vicino a quello della generazione 3 e incorporare gli insegnamenti dell’incidente di Fukushima. Dovremmo quindi essere in grado, sotto il controllo dell’Autorità per la sicurezza nucleare (ASN), di portare queste unità a 50 anni in prima istanza, il che permetterebbe di andare avanti fino al 2030-2040, e probabilmente almeno a 60 anni per gran parte di esse. Ma anche in questo caso, senza una chiara visibilità a lungo termine, il tessuto industriale non può essere sufficientemente mobilitato. Fino all’anno scorso, l’obiettivo delle autorità pubbliche era invece quello di chiudere altre dodici unità nucleari esistenti nel prossimo decennio, oltre alle due unità di Fessenheim appena spente, per raggiungere un obiettivo di consumo nucleare inferiore al 50% entro il 2035, nell’ambito, come abbiamo visto, di scenari di consumo sottostimati. Poter estendere la maggior parte della flotta esistente ad almeno 60 anni, come fanno altri Paesi e previo parere dell’ASN, contribuirebbe in modo significativo all’equilibrio domanda-offerta dei prossimi due decenni, portando la maggior parte della flotta all’orizzonte 2040-2050. Ciò consentirebbe al tessuto industriale di aumentare rapidamente la propria capacità di costruire nuove unità di terza generazione, che potrebbero essere messe in servizio progressivamente a partire dal decennio 2030-2040 per completare la flotta esistente e rinnovarla.

Questa mancanza di visibilità da parte delle autorità pubbliche negli ultimi vent’anni, con un tira e molla, sia sul prolungamento della vita delle centrali di generazione 2 che sull’impegno per le nuove centrali di generazione 3, o per i dimostratori SMR e di generazione 4, ha indebolito l’intera industria nucleare francese, EDF, Areva, Framatome, così come le numerose PMI.

Se dobbiamo migliorare i nostri vantaggi comparativi, in particolare nei settori del nucleare e delle reti, la situazione è ancora più problematica in altre tecnologie e nuovi settori a basse emissioni di carbonio (fotovoltaico, eolico, batterie, pompe di calore). Abbiamo fallito nei nostri tentativi nel fotovoltaico (si vedano, ad esempio, le difficoltà di Photowatt, un’azienda pioniera in questo settore) e nell’eolico onshore (si veda la vendita delle attività eoliche di Areva a Gamesa). In questi settori del futuro, siamo presenti nell’installazione e nei servizi a basso valore aggiunto, ma poco o nulla nella fabbricazione industriale di prodotti e componenti chiave che portano guadagni di produttività e alto valore aggiunto18 e nei relativi servizi ad alto valore aggiunto (forse con l’eccezione delle turbine eoliche offshore, se riusciremo a fare un passo avanti e a trasformare il processo).

2
Le ragioni di questo deterioramento

Note
19. Si veda Paul L. Joskow e Richard Schmalensee, Markets for Power. An Analysis of Electric Utility Deregulation, The MIT Press, 1983.
20. Jean-Paul Bouttes e Jean-Michel Trochet, “Le pragmatisme des réformes américaines”, Revue de l’énergie, n° 465, gennaio-febbraio 1995.
21. Cfr. Jean-Paul Bouttes e François Dassa, “Elettricità: gli errori dell’Europa e come uscirne”, Le Débat, n° 197, novembre-dicembre 2017, pp. 167-181; Jean-Paul Bouttes, “Quelle politique de l’énergie pour assurer la compétitivité de notre économie, réduire notre dépendance extérieure et protéger l’environnement? “, in Michel Pébereau (a cura di), Réformes et transformations, PUF, 2018, pp. 235-279; François Dassa, “Reinventing European energy policy”, Revue de l’énergie, n. 643, marzo-aprile 2019.
Le ragioni di questo deterioramento delle prestazioni possono essere collegate a un nuovo contesto geopolitico e geoeconomico dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989 e la globalizzazione del commercio, il movimento di deregolamentazione delle telecomunicazioni, dei trasporti e delle reti energetiche, Ciò è dovuto alla deregolamentazione delle reti di telecomunicazione, trasporto ed energia, avviata negli Stati Uniti alla fine degli anni ’70 e poi “dogmatizzata” in Europa, e al cambiamento di mentalità in Francia tra le élite politiche, intellettuali e mediatiche a favore di una società post-industriale che privilegia l’individuo e la mano invisibile dei mercati a breve termine rispetto alla produzione di ricchezza a lungo termine e alla gestione collettiva dei beni comuni.

La globalizzazione del commercio, l’abbandono della geopolitica e l’abbondanza di combustibili fossili e gas

Con la caduta del Muro di Berlino e la fine della Guerra Fredda, le questioni geopolitiche sembravano svanire. La globalizzazione del commercio di beni e capitali è avvenuta all’ombra della protezione americana e il coordinamento dell’azione delle banche centrali ha permesso di controllare l’inflazione e di avere accesso ai finanziamenti a buone condizioni (nonostante le ricorrenti crisi internazionali). Infine, dopo gli shock petroliferi, le innovazioni tecnologiche nel settore energetico hanno dato l’impressione che stessimo entrando in un mondo di abbondanza energetica basata principalmente sui fossili: la capacità di sfruttare giacimenti di petrolio e gas offshore in profondità, così come nelle stesse rocce di origine (shale oil e gas), e di recuperare una quota molto più ampia delle riserve di petrolio presenti nei grandi giacimenti esistenti o futuri (enhanced oil recovery, EOR) ha creato un contro-shock sostenibile per il petrolio e il gas a partire dal 1986. Inoltre, ci sono state innovazioni nelle centrali elettriche a combustibili fossili: sono stati sviluppati cicli combinati a gas, basati su turbine aeroderivate, che hanno permesso di utilizzare il gas con un’efficienza molto più elevata rispetto alle turbine a vapore, e sono stati trovati sistemi in grado di limitare l’inquinamento locale o regionale del carbone (Denox e Desox per evitare le piogge acide). Stiamo quindi assistendo a uno sviluppo massiccio nei Paesi emergenti come Cina, India, Indonesia, Turchia e Sudafrica, che potranno sfruttare l’uso del carbone nazionale, abbondante nella maggior parte di questi Paesi e in grado di fornire loro elettricità sicura ed economica. Questi Paesi introdurranno gradualmente queste tecnologie di controllo dell’inquinamento, almeno nelle grandi centrali elettriche, tenendo presente che il problema dell’inquinamento rimane irrisolto per l’uso diretto del carbone, in particolare nelle abitazioni. Nello stesso periodo si assisterà a una “corsa al gas” (corsa alle centrali a gas) prima negli Stati Uniti, poi in Europa grazie all’abbondanza di gas russo a basso costo e geopoliticamente accessibile (o almeno così si crede, soprattutto in Germania), e anche altrove nel mondo grazie alla padronanza del trasporto marittimo a lunga distanza di gas naturale liquefatto a bassissima temperatura, che permetterà di trasportare il gas americano e quello mediorientale in Asia e in Giappone. Siamo quindi in un periodo che dimentica le preoccupazioni geopolitiche e ambientali degli idrocarburi e non comprende ancora bene le sfide del riscaldamento globale. Alcuni di questi Paesi emergenti, primo fra tutti la Cina, stanno diventando i “produttori del mondo” grazie all’energia a basso costo e al basso costo della manodopera. La Germania può sfruttare la sua specializzazione in beni strumentali e macchine utensili, prodotti grazie al gas russo a basso costo, per costruire fabbriche di beni di consumo nei Paesi emergenti, mentre la Francia può importare massicciamente beni di consumo grazie a tassi di interesse piuttosto bassi all’ombra dell’euro, lasciando che il Paese si deindustrializzi in settori importanti per il futuro.

Deregolamentazione, apertura delle reti elettriche e del gas in Europa

Questa eccessiva fiducia nel funzionamento efficiente dei mercati a tutte le scale geografiche sarà estesa alle grandi infrastrutture di rete, telecomunicazioni, trasporti, gas ed elettricità, tradizionalmente considerate come servizi pubblici sotto il controllo delle autorità pubbliche nazionali e locali. Queste idee sono nate prima negli Stati Uniti, per ragioni specifiche e rilevanti, e con approcci pragmatici alla loro attuazione, come spesso accade nel mondo anglosassone19. Se ci concentriamo sul caso dell’elettricità, è vero che le regolamentazioni americane delle Public Utilities Commission, le commissioni di regolamentazione indipendenti incaricate a livello degli Stati americani di controllare gli investimenti e i prezzi delle aziende del settore elettrico (in monopolio e il più delle volte private), erano spesso pignole e inefficienti. In Stati come la California e il New England, le sovvenzioni incrociate potevano essere molto significative per ragioni politiche a favore delle famiglie e a scapito dell’industria. In questo contesto, gli industriali di questi Stati volevano avere accesso a prezzi dell’elettricità che riflettessero i costi degli impianti di generazione, in modo da poter competere ad armi pari con i loro concorrenti in altri Stati come il Midwest o il Texas, dove gli industriali pagavano il “costo economico” dei loro usi. Questi stessi industriali avrebbero inoltre preferito acquistare da “produttori indipendenti”, nuovi entranti in grado di utilizzare impianti con la nuova tecnologia dei cicli combinati a gas, più facili da costruire rispetto ai grandi impianti tradizionali a vapore, poco costosi in termini di investimento e con ottimi rendimenti, e che, inoltre, utilizzavano un gas diventato economico. La risposta del governo federale a cavallo tra gli anni ’80 e ’90 è stata pragmatica, autorizzando la nascita di questi nuovi soggetti produttivi e consentendo agli Stati che lo desideravano di introdurre l’accesso di terzi alle reti, ossia la possibilità per i clienti finali – prima industriali e poi domestici, se del caso – di scegliere il proprio fornitore di energia elettrica (o, per dirla in modo più semplice, le centrali elettriche responsabili della fornitura). Negli Stati Uniti la sussidiarietà rimane fondamentale e gli Stati che hanno voluto continuare ad affidarsi a monopoli pubblici (grandi aziende federali simili a EDF, come la Tennessee Valley Authority e la Bonneville Power Authority, e/o le “muni’s”, le municipalizzate molto numerose e talvolta potenti in alcune regioni), o affidarsi a sistemi con monopoli privati controllati dalle Public Utility Commission (PUC), hanno potuto farlo20.

Nel Regno Unito, Margaret Thatcher ha sfruttato l’idea dell’accesso di terzi alle reti per allontanare il sistema elettrico britannico dalla dipendenza dal carbone, troppo costoso e inquinante, e per costringere il potente sindacato dei minatori ad accettare la chiusura delle miniere inglesi, sempre meno redditizie, a favore della costruzione di turbine a gas a ciclo combinato (CCGT) che utilizzavano il gas britannico scoperto nel Mare del Nord negli anni Ottanta. Il radicale smantellamento del Central Electricity Board (CEGB), l’EDF britannico, in una serie di entità private e competitive ha modernizzato un settore che era diventato uno dei più inefficienti d’Europa, afflitto da frequenti e opportunistici interventi politici nelle scelte economiche, soprattutto burocratiche. La privatizzazione di queste società, in concorrenza tra loro e sotto il controllo di un regolatore indipendente dalla politica, è stata finalmente il mezzo con cui il governo conservatore si è mosso verso la proprietà popolare.

A seguito dell’Atto Unico Europeo del 1986, l’Europa ha ripreso queste idee all’inizio degli anni ’90 e le ha attuate dal 1996 al 2000 in modo sistematico e dogmatico, senza alcuna seria analisi delle opportunità economiche e del rapporto costi-benefici. I tedeschi, inizialmente contrari a questa idea, l’hanno adottata a metà degli anni ’90 per modernizzare l’organizzazione delle loro grandi aziende elettriche, allora conglomerati che combinavano la produzione e le reti elettriche con numerose altre attività industriali (come Veba, Viag e RWE).

La Francia, come altri Paesi europei, non aveva motivo di andare in questa direzione e sarebbe stato possibile sviluppare un mercato europeo dell’elettricità all’ingrosso con un coordinamento efficace dello sviluppo e del funzionamento delle grandi reti di interconnessione, nella continuità della forte cooperazione storica tra gli elettricisti in Europa, lasciando ai diversi Paesi la possibilità di avere sistemi a livello nazionale basati su diverse regole del gioco e forme di concorrenza come negli Stati Uniti. I dibattiti di questo periodo (1990-2005) illustrano già la progressiva mancanza di capacità in termini di previsioni energetiche a lungo termine, sia a livello della Commissione Europea che in Francia e Germania. Il ragionamento proposto si basava essenzialmente sulla minore prevalenza dei “fallimenti del mercato” già menzionati, grazie a una rete interconnessa molto potente (più della rete interstatale americana) grazie all’ottima cooperazione storica tra gli elettricisti europei, e anche grazie alla relativa sovraccapacità dei mezzi di produzione durante questo periodo e, Infine, pensando a un’unica tecnologia di produzione “miracolosa” per i decenni a venire, con le CCGT a gas, che non sono ad alta intensità di capitale, possono essere costruite più facilmente in prossimità delle reti di trasporto esistenti e con costi pieni derivanti per più di due terzi o tre quarti dal solo combustibile.

In un contesto in cui il gas beneficiava di prezzi a bassa volatilità e di una situazione geopolitica sicura, la maggior parte degli economisti dell’energia, dei funzionari pubblici e dei politici pensava di aver trovato la risposta giusta, dimenticando i rischi geopolitici, le sfide climatiche e la necessità di aprire lo spettro dei possibili scenari e tecnologie a mezzi di produzione decarbonizzati come le fonti rinnovabili e il nucleare. Un approccio prospettico meno miope e più aperto avrebbe portato a prendere in considerazione il possibile dispiegamento di mezzi ad alta intensità di capitale che, per le rinnovabili in particolare, richiedono importanti sviluppi delle reti, caratteristiche che rendono le scelte di investimento a lungo termine difficilmente conciliabili con forme di concorrenza come l’accesso di terzi alle reti. Poiché occorrono circa quindici anni per attuare una tale evoluzione istituzionale, l’accesso di terzi alle reti sarà attivo solo dal 2005-2010 ed effettivo nell’ultimo decennio, cioè proprio quando tutte le premesse degli anni Novanta e Duemila si stanno rivelando superate, con il primo pacchetto clima europeo del 2008 che favorirà le energie decarbonizzate, in via prioritaria e forse solo le rinnovabili, e i prezzi del gas sempre più imprevedibili e soggetti a shock geopolitici. In pratica, a partire dal 2010 in Europa non si decideranno più nuovi investimenti sulla base dei prezzi di mercato; al contrario, quasi tutti, che si tratti di impianti di produzione o di reti, dovranno essere realizzati su iniziativa della “mano visibile” dei regolatori e/o delle autorità pubbliche.

Una Francia “post-industriale” che dimentica i suoi interessi a lungo termine?

Invece di difendere i suoi interessi a lungo termine e i suoi vantaggi comparativi, la Francia seguirà con zelo questo movimento europeo. Un numero crescente di élite, nei circoli accademici, politici e amministrativi, ha preso le distanze dal progetto di prosperità e sovranità basato sulla scienza e sull’industria e sul sostegno di uno Stato attivo e competente in questi campi.

Questo lento cambiamento di mentalità è più marcato nel nostro Paese che in altri in Europa. Siamo passati da un liberalismo ereditato dalla Rivoluzione francese e ancora dominante sotto la Terza Repubblica a uno Stato che è un attore economico, come incarnato dallo Stato bonapartista, dallo Stato pianificatore della Quarta Repubblica e poi dallo Stato gollista e pompidoliano, che ha avviato la grande politica industriale condotta dal 1958 al 1974. Questo Stato deve molto alla modestia e all’apertura mentale di molti alti funzionari e funzionari pubblici degli anni Cinquanta e Sessanta, le cui esperienze personali erano spesso segnate dalla tragedia della storia e dalle sue incertezze. Tuttavia, a partire dal 1975-1980, parte di questa alta funzione pubblica è stata sostituita da una tecnocrazia meno efficace perché troppo sicura di sé e troppo fiduciosa nel futuro. Abbiamo quindi assistito a un graduale disimpegno dello Stato nei discorsi e nelle mentalità e a una frammentazione delle iniziative e delle responsabilità all’interno della sfera pubblica. Questo apparente disimpegno dello Stato nel discorso è, in un certo senso, paradossale perché, in realtà, si assiste a un’inflazione di norme spesso incoerenti e a un significativo rafforzamento dell’apparato amministrativo che, allo stesso tempo, risulta impoverito in termini di visione d’insieme e di capacità operative. Ciò è particolarmente vero per alcune grandi direzioni settoriali incaricate di servizi pubblici con una dimensione scientifica e industriale, come l’energia, l’ambiente, la sanità, l’edilizia e i trasporti.

Anche il tenore di vita e l’istruzione sono aumentati in modo significativo durante i Trente Glorieuses e gli individui ora aspirano legittimamente a un maggiore benessere e a un maggiore tempo libero. Per molti intellettuali, il futuro appartiene alla società “post-industriale”, con meno tempo di lavoro, meno industria e più servizi (senza distinguere abbastanza tra i servizi a valore aggiunto, spesso legati alle attività industriali, e gli altri): padroneggiare la ricerca e lo sviluppo, il marketing e le vendite è sufficiente, e le fabbriche e l’inquinamento associato (visto soprattutto come locale) possono essere lasciati nei Paesi emergenti. Negli anni ’90 si è verificata una paradossale e parziale convergenza tra le idee ecologiste, che allora si occupavano principalmente della protezione dell’ambiente locale e non di questioni globali, e il movimento neoliberista, che promuoveva la globalizzazione e i mercati europei. Per dare un’immagine, i cicli combinati a gas russo, che rispondevano alle preoccupazioni dei promotori della concorrenza, sono stati impiegati nello stesso momento in cui si sono moltiplicati i sussidi ai pannelli fotovoltaici, importati prima dalla Germania e poi dalla Cina, per soddisfare le preoccupazioni degli ecologisti.

La Francia ha così declinato con zelo le dottrine in vigore in Europa, con il risultato che

una frammentazione dello Stato e la mancanza di un luogo di sintesi e di coerenza delle politiche pubbliche, legata all’applicazione della “teoria dei giuristi” che propugna la creazione di un’agenzia indipendente (o di un ente pubblico) per ogni obiettivo specifico (concorrenza, regolazione delle reti, risparmio energetico…) e spesso fonte, in particolare in Francia, di una legislazione secondaria particolarmente complessa e abbondante;
una frammentazione delle attività operative del settore elettrico, con riferimento alla teoria della deregolamentazione (e dell’accesso di terzi alle reti) che sostiene la separazione contabile e giuridica delle attività di produzione, rete e servizio al cliente. Non esiste quindi più un vero e proprio luogo di sintesi con tutte le competenze e la legittimità per garantire la responsabilità degli equilibri domanda-offerta nel lungo periodo e le performance industriali e operative del settore elettrico nel suo complesso;
competenze scientifiche di alto livello che non sono molto richieste e competenze industriali operative che quasi non esistono all’interno dello Stato, che dimentica le sfide del controllo industriale ed esternalizza queste funzioni al settore privato.
Un discorso sui mercati dell’elettricità che maschera la realtà di un settore iper-regolamentato e di un’economia dei sussidi

Lo Stato ha così perso una parte significativa della sua lungimiranza sistemica e delle sue coerenti capacità di elaborazione delle politiche pubbliche, nonché delle sue capacità di attuazione industriale nel settore energetico. Ma la realtà è ostinata: le reti elettriche sono un monopolio naturale e le tecnologie sofisticate, ad alta intensità di capitale e prive di CO2, non nascono e crescono da sole. Le autorità pubbliche europee e francesi hanno quindi dovuto intervenire direttamente e permanentemente nel funzionamento dei mercati.

In effetti, il mercato europeo dell’elettricità è microgestito da burocrazie europee e nazionali, con una miriade di regolamenti, e questa economia iperamministrata è dominata dai sussidi pubblici: la maggior parte degli investimenti nella generazione e nella rete negli ultimi decenni non sono stati decisi e remunerati dai prezzi del mercato dell’elettricità, ma da sussidi e/o gare d’appalto sotto l’autorità delle autorità pubbliche. Il codice di rete, che stabilisce le regole di funzionamento delle reti per i loro utenti, è lungo migliaia di pagine.

Non si tratta di stabilire se le autorità pubbliche possano svolgere un ruolo chiave nel settore dell’elettricità, perché questo avviene ovunque nel mondo, anche in Europa, dove alcuni Paesi sono stati in grado di far leva su Bruxelles per portare avanti i propri interessi con il pretesto della “concorrenza”: Il Regno Unito, ad esempio, è riuscito a far passare il suo modello di accesso di terzi alle reti negli anni ’90 e poi, dopo aver ripensato la regolamentazione del suo sistema elettrico per promuovere le energie rinnovabili e l’energia nucleare, è riuscito a far approvare gli aiuti di Stato alle centrali nucleari prima della Brexit; Allo stesso modo, i tedeschi hanno approvato i loro obiettivi di sostegno alle energie rinnovabili negli anni 2000 per compensare il loro ritiro dal nucleare, mantenere la loro strategia carbone-gas e sostenere le loro industrie eoliche e fotovoltaiche emergenti, prima che i cinesi arrivassero nel 2010 attraverso la delocalizzazione. La questione non è quindi se lo Stato debba svolgere un ruolo importante, ma come possa esercitare le proprie responsabilità in modo efficace e coerente nel tempo, permettendo alle iniziative pubbliche, locali e private di fare l’essenziale21.

Lo sviluppo della diagnosi richiede quindi lavoro e discernimento per trovare il significato delle parole. Occorre individuare sia le inefficienze legate a mercati a breve termine non adeguati, sia le inefficienze legate a normative invasive e incoerenti; occorre riformare sistemi ibridi con quelli che gli economisti chiamano “fallimenti del mercato e del governo”. La qualità del sistema francese e la sua solidità gli hanno permesso di resistere. Abbiamo dovuto aspettare la crisi di Covid-19 e il conflitto Russia-Ucraina per misurare le incongruenze delle regole del gioco e la loro fragilità di fronte ai rischi economici, industriali e geopolitici. Al di là della dipendenza dal gas russo, i contratti di acquisto di gas a lungo termine non indicizzati al prezzo spot sono praticamente scomparsi in Europa sotto l’azione costante della Commissione europea. Non è così in Giappone o in Cina, che li hanno mantenuti. Di conseguenza, i prezzi del gas in Europa sono determinati dal mercato a breve termine per quasi tutti i volumi scambiati. L’Europa sta quindi subendo tutto il peso del vertiginoso aumento dei prezzi del gas, moltiplicato per un fattore compreso tra 5 e 10 tra il giugno 2021 e l’ottobre 2022 (in primo luogo a causa della ripresa economica con la diminuzione dell’impatto della pandemia, e poi soprattutto a causa della guerra condotta dalla Russia in Ucraina), che si trasmette meccanicamente al prezzo all’ingrosso dell’elettricità, in particolare a causa dell’ampia quota di centrali a gas nel mix europeo degli ultimi anni.

Possiamo anche citare gli errori di valutazione relativi alle previsioni di equilibrio tra domanda e offerta e la necessità di mantenere i margini di potenza a fronte di scenari di domanda più elevati del previsto, e la possibilità di rischi sfavorevoli in termini di condizioni idriche, vento, o rischi sulla manutenzione delle centrali nucleari. Queste sono le basi dell’attività nel funzionamento sicuro di un sistema elettrico complesso. Non avremmo dovuto smantellare alcune vecchie centrali termiche negli ultimi anni e tenerle in riserva (cosa che è stata proposta e scelta da altri Paesi come la Germania). Avremmo dovuto mantenere anche le due unità nucleari della centrale di Fessenheim, che avevano ottenuto l’autorizzazione dell’ASN a prolungare la loro durata di vita. Anche in questo caso, la decisione è stata presa contro il parere degli esperti che qualche anno fa avevano chiaramente spiegato che era meglio mantenere i margini di potenza nel nucleare in caso di rischi generici che colpissero le unità più recenti.

È quindi giunto il momento di condividere una diagnosi lucida e precisa dei nostri fallimenti e delle nostre debolezze, e di cambiare il nostro “software” sul ruolo dello Stato in settori come quello elettrico.

3
Riconoscere il ruolo dello Stato nel settore dell’energia e dell’elettricità

Il primo passo consiste nel condividere un’analisi economica che faccia luce sul ruolo “misurato e determinato” dello Stato, per uscire dalla dottrina degli ultimi trent’anni. Negli ultimi tre decenni, la Francia ha visto la quota dell’industria sul PIL ridursi a circa il 12%, mentre la Germania è ormai quasi al doppio (23%). La consapevolezza del problema è iniziata alla fine degli anni Duemila e sono state gradualmente messe in atto misure per migliorare la competitività delle imprese industriali francesi, con i cluster di competitività, le riforme della formazione professionale e del codice del lavoro, la riduzione delle imposte sulla produzione, le misure per favorire la nascita di start-up e la loro trasformazione in imprese di dimensioni intermedie (ETI) nei settori del futuro con i Programmi di Investimento Futuro, la Banca Pubblica di Investimento (BPI), i piani France Relance e France 2030.

Queste misure globali sulla tassazione delle imprese, sulla ricerca, sulla formazione, sul sostegno alle imprese nelle regioni e sulla loro crescita sono utili e devono essere adeguate e rafforzate. Ma non affrontano i punti chiave specifici relativi a settori di sovranità e/o servizi pubblici come la difesa, lo spazio, la sanità, i trasporti, l’energia o l’elettricità. Sebbene la difesa e lo spazio abbiano in gran parte conservato l’organizzazione e le competenze stabilite negli anni 1945-1975 all’interno dello Stato, che può assumersi le sue responsabilità di grande cliente del tessuto industriale, in particolare con la Direction générale de l’armement (DGA), il Centre national d’études spatiales (Cnes) e l’Office national d’études et de recherches aérospatiales (Onera), la situazione è diversa per la maggior parte degli altri settori chiave per il potere economico del Paese e per la vita dei suoi cittadini, in particolare il settore elettrico. Quest’ultimo presenta, come abbiamo accennato, tre tipi di “fallimenti del mercato” legati alla gestione dei beni comuni e delle esternalità che richiedono l’azione della “mano visibile” delle autorità pubbliche per integrare la “mano invisibile” dei mercati:

le infrastrutture di rete pubbliche (monopoli naturali), la garanzia degli equilibri domanda-offerta del sistema produzione-rete-uso in ogni momento e su diversi orizzonti temporali;
esternalità ambientali (emissioni di CO2, rifiuti e inquinamento locale, sicurezza);
esternalità “industriali”, soprattutto per le fasi che precedono la diffusione di massa, da un lato tra laboratori, ricerca e fabbriche, per l’innovazione; dall’altro, tra ambiti industriali complementari ma distanti, che contribuiscono all'”ecosistema industriale” del settore (dimensione dei “sistemi tecnici” e “anelli strategici” della catena del valore).
In questo contesto, dobbiamo reinventare uno Stato strategico modesto ed efficiente, con un ruolo “misurato e determinato”, come avrebbero detto i filosofi greci. L’obiettivo non è quello di sostituirsi alle imprese e al mercato, né di imbrigliarli in una ragnatela di norme burocratiche elaborate unicamente dallo Stato centralizzato, ma al contrario di liberare le iniziative private o quelle degli enti locali reinserendole in una solida visione lungimirante e strategica, e garantendo la coerenza e l’efficacia delle politiche pubbliche, il controllo industriale e la resilienza delle infrastrutture pubbliche. Lo Stato ha a disposizione molteplici strumenti senza bisogno di mobilitare finanziamenti eccessivi, dagli appalti pubblici con le loro clausole ambientali, locali o tecniche, alla tassazione e alle tariffe doganali. L’utilizzo di questi strumenti deve essere preceduto da una chiara gerarchia di scopi e obiettivi e dalla definizione da parte delle autorità pubbliche di una visione a lungo termine del mix elettrico e del fabbisogno di reti e mezzi di produzione, basata su una previsione credibile e aperta alle incertezze. Il semplice allineamento e la garanzia di qualità di tutti questi strumenti costituirebbe già una leva considerevole e permetterebbe senza dubbio di eliminare una parte significativa dei sussidi inefficienti (che ammontano a miliardi di euro). Le risorse tratte dalla storia dell’elettricità e del nucleare in Francia, così come i pochi esempi stranieri che abbiamo citato (Cina, Stati Uniti) potrebbero contribuire a questa reinvenzione.

Il coordinamento con la politica energetica europea e con le strategie energetiche dei nostri principali partner – la Germania, ovviamente, ma anche l’Italia, la Spagna, il Belgio, i Paesi Bassi, la Polonia, la Repubblica Ceca, la Finlandia, la Svezia, eccetera – è ovviamente una questione importante e una difficoltà, ma non è un ostacolo insormontabile se le autorità pubbliche hanno una visione chiara, razionale e sostenibile degli interessi a lungo termine del Paese e una comprensione degli obiettivi e degli interessi dei nostri partner. Le complementarietà potrebbero essere più forti delle opposizioni, a condizione che i francesi siano più presenti a Bruxelles al giusto livello di rappresentanza, con dossier elaborati sulla base di argomentazioni economiche, tecniche e giuridiche molto più solide, come hanno fatto i britannici e i tedeschi negli ultimi anni.

Infine, dobbiamo trovare il modo di rendere lo Stato meglio organizzato e più efficiente, sulla base di tre semplici idee riguardanti l’organizzazione, lo spirito operativo e la scelta di uomini e donne:

– un centro di sintesi incaricato di elaborare previsioni energetiche che articolino le dimensioni tecnologiche, industriali e geopolitiche, e di proporre tabelle di marcia strategiche credibili e solide di fronte alle incertezze;

– una sfera pubblica meno frammentata per rafforzare la coerenza delle politiche pubbliche e degli investimenti industriali, per rendere gli enti e gli attori pubblici responsabili delle aree rilevanti. Ciò consentirebbe di riscoprire la cultura dell’innovazione, dell’assunzione di rischi e della responsabilità del “sistema”, affidandosi anche alle istituzioni per il confronto dei punti di vista, consentendo l’implementazione di soluzioni rapide e semplici e soprattutto basate su solide argomentazioni tecniche e scientifiche;

– competenze industriali e scientifiche al centro dello Stato, mobilitate a partire dallo sviluppo di visioni a lungo termine fino all’assegnazione dei finanziamenti. Dovrebbero garantire che nessuna decisione strategica venga presa senza esplicitare le condizioni per il successo industriale nell’attuazione (in termini di efficienza economica e sovranità).

Per il ritorno di uno Stato strategico ed educativo nell’energia
1) Uno Stato strategico che responsabilizzi gli attori e liberi le iniziative private e pubbliche locali nell’interesse generale.

a) Tre obiettivi strettamente legati alla garanzia:

energia a prezzi accessibili per lo sviluppo economico e sociale ;
sicurezza dell’approvvigionamento e autonomia strategica (sovranità)
il rispetto degli ecosistemi e del pianeta Terra (clima, biodiversità, ambiente locale).
b) In vista di questi tre obiettivi, lo Stato strategico dovrebbe

elaborare una previsione energetica e determinare il mix energetico ed elettrico di lungo periodo, tenendo conto delle incertezze geopolitiche, tecnologiche, economiche, sociali e ambientali
stabilire le regole del gioco che consentano la coerenza e l’efficienza degli investimenti a lungo termine e incanalare i finanziamenti verso le scelte energetiche e industriali del Paese;
garantire un controllo industriale di lungo periodo (il punto centrale di questo documento).
Queste tre dimensioni sono essenziali per raggiungere i primi due obiettivi, e ancora più necessarie in vista delle sfide legate alle emissioni di CO2.

c) Mettere la finanza al servizio dell’industria e dell’economia:

Grazie a regole del gioco efficienti e coerenti, delegare la responsabilità degli equilibri domanda-offerta e dei volumi di investimento a un pilota operativo pubblico con competenze industriali, in particolare nei “sistemi elettrici” (centrali elettriche-reti-dispacciamento-utilizzi) (e non a un’agenzia burocratica con scarse competenze e nessuna responsabilità nei confronti del pubblico);
attraverso opportune regole del gioco, facilitare l’accesso ai finanziamenti per gli investimenti a lungo termine in termini economici e industriali (i premi per il rischio dovrebbero essere moderati e i finanziamenti dovrebbero essere molto meno difficili da trovare di quanto non lo fossero sotto la Quarta Repubblica e all’inizio della Quinta Repubblica).
d) Stabilire ruoli equilibrati tra l’Unione europea, gli Stati membri e le autorità locali:

Un’Europa rifocalizzata sui suoi reali “vantaggi comparativi” con una significativa sussidiarietà a favore degli Stati (si veda in particolare l’esempio degli Stati Uniti) [1].
Autorità locali che prendono l’iniziativa nel quadro di regole del gioco chiare e finanziariamente responsabili e orientate agli obiettivi di mix energetico del Paese, responsabili della pianificazione energetica locale per quanto riguarda la scelta dell’uso del suolo (in particolare per l’energia a bassa densità) in base ai loro progetti territoriali.
2) Uno Stato che insegna per un’effettiva “democrazia tecnica” al servizio dei cittadini dovrebbe :

affermare il proprio ruolo centrale nella ricerca scientifica e tecnica, nonché nella promozione dei legami tra industria e artigianato e tra scienza e laboratori [2] ;
garantire la formazione scientifica e tecnica e la diffusione delle conoscenze sui rischi per la salute e l’ambiente;
dotarsi di griglie di analisi economiche e prospettiche, in particolare tecnologiche;
promuovere l’invenzione di un’effettiva “democrazia tecnica”, in particolare promuovendo competenze scientifiche e industriali multidisciplinari al servizio dei cittadini e dei politici, e garantire una chiara distinzione tra il livello logico della consultazione tra le parti interessate e i gruppi di interesse e il livello logico del lavoro collettivo di queste competenze scientifiche e industriali apartitiche e “disinteressate” (lo spirito scientifico e l’epocalità al servizio dell’interesse generale) [3].
[1] Cfr. Jean-Paul Bouttes, “Quelle politique de l’énergie pour assurer la compétitivité de notre économie, réduire notre dépendance extérieure et protéger l’environnement”, in Michel Pébereau (a cura di), Réformes et transformations, PUF, 2018, pp. 235-279.

[2] Si veda Joël Mokyr, La Culture de la croissance. Les origines de l’économie moderne, Gallimard, 2017, e François Caron, La Dynamique de l’innovation. Cambiamento tecnico e cambiamento sociale (XVIe-XXe siècle), Gallimard, 2017.

[3] Si veda Jean-Paul Bouttes, Les Déchets nucléaires: une approche globale (4). La gestion des déchets: rôle et compétence de l’État en démocratie, Fondation pour l’innovation politique, gennaio 2022.

Conclusione

https://www.fondapol.org/etude/souverainete-maitrise-industrielle-et-transition-energetique-2/#chap-4
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Note
22. Le modalità comuni sono le correlazioni tra vento, sole e temperatura e la domanda nei diversi Paesi europei, ad esempio l’assenza di vento durante una settimana invernale fredda nella maggior parte dell’Europa.
23. Si veda Jacques Le Goff, Un long Moyen Âge, Fayard, 2004, e Joël Chandelier, L’Occident Médiéval. D’Alaric à Léonard, 400-1450, Belin, coll. “Mondes anciens”, 2021.
24. Cfr. Rémi Brague, Europe, la voie romaine [1992], Gallimard, collezione “Folio essais”, 1999.
Con la transizione energetica dei prossimi tre decenni, l’elettricità diventerà il principale vettore energetico decarbonizzato delle nostre economie. La sicurezza dell’approvvigionamento elettrico e il suo livello di prezzo per le famiglie e le imprese saranno questioni importanti per le nostre società, in futuro ancora più di oggi. Date le caratteristiche specifiche e l’importanza di queste sfide, è essenziale poter contare su uno Stato strategico ed efficiente, in particolare per proporre e condividere una visione lungimirante e sistemica del mix elettrico a lungo termine, per garantire le condizioni di controllo industriale e per determinare il quadro istituzionale e le regole del gioco per coordinare le iniziative degli attori privati e pubblici. Le autorità pubbliche cinesi e americane sono chiaramente e direttamente coinvolte in questi temi, riunendo le competenze necessarie in questo spirito e hanno messo in atto, ognuna a modo suo e con il proprio genio, gli elementi costitutivi che consentono di preparare il futuro delle tecnologie chiave. La Francia, come l’Europa, ha seguito un percorso diverso. Un tempo modello di successo nel settore elettrico, negli ultimi anni ha visto peggiorare le sue prestazioni e il suo tessuto industriale ha faticato in alcuni dei settori più importanti per il futuro, come il fotovoltaico e il nucleare. Questo diverso percorso, a favore dei mercati a breve termine e di un apparente ritiro dello Stato, è stato intrapreso dai decisori in modo deliberato ed esplicito. Si può cambiare solo se la diagnosi collettiva degli errori degli ultimi decenni e le strategie auspicabili per uscirne oggi sono condotte con rigore e determinazione. Non basta usare nei discorsi le parole o le espressioni “pianificazione”, “industria” o “lungo termine”, dopo due o tre decenni di oblio collettivo del loro significato concreto. Occuparsi degli equilibri tra domanda e offerta di energia elettrica significa lavorare sulla considerazione precisa dell’intermittenza, dei modelli di insolazione e di vento a lungo termine e delle loro modalità comuni22 nello spazio europeo. Ciò implica anche una precisa comprensione dei vincoli delle leggi dell’elettricità in tempo reale, del ruolo delle macchine rotanti nell’inerzia del sistema e del vero stato dell’arte dell’elettronica di potenza e del software di controllo. Ciò implica ancora la considerazione di uno spettro sufficientemente ampio di scenari relativi alla domanda, alle tecnologie e alle incertezze associate per avere un sistema resiliente, con i necessari margini di riserva. Infine, la padronanza industriale delle tecnologie future presuppone, come abbiamo visto, una visione affidabile a lungo termine dei temi e delle tecnologie in cui i politici vogliono che il Paese investa, e la mobilitazione di reali competenze industriali al servizio di questa visione.

Dobbiamo avere l’umiltà di riconoscere oggi la nostra debolezza in tutti questi settori per darci una reale possibilità domani di invertire la tendenza e raccogliere queste sfide. Forse abbiamo abbandonato troppo in fretta, negli anni ’90, lo spirito di previsione abitato dalle incertezze, dalla tragedia della storia e dall’importanza della volontà e dell’impegno degli attori, a favore di una visione troppo semplice delle tecnologie del futuro e del funzionamento dei mercati internazionali ed europei. Occorre riscoprire una previsione modesta e lucida sulla fragilità delle società e che si basi, per l’azione, sulla conoscenza sia dei sistemi tecnici specifici sia dei dati culturali, sociali e territoriali. Previsione aperta alle grandi incertezze e alle determinanti geopolitiche, culturali ed ecologiche di lungo periodo, e “lavoro duro” sulle condizioni di successo delle strategie (industriali e tecnologiche, regole del gioco e politiche pubbliche): sono queste le due dimensioni che ci sono sembrate animare il lavoro collettivo al servizio della politica e dello Stato in Francia tra il 1945 e il 1975. Queste due dimensioni potrebbero ispirarci ancora oggi e permetterci di ricostruire uno Stato strategico competente e attivo, capace di liberare le iniziative private e locali.

Nella storia dell’Europa, le tre rinascite del “lungo Medioevo” descritte dallo storico Jacques Le Goff23 – la rinascita carolingia, la rinascita del XII secolo e la rinascita del XV-XVI secolo – sono state preparate in periodi difficili e sono state pensate con modestia e speranza in riferimento a culture del passato vissute come modelli, come simboleggia questa frase attribuita a Bernardo di Chartres nel XII secolo e così spesso ripetuta per tutto il Medioevo fino all’inizio dell’era moderna: “Siamo nani sulle spalle di giganti. “. È questa, per certi versi, anche la suggestiva tesi del filosofo Rémi Brague della “via romana” dell’Europa24 , il cui dinamismo deriverebbe da una modestia ereditata da Roma e dal cristianesimo di fronte ai riferimenti eterni e ideali di una doppia alterità, Atene e Gerusalemme, la civiltà e la lingua greca da un lato, e la civiltà e la lingua ebraica dall’altro. Dovrebbe anche essere un invito ad affidarsi sempre più senza riserve alle risorse della nostra storia recente e più lunga, così come a quelle di altre grandi regioni del mondo, per raccogliere la sfida della transizione energetica e inventare la nostra “via francese ed europea”.

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La costruzione di una nazione, di Daniele Lanza

NATION BUILDING
(*nota storica sullo stato finlandese. Scrivo di corsa, per varie ragioni, ma chi sia un minimo interessato…..legga)
Recenti polemiche nate sulla mia bacheca mi impongono un chiarimento che voglio fare per esteso. Premetto che sono per natura osservatore critico – dei processi di nation building – ovvero di formazione di identità e stati (incluso lo stesso stato ITALIANO, per intenderci).
Si parla di Finlandia giusto ? Oggi è diventata il 31° membro dell’Alleanza atlantica, la notizia ha fatto il giro del mondo, con conseguente replica da parte del Cremlino: analisti in coro a commentare di questo storico irrigidimento delle relazioni tra i due stati, eventualmente andando a ripescare un caleidoscopio di eventi storici che ci portano indietro di generazioni. Tutto finalizzato a supportare il bisogno di DIFESA da parte della Finlandia contro il bruto vicino.
Adesso invece vorrei descrivere io le cose, andando ancora più addietro nel tempo, ma senza diventare un bignami nè un tomo di accademia (mi si legga bene da qui in avanti).
La superficie che conosciamo oggi sulle carte come “Finlandia” rientra in quella categoria di stati la cui materializzazione come entità sovrana è estremamente recente: se si considera recente la genesi dello stato italiano (1861) allora quella finlandese si colloca quasi 60 anni più tardi……..ma partiamo dal principio, facciamo una potente sintesi.
L’areale finnico è stato tra gli ultimi angoli d’Europa a venir cristianizzato (assieme al Baltico) : si trattava di un semplice territorio, un tavolato piatto costellato di laghi con una popolazione risicatissima allo stato tribale dell’evoluzione sociale. I tre segmenti fondamentali di questo popolo sono a) finni, b) tavasti c) careli…che potremmo considerare tre grandi rami della stessa macrotribù.
Ai tempi delle crociate, mentre i sovrani d’Europa si recavano alle crociate in Terrasanta, la situazione era ancora la medesima (qualcosa di vicino al protostorico).
Il canone di civiltà (cristiano) dell’Europa del tempo viene portato dai conquistatori e questi sono 2: una spinta da OVEST (gli scandinavi, in primissimo luogo svedesi) e una spinta da EST (slavi della vicina repubblica di Novgorod).
Entrambe le parti guadagnano terreno: i russi iniziano ad assoggettare la Carelia orientale, mentre i crociati svedesi, conquistano a cristianizzano careli occidentali e finni nell’Anno Domini 1293 (la chiamano terza crociata svedese sui manuali).
La grande maggioranza del territorio è occupata dai cavalieri svedesi e tale rimarrà nei secoli a venire, diventando il “cortile orientale” degli stati medievali scandinavi: il suo nome è Österland. Mandatevi bene a memoria questa basilare denominazione perchè essa è quella utilizzata per oltre 250 anni in pratica. Österland = terra dell’est (o se vogliamo “settore est” nella visione amministrativa/tributaria dei sovrani di Svezia). La terra non è particolarmente ricca – solo terra di pescatori e cacciatori – ma si rivelerà crescentemente utile in veste di piattaforma offensiva contro l’entità slavo orientale più ad est (…..).
Nel corso del 16° secolo significativi cambiamenti: la monarchia svedese – in linea col trend di tutto il continente nella prima età moderna – vede l’affermarsi di un modello più centralizzato ed organizzato di quanto fosse mai stato: in tale opera di razionalizzazione viene riformata la suddivisione tradizionale sostituendola con una più articolata ed anche aggraziata, nel contesto della quale spicca l’Österland il cui intero territorio viene rinominato “Granducato”. Si tratta di una riforma amministrativa che trae i suoi connotati estetici dalla cultura dinastica del tempo: il sovrano di Svezia, amplia i propri titoli e possedimenti attribuendo anche al povero Österland un suo “coat of arms” ovvero un vessillo araldico (di proprietà del re di Svezia naturalmente – Johann III° -non dei sudditi che vi abitano…i quali sono una sua naturale estensione). Nel farlo si decide di utilizzare la parola “Finland” che di norma indicava solo gli abitanti della fascia più meridionale del paese, sulla costa). in tal modo consacrava e ufficializzava secondo l’usanza degli stati dinastici dell’epoca, il possesso dei 360’000 km/q (più dell’Italia) lungo i quali questo territorio si estende. Nasce dunque il “Granducato di Finlandia”
Correva l’anno 1581 : siamo ovvero all’alba del periodo storico – età moderna mediana – di massima potenza della monarchia svedese (stride con l’immagine assolutamente innocua che negli ultimi 150 anni si è guadagnata). Tale riorganizzazione è concomitante cronologicamente con un evento geostrategico rilevante : la GUERRA LIVONICA (*manca lo spazio per spiegarne nel dettaglio i connotati, ma si tratta di un lungo conflitto che occupa l’ultimo 1/3 del 16° secolo, che vede opposta la Russia di Ivan IV al regno di Polonia e a quello di Svezia: quest’ultimo si avvantaggia espandendo la propria area di influenza partendo dall’area finnica e baltica che congiunge territorialmente conquistando l’Ingria).
In parole povere a fine secolo si configura una situazione in cui TUTTO il tratto geografico BALTO-FINNICO è in mano a potenze ostili (Svezia e Polonia): un trampolino strategico ideale – e lo sarà – per ulteriori eventuali incursioni nella Russia interna.
Il regno di Svezia tuttavia, raggiunto il suo zenit, perde rapidamente terreno: fondamentale la sconfitta contro Pietro il grande che a seguito della “grande guerra del nord” (1700-21), uno dei tasselli chiave della geopolitica del secolo entrante -il 18° – col quale strappa l’intero blocco corrispondente agli odierni paesi baltici alla corona di Svezia (tratt. di Nystad, 1721, invocato poi duecento anni dopo, alla caduta dello zarismo, come fondamento per l’indipendenza di Estonia e Lettonia. Ovvero, se l’unione alla Russia dipende dalla monarchia, allora finita questa, finisce tutto il resto. “Niente tsar = niente unità politica russo-baltica” : l’aristocrazia – prevalentemente germanica -estone/lettone ci provò perlomeno…..mentre i bolscevichi si misero a ridere invece). Col trattato di Nystad viene ceduta anche una parte di Carelia….un territorio che in seguito verrà chiamato “vecchia Finlandia” per distinguerlo dal resto del territorio finlandese che sarà annesso un centinaio di anni più tardi (leggi sotto).
inseriamo una nota d’obbligo: la prima a parlare di un possibile utilizzo della lingua finlandese fu proprio l’imperatrice Ekaterina II nel 1742 (probabilmente desiderosa di erodere il vantaggio dello svedese).
Meno di 100 anni dopo Nystad infatti………………un’ulteriore grave sconfitta per il regno di Svezia che perde anche la penisola finnica, ceduta quindi all’impero dei Romanov, così che saranno questi ultimi a rivestire il titolo di granduchi di Finlandia, pensato ed usato sino all’ultimo dalla corona svedese per rafforzare il controllo sulla Finlandia (che oramai geo politicamente è scudo e cuscinetto tra Svezia e Russia per tutto il XVIII° sec.).
Siamo nel 1808 quando la Finlandia (un cuscinetto tra scandinavi ormai in declino e impero zarista in ascesa imperiale) diventa parte dell’impero.
La storia dei 110 anni di governo zarista sulla Finlandia è relativamente calma: sin dal principio il granducato finlandese gode di uno status del tutto particolare rispetto ad altri possedimenti imperiali. NON è un’espansione coloniale (come Asia centrale), NON è una provincia slava, trattata come tale. E’ un territorio federato all’impero……senza grandi costrizioni, con status autonomo: in era di rigurgiti nazionalistici e identità etniche, non è considerato nemmeno parte della patria slava, ma piuttosto una umanità “aggregata” ad essa, ingenua e innocua. Molti esuli russi si rifugiavano lì. Praticamente la Finlandia fu trattata – comparativamente ad altri territori imperiali – in maniera molto morbida (come se fosse un paese europeo, da trattare coi guanti di velluto…)
Non si fecero sforzi per slavizzare forzatamente la cultura locale se non alla fine del secolo XIX (e anche in quel caso occorreva non tanto vincere le resistenze finlandesi, quanto quelle dell’elite etno-linguistica che era svedese. L’elite non voleva parlare russo…….ma non perchè parlasse il finlandese, quanto perchè non voleva smettere di usare lo SVEDESE !). Per cento anni sarà PAX RUSSICA (termine derogatorio per gli antirussi, ma che comparativamente ad altre parti dell’impero sarebbe potuta essere paradossalmente veritiera).
Il settore inizialmente sembrava talmente calmo…che un consigliere dello tsar decise – nel contesto della riorganizzazione territoriale della Finlandia come parte dell’impero – di fondere la Finlandia appena conquistata (1808) con la “vecchia Finlandia” presa ancora prima ai tempi di Pietro il grande (1721).
A me gli occhi signori: quest’ultima mossa fu molto imprudente ed è alla base delle dinamiche che si innescheranno dopo: è analoga a Krushev che, pensando l’Ucraina alleata per sempre….concesse loro la Crimea (pensateci tutti, per favore. Questo è l’elemento più importante del post che mi sforzo di buttar giù***)
PAUSA (…)
Dunque. Passano il secolo zarista della Finlandia (le politiche di russificazione falliscono). Arrivati al 1917, l’elite finlandese approfitta in un lampo della situazione: non soltanto si sgancia (portando via con sè anche la preziosa Finlandia “vecchia” che era parte della Russia da 2 secoli), atto che potrebbe essere visto come LECITO da chiunque creda nell’autodeterminazione dei popoli (d’accordo).
Il problema è che lo fa in piena sinergia diplomatica con l’Impero tedesco (ancora in guerra), che contempla nei suoi piani di farne una monarchia germanica per dinastia e ferreamente allineata allo stato kaiseriano: un gioco di scatole cinesi visto dal punto di vista della sicurezza russa, ovvero una indipendenza (concetto lecito di per sè) portatrice però di una sudditanza geopolitica nei confronti della maggiore potenza d’Europa, il Reich tedesco, diventandone a questo punto un asset strategico notevolissimo, vista la vicinanza alla capitale S.Pietroburgo (e anche dato che l’intera fascia baltica sarebbe passata sotto Berlino, secondo i piani originari, poi annullati dalla sconfitta tedesca ad occidente).
Lo stato russo – ora sovietico – malgrado non sia più portatore dello sciovinismo reazionario zarista, si rende conto perfettamente della gravità della situazione: il piano germanico, come detto, non si avvererà, data la sconfitta finale nel 1918………..ma la Finlandia repubblicana come stato indipendente in ogni caso OSTILE alla Russia (come si era oramai capito) rimane una questione aperta.
I bolscevichi cercano di vincere una guerra in Finlandia per farne una repubblica socialista da riunire a Mosca, ma falliscono : vincono i BIANCHI finlandesi, capitanati da Mannerheim.
Per i successivi 20 anni la Russia deve ricostruirsi daccapo ed entrare nella modernità (a un prezzo indescrivibile): quando, superato lo shock, inizia di nuovo a comportarsi come una potenza del suo calibro dovrebbe….non può non rendersi conto della debolezza della frontiera nord-orientale, così vicina a Leningrado. Soprattutto inaccettabile che lo stato finlandese potesse costituire un pericolo (non tanto per conto proprio, ma un domani, utilizzato da altre potenze che lo usassero come base contro la Russia) e che lo facesse avvalendosi dei territori della “vecchia Finlandia”: quelli che appartenevano a Pietro il grande in persona e che nulla avrebbero dovuto avere a che fare con la rivoluzione indipendentista finlandese, se non fosse che un consigliere zarista di un secolo prima le aveva regalate amministrativamente alla Finlandia (di nuovo: come la Crimea all’Ucraina). Un ponte di terra non grande, ma sicuramente cruciale, e moralmente simbolico di oltre 200 anni di storia russa.
Da qui tutto il resto che meglio si conosce: la diplomazia di fine anni 30 va a farsi friggere e inizia la guerra CCCP-Finlandia (seguita poi dall’apparentamento Finlandia-Terzo Reich a partire dal 1941…)
Non vado oltre. Decida il lettore (non posso farlo io per lui), lo spessore storico e morale degli eventi. Comprenda da solo PERCHE’ lo stato russo veda con sospetto al confine nord-est (alla luce di 500 anni di evoluzione che ho grossolanamente narrato).
[mappa in basso: cartina storica del regno di Svezia nel 1760, ovvero 40 anni dopo Nystad, ma prima di perdere l’intera Finlandia nel 1808]
 
“PAASIKIVI-KEKKONEN”
(c’era una volta una Finlandia neutrale)
Una brevissima nota in merito all’ingresso di Helsinki nell’Alleanza atlantica domani. Il nome in alto tra virgolette -che apre l’intervento – è molto probabilmente sconosciuto al 99% dei lettori (qualcuno penserà al nome di qualche sportivo o chissà quale località sciistica….): si tratta dei cognomi di due politici finlandesi, la cui opera ha dominato la vita pubblica del proprio paese per il mezzo secolo successivo al conflitto mondiale. Un binomio che ha fatto la storia nazionale garantendone la sicurezza per il periodo 1945-1991. Vediamo come.
Paasikivi (al secolo Johan Gustaf Hellsten di discendenza svedese come buona parte dell’elite finlandese della sua generazione), fu impegnato intensamente nella politica interna finlandese sin dai tempi dell’impero zarista: si distingue per il suo supporto alle correnti autonomiste, ma MODERATE, in modo da non provocare il potente vicino. La parentesi del primo conflitto mondiale e l’indipendenza sono l’occasione per distinguersi come sostenitore di una piena sovranità in versione monarchica e quindi repubblicana (in opposizione alla Russia bolscevica): inizia una brillante carriera diplomatica tra le due guerre che va a finire con la guerra contro l’Urss staliniana e il successivo coinvolgimento bellico finlandese a fianco del Reich. Le sue posizioni prudenti e neutraliste (tra le pochissime presenti) non trovano sponde nel sentire politico finlandese dei primissimi anni 40, guadagnandone isolamento (…). Paasikivi e il suo moderatismo tornano tuttavia enormemente utili dopo la fine della guerra: terminata la parentesi bellica (ossia obbligata la Finlandia ad un armistizio separato, in extremis, con l’armata rossa alla porte, prima dell’eventuale catastrofe…) occorre ricostruire ex novo i rapporti diplomatici con Mosca. Paasikivi, primo presidente di Finlandia del dopoguerra, fa storicamente ammenda nel gestire l’imbarazzante faccia a faccia diplomatico con Mosca a conflitto finito (…): accetta tutte le clausole sovietiche, tra cui anche l’impegno a NON schierarsi con altre potenze potenzialmente ostili all’Urss (trattati 1947-48). La cosa prevedeva anche misure sulla stessa cultura finlandese, come il divieto di rappresentare i russi in una luce negativa sui mass media o in letteratura (…).
In pratica, al di là dei risarcimenti e delle cessioni territoriali, il bottino diplomatico più GRANDE che l’Urss porta a casa è la garanzia di uno stato del tutto NEUTRALE ai suoi confini settentrionali, un cuscinetto affidabile tra essa e la Scandinavia. Si basi bene, è scritto “neutrale” e non parte del blocco orientale (tanto quanto non parte di quello occidentale). Paasikivi scompare nel 1956, ma la medesima politica fu portata avanti efficacemente da Kekkonen (il secondo cognome) per i successivi trent’anni, durante i quali controlla letteralmente la politica del paese : al culmine di questa si afferma l’espressione, “dottrina Paasikivi-Kekkonen”, per riferirsi alla particolare gestione dei rapporti col Cremlino per l’intera durata della guerra fredda.
In effetti, occorre sottolineare, la posizione post-bellica della Finlandia è oggettivamente poco nota ai non addetti al settore: per quanto si percepisca a consideri questo paese come naturale parte dell’occidente europeo (alla pari dei vicini scandinavi), la sua posizione nel corso dei 40-50 anni che coprono la guerra fredda fu non di paese “bianco”, bensì di paese “grigio”, mai esponendosi troppo, soprattutto contro il Cremlino. A completezza di informazione va aggiunto che tra le clausole post-belliche era previsto anche un dovere di “resistere” da parte delle forze armate finlandesi in caso una forza esterna tentasse di aggredire l’Urss attraversando la Finlandia (facendo riferimento alla Germania, ma pensando alla Nato nel futuro a venire): non un’alleanza militare certo, ma qualcosa di analogo ad una “partnership difensiva” particolare.
La cosa fu notata ad occidente che iniziò ad utilizzare l”’espressione” “dottrina Paasikivi-Kekkonen” in senso derogatorio (ossia sottolineando la subordinazione silenziosa della democrazia finlandese nei confronti del vicino): quanto allo status militarmente ambiguo (la partnership difensiva) si arrivò senza esitazioni ad includere il territorio finlandese come potenziale bersaglio di testate, da parte occidentale.
Insomma…..l’intero occidente non riuscì a metabolizzare lo status “grigio” della Finlandia post-bellica. Detto in parole più chiare: si poteva accettare che un paese fosse parte IN TOTO del patto di Varsavia (come Polonia e gli altri), dato che in quel caso li si poteva screditare alla stregua “satelliti” o “pedine”……ma era molto più problematico che una DEMOCRAZIA OCCIDENTALE (come lo stato finlandese oggettivamente era) fosse sceso così profondamente a patti con la potenza sovietica. Inaccettabile che non si potesse capire se era amico o nemico (una filosofia del mondo in blocchi va molto più d’accordo con il bianco e il nero che non il grigio).
Lo stesso occidente atlantico dimenticava – come tanto spesso succede – un piccolo dettaglio (di quelli macroscopici): che la Finlandia doveva farsi perdonare 3 anni di guerra al fianco di Hitler contro l’Unione Sovietica. Coinvolgimento bellico (portato avanti con relativa prudenza da Mannerheim, ma pur sempre coinvolgimento) che ad occidente si scelse volutamente di DIMENTICARE: ci si passò sopra con nonchalance, anche perché la Finlandia aveva combattuto col Reich non contro gli angloamericani, ma solo contro i sovietici (…).
L’Urss – parte offesa – decise di non passarci sopra invece e occorre dire che nemmeno usò tutto il proprio potere: rinunciò all’ipotesi estrema di far capitolare la Finlandia arrivando fino ad Helsinki (come avrebbe potuto fare nell’autunno del 1944, instaurando poi un governo filosovietico), ma impose nei trattati di pace successivi, che MAI più potesse venire un pericolo dalla frontiere russo-finlandese. Era veramente il MINIMO che si potesse domandare dopo quanto era successo.
Ad occidente si denigrò sempre pubblicamente la dottrina “Paasikivi-Kekkonen” (evitando accuratamente di spiegare il retroscena ei perché).
Seppure non eroica, la dottrina Paasikivi-Kekkonen, garantì comunque mezzo secolo di sicurezza sostanziale alla propria piccola popolazione : mi domando cosa sarà da domani (ritorno a Mannerheim ?! I nazionalisti finnici più ingenui lo pensano, ma io ne dubito….ancora peggio: dal Terzo reich si riuscì a smarcarsi – riuscendo a combinare, disperatamente, una pace separata nell’ottobre del 1944. Con l’alleanza atlantica – e le testate atomiche che indubitabilmente vi verranno piazzate – non sarà possibile nemmeno quello (anche un governo finlandese volesse concludere trattati a parte NON potrà farlo perché la presenza di armamenti nucleari sul proprio territorio gestiti da Washington renderebbe il territorio stesso bersaglio a prescindere. Meditare).
FINE.
 
(FUNNY)
Manifesto svedese d’annata (1939. Si invita all’arruolamento volontario in difesa della Finlandia durante la guerra invernale contro l’Urss).
Ai conoscitori di storia del nord Europa viene subito in mente che la Finlandia in realtà non è mai esistita come stato indipendente prima del 1918: prima di quella data, era stata per oltre un secolo una suddivisione territoriale dell’impero zarista sotto il nome di Granducato di Finlandia (sebbene non esistesse alcun granduca o alcuna tradizione nobiliare finnica: il granduca era lo tsar stesso). Molti ricordano questa fase storica come per retrodatare rispetto allo stesso comunismo le mire espansionistiche russe : nel farlo dimenticano che sempre il territorio finlandese (ancora non stato nazionale), prima di finire in mano agli tsar era dominio del regno di SVEZIA…….il cui elemento etnico costituiva la totalità dell’elite finlandese (ancora ai primi del secolo il 20% della popolazione di Helsinki si esprimeva in svedese ed ancora il 12% allo scoppio del conflitto mondiale….concentrati negli strati superiori della società, naturalmente).
Alla luce di questo fa dunque specie osservare il manifesto in questione, che sembra amorevolmente affiancare servitore (finlandese) e ex-padrone (svedese): quest’ultimo in fondo sarebbe felice di tornare alla sua antica posizione.

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Sovranità, controllo industriale e transizione energetica (1), di Jean-Paul Bouttes

Articolo interessante pur con la riserva sul merito delle politiche attuali di conversione energetica. Giuseppe Germinario

Sintesi

 

Le questioni energetiche sono una questione di prosperità e di sovranità dello Stato. Gli anni 1945-1990 in Francia illustrano come sia stato possibile esplorare nuove strade e impiegare rapidamente e su vasta scala tecnologie innovative adatte a queste sfide essenziali per il nostro Paese. Anche gli ultimi decenni in Cina e negli Stati Uniti dimostrano l’efficacia di questo metodo. Esso si basa sul ruolo fondamentale dello Stato nel padroneggiare le condizioni per il successo industriale e può consentire di rilanciare il settore e di riconquistare la potenza e la prosperità che gli sono proprie, a condizione che una visione politica sia condivisa dai vari attori.

 

Nella prima parte di questo studio, Jean-Paul Bouttes ci riporta indietro nel tempo per svelare le caratteristiche principali del periodo che ha visto la Francia diventare pioniera nel campo dell’energia nucleare.

 

Nella seconda parte, l’autore allarga il discorso alla transizione energetica, basandosi su esempi esteri e più recenti di successo industriale, come i pannelli fotovoltaici in Cina o la versione americana (Advanced Research Projects Agency-Energy, ARPA-E) dei Programmes d’investissements d’avenir (PIA). Lo studio si conclude con la situazione francese, dove gli ultimi due decenni sono stati segnati da un declino delle nostre competenze industriali, in particolare nei nostri tradizionali punti di forza (nucleare, fossile, rete), dalle difficoltà di EDF, Areva, Framatome, Alstom e, cosa più preoccupante, dai fallimenti dei tentativi industriali nel fotovoltaico e nell’eolico onshore.

Copyright: Archivio EDF

Fonte: Nel 1958, il generale de Gaulle visitò il centro atomico di Marcoule, nella regione del Gard, dove constatò i progressi compiuti dal 1945, data in cui firmò l’atto di nascita dell’industria nucleare in Francia. Al suo fianco, Maurice Pascal (a destra del generale de Gaulle nella foto), allora responsabile degli studi sulle batterie presso il Commissariat à l’énergie atomique (CEA), spiega al Capo di Stato i dettagli della sala di controllo del reattore G2. Ex studente dell’École polytechnique, Maurice Pascal (1920-1996) iniziò la sua carriera presso la delegazione ministeriale per gli armamenti. Nel 1954 è stato inserito in una posizione di responsabilità presso il CEA. Dal 1964 è stato responsabile della politica industriale.

https://www.fondapol.org/etude/souverainete-maitrise-industrielle-et-transition-energetique-1/216_nucleaire_i_couv_fond/

 

Ringraziamenti

Questo lavoro deve molto agli scambi condivisi con molti attori della storia del nucleare francese. Desidero ringraziare in particolare Bernard Esambert per la sua attenta lettura, nonché Gilles Bellamy, Lorraine Bouttes, Yves Bréchet, Michel Clavier, Pierre Daurès, Sylvain Hercberg, Bruno Lescoeur, Bernard Tinturier e Gilles Zask per i loro commenti e suggerimenti. Tuttavia, sono naturalmente l’unico responsabile delle analisi e delle opinioni espresse in questo libro.

 

Jean-Paul Bouttes

 

1

Elenco delle abbreviazioni e degli acronimi utilizzati nel primo volume

 

AGR: Reattore avanzato raffreddato a gas.

AHEF: Association pour l’histoire de l’électricité en France.

AIE: Agenzia Internazionale dell’Energia.

ARPA-E: Advanced Research Projects Agency-Energy.

ASN: Autorité de sûreté nucléaire (Autorità per la sicurezza nucleare).

CEA: Commissione francese per l’energia atomica.

CEE: Comunità economica europea.

CEEA/Euratom: Comunità europea dell’energia atomica.

CEGB: Central Electricity Generating Board.

CGE: Compagnie générale d’électricité.

Cigre: Conferenza internazionale dei grandi sistemi elettrici.

WEC: Consiglio Mondiale dell’Energia.

COP: Conferenza delle Parti.

DGSNR: Direction générale de la sûreté nucléaire et de radioprotection.

DSIN: Direction de la sûreté nucléaire (Direzione della sicurezza nucleare).

EDF: Électricité de France.

ENA: École nationale d’administration.

EPR: Reattore pressurizzato europeo.

INSTN: Institut national des sciences et techniques nucléaires (Istituto nazionale di scienze e tecnologie nucleari).

IPSN: Institut de protection et de sûreté nucléaire (Istituto per la protezione e la sicurezza nucleare).

IRSN: Institut de radioprotection et de sûreté nucléaire (Istituto di radioprotezione e sicurezza nucleare).

PEON: Produzione di energia elettrica da fonti nucleari.

PWR: Reattore ad acqua pressurizzata.

SCSIN: Service central de sécurité des installations nucléaires.

Sfac: Société des forges et ateliers du Creusot.

SENA: Société d’énergie nucléaire franco-belge des Ardennes.

UKAEA: Autorità per l’energia atomica del Regno Unito.

UNGG: Uranio naturale, grafite e gas.

Unipede: Unione internazionale dei produttori e distributori di energia elettrica.

 

Introduzione

 

https://www.fondapol.org/etude/souverainete-maitrise-industrielle-et-transition-energetique-1/#chap-1

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Note

  1. La prima parte di questo articolo si concentra sulla storia del nucleare civile dal 1945 al 1975 in Francia. L’autore si basa in particolare sul libro di Boris Dänzer-Kantof e Félix Torres, L’Énergie de la France. De Zoé aux EPR, l’histoire du programme nucléaire (Éditions François Bourin, 2013).

del programma nucleare basato non solo su documenti storici ma anche su interviste a molti degli attori di questa avventura. Marcel Boiteux e Philippe Boulin sono all’origine di questo progetto, che l’autore di questo documento ha potuto realizzare e accompagnare.+

  1. Con, ovviamente, la mobilitazione e lo sviluppo di tutte le altre energie rinnovabili rilevanti: biomassa, geotermia, energie marine…
  2. IEA, Energy Technology Perspectives 2006. A sostegno del Piano d’azione del G8, OCSE, 2006.
  3. Il termine progetto di base si riferisce al progetto complessivo della centrale, che deve essere integrato da piani dettagliati dell’impianto (progetto dettagliato). Si sviluppa sulla base di uno schizzo iniziale a livello di progettazione, il progetto concettuale.+ 5. La preoccupante situazione economica in Europa e nel mondo è stata caratterizzata da una serie di problemi.

La preoccupante situazione economica in Europa e in Francia, dovuta alla guerra di Vladimir Putin in Ucraina, ci ricorda l’importanza centrale, sia per la nostra prosperità che per la nostra sicurezza, di un’energia competitiva che risponda a due criteri aggiuntivi: disponibilità garantita e impatto limitato sull’ambiente1 . Per raggiungere questo obiettivo, il controllo industriale delle tecnologie di produzione e trasformazione dell’energia e la capacità di anticipare il mix energetico più adatto alle nostre esigenze a lungo termine sono i due principali fattori di successo. Queste sfide saranno ancora più grandi se vogliamo attuare la transizione energetica necessaria nei prossimi decenni per affrontare la sfida del riscaldamento globale, tenendo conto di un contesto geopolitico che sarà fonte di preoccupazione duratura.

 

Per raggiungere questi obiettivi, dimenticando le lezioni della storia e le caratteristiche tecnico-economiche e industriali dell’energia, in particolare dell’elettricità, gli Stati europei si sono affidati quasi esclusivamente ai mercati europei (per il gas e l’elettricità) o internazionali (per le attrezzature o le materie prime). Il compito era impossibile per i soli mercati e, di fronte alla resistenza della realtà, gli Stati membri dell’UE e la stessa Unione Europea hanno reagito moltiplicando leggi, obiettivi e regolamenti, ma senza assumere chiaramente il loro ruolo. Questi interventi incoerenti di fronte ai “fallimenti del mercato” si sono tradotti in un grave fallimento delle autorità pubbliche.

 

Questo fallimento è ancora superabile a patto che si faccia una diagnosi corretta del ruolo degli Stati e che si correggano le loro carenze e quelle dei mercati. Si tratta di mobilitare le necessarie competenze industriali, scientifiche e lungimiranti, di impostare un’organizzazione leggera e responsabile della sfera pubblica, di incoraggiare le iniziative, sia del settore privato che degli enti locali, nel quadro di regole del gioco semplici ed efficaci. Gli esempi qui presentati, relativi alle sfide del controllo industriale nei settori delle grandi tecnologie per la decarbonizzazione, come il nucleare o i pannelli fotovoltaici, dimostrano che tutto ciò è stato attuato con successo in Francia negli anni ’50-’90, e in Cina o negli Stati Uniti negli ultimi trent’anni. Spetta ora a noi trovare il percorso francese ed europeo che ci permetta, con una diagnosi condivisa e rigorosa che non si accontenti di parole troppo spesso fuorvianti, di apportare i necessari cambiamenti strutturali in termini di organizzazione dello Stato e di regole del gioco europeo per correggere la situazione il più rapidamente possibile nel prossimo decennio.

 

Di fronte al cambiamento climatico, dobbiamo intraprendere una transizione energetica globale di dimensioni senza precedenti, con obiettivi di “emissioni nette zero” entro la metà del secolo. Per ridurre in modo significativo le emissioni di gas serra, dovremo innanzitutto decarbonizzare la produzione di energia elettrica ed elettrificare in modo massiccio gli usi energetici, attuando al contempo un’ambiziosa politica di risparmio energetico. Per la maggior parte, conosciamo le tecnologie che dobbiamo sviluppare e implementare: dal punto di vista della produzione, l’energia nucleare, i pannelli fotovoltaici e le turbine eoliche, la cattura e lo stoccaggio delle emissioni di CO2, l’energia idraulica2 ; dal punto di vista dell’utilizzo, le batterie e i veicoli elettrici, le pompe di calore, i processi industriali elettrici… Questa roadmap è nota da circa vent’anni, come dimostrano, ad esempio, le dichiarazioni del vertice del G8 presieduto da Tony Blair nel 2005 a Gleneagles, il primo rapporto dell’Agenzia Internazionale dell’Energia (AIE) del 2006, Energy Technology Perspectives3 , sul rapporto energia-clima, o le proposte di roadmap settoriali discusse alla Conferenza delle Parti (COP) di Montreal nel 2005. Tuttavia, ad oggi, i risultati in termini di decarbonizzazione sono deludenti. Una delle ragioni principali è l’aver trascurato le questioni industriali e la perdita di controllo industriale nel settore energetico, soprattutto in Europa e in Francia negli ultimi decenni. La massiccia diffusione di queste tecnologie ad alta intensità di capitale richiede un controllo dei costi per conciliare clima e sviluppo economico, nonché gli anelli chiave delle catene del valore (apparecchiature a valore aggiunto, materiali critici, digitale) in un contesto di geopolitica di ritorno. La padronanza delle questioni industriali legate alla produzione e alla costruzione di queste tecnologie ad alta intensità di capitale è al centro degli obiettivi inscindibili di efficienza economica, competitività, sovranità economica e autonomia strategica. Il raggiungimento di questi obiettivi richiede una solida cooperazione internazionale.

 

In questa prospettiva, la Francia può offrire un esempio di successo nel guidare una transizione basata sulla padronanza di queste problematiche industriali. Tra il 1974 e il 1990, è stata in grado di attuare una delle transizioni più rapide nel mondo dell’energia, sostituendo l’energia nucleare alle centrali a carbone e a petrolio, consentendole, al termine di questa transizione, di beneficiare di un mix elettrico decarbonizzato al 90% (75% nucleare, 15% idroelettrico), di prezzi dell’elettricità tra i più bassi d’Europa, di costi d’investimento pari alla metà di quelli degli Stati Uniti e della padronanza industriale del settore dei reattori ad acqua pressurizzata. Il programma nucleare civile francese è stato un successo in termini economici e di sovranità: il Paese si è liberato dalla dipendenza dalle importazioni di combustibili fossili, compreso il petrolio, per la produzione di energia elettrica, e ha padroneggiato la catena del valore nucleare, compreso l’arricchimento, facendo leva su una forte cooperazione internazionale (licenza francese Westinghouse, impianto di arricchimento Eurodif a Tricastin, partecipazioni di società elettriche europee in centrali nucleari francesi, ecc.) Inoltre, grazie alla sua portata (ogni anno, per dieci anni, sono state messe in funzione da quattro a sei unità da 900 a 1.300 MW), questo programma ha permesso una significativa elettrificazione degli usi residenziali (scaldabagni, riscaldamento, ecc.) e industriali, soddisfacendo nel 1990 un consumo di elettricità doppio rispetto a quello del 1973, in un momento in cui la sobrietà energetica, istituita nel quadro della “caccia allo spreco” dopo i due shock petroliferi, ha portato a una quasi stagnazione del consumo finale di energia. Questi movimenti sono esattamente in linea con l’attuale scenario “zero emissioni nette” dell’AIE, che si basa sia sulla sobrietà energetica sia su un aumento di due volte e mezzo della produzione di elettricità entro il 2050.

 

Pensiamo spesso alle condizioni del successo industriale della massiccia diffusione dal 1974 al 1990, dopo la prima crisi petrolifera: una decisione politica nel 1974-1975 che offre una visibilità a lungo termine concretizzata da un programma, una progettazione di base4 finalizzata su un prodotto robusto e semplice da costruire (i reattori ad acqua pressurizzata Westinghouse), serie standardizzate, un tessuto industriale di qualità e un architetto industriale chiaramente responsabile e competente, ovvero EDF. Tutto questo è vero, ma non è sufficiente a spiegare il successo di questa realizzazione. È stata preparata in modo altrettanto decisivo nel periodo dal 1945 al 1974, combinando tentativi ed errori, visione a lungo termine e determinazione incrollabile nell’azione. Questi tre decenni sono stati caratterizzati dalla capacità di una generazione di attori, spesso provenienti dalla Resistenza e dalla Francia Libera, di rischiare, di provare quasi tutti i metodi – rapido, acqua pesante, gas grafite, acqua leggera -, di accettare tentativi, errori e fallimenti, con la volontà di trovare rapidamente soluzioni efficaci e di avere successo. La figura e la personalità del generale de Gaulle hanno segnato questo periodo, prima direttamente nel 1945, attraverso la creazione della Commissione per l’energia atomica (CEA) e il processo di nazionalizzazione dell’energia elettrica, con la creazione dell’EDF nel 1946; poi, indirettamente, attraverso uomini chiave che condividono gli stessi obiettivi durante la Quarta Repubblica (Félix Gaillard, Raoul Dautry, Gaston Palewski, Pierre Guillaumat, Jules Horowitz, Pierre Taranger, Pierre Ailleret…); poi con la creazione di un’agenzia di ricerca e di sviluppo che si occupa di energia nucleare. ) ; e, infine, ancora, nel momento chiave del passaggio alla fase industriale e del dibattito sulla scelta dell’uranio naturale, della grafite e del gas (UNGG) rispetto all’acqua pressurizzata o all’acqua bollente, tra il 1958 e il 1975, con Georges Pompidou, Primo Ministro e poi Presidente della Repubblica, Pierre Messmer, Bernard Esambert, Pierre Massé, Francis Perrin, Claude Fréjacques, Georges Besse, André Giraud, André Decelle, Paul Delouvrier, Marcel Boiteux, Michel Hug, Philippe Boulin, Maurice Aragou, Jean-Claude Leny…

 

Nella prima parte di questa nota, ripercorreremo la storia per individuare le caratteristiche principali di questo periodo e trarne alcuni utili insegnamenti. Nella seconda parte, allargheremo la questione alla transizione energetica che deve essere realizzata oggi, basandoci su esempi più recenti di successo industriale riguardanti altre tecnologie energetiche e altri Paesi, come i pannelli fotovoltaici in Cina o la versione americana (Advanced Research Projects Agency-Energy, ARPA-E) dei programmi di investimento futuro (PIA). Infine, torniamo alla situazione francese, dove gli ultimi due decenni sono stati segnati da un declino delle competenze industriali, in particolare in quelli che erano i nostri tradizionali punti di forza: l’energia nucleare, l’energia fossile, la rete, con le difficoltà di EDF, Areva, Framatome, Alstom, e, cosa più preoccupante, dal fallimento dei tentativi industriali nel fotovoltaico e nelle turbine eoliche onshore, settori in cui la Francia sembra accontentarsi per lo più di installazioni e servizi a basso valore aggiunto, nonostante la ricerca di qualità in questi campi industriali.

 

Gli anni 1945-1990 in Francia o gli ultimi decenni in Cina o negli Stati Uniti dimostrano come sia stato possibile aprire delle opzioni, esplorare nuove strade e implementare tecnologie adatte alle sfide dei Paesi interessati su larga scala e in tempi rapidi. Su queste questioni energetiche, che riguardano la prosperità e la sovranità dei Paesi, questi esempi illustrano chiaramente il ruolo fondamentale svolto dagli Stati nel controllare le condizioni per il successo industriale, compresa la diversità dei percorsi possibili in base alle istituzioni e alle tradizioni dei vari Paesi. La capacità degli Stati di assumere il proprio ruolo per consentire la mobilitazione di tutti gli attori sembra essere decisiva. Ciò presuppone la capacità di indicare chiaramente le proprie debolezze, se possibile prima che la situazione diventi troppo grave, e di farlo lasciandosi interpellare dal proprio passato o da altre esperienze attuali. Le competenze e la buona volontà non mancano. Potrebbero permetterci di riformare il settore in profondità e di prepararci al prossimo decennio, a condizione che gli attori condividano una visione politica.

 

I

Parte

Superare le idee preconcette

 

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1

La solita narrazione

 

Per capire la storia del nucleare francese, dobbiamo accettare di mettere in discussione la narrazione abituale, generalmente espressa come segue:

 

il programma è stato deciso nel 1974-1975 in reazione a un evento: la prima crisi petrolifera del 1973;

si riduce a una decisione presa da un ristretto numero di decisori politici: l’abbandono della linea nazionale di centrali a uranio naturale e gas grafite (NUG) a favore della linea Westinghouse di centrali a uranio arricchito e acqua leggera;

è stato ottenuto attraverso il semplice trasferimento del know-how americano senza aver dovuto affrontare la “frontiera tecnologica”;

illustra la tradizione francese – e il “genio francese” – dell’intervento statale nell’economia attraverso grandi programmi.

2

Una storia diversa

 

Note

  1. L’obiettivo a lungo termine era presente fin dalla creazione del CEA nel 1945 e divenne più chiaro con il progredire del lavoro di ricerca negli anni Cinquanta.
  2. Decisione strategica, per ragioni industriali, logistiche e militari.

La lettura della storia qui difesa è diversa. L’immagine proiettata dalla narrazione abituale è fuorviante, perché le affermazioni che la costruiscono riflettono un profondo fraintendimento di cosa sia un’industria ad alta tecnologia come quella nucleare.

 

Innanzitutto, la decisione di affidarsi a un programma nucleare civile era un obiettivo chiaro fin dall’inizio degli anni ’60 5 , nonostante il calo del prezzo dell’olio combustibile pesante in quel decennio. Questa decisione deriva da una visione condivisa della sicurezza di approvvigionamento a lungo termine del Paese e dalle prospettive di competitività del nucleare alla luce dei primi dimostratori industriali.

 

Inoltre, l’esigenza di avere più ferri da stiro, compresi quelli ad acqua leggera, e di sperimentare diverse tecnologie era già all’opera nel 1958 con la decisione di costruire Chooz A, un prototipo franco-belga basato sulla prima generazione di reattori ad acqua pressurizzata Westinghouse, presa dal generale de Gaulle non appena tornato al potere nel 1958. Questa decisione fu presa a complemento dei dimostratori UNGG costruiti a Chinon tra il 1957 e il 1961.

 

Solo nel 1975 la linea ad acqua bollente di General Electric, trasportata in Francia dalla Compagnie Générale d’Electricité (CGE) di Ambroise Roux, fu abbandonata e ci si concentrò sulla sola linea ad acqua pressurizzata di Westinghouse, non senza rammarico per gli operatori che desideravano mantenere la concorrenza tra almeno due fornitori per i componenti chiave. La decisione di abbandonare l’UNGG e di costruire una prima serie di reattori ad acqua pressurizzata (PWR) fu presa in un periodo in cui i prezzi dell’olio combustibile pesante erano ancora ai minimi tra il 1969 e il 1971; fu allora che si decise di costruire due unità a Fessenheim e due unità a Bugey, che entrarono in funzione nel 1977 e nel 1978. Queste decisioni furono prese da Georges Pompidou all’inizio del suo mandato di Presidente della Repubblica.

 

Westinghouse non avrebbe mai accettato di collaborare con i francesi, né permesso che la licenza diventasse francese, se la Francia non avesse dimostrato l’eccellenza delle sue competenze industriali, in particolare nella fabbricazione dei contenitori dei reattori a Le Creusot, e l’eccellenza delle competenze scientifiche della CEA, che stava lavorando non solo sull’UNGG, ma anche sui PWR per la propulsione militare. Tra il 1950 e il 1970, la Francia aveva effettivamente raggiunto da sola la frontiera tecnologica, e questo è probabilmente ciò che ha permesso di utilizzare con successo la tecnologia Westinghouse.

 

Infine, il ruolo chiave dello Stato nel controllo e nella diffusione dell’energia nucleare non è specificamente francese. Per convincersene, basta osservare l’esempio americano con il programma dell’ammiraglio Rickover, inizialmente incentrato sulla propulsione militare e che mobilita insieme i grandi laboratori federali americani (simili alla CEA) con Westinghouse e General Electric (la CEA, e poi l’EDF, mobiliteranno anche i grandi industriali francesi più capaci, prima sull’UNGG e poi sul PWR). Anche il Regno Unito, il Canada, la Cina, il Giappone e la Corea del Sud potrebbero illustrare, ciascuno a suo modo, questo ruolo dello Stato strategico, coinvolto nella dimensione scientifica e industriale. Va aggiunto che, sebbene in Francia lo Stato abbia svolto in precedenza un ruolo di stimolo allo sviluppo di alcune grandi reti, come le ferrovie6 , come dimostra il piano Freycinet del 1879, e abbia avuto un ruolo importante nella regolamentazione tecnica di alcuni settori industriali, come il controllo tecnico delle fucine, la Francia degli anni Trenta e Quaranta del XIX secolo era innanzitutto un Paese economicamente e industrialmente liberale, in conformità con l’eredità della Rivoluzione francese.

 

3

La rapida transizione della Francia

 

Dal 1945 al 1990, la Francia ha realizzato una delle più rapide transizioni nelle tecnologie energetiche, dalla ricerca di base alla diffusione industriale. La scoperta della fissione e della reazione a catena risale agli anni ’30, con il lavoro di Enrico Fermi, Otto Hahn, Lise Meitner e Fritz Strassmann, e poi di Frédéric Joliot-Curie, con Hans Halban e Lew Kowarski nel 1939. È sulla base di quest’ultimo lavoro che il CEA è venuto a conoscenza delle varie tecnologie nucleari – UNGG, acqua pesante, reattori a neutroni veloci raffreddati a sodio, reattori ad acqua leggera – e ha prodotto prototipi, in particolare per la tecnologia UNGG, negli anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta. Negli anni ’60, il CEA e l’EDF sono riusciti a costruire dimostratori su scala industriale nel reattore a gas di grafite (Chinon A1, A2 e A3) e nel reattore PWR (Chooz A e poi Tihange), con i nostri partner belgi, basati sul reattore Westinghouse. Ci sono voluti solo vent’anni, tra il 1970 e il 1990, per implementare in modo massiccio il parco nucleare e produrre tre quarti dell’elettricità per la Francia, con prestazioni, come abbiamo visto, molto migliori in termini di costi rispetto a quelle di Stati Uniti, Inghilterra, Germania o Giappone con tecnologie simili nello stesso periodo.

 

Si è trattato di sfide particolarmente difficili. Gli ostacoli successivi hanno dovuto essere superati con perseveranza, uno dopo l’altro. Le sfide variavano a seconda dei periodi e delle circostanze, sia che si trattasse del periodo della ricerca e dei prototipi (1945-1960), sia che si trattasse del periodo dei dimostratori industriali e della scelta della tecnologia da impiegare (1960-1971), sia che si trattasse del periodo dell’impiego massiccio (iniziato nel 1972-1975 e che continuerà in gran parte fino al 1990). Fin dall’inizio è stato necessario pensare in termini di sistema industriale, con il controllo dell’intero ciclo del combustibile, dall’estrazione al ritrattamento e alla gestione delle scorie, con la fabbricazione del combustibile, nonché con l’arricchimento dell’uranio necessario nelle tecnologie ad acqua leggera, e il controllo del reattore e dei suoi componenti chiave: forgiatura primaria, termoidraulica e neutronica, scienza dei materiali, automazione e controllo, unità turbo-alternatore, ingegneria civile, ecc.

 

Il termine “industria nucleare” può essere fuorviante, perché si tratta in realtà di mobilitare competenze e professionalità molto diverse provenienti da diversi settori industriali, con requisiti di qualità particolarmente elevati, in quanto la sicurezza è ovviamente un punto centrale in questo caso. È stato inoltre necessario affrontare e risolvere numerosi problemi tecnici almeno altrettanto delicati di quelli che stiamo vivendo da quindici anni a questa parte nello sviluppo dei reattori di terza generazione, come l’EPR in Francia e Finlandia o l’AP 1000 negli Stati Uniti. La reattività e la determinazione delle comunità scientifiche e ingegneristiche sono state notevoli nel proporre “soluzioni di riparazione”, mantenendo sempre la capacità di aprire altre opzioni tecniche (involucro in acciaio o cemento armato precompresso, ecc.), e anche opzioni più radicali, come l’esplorazione di altri metodi. Infine, al di là della gestione efficace dei ricorrenti guasti tecnici che sono una caratteristica inevitabile di questi grandi progetti tecnologici, il contesto internazionale e politico era particolarmente turbolento: la guerra fredda a partire dal 1947, la decolonizzazione, la crisi di Suez nel 1956, la creazione della Comunità economica europea (CEE) e del trattato Euratom nel 1958, la crisi del maggio 1968 e gli shock petroliferi del 1973-1974 dopo un lungo periodo di calo dei prezzi del petrolio pesante. La cooperazione internazionale ha dovuto trovare la sua strada, tenendo conto delle questioni geopolitiche e di sovranità. Lo dimostrano l’opposizione degli Stati Uniti a qualsiasi cooperazione in campo nucleare, con la legge McMahon del 1946, la crisi di Suez, che evidenziò la vulnerabilità di una Francia che non padroneggiava l’energia nucleare, e le opportunità aperte dal Trattato Euratom.

 

La questione principale che vogliamo evidenziare in questa sede riguarda questa sorprendente capacità di rimbalzo nel tempo, una capacità di apportare cambiamenti adottando una visione sistemica, con la preoccupazione di una rapida attuazione, al fine di mantenere la rotta stabilita per quanto riguarda lo sviluppo di un’industria nucleare. Si tratta quindi di individuare le tracce di questo lavoro collettivo, dello Stato con le sue componenti politiche e il loro sostegno – i consiglieri, l’amministrazione, il Piano – ma anche del CEA e dell’EDF, del tessuto industriale e dei partner internazionali. È importante capire le ragioni di questa efficienza nel lungo periodo. Questo sguardo al passato dovrebbe aiutarci a determinare quale organizzazione e quali competenze industriali al centro dell’apparato statale, quali relazioni tra quest’ultimo e il tessuto industriale privato e quali strategie di cooperazione internazionale hanno permesso l’elaborazione di una visione comune e a lungo termine da cui trarre ispirazione per prendere a nostra volta le decisioni necessarie nel tempo.

 

II

Parte

Un viaggio nella storia: 1945-1975

 

https://www.fondapol.org/etude/souverainete-maitrise-industrielle-et-transition-energetique-1/#chap-2

1

Dal 1945 al 1960, dalla scienza ai prototipi: il ruolo centrale del CEA imparando da EDF e dal tessuto industriale

 

Note

  1. In questa sezione ci basiamo in particolare sul già citato lavoro di Boris Dänzer-Kantof e Félix Torres, nonché sulle interviste condotte con gli attori del programma nucleare nell’ambito del loro progetto di libro, sul libro di Georges Lamiral, Chroniques de trente années d’équipement nucléaire à Électricité de France, Association pour l’histoire de l’électricité en France (AHEF), 2 vols, 1988, e sul libro di Dominique Grenèche, Histoire et techniques des réacteurs nucléaires et de leurs combustibles, EDP Sciences, 2016.+
  2. Gli Stati Uniti hanno gradualmente aperto la possibilità di cooperazione con i Paesi europei a partire dalla fine degli anni ’50, ma sempre alle condizioni restrittive della sovranità e del controllo industriale dei Paesi interessati.
  3. Nonostante le loro riserve, ci saranno contatti con gli Stati Uniti su alcuni temi scientifici e industriali. Inoltre, è chiaro che, in questo contesto, il programma nucleare civile con le Nazioni Unite è stato particolarmente sostenuto anche in relazione al programma militare. Anche l’esperienza del CEA nei reattori ad acqua pressurizzata per la propulsione è stata preziosa.
  4. Si può sottolineare il carattere multipartitico di questa volontà e il ruolo di animazione, per non dire di guida, che lo Stato deve svolgere in questa prospettiva, che si è tradotto nella creazione del Commissariat général du Plan o in quella della CEA o dell’EDF. Il Fronte Popolare aveva già tentato, in parte con questo spirito, di organizzare la ricerca francese – il Centre national de la recherche scientifique (CNRS) fu creato poco più tardi, nell’ottobre 1939 – e aveva intrapreso una politica di riarmo.
  5. Cfr. Bertrand Goldschmidt, Le Complexe atomique. Histoire politique de l’énergie nucléaire, Fayard, 1980, p. 71.
  6. Boris Dänzer-Kantof e Félix Torres, op. cit. p. 38.
  7. Charles de Gaulle, “Discorso del 14 giugno 1960”, archivi INA, ina.fr.
  8. Cfr. Boris Dänzer-Kantof e Félix Torres, op. cit. p. 56.
  9. Cfr. Henri Morel (a cura di), Histoire de l’électricité, Fayard, 1996, t. 3, p. 143 ss.
  10. Cfr. Boris Dänzer-Kantof e Félix Torres, op. cit. p. 68.

Il contesto e la posta in gioco7

 

Le due guerre mondiali furono in gran parte un confronto tra potenze industriali ed energetiche. Nei suoi scritti degli anni Trenta, il futuro generale de Gaulle prevedeva già l’importanza dei carri armati e degli aerei per la potenza degli eserciti, sostenendo una dottrina d’uso innovativa e, più in generale, nel 1940, prevedendo un conflitto il cui esito sarebbe stato dominato dall’ingresso della grande potenza industriale ed energetica, l’America. Dopo la guerra, le élite politiche, amministrative e industriali francesi, in gran parte provenienti dalla Resistenza e dalle Forze libere francesi, intendevano recuperare il ritardo scientifico, industriale ed economico della Francia, conseguenza della crisi degli anni Trenta e delle distruzioni della guerra. I leader erano anche consapevoli della necessità di un approvvigionamento energetico sicuro a costi controllati. Priva di petrolio, la Francia aveva sofferto fin dal XIX secolo di una scarsa disponibilità di carbone a basso costo, a differenza di Regno Unito, Germania e Stati Uniti. Per molto tempo, la sua industria siderurgica è stata alimentata dal carbone delle foreste francesi e dall’energia idraulica “meccanica” fornita dai fiumi. Poi il “carbone bianco”, l’acqua, è diventato un imperativo nazionale nel periodo tra le due guerre e negli anni Cinquanta e Sessanta, con grandi programmi idroelettrici che hanno prodotto circa la metà dell’elettricità in questo periodo, ma che hanno gradualmente rallentato a causa del numero limitato di siti.

 

Già nel 1945-1950 l’energia nucleare era un obiettivo a lungo termine, sostenuto da politici come Félix Gaillard e Gaston Palewski. La presenza di miniere di uranio in Francia fu presto messa in discussione. Le riserve limitate percepite nella prima fase della storia del nucleare civile e l’aspettativa di scoprire nuovi giacimenti portarono, a partire dal dopoguerra, a lavorare su prototipi di reattori fast-breeder per utilizzare non solo l’uranio 235 (0,7% dell’uranio naturale) ma anche tutto il potenziale dell’uranio 238 (99,3% dell’uranio).

 

Gli Stati Uniti, che disponevano di petrolio e carbone in abbondanza, lanciarono allora un programma di reattori nucleari, inizialmente concepiti per la propulsione militare. L’ammiraglio Rickover fece in modo che i laboratori federali americani collaborassero con le principali società elettriche, General Electric e Westinghouse, per sviluppare reattori ad acqua leggera che sarebbero stati più semplici e robusti, ma avrebbero richiesto la padronanza dell’arricchimento, allora prerogativa degli Stati Uniti. Nel contesto del graduale emergere della Guerra Fredda, gli Stati Uniti posero un embargo su tutti i trasferimenti di tecnologia nucleare con il McMahon Act del 1946, con alcune eccezioni per i partner britannici e canadesi del Progetto Manhattan8.

 

Inoltre, alla fine del XIX secolo e nella prima metà del XX secolo, la Francia, come il Regno Unito, è rimasta indietro rispetto agli Stati Uniti e alla Germania nella corsa alla rivoluzione industriale dell’elettricità, nonostante il suo alto livello di ricerca e di scienziati. Il suo tessuto industriale è frammentato e spesso dipendente dalle licenze americane. È stato quindi necessario affidarsi all’inizio essenzialmente a enti pubblici di natura scientifica e industriale: la CEA, poi l’EDF. Il Regno Unito, per le stesse ragioni, si affida alla United Kingdom Atomic Energy Authority (UKAEA), l’equivalente della CEA, e al Central Electricity Generating Board (CEGB), l’equivalente di EDF. Anche i nostri vicini britannici sono preoccupati per l’aumento del costo del carbone e per le sfide legate alla sicurezza dell’approvvigionamento di petrolio. Il Regno Unito è stato quindi particolarmente motivato dal nucleare civile e ha sviluppato il suo reattore nazionale Magnox, a gas grafite, simile al reattore UNGG francese, anche più velocemente della Francia: il primo prototipo di reattore è stato messo in funzione a Calder Hall nel 1956, pochi mesi prima del primo reattore prototipo del CEA G1 a Marcoule, e la potenza installata del Magnox sarebbe stata di circa 5.000 MW nel 1970, il doppio dell’UNGG francese.

 

Politica: visione a lungo termine e decisioni di strutturazione

 

Informati da scienziati e industriali e attenti al contesto internazionale, i politici presero importanti decisioni durante la Quarta Repubblica e l’inizio della Quinta Repubblica. Per loro, il mix energetico ed elettrico della Francia doveva consentirle di diventare una potenza industriale ed economica e di garantire la sua autonomia e sovranità strategica10.

 

Nel luglio 1944, durante una visita a Ottawa, il generale de Gaulle fu informato della portata del lavoro svolto sulle batterie atomiche e sulla bomba nucleare da Pierre Auger, Jules Guéron e Bertrand Goldschmidt, gli scienziati francesi coinvolti in questi studi11. Dopo le interazioni con Raoul Dautry e Frédéric Joliot-Curie, e un dossier presentato da Raoul Dautry al capo del governo provvisorio, il generale de Gaulle creò la CEA con un’ordinanza nell’ottobre 1945, con le missioni di ricerca, energia nucleare civile e applicazioni militari: l’obiettivo era quello di “perseguire la ricerca scientifica e tecnica al fine di utilizzare l’energia atomica nei vari campi della scienza, dell’industria e della difesa nazionale “12 . Tornato al potere nel 1958, il Generale accelerò i lavori sulla linea dell’UNGG e accettò il progetto di un reattore ad acqua leggera con licenza americana nell’ambito del trattato Euratom appena messo in atto (alla doppia condizione che il reattore fosse situato in Francia e che EDF ne detenesse il 50%). Il suo discorso radiotelevisivo del 14 giugno 1960 esprime chiaramente la sua visione della posta in gioco industriale ed energetica per la Francia: “Come popolo francese, dobbiamo elevarci al rango di grande Stato industriale o rassegnarci al declino. La nostra scelta è fatta. Il nostro sviluppo è in corso. […] Naturalmente, è per dotarla [la Francia] delle fonti di energia che le mancavano che ci applicheremo innanzitutto. […] Energia atomica che gli impianti modello hanno cominciato a fornire.13

 

Félix Gaillard, combattente della Resistenza e deputato radical-socialista nel 1946, era interessato all’energia atomica. Visitò il CEA ed ebbe lunghe discussioni con Frédéric Joliot-Curie. Nel 1951, Félix Gaillard fu nominato Segretario di Stato presso la Presidenza del Consiglio e fu responsabile delle questioni nucleari. Nel luglio 1952 presentò ai deputati il primo piano nucleare quinquennale, che diede alla CEA e al suo amministratore generale Pierre Guillaumat i mezzi per passare alla fase dei primi prototipi (G1, seguito da G2 e G3 a Marcoule) e alla realizzazione dei primi elementi del ciclo del combustibile.

 

Félix Gaillard era Ministro delle Finanze, dell’Economia e della Pianificazione quando il secondo piano nucleare quinquennale fu adottato a larga maggioranza nel luglio 1957. Questo piano raccomandava di raggiungere una capacità installata di 850 MW nel 1965 e di 2.500 MW nel 1970, obiettivo che fu praticamente raggiunto. Presidente del Consiglio dal novembre 1957 al maggio 1958, nel marzo 1958 diede il via libera alla costruzione di un impianto di arricchimento dell’uranio a Pierrelatte per scopi militari. L’atteggiamento degli americani durante la crisi di Suez e nella NATO spinse la Francia ad accelerare i lavori sul nucleare militare per garantire la propria autonomia strategica. La decisione è importante. Avrebbe aperto la strada all’uso di reattori ad acqua leggera, mantenendo il controllo del combustibile un decennio dopo14.

 

Gaston Palewski, ex capo di gabinetto di Paul Reynaud e storico gollista, nel 1955 fu ministro delegato alla Presidenza del Consiglio, responsabile del Coordinamento della Difesa Nazionale, della Ricerca Scientifica, degli Affari Atomici e degli Affari Sahariani. Con il suo governo, incrementò le risorse della CEA per passare all’UNGG e alla propulsione nucleare. Il 21 aprile 1955 creò la Commissione per la produzione di elettricità da fonti nucleari (Commissione PEON), che avrebbe svolto un ruolo importante fino agli anni Ottanta. Essa riuniva al massimo livello i rappresentanti del Piano, dello Stato (Ministero dell’Economia e delle Finanze, Ministero dell’Industria, ecc.), della CEA e dell’EDF. L’obiettivo era quello di esaminare le dimensioni economiche dei metodi di produzione dell’energia elettrica e quindi di proporre linee guida per la politica nucleare francese.

 

Il CEA, principale artefice della transizione dalla scienza all’industria

 

Fin dall’inizio, la CEA si affidò a un team di grandi scienziati nel campo della fisica nucleare, come Frédéric Joliot-Curie, Francis Perrin, Bertrand Goldschmidt e Pierre Auger. Fin dall’inizio, creò gruppi di ricercatori di alto livello in tutte le discipline necessarie, con forti competenze in neutronica, fisica matematica, metallurgia, chimica, automazione, ecc. Il dipartimento “Stack Design” si occupava in particolare della progettazione dei futuri reattori, con personalità come Jacques Yvon, Jules Horowitz, Georges Vendryes e Jean Bourgeois, che avrebbe svolto un ruolo importante nello sviluppo e nella considerazione delle questioni di sicurezza dalla progettazione all’esercizio. Con queste competenze scientifiche di alto livello, la Francia sarà quasi alla pari con gli Stati Uniti. D’altra parte, il passaggio alla fase industriale è più delicato.

 

Tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX secolo, la Francia non è stata in grado di sviluppare grandi attori industriali, come General Electric e Westinghouse, capaci di padroneggiare la progettazione di sistemi complessi come le nuove centrali nucleari, anche se un grande capo come Charles Schneider (Gruppo Creusot-Loire e Schneider) aveva capito l’importanza del tema.

 

Più in generale, dopo la lunga crisi economica degli anni Trenta e poi la guerra, il punto di partenza era un tessuto industriale francese certamente quasi completo e che “sapeva fare le cose per esperienza”, ma frammentato e artigianale, in ritardo dal punto di vista tecnico, con deboli capacità di ricerca, pochi legami con il mondo scientifico e spesso dipendente dalle licenze americane. Pierre Guillaumat, politecnico e ingegnere del Corpo delle Miniere, che aveva partecipato alla Resistenza, affrontò questo problema come amministratore generale del CEA dal 1951 al 1958. Il CEA accolse nei suoi team ingegneri provenienti dall’industria e dall’EDF e li formò all’ingegneria atomica. Nel 1952 Pierre Guillaumat creò anche un dipartimento industriale presso il CEA per produrre i primi prototipi UNGG G1, G2 e G3 a Marcoule e nominò Pierre Taranger, proveniente dal settore petrolifero, a capo di questo dipartimento industriale.

 

La sfida per il CEA – come per EDF – era quella di affrontare due fallimenti del mercato (“esternalità negative”) in questa prima fase, istituendo due modalità di coordinamento fondamentali per l’innovazione e l’efficienza economica a lungo termine:

 

riunire scienziati, uffici di progettazione e fabbriche;

far collaborare aziende industriali con un’ampia gamma di competenze tecniche per progettare e costruire i sistemi complessi e impegnativi in termini di sicurezza e qualità che sono le centrali nucleari e il relativo ciclo del combustibile.

All’interno della stessa CEA, Pierre Guillaumat doveva far lavorare scienziati di alto livello con gli industriali e formare generazioni di ingegneri industriali, mentre la CEA doveva facilitare la formazione di gruppi industriali e il loro aumento di competenze facendo affidamento sui punti di forza dell’industria francese: Pechiney e la sua padronanza della grafite pura, Saint-Gobain e la chimica del ritrattamento, e Le Creusot con le sue competenze nella metallurgia e le sue fucine. Responsabile della costruzione di questa prima generazione di reattori, la CEA preparò anche la padronanza tecnica dell’intero ciclo, in particolare l’arricchimento dell’uranio, importante a breve termine per la propulsione nucleare e le armi atomiche, e a più lungo termine per aprire l’opzione dell’acqua leggera per l’energia nucleare civile, mobilitando ingegneri delle polveri (Georges Fleury, Claude Fréjacques) e reclutando Georges Besse (politecnico e ingegnere del Corpo delle Miniere) nel 1952, proprio per lavorare sull’arricchimento dell’uranio. Georges Besse fu responsabile di Pierrelatte negli anni Sessanta, poi di Eurodif negli anni Settanta.

 

Oltre alla padronanza tecnica ed economica, la sfida per la CEA era ovviamente quella di garantire la sovranità industriale. In questi primi anni, garantire questa sovranità significava essere soli sulla frontiera tecnologica, sia in campo civile che militare, a causa dell’atteggiamento degli Stati Uniti. Ma il controllo ricercato è anche un obiettivo a lungo termine, se si vuole garantire l’autonomia strategica e la sicurezza degli approvvigionamenti. Senza escludere la cooperazione internazionale, anche in settori sensibili, ciò implica la padronanza, per il ciclo del combustibile, delle miniere di uranio – i giacimenti saranno trovati in Francia e sfruttati, in particolare nel Limousin -, della fabbricazione del combustibile, della chimica nucleare sofisticata per il ritrattamento – Bertrand Goldschmidt alla CEA e Saint-Gobain – e, a lungo termine, dell’arricchimento di questo uranio. Ciò implica anche la padronanza di alcuni collegamenti industriali chiave per l’impianto: la fabbricazione di grafite pura, il controllo e il comando, nonché la metallurgia dei cassoni, che richiede forge di qualità, la padronanza della scienza dei materiali e delle tecniche di saldatura. Le équipe del Creusot potranno inoltre avvalersi delle competenze dell’industria degli armamenti, in particolare di quelle della fonderia Indret e dell’esperienza di Yvon Bonnard, ingegnere navale.

 

L’apprendistato di EDF, per preparare con gli attori industriali il passaggio al dimostratore su scala industriale aprendo opzioni: UNGG-acqua leggera

 

All’epoca della nazionalizzazione dell’elettricità, i dirigenti di EDF erano anche spinti dall'”ardente obbligo” di consentire la ricostruzione e la prosperità del Paese grazie all’elettricità economica, contribuendo alla sicurezza dell’approvvigionamento del Paese. Questa era la loro missione principale. Dal 1946 al 1957, Pierre Ailleret, politecnico ed ex studente dell’École nationale des ponts et chaussées e del Supélec, fu direttore del Dipartimento di Ricerca di EDF, che contribuì a creare, prima di diventare vice direttore generale di EDF dal 1958 al 1968. Era un uomo di esperienza, responsabile di progetti idraulici e della costruzione di reti di interconnessione. Convinto dell’importanza dei progressi scientifici per l’energia, seguì i corsi di fisica nucleare di Jean Perrin prima della guerra e spinse il Dipartimento Studi e Ricerche a non accontentarsi di sostenere gli altri dipartimenti di EDF nelle loro questioni operative a breve termine, ma ad aprire tutte le possibili strade delle nuove energie avvicinandosi al mondo scientifico e aprendosi a livello internazionale: l’energia eolica, l’energia delle maree, l’energia termica oceanica, le turbine e i compressori a gas, ecc. e l’energia nucleare15.

 

Nominato nel 1950 membro del consiglio scientifico e del comitato (consiglio di amministrazione) del CEA16 , inviò giovani ingegneri dell’EDF, come Denis Gaussot, futuro direttore del Service d’études et projets thermiques et nucléaires (Septen), poi vicedirettore dell’Équipement, a formarsi al CEA presso l’Institut national des sciences et techniques nucléaires (INSTN). Nel 1953 propose di produrre elettricità dal vapore del G1 di Marcoule e la CEA decise di affidare la responsabilità all’EDF.

 

La diffusione massiccia dell’energia nucleare, una volta raggiunta la maturità economica, dovrebbe essere responsabilità di un industriale come EDF, e non di un’organizzazione scientifica come la CEA. D’altra parte, si pone la questione della responsabilità della fase intermedia dei dimostratori industriali UNGG tra le fasi dei prototipi G1, G2, G3 di Marcoule (commissionati alla fine degli anni ’50) e il dispiegamento a lungo termine. La discussione fu inizialmente difficile tra la CEA e l’EDF, ma Pierre Taranger, della CEA, era convinto che l’EDF sarebbe stato il più adatto ad aumentare significativamente le dimensioni delle unità e a rischiare su soluzioni innovative che avrebbero permesso di testare realmente il potenziale economico della tecnologia e quindi di ottenere i guadagni necessari durante il dispiegamento.

 

Nel 1954, la decisione è stata presa rapidamente da Pierre Guillaumat e Roger Gaspard (direttore generale di EDF): EDF sarà l’appaltatore principale e l’operatore delle tre unità di Chinon: Chinon A1, iniziata nel 1957, 70 MW; Chinon A2, nel 1959, 210 MW; Chinon A3, nel 1961, 460 MW. La CEA è responsabile della parte nucleare e le due entità devono collaborare su tutti i temi. EDF doveva assumere il ruolo di architetto industriale e di gestore del progetto in una modalità “idraulica” non standardizzata, adattando le dimensioni della struttura alla geografia del sito e lasciando a ogni regione di attrezzature EDF la libertà di scegliere i propri fornitori. Questo è ancora in gran parte il caso dell’energia termica convenzionale, dove, sebbene esista una politica di fasi standardizzate di dimensioni – 125 MW, poi 250 MW, prima di 600 MW a carbone e olio combustibile e 700 MW a olio combustibile – le regioni di attrezzature di EDF sono molto autonome nell’adattarsi ai siti e nella scelta dei contratti e dei fornitori industriali. Questo decentramento del reparto apparecchiature, in parte ereditato dalla storia frammentata del settore elettrico prima della nazionalizzazione del 1946, è accompagnato da una forte concorrenza tra i fornitori basata sulla suddivisione in centinaia di lotti. Anche in questo caso, troviamo l’eredità di un tessuto industriale poco concentrato, che dovrà continuare ad aumentare le proprie competenze e la propria capacità di assumersi la responsabilità di sottosistemi più ampi.

 

Il contesto internazionale sta cambiando e gli attori francesi dovranno essere in grado di reagire rapidamente per approfittare delle circostanze favorevoli. Gli americani hanno cambiato atteggiamento e, alla fine degli anni Cinquanta, si sono dimostrati favorevoli alla cooperazione con gli alleati europei nel campo dell’energia nucleare civile; erano pronti a fornire il combustibile arricchito necessario per utilizzare le nuove tecnologie ad acqua leggera e i primi dimostratori industriali stazionari sono stati messi in servizio negli Stati Uniti: per la tecnologia ad acqua pressurizzata, alla fine del 1957 entrò in funzione l’impianto di Shippingport da 60 MW (derivato direttamente dal sottomarino Nautilus), mentre nel 1960 entrò in funzione Yankee Rowe (170 MW), da cui era stato derivato il progetto di Chooz A. Questa è stata la prima generazione di energia nucleare civile negli Stati Uniti.

 

La Comunità europea dell’energia atomica (CEEA o Euratom) è stata creata da un trattato specifico firmato a Roma, contemporaneamente al trattato che istituiva la CEE nel 1957, ed è entrata in vigore nel gennaio 1958. Il suo scopo era quello di promuovere la cooperazione europea nel campo dell’energia nucleare civile. Dall’inizio del 1958 al febbraio 1959 fu presieduto da Louis Armand, politecnico e ingegnere del Corpo delle Miniere, membro della Resistenza, direttore generale e poi presidente della SNCF, grande ingegnere e professore all’École nationale d’administration (ENA) su questioni industriali ed energetiche dal 1945 al 1967.

 

I belgi erano particolarmente interessati alla tecnologia dell’acqua leggera. Volevano implementarla insieme ai francesi. EDF, in particolare Pierre Ailleret, era fortemente coinvolto nelle associazioni internazionali – la Conferenza internazionale dei grandi sistemi elettrici (Cigre), l’Unione internazionale dei produttori e distributori di energia elettrica (Unipede), il Consiglio mondiale dell’energia (WEC), ecc. Raymond Giguet, ex direttore delle apparecchiature e all’origine, con Pierre Massé, della Nota Blu, uno strumento economico per aiutare nella scelta degli investimenti, vicedirettore generale di EDF, è molto favorevole a questa opzione in aggiunta all’UNGG, data la semplicità e la robustezza del suo design. Pierre Ailleret, pur essendo piuttosto partigiano all’interno di EDF dell’UNGG, è anche disposto a guardare più da vicino le interessanti soluzioni americane sviluppate da General Electric e Westinghouse. Gli ingegneri di Creusot-Schneider, molto interessati all’energia nucleare, sotto l’impulso di Charles Schneider e dell’ingegnere Maurice Aragou, erano un po’ scettici sulla qualità delle prime realizzazioni americane (giustamente), ma erano pronti a investire in considerazione della forte relazione storica con Westinghouse, di cui già detenevano alcune licenze in diversi campi.

 

La Société d’énergie nucléaire franco-belge des Ardennes (SENA) fu costituita nel 1960 da EDF e da diverse società elettriche belghe per la costruzione e la gestione dell’impianto nell’ambito di Euratom. Il generale de Gaulle diede il suo consenso di principio a condizione che il sito fosse situato in Francia e che EDF ne possedesse il 50% e lo gestisse. Nel 1959 fu costituito un consorzio per rispondere alla gara d’appalto indetta dal SENA per la gestione della licenza Westinghouse, sul modello della centrale di Yankee Rowe negli Stati Uniti, con una capacità installata di 250 MW: Framatome, una società franco-americana di costruzioni atomiche presieduta da Maurice Aragou (di Creusot-Schneider), e inizialmente posseduta al 60% da Schneider, al 30% da Empain e al 10% da Westinghouse. Il consorzio vinse la gara d’appalto e i lavori di ingegneria civile iniziarono nel 1962. Tutto ciò permise a EDF di muovere i primi passi, insieme ai belgi, nel settore dell’acqua pressurizzata e di sperimentare diversi rapporti contrattuali e tecnici con gli industriali responsabili dei principali sistemi dell’impianto.

 

2

Dal 1960 al 1971, dai dimostratori industriali alla scelta del tipo di impianto da realizzare

 

Note

  1. Si tratta di una rottura netta di un materiale senza deformazione plastica macroscopica sotto l’azione di una sollecitazione e in determinate circostanze specifiche (esistenza di un difetto, condizioni di temperatura-pressione, ecc.)
  2. Cfr. Georges Lamiral, op. cit. 1, p. 87-88.
  3. Cfr. Boris Dänzer-Kantof e Félix Torres, op. cit. p. 137.
  4. Siemens e AEG sono tradizionalmente legate a Westinghouse e General Electric e sono in grado di costruire centrali elettriche.
  5. Georges Lamiral, op. cit. 1, p. 355-356.
  6. Ibidem, pp. 145-146.
  7. Bernard Esambert rimase in carica nel 1968 con Maurice Couve de Murville come Primo Ministro, poi si unì a Georges Pompidou che divenne Presidente della Repubblica nel giugno 1969. Svolse un ruolo importante nei grandi programmi industriali di questo periodo, promossi da Georges Pompidou (cfr. Bernard Esambert, Pompidou, capitaine d’industries, Odile Jacob, 1994).
  8. Cfr. Boris Dänzer-Kantof e Félix Torres, op. cit. p. 165-166.
  9. Cfr. la nota al Piano di Jacques Lacoste e la lettera di André Decelle citata in precedenza.
  10. Cfr. Boris Dänzer-Kantof e Félix Torres, op. cit. pp. 165-166.

Dubbi e dibattiti tra ingegneri e industriali

 

Questo lungo decennio di costruzione di dimostratori industriali sotto la responsabilità di EDF e con un forte coinvolgimento industriale della CEA sulla parte nucleare illustra le sfide tecniche e industriali da affrontare. I problemi tecnici saranno ricorrenti e importanti, con conseguenze significative sui tempi di costruzione e sull’indisponibilità delle unità nei primi anni. Questo è in particolare il caso delle tre unità UNGG di Chinon, ma anche di Chooz A.

 

Durante la costruzione della centrale A1 di Chinon, nel febbraio 1959, si sviluppò improvvisamente una fessura di circa dieci metri di lunghezza sul cassone in acciaio (quelli successivi erano in cemento armato precompresso), con le caratteristiche del fenomeno della “frattura fragile “17 . Yvon Bonnard, ingegnere capo del dipartimento di ingegneria navale, fu mobilitato per ricorrere alle competenze del laboratorio di metallurgia della Marina francese di Indret. Problemi simili si presentarono anche negli Stati Uniti con le grandi navi d’acciaio per le centrali elettriche ad acqua leggera all’inizio degli anni ’60 e le soluzioni trovate permisero di aumentare significativamente le dimensioni delle unità dei reattori ad acqua leggera.

 

All’inizio del suo funzionamento, Chinon A3 subì una serie di incidenti che impedirono la visita prevista dal generale de Gaulle nell’autunno del 1966 e ne posticiparono la messa in funzione di due anni. Questi incidenti erano in particolare legati alla complessità del sistema di manipolazione del combustibile e di rilevamento delle rotture del rivestimento, nonché a una cattiva progettazione dell’impianto (insufficiente considerazione dell’espansione termica e delle sollecitazioni dei tubi di acciaio inossidabile utilizzati per il campionamento necessario a rilevare le rotture del rivestimento)18 .

 

Anche Chooz A ha subito diversi incidenti gravi che ne hanno posticipato la messa in servizio di due anni (1970 anziché 1967-1968), in particolare le viti di assemblaggio del nocciolo del reattore che si sono allentate a causa delle vibrazioni provocate dal flusso idraulico19.

 

Grazie alla qualità dell’organizzazione e alla cooperazione industriale e tecnica tra gli attori industriali (EDF, CEA, fornitori e uffici di progettazione) e alle competenze acquisite nel decennio precedente, questi problemi multipli sono stati un’opportunità per progredire collettivamente nella comprensione dei fenomeni fisici e nella capacità di trovare e implementare rapidamente soluzioni. Tuttavia, il metodo UNGG appare molto complicato rispetto alle centrali ad acqua leggera (si veda il sistema continuo di scarico-ricarica di una miriade di elementi di combustibile) e, con serbatoi già molto grandi (con la grafite come moderatore per poter utilizzare l’uranio naturale), sembra a priori molto difficile aumentare le dimensioni delle unità oltre i 500 MW (i PWR sono più compatti a parità di potenza installata).

 

Nel 1964, la decisione di principio di impiegare massicciamente l’UNGG nel decennio fu comunque presa in un piccolo consiglio a Matignon, sotto la presidenza di Georges Pompidou, allora primo ministro. Il prezzo dell’olio combustibile era ancora alto, le lezioni delle difficoltà dell’UNGG non erano ancora state analizzate collettivamente e le prestazioni dei primi impianti americani ad acqua leggera non erano eccellenti. Le tre unità UNGG di Saint-Laurent-des-Eaux A1 e A2 e Bugey 1 (da 500 a 550 MW) furono messe in funzione nel 1964 e nel 1965 e sarebbero state le ultime in Francia.

 

Un anno dopo, durante la riunione di programma CEA-EDF del 14 dicembre 1965, presieduta dall’amministratore generale Robert Hirsch e dall’alto commissario CEA Francis Perrin, il direttore generale André Decelle e il presidente di EDF Pierre Massé, Francis Perrin e André Decelle si interrogarono sull’interesse di aprire l’opzione dei reattori ad acqua leggera alla luce dei nuovi elementi raccolti di recente. Negli Stati Uniti, Westinghouse e General Electric hanno imparato dai problemi incontrati nella prima generazione di reattori e stanno proponendo agli elettricisti americani ed europei centrali di seconda generazione a prezzi molto interessanti (e con unità più grandi). Washington era pronta a offrire combustibile arricchito a condizioni economiche interessanti, vista la sovraccapacità americana. Nello stesso anno, il 1964, il Regno Unito decise di abbandonare il suo reattore a uranio naturale (Magnox) a causa dei costi eccessivi in un contesto di calo dei prezzi dell’olio combustibile. Il governo britannico optò per l’Advanced Gas-cooled Reactor (AGR), un miglioramento del Magnox con combustibile a uranio arricchito di diversa concezione, e i dirigenti del Central Electricity Generating Board (CEGB) dissero chiaramente ai loro omologhi dell’EDF che era stato un errore non scegliere i reattori americani ad acqua leggera. Nel 1965, gli elettricisti tedeschi, che stavano iniziando a utilizzare le tecnologie americane20 , proposero a EDF di realizzare insieme uno studio economico di confronto tra UNGG e acqua leggera per esaminare l’opportunità di realizzare un progetto UNGG congiunto con i francesi a Fessenheim. Al termine di questo studio, l’acqua leggera è risultata molto più economica.

 

La questione della sovranità dell’acqua leggera è soggetta a valutazioni diverse a causa dell’evoluzione dei dati relativi a due punti essenziali: l’arricchimento e la possibilità di “affrancamento” della licenza Westinghouse. L’impianto di arricchimento militare di Pierrelatte è entrato gradualmente in funzione tra il 1964 e il 1967 (sotto la direzione di Georges Besse). Philippe Boulin, per Creusot-Schneider e la linea ad acqua pressurizzata di Westinghouse, e Ambroise Roux, per CGE e la linea ad acqua bollente di General Electric, erano convinti che la seconda generazione, che si stava rapidamente diffondendo negli Stati Uniti e veniva proposta agli europei, fosse economicamente e tecnicamente più efficiente. La costruzione del reattore Chooz A da parte della Société des forges et ateliers du Creusot (Sfac), parte del gruppo Creusot-Schneider, fu un successo industriale. Le competenze metallurgiche dei francesi interessarono e impressionarono particolarmente Westinghouse, alla quale gli americani ordinarono in seguito sette reattori ad acqua pressurizzata. In particolare, le fucine Creusot utilizzarono per la prima volta il “metodo di calcolo agli elementi finiti” (all’avanguardia nei metodi di calcolo tecnico-scientifici) e si avvalsero della consulenza di Yvon Bonnard per migliorare la composizione dell’acciaio. Come sottolinea Georges Lamiral analizzando il funzionamento dell’industria francese in questo periodo: “I francesi commettono talvolta errori e fallimenti, ma una delle loro principali qualità è quella di saper reagire rapidamente”. Le prestazioni delle fucine Creusot, il tessuto industriale francese e le competenze del CEA-EDF-Framatome in materia di reattori ad acqua pressurizzata resero possibile la prospettiva di affrancamento della licenza Westinghouse.

 

In tre anni, dal 1963 al 1966, gli attori industriali francesi discussero la scelta dei reattori negli organismi di lavoro collettivo di più alto livello (commissione PEON, comitati EDF-CEA, ecc.), in modo tanto professionale quanto conflittuale, e si convinsero collettivamente che le due opzioni, UNGG e acqua leggera, dovevano essere aperte. La “frattura” si è verificata anche all’interno di EDF e della CEA: André Decelle, direttore generale di EDF, ha spinto per l’acqua leggera, mentre Pierre Ailleret, vicedirettore generale di EDF, ha sostenuto l’UNGG. Il vigore delle discussioni va di pari passo con la loro qualità tecnica ed economica e con la presa in considerazione di nuovi dati internazionali e di questioni industriali e di sovranità. La loro convergenza “relativa” fu quindi piuttosto rapida. Il 7 marzo 1966, André Decelle (EDF) inviò una lettera a Robert Hirsch (CEA) per spiegare queste questioni. Il 4 maggio 1966, il direttore generale dell’EDF e il direttore generale del CEA hanno istituito la commissione Cabanius-Horowitz (dal nome rispettivamente del direttore delle apparecchiature dell’EDF e del direttore delle batterie atomiche del CEA), con il compito di redigere un rapporto di sintesi che metta a confronto l’UNGG, l’acqua leggera (pressurizzata e bollente) e l’olio termico. Questo rapporto congiunto EDF-CEA dovrebbe servire come base per le discussioni della commissione PEON, che ha il compito di consigliare il governo sulla strategia nucleare civile. Il rapporto EDF-CEA, favorevole alle tecnologie ad acqua leggera, è stato presentato nel giugno 1967 e la commissione PEON ha raccomandato, nell’aprile 1968, di proseguire la costruzione delle UNGG con le prossime due unità a Fessenheim e, soprattutto, di testare l’acqua leggera su scala reale mettendo rapidamente in funzione una nuova unità in Francia.

 

Una prima gara d’appalto per due unità UNGG a Fessenheim, lanciata da EDF nell’ottobre 1968, si rivelò troppo costosa. Rifletteva la riluttanza degli industriali a impegnarsi nella realizzazione di questo tipo di impianti. Alla fine del 1969, dopo il via libera di Georges Pompidou, divenuto Presidente della Repubblica, fu indetta una seconda gara d’appalto per Fessenheim. Framatome presentò un’offerta industriale credibile con prezzi competitivi. Una gara d’appalto simile seguì rapidamente per due unità a Bugey. Dal 1967 al 1971, le autorità politiche disponevano quindi della sovranità e degli elementi tecnico-economici necessari per scegliere l’opzione nucleare, con argomenti convincenti a favore dell’acqua leggera. Ma le centrali a olio combustibile erano più attraenti del nucleare a breve termine, compresa l’acqua leggera, con i prezzi del petrolio ancora in calo. Tuttavia, Jacques Lacoste, consigliere di Marcel Boiteux, divenuto direttore generale di EDF nel 1967 dopo aver diretto il Dipartimento di Studi Economici Generali, scrisse una nota importante e premonitrice che indirizzò al Piano per sottolineare i rischi geopolitici che l’eccessiva dipendenza della Francia dal petrolio comportava a lungo termine, e di conseguenza la necessità di dare visibilità e prospettive al settore nucleare. Così l’industria non si impegnò a costruire nuove unità dal 1966 al 1971. Durante questo periodo, l’industria era in attesa di decisioni politiche. Per convincersene, basta leggere la lettera del 7 novembre 1968 di André Decelle, allora Consigliere di Stato, indirizzata ad André Bettencourt, Ministro dell’Industria, in cui si proponeva un rapido piano di rilancio per preservare le competenze dell’industria nucleare e il tessuto industriale22.

 

La riflessione e le decisioni politiche sulla scelta dei settori: 1966-1971

 

Tra il 1966 e il 1969, il punto di vista del generale de Gaulle si evolve progressivamente a favore della tecnica dell’acqua leggera. Nel settembre 1967, espresse la sua insoddisfazione nei confronti dell’EDF di fronte ai ritardi e alle difficoltà del programma UNGG (la visita a Chinon A3, annullata nel 1966, fu sostituita da quella alla centrale mareomotrice di Rance) e di fronte agli insuccessi nella realizzazione dell’unità termica da 250 MW, legati in particolare a un’insufficiente standardizzazione, causa di sforamenti dei costi e di ritardi nel completamento. André Decelle e Pierre Ailleret, direttore generale e vicedirettore generale di EDF, sono stati sostituiti da Marcel Boiteux e Charles Chevrier. Georges Pompidou, rinominato Primo Ministro dopo le elezioni legislative della primavera del 1967, era piuttosto favorevole alla tecnica dell’acqua leggera, a differenza di Maurice Schumann, Ministro di Stato per la Ricerca Scientifica e le Questioni Atomiche e Spaziali.

 

Durante il Consiglio interministeriale del 7 dicembre 1967, il generale de Gaulle espresse nuovamente la sua insoddisfazione al presidente di EDF, Pierre Massé, che era presente in quel momento. Si decise di avviare la costruzione di due reattori UNGG a Fessenheim e, per mantenere aperta l’opzione dell’acqua leggera, di studiare un impianto di arricchimento per scopi civili, che sarebbe stato essenziale per la sovranità del Paese se avesse fatto un uso significativo dell’opzione dell’acqua leggera. È stato inoltre deciso di autorizzare EDF a partecipare alla costruzione di una centrale ad acqua leggera di seconda generazione a Tihange, in Belgio, insieme ai belgi. Si tratterà di una centrale ad acqua pressurizzata basata sul modello Beaver Valley, che è stato poi scelto per Fessenheim. Va notato che lo studio di un’altra centrale ad acqua leggera, con gli svizzeri, che doveva essere una centrale ad acqua bollente, era stato appena autorizzato a Kaiseraugst nel luglio 1967, ma il progetto fu infine abbandonato.

 

Nel settembre 1967, Bernard Esambert, un giovane funzionario del Corpo delle Miniere, fu nominato consigliere industriale del Primo Ministro Georges Pompidou23 . La decisione presa nel dicembre 1967 di costruire due UNGG a Fessenheim non era in linea con quella che, con il rapporto Cabanius-Horowitz, cominciava a essere la visione quasi condivisa dei dirigenti di EDF e CEA. L’argomento è complesso, molto controverso e non ben compreso a livello politico. Il ruolo dei consulenti nei gabinetti ministeriali o all’Eliseo non era quello di sostituirsi ai servizi statali o agli enti pubblici, ma di attingere alle loro competenze aprendosi a punti di vista esterni per dare spessore alla diagnosi e consentire ai leader politici di andare a fondo della questione. Questo lavoro permise a Georges Pompidou, così come ad alcuni dei suoi ministri che sarebbero rimasti in carica con Maurice Couve de Murville, di appropriarsi della diagnosi: l’opzione dell’acqua leggera aveva il miglior potenziale, era ormai possibile “francesizzare” le tecnologie americane, e se gli altri europei non avessero facilitato la partecipazione di EDF all’ultracentrifugazione per l’arricchimento, sarebbe stato necessario sviluppare un impianto civile con la tecnologia francese della diffusione gassosa proponendo agli europei interessati di partecipare. Georges Pompidou trasmise questi elementi al generale de Gaulle, senza alcun riscontro positivo. Egli lasciò l’incarico all’inizio di luglio del 1968 (Maurice Couve de Murville divenne allora Primo Ministro), ma tornò come Presidente della Repubblica nel giugno del 1969 con la stessa convinzione.

 

Il rapporto della commissione PEON presentato al governo nell’aprile 1968 sottolineava l’interesse dell’acqua leggera rispetto all’UNGG e raccomandava la costruzione di un’unità ad acqua leggera in Francia dopo le due UNGG di Fessenheim, per testare questa nuova generazione e verificarne l’interesse per il futuro. Nel luglio 1968 si tenne un decisivo consiglio dei ministri su questo tema, con Maurice Couve de Murville, Primo Ministro, André Bettencourt, Ministro dell’Industria, e Robert Galley, Ministro delegato alla Ricerca Scientifica e alle Questioni Atomiche e Spaziali. André Bettencourt si prese il tempo necessario per entrare nel vivo della questione (basandosi in particolare sugli elementi preparati da Roger Ginnochio, ex vicedirettore della produzione/trasporti di EDF e membro del suo gabinetto) per riferire al Generale de Gaulle al Consiglio dei Ministri24 . Il Generale ascoltò con interesse e indicò che le cose dovevano essere rimesse in carreggiata e la decisione sulle due unità UNGG a Fessenheim riconsiderata. In quel periodo fu completato l’impianto di arricchimento di Pierrelatte.

 

Nell’ottobre 1968, il ritorno della gara d’appalto per l’UNGG di Fessenheim presentava clausole inaccettabili e prezzi troppo alti per EDF. Gli industriali hanno puntato su una tecnologia che sembrava loro rischiosa. Inoltre, i prezzi dell’olio combustibile pesante sono ai minimi e più interessanti. Nel contesto delle difficoltà di finanziamento pubblico a seguito degli eventi del maggio 1968, si è quindi tentati di rimandare di qualche anno qualsiasi ulteriore impegno nucleare a favore dell’olio combustibile. Tuttavia, gli attori industriali richiamarono l’attenzione delle autorità pubbliche sulla necessità di dare una visibilità a medio-lungo termine agli industriali per preservare le competenze in assenza di impegni in nuove centrali dal 1966 e per tenere pronta l’opzione nucleare di fronte ai rischi geopolitici sul petrolio25. Nel gennaio 1969, il generale de Gaulle, ricevendo Pierre Delouvrier quando quest’ultimo stava per sostituire Pierre Massé alla presidenza dell’EDF, si dichiarò d’accordo con l’acqua leggera, a condizione che venisse creato un impianto di arricchimento civile26.

 

Georges Pompidou, eletto Presidente della Repubblica nel giugno 1969 e già convinto nel 1968 come Primo Ministro dell’interesse dell’acqua leggera, decise nel febbraio 1971 di impiegarla nel decennio successivo. In occasione del Consiglio interministeriale ristretto del 13 novembre 1969, decise di abbandonare le due unità UNGG previste a Fessenheim alla luce dei risultati della gara d’appalto indetta da EDF. La società pubblica avrebbe dovuto costruire a Fessenheim due unità ad acqua leggera, pressurizzata o bollente.

 

Nel febbraio 1970, EDF indisse una nuova gara d’appalto per Fessenheim con Framatome-Sfac per la tecnologia Westinghouse e CGE per la tecnologia General Electric. La proposta di Framatome si basava, come per Tihange, sulla seconda generazione di reattori ad acqua pressurizzata, molto più efficienti di Chooz A (basato sul progetto dell’impianto di Beaver Valley ordinato dagli Stati Uniti nel 1967). Philippe Boulin, a capo di Creusot-Loire, e il suo team hanno azzardato un’offerta che anticipava la costruzione di una serie di centrali, riducendo così i costi. La sua offerta, nettamente migliore di quella di CGE, fu quindi selezionata. Seguì rapidamente una seconda gara d’appalto per Bugey, dove fu nuovamente selezionata Framatome.

 

Nel novembre 1970, la commissione PEON raccomandò la costruzione di 8.000 MW di energia nucleare ad acqua leggera (da otto a dieci unità) tra il 1971 e il 1975. Un consiglio ristretto riunitosi all’Eliseo il 26 febbraio 1971 ha accolto questa raccomandazione, autorizzando l’impegno di tre nuove unità per il 1971 e il 1972. EDF si preparò a un ritmo di impegno di una o due unità all’anno nel corso del decennio, mentre il ritmo previsto dal contratto di programma firmato tra EDF e lo Stato, a seguito del rapporto Nora, era di due unità all’anno. Cinque unità sono state impegnate nel 1971, 1972 e 1973, prima della prima crisi petrolifera.

 

3

Dal 1972 al 1975, gli shock petroliferi e la preparazione industriale di un dispiegamento massiccio e standardizzato di acqua pressurizzata

 

Note

  1. Anche in questo caso, i punti di vista degli attori industriali sono stati contrapposti, anche se, in EDF, Michel Hug non era molto favorevole all’ebollizione (aveva lavorato sui problemi di cavitazione), e Marcel Boiteux e Paul Delouvrier erano favorevoli alla standardizzazione piuttosto che alla concorrenza tra due settori (su questa “battaglia dei settori nucleari”, si veda Marcel Boiteux, Haute tension, Odile Jacob, 1993, p. 137-156).
  2. Cfr. la nota di Michel Hug del 5 dicembre 1973, che definisce le nuove regole del gioco e crea la

Si veda la nota di Michel Hug del 5 dicembre 1973, che definisce le nuove regole del gioco e crea il Comitato dei responsabili degli studi, inizialmente guidato da Denis Gaussot, direttore del Septen dal 1972 al 1976 (Georges Lamiral, op. cit., vol. 2, p. 127).

  1. Cfr. Cyril Foasso, Histoire de la sûreté de l’énergie nucléaire civile en France (1945-2000) : technique d’ingénieur, processus d’expertise, question de société, tesi di dottorato, Université Lyon-II, 28 ottobre 2003.

La strutturazione e la reazione politica su larga scala alla crisi petrolifera e all’abbandono del settore dell’acqua bollente

 

Gli shock petroliferi dell’ottobre 1973 e del gennaio 1974 portarono a quadruplicare il prezzo del barile di petrolio in meno di quattro mesi: in pochi giorni, il costo dell’importazione di petrolio per la Francia passò da meno dell’1,5% del PIL a quasi il 5%. Il 22 novembre 1973, il Consiglio interministeriale presieduto da Pierre Messmer, primo ministro, ratificò il progetto di un impianto di arricchimento a Tricastin, Eurodif, diretto da Georges Besse, che aveva lanciato il progetto all’inizio del 1974. Il 30 novembre 1973 Pierre Messmer si rivolge ai francesi per annunciare una serie di misure di risparmio energetico. Era l’inizio di un’operazione di “risparmio energetico” che avrebbe stabilizzato il consumo di energia del Paese nell’arco di un decennio. Il 6 marzo 1974, il Consiglio interministeriale presieduto da Georges Pompidou decise quello che sarebbe stato chiamato il “piano Messmer”, elaborato sulla base delle proposte della commissione PEON: impegno di sei unità nucleari di circa 1.000 MW nel 1974, poi sette unità nel 1975, mantenendo l’obiettivo di una coesistenza e di un’emulazione tra le due tecnologie ad acqua leggera (Westinghouse e General Electric). Nell’agosto 1975, data la sua debolezza industriale sull’isola nucleare rispetto a Creusot-Loire-Framatome, CGE rinunciò allo sviluppo della linea di ebollizione di General Electric. Il governo avrebbe rinunciato alla competizione sulla caldaia e sul turbogeneratore, mentre EDF avrebbe lavorato con gli industriali e la CEA per mettere l’industria in ordine di battaglia per affrontare questo nuovo periodo e queste nuove sfide associate a un dispiegamento su vasta scala per più di un decennio (1975-1990)27 .

 

L’industria in ordine di battaglia per una transizione energetica senza precedenti

 

Tutti gli attori erano consapevoli della necessità di cambiare nuovamente software rispetto ai periodi precedenti, sia in termini di organizzazione e metodi operativi, sia di fronte alle nuove sfide industriali ed economiche associate all’attuazione di un programma di costruzione particolarmente ambizioso.

 

Nel 1967, la Divisione Apparecchiature di EDF, a causa della sua storia, era composta da una quindicina di regioni di apparecchiature gelose della loro autonomia, ognuna con i propri uffici di progettazione e abituate a competere su centinaia di lotti con un’industria frammentata e con scarse capacità di progettazione. A partire dal 1967-1968, l’azienda si preparò a un impiego standardizzato, traendo insegnamento dal difficile avvio della fase termica da 250 MW, legato a questa assenza di dottrina tecnica e a questo eccessivo decentramento. Allo stesso tempo, si trattava della fine graduale dei grandi programmi idraulici – la maggior parte dei siti era attrezzata – che si basavano naturalmente su approcci “su misura”. Nel 1968, Charles Chevrier, vicedirettore generale, creò il Septen, che avrebbe avuto la responsabilità tecnica della progettazione delle apparecchiature termiche e nucleari. Dal 1972 al 1976, Michel Hug, Direttore dell’Equipaggiamento, ha riorganizzato le regioni dell’equipaggiamento e nel 1973 ha creato il comitato dei responsabili degli studi delle regioni dell’equipaggiamento28 : questo comitato controlla e decide, su delega del Direttore dell’Equipaggiamento, su tutti gli argomenti chiave riguardanti la progettazione delle fasi tecniche; è presieduto dal capo del Septen e decide sulla base di un consenso tecnico che viene poi imposto a tutte le regioni. Alcune regioni sono responsabili dei principali pacchetti di teste portanti, in particolare la caldaia nucleare e il gruppo generatore della turbina.

 

EDF intende inoltre adattare le proprie relazioni contrattuali a un tessuto industriale più concentrato, meglio attrezzato con uffici di progettazione e in grado di assumersi la responsabilità di sottosistemi tecnici più grandi. Soprattutto, l’azienda rinuncerà alla competizione tra i suoi fornitori per due importanti lotti: la caldaia nucleare, con Framatome, e il gruppo turbogeneratore, con Alsthom. Con le scuole professionali saranno avviati programmi di formazione molto importanti su tutte le competenze necessarie per la costruzione e il funzionamento di queste unità, e mobiliteremo il know-how degli ex lavoratori idraulici, termici e UNGG. Il tessuto industriale dovrà avere una visibilità a lungo termine, con un controllo tecnico rigoroso della produzione dei componenti chiave e un controllo dell’andamento dei costi. EDF sta inoltre lavorando costantemente allo sviluppo della rete ad altissima tensione, in particolare la rete a 400 kV, essenziale per il trasporto dell’elettricità dai nuovi siti di produzione agli usi in rapida crescita.

 

L’industria è concentrata e ristrutturata intorno a Framatome-Creusot-Loire per la caldaia nucleare (che assorbe le competenze dei gruppi industriali UNGG, G3A, Indatom) e intorno a CGE-Alsthom per la parte dei turbo-alternatori. Framatome costruisce in diciotto mesi un nuovo stabilimento a Saint-Marcel, nella regione di Saône-et-Loire, che diventa operativo alla fine del 1975. Con i suoi due stabilimenti, Creusot-Loire-Framatome avrebbe avuto una capacità produttiva annua di otto serbatoi e di diciotto-ventiquattro generatori di vapore, nonché le migliori competenze per produrre i componenti chiave del circuito primario (la parte “nucleare” dell’impianto). La scommessa dei suoi direttori, Philippe Boulin, Maurice Aragou e Jean-Claude Leny, di far leva sulla loro credibilità industriale e sull’impegno dei politici e di EDF in una serie di unità è stata vinta. Questo permetterà, con l’atteggiamento cooperativo di Westinghouse e la maestria scientifica della CEA (legata in particolare alla sua padronanza dell’acqua leggera per la propulsione nucleare), di “affrancare” la tecnologia Westinghouse in pochi anni. In questo contesto, la CEA acquisì una partecipazione in Framatome nel 1975.

 

André Giraud, amministratore generale della CEA dal 1970 al 1978, riorganizzò le attività della CEA adattando le regole di gestione e le strutture giuridiche alle sue diverse missioni. Nel 1976, Jean Bourgeois, un pioniere della sicurezza nucleare, creò l’Istituto per la protezione e la sicurezza nucleare (IPSN) presso il CEA, che oggi è diventato l’Istituto per la protezione dalle radiazioni e la sicurezza nucleare (IRSN), il supporto tecnico dell’Autorità per la sicurezza nucleare (ASN). Il CEA ha creato filiali per alcune parti industriali, come TechnicAtome nel 1972 (dal dipartimento di costruzione delle batterie) e Cogema per il ciclo a valle nel 1976. Il CEA è particolarmente coinvolto nel controllo industriale dell’intero ciclo del combustibile del settore dell’acqua pressurizzata, da monte, con la fabbricazione del combustibile e soprattutto l’arricchimento (costruzione di Eurodif), a valle, con il ritrattamento del combustibile e la gestione delle scorie nucleari. Tra le personalità che hanno svolto un ruolo importante in questo periodo con André Giraud, possiamo citare Claude Fréjacques, responsabile degli studi sull’arricchimento presso il CEA dal 1957, poi direttore della chimica del CEA negli anni ’70, prima di diventare presidente del CNRS nel 1981.

 

Il controllo della sicurezza è un punto centrale del successo del programma nucleare. All’inizio degli anni ’70 è stata creata una nuova organizzazione per la sicurezza con la creazione, nel 1973, del Service central de sécurité des installations nucléaires (SCSIN) all’interno del Ministero dell’Industria, non più integrato nel CEA. Esso ha potuto contare sulle competenze in materia di sicurezza del CEA, che nel 1976 sono state riunite, come già detto, nell’IPSN sotto la direzione di Jean Bourgeois29. Nel 1991, lo SCSIN è diventato la Direction de la sûreté nucléaire (DSIN), dipendente dal Ministero dell’Industria e dell’Ambiente, poi, nel 2002, la Direction générale de la sûreté nucléaire et de radioprotection (DGSNR), anch’essa dipendente dal Ministero della Salute, prima di diventare, nel 2006, l’ASN, un’autorità amministrativa indipendente.

 

III

Parte

Un’impegnativa preparazione collettiva sostenuta dallo Stato

 

https://www.fondapol.org/etude/souverainete-maitrise-industrielle-et-transition-energetique-1/#chap-3

1

Assunzione di rischi, fallimento e successo nella prospettiva del potere economico e della sovranità

 

Note

  1. Su questo periodo si veda Fondation Charles-de-Gaulle, Défendre la France. L’eredità di

L’eredità di De Gaulle alla luce delle questioni attuali. Actes de colloque, Nouveau Monde Éditions/Ministère des Armées, 2020; Collectif, Puissance et faiblesses de la France industrielle XIXe-XXe siècle, Seuil, coll. “Points histoire”, 1997; Marc Bloch, L’Étrange défaite [1946], Gallimard, coll. “Folio histoire”, 1990; Gaston Berger, Jacques de Bourbon-Busset et Pierre Massé, De la prospective. Textes fondamentaux de la Prospective française 1955-1966, L’Harmattan, 2007; Jean-François Sirinelli, Les Vingt Décisives. Le passé proche de notre avenir (1965-1985), Fayard, 2007 (riedito nella collana “Pluriel”, con una prefazione inedita, 2012).

L’aspetto più sorprendente è senza dubbio il contrasto tra, da un lato, i notevoli risultati della massiccia diffusione del programma negli anni 1975-1990, con costi di investimento da due a tre volte inferiori a quelli degli Stati Uniti e il controllo industriale dell’intera catena del valore (sovranità ed economia), e, dall’altro, i tentativi e le difficoltà che li hanno preceduti dal 1945 al 1975, Abbiamo visto le difficoltà, i tentativi e gli errori, le battute d’arresto tecniche ed economiche a volte considerevoli, e la diversità delle sfide a seconda del periodo – ricerca e prototipi, dimostratori industriali e scelta del settore (o dei settori), preparazione alla diffusione di serie standardizzate -, una diversità di sfide che ha richiesto organizzazioni e competenze molto diverse30. La chiave dell’enigma risiede indubbiamente nella comprensione di questa capacità di rimbalzo e di resilienza per diversi decenni, basata sulla scelta di accettare e assumere queste prove ed errori, questi rischi, con una ripartizione delle responsabilità e delle organizzazioni appropriate e la scelta di personalità impegnate e competenti per l’azione.

 

In questo spirito, quattro ingredienti principali o “quattro elementi” ci sembrano in grado di spiegare questa resilienza e capacità di rimbalzo che hanno permesso un successo eccezionale:

 

una visione politica a lungo termine e bipartisan delle questioni energetiche, basata su scienza e industria;

uno Stato che assume il proprio ruolo nella modernizzazione del Paese in settori chiave come l’energia

un’organizzazione e un funzionamento dello Stato che lo rendano responsabile dei risultati e facilitino l’azione collettiva;

uno Stato che mobiliti le migliori competenze industriali e scientifiche per il processo decisionale e l’azione.

Una visione a lungo termine e un’ambizione portata avanti dai leader politici, condivisa con le élite scientifiche e industriali e con l’alta funzione pubblica: sovranità economica ed energetica, progresso economico e sociale, grazie alla scienza e a un’industria efficiente e potente.

 

Questa visione a lungo termine è interessante ed efficace solo perché accompagnata dall’attenzione e dalla priorità data alla qualità dell’implementazione industriale, ai risultati ottenuti, all’ascolto dei professionisti e alla mobilitazione del loro know-how, anche nello sviluppo delle strategie, e all’ascolto delle opportunità legate agli eventi, anche geopolitici.

 

Una visione che si rifà alla concezione di uno Stato “determinato e misurato”,

impegnato nella modernizzazione economica e industriale del Paese.

 

Per la maggior parte degli attori è chiaro dalla storia, in particolare dal periodo delle due guerre mondiali e dal decennio di crisi economica degli anni ’30, che non si può semplicemente fare affidamento sui settori privati e sui mercati per garantire la sicurezza delle nazioni di fronte ai rischi geopolitici e geoeconomici, né di garantire la prosperità economica quando si verifica un “fallimento del mercato” legato alla presenza di monopoli naturali (reti energetiche o di trasporto), o di “esternalità positive31 ” dovute al riavvicinamento laboratorio-fabbrica o al coordinamento industriale sul controllo a lungo termine di sistemi socio-tecnici complessi, come le reti energetiche o elettriche, o il settore nucleare.

 

Laureato all’Ecole Polytechnique e al Ponts et Chaussées, Pierre Massé è stato successivamente direttore delle attrezzature di EDF, commissario generale per la pianificazione dal 1959 al 1965 e poi presidente di EDF dal 1965 al 1969; Marcel Boiteux, laureato all’Ecole Normale Supérieure, matematico ed economista, è stato capo degli studi economici generali, direttore generale di EDF dal 1967 al 1979 e poi presidente di EDF dal 1979 al 1987. Entrambi hanno guidato, sia all’interno di EDF che nei lavori del Piano, la riflessione sugli strumenti economici rilevanti per attuare le politiche dello Stato e inviare i giusti segnali economici agli attori economici: il tasso di sconto per integrare in modo coerente il costo del finanziamento nella scelta degli investimenti pubblici, la programmazione stocastica dinamica per ottimizzare la scelta degli investimenti tenendo conto delle incertezze e del lungo periodo, la tariffazione al costo marginale di lungo periodo per inviare i giusti incentivi al consumatore in termini di investimenti negli usi, la Nota Blu per decentrare le scelte di investimento e dimensionamento nel settore idraulico (importanza di poter fare “su misura”).

 

Il Piano strutturerà questo lavoro per collocarlo nel quadro sistemico di una previsione di lungo periodo che integri tutti gli attori economici e sociali, i sindacati dei lavoratori e dei datori di lavoro, gli enti locali, le complessità e le incertezze. Questo “obbligo ardente” di pianificazione in Francia è spesso poco conosciuto e mal compreso. In particolare, si dimentica spesso la grande diversità dei profili mobilitati, da Pierre Massé, grande ingegnere e scienziato, a Gaston Berger, direttore generale dell’istruzione superiore dal 1953 al 1960 e filosofo, che fu uno dei primi fenomenologi in Francia a scrivere su Husserl e Heidegger con Emmanuel Levinas. Anche Gaston Berger ha svolto un ruolo decisivo nel lavoro di previsione in Francia, dando grande importanza all’istruzione e alla cultura, oltre che al ruolo centrale degli attori, alla loro libertà e ai loro vincoli.

 

Uno di questi grandi ingegneri, Louis Armand, a capo della SNCF e poi dell’Euratom, era un industriale, uno scienziato e un servitore dello Stato e per più di due decenni ha tenuto agli studenti dell’ENA corsi notevoli di pedagogia e di precisione concreta sulle poste in gioco tecniche, economiche e sociali dell’energia e dell’industria per la Francia. Non è certo che i decenni successivi abbiano offerto un approccio così approfondito e sistemico alle classi che si sono succedute all’ENA o all’École Polytechnique. Il successo di tutti questi ambiziosi obiettivi in termini di sviluppo economico e sociale era tutt’altro che assicurato, dopo tre decenni di guerra, crisi e declino in Francia. La maggior parte di questi attori era abitata dall’importanza delle incertezze e dalla necessità di rimanere modesti e prudenti, pur essendo determinati a uscire dal comportamento spesso malthusiano, egoista e retrogrado che Marc Bloch aveva così bene analizzato. È stato più negli anni ’70 e ’80 che questa modestia è stata troppo spesso abbandonata, lasciando talvolta il posto a tecnocrazie che hanno confuso la scienza con lo scientismo e hanno trasformato la speranza di progresso in certezza.

 

Organizzazione statale per l’azione e la realizzazione di grandi progetti industriali di interesse generale

 

Questa organizzazione si basava in particolare su :

 

enti industriali e/o scientifici come il CEA e l’EDF, o dipartimenti governativi come la Direzione dell’Energia e delle Materie Prime (DGEMP), prima denominata Segretariato Generale dell’Energia dal 1963 al 1973, poi Delegazione Generale dell’Energia dal 1974 al 1978. Jean Blancard fu quindi Delegato Generale per l’Energia nel 1974-1975, dopo essere stato Delegato Ministeriale per gli Armamenti dal 1968 al 1974, con forti responsabilità in campi coerenti e sufficientemente vasti per sentirsi davvero responsabile del futuro del Paese in questi settori, integrando la dimensione sistemica e quella industriale. La creazione da parte del generale de Gaulle, nel 1961, del Centre national d’études spatiales (Cnes) nel settore spaziale e della Délégation ministérielle pour l’armement (DMA), poi divenuta Direction générale de l’armement (DGA), rientravano nella stessa logica: l’obiettivo era quello di “trasformare il mondo” e i servizi statali erano responsabili della coerenza delle regole concrete del gioco con gli obiettivi;

uno Stato efficiente che funziona sotto l’autorità del politico, che polarizza le energie, ascolta gli attori e decide in modo pragmatico. Si tratta di giungere rapidamente a soluzioni attraverso istituzioni che gestiscano i conflitti e confrontino i punti di vista a livello di competenze rilevanti: consigli ministeriali ristretti, commissione Plan e PEON, comitati CEA-EDF, comitato dei responsabili delle regioni di equipaggiamento all’interno del FES, ecc.

Uno Stato con le migliori competenze industriali e scientifiche.

 

Lo Stato si avvaleva quindi, sia all’interno che all’esterno, delle migliori competenze industriali e scientifiche portate da uomini animati da questa visione collettiva e addestrati all’azione e all’attuazione: EDF era stata creata dalla nazionalizzazione di più di mille imprese nel 1946 e la maggior parte dei suoi dirigenti aveva realizzato progetti, costruito centrali e reti, nell’ambito delle imprese private del periodo tra le due guerre (Pierre Massé, Pierre Ailleret, André Decelle). La CEA era gestita da industriali come Pierre Guillaumat e Pierre Taranger, e da grandi scienziati come Francis Perrin e Jules Horowitz. E fornitori industriali come Creusot-Schneider (Charles Schneider, Philippe Boulin, Maurice Aragou, Jean-Claude Leny), CGE o Saint-Gobain erano coinvolti nelle discussioni. Questi uomini, per il loro passato industriale e anche, per molti di loro, per il loro passato di combattenti della Resistenza e di francesi liberi, erano abituati a mettersi in gioco, a non evitare il conflitto, a rischiare e a sentirsi responsabili individualmente e collettivamente dell’insieme.

 

Possiamo quindi vedere chiaramente l’emergere di una concezione forte e precisa del ruolo dello Stato nel campo del controllo industriale al servizio della sovranità e del potere economico, con un’organizzazione dello Stato snella, coerente e responsabilizzante e, al centro dello Stato, competenze industriali e scientifiche dotate di esperienza d’azione e preoccupazione per la realizzazione operativa. Questa organizzazione e queste competenze industriali e scientifiche sono in diretta interazione con i politici, che le interpellano e le coinvolgono nei loro processi decisionali. I politici forniscono la visione e si aspettano risultati dall’industria, ma anche iniziative e gestione cooperativa dei conflitti tra di loro. E, alla fine, sono loro che, ascoltando la posta in gioco e le circostanze geopolitiche, decidono le opzioni strategiche nei momenti chiave e la cooperazione internazionale.

 

2

Sovranità ed efficienza economica attraverso il controllo industriale e la cooperazione internazionale mirata

 

La sovranità energetica viene spesso contrapposta all’efficienza economica attraverso il commercio e la cooperazione internazionale. Secondo questa visione, qualsiasi politica industriale comporterebbe protezionismo, regolamenti e sussidi, con costi aggiuntivi significativi per l’economia e i contribuenti. L’analisi della storia del programma nucleare francese dimostra che questo, lungi dall’essere una fatalità, può essere esattamente il contrario, se comprendiamo che il controllo industriale di un settore chiave da parte del tessuto industriale di un Paese è un fattore comune di progresso economico e sociale e di autonomia strategica. Ci rendiamo anche conto che se questo controllo industriale richiede l’intervento dello Stato in settori come il sistema elettrico e l’energia nucleare, non si tratta di un intervento qualsiasi: un intervento mirato a questioni di sovranità e “fallimenti del mercato”, e basato su un alto livello di competenza industriale al servizio dell’interesse generale. Abbiamo visto che questo intervento, pur assumendo forme diverse a seconda del periodo (prototipi/dimostratori industriali/dispiegamento su larga scala), deve sempre articolare le due preoccupazioni: sovranità ed efficienza economica. È chiaro che la diffusione su larga scala di una tecnologia di produzione di energia elettrica meno competitiva di quella di altri grandi Paesi segnerebbe la fine del potere economico e quindi della sovranità: come ricordava spesso il generale de Gaulle, il potere industriale ed economico di un Paese nei settori strutturanti dell’energia, dei trasporti o della difesa è la condizione dell’autonomia strategica. È quindi necessario, come abbiamo detto, avere la capacità di identificare da un lato gli anelli chiave della catena del valore che sono una questione di sovranità, e dall’altro i “fallimenti del mercato industriale” che richiedono un’azione consapevole e mirata da parte dello Stato, e non una miriade di sussidi, regolamenti e obiettivi non gerarchici.

 

La cooperazione internazionale è ovviamente molto utile in questi settori ad alta tecnologia, in quanto le economie di scala sono importanti sia per i prototipi e i dimostratori che per la produzione di attrezzature nella fase di diffusione. Tuttavia, occorre prestare attenzione alle dimensioni sensibili legate, da un lato, al duplice aspetto della tecnologia nucleare (non proliferazione e controllo dei materiali) e, dall’altro, all’autonomia strategica negli anelli chiave per il controllo industriale ed economico, garantendo al contempo il mantenimento dei vantaggi comparativi associati. La prima dimensione riguarda la catena del combustibile, in particolare l’arricchimento e il ritrattamento; la seconda la sicurezza dell’approvvigionamento di combustibile (miniere di uranio diversificate, scorte strategiche per tutto il ciclo), nonché il controllo e il comando della fabbricazione di componenti chiave (serbatoi, metallurgia e saldatura, motori di emergenza) per i reattori (in particolare la sicurezza). Nel quadro di una visione a lungo termine dei rischi industriali e geopolitici, è necessario creare un’offerta diversificata, che possa articolare una base francese, un complemento più o meno importante acquistato da fornitori stranieri e le scorte strategiche necessarie, proteggendo al contempo i segreti di fabbricazione e i vantaggi comparativi legati a determinate innovazioni. I partenariati sostenibili richiedono quindi l’articolazione di precise considerazioni industriali ed economiche con questioni geopolitiche. Anche in questo caso, se i politici hanno una visione che collega le questioni geopolitiche e di politica estera con quelle industriali, e se possono contare su competenze che integrano la lungimiranza geopolitica e industriale all’interno dello Stato, è possibile attuare una forte cooperazione a seconda del contesto, anche con gli alleati storici, sui legami di sovranità come l’arricchimento (come nel caso di Eurodif con gli alleati europei) o il ritrattamento (nel caso della cooperazione con il Giappone).

 

La storia del nucleare civile illustra bene queste osservazioni. Se negli anni Cinquanta i francesi si sono messi in proprio con l’UNGG, non è stato volontariamente, ma a causa dell’atteggiamento degli Stati Uniti, che si sono rifiutati di condividere le loro conoscenze tecnologiche e il lavoro in corso tra i grandi laboratori pubblici e Westinghouse o General Electric (McMahon Act del 1946). Non appena si aprì la possibilità, visto il mutato atteggiamento degli Stati Uniti e la creazione dell’Euratom alla fine degli anni Cinquanta, il generale de Gaulle in persona autorizzò la partecipazione dell’EDF alla costruzione di Chooz A con i belgi e la tecnologia di Westinghouse. I primi reattori di serie ad acqua leggera, e anche l’UNGG, furono oggetto di partnership con altre società elettriche: Vandellos, UNGG in Spagna; Tihange con i belgi; la partecipazione di tedeschi e svizzeri nelle due unità ad acqua pressurizzata di Fessenheim. Abbiamo già accennato alla cooperazione sull’arricchimento e sul riprocessamento con partner europei o giapponesi, ma possiamo anche citare la presenza della società giapponese MHI nel capitale di Framatome, che è anche un importante attore industriale non solo in Francia ma anche a livello internazionale, in particolare negli Stati Uniti per la manutenzione degli impianti esistenti.

 

Il rischio può derivare da un cambiamento nella strategia nucleare civile di uno dei partner, come nel caso della Germania, che ha abbandonato il nucleare all’inizio degli anni 2000, indebolendo così il progetto franco-tedesco di generazione 3, l’EPR. Può anche derivare da un’evoluzione del contesto geopolitico e del comportamento dei potenziali partner, ad esempio con l’atteggiamento negativo degli Stati Uniti all’inizio della Guerra Fredda. La questione dei partner sostenibili nello sviluppo di tecnologie chiave come l’energia nucleare è ovviamente importante per il futuro, con la rivalità strategica tra Cina e Stati Uniti e la guerra tra Russia e Ucraina.

 

Le questioni energetiche sono questioni di prosperità e sovranità statale. Gli anni 1945-1990 in Francia illustrano come sia stato possibile esplorare nuove strade e impiegare in modo massiccio e rapido tecnologie innovative adatte a queste questioni essenziali per il nostro Paese. Anche gli ultimi decenni in Cina e negli Stati Uniti dimostrano l’efficacia di questo metodo. Esso si basa sul ruolo fondamentale dello Stato nel padroneggiare le condizioni del successo industriale e può consentire di rilanciare il settore e di riconquistare la potenza e la prosperità che gli sono proprie, a condizione che i vari attori condividano una visione politica.

 

Nella prima parte di questo studio, Jean-Paul Bouttes ci riporta indietro nel tempo per svelare le caratteristiche principali del periodo che ha visto la Francia diventare pioniera nel campo dell’energia nucleare.

 

Nella seconda parte, l’autore allarga il discorso alla transizione energetica, basandosi su esempi esteri e più recenti di successo industriale, come i pannelli fotovoltaici in Cina o la versione americana (Advanced Research Projects Agency-Energy, ARPA-E) dei Programmes d’investissements d’avenir (PIA). Lo studio si conclude con la situazione francese, dove gli ultimi due decenni sono stati segnati da un declino delle nostre competenze industriali, in particolare nei nostri tradizionali punti di forza (nucleare, fossile, rete), dalle difficoltà di EDF, Areva, Framatome, Alstom e, cosa più preoccupante, dai fallimenti dei tentativi industriali nel fotovoltaico e nell’eolico onshore.

 

Leggi anche

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Copyright: Archivio EDF

Fonte: Nel 1958, il generale de Gaulle visitò il centro atomico di Marcoule, nella regione del Gard, dove constatò i progressi compiuti dal 1945, data in cui firmò l’atto di nascita dell’industria nucleare in Francia. Al suo fianco, Maurice Pascal (a destra del generale de Gaulle nella foto), allora responsabile degli studi sulle batterie presso il Commissariat à l’énergie atomique (CEA), spiega al Capo di Stato i dettagli della sala di controllo del reattore G2. Ex studente dell’École polytechnique, Maurice Pascal (1920-1996) iniziò la sua carriera presso la delegazione ministeriale per gli armamenti. Nel 1954 è stato inserito in una posizione di responsabilità presso il CEA. Dal 1964 è stato responsabile della politica industriale.

https://www.fondapol.org/etude/souverainete-maitrise-industrielle-et-transition-energetique-1/216_nucleaire_i_couv_fond/

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Ringraziamenti

Questo lavoro deve molto agli scambi condivisi con molti attori della storia del nucleare francese. Desidero ringraziare in particolare Bernard Esambert per la sua attenta lettura, nonché Gilles Bellamy, Lorraine Bouttes, Yves Bréchet, Michel Clavier, Pierre Daurès, Sylvain Hercberg, Bruno Lescoeur, Bernard Tinturier e Gilles Zask per i loro commenti e suggerimenti. Tuttavia, sono naturalmente l’unico responsabile delle analisi e delle opinioni espresse in questo libro.

 

Jean-Paul Bouttes

 

1

Elenco delle abbreviazioni e degli acronimi utilizzati nel primo volume

 

AGR: Reattore avanzato raffreddato a gas.

AHEF: Association pour l’histoire de l’électricité en France.

AIE: Agenzia Internazionale dell’Energia.

ARPA-E: Advanced Research Projects Agency-Energy.

ASN: Autorité de sûreté nucléaire (Autorità per la sicurezza nucleare).

CEA: Commissione francese per l’energia atomica.

CEE: Comunità economica europea.

CEEA/Euratom: Comunità europea dell’energia atomica.

CEGB: Central Electricity Generating Board.

CGE: Compagnie générale d’électricité.

Cigre: Conferenza internazionale dei grandi sistemi elettrici.

WEC: Consiglio Mondiale dell’Energia.

COP: Conferenza delle Parti.

DGSNR: Direction générale de la sûreté nucléaire et de radioprotection.

DSIN: Direction de la sûreté nucléaire (Direzione della sicurezza nucleare).

EDF: Électricité de France.

ENA: École nationale d’administration.

EPR: Reattore pressurizzato europeo.

INSTN: Institut national des sciences et techniques nucléaires (Istituto nazionale di scienze e tecnologie nucleari).

IPSN: Institut de protection et de sûreté nucléaire (Istituto per la protezione e la sicurezza nucleare).

IRSN: Institut de radioprotection et de sûreté nucléaire (Istituto di radioprotezione e sicurezza nucleare).

PEON: Produzione di energia elettrica da fonti nucleari.

PWR: Reattore ad acqua pressurizzata.

SCSIN: Service central de sécurité des installations nucléaires.

Sfac: Société des forges et ateliers du Creusot.

SENA: Société d’énergie nucléaire franco-belge des Ardennes.

UKAEA: Autorità per l’energia atomica del Regno Unito.

UNGG: Uranio naturale, grafite e gas.

Unipede: Unione internazionale dei produttori e distributori di energia elettrica.

 

Introduzione

 

https://www.fondapol.org/etude/souverainete-maitrise-industrielle-et-transition-energetique-1/#chap-1

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Note

  1. La prima parte di questo articolo si concentra sulla storia del nucleare civile dal 1945 al 1975 in Francia. L’autore si basa in particolare sul libro di Boris Dänzer-Kantof e Félix Torres, L’Énergie de la France. De Zoé aux EPR, l’histoire du programme nucléaire (Éditions François Bourin, 2013).

del programma nucleare basato non solo su documenti storici ma anche su interviste a molti degli attori di questa avventura. Marcel Boiteux e Philippe Boulin sono all’origine di questo progetto, che l’autore di questo documento ha potuto realizzare e accompagnare.+

  1. Con, ovviamente, la mobilitazione e lo sviluppo di tutte le altre energie rinnovabili rilevanti: biomassa, geotermia, energie marine…
  2. IEA, Energy Technology Perspectives 2006. A sostegno del Piano d’azione del G8, OCSE, 2006.
  3. Il termine progetto di base si riferisce al progetto complessivo della centrale, che deve essere integrato da piani dettagliati dell’impianto (progetto dettagliato). Si sviluppa sulla base di uno schizzo iniziale a livello di progettazione, il progetto concettuale.+ 5. La preoccupante situazione economica in Europa e nel mondo è stata caratterizzata da una serie di problemi.

La preoccupante situazione economica in Europa e in Francia, dovuta alla guerra di Vladimir Putin in Ucraina, ci ricorda l’importanza centrale, sia per la nostra prosperità che per la nostra sicurezza, di un’energia competitiva che risponda a due criteri aggiuntivi: disponibilità garantita e impatto limitato sull’ambiente1 . Per raggiungere questo obiettivo, il controllo industriale delle tecnologie di produzione e trasformazione dell’energia e la capacità di anticipare il mix energetico più adatto alle nostre esigenze a lungo termine sono i due principali fattori di successo. Queste sfide saranno ancora più grandi se vogliamo attuare la transizione energetica necessaria nei prossimi decenni per affrontare la sfida del riscaldamento globale, tenendo conto di un contesto geopolitico che sarà fonte di preoccupazione duratura.

 

Per raggiungere questi obiettivi, dimenticando le lezioni della storia e le caratteristiche tecnico-economiche e industriali dell’energia, in particolare dell’elettricità, gli Stati europei si sono affidati quasi esclusivamente ai mercati europei (per il gas e l’elettricità) o internazionali (per le attrezzature o le materie prime). Il compito era impossibile per i soli mercati e, di fronte alla resistenza della realtà, gli Stati membri dell’UE e la stessa Unione Europea hanno reagito moltiplicando leggi, obiettivi e regolamenti, ma senza assumere chiaramente il loro ruolo. Questi interventi incoerenti di fronte ai “fallimenti del mercato” si sono tradotti in un grave fallimento delle autorità pubbliche.

 

Questo fallimento è ancora superabile a patto che si faccia una diagnosi corretta del ruolo degli Stati e che si correggano le loro carenze e quelle dei mercati. Si tratta di mobilitare le necessarie competenze industriali, scientifiche e lungimiranti, di impostare un’organizzazione leggera e responsabile della sfera pubblica, di incoraggiare le iniziative, sia del settore privato che degli enti locali, nel quadro di regole del gioco semplici ed efficaci. Gli esempi qui presentati, relativi alle sfide del controllo industriale nei settori delle grandi tecnologie per la decarbonizzazione, come il nucleare o i pannelli fotovoltaici, dimostrano che tutto ciò è stato attuato con successo in Francia negli anni ’50-’90, e in Cina o negli Stati Uniti negli ultimi trent’anni. Spetta ora a noi trovare il percorso francese ed europeo che ci permetta, con una diagnosi condivisa e rigorosa che non si accontenti di parole troppo spesso fuorvianti, di apportare i necessari cambiamenti strutturali in termini di organizzazione dello Stato e di regole del gioco europeo per correggere la situazione il più rapidamente possibile nel prossimo decennio.

 

Di fronte al cambiamento climatico, dobbiamo intraprendere una transizione energetica globale di dimensioni senza precedenti, con obiettivi di “emissioni nette zero” entro la metà del secolo. Per ridurre in modo significativo le emissioni di gas serra, dovremo innanzitutto decarbonizzare la produzione di energia elettrica ed elettrificare in modo massiccio gli usi energetici, attuando al contempo un’ambiziosa politica di risparmio energetico. Per la maggior parte, conosciamo le tecnologie che dobbiamo sviluppare e implementare: dal punto di vista della produzione, l’energia nucleare, i pannelli fotovoltaici e le turbine eoliche, la cattura e lo stoccaggio delle emissioni di CO2, l’energia idraulica2 ; dal punto di vista dell’utilizzo, le batterie e i veicoli elettrici, le pompe di calore, i processi industriali elettrici… Questa roadmap è nota da circa vent’anni, come dimostrano, ad esempio, le dichiarazioni del vertice del G8 presieduto da Tony Blair nel 2005 a Gleneagles, il primo rapporto dell’Agenzia Internazionale dell’Energia (AIE) del 2006, Energy Technology Perspectives3 , sul rapporto energia-clima, o le proposte di roadmap settoriali discusse alla Conferenza delle Parti (COP) di Montreal nel 2005. Tuttavia, ad oggi, i risultati in termini di decarbonizzazione sono deludenti. Una delle ragioni principali è l’aver trascurato le questioni industriali e la perdita di controllo industriale nel settore energetico, soprattutto in Europa e in Francia negli ultimi decenni. La massiccia diffusione di queste tecnologie ad alta intensità di capitale richiede un controllo dei costi per conciliare clima e sviluppo economico, nonché gli anelli chiave delle catene del valore (apparecchiature a valore aggiunto, materiali critici, digitale) in un contesto di geopolitica di ritorno. La padronanza delle questioni industriali legate alla produzione e alla costruzione di queste tecnologie ad alta intensità di capitale è al centro degli obiettivi inscindibili di efficienza economica, competitività, sovranità economica e autonomia strategica. Il raggiungimento di questi obiettivi richiede una solida cooperazione internazionale.

 

In questa prospettiva, la Francia può offrire un esempio di successo nel guidare una transizione basata sulla padronanza di queste problematiche industriali. Tra il 1974 e il 1990, è stata in grado di attuare una delle transizioni più rapide nel mondo dell’energia, sostituendo l’energia nucleare alle centrali a carbone e a petrolio, consentendole, al termine di questa transizione, di beneficiare di un mix elettrico decarbonizzato al 90% (75% nucleare, 15% idroelettrico), di prezzi dell’elettricità tra i più bassi d’Europa, di costi d’investimento pari alla metà di quelli degli Stati Uniti e della padronanza industriale del settore dei reattori ad acqua pressurizzata. Il programma nucleare civile francese è stato un successo in termini economici e di sovranità: il Paese si è liberato dalla dipendenza dalle importazioni di combustibili fossili, compreso il petrolio, per la produzione di energia elettrica, e ha padroneggiato la catena del valore nucleare, compreso l’arricchimento, facendo leva su una forte cooperazione internazionale (licenza francese Westinghouse, impianto di arricchimento Eurodif a Tricastin, partecipazioni di società elettriche europee in centrali nucleari francesi, ecc.) Inoltre, grazie alla sua portata (ogni anno, per dieci anni, sono state messe in funzione da quattro a sei unità da 900 a 1.300 MW), questo programma ha permesso una significativa elettrificazione degli usi residenziali (scaldabagni, riscaldamento, ecc.) e industriali, soddisfacendo nel 1990 un consumo di elettricità doppio rispetto a quello del 1973, in un momento in cui la sobrietà energetica, istituita nel quadro della “caccia allo spreco” dopo i due shock petroliferi, ha portato a una quasi stagnazione del consumo finale di energia. Questi movimenti sono esattamente in linea con l’attuale scenario “zero emissioni nette” dell’AIE, che si basa sia sulla sobrietà energetica sia su un aumento di due volte e mezzo della produzione di elettricità entro il 2050.

 

Pensiamo spesso alle condizioni del successo industriale della massiccia diffusione dal 1974 al 1990, dopo la prima crisi petrolifera: una decisione politica nel 1974-1975 che offre una visibilità a lungo termine concretizzata da un programma, una progettazione di base4 finalizzata su un prodotto robusto e semplice da costruire (i reattori ad acqua pressurizzata Westinghouse), serie standardizzate, un tessuto industriale di qualità e un architetto industriale chiaramente responsabile e competente, ovvero EDF. Tutto questo è vero, ma non è sufficiente a spiegare il successo di questa realizzazione. È stata preparata in modo altrettanto decisivo nel periodo dal 1945 al 1974, combinando tentativi ed errori, visione a lungo termine e determinazione incrollabile nell’azione. Questi tre decenni sono stati caratterizzati dalla capacità di una generazione di attori, spesso provenienti dalla Resistenza e dalla Francia Libera, di rischiare, di provare quasi tutti i metodi – rapido, acqua pesante, gas grafite, acqua leggera -, di accettare tentativi, errori e fallimenti, con la volontà di trovare rapidamente soluzioni efficaci e di avere successo. La figura e la personalità del generale de Gaulle hanno segnato questo periodo, prima direttamente nel 1945, attraverso la creazione della Commissione per l’energia atomica (CEA) e il processo di nazionalizzazione dell’energia elettrica, con la creazione dell’EDF nel 1946; poi, indirettamente, attraverso uomini chiave che condividono gli stessi obiettivi durante la Quarta Repubblica (Félix Gaillard, Raoul Dautry, Gaston Palewski, Pierre Guillaumat, Jules Horowitz, Pierre Taranger, Pierre Ailleret…); poi con la creazione di un’agenzia di ricerca e di sviluppo che si occupa di energia nucleare. ) ; e, infine, ancora, nel momento chiave del passaggio alla fase industriale e del dibattito sulla scelta dell’uranio naturale, della grafite e del gas (UNGG) rispetto all’acqua pressurizzata o all’acqua bollente, tra il 1958 e il 1975, con Georges Pompidou, Primo Ministro e poi Presidente della Repubblica, Pierre Messmer, Bernard Esambert, Pierre Massé, Francis Perrin, Claude Fréjacques, Georges Besse, André Giraud, André Decelle, Paul Delouvrier, Marcel Boiteux, Michel Hug, Philippe Boulin, Maurice Aragou, Jean-Claude Leny…

 

Nella prima parte di questa nota, ripercorreremo la storia per individuare le caratteristiche principali di questo periodo e trarne alcuni utili insegnamenti. Nella seconda parte, allargheremo la questione alla transizione energetica che deve essere realizzata oggi, basandoci su esempi più recenti di successo industriale riguardanti altre tecnologie energetiche e altri Paesi, come i pannelli fotovoltaici in Cina o la versione americana (Advanced Research Projects Agency-Energy, ARPA-E) dei programmi di investimento futuro (PIA). Infine, torniamo alla situazione francese, dove gli ultimi due decenni sono stati segnati da un declino delle competenze industriali, in particolare in quelli che erano i nostri tradizionali punti di forza: l’energia nucleare, l’energia fossile, la rete, con le difficoltà di EDF, Areva, Framatome, Alstom, e, cosa più preoccupante, dal fallimento dei tentativi industriali nel fotovoltaico e nelle turbine eoliche onshore, settori in cui la Francia sembra accontentarsi per lo più di installazioni e servizi a basso valore aggiunto, nonostante la ricerca di qualità in questi campi industriali.

 

Gli anni 1945-1990 in Francia o gli ultimi decenni in Cina o negli Stati Uniti dimostrano come sia stato possibile aprire delle opzioni, esplorare nuove strade e implementare tecnologie adatte alle sfide dei Paesi interessati su larga scala e in tempi rapidi. Su queste questioni energetiche, che riguardano la prosperità e la sovranità dei Paesi, questi esempi illustrano chiaramente il ruolo fondamentale svolto dagli Stati nel controllare le condizioni per il successo industriale, compresa la diversità dei percorsi possibili in base alle istituzioni e alle tradizioni dei vari Paesi. La capacità degli Stati di assumere il proprio ruolo per consentire la mobilitazione di tutti gli attori sembra essere decisiva. Ciò presuppone la capacità di indicare chiaramente le proprie debolezze, se possibile prima che la situazione diventi troppo grave, e di farlo lasciandosi interpellare dal proprio passato o da altre esperienze attuali. Le competenze e la buona volontà non mancano. Potrebbero permetterci di riformare il settore in profondità e di prepararci al prossimo decennio, a condizione che gli attori condividano una visione politica.

 

I

Parte

Superare le idee preconcette

 

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1

La solita narrazione

 

Per capire la storia del nucleare francese, dobbiamo accettare di mettere in discussione la narrazione abituale, generalmente espressa come segue:

 

il programma è stato deciso nel 1974-1975 in reazione a un evento: la prima crisi petrolifera del 1973;

si riduce a una decisione presa da un ristretto numero di decisori politici: l’abbandono della linea nazionale di centrali a uranio naturale e gas grafite (NUG) a favore della linea Westinghouse di centrali a uranio arricchito e acqua leggera;

è stato ottenuto attraverso il semplice trasferimento del know-how americano senza aver dovuto affrontare la “frontiera tecnologica”;

illustra la tradizione francese – e il “genio francese” – dell’intervento statale nell’economia attraverso grandi programmi.

2

Una storia diversa

 

Note

  1. L’obiettivo a lungo termine era presente fin dalla creazione del CEA nel 1945 e divenne più chiaro con il progredire del lavoro di ricerca negli anni Cinquanta.
  2. Decisione strategica, per ragioni industriali, logistiche e militari.

La lettura della storia qui difesa è diversa. L’immagine proiettata dalla narrazione abituale è fuorviante, perché le affermazioni che la costruiscono riflettono un profondo fraintendimento di cosa sia un’industria ad alta tecnologia come quella nucleare.

 

Innanzitutto, la decisione di affidarsi a un programma nucleare civile era un obiettivo chiaro fin dall’inizio degli anni ‘605 , nonostante il calo del prezzo dell’olio combustibile pesante in quel decennio. Questa decisione deriva da una visione condivisa della sicurezza di approvvigionamento a lungo termine del Paese e dalle prospettive di competitività del nucleare alla luce dei primi dimostratori industriali.

 

Inoltre, l’esigenza di avere più ferri da stiro, compresi quelli ad acqua leggera, e di sperimentare diverse tecnologie era già all’opera nel 1958 con la decisione di costruire Chooz A, un prototipo franco-belga basato sulla prima generazione di reattori ad acqua pressurizzata Westinghouse, presa dal generale de Gaulle non appena tornato al potere nel 1958. Questa decisione fu presa a complemento dei dimostratori UNGG costruiti a Chinon tra il 1957 e il 1961.

 

Solo nel 1975 la linea ad acqua bollente di General Electric, trasportata in Francia dalla Compagnie Générale d’Electricité (CGE) di Ambroise Roux, fu abbandonata e ci si concentrò sulla sola linea ad acqua pressurizzata di Westinghouse, non senza rammarico per gli operatori che desideravano mantenere la concorrenza tra almeno due fornitori per i componenti chiave. La decisione di abbandonare l’UNGG e di costruire una prima serie di reattori ad acqua pressurizzata (PWR) fu presa in un periodo in cui i prezzi dell’olio combustibile pesante erano ancora ai minimi tra il 1969 e il 1971; fu allora che si decise di costruire due unità a Fessenheim e due unità a Bugey, che entrarono in funzione nel 1977 e nel 1978. Queste decisioni furono prese da Georges Pompidou all’inizio del suo mandato di Presidente della Repubblica.

 

Westinghouse non avrebbe mai accettato di collaborare con i francesi, né permesso che la licenza diventasse francese, se la Francia non avesse dimostrato l’eccellenza delle sue competenze industriali, in particolare nella fabbricazione dei contenitori dei reattori a Le Creusot, e l’eccellenza delle competenze scientifiche della CEA, che stava lavorando non solo sull’UNGG, ma anche sui PWR per la propulsione militare. Tra il 1950 e il 1970, la Francia aveva effettivamente raggiunto da sola la frontiera tecnologica, e questo è probabilmente ciò che ha permesso di utilizzare con successo la tecnologia Westinghouse.

 

Infine, il ruolo chiave dello Stato nel controllo e nella diffusione dell’energia nucleare non è specificamente francese. Per convincersene, basta osservare l’esempio americano con il programma dell’ammiraglio Rickover, inizialmente incentrato sulla propulsione militare e che mobilita insieme i grandi laboratori federali americani (simili alla CEA) con Westinghouse e General Electric (la CEA, e poi l’EDF, mobiliteranno anche i grandi industriali francesi più capaci, prima sull’UNGG e poi sul PWR). Anche il Regno Unito, il Canada, la Cina, il Giappone e la Corea del Sud potrebbero illustrare, ciascuno a suo modo, questo ruolo dello Stato strategico, coinvolto nella dimensione scientifica e industriale. Va aggiunto che, sebbene in Francia lo Stato abbia svolto in precedenza un ruolo di stimolo allo sviluppo di alcune grandi reti, come le ferrovie6 , come dimostra il piano Freycinet del 1879, e abbia avuto un ruolo importante nella regolamentazione tecnica di alcuni settori industriali, come il controllo tecnico delle fucine, la Francia degli anni Trenta e Quaranta del XIX secolo era innanzitutto un Paese economicamente e industrialmente liberale, in conformità con l’eredità della Rivoluzione francese.

 

3

La rapida transizione della Francia

 

Dal 1945 al 1990, la Francia ha realizzato una delle più rapide transizioni nelle tecnologie energetiche, dalla ricerca di base alla diffusione industriale. La scoperta della fissione e della reazione a catena risale agli anni ’30, con il lavoro di Enrico Fermi, Otto Hahn, Lise Meitner e Fritz Strassmann, e poi di Frédéric Joliot-Curie, con Hans Halban e Lew Kowarski nel 1939. È sulla base di quest’ultimo lavoro che il CEA è venuto a conoscenza delle varie tecnologie nucleari – UNGG, acqua pesante, reattori a neutroni veloci raffreddati a sodio, reattori ad acqua leggera – e ha prodotto prototipi, in particolare per la tecnologia UNGG, negli anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta. Negli anni ’60, il CEA e l’EDF sono riusciti a costruire dimostratori su scala industriale nel reattore a gas di grafite (Chinon A1, A2 e A3) e nel reattore PWR (Chooz A e poi Tihange), con i nostri partner belgi, basati sul reattore Westinghouse. Ci sono voluti solo vent’anni, tra il 1970 e il 1990, per implementare in modo massiccio il parco nucleare e produrre tre quarti dell’elettricità per la Francia, con prestazioni, come abbiamo visto, molto migliori in termini di costi rispetto a quelle di Stati Uniti, Inghilterra, Germania o Giappone con tecnologie simili nello stesso periodo.

 

Si è trattato di sfide particolarmente difficili. Gli ostacoli successivi hanno dovuto essere superati con perseveranza, uno dopo l’altro. Le sfide variavano a seconda dei periodi e delle circostanze, sia che si trattasse del periodo della ricerca e dei prototipi (1945-1960), sia che si trattasse del periodo dei dimostratori industriali e della scelta della tecnologia da impiegare (1960-1971), sia che si trattasse del periodo dell’impiego massiccio (iniziato nel 1972-1975 e che continuerà in gran parte fino al 1990). Fin dall’inizio è stato necessario pensare in termini di sistema industriale, con il controllo dell’intero ciclo del combustibile, dall’estrazione al ritrattamento e alla gestione delle scorie, con la fabbricazione del combustibile, nonché con l’arricchimento dell’uranio necessario nelle tecnologie ad acqua leggera, e il controllo del reattore e dei suoi componenti chiave: forgiatura primaria, termoidraulica e neutronica, scienza dei materiali, automazione e controllo, unità turbo-alternatore, ingegneria civile, ecc.

 

Il termine “industria nucleare” può essere fuorviante, perché si tratta in realtà di mobilitare competenze e professionalità molto diverse provenienti da diversi settori industriali, con requisiti di qualità particolarmente elevati, in quanto la sicurezza è ovviamente un punto centrale in questo caso. È stato inoltre necessario affrontare e risolvere numerosi problemi tecnici almeno altrettanto delicati di quelli che stiamo vivendo da quindici anni a questa parte nello sviluppo dei reattori di terza generazione, come l’EPR in Francia e Finlandia o l’AP 1000 negli Stati Uniti. La reattività e la determinazione delle comunità scientifiche e ingegneristiche sono state notevoli nel proporre “soluzioni di riparazione”, mantenendo sempre la capacità di aprire altre opzioni tecniche (involucro in acciaio o cemento armato precompresso, ecc.), e anche opzioni più radicali, come l’esplorazione di altri metodi. Infine, al di là della gestione efficace dei ricorrenti guasti tecnici che sono una caratteristica inevitabile di questi grandi progetti tecnologici, il contesto internazionale e politico era particolarmente turbolento: la guerra fredda a partire dal 1947, la decolonizzazione, la crisi di Suez nel 1956, la creazione della Comunità economica europea (CEE) e del trattato Euratom nel 1958, la crisi del maggio 1968 e gli shock petroliferi del 1973-1974 dopo un lungo periodo di calo dei prezzi del petrolio pesante. La cooperazione internazionale ha dovuto trovare la sua strada, tenendo conto delle questioni geopolitiche e di sovranità. Lo dimostrano l’opposizione degli Stati Uniti a qualsiasi cooperazione in campo nucleare, con la legge McMahon del 1946, la crisi di Suez, che evidenziò la vulnerabilità di una Francia che non padroneggiava l’energia nucleare, e le opportunità aperte dal Trattato Euratom.

 

La questione principale che vogliamo evidenziare in questa sede riguarda questa sorprendente capacità di rimbalzo nel tempo, una capacità di apportare cambiamenti adottando una visione sistemica, con la preoccupazione di una rapida attuazione, al fine di mantenere la rotta stabilita per quanto riguarda lo sviluppo di un’industria nucleare. Si tratta quindi di individuare le tracce di questo lavoro collettivo, dello Stato con le sue componenti politiche e il loro sostegno – i consiglieri, l’amministrazione, il Piano – ma anche del CEA e dell’EDF, del tessuto industriale e dei partner internazionali. È importante capire le ragioni di questa efficienza nel lungo periodo. Questo sguardo al passato dovrebbe aiutarci a determinare quale organizzazione e quali competenze industriali al centro dell’apparato statale, quali relazioni tra quest’ultimo e il tessuto industriale privato e quali strategie di cooperazione internazionale hanno permesso l’elaborazione di una visione comune e a lungo termine da cui trarre ispirazione per prendere a nostra volta le decisioni necessarie nel tempo.

 

II

Parte

Un viaggio nella storia: 1945-1975

 

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Dal 1945 al 1960, dalla scienza ai prototipi: il ruolo centrale del CEA imparando da EDF e dal tessuto industriale

 

Note

  1. In questa sezione ci basiamo in particolare sul già citato lavoro di Boris Dänzer-Kantof e Félix Torres, nonché sulle interviste condotte con gli attori del programma nucleare nell’ambito del loro progetto di libro, sul libro di Georges Lamiral, Chroniques de trente années d’équipement nucléaire à Électricité de France, Association pour l’histoire de l’électricité en France (AHEF), 2 vols, 1988, e sul libro di Dominique Grenèche, Histoire et techniques des réacteurs nucléaires et de leurs combustibles, EDP Sciences, 2016.+
  2. Gli Stati Uniti hanno gradualmente aperto la possibilità di cooperazione con i Paesi europei a partire dalla fine degli anni ’50, ma sempre alle condizioni restrittive della sovranità e del controllo industriale dei Paesi interessati.
  3. Nonostante le loro riserve, ci saranno contatti con gli Stati Uniti su alcuni temi scientifici e industriali. Inoltre, è chiaro che, in questo contesto, il programma nucleare civile con le Nazioni Unite è stato particolarmente sostenuto anche in relazione al programma militare. Anche l’esperienza del CEA nei reattori ad acqua pressurizzata per la propulsione è stata preziosa.
  4. Si può sottolineare il carattere multipartitico di questa volontà e il ruolo di animazione, per non dire di guida, che lo Stato deve svolgere in questa prospettiva, che si è tradotto nella creazione del Commissariat général du Plan o in quella della CEA o dell’EDF. Il Fronte Popolare aveva già tentato, in parte con questo spirito, di organizzare la ricerca francese – il Centre national de la recherche scientifique (CNRS) fu creato poco più tardi, nell’ottobre 1939 – e aveva intrapreso una politica di riarmo.
  5. Cfr. Bertrand Goldschmidt, Le Complexe atomique. Histoire politique de l’énergie nucléaire, Fayard, 1980, p. 71.
  6. Boris Dänzer-Kantof e Félix Torres, op. cit. p. 38.
  7. Charles de Gaulle, “Discorso del 14 giugno 1960”, archivi INA, ina.fr.
  8. Cfr. Boris Dänzer-Kantof e Félix Torres, op. cit. p. 56.
  9. Cfr. Henri Morel (a cura di), Histoire de l’électricité, Fayard, 1996, t. 3, p. 143 ss.
  10. Cfr. Boris Dänzer-Kantof e Félix Torres, op. cit. p. 68.

Il contesto e la posta in gioco7

 

Le due guerre mondiali furono in gran parte un confronto tra potenze industriali ed energetiche. Nei suoi scritti degli anni Trenta, il futuro generale de Gaulle prevedeva già l’importanza dei carri armati e degli aerei per la potenza degli eserciti, sostenendo una dottrina d’uso innovativa e, più in generale, nel 1940, prevedendo un conflitto il cui esito sarebbe stato dominato dall’ingresso della grande potenza industriale ed energetica, l’America. Dopo la guerra, le élite politiche, amministrative e industriali francesi, in gran parte provenienti dalla Resistenza e dalle Forze libere francesi, intendevano recuperare il ritardo scientifico, industriale ed economico della Francia, conseguenza della crisi degli anni Trenta e delle distruzioni della guerra. I leader erano anche consapevoli della necessità di un approvvigionamento energetico sicuro a costi controllati. Priva di petrolio, la Francia aveva sofferto fin dal XIX secolo di una scarsa disponibilità di carbone a basso costo, a differenza di Regno Unito, Germania e Stati Uniti. Per molto tempo, la sua industria siderurgica è stata alimentata dal carbone delle foreste francesi e dall’energia idraulica “meccanica” fornita dai fiumi. Poi il “carbone bianco”, l’acqua, è diventato un imperativo nazionale nel periodo tra le due guerre e negli anni Cinquanta e Sessanta, con grandi programmi idroelettrici che hanno prodotto circa la metà dell’elettricità in questo periodo, ma che hanno gradualmente rallentato a causa del numero limitato di siti.

 

Già nel 1945-1950 l’energia nucleare era un obiettivo a lungo termine, sostenuto da politici come Félix Gaillard e Gaston Palewski. La presenza di miniere di uranio in Francia fu presto messa in discussione. Le riserve limitate percepite nella prima fase della storia del nucleare civile e l’aspettativa di scoprire nuovi giacimenti portarono, a partire dal dopoguerra, a lavorare su prototipi di reattori fast-breeder per utilizzare non solo l’uranio 235 (0,7% dell’uranio naturale) ma anche tutto il potenziale dell’uranio 238 (99,3% dell’uranio).

 

Gli Stati Uniti, che disponevano di petrolio e carbone in abbondanza, lanciarono allora un programma di reattori nucleari, inizialmente concepiti per la propulsione militare. L’ammiraglio Rickover fece in modo che i laboratori federali americani collaborassero con le principali società elettriche, General Electric e Westinghouse, per sviluppare reattori ad acqua leggera che sarebbero stati più semplici e robusti, ma avrebbero richiesto la padronanza dell’arricchimento, allora prerogativa degli Stati Uniti. Nel contesto del graduale emergere della Guerra Fredda, gli Stati Uniti posero un embargo su tutti i trasferimenti di tecnologia nucleare con il McMahon Act del 1946, con alcune eccezioni per i partner britannici e canadesi del Progetto Manhattan8.

 

Inoltre, alla fine del XIX secolo e nella prima metà del XX secolo, la Francia, come il Regno Unito, è rimasta indietro rispetto agli Stati Uniti e alla Germania nella corsa alla rivoluzione industriale dell’elettricità, nonostante il suo alto livello di ricerca e di scienziati. Il suo tessuto industriale è frammentato e spesso dipendente dalle licenze americane. È stato quindi necessario affidarsi all’inizio essenzialmente a enti pubblici di natura scientifica e industriale: la CEA, poi l’EDF. Il Regno Unito, per le stesse ragioni, si affida alla United Kingdom Atomic Energy Authority (UKAEA), l’equivalente della CEA, e al Central Electricity Generating Board (CEGB), l’equivalente di EDF. Anche i nostri vicini britannici sono preoccupati per l’aumento del costo del carbone e per le sfide legate alla sicurezza dell’approvvigionamento di petrolio. Il Regno Unito è stato quindi particolarmente motivato dal nucleare civile e ha sviluppato il suo reattore nazionale Magnox, a gas grafite, simile al reattore UNGG francese, anche più velocemente della Francia: il primo prototipo di reattore è stato messo in funzione a Calder Hall nel 1956, pochi mesi prima del primo reattore prototipo del CEA G1 a Marcoule, e la potenza installata del Magnox sarebbe stata di circa 5.000 MW nel 1970, il doppio dell’UNGG francese.

 

Politica: visione a lungo termine e decisioni di strutturazione

 

Informati da scienziati e industriali e attenti al contesto internazionale, i politici presero importanti decisioni durante la Quarta Repubblica e l’inizio della Quinta Repubblica. Per loro, il mix energetico ed elettrico della Francia doveva consentirle di diventare una potenza industriale ed economica e di garantire la sua autonomia e sovranità strategica10.

 

Nel luglio 1944, durante una visita a Ottawa, il generale de Gaulle fu informato della portata del lavoro svolto sulle batterie atomiche e sulla bomba nucleare da Pierre Auger, Jules Guéron e Bertrand Goldschmidt, gli scienziati francesi coinvolti in questi studi11. Dopo le interazioni con Raoul Dautry e Frédéric Joliot-Curie, e un dossier presentato da Raoul Dautry al capo del governo provvisorio, il generale de Gaulle creò la CEA con un’ordinanza nell’ottobre 1945, con le missioni di ricerca, energia nucleare civile e applicazioni militari: l’obiettivo era quello di “perseguire la ricerca scientifica e tecnica al fine di utilizzare l’energia atomica nei vari campi della scienza, dell’industria e della difesa nazionale “12 . Tornato al potere nel 1958, il Generale accelerò i lavori sulla linea dell’UNGG e accettò il progetto di un reattore ad acqua leggera con licenza americana nell’ambito del trattato Euratom appena messo in atto (alla doppia condizione che il reattore fosse situato in Francia e che EDF ne detenesse il 50%). Il suo discorso radiotelevisivo del 14 giugno 1960 esprime chiaramente la sua visione della posta in gioco industriale ed energetica per la Francia: “Come popolo francese, dobbiamo elevarci al rango di grande Stato industriale o rassegnarci al declino. La nostra scelta è fatta. Il nostro sviluppo è in corso. […] Naturalmente, è per dotarla [la Francia] delle fonti di energia che le mancavano che ci applicheremo innanzitutto. […] Energia atomica che gli impianti modello hanno cominciato a fornire.13

 

Félix Gaillard, combattente della Resistenza e deputato radical-socialista nel 1946, era interessato all’energia atomica. Visitò il CEA ed ebbe lunghe discussioni con Frédéric Joliot-Curie. Nel 1951, Félix Gaillard fu nominato Segretario di Stato presso la Presidenza del Consiglio e fu responsabile delle questioni nucleari. Nel luglio 1952 presentò ai deputati il primo piano nucleare quinquennale, che diede alla CEA e al suo amministratore generale Pierre Guillaumat i mezzi per passare alla fase dei primi prototipi (G1, seguito da G2 e G3 a Marcoule) e alla realizzazione dei primi elementi del ciclo del combustibile.

 

Félix Gaillard era Ministro delle Finanze, dell’Economia e della Pianificazione quando il secondo piano nucleare quinquennale fu adottato a larga maggioranza nel luglio 1957. Questo piano raccomandava di raggiungere una capacità installata di 850 MW nel 1965 e di 2.500 MW nel 1970, obiettivo che fu praticamente raggiunto. Presidente del Consiglio dal novembre 1957 al maggio 1958, nel marzo 1958 diede il via libera alla costruzione di un impianto di arricchimento dell’uranio a Pierrelatte per scopi militari. L’atteggiamento degli americani durante la crisi di Suez e nella NATO spinse la Francia ad accelerare i lavori sul nucleare militare per garantire la propria autonomia strategica. La decisione è importante. Avrebbe aperto la strada all’uso di reattori ad acqua leggera, mantenendo il controllo del combustibile un decennio dopo14.

 

Gaston Palewski, ex capo di gabinetto di Paul Reynaud e storico gollista, nel 1955 fu ministro delegato alla Presidenza del Consiglio, responsabile del Coordinamento della Difesa Nazionale, della Ricerca Scientifica, degli Affari Atomici e degli Affari Sahariani. Con il suo governo, incrementò le risorse della CEA per passare all’UNGG e alla propulsione nucleare. Il 21 aprile 1955 creò la Commissione per la produzione di elettricità da fonti nucleari (Commissione PEON), che avrebbe svolto un ruolo importante fino agli anni Ottanta. Essa riuniva al massimo livello i rappresentanti del Piano, dello Stato (Ministero dell’Economia e delle Finanze, Ministero dell’Industria, ecc.), della CEA e dell’EDF. L’obiettivo era quello di esaminare le dimensioni economiche dei metodi di produzione dell’energia elettrica e quindi di proporre linee guida per la politica nucleare francese.

 

Il CEA, principale artefice della transizione dalla scienza all’industria

 

Fin dall’inizio, la CEA si affidò a un team di grandi scienziati nel campo della fisica nucleare, come Frédéric Joliot-Curie, Francis Perrin, Bertrand Goldschmidt e Pierre Auger. Fin dall’inizio, creò gruppi di ricercatori di alto livello in tutte le discipline necessarie, con forti competenze in neutronica, fisica matematica, metallurgia, chimica, automazione, ecc. Il dipartimento “Stack Design” si occupava in particolare della progettazione dei futuri reattori, con personalità come Jacques Yvon, Jules Horowitz, Georges Vendryes e Jean Bourgeois, che avrebbe svolto un ruolo importante nello sviluppo e nella considerazione delle questioni di sicurezza dalla progettazione all’esercizio. Con queste competenze scientifiche di alto livello, la Francia sarà quasi alla pari con gli Stati Uniti. D’altra parte, il passaggio alla fase industriale è più delicato.

 

Tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX secolo, la Francia non è stata in grado di sviluppare grandi attori industriali, come General Electric e Westinghouse, capaci di padroneggiare la progettazione di sistemi complessi come le nuove centrali nucleari, anche se un grande capo come Charles Schneider (Gruppo Creusot-Loire e Schneider) aveva capito l’importanza del tema.

 

Più in generale, dopo la lunga crisi economica degli anni Trenta e poi la guerra, il punto di partenza era un tessuto industriale francese certamente quasi completo e che “sapeva fare le cose per esperienza”, ma frammentato e artigianale, in ritardo dal punto di vista tecnico, con deboli capacità di ricerca, pochi legami con il mondo scientifico e spesso dipendente dalle licenze americane. Pierre Guillaumat, politecnico e ingegnere del Corpo delle Miniere, che aveva partecipato alla Resistenza, affrontò questo problema come amministratore generale del CEA dal 1951 al 1958. Il CEA accolse nei suoi team ingegneri provenienti dall’industria e dall’EDF e li formò all’ingegneria atomica. Nel 1952 Pierre Guillaumat creò anche un dipartimento industriale presso il CEA per produrre i primi prototipi UNGG G1, G2 e G3 a Marcoule e nominò Pierre Taranger, proveniente dal settore petrolifero, a capo di questo dipartimento industriale.

 

La sfida per il CEA – come per EDF – era quella di affrontare due fallimenti del mercato (“esternalità negative”) in questa prima fase, istituendo due modalità di coordinamento fondamentali per l’innovazione e l’efficienza economica a lungo termine:

 

riunire scienziati, uffici di progettazione e fabbriche;

far collaborare aziende industriali con un’ampia gamma di competenze tecniche per progettare e costruire i sistemi complessi e impegnativi in termini di sicurezza e qualità che sono le centrali nucleari e il relativo ciclo del combustibile.

All’interno della stessa CEA, Pierre Guillaumat doveva far lavorare scienziati di alto livello con gli industriali e formare generazioni di ingegneri industriali, mentre la CEA doveva facilitare la formazione di gruppi industriali e il loro aumento di competenze facendo affidamento sui punti di forza dell’industria francese: Pechiney e la sua padronanza della grafite pura, Saint-Gobain e la chimica del ritrattamento, e Le Creusot con le sue competenze nella metallurgia e le sue fucine. Responsabile della costruzione di questa prima generazione di reattori, la CEA preparò anche la padronanza tecnica dell’intero ciclo, in particolare l’arricchimento dell’uranio, importante a breve termine per la propulsione nucleare e le armi atomiche, e a più lungo termine per aprire l’opzione dell’acqua leggera per l’energia nucleare civile, mobilitando ingegneri delle polveri (Georges Fleury, Claude Fréjacques) e reclutando Georges Besse (politecnico e ingegnere del Corpo delle Miniere) nel 1952, proprio per lavorare sull’arricchimento dell’uranio. Georges Besse fu responsabile di Pierrelatte negli anni Sessanta, poi di Eurodif negli anni Settanta.

 

Oltre alla padronanza tecnica ed economica, la sfida per la CEA era ovviamente quella di garantire la sovranità industriale. In questi primi anni, garantire questa sovranità significava essere soli sulla frontiera tecnologica, sia in campo civile che militare, a causa dell’atteggiamento degli Stati Uniti. Ma il controllo ricercato è anche un obiettivo a lungo termine, se si vuole garantire l’autonomia strategica e la sicurezza degli approvvigionamenti. Senza escludere la cooperazione internazionale, anche in settori sensibili, ciò implica la padronanza, per il ciclo del combustibile, delle miniere di uranio – i giacimenti saranno trovati in Francia e sfruttati, in particolare nel Limousin -, della fabbricazione del combustibile, della chimica nucleare sofisticata per il ritrattamento – Bertrand Goldschmidt alla CEA e Saint-Gobain – e, a lungo termine, dell’arricchimento di questo uranio. Ciò implica anche la padronanza di alcuni collegamenti industriali chiave per l’impianto: la fabbricazione di grafite pura, il controllo e il comando, nonché la metallurgia dei cassoni, che richiede forge di qualità, la padronanza della scienza dei materiali e delle tecniche di saldatura. Le équipe del Creusot potranno inoltre avvalersi delle competenze dell’industria degli armamenti, in particolare di quelle della fonderia Indret e dell’esperienza di Yvon Bonnard, ingegnere navale.

 

L’apprendistato di EDF, per preparare con gli attori industriali il passaggio al dimostratore su scala industriale aprendo opzioni: UNGG-acqua leggera

 

All’epoca della nazionalizzazione dell’elettricità, i dirigenti di EDF erano anche spinti dall'”ardente obbligo” di consentire la ricostruzione e la prosperità del Paese grazie all’elettricità economica, contribuendo alla sicurezza dell’approvvigionamento del Paese. Questa era la loro missione principale. Dal 1946 al 1957, Pierre Ailleret, politecnico ed ex studente dell’École nationale des ponts et chaussées e del Supélec, fu direttore del Dipartimento di Ricerca di EDF, che contribuì a creare, prima di diventare vice direttore generale di EDF dal 1958 al 1968. Era un uomo di esperienza, responsabile di progetti idraulici e della costruzione di reti di interconnessione. Convinto dell’importanza dei progressi scientifici per l’energia, seguì i corsi di fisica nucleare di Jean Perrin prima della guerra e spinse il Dipartimento Studi e Ricerche a non accontentarsi di sostenere gli altri dipartimenti di EDF nelle loro questioni operative a breve termine, ma ad aprire tutte le possibili strade delle nuove energie avvicinandosi al mondo scientifico e aprendosi a livello internazionale: l’energia eolica, l’energia delle maree, l’energia termica oceanica, le turbine e i compressori a gas, ecc. e l’energia nucleare15.

 

Nominato nel 1950 membro del consiglio scientifico e del comitato (consiglio di amministrazione) del CEA16 , inviò giovani ingegneri dell’EDF, come Denis Gaussot, futuro direttore del Service d’études et projets thermiques et nucléaires (Septen), poi vicedirettore dell’Équipement, a formarsi al CEA presso l’Institut national des sciences et techniques nucléaires (INSTN). Nel 1953 propose di produrre elettricità dal vapore del G1 di Marcoule e la CEA decise di affidare la responsabilità all’EDF.

 

La diffusione massiccia dell’energia nucleare, una volta raggiunta la maturità economica, dovrebbe essere responsabilità di un industriale come EDF, e non di un’organizzazione scientifica come la CEA. D’altra parte, si pone la questione della responsabilità della fase intermedia dei dimostratori industriali UNGG tra le fasi dei prototipi G1, G2, G3 di Marcoule (commissionati alla fine degli anni ’50) e il dispiegamento a lungo termine. La discussione fu inizialmente difficile tra la CEA e l’EDF, ma Pierre Taranger, della CEA, era convinto che l’EDF sarebbe stato il più adatto ad aumentare significativamente le dimensioni delle unità e a rischiare su soluzioni innovative che avrebbero permesso di testare realmente il potenziale economico della tecnologia e quindi di ottenere i guadagni necessari durante il dispiegamento.

 

Nel 1954, la decisione è stata presa rapidamente da Pierre Guillaumat e Roger Gaspard (direttore generale di EDF): EDF sarà l’appaltatore principale e l’operatore delle tre unità di Chinon: Chinon A1, iniziata nel 1957, 70 MW; Chinon A2, nel 1959, 210 MW; Chinon A3, nel 1961, 460 MW. La CEA è responsabile della parte nucleare e le due entità devono collaborare su tutti i temi. EDF doveva assumere il ruolo di architetto industriale e di gestore del progetto in una modalità “idraulica” non standardizzata, adattando le dimensioni della struttura alla geografia del sito e lasciando a ogni regione di attrezzature EDF la libertà di scegliere i propri fornitori. Questo è ancora in gran parte il caso dell’energia termica convenzionale, dove, sebbene esista una politica di fasi standardizzate di dimensioni – 125 MW, poi 250 MW, prima di 600 MW a carbone e olio combustibile e 700 MW a olio combustibile – le regioni di attrezzature di EDF sono molto autonome nell’adattarsi ai siti e nella scelta dei contratti e dei fornitori industriali. Questo decentramento del reparto apparecchiature, in parte ereditato dalla storia frammentata del settore elettrico prima della nazionalizzazione del 1946, è accompagnato da una forte concorrenza tra i fornitori basata sulla suddivisione in centinaia di lotti. Anche in questo caso, troviamo l’eredità di un tessuto industriale poco concentrato, che dovrà continuare ad aumentare le proprie competenze e la propria capacità di assumersi la responsabilità di sottosistemi più ampi.

 

Il contesto internazionale sta cambiando e gli attori francesi dovranno essere in grado di reagire rapidamente per approfittare delle circostanze favorevoli. Gli americani hanno cambiato atteggiamento e, alla fine degli anni Cinquanta, si sono dimostrati favorevoli alla cooperazione con gli alleati europei nel campo dell’energia nucleare civile; erano pronti a fornire il combustibile arricchito necessario per utilizzare le nuove tecnologie ad acqua leggera e i primi dimostratori industriali stazionari sono stati messi in servizio negli Stati Uniti: per la tecnologia ad acqua pressurizzata, alla fine del 1957 entrò in funzione l’impianto di Shippingport da 60 MW (derivato direttamente dal sottomarino Nautilus), mentre nel 1960 entrò in funzione Yankee Rowe (170 MW), da cui era stato derivato il progetto di Chooz A. Questa è stata la prima generazione di energia nucleare civile negli Stati Uniti.

 

La Comunità europea dell’energia atomica (CEEA o Euratom) è stata creata da un trattato specifico firmato a Roma, contemporaneamente al trattato che istituiva la CEE nel 1957, ed è entrata in vigore nel gennaio 1958. Il suo scopo era quello di promuovere la cooperazione europea nel campo dell’energia nucleare civile. Dall’inizio del 1958 al febbraio 1959 fu presieduto da Louis Armand, politecnico e ingegnere del Corpo delle Miniere, membro della Resistenza, direttore generale e poi presidente della SNCF, grande ingegnere e professore all’École nationale d’administration (ENA) su questioni industriali ed energetiche dal 1945 al 1967.

 

I belgi erano particolarmente interessati alla tecnologia dell’acqua leggera. Volevano implementarla insieme ai francesi. EDF, in particolare Pierre Ailleret, era fortemente coinvolto nelle associazioni internazionali – la Conferenza internazionale dei grandi sistemi elettrici (Cigre), l’Unione internazionale dei produttori e distributori di energia elettrica (Unipede), il Consiglio mondiale dell’energia (WEC), ecc. Raymond Giguet, ex direttore delle apparecchiature e all’origine, con Pierre Massé, della Nota Blu, uno strumento economico per aiutare nella scelta degli investimenti, vicedirettore generale di EDF, è molto favorevole a questa opzione in aggiunta all’UNGG, data la semplicità e la robustezza del suo design. Pierre Ailleret, pur essendo piuttosto partigiano all’interno di EDF dell’UNGG, è anche disposto a guardare più da vicino le interessanti soluzioni americane sviluppate da General Electric e Westinghouse. Gli ingegneri di Creusot-Schneider, molto interessati all’energia nucleare, sotto l’impulso di Charles Schneider e dell’ingegnere Maurice Aragou, erano un po’ scettici sulla qualità delle prime realizzazioni americane (giustamente), ma erano pronti a investire in considerazione della forte relazione storica con Westinghouse, di cui già detenevano alcune licenze in diversi campi.

 

La Société d’énergie nucléaire franco-belge des Ardennes (SENA) fu costituita nel 1960 da EDF e da diverse società elettriche belghe per la costruzione e la gestione dell’impianto nell’ambito di Euratom. Il generale de Gaulle diede il suo consenso di principio a condizione che il sito fosse situato in Francia e che EDF ne possedesse il 50% e lo gestisse. Nel 1959 fu costituito un consorzio per rispondere alla gara d’appalto indetta dal SENA per la gestione della licenza Westinghouse, sul modello della centrale di Yankee Rowe negli Stati Uniti, con una capacità installata di 250 MW: Framatome, una società franco-americana di costruzioni atomiche presieduta da Maurice Aragou (di Creusot-Schneider), e inizialmente posseduta al 60% da Schneider, al 30% da Empain e al 10% da Westinghouse. Il consorzio vinse la gara d’appalto e i lavori di ingegneria civile iniziarono nel 1962. Tutto ciò permise a EDF di muovere i primi passi, insieme ai belgi, nel settore dell’acqua pressurizzata e di sperimentare diversi rapporti contrattuali e tecnici con gli industriali responsabili dei principali sistemi dell’impianto.

 

2

Dal 1960 al 1971, dai dimostratori industriali alla scelta del tipo di impianto da realizzare

 

Note

  1. Si tratta di una rottura netta di un materiale senza deformazione plastica macroscopica sotto l’azione di una sollecitazione e in determinate circostanze specifiche (esistenza di un difetto, condizioni di temperatura-pressione, ecc.)
  2. Cfr. Georges Lamiral, op. cit. 1, p. 87-88.
  3. Cfr. Boris Dänzer-Kantof e Félix Torres, op. cit. p. 137.
  4. Siemens e AEG sono tradizionalmente legate a Westinghouse e General Electric e sono in grado di costruire centrali elettriche.
  5. Georges Lamiral, op. cit. 1, p. 355-356.
  6. Ibidem, pp. 145-146.
  7. Bernard Esambert rimase in carica nel 1968 con Maurice Couve de Murville come Primo Ministro, poi si unì a Georges Pompidou che divenne Presidente della Repubblica nel giugno 1969. Svolse un ruolo importante nei grandi programmi industriali di questo periodo, promossi da Georges Pompidou (cfr. Bernard Esambert, Pompidou, capitaine d’industries, Odile Jacob, 1994).
  8. Cfr. Boris Dänzer-Kantof e Félix Torres, op. cit. p. 165-166.
  9. Cfr. la nota al Piano di Jacques Lacoste e la lettera di André Decelle citata in precedenza.
  10. Cfr. Boris Dänzer-Kantof e Félix Torres, op. cit. pp. 165-166.

Dubbi e dibattiti tra ingegneri e industriali

 

Questo lungo decennio di costruzione di dimostratori industriali sotto la responsabilità di EDF e con un forte coinvolgimento industriale della CEA sulla parte nucleare illustra le sfide tecniche e industriali da affrontare. I problemi tecnici saranno ricorrenti e importanti, con conseguenze significative sui tempi di costruzione e sull’indisponibilità delle unità nei primi anni. Questo è in particolare il caso delle tre unità UNGG di Chinon, ma anche di Chooz A.

 

Durante la costruzione della centrale A1 di Chinon, nel febbraio 1959, si sviluppò improvvisamente una fessura di circa dieci metri di lunghezza sul cassone in acciaio (quelli successivi erano in cemento armato precompresso), con le caratteristiche del fenomeno della “frattura fragile “17 . Yvon Bonnard, ingegnere capo del dipartimento di ingegneria navale, fu mobilitato per ricorrere alle competenze del laboratorio di metallurgia della Marina francese di Indret. Problemi simili si presentarono anche negli Stati Uniti con le grandi navi d’acciaio per le centrali elettriche ad acqua leggera all’inizio degli anni ’60 e le soluzioni trovate permisero di aumentare significativamente le dimensioni delle unità dei reattori ad acqua leggera.

 

All’inizio del suo funzionamento, Chinon A3 subì una serie di incidenti che impedirono la visita prevista dal generale de Gaulle nell’autunno del 1966 e ne posticiparono la messa in funzione di due anni. Questi incidenti erano in particolare legati alla complessità del sistema di manipolazione del combustibile e di rilevamento delle rotture del rivestimento, nonché a una cattiva progettazione dell’impianto (insufficiente considerazione dell’espansione termica e delle sollecitazioni dei tubi di acciaio inossidabile utilizzati per il campionamento necessario a rilevare le rotture del rivestimento)18 .

 

Anche Chooz A ha subito diversi incidenti gravi che ne hanno posticipato la messa in servizio di due anni (1970 anziché 1967-1968), in particolare le viti di assemblaggio del nocciolo del reattore che si sono allentate a causa delle vibrazioni provocate dal flusso idraulico19.

 

Grazie alla qualità dell’organizzazione e alla cooperazione industriale e tecnica tra gli attori industriali (EDF, CEA, fornitori e uffici di progettazione) e alle competenze acquisite nel decennio precedente, questi problemi multipli sono stati un’opportunità per progredire collettivamente nella comprensione dei fenomeni fisici e nella capacità di trovare e implementare rapidamente soluzioni. Tuttavia, il metodo UNGG appare molto complicato rispetto alle centrali ad acqua leggera (si veda il sistema continuo di scarico-ricarica di una miriade di elementi di combustibile) e, con serbatoi già molto grandi (con la grafite come moderatore per poter utilizzare l’uranio naturale), sembra a priori molto difficile aumentare le dimensioni delle unità oltre i 500 MW (i PWR sono più compatti a parità di potenza installata).

 

Nel 1964, la decisione di principio di impiegare massicciamente l’UNGG nel decennio fu comunque presa in un piccolo consiglio a Matignon, sotto la presidenza di Georges Pompidou, allora primo ministro. Il prezzo dell’olio combustibile era ancora alto, le lezioni delle difficoltà dell’UNGG non erano ancora state analizzate collettivamente e le prestazioni dei primi impianti americani ad acqua leggera non erano eccellenti. Le tre unità UNGG di Saint-Laurent-des-Eaux A1 e A2 e Bugey 1 (da 500 a 550 MW) furono messe in funzione nel 1964 e nel 1965 e sarebbero state le ultime in Francia.

 

Un anno dopo, durante la riunione di programma CEA-EDF del 14 dicembre 1965, presieduta dall’amministratore generale Robert Hirsch e dall’alto commissario CEA Francis Perrin, il direttore generale André Decelle e il presidente di EDF Pierre Massé, Francis Perrin e André Decelle si interrogarono sull’interesse di aprire l’opzione dei reattori ad acqua leggera alla luce dei nuovi elementi raccolti di recente. Negli Stati Uniti, Westinghouse e General Electric hanno imparato dai problemi incontrati nella prima generazione di reattori e stanno proponendo agli elettricisti americani ed europei centrali di seconda generazione a prezzi molto interessanti (e con unità più grandi). Washington era pronta a offrire combustibile arricchito a condizioni economiche interessanti, vista la sovraccapacità americana. Nello stesso anno, il 1964, il Regno Unito decise di abbandonare il suo reattore a uranio naturale (Magnox) a causa dei costi eccessivi in un contesto di calo dei prezzi dell’olio combustibile. Il governo britannico optò per l’Advanced Gas-cooled Reactor (AGR), un miglioramento del Magnox con combustibile a uranio arricchito di diversa concezione, e i dirigenti del Central Electricity Generating Board (CEGB) dissero chiaramente ai loro omologhi dell’EDF che era stato un errore non scegliere i reattori americani ad acqua leggera. Nel 1965, gli elettricisti tedeschi, che stavano iniziando a utilizzare le tecnologie americane20 , proposero a EDF di realizzare insieme uno studio economico di confronto tra UNGG e acqua leggera per esaminare l’opportunità di realizzare un progetto UNGG congiunto con i francesi a Fessenheim. Al termine di questo studio, l’acqua leggera è risultata molto più economica.

 

La questione della sovranità dell’acqua leggera è soggetta a valutazioni diverse a causa dell’evoluzione dei dati relativi a due punti essenziali: l’arricchimento e la possibilità di “affrancamento” della licenza Westinghouse. L’impianto di arricchimento militare di Pierrelatte è entrato gradualmente in funzione tra il 1964 e il 1967 (sotto la direzione di Georges Besse). Philippe Boulin, per Creusot-Schneider e la linea ad acqua pressurizzata di Westinghouse, e Ambroise Roux, per CGE e la linea ad acqua bollente di General Electric, erano convinti che la seconda generazione, che si stava rapidamente diffondendo negli Stati Uniti e veniva proposta agli europei, fosse economicamente e tecnicamente più efficiente. La costruzione del reattore Chooz A da parte della Société des forges et ateliers du Creusot (Sfac), parte del gruppo Creusot-Schneider, fu un successo industriale. Le competenze metallurgiche dei francesi interessarono e impressionarono particolarmente Westinghouse, alla quale gli americani ordinarono in seguito sette reattori ad acqua pressurizzata. In particolare, le fucine Creusot utilizzarono per la prima volta il “metodo di calcolo agli elementi finiti” (all’avanguardia nei metodi di calcolo tecnico-scientifici) e si avvalsero della consulenza di Yvon Bonnard per migliorare la composizione dell’acciaio. Come sottolinea Georges Lamiral analizzando il funzionamento dell’industria francese in questo periodo: “I francesi commettono talvolta errori e fallimenti, ma una delle loro principali qualità è quella di saper reagire rapidamente”. Le prestazioni delle fucine Creusot, il tessuto industriale francese e le competenze del CEA-EDF-Framatome in materia di reattori ad acqua pressurizzata resero possibile la prospettiva di affrancamento della licenza Westinghouse.

 

In tre anni, dal 1963 al 1966, gli attori industriali francesi discussero la scelta dei reattori negli organismi di lavoro collettivo di più alto livello (commissione PEON, comitati EDF-CEA, ecc.), in modo tanto professionale quanto conflittuale, e si convinsero collettivamente che le due opzioni, UNGG e acqua leggera, dovevano essere aperte. La “frattura” si è verificata anche all’interno di EDF e della CEA: André Decelle, direttore generale di EDF, ha spinto per l’acqua leggera, mentre Pierre Ailleret, vicedirettore generale di EDF, ha sostenuto l’UNGG. Il vigore delle discussioni va di pari passo con la loro qualità tecnica ed economica e con la presa in considerazione di nuovi dati internazionali e di questioni industriali e di sovranità. La loro convergenza “relativa” fu quindi piuttosto rapida. Il 7 marzo 1966, André Decelle (EDF) inviò una lettera a Robert Hirsch (CEA) per spiegare queste questioni. Il 4 maggio 1966, il direttore generale dell’EDF e il direttore generale del CEA hanno istituito la commissione Cabanius-Horowitz (dal nome rispettivamente del direttore delle apparecchiature dell’EDF e del direttore delle batterie atomiche del CEA), con il compito di redigere un rapporto di sintesi che metta a confronto l’UNGG, l’acqua leggera (pressurizzata e bollente) e l’olio termico. Questo rapporto congiunto EDF-CEA dovrebbe servire come base per le discussioni della commissione PEON, che ha il compito di consigliare il governo sulla strategia nucleare civile. Il rapporto EDF-CEA, favorevole alle tecnologie ad acqua leggera, è stato presentato nel giugno 1967 e la commissione PEON ha raccomandato, nell’aprile 1968, di proseguire la costruzione delle UNGG con le prossime due unità a Fessenheim e, soprattutto, di testare l’acqua leggera su scala reale mettendo rapidamente in funzione una nuova unità in Francia.

 

Una prima gara d’appalto per due unità UNGG a Fessenheim, lanciata da EDF nell’ottobre 1968, si rivelò troppo costosa. Rifletteva la riluttanza degli industriali a impegnarsi nella realizzazione di questo tipo di impianti. Alla fine del 1969, dopo il via libera di Georges Pompidou, divenuto Presidente della Repubblica, fu indetta una seconda gara d’appalto per Fessenheim. Framatome presentò un’offerta industriale credibile con prezzi competitivi. Una gara d’appalto simile seguì rapidamente per due unità a Bugey. Dal 1967 al 1971, le autorità politiche disponevano quindi della sovranità e degli elementi tecnico-economici necessari per scegliere l’opzione nucleare, con argomenti convincenti a favore dell’acqua leggera. Ma le centrali a olio combustibile erano più attraenti del nucleare a breve termine, compresa l’acqua leggera, con i prezzi del petrolio ancora in calo. Tuttavia, Jacques Lacoste, consigliere di Marcel Boiteux, divenuto direttore generale di EDF nel 1967 dopo aver diretto il Dipartimento di Studi Economici Generali, scrisse una nota importante e premonitrice che indirizzò al Piano per sottolineare i rischi geopolitici che l’eccessiva dipendenza della Francia dal petrolio comportava a lungo termine, e di conseguenza la necessità di dare visibilità e prospettive al settore nucleare. Così l’industria non si impegnò a costruire nuove unità dal 1966 al 1971. Durante questo periodo, l’industria era in attesa di decisioni politiche. Per convincersene, basta leggere la lettera del 7 novembre 1968 di André Decelle, allora Consigliere di Stato, indirizzata ad André Bettencourt, Ministro dell’Industria, in cui si proponeva un rapido piano di rilancio per preservare le competenze dell’industria nucleare e il tessuto industriale22.

 

La riflessione e le decisioni politiche sulla scelta dei settori: 1966-1971

 

Tra il 1966 e il 1969, il punto di vista del generale de Gaulle si evolve progressivamente a favore della tecnica dell’acqua leggera. Nel settembre 1967, espresse la sua insoddisfazione nei confronti dell’EDF di fronte ai ritardi e alle difficoltà del programma UNGG (la visita a Chinon A3, annullata nel 1966, fu sostituita da quella alla centrale mareomotrice di Rance) e di fronte agli insuccessi nella realizzazione dell’unità termica da 250 MW, legati in particolare a un’insufficiente standardizzazione, causa di sforamenti dei costi e di ritardi nel completamento. André Decelle e Pierre Ailleret, direttore generale e vicedirettore generale di EDF, sono stati sostituiti da Marcel Boiteux e Charles Chevrier. Georges Pompidou, rinominato Primo Ministro dopo le elezioni legislative della primavera del 1967, era piuttosto favorevole alla tecnica dell’acqua leggera, a differenza di Maurice Schumann, Ministro di Stato per la Ricerca Scientifica e le Questioni Atomiche e Spaziali.

 

Durante il Consiglio interministeriale del 7 dicembre 1967, il generale de Gaulle espresse nuovamente la sua insoddisfazione al presidente di EDF, Pierre Massé, che era presente in quel momento. Si decise di avviare la costruzione di due reattori UNGG a Fessenheim e, per mantenere aperta l’opzione dell’acqua leggera, di studiare un impianto di arricchimento per scopi civili, che sarebbe stato essenziale per la sovranità del Paese se avesse fatto un uso significativo dell’opzione dell’acqua leggera. È stato inoltre deciso di autorizzare EDF a partecipare alla costruzione di una centrale ad acqua leggera di seconda generazione a Tihange, in Belgio, insieme ai belgi. Si tratterà di una centrale ad acqua pressurizzata basata sul modello Beaver Valley, che è stato poi scelto per Fessenheim. Va notato che lo studio di un’altra centrale ad acqua leggera, con gli svizzeri, che doveva essere una centrale ad acqua bollente, era stato appena autorizzato a Kaiseraugst nel luglio 1967, ma il progetto fu infine abbandonato.

 

Nel settembre 1967, Bernard Esambert, un giovane funzionario del Corpo delle Miniere, fu nominato consigliere industriale del Primo Ministro Georges Pompidou23 . La decisione presa nel dicembre 1967 di costruire due UNGG a Fessenheim non era in linea con quella che, con il rapporto Cabanius-Horowitz, cominciava a essere la visione quasi condivisa dei dirigenti di EDF e CEA. L’argomento è complesso, molto controverso e non ben compreso a livello politico. Il ruolo dei consulenti nei gabinetti ministeriali o all’Eliseo non era quello di sostituirsi ai servizi statali o agli enti pubblici, ma di attingere alle loro competenze aprendosi a punti di vista esterni per dare spessore alla diagnosi e consentire ai leader politici di andare a fondo della questione. Questo lavoro permise a Georges Pompidou, così come ad alcuni dei suoi ministri che sarebbero rimasti in carica con Maurice Couve de Murville, di appropriarsi della diagnosi: l’opzione dell’acqua leggera aveva il miglior potenziale, era ormai possibile “francesizzare” le tecnologie americane, e se gli altri europei non avessero facilitato la partecipazione di EDF all’ultracentrifugazione per l’arricchimento, sarebbe stato necessario sviluppare un impianto civile con la tecnologia francese della diffusione gassosa proponendo agli europei interessati di partecipare. Georges Pompidou trasmise questi elementi al generale de Gaulle, senza alcun riscontro positivo. Egli lasciò l’incarico all’inizio di luglio del 1968 (Maurice Couve de Murville divenne allora Primo Ministro), ma tornò come Presidente della Repubblica nel giugno del 1969 con la stessa convinzione.

 

Il rapporto della commissione PEON presentato al governo nell’aprile 1968 sottolineava l’interesse dell’acqua leggera rispetto all’UNGG e raccomandava la costruzione di un’unità ad acqua leggera in Francia dopo le due UNGG di Fessenheim, per testare questa nuova generazione e verificarne l’interesse per il futuro. Nel luglio 1968 si tenne un decisivo consiglio dei ministri su questo tema, con Maurice Couve de Murville, Primo Ministro, André Bettencourt, Ministro dell’Industria, e Robert Galley, Ministro delegato alla Ricerca Scientifica e alle Questioni Atomiche e Spaziali. André Bettencourt si prese il tempo necessario per entrare nel vivo della questione (basandosi in particolare sugli elementi preparati da Roger Ginnochio, ex vicedirettore della produzione/trasporti di EDF e membro del suo gabinetto) per riferire al Generale de Gaulle al Consiglio dei Ministri24 . Il Generale ascoltò con interesse e indicò che le cose dovevano essere rimesse in carreggiata e la decisione sulle due unità UNGG a Fessenheim riconsiderata. In quel periodo fu completato l’impianto di arricchimento di Pierrelatte.

 

Nell’ottobre 1968, il ritorno della gara d’appalto per l’UNGG di Fessenheim presentava clausole inaccettabili e prezzi troppo alti per EDF. Gli industriali hanno puntato su una tecnologia che sembrava loro rischiosa. Inoltre, i prezzi dell’olio combustibile pesante sono ai minimi e più interessanti. Nel contesto delle difficoltà di finanziamento pubblico a seguito degli eventi del maggio 1968, si è quindi tentati di rimandare di qualche anno qualsiasi ulteriore impegno nucleare a favore dell’olio combustibile. Tuttavia, gli attori industriali richiamarono l’attenzione delle autorità pubbliche sulla necessità di dare una visibilità a medio-lungo termine agli industriali per preservare le competenze in assenza di impegni in nuove centrali dal 1966 e per tenere pronta l’opzione nucleare di fronte ai rischi geopolitici sul petrolio25. Nel gennaio 1969, il generale de Gaulle, ricevendo Pierre Delouvrier quando quest’ultimo stava per sostituire Pierre Massé alla presidenza dell’EDF, si dichiarò d’accordo con l’acqua leggera, a condizione che venisse creato un impianto di arricchimento civile26.

 

Georges Pompidou, eletto Presidente della Repubblica nel giugno 1969 e già convinto nel 1968 come Primo Ministro dell’interesse dell’acqua leggera, decise nel febbraio 1971 di impiegarla nel decennio successivo. In occasione del Consiglio interministeriale ristretto del 13 novembre 1969, decise di abbandonare le due unità UNGG previste a Fessenheim alla luce dei risultati della gara d’appalto indetta da EDF. La società pubblica avrebbe dovuto costruire a Fessenheim due unità ad acqua leggera, pressurizzata o bollente.

 

Nel febbraio 1970, EDF indisse una nuova gara d’appalto per Fessenheim con Framatome-Sfac per la tecnologia Westinghouse e CGE per la tecnologia General Electric. La proposta di Framatome si basava, come per Tihange, sulla seconda generazione di reattori ad acqua pressurizzata, molto più efficienti di Chooz A (basato sul progetto dell’impianto di Beaver Valley ordinato dagli Stati Uniti nel 1967). Philippe Boulin, a capo di Creusot-Loire, e il suo team hanno azzardato un’offerta che anticipava la costruzione di una serie di centrali, riducendo così i costi. La sua offerta, nettamente migliore di quella di CGE, fu quindi selezionata. Seguì rapidamente una seconda gara d’appalto per Bugey, dove fu nuovamente selezionata Framatome.

 

Nel novembre 1970, la commissione PEON raccomandò la costruzione di 8.000 MW di energia nucleare ad acqua leggera (da otto a dieci unità) tra il 1971 e il 1975. Un consiglio ristretto riunitosi all’Eliseo il 26 febbraio 1971 ha accolto questa raccomandazione, autorizzando l’impegno di tre nuove unità per il 1971 e il 1972. EDF si preparò a un ritmo di impegno di una o due unità all’anno nel corso del decennio, mentre il ritmo previsto dal contratto di programma firmato tra EDF e lo Stato, a seguito del rapporto Nora, era di due unità all’anno. Cinque unità sono state impegnate nel 1971, 1972 e 1973, prima della prima crisi petrolifera.

 

3

Dal 1972 al 1975, gli shock petroliferi e la preparazione industriale di un dispiegamento massiccio e standardizzato di acqua pressurizzata

 

Note

  1. Anche in questo caso, i punti di vista degli attori industriali sono stati contrapposti, anche se, in EDF, Michel Hug non era molto favorevole all’ebollizione (aveva lavorato sui problemi di cavitazione), e Marcel Boiteux e Paul Delouvrier erano favorevoli alla standardizzazione piuttosto che alla concorrenza tra due settori (su questa “battaglia dei settori nucleari”, si veda Marcel Boiteux, Haute tension, Odile Jacob, 1993, p. 137-156).
  2. Cfr. la nota di Michel Hug del 5 dicembre 1973, che definisce le nuove regole del gioco e crea la

Si veda la nota di Michel Hug del 5 dicembre 1973, che definisce le nuove regole del gioco e crea il Comitato dei responsabili degli studi, inizialmente guidato da Denis Gaussot, direttore del Septen dal 1972 al 1976 (Georges Lamiral, op. cit., vol. 2, p. 127).

  1. Cfr. Cyril Foasso, Histoire de la sûreté de l’énergie nucléaire civile en France (1945-2000) : technique d’ingénieur, processus d’expertise, question de société, tesi di dottorato, Université Lyon-II, 28 ottobre 2003.

La strutturazione e la reazione politica su larga scala alla crisi petrolifera e all’abbandono del settore dell’acqua bollente

 

Gli shock petroliferi dell’ottobre 1973 e del gennaio 1974 portarono a quadruplicare il prezzo del barile di petrolio in meno di quattro mesi: in pochi giorni, il costo dell’importazione di petrolio per la Francia passò da meno dell’1,5% del PIL a quasi il 5%. Il 22 novembre 1973, il Consiglio interministeriale presieduto da Pierre Messmer, primo ministro, ratificò il progetto di un impianto di arricchimento a Tricastin, Eurodif, diretto da Georges Besse, che aveva lanciato il progetto all’inizio del 1974. Il 30 novembre 1973 Pierre Messmer si rivolge ai francesi per annunciare una serie di misure di risparmio energetico. Era l’inizio di un’operazione di “risparmio energetico” che avrebbe stabilizzato il consumo di energia del Paese nell’arco di un decennio. Il 6 marzo 1974, il Consiglio interministeriale presieduto da Georges Pompidou decise quello che sarebbe stato chiamato il “piano Messmer”, elaborato sulla base delle proposte della commissione PEON: impegno di sei unità nucleari di circa 1.000 MW nel 1974, poi sette unità nel 1975, mantenendo l’obiettivo di una coesistenza e di un’emulazione tra le due tecnologie ad acqua leggera (Westinghouse e General Electric). Nell’agosto 1975, data la sua debolezza industriale sull’isola nucleare rispetto a Creusot-Loire-Framatome, CGE rinunciò allo sviluppo della linea di ebollizione di General Electric. Il governo avrebbe rinunciato alla competizione sulla caldaia e sul turbogeneratore, mentre EDF avrebbe lavorato con gli industriali e la CEA per mettere l’industria in ordine di battaglia per affrontare questo nuovo periodo e queste nuove sfide associate a un dispiegamento su vasta scala per più di un decennio (1975-1990)27 .

 

L’industria in ordine di battaglia per una transizione energetica senza precedenti

 

Tutti gli attori erano consapevoli della necessità di cambiare nuovamente software rispetto ai periodi precedenti, sia in termini di organizzazione e metodi operativi, sia di fronte alle nuove sfide industriali ed economiche associate all’attuazione di un programma di costruzione particolarmente ambizioso.

 

Nel 1967, la Divisione Apparecchiature di EDF, a causa della sua storia, era composta da una quindicina di regioni di apparecchiature gelose della loro autonomia, ognuna con i propri uffici di progettazione e abituate a competere su centinaia di lotti con un’industria frammentata e con scarse capacità di progettazione. A partire dal 1967-1968, l’azienda si preparò a un impiego standardizzato, traendo insegnamento dal difficile avvio della fase termica da 250 MW, legato a questa assenza di dottrina tecnica e a questo eccessivo decentramento. Allo stesso tempo, si trattava della fine graduale dei grandi programmi idraulici – la maggior parte dei siti era attrezzata – che si basavano naturalmente su approcci “su misura”. Nel 1968, Charles Chevrier, vicedirettore generale, creò il Septen, che avrebbe avuto la responsabilità tecnica della progettazione delle apparecchiature termiche e nucleari. Dal 1972 al 1976, Michel Hug, Direttore dell’Equipaggiamento, ha riorganizzato le regioni dell’equipaggiamento e nel 1973 ha creato il comitato dei responsabili degli studi delle regioni dell’equipaggiamento28 : questo comitato controlla e decide, su delega del Direttore dell’Equipaggiamento, su tutti gli argomenti chiave riguardanti la progettazione delle fasi tecniche; è presieduto dal capo del Septen e decide sulla base di un consenso tecnico che viene poi imposto a tutte le regioni. Alcune regioni sono responsabili dei principali pacchetti di teste portanti, in particolare la caldaia nucleare e il gruppo generatore della turbina.

 

EDF intende inoltre adattare le proprie relazioni contrattuali a un tessuto industriale più concentrato, meglio attrezzato con uffici di progettazione e in grado di assumersi la responsabilità di sottosistemi tecnici più grandi. Soprattutto, l’azienda rinuncerà alla competizione tra i suoi fornitori per due importanti lotti: la caldaia nucleare, con Framatome, e il gruppo turbogeneratore, con Alsthom. Con le scuole professionali saranno avviati programmi di formazione molto importanti su tutte le competenze necessarie per la costruzione e il funzionamento di queste unità, e mobiliteremo il know-how degli ex lavoratori idraulici, termici e UNGG. Il tessuto industriale dovrà avere una visibilità a lungo termine, con un controllo tecnico rigoroso della produzione dei componenti chiave e un controllo dell’andamento dei costi. EDF sta inoltre lavorando costantemente allo sviluppo della rete ad altissima tensione, in particolare la rete a 400 kV, essenziale per il trasporto dell’elettricità dai nuovi siti di produzione agli usi in rapida crescita.

 

L’industria è concentrata e ristrutturata intorno a Framatome-Creusot-Loire per la caldaia nucleare (che assorbe le competenze dei gruppi industriali UNGG, G3A, Indatom) e intorno a CGE-Alsthom per la parte dei turbo-alternatori. Framatome costruisce in diciotto mesi un nuovo stabilimento a Saint-Marcel, nella regione di Saône-et-Loire, che diventa operativo alla fine del 1975. Con i suoi due stabilimenti, Creusot-Loire-Framatome avrebbe avuto una capacità produttiva annua di otto serbatoi e di diciotto-ventiquattro generatori di vapore, nonché le migliori competenze per produrre i componenti chiave del circuito primario (la parte “nucleare” dell’impianto). La scommessa dei suoi direttori, Philippe Boulin, Maurice Aragou e Jean-Claude Leny, di far leva sulla loro credibilità industriale e sull’impegno dei politici e di EDF in una serie di unità è stata vinta. Questo permetterà, con l’atteggiamento cooperativo di Westinghouse e la maestria scientifica della CEA (legata in particolare alla sua padronanza dell’acqua leggera per la propulsione nucleare), di “affrancare” la tecnologia Westinghouse in pochi anni. In questo contesto, la CEA acquisì una partecipazione in Framatome nel 1975.

 

André Giraud, amministratore generale della CEA dal 1970 al 1978, riorganizzò le attività della CEA adattando le regole di gestione e le strutture giuridiche alle sue diverse missioni. Nel 1976, Jean Bourgeois, un pioniere della sicurezza nucleare, creò l’Istituto per la protezione e la sicurezza nucleare (IPSN) presso il CEA, che oggi è diventato l’Istituto per la protezione dalle radiazioni e la sicurezza nucleare (IRSN), il supporto tecnico dell’Autorità per la sicurezza nucleare (ASN). Il CEA ha creato filiali per alcune parti industriali, come TechnicAtome nel 1972 (dal dipartimento di costruzione delle batterie) e Cogema per il ciclo a valle nel 1976. Il CEA è particolarmente coinvolto nel controllo industriale dell’intero ciclo del combustibile del settore dell’acqua pressurizzata, da monte, con la fabbricazione del combustibile e soprattutto l’arricchimento (costruzione di Eurodif), a valle, con il ritrattamento del combustibile e la gestione delle scorie nucleari. Tra le personalità che hanno svolto un ruolo importante in questo periodo con André Giraud, possiamo citare Claude Fréjacques, responsabile degli studi sull’arricchimento presso il CEA dal 1957, poi direttore della chimica del CEA negli anni ’70, prima di diventare presidente del CNRS nel 1981.

 

Il controllo della sicurezza è un punto centrale del successo del programma nucleare. All’inizio degli anni ’70 è stata creata una nuova organizzazione per la sicurezza con la creazione, nel 1973, del Service central de sécurité des installations nucléaires (SCSIN) all’interno del Ministero dell’Industria, non più integrato nel CEA. Esso ha potuto contare sulle competenze in materia di sicurezza del CEA, che nel 1976 sono state riunite, come già detto, nell’IPSN sotto la direzione di Jean Bourgeois29. Nel 1991, lo SCSIN è diventato la Direction de la sûreté nucléaire (DSIN), dipendente dal Ministero dell’Industria e dell’Ambiente, poi, nel 2002, la Direction générale de la sûreté nucléaire et de radioprotection (DGSNR), anch’essa dipendente dal Ministero della Salute, prima di diventare, nel 2006, l’ASN, un’autorità amministrativa indipendente.

 

III

Parte

Un’impegnativa preparazione collettiva sostenuta dallo Stato

 

https://www.fondapol.org/etude/souverainete-maitrise-industrielle-et-transition-energetique-1/#chap-3

1

Assunzione di rischi, fallimento e successo nella prospettiva del potere economico e della sovranità

 

Note

  1. Su questo periodo si veda Fondation Charles-de-Gaulle, Défendre la France. L’eredità di

L’eredità di De Gaulle alla luce delle questioni attuali. Actes de colloque, Nouveau Monde Éditions/Ministère des Armées, 2020; Collectif, Puissance et faiblesses de la France industrielle XIXe-XXe siècle, Seuil, coll. “Points histoire”, 1997; Marc Bloch, L’Étrange défaite [1946], Gallimard, coll. “Folio histoire”, 1990; Gaston Berger, Jacques de Bourbon-Busset et Pierre Massé, De la prospective. Textes fondamentaux de la Prospective française 1955-1966, L’Harmattan, 2007; Jean-François Sirinelli, Les Vingt Décisives. Le passé proche de notre avenir (1965-1985), Fayard, 2007 (riedito nella collana “Pluriel”, con una prefazione inedita, 2012).

L’aspetto più sorprendente è senza dubbio il contrasto tra, da un lato, i notevoli risultati della massiccia diffusione del programma negli anni 1975-1990, con costi di investimento da due a tre volte inferiori a quelli degli Stati Uniti e il controllo industriale dell’intera catena del valore (sovranità ed economia), e, dall’altro, i tentativi e le difficoltà che li hanno preceduti dal 1945 al 1975, Abbiamo visto le difficoltà, i tentativi e gli errori, le battute d’arresto tecniche ed economiche a volte considerevoli, e la diversità delle sfide a seconda del periodo – ricerca e prototipi, dimostratori industriali e scelta del settore (o dei settori), preparazione alla diffusione di serie standardizzate -, una diversità di sfide che ha richiesto organizzazioni e competenze molto diverse30. La chiave dell’enigma risiede indubbiamente nella comprensione di questa capacità di rimbalzo e di resilienza per diversi decenni, basata sulla scelta di accettare e assumere queste prove ed errori, questi rischi, con una ripartizione delle responsabilità e delle organizzazioni appropriate e la scelta di personalità impegnate e competenti per l’azione.

 

In questo spirito, quattro ingredienti principali o “quattro elementi” ci sembrano in grado di spiegare questa resilienza e capacità di rimbalzo che hanno permesso un successo eccezionale:

 

una visione politica a lungo termine e bipartisan delle questioni energetiche, basata su scienza e industria;

uno Stato che assume il proprio ruolo nella modernizzazione del Paese in settori chiave come l’energia

un’organizzazione e un funzionamento dello Stato che lo rendano responsabile dei risultati e facilitino l’azione collettiva;

uno Stato che mobiliti le migliori competenze industriali e scientifiche per il processo decisionale e l’azione.

Una visione a lungo termine e un’ambizione portata avanti dai leader politici, condivisa con le élite scientifiche e industriali e con l’alta funzione pubblica: sovranità economica ed energetica, progresso economico e sociale, grazie alla scienza e a un’industria efficiente e potente.

 

Questa visione a lungo termine è interessante ed efficace solo perché accompagnata dall’attenzione e dalla priorità data alla qualità dell’implementazione industriale, ai risultati ottenuti, all’ascolto dei professionisti e alla mobilitazione del loro know-how, anche nello sviluppo delle strategie, e all’ascolto delle opportunità legate agli eventi, anche geopolitici.

 

Una visione che si rifà alla concezione di uno Stato “determinato e misurato”,

impegnato nella modernizzazione economica e industriale del Paese.

 

Per la maggior parte degli attori è chiaro dalla storia, in particolare dal periodo delle due guerre mondiali e dal decennio di crisi economica degli anni ’30, che non si può semplicemente fare affidamento sui settori privati e sui mercati per garantire la sicurezza delle nazioni di fronte ai rischi geopolitici e geoeconomici, né di garantire la prosperità economica quando si verifica un “fallimento del mercato” legato alla presenza di monopoli naturali (reti energetiche o di trasporto), o di “esternalità positive31 ” dovute al riavvicinamento laboratorio-fabbrica o al coordinamento industriale sul controllo a lungo termine di sistemi socio-tecnici complessi, come le reti energetiche o elettriche, o il settore nucleare.

 

Laureato all’Ecole Polytechnique e al Ponts et Chaussées, Pierre Massé è stato successivamente direttore delle attrezzature di EDF, commissario generale per la pianificazione dal 1959 al 1965 e poi presidente di EDF dal 1965 al 1969; Marcel Boiteux, laureato all’Ecole Normale Supérieure, matematico ed economista, è stato capo degli studi economici generali, direttore generale di EDF dal 1967 al 1979 e poi presidente di EDF dal 1979 al 1987. Entrambi hanno guidato, sia all’interno di EDF che nei lavori del Piano, la riflessione sugli strumenti economici rilevanti per attuare le politiche dello Stato e inviare i giusti segnali economici agli attori economici: il tasso di sconto per integrare in modo coerente il costo del finanziamento nella scelta degli investimenti pubblici, la programmazione stocastica dinamica per ottimizzare la scelta degli investimenti tenendo conto delle incertezze e del lungo periodo, la tariffazione al costo marginale di lungo periodo per inviare i giusti incentivi al consumatore in termini di investimenti negli usi, la Nota Blu per decentrare le scelte di investimento e dimensionamento nel settore idraulico (importanza di poter fare “su misura”).

 

Il Piano strutturerà questo lavoro per collocarlo nel quadro sistemico di una previsione di lungo periodo che integri tutti gli attori economici e sociali, i sindacati dei lavoratori e dei datori di lavoro, gli enti locali, le complessità e le incertezze. Questo “obbligo ardente” di pianificazione in Francia è spesso poco conosciuto e mal compreso. In particolare, si dimentica spesso la grande diversità dei profili mobilitati, da Pierre Massé, grande ingegnere e scienziato, a Gaston Berger, direttore generale dell’istruzione superiore dal 1953 al 1960 e filosofo, che fu uno dei primi fenomenologi in Francia a scrivere su Husserl e Heidegger con Emmanuel Levinas. Anche Gaston Berger ha svolto un ruolo decisivo nel lavoro di previsione in Francia, dando grande importanza all’istruzione e alla cultura, oltre che al ruolo centrale degli attori, alla loro libertà e ai loro vincoli.

 

Uno di questi grandi ingegneri, Louis Armand, a capo della SNCF e poi dell’Euratom, era un industriale, uno scienziato e un servitore dello Stato e per più di due decenni ha tenuto agli studenti dell’ENA corsi notevoli di pedagogia e di precisione concreta sulle poste in gioco tecniche, economiche e sociali dell’energia e dell’industria per la Francia. Non è certo che i decenni successivi abbiano offerto un approccio così approfondito e sistemico alle classi che si sono succedute all’ENA o all’École Polytechnique. Il successo di tutti questi ambiziosi obiettivi in termini di sviluppo economico e sociale era tutt’altro che assicurato, dopo tre decenni di guerra, crisi e declino in Francia. La maggior parte di questi attori era abitata dall’importanza delle incertezze e dalla necessità di rimanere modesti e prudenti, pur essendo determinati a uscire dal comportamento spesso malthusiano, egoista e retrogrado che Marc Bloch aveva così bene analizzato. È stato più negli anni ’70 e ’80 che questa modestia è stata troppo spesso abbandonata, lasciando talvolta il posto a tecnocrazie che hanno confuso la scienza con lo scientismo e hanno trasformato la speranza di progresso in certezza.

 

Organizzazione statale per l’azione e la realizzazione di grandi progetti industriali di interesse generale

 

Questa organizzazione si basava in particolare su :

 

enti industriali e/o scientifici come il CEA e l’EDF, o dipartimenti governativi come la Direzione dell’Energia e delle Materie Prime (DGEMP), prima denominata Segretariato Generale dell’Energia dal 1963 al 1973, poi Delegazione Generale dell’Energia dal 1974 al 1978. Jean Blancard fu quindi Delegato Generale per l’Energia nel 1974-1975, dopo essere stato Delegato Ministeriale per gli Armamenti dal 1968 al 1974, con forti responsabilità in campi coerenti e sufficientemente vasti per sentirsi davvero responsabile del futuro del Paese in questi settori, integrando la dimensione sistemica e quella industriale. La creazione da parte del generale de Gaulle, nel 1961, del Centre national d’études spatiales (Cnes) nel settore spaziale e della Délégation ministérielle pour l’armement (DMA), poi divenuta Direction générale de l’armement (DGA), rientravano nella stessa logica: l’obiettivo era quello di “trasformare il mondo” e i servizi statali erano responsabili della coerenza delle regole concrete del gioco con gli obiettivi;

uno Stato efficiente che funziona sotto l’autorità del politico, che polarizza le energie, ascolta gli attori e decide in modo pragmatico. Si tratta di giungere rapidamente a soluzioni attraverso istituzioni che gestiscano i conflitti e confrontino i punti di vista a livello di competenze rilevanti: consigli ministeriali ristretti, commissione Plan e PEON, comitati CEA-EDF, comitato dei responsabili delle regioni di equipaggiamento all’interno del FES, ecc.

Uno Stato con le migliori competenze industriali e scientifiche.

 

Lo Stato si avvaleva quindi, sia all’interno che all’esterno, delle migliori competenze industriali e scientifiche portate da uomini animati da questa visione collettiva e addestrati all’azione e all’attuazione: EDF era stata creata dalla nazionalizzazione di più di mille imprese nel 1946 e la maggior parte dei suoi dirigenti aveva realizzato progetti, costruito centrali e reti, nell’ambito delle imprese private del periodo tra le due guerre (Pierre Massé, Pierre Ailleret, André Decelle). La CEA era gestita da industriali come Pierre Guillaumat e Pierre Taranger, e da grandi scienziati come Francis Perrin e Jules Horowitz. E fornitori industriali come Creusot-Schneider (Charles Schneider, Philippe Boulin, Maurice Aragou, Jean-Claude Leny), CGE o Saint-Gobain erano coinvolti nelle discussioni. Questi uomini, per il loro passato industriale e anche, per molti di loro, per il loro passato di combattenti della Resistenza e di francesi liberi, erano abituati a mettersi in gioco, a non evitare il conflitto, a rischiare e a sentirsi responsabili individualmente e collettivamente dell’insieme.

 

Possiamo quindi vedere chiaramente l’emergere di una concezione forte e precisa del ruolo dello Stato nel campo del controllo industriale al servizio della sovranità e del potere economico, con un’organizzazione dello Stato snella, coerente e responsabilizzante e, al centro dello Stato, competenze industriali e scientifiche dotate di esperienza d’azione e preoccupazione per la realizzazione operativa. Questa organizzazione e queste competenze industriali e scientifiche sono in diretta interazione con i politici, che le interpellano e le coinvolgono nei loro processi decisionali. I politici forniscono la visione e si aspettano risultati dall’industria, ma anche iniziative e gestione cooperativa dei conflitti tra di loro. E, alla fine, sono loro che, ascoltando la posta in gioco e le circostanze geopolitiche, decidono le opzioni strategiche nei momenti chiave e la cooperazione internazionale.

 

2

Sovranità ed efficienza economica attraverso il controllo industriale e la cooperazione internazionale mirata

 

La sovranità energetica viene spesso contrapposta all’efficienza economica attraverso il commercio e la cooperazione internazionale. Secondo questa visione, qualsiasi politica industriale comporterebbe protezionismo, regolamenti e sussidi, con costi aggiuntivi significativi per l’economia e i contribuenti. L’analisi della storia del programma nucleare francese dimostra che questo, lungi dall’essere una fatalità, può essere esattamente il contrario, se comprendiamo che il controllo industriale di un settore chiave da parte del tessuto industriale di un Paese è un fattore comune di progresso economico e sociale e di autonomia strategica. Ci rendiamo anche conto che se questo controllo industriale richiede l’intervento dello Stato in settori come il sistema elettrico e l’energia nucleare, non si tratta di un intervento qualsiasi: un intervento mirato a questioni di sovranità e “fallimenti del mercato”, e basato su un alto livello di competenza industriale al servizio dell’interesse generale. Abbiamo visto che questo intervento, pur assumendo forme diverse a seconda del periodo (prototipi/dimostratori industriali/dispiegamento su larga scala), deve sempre articolare le due preoccupazioni: sovranità ed efficienza economica. È chiaro che la diffusione su larga scala di una tecnologia di produzione di energia elettrica meno competitiva di quella di altri grandi Paesi segnerebbe la fine del potere economico e quindi della sovranità: come ricordava spesso il generale de Gaulle, il potere industriale ed economico di un Paese nei settori strutturanti dell’energia, dei trasporti o della difesa è la condizione dell’autonomia strategica. È quindi necessario, come abbiamo detto, avere la capacità di identificare da un lato gli anelli chiave della catena del valore che sono una questione di sovranità, e dall’altro i “fallimenti del mercato industriale” che richiedono un’azione consapevole e mirata da parte dello Stato, e non una miriade di sussidi, regolamenti e obiettivi non gerarchici.

 

La cooperazione internazionale è ovviamente molto utile in questi settori ad alta tecnologia, in quanto le economie di scala sono importanti sia per i prototipi e i dimostratori che per la produzione di attrezzature nella fase di diffusione. Tuttavia, occorre prestare attenzione alle dimensioni sensibili legate, da un lato, al duplice aspetto della tecnologia nucleare (non proliferazione e controllo dei materiali) e, dall’altro, all’autonomia strategica negli anelli chiave per il controllo industriale ed economico, garantendo al contempo il mantenimento dei vantaggi comparativi associati. La prima dimensione riguarda la catena del combustibile, in particolare l’arricchimento e il ritrattamento; la seconda la sicurezza dell’approvvigionamento di combustibile (miniere di uranio diversificate, scorte strategiche per tutto il ciclo), nonché il controllo e il comando della fabbricazione di componenti chiave (serbatoi, metallurgia e saldatura, motori di emergenza) per i reattori (in particolare la sicurezza). Nel quadro di una visione a lungo termine dei rischi industriali e geopolitici, è necessario creare un’offerta diversificata, che possa articolare una base francese, un complemento più o meno importante acquistato da fornitori stranieri e le scorte strategiche necessarie, proteggendo al contempo i segreti di fabbricazione e i vantaggi comparativi legati a determinate innovazioni. I partenariati sostenibili richiedono quindi l’articolazione di precise considerazioni industriali ed economiche con questioni geopolitiche. Anche in questo caso, se i politici hanno una visione che collega le questioni geopolitiche e di politica estera con quelle industriali, e se possono contare su competenze che integrano la lungimiranza geopolitica e industriale all’interno dello Stato, è possibile attuare una forte cooperazione a seconda del contesto, anche con gli alleati storici, sui legami di sovranità come l’arricchimento (come nel caso di Eurodif con gli alleati europei) o il ritrattamento (nel caso della cooperazione con il Giappone).

 

La storia del nucleare civile illustra bene queste osservazioni. Se negli anni Cinquanta i francesi si sono messi in proprio con l’UNGG, non è stato volontariamente, ma a causa dell’atteggiamento degli Stati Uniti, che si sono rifiutati di condividere le loro conoscenze tecnologiche e il lavoro in corso tra i grandi laboratori pubblici e Westinghouse o General Electric (McMahon Act del 1946). Non appena si aprì la possibilità, visto il mutato atteggiamento degli Stati Uniti e la creazione dell’Euratom alla fine degli anni Cinquanta, il generale de Gaulle in persona autorizzò la partecipazione dell’EDF alla costruzione di Chooz A con i belgi e la tecnologia di Westinghouse. I primi reattori di serie ad acqua leggera, e anche l’UNGG, furono oggetto di partnership con altre società elettriche: Vandellos, UNGG in Spagna; Tihange con i belgi; la partecipazione di tedeschi e svizzeri nelle due unità ad acqua pressurizzata di Fessenheim. Abbiamo già accennato alla cooperazione sull’arricchimento e sul riprocessamento con partner europei o giapponesi, ma possiamo anche citare la presenza della società giapponese MHI nel capitale di Framatome, che è anche un importante attore industriale non solo in Francia ma anche a livello internazionale, in particolare negli Stati Uniti per la manutenzione degli impianti esistenti.

 

Il rischio può derivare da un cambiamento nella strategia nucleare civile di uno dei partner, come nel caso della Germania, che ha abbandonato il nucleare all’inizio degli anni 2000, indebolendo così il progetto franco-tedesco di generazione 3, l’EPR. Può anche derivare da un’evoluzione del contesto geopolitico e del comportamento dei potenziali partner, ad esempio con l’atteggiamento negativo degli Stati Uniti all’inizio della Guerra Fredda. La questione dei partner sostenibili nello sviluppo di tecnologie chiave come l’energia nucleare è ovviamente importante per il futuro, con la rivalità strategica tra Cina e Stati Uniti e la guerra tra Russia e Ucraina.

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VIVA LA MORIA 2.0, di Teodoro Klitsche de la Grange

VIVA LA MORIA 2.0

Quando, quasi tre anni orsono, si iniziò a parlare del PNRR scrissi un articolo, dal titolo uguale, nel quale ricordavo quanto scriveva Manzoni «che nella Milano appestata i monatti – addetti al trasporto dei malati al lazzaretto e dei cadaveri al cimitero – brindavano allegramente ripetendo “Viva la moria!”, dato che l’epidemia garantiva agli stessi un lavoro continuo e remunerativo, e la connessa possibilità di rubare e di estorcere denaro a malati e parenti». E che quel gran parlare di novità, di ricostruzione, di generosità europea poteva diventare l’ouverture di una prossima grande abbuffata. Già Conte, allora Presidente del Consiglio diceva che le spese relative dovevano essere decise e distribuite. Che un tale programma fosse il miele per attrarre un nugolo di tax-consommers era chiaro; come lo era che gli stessi si sarebbero fatti in quattro per «come dicono in Spagna buscar un lugar en el presupuesto, ossia a trovare una nicchia nel bilancio ed essendo questo all’uopo abbondantemente fornito, hanno una ricerca facile». Cattiva prospettiva per il contribuente italiano, cui sarebbe comunque toccata la parte di Brighella “che fa le spese”.

Ad alleviare i dubbi del suddetto Brighella fu anche detto che l’inquinamento (la riduzione del quale era il principale obiettivo del PNRR) aveva aiutato la diffusione del virus. Tesi poco ripetuta, forse perché spericolata.

Da notizie di stampa emerge che tra le spese finanziate dal PNRR ci sarebbero piste ciclabili, campi di padel, strutture per l’assistenza anche ai migranti, ecc. ecc. Tutte cose magari (si spera), non tanto incidenti sulla spesa complessiva, ma le quali più che ad una (necessaria, anzi indispensabile) ripresa economica, sembrano rivolte a finanziare opere ed interventi del tutto marginali, e poco o nulla suscettibili di aumentare reddito, produttività, competitività degli italiani e dell’Italia. Cioè di tutte le belle parole con cui hanno condito anche le finalità del PNRR.

Per cui non appare errato procedere alla revisione enunciata dal governo. Sperando che, essendo fatta da un governo diverso, non ripeta le “gesta” dei precedenti.

Teodoro Klitsche de la Grange

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L’ultimo viaggio di Zelensky in Polonia è stato super significativo, di Andrew Korybko

L’ultimo viaggio di Zelensky in Polonia è stato super significativo

Andrew Korybko
2 ore fa

La visita di Zelensky è destinata a plasmare il corso della guerra per procura tra NATO e Russia nei prossimi tre mesi, prima del vertice del blocco all’inizio di luglio. Il ruolo di Varsavia nei prossimi eventi influenzerà fortemente l’operato di Kiev in questo momento cruciale del conflitto, da cui la tempistica con cui il leader ucraino ha deciso di incontrare la sua controparte. Per quanto Zelensky stia pianificando tutto con cura, tuttavia, potrebbe ancora fallire nel ribaltare le sorti della sua parte.

Simbolismo e sostanza

Il primo viaggio di Stato di Zelensky in Polonia dall’inizio dell’operazione speciale russa dello scorso anno si è svolto all’inizio della settimana, durante il quale è stato insignito della più alta onorificenza civile del Paese ospitante, l’Ordine dell’Aquila Bianca. La sua visita è avvenuta in un momento cruciale della guerra per procura tra la NATO e la Russia, il che aggiunge un elemento di intrigo alla visita, così come il suo simbolismo. Il presente articolo analizzerà quindi quanto sopra per comprendere meglio l’importanza dell’ultimo viaggio di Zelensky.

Le ultime dinamiche strategico-militari

Per cominciare, a metà febbraio il capo della NATO ha dichiarato che il suo blocco è in una cosiddetta “gara logistica”/”guerra di logoramento” con la Russia, che Mosca sta vincendo, come dimostra la sua continua resistenza militare e l’osservazione di Zelensky, alla fine del mese scorso, di essere a corto di munizioni. Il fondatore di Wagner Prigozhin ha anche recentemente rivendicato la vittoria nella battaglia di Artyomovsk/Bakhmut, dopo che il suo gruppo ha catturato il centro amministrativo della città, il che ha provocato un’inversione di rotta da parte del leader ucraino.

A fine febbraio aveva detto che le sue forze avrebbero potuto abbandonare l’area se le perdite fossero diventate irragionevoli, ma il mese scorso ha dichiarato alla CNN che la perdita di quella città avrebbe potuto portare la Russia a conquistare il resto del Donbass. Zelensky si è poi basato su questa previsione per avvertire, poco più di una settimana fa, che sarà sottoposto a pressioni in patria e all’estero per “scendere a compromessi” con Mosca se ciò accadrà, ma ora è tornato alla sua posizione precedente dopo aver preconizzato al pubblico un possibile ritiro.

Resta da vedere cosa succederà alla fine, ma non c’è dubbio che le dinamiche strategico-militari favoriscano la Russia. Questo non è un pio desiderio, ma si basa sui dettagli schiaccianti contenuti nel reportage del Washington Post della metà del mese scorso sulla scarsa efficienza delle forze di Kiev. Tenendo presente questo contesto più ampio, è chiaro che l’ultimo viaggio di Zelensky in Polonia è avvenuto davvero in un momento cruciale del conflitto.

La Confederazione polacco-ucraina di fatto

Per quanto riguarda il simbolismo, la Polonia è uno dei principali alleati dell’Ucraina, tanto che lo scorso maggio, durante la visita del Presidente Duda a Kiev, i due Paesi hanno dichiarato la loro reciproca intenzione di eliminare tutti i confini tra loro. Questo li ha portati a fondersi gradualmente in una confederazione de facto, che fa avanzare il progetto geopolitico della Polonia di ripristinare il suo commonwealth perduto per perseguire il suo grande obiettivo strategico di tornare a essere una Grande Potenza.

La riaffermazione da parte di Zelensky del reciproco intento di eliminare tutti i confini tra i due Paesi durante il suo ultimo viaggio in Polonia avvalora questa valutazione, così come la spinta di un lobbista neoconservatore a favore di questo progetto geopolitico in un recente articolo per l’influente rivista Foreign Policy. Nell’ottica di legittimare lo status dell’Ucraina come protettorato de facto del suo Paese, Duda ha dichiarato che Varsavia sta cercando di ottenere ulteriori garanzie di sicurezza per il suo vicino in vista del prossimo vertice NATO di quest’estate.

Problemi polacco-ucraini

Per quanto i due vogliano fondere gradualmente i loro Paesi in una confederazione di fatto, rimangono ancora alcuni ostacoli molto seri sulla loro strada. Per cominciare, c’è ovviamente la questione del finanziamento di questo progetto geopolitico, che la Polonia non può permettersi. In secondo luogo, i polacchi sono disgustati dalla glorificazione dell’Ucraina del collaboratore fascista e genocida di Hitler, Bandera. Più lo Stato polacco lo tollera, nonostante la sua occasionale retorica in difesa della verità storica, più i polacchi medi si arrabbiano.

Partendo da questa osservazione, la terza sfida a questo progetto geopolitico è l’aumento del sentimento anti-establishment in Polonia, che potrebbe portare il partito della Confederazione a conquistare un numero di voti tale da costringere il partito al governo a formare una coalizione di governo con loro. Questo risultato potrebbe mettere in crisi questi piani, ritardandone indefinitamente l’attuazione, soprattutto se la Confederazione trovasse un modo per bloccare i finanziamenti necessari e/o le garanzie di sicurezza.

Le prospettive di un intervento militare polacco

Prima delle prossime elezioni, tuttavia, possono ancora accadere molte cose, tra cui un intervento militare polacco in Ucraina. L’ambasciatore polacco in Francia ha tuonato alla fine del mese scorso che “se l’Ucraina non difende la sua indipendenza, non avremo altra scelta che entrare nel conflitto. I nostri valori fondamentali, che sono la pietra angolare della nostra civiltà, la nostra cultura saranno in grave pericolo, quindi non abbiamo scelta”. Anche se l’ambasciata ha detto che le sue parole erano decontestualizzate, l’intento era chiaro.

La Russia ha messo in guardia da tempo su questo scenario, che potrebbe rappresentare un’escalation senza precedenti nella guerra per procura della NATO contro di essa, in quanto la Polonia è un membro ufficiale del blocco, i cui Paesi hanno obblighi di difesa reciproca. Un intervento polacco potrebbe quindi servire da filo conduttore per l’alleanza anti-russa per formalizzare il suo ruolo in questo conflitto, soprattutto nel caso in cui la Polonia annunci la sua “unificazione” con l’Ucraina e la porti sotto il suo ombrello.

Sebbene questa sequenza di eventi rimanga speculativa, è comunque fondata su una base fattuale come è stato spiegato finora in questo pezzo, soprattutto considerando le svantaggiose dinamiche strategico-militari che hanno gettato una nuvola sull’ultimo viaggio di Zelensky in Polonia. Tornando a queste, e tenendo conto delle parole dell’ambasciatore polacco in Francia e dei leader dei due Paesi che hanno ribadito la volontà di eliminare ogni confine tra loro, gli osservatori non dovrebbero scartare la possibilità che ciò avvenga.

Variabili dello scenario

In effetti, potrebbe verificarsi prima delle prossime elezioni autunnali, nel caso in cui la conquista di Artyomovsk da parte della Russia la portasse ad attraversare il resto del Donbass, come previsto da Zelensky, il che potrebbe spingere la Polonia a intervenire secondo le condizioni stabilite dal suo ambasciatore in Francia. Le uniche variabili che potrebbero credibilmente controbilanciare questo scenario sono la Russia che continua a fare solo progressi frammentari sul terreno o Kiev che accetta un cessate il fuoco con Mosca prima di riprendere i colloqui di pace.

Le possibilità della prima ipotesi potrebbero essere rafforzate da un afflusso di armi moderne occidentali in Ucraina, mentre quelle della seconda potrebbero essere ridotte dalla Polonia che promette tutto il sostegno necessario a Kiev per non sentirsi costretta dalle circostanze a negoziare con la Russia. È qui che probabilmente risiede lo scopo dell’ultimo viaggio di Zelensky in Polonia, ovvero esplorare esattamente ciò che Varsavia potrebbe fornire in questo senso, per valutare meglio se valga la pena di prenderlo seriamente in considerazione in questo momento cruciale del conflitto.

Rivalutare la richiesta di Duda alla NATO

In un’intervista rilasciata a Le Figaro all’inizio di febbraio, Duda ha lasciato intendere di temere che la Francia possa cercare di mediare un cessate il fuoco, il cui scenario potrebbe essere favorito dal viaggio in corso di Macron in Cina, il cui piano di pace in 12 punti è stato elogiato dal Presidente Putin durante la visita del suo omologo a Mosca il mese scorso. Le dinamiche politiche di questo conflitto sono quindi altrettanto svantaggiose, dal punto di vista comune di Kiev e Varsavia, di quelle strategico-militari, poiché entrambe puntano a un imminente cessate il fuoco.

Questa osservazione aggiunge un ulteriore contesto alla richiesta di Duda che la NATO dia all’Ucraina maggiori garanzie di sicurezza. La sua dichiarazione può ora essere interpretata sia come un’allusione a un prossimo intervento militare polacco (indipendentemente dal fatto che questo sia preceduto dalla formalizzazione della loro confederazione), sia come un suggerimento che tali garanzie potrebbero essere presto estese per rassicurare Kiev del sostegno duraturo del blocco nel caso in cui fosse costretta dalle circostanze ad accettare un cessate il fuoco con la Russia (indipendentemente da chi potrebbe mediarlo).

L’imminente controffensiva ucraina

Il desiderio di Duda che ciò avvenga nei prossimi tre mesi, prima del vertice NATO di inizio luglio, pone una scadenza concreta alla sua richiesta, che coincide con la prevista controffensiva di Kiev. A questo proposito, il precedente rapporto del Washington Post ha mitigato le aspettative sul suo successo, così come l’ultima valutazione dell’ex comandante delle forze terrestri polacche. Waldemar Skrzypczak ha dichiarato ai principali media polacchi che l’Ucraina “non è pronta” per questo e che “ora è il momento dei politici”.

Ai cinici che potrebbero affermare che questo ufficiale in pensione non dispone di informazioni accurate sulle dinamiche strategico-militari del conflitto, va ricordato ciò che il capo di Stato Maggiore in carica delle Forze Armate polacche, il generale Rajmund Andrzejczak, ha dichiarato ai media finanziati pubblicamente a fine gennaio. Ha avvertito che il tempo sta per scadere per Kiev, ha confermato che la potenza militare della Russia rimane ancora formidabile e ha espresso la seria preoccupazione che l’Ucraina possa alla fine essere sconfitta.

Nonostante questa terribile analisi del più alto funzionario militare polacco, che è indiscutibilmente in grado di ricevere le informazioni classificate più aggiornate sulla guerra per procura tra NATO e Russia in Ucraina, Kiev probabilmente tenterà comunque la sua prevista controffensiva. Questo influenzerà a sua volta se la Polonia formalizzerà la loro confederazione de facto e/o interverrà militarmente a suo sostegno, quali garanzie di sicurezza la NATO potrebbe dare a Kiev e se si raggiungerà un cessate il fuoco prima del vertice estivo del blocco.

Riflessioni conclusive

Questo approfondimento porta a concludere che l’ultimo viaggio di Zelensky in Polonia è stato super significativo, in quanto destinato a plasmare il corso della guerra per procura tra NATO e Russia nei prossimi tre mesi. Il ruolo di Varsavia nei prossimi eventi influenzerà fortemente l’operato di Kiev in questo momento cruciale del conflitto, da cui il tempismo con cui il leader ucraino ha deciso di incontrare la sua controparte. Per quanto Zelensky stia pianificando tutto con cura, tuttavia, potrebbe ancora fallire nel ribaltare le sorti della sua parte.

https://korybko.substack.com/p/zelenskys-latest-trip-to-poland-was

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LA DOTTRINA MORAWIECKI: IL PIANO DELLA DESTRA RADICALE POLACCA PER RIORGANIZZARE L’EUROPA, di Valentin Behr

Un discorso fondamentale, quello sostenuto nella “lectio magistralis” del premier polacco Morawiecki all’università tedesca di Heidelberg, il 20 marzo scorso. Da leggere con grande attenzione. Un vero e proprio manifesto del particolare nazionalismo conservatore, riemerso e sempre più radicato purtroppo nel mondo slavo dell’Europa Orientale, ma che ha le punte di espressione più radicale in Polonia e totalitarie e sempre più apertamente nazisteggianti in Ucraina. Un testo che lascia una impronta chiara ed inquietante della direzione che stanno prendendo progressivamente le dinamiche geopolitiche europee, soprattutto grazie all’imprimatur statunitense dato alla costruzione dell’Unione Europea e della NATO a partire dagli anni ’80 ed in particolare dalla caduta del “muro di Berlino” e dall’implosione del blocco sovietico; ma che potrebbe proseguire, come un seme avvelenato, per inerzia, anche dopo un eventuale, se pur al momento improbabile, dissolvimento o rarefazione dell’egemonia statunitense sul suolo europeo. L’intero manifesto, intriso di forzature e manipolazione ottusa delle vicende europee del novecento, è pervaso da un intento polemico apparentemente inconciliabile nei confronti della tecnocrazia della UE in nome della democrazia, resa possibile e garantita dagli stati nazionali europei, e della resistenza all’imperialismo oppressivo ed aggressivo russo. In realtà un atteggiamento antitetico polare alla visione “tecnocratica”, imprescindibile uno dall’altro, in un rapporto simbiotico indispensabile a celare e rimuovere il fondamento comune che giustifica e consente l’esistenza e la crescita di entrambe: il viatico e l’influenza diretta statunitense nelle vicende europee degli ultimi decenni.

Nelle more, una ipoteca definitiva a quel movimento federalista europeo, già sconfitto negli anni ’50 dalla componente funzionalista, il quale, benché anch’esso lautamente foraggiato anche da sponde americane, propugna il sostegno e la trasformazione della Unione Europea in una entità politica autonoma e indipendente.

La giurisdizione europea, il vincolo atlantico, i fondi strutturali, la regolazione del mercato unico sono stati le costanti sommerse che hanno sostenuto la ragione di esistenza della Unione; la guerra in Ucraina, la gestione della pandemia, l’invenzione del catastrofismo ambientale su base antropica la cartina di tornasole rivelatrice. Il manifesto potrebbe essere la pietra tombale di una Unione sempre più ridotta ad un simulacro ornamentale dai disegni statunitensi e dalla litigiosità europea.

Il documento, infatti, fonda le sue posizioni partendo da due assunti: il vicinato, nel corso dei secoli spesso proficuo e solidale, con il mondo tedesco da una parte e dall’altra con la terribile oppressione russa, in realtà sovietica, subita dall’altro versante, nel dopoguerra e incombente, a partire dagli anni ‘90, grazie al ricorrente imperialismo espansionista russo. Le contraddizioni con il primo sarebbero risolvibili facilmente con la soddisfazione dell’ennesima richiesta di risarcimento danni per i crimini compiuti nella seconda guerra mondiale in nome di una amicizia cementata dalle strette relazioni economiche e dalla avversione contro il comune nemico r(o)usso.

Il buon Morawiecki, infatti, glissa elegantemente su quegli antefatti storici scomodi e poco edificanti di una classe dirigente nel 800 tanto prona verso il dominio prussiano e asburgico, quanto romanticamente e inconcludentemente ostile verso la ottusa dominazione zarista e, nel primo dopoguerra, ad indipendenza ottenuta, così impegnata ad aggredire le repubbliche sovietiche e ad emulare, sia pure in competizione, e con il sovrappiù della millanteria propria di quella dirigenza impersonata per un buon periodo dal maresciallo Pilsudski e ancor peggio dalla pletora di formazioni politiche, le nefandezze del regime nazista, fuori e soprattutto dentro il paese; come pure sorvola sul fatto che l’influenza e il dominio sovietico in Europa Orientale non fu solo il frutto della sconfitta militare del nazismo, ma anche di aspettative di emancipazione, interne a quei paesi e, per la verità, rapidamente naufragate dopo timidi tentativi riformatori. Tentativi che conobbero, in chiave “socialdemocratica”, un ultimo sussulto anche dopo la caduta del muro di Berlino, con il timido sostegno della Germania e della Deutschbank, sino a tramontare definitivamente per ragioni interne a quei paesi e, soprattutto, con la pesante e adulante normalizzazione imposta dalla dirigenza statunitense sia in Europa Occidentale che in quella Orientale. È ormai notoria la particolare attenzione, in termini di finanziamenti ed investimenti economici oltre che militari, riservata dalla leadership statunitense, ben corroborata dal sostegno complementare di Unione Europea e Germania, alla nascente classe dirigente polacca e dei paesi baltici. È ormai altrettanto notorio che nei piani militari statunitensi è previsto un pesante intervento diretto solo in caso di crisi destabilizzanti in Italia e Polonia. Da qui il repentino e contestuale allargamento ad est della Unione Europea e della NATO sino all’interno delle vecchie frontiere della Unione Sovietica, comprensivo di installazioni militari offensive a ridosso della frontiera russa e non ostante le pesanti riserve espresse in alcuni importanti dossier depositati negli archivi della UE. Non a caso Morawiecki rivendica, con l’avvento del suo partito, il PIS, nel 2015, la svolta più coerentemente filo-NATO e russofoba affermatasi in Polonia e con essa la coerente adozione di una politica economica ordoliberista, fatta di estrema apertura al mercato e alle aziende estere, di controllo della propria moneta e di scarso welfare.

Come già precisato, l’intero documento poggia su due assunti fondamentali, sostanzialmente corretti, ma giustificati in maniera del tutto fuorviante.

  • Il valore preminente e legittimante degli stati nazionali europei è il primo. In effetti, a dispetto delle teorie che vedevano nella globalizzazione una dinamica di svuotamento e addirittura di estinzione degli stati nazionali, questi ultimi hanno confermato e riaffermato il loro ruolo preminente nelle dinamiche politiche e geopolitiche a prescindere dai regimi particolari che li reggono. Quanto al loro carattere democratico, Morawiecki dovrebbe spiegare la differenza positiva sostanziale tra tanti regimi democratici europei, con le loro limitazioni e forme di controllo e manipolazione crescenti, se non addirittura di aperta discriminazione sociale e delle minoranze etniche rispetto a quello russo.

  • Il carattere tecnocratico del governo, per meglio dire della amministrazione della UE, non è una caratteristica meramente intrinseca di quella struttura, quanto, assieme a quella lobbistica curiosamente glissata dal polacco, derivata soprattutto dal potere effettivo detenuto dal Consiglio Europeo dei capi di governo e dalla influenza diretta e stringente sulla Commissione Europea e sui leader di governo degli stati europei delle leadership statunitensi sull’onda dei vari trattati sottoscritti a partire dagli anni ‘50.

Il carattere fondante di uno stato consiste in realtà nel grado di capacità di esercitare autonomamente la propria sovranità all’interno e all’esterno dei propri confini.

Proprio quella qualità che manca in misura considerevole nelle strutture della UE, negli Stati Europei e in particolare in quelli guidati da centri decisori accecati da un nazionalismo straccione e sciovinista, impossibilitato ad agire senza la longa manus della nazione egemone.

Morawiecki ambisce a diventare il leader; è il rappresentante di punta di questo schieramento e del paese che rappresenta; non per forza propria, ma perché meglio inserito geopoliticamente e politicamente nell’onda russofoba sollevata dalle leadership statunitensi degli ultimi trentacinque anni. Con questo cerca di rompere il possibile asse tra Germania e Russia, con gli occhi del passato potenzialmente deleterio per la Polonia e senza dubbio in linea con i propositi dell’attuale dirigenza statunitense.

L’enfasi attribuita alle radici elleno-romane-cristiane, glissando volutamente su quelle dell’illuminismo della fase emergente e su quelle del particolare romanticismo che tanto ha pesato sul suo paese; l’insistenza sugli impulsi imperiali pluridecennali di una Russia in realtà impegnata in una difesa strenua della propria esistenza, a partire dallo scempio compiuto negli anni ‘90; l’asserita concordia storica con il mondo occidentale, da sancire con l’espiazione del peccato di tradimento degli accordi di Yalta, sono tutti funzionali alla creazione e al mantenimento del blocco occidentale del quale Morawiecki vorrebbe assumere la codirezione nell’agone europeo.

Morawiecki su questo si è guadagnato un altro merito. Quello di aver esplicitato la tendenza, già da tempo in atto, alla formazione in Europa di quattro sfere di influenza, delle quali una, quella mediterranea, del tutto amorfa, l’altra, quella orientale con la funzione di trascinare il resto del continente nella crescente ostilità bellicista verso la Russia e, in tempi più lunghi e modalità differenti, verso la Cina. Il modo più semplice e suicida di lasciare alla attuale leadership statunitense il compito di definire strategie ed avversari e agli europei quello di sostenere sul terreno l’onere dello scontro ai confini della Russia e indirettamente con essa nell’area mediterranea e subsahariana.

Il programma di pesante riarmo dell’esercito polacco assume questa volontà, piuttosto che essere uno strumento di deterrenza per conquistare un ruolo di mediazione e di ponte tra Europa e Russia.

Con esso, il leader polacco ha reso evidente che la Unione Europea è solo una particolare intelaiatura, un campo di azione nel quale si esercitano le attività, le rivalità e gli interessi degli stati nazionali, compresi quelli fondamentali e preponderanti degli Stati Uniti. Non un consesso in grado di garantire l’emancipazione e l’autonomia di un continente uscito prostrato e sconfitto da una guerra di ottanta anni fa.

Vive del dualismo irrisolvibile tra un federatore economico, la Germania e un federatore politico, gli Stati Uniti, del tutto disinteressato ed impossibilitato a compiere l’unificazione politica del continente o il suo assorbimento nella propria unità politica, già, per altro, di per sé problematica. Le conseguenze di questa incompatibilità cominciano ad affiorare velocemente e drammaticamente: sarà il federatore economico a capitolare e ad essere dissanguato; sarà il continente a cadere in una situazione di vassallaggio sempre più remissivo e di caos e avventurismo crescente con il progressivo eventuale allentamento delle redini. Un simulacro amministrativo sempre più appendice dell’entità politica che conta, la NATO, nemmeno più utile ad annichilire i sussulti di autonomia che sorgono ancora qui e là.

Il suo proclama pone anche un’altra questione fondamentale. Il sovranismo è un concetto politico-sociologico necessario ad affermare e confermare l’esistenza delle prerogative degli stati nazionali rispetto alla globalizzazione, alle dinamiche geopolitiche e sociopolitiche.

È una assunzione necessaria, ma del tutto insufficiente.

A seguire e collegate ad esse sono fondamentali le politiche concrete di esercizio di tale sovranità sia all’interno che all’esterno dei confini.

Su questo le politiche straccione nazionaliste e scioviniste prospettate da Morawiecki rappresentano l’antitesi ai propositi di pace nelle relazioni esterne e di giusta coesione sociale all’interno. La Polonia, purtroppo, nella sua storia, è caduta spesso tragicamente vittima delle illusioni e delle millanterie della sua classe dirigente. Non le è evidentemente bastato. Adesso sta provando a trascinare un intero continente in questo precipizio nella connivenza e nella cecità generale.

Tra i conniventi, più o meno consapevoli, per affinità ideologica e per inerzia politica, si può inserire tranquillamente e giocosamente Giorgia Meloni.

La dirigenza polacca ritiene di strumentalizzare a questi fini la stessa potenza egemone; rimarrà ancora una volta vittima delle proprie trame. È il destino delle mosche cocchiere. Buona lettura, Giuseppe Germinario

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LA DOTTRINA MORAWIECKI: IL PIANO DELLA DESTRA RADICALE POLACCA PER RIORGANIZZARE L’EUROPA
A pochi mesi dalle elezioni e a più di un anno dall’invasione dell’Ucraina, il PiS polacco ha una nuova dottrina europea. Traduciamo e commentiamo per la prima volta in francese il “discorso della Sorbona” di Mateusz Morawiecki pronunciato martedì scorso a Heidelberg. Un programma politico da studiare molto attentamente.

AUTORE VALENTIN BEHR

Questa settimana, il primo ministro polacco Mateusz Morawiecki ha tenuto un importante discorso all’Università di Heidelberg che non è stato letto abbastanza. Sulla scia dei discorsi sul futuro dell’Unione pronunciati dal presidente francese Emmanuel Macron (alla Sorbona nel settembre 2017) e dal cancelliere tedesco Olaf Scholz (all’Università di Praga nell’agosto 2022). Si tratta di un discorso importante perché, a pochi mesi dalle elezioni polacche, offre il punto di vista di un leader dell’Europa centrale, il cui Paese ha visto rafforzato il proprio ruolo politico all’interno dell’Unione dopo la guerra in Ucraina, qui descritta come una “svolta storica”. Morawiecki espone una visione delle sfide che l’Unione deve affrontare e dei modi per affrontarle, in netto e radicale contrasto con quelle proposte dai suoi omologhi francese e tedesco.

Sua Magnificenza, professor Eitel,

Primo Ministro Kretschmann,

Signore e Signori,

Cari studenti

Grazie per avermi invitato a Heidelberg. È un grande onore per me parlare qui in una delle più antiche università del continente. È un luogo che ha formato decine di generazioni di straordinari europei. Molti grandi tedeschi, naturalmente, ma anche molti polacchi. Uno di loro è stato addirittura rettore.

Heidelberg è una città bellissima, costruita e mantenuta per generazioni. Eppure questa meravigliosa città, che per molti versi è un microcosmo dell’Europa, è stata testimone di molto male, violenza, guerra e atrocità.

Oggi stanno tristemente tornando nel nostro continente.

L’Europa è a una svolta storica. Ancora più grave della caduta del comunismo. Per la maggior parte, questi cambiamenti sono stati pacifici. Oggi, quando il mondo intero è minacciato da una guerra di aggressione russa, ci ricordiamo del periodo di 70 o 80 anni fa.

Oggi voglio parlarvi di quattro questioni fondamentali per il futuro dell’Europa. Dividerò quindi il mio discorso in quattro parti.

In ognuna di queste parti affronterò quella che considero una questione fondamentale, ovvero il ruolo degli Stati nazionali.

Inizierò con un primo tema generale: 1. Cosa ci insegna oggi la storia dell’Europa.

Poi passerò a: 2. L’importanza della lotta dell’Ucraina contro la Russia e le conclusioni che possiamo trarre dalla guerra in Ucraina per l’Europa.

In seguito, affronterò una terza questione: 3. quali sono i valori europei e cosa li minaccia oggi; infine, 4. discuteremo di come l’Europa possa assumere il ruolo di leader mondiale.

Cosa ci insegna la storia dell’Europa.
Se ci chiediamo cosa può insegnarci la storia dell’Europa, vorrei iniziare parlando delle relazioni tra Polonia e Germania.

Siamo vicini da oltre undici secoli. Abbiamo vissuto, lavorato, affrontato e risolto i nostri problemi, non solo fianco a fianco, ma spesso insieme. Abbiamo fondato le nostre prime università nello stesso periodo: a Cracovia nel 1364, a Heidelberg nel 1386. Nel corso dei secoli, ci sono stati molti polacchi di origine tedesca o tedeschi di origine polacca e slava.

Origine slava.

Oggi, polacchi e tedeschi lavorano a stretto contatto dal punto di vista economico, il che crea interdipendenza.

Siamo il quinto partner commerciale della Germania, dopo Cina, Stati Uniti, Paesi Bassi e Francia. Presto saliremo al quarto posto, superando la Francia. Poi arriveremo addirittura al terzo posto.

Molti non lo sanno, ma la Russia è al 16° posto e la Polonia, insieme agli altri Paesi di Visegrad, è oggi un partner molto più importante della Cina e degli Stati Uniti. Vale la pena sottolineare l’importanza che Germania e Polonia rivestono l’una per l’altra. Sebbene abbiamo opinioni diverse su alcune questioni, condividiamo anche molti problemi comuni che devono essere superati insieme.

Morawiecki inizia ricordando l’importanza cruciale della Polonia, e più in generale dei Paesi dell’Europa centrale, come partner economico della Germania, in un contesto in cui è soprattutto la dipendenza di questo Paese (e di altri in Europa) dal gas russo ad essere stata molto commentata dall’inizio della guerra in Ucraina.

Si tratta di relativizzare il carattere presumibilmente periferico – e quindi trascurabile, nel gioco geopolitico e negli scambi economici – dell’Europa centrale rispetto all’Europa occidentale. Sull’importanza degli scambi economici (ineguali) tra i Paesi di Visegrad e i loro vicini europei, si può fare riferimento a Thomas Piketty, “2018, the year of Europe” (16 gennaio 2018).

La Polonia sta lottando ancora oggi con la crudele eredità della Seconda guerra mondiale. Dopo di essa, abbiamo perso la nostra indipendenza, la nostra libertà e più di 5 milioni di cittadini. Le città polacche erano in rovina e oltre mille villaggi furono brutalmente pacificati. Mentre la Germania occidentale ha potuto svilupparsi liberamente, la Polonia ha perso 50 anni del suo futuro a causa della Seconda guerra mondiale.

Non voglio soffermarmi troppo su questo punto nel mio discorso, ma non posso nemmeno evitarlo.

La Polonia non ha mai ricevuto dalla Germania un risarcimento per i crimini della Seconda guerra mondiale, per la distruzione e il furto dei tesori della cultura nazionale.

Dopo tutto, la piena riconciliazione tra l’autore di un crimine e la sua vittima è possibile solo quando c’è un risarcimento. In questo momento cruciale della storia europea, abbiamo bisogno di questa riconciliazione più che mai, perché le sfide che dobbiamo affrontare sono serie.

La storia dell’Europa, con la sua ferita più grande – la Seconda guerra mondiale – ha gettato il mio Paese, come molti altri, dietro la cortina di ferro per quasi mezzo secolo.

Io e i miei coetanei siamo cresciuti, siamo andati a scuola, abbiamo lavorato e studiato all’ombra dei crimini comunisti.

Milioni di giovani europei che vivevano dietro la cortina di ferro sapevano che da una parte c’era la libertà e dall’altra il colonialismo russo; la sovranità per alcuni, la dominazione imperiale per altri.

Da un lato, l’agognata Europa libera. Dall’altra, un totalitarismo barbaro; una vita sotto il tallone della Russia sovietica. Se qualcuno ci avesse detto che saremmo vissuti per vedere la fine del comunismo, non ci avremmo creduto, così come la maggior parte degli esperti occidentali sulla Russia sovietica.

Eppure è successo! Solidarność, la guerra in Afghanistan, Papa Giovanni Paolo II e la ferma posizione degli Stati Uniti nell’era Reagan hanno portato alla caduta del comunismo criminale.

Era arrivato il tempo della democrazia.

Oggi vorrei sottolineare il ruolo della sovranità dello Stato nazionale nel mantenere la libertà delle nazioni. La lotta delle nazioni schiavizzate dell’Europa centrale fu, in sostanza, una lotta per la sovranità nazionale.

Questo tema ha unito tutti i patrioti al di là dello spettro politico, perché eravamo convinti che i nostri diritti e le nostre libertà potessero essere salvaguardati solo nel contesto di Stati sovrani riconquistati.

Con questo richiamo storico, Morawiecki segue la “politica storica” sostenuta dal PiS, che consiste nel difendere la “visione polacca” della storia per rivendicare la grandezza morale in opposizione ai suoi vicini, soprattutto la Germania. Ciò si è recentemente riflesso nelle richieste del governo polacco alla controparte tedesca di riparazioni di guerra per le immense perdite umane e materiali causate dal Terzo Reich alla Polonia durante la Seconda guerra mondiale. Su questa spinosa questione, che il governo tedesco ha liquidato come giuridicamente chiusa, si veda Mateusz Piątkowski, “The legal questions behind Poland’s claim for war reparations from Germany” (Note dalla Polonia, 9 settembre 2022).

Morawiecki presenta inoltre, secondo le interpretazioni apprezzate dal suo schieramento politico, ossia la destra nazionalista e anticomunista, l’esperienza comunista in Polonia come una semplice occupazione sovietica, di fronte alla quale la società polacca si sarebbe sollevata nel suo complesso per poi liberarsi grazie alle mobilitazioni (Solidarność, Giovanni Paolo II) e al sostegno americano (Reagan). Questa visione semplicistica di una storia più complessa affonda le sue radici anche in una storia personale: il padre di Mateusz, Kornel Morawiecki (1941-2019), è stato una figura importante dell’opposizione anticomunista, fondando in particolare l’organizzazione clandestina “Solidarność Walcząca” (“Solidarietà Combattente”) a Breslavia nel 1982, durante lo stato di guerra, dopo che il sindacato Solidarność era stato messo al bando e i suoi leader arrestati.

È in virtù di questa eredità storica, quella di una nazione che ha lottato per tutta la sua storia per l’indipendenza, in particolare contro il totalitarismo nazista e sovietico nel XX secolo, che Morawiecki presenta lo Stato-nazione non solo come caro ai polacchi, ma anche come il principale garante della democrazia di fronte alle tentazioni imperialiste, un argomento che poi sviluppa in relazione all’Unione Europea.

Sulla politica storica in Polonia, rimandiamo a Valentin Behr, “Genèse et usages d’une politique publique de l’histoire. La ‘politique historique’ en Pologne”, Revue d’études comparatives Est-Ouest, vol. 46, n. 3, 2015, nonché al dossier coordinato da Frédéric Zalewski, “La ‘politique historique’ en Pologne. La mémoire au service de l’identité nationale”, Revue d’études comparatives Est-Ouest, vol. 1, n. 1, 2020.

E avevamo ragione. Questo è stato particolarmente evidente nei periodi di crisi sociale ed economica. Anche durante la recente crisi del COVID-19, abbiamo visto che Stati nazionali efficaci sono essenziali per proteggere la salute dei cittadini.

In precedenza, durante la crisi del debito, abbiamo assistito a un chiaro conflitto tra i Paesi dell’Europa meridionale, Grecia, Italia e Spagna, e le istituzioni sovranazionali che prendevano decisioni economiche per loro conto senza un mandato democratico.

In entrambi i casi, abbiamo riscontrato i limiti della governance sovranazionale in Europa.

In Europa, niente potrà garantire la libertà delle nazioni, la loro cultura, la loro sicurezza sociale, economica, politica e militare meglio degli Stati nazionali. Altri sistemi sono illusori o utopici.

Possono essere rafforzati da organizzazioni intergovernative e anche parzialmente sovranazionali, come l’Unione Europea, ma gli Stati nazionali europei non possono essere sostituiti.

Menzionando la crisi del debito sovrano e la crisi di Covid-19 nella sua professione di fede in un’Europa delle nazioni, Mateusz Morawiecki sembra dimenticare di sfuggita gli ingenti fondi di recupero istituiti a livello europeo per far fronte alle conseguenze economiche della pandemia. Il versamento di questi fondi alla Polonia è stato oggetto di un braccio di ferro con la Commissione europea, che ha cercato di usarli come leva per indurre il governo polacco a fare marcia indietro su alcune riforme del sistema giudiziario, accusate di minare lo Stato di diritto. Più fondamentalmente, la sua denuncia di “istituzioni sovranazionali” che operano “senza un mandato democratico” solleva l’annosa e ricorrente questione del rispetto da parte degli Stati membri dei trattati che hanno firmato e ratificato – in particolare con un referendum quando la Polonia ha aderito all’Unione Europea nel 2004. Questo tema è al centro del resto del discorso, quando si parla di valori europei e del futuro dell’Unione.

L’Europa è nata molto prima della Repubblica americana, la cui unità è stata forgiata anche attraverso la guerra civile. Ecco perché è fuorviante fare riferimento a questa analogia storica.

Qualsiasi sistema politico che non rispetti la sovranità altrui, la democrazia o la volontà fondamentale della nazione, prima o poi porta all’utopia o alla tirannia.

È stata l’Europa cristiana a dare vita a una civiltà più rispettosa della dignità umana di qualsiasi altra. Questa civiltà merita di essere protetta. Soprattutto di fronte a civiltà dal cuore duro e sempre più forti, per le quali i valori democratici e liberali non hanno alcuna importanza. Vogliamo costruire un’Europa forte per affrontare le sfide globali del XXI secolo.

Sono le dimensioni dell’Unione europea a renderla una forza significativa nel mondo, non il suo sistema decisionale sempre più incomprensibile. Abbiamo bisogno di un’Europa forte grazie ai suoi Stati nazionali, non di un’Europa costruita sulle loro rovine. Un’Europa del genere non sarà mai forte, perché il potere politico, economico e culturale dell’Europa deriva dall’energia vitale fornita dagli Stati nazionali.

Le alternative sono o un’utopia tecnocratica, che alcuni a Bruxelles sembrano prospettare, o un neo-imperialismo, già screditato dalla storia moderna.

La lotta delle nazioni europee per la libertà non si è conclusa nel 1989. Il nostro confine orientale ne è la migliore testimonianza.

2. Vorrei ora soffermarmi su una questione di vitale importanza per l’Europa: l’Ucraina.

Discuterò l’importanza della lotta dell’Ucraina dal punto di vista dei nostri comuni valori europei. Inoltre, esporrò le conclusioni che dovremmo trarre.

Per cosa combattono davvero gli ucraini oggi? Per cosa sono disposti a rischiare la vita? Perché non si sono arresi immediatamente al secondo esercito più potente del mondo?

La lotta ucraina per il diritto all’autodeterminazione nazionale è un’altra eroica manifestazione di difesa dello Stato nazionale e della libertà. Ma per avere la volontà di combattere, bisogna credere davvero in ciò per cui si combatte.

Oggi gli ucraini non combattono solo per la propria libertà. Dal 24 febbraio 2022, combattono quotidianamente anche per la libertà di tutta l’Europa. Ed è anche il nostro futuro che dipende dall’esito di questa guerra. La sconfitta dell’Ucraina sarebbe la sconfitta dell’Occidente. Anzi, dell’intero mondo libero. Una sconfitta più grande di quella del Vietnam. Dopo una tale sconfitta, la Russia tornerebbe a colpire impunemente e il mondo come lo conosciamo cambierebbe radicalmente. Seguirebbe una lunga serie di pericolose incursioni nell’ignoto. La sconfitta del mondo libero probabilmente incoraggerebbe Putin, proprio come l’acquiescenza degli anni Trenta incoraggiò Hitler.

Morawiecki descrive la lotta ucraina contro gli invasori russi come una lotta civile e politica, con implicazioni che vanno oltre questo conflitto: Gli ucraini stanno combattendo “per la nostra libertà e per la vostra”, per citare uno slogan polacco (“za wolność naszą i waszą”) formulato nel XIX secolo durante le insurrezioni antitsariste, poi ripreso dai combattenti polacchi durante la Seconda guerra mondiale, e che dal 24 febbraio 2022 è tornato di attualità, in particolare nei discorsi ufficiali polacchi e ucraini.

Al di là del simbolismo, si riferisce anche a un immaginario collettivo diffuso nelle società dell’Europa centrale e orientale che temono di essere sacrificate dagli alleati occidentali alla Russia: è il mito di Yalta come “tradimento degli alleati”, da cui le molteplici associazioni nel discorso di Mateusz Morawiecki tra Putin, Hitler e Stalin.

Anche Putin, come Hitler all’epoca, gode di un enorme sostegno pubblico. Non è esagerato dire che siamo di fronte alla minaccia di una terza guerra mondiale. Per evitare questo esito, dobbiamo smettere di alimentare la bestia.

La storia si sta svolgendo sotto i nostri occhi.

Quando i nostri figli leggeranno i libri di scuola, si chiederanno se abbiamo fatto abbastanza per garantire loro un futuro di pace. Abbiamo pensato a loro e al bene a lungo termine dei nostri Paesi o solo alla comodità a breve termine e a rimandare le decisioni difficili a dopo?

Abbiamo imparato dagli errori del passato o continueremo a ripeterli?

Ecco alcune osservazioni su questo punto:

2.1 Perché l’Ucraina è un punto di svolta nella storia europea?

Fino al 24 febbraio avevo sentito dire che Putin non avrebbe attaccato l’Ucraina.

Molti politici europei hanno preferito credergli, sperando che fosse possibile continuare il “Wandel durch Handel” con la Russia a spese dell’Europa centrale.

In questo contesto, torniamo alla domanda: perché gli ucraini combattono? Se fossero interessati solo ai beni materiali e non fossero uniti dal senso di comunità, si sarebbero arresi molto tempo fa.

È su questo che Putin contava. Pensava che gli ucraini avrebbero scelto la pace piuttosto che la libertà. Ma si sbagliava. Qual è stato l’errore del Cremlino? Putin non è un pazzo, come molti di coloro che hanno fatto affari con lui negli ultimi 20 anni vorrebbero far credere. Putin è stato accecato dalla sua visione del mondo. Non ha capito che gli ucraini erano una nazione.

E ora che finalmente hanno il loro Stato nazionale – anche se è tutt’altro che perfetto – sono disposti a sacrificare le loro vite per esso.

La propaganda russa sostiene che non esiste una nazione ucraina separata. Conosciamo tutti il detto: “se i fatti non corrispondono alla teoria, cambia i fatti”. Ecco perché la Russia sta cercando di spiegare agli ucraini, con la forza, che non hanno diritto a un’identità nazionale.

Eppure, sono i nipoti dei soldati che oggi rischiano la vita per un’Ucraina libera che un giorno diranno con orgoglio a scuola: “Mio nonno ha combattuto vicino a Kherson!”, “E i miei hanno respinto l’assalto a Kiev!”, o “Mio nonno è morto a Mariupol”.

E i soldati di oggi, questi futuri nonni, sanno che stanno combattendo anche perché i loro nipoti possano vivere in un Paese libero. Ricordiamo: Una nazione è una comunità di vivi, morti e non nati.

Oggi l’Europa è testimone di crimini commessi in nome di un’ideologia antinazionale. Questo è ciò che motiva Putin: la volontà di eliminare tutte le differenze, di distruggere tutte le identità nazionali e di fonderle nel grande impero russo.

La propaganda russa non ha mai smesso di accusare falsamente gli ucraini di fascismo.

Questo è esattamente ciò che disse Stalin: “Chiamate i vostri avversari fascisti o antisemiti”. È sufficiente ripetere questi epiteti abbastanza spesso.

Bisogna dirlo chiaramente: un fascista è qualcuno che vuole distruggere altre nazioni. È qualcuno che viola i diritti umani e calpesta la dignità umana. Il fascista oggi è Vladimir Putin e tutti i complici dell’aggressione russa. Come europei, abbiamo il dovere di opporci al fascismo russo. Questa è l’identità europea.

Ora…

2.2 Quali lezioni possiamo trarre dalla guerra in Ucraina?

Gli ucraini di oggi ci ricordano cosa dovrebbe essere l’Europa. Ogni europeo ha diritto alla libertà e alla sicurezza individuale. Ogni nazione ha il diritto di prendere decisioni fondamentali sul futuro del proprio territorio.

La democrazia può essere attuata a livello comunale, regionale o nazionale, ovunque vi siano legami basati su un’identità comune. Pertanto, una votazione in cui 140 milioni di russi votassero “a favore” dell’incorporazione dell’Ucraina alla Russia e 40 milioni di ucraini votassero “contro” non sarebbe democratica, no?

Quali altre lezioni si possono trarre da oltre un anno di guerra in Ucraina? Una cosa mi è chiara: la politica di “fare accordi” con la Russia è fallita.

Chi per decenni ha voluto un’alleanza strategica con la Russia e ha reso i Paesi europei dipendenti da essa per l’energia, ha commesso un terribile errore. Coloro che hanno messo in guardia dall’imperialismo russo e hanno ripetutamente affermato che non ci si poteva fidare della Russia avevano ragione.

Coloro che per molti anni hanno finanziato i preparativi bellici della Russia, disarmato l’Europa e imposto ai più deboli una partnership con la Russia, sono corresponsabili politicamente della guerra in Ucraina e degli attuali problemi economici ed energetici di centinaia di milioni di europei.

Putin si è comportato come uno spacciatore che dà la prima dose gratis, sapendo che il tossicodipendente tornerà più tardi e accetterà qualsiasi prezzo. Putin è astuto, ma non è brillante. Se l’Europa ha ceduto a lui così facilmente, è soprattutto a causa della sua debolezza.

Questa debolezza è il perseguimento di interessi particolari a spese di altri Paesi.

Se le singole nazioni dell’Unione Europea cercano di dominare le altre, l’Europa rischia di ricadere negli stessi errori del passato. E tutte le decisioni prese per fermare l’aggressore russo possono essere nuovamente ribaltate. Questo accadrà se alcuni dei Paesi più grandi decideranno che per le loro élite è più redditizio fare affari con il Cremlino, anche a costo del sangue. Oggi è il sangue ucraino. Domani potrebbe essere sangue lituano, finlandese, ceco, polacco, ma anche tedesco o francese… Dobbiamo evitare che questo accada”.

Morawiecki sviluppa qui il nucleo della sua argomentazione sul conflitto in Ucraina, presentando il punto di vista di un leader dell’Europa centrale per il quale la guerra riflette e deriva dalla cecità dei principali leader europei nei confronti della Russia di Putin.

La politica precedentemente denunciata del Wandel durch Handel (o “commercio morbido”), che si basa sullo scambio economico per provocare un cambiamento politico nei regimi autoritari, ha i suoi limiti in questo caso. Se la dipendenza di diverse economie europee dal gas russo riguarda anche la Polonia e i Paesi dell’Europa centrale, i gasdotti del Mar Baltico che collegano la Germania direttamente alla Russia (NordStream) hanno dato l’impressione che gli Stati dell’Europa centrale e orientale siano stati sacrificati agli interessi economici tedeschi. Ciò convalida tragicamente gli avvertimenti di lunga data di diversi leader politici della regione, compresi quelli del PiS.

Oggi, 3. Queste lezioni dovrebbero indurci a porre la domanda fondamentale: quali sono i valori europei e cosa li minaccia? Mi concentrerò ora su questa terza “grande domanda”.

In termini di prosperità materiale, viviamo nei tempi migliori. Ma questa prosperità ha ucciso il nostro spirito? Ci interessa ancora ciò per cui viviamo? Saremmo pronti a difendere le nostre case, i nostri cari, la nostra nazione, se venissero attaccati?

Questa tensione tra il regno dello spirito e quello della materia non è nuova. Dopotutto, ci troviamo nell’università in cui Hegel era professore. In letteratura, pochi hanno affrontato questo problema come il grande Thomas Mann, “la coscienza della Germania” all’epoca dei crimini nazisti tedeschi. Gli eroi di Mann aspirano a un significato più alto della vita, non solo all’accumulo di beni e al loro consumo.

Negli ultimi decenni, molti europei sono arrivati a credere che il consumo, cosparso di affermazioni superficiali sui “valori europei”, sia la fase finale della storia. Noi ci opponiamo a questo approccio. Colpire gli altri con la frusta dei “valori europei” senza concordare sulla loro definizione o capire quali cambiamenti devono essere apportati dagli Stati europei è autodistruttivo, nel senso di Thomas Mann.

In passato, il simbolo dell’Europa era l’antica agorà. Un luogo in cui ogni cittadino poteva esprimersi su un piano di parità. Oggi l’agorà europea è troppo spesso sostituita dagli uffici delle istituzioni di Bruxelles, dove le decisioni vengono prese a porte chiuse.

Come disse una volta un politico europeo a proposito del meccanismo delle istituzioni europee: “Decretiamo qualcosa… Se non ci sono proteste perché la maggior parte delle persone non capisce cosa è stato attuato, continuiamo passo dopo passo – fino al punto di non ritorno”.

La strada per trasformare l’UE in un’autocrazia burocratica è breve.

Oltre alle nuove circostanze geopolitiche, si sta decidendo anche il destino dell’Unione europea. Sarà una comunità democratica o una macchina burocratica e una struttura centralizzata?

La politica è sempre una questione di scelte. Ma questa scelta deve essere fatta alle urne, non nell’intimità degli uffici dei burocrati. Vogliamo davvero un’élite cosmopolita paneuropea con un potere immenso ma senza mandato elettorale?

Il discorso si orienta verso il dibattito sui “valori europei”, che è valso alle cosiddette democrazie “illiberali” di Polonia e Ungheria una procedura di infrazione contro lo Stato di diritto, avviata ai sensi dell’articolo 7 del Trattato sull’Unione europea (TUE). Mateusz Morawiecki denuncia questa procedura, criticando al contempo un’élite “cosmopolita” e burocratica, in un filone simile a quello di altri discorsi euroscettici. La sua argomentazione riecheggia quella del filosofo Ryszard Legutko, europarlamentare del PiS, il cui libro The Demon in Democracy. Totalitarian Temptations in Free Societies (Encounter Books, 2016; tradotto in francese come Le diable dans la démocratie. Totalitarian Temptations in the Heart of Free Societies, Éditions de l’Artilleur, 2021) è stato ampiamente diffuso nelle reti conservatrici internazionali, in Europa e negli Stati Uniti.

Metto in guardia tutti coloro che vogliono creare un superstato governato da una ristretta élite. Se ignoriamo le differenze culturali, il risultato sarà l’indebolimento dell’Europa e una serie di rivolte, forse anche una nuova Primavera delle Nazioni come quella del 1848.

All’epoca, i tedeschi fecero un notevole sforzo per costruire uno Stato unito e moderno. Dovettero aspettare vent’anni per ottenere risultati politici, ma furono vittoriosi. Oggi ci troviamo di fronte a un dilemma simile. Se i leader europei, come gli aristocratici di Metternich dell’epoca, preferiscono il potere elitario e l’imposizione dei loro valori dall’alto, alla fine incontreranno resistenza. Può arrivare prima o poi, ma è inevitabile.

Vale la pena tornare alla domanda di fondo: quali sono i valori europei?

E soprattutto: cos’è l’Europa? La sua storia non è iniziata qualche decennio fa. L’Europa ha più di due millenni. L’Europa si nutre dell’eredità degli antichi greci, dei romani e del cristianesimo. Queste sono le nostre radici, da cui cresciamo e da cui non possiamo staccarci.

Morawiecki promuove una visione dell’Europa come civiltà, una base culturale comune con una storia secolare. Ciò fa eco a una critica della storia ufficiale europea diffusa in Europa centrale, che viene criticata per aver presentato una storia che sopravvaluta l’eredità dell’Illuminismo e stigmatizza le nazioni, a scapito dell’eredità dell’antichità greco-romana e del cristianesimo. Cfr. Piattaforma della Memoria e della Coscienza Europea, “La Casa della Storia Europea. Relazione sull’esposizione permanente”, 30 ottobre 2017.

Una visione simile dell’Europa come identità e patrimonio culturale si ritrova nella destra conservatrice. Pur non essendo una novità, si tratta di una concezione dell’Europa su cui il governo polacco cerca di basare la sua visione di un’Europa delle nazioni, in contrapposizione a un’Europa federale. Si possono citare le riflessioni dello storico belga David Engels, professore all’Instytut Zachodni di Poznan, tra cui il suo “Preambolo di una Costituzione per una Confederazione di Nazioni Europee”, nonché il libro da lui diretto: Renovatio Europae. Plaidoyer pour un renouveau hespérialiste de l’Europe, Éditions du Cerf, 2019.

Non c’è Europa senza cattedrali gotiche o edifici universitari. L’Europa ha sempre volato sulle ali della fede e della ragione. E il modello di istruzione universitaria creato in Europa si è diffuso in tutto il mondo.

Questo è accaduto perché l’università europea era uno spazio di discussione e di confronto tra idee opposte, l’ambiente più favorevole alla scoperta della verità.

In Europa non dovrebbe esserci spazio per la censura o l’indottrinamento ideologico. Lo abbiamo già sperimentato in passato, quando le autorità comuniste ci dicevano cosa pensare. Lo hanno sperimentato anche i tedeschi ai tempi di Hitler, quando i libri degli autori liberi di pensare venivano bruciati.

L’Europa dovrebbe essere una cattedrale del bene e un’università della verità.

Anche in questo caso, va sottolineato che i vari divieti, le decisioni arbitrarie su ciò che può o non può essere presentato all’interno delle mura universitarie e la correttezza politica minano l’eterna missione dell’accademia, ossia la ricerca della verità.

Anche in questo caso ritroviamo una retorica comune alla destra e all’estrema destra, intorno alla denuncia della “correttezza politica” e, più recentemente, del “wokismo”, che costituirebbero minacce alla libertà di espressione, messe qui sullo stesso piano degli autodafé nazisti. A parte la grossolana esagerazione, va notato che, ironia della sorte, sono proprio i governi polacco e ungherese ad aver messo in atto politiche che hanno portato alla riduzione delle opportunità di espressione per i gruppi minoritari (in particolare LGBT) e ad aver condotto campagne contro l'”ideologia di genere”, in particolare nell’istruzione superiore. Si veda David Paternotte e Mieke Verloo, “De-democratization and the Politics of Knowledge: Unpacking the Cultural Marxism Narrative”, Social Politics: International Studies in Gender, State & Society, vol. 29, n. 3, 2021.

Inoltre, questi discorsi hanno alcune convergenze con quelli di Vladimir Putin, che viene eretto a eroe “anti-sveglio” celebrato da una parte della destra trumpista americana. L’argomentazione di Morawiecki a favore dei valori europei “democratici” e “liberali” trova qui i suoi limiti pratici, poiché l’ideologia nazional-conservatrice del suo schieramento politico è l’antitesi dei valori europei, come definiti nell’articolo 2 del TUE: “L’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini”.

Così come proteggiamo il nostro patrimonio materiale, dovremmo proteggere anche il nostro patrimonio spirituale, che consiste in decine di tradizioni culturali e linguistiche diverse. La forza dell’Europa nel corso dei secoli è stata la sua diversità. Condividiamo valori comuni, ma ogni nazione ha la propria identità.

Gleichschalten, uravnilovka, è una strada che non porta da nessuna parte.

Germania e Francia sono due attori centrali in Europa.

Nei 75 anni tra il 1870 e il 1945 hanno combattuto tre guerre e solo dopo l’ultima si sono riconciliate.

Questa riconciliazione sta ora dando i suoi frutti nella speciale relazione politica tra Berlino e Parigi. Questa particolare sensibilità reciproca alle logiche e alle sensibilità delle due capitali è nata da un passato tragico.

Nell’interesse dell’equilibrio europeo, ma anche a causa di un passato molto più tragico, è necessario lo stesso modello di sensibilità reciproca alle logiche e agli interessi di Varsavia. Oggi, a Varsavia non avvertiamo questa sensibilità.

Le basi per questa riconciliazione sono state gettate da due grandi europei, Charles de Gaulle e Konrad Adenauer. Entrambi volevano costruire una pace duratura in Europa.

Essi compresero che il rispetto reciproco e la conoscenza delle radici dell’altro erano i presupposti per la cooperazione. Il Cancelliere Adenauer disse: “Se ora ci allontaniamo dalle fonti della nostra civiltà europea, nata dal cristianesimo, è impossibile per noi non fallire nei nostri sforzi di ricostruire l’unità della vita europea. Questo è l’unico modo efficace per mantenere la pace”.

Anche il generale de Gaulle era profondamente consapevole del grande patrimonio culturale dell’Europa e degli orrori della “guerra interna”. De Gaulle disse: “Dante, Goethe, Chateaubriand appartengono all’Europa in quanto erano rispettivamente ed eminentemente italiani, tedeschi e francesi. Non sarebbero stati molto utili all’Europa se fossero stati apolidi e se avessero pensato e scritto in una sorta di Esperanto o Volapük.

La nostra identità di base è l’identità nazionale. Io sono europeo perché sono polacco, francese o tedesco, non perché rinnego la mia poligonalità o germanizzazione.

L’odierno tentativo europeo di eliminare questa diversità, di creare un uomo nuovo, sradicato dalla sua identità nazionale, equivale a tagliare le radici e a segare il ramo su cui siamo seduti.

Attenzione: possiamo cadere facilmente – culture forti e dure dittature in altre parti del mondo non aspettano altro. Sarebbero certamente felici di vedere l’Europa cadere nell’insignificanza.

Vorremmo che tutti gli europei dimenticassero le loro lingue e parlassero solo il Volapük? Io non lo vorrei.

Alcuni cercano di negare il contributo dell’Europa allo sviluppo del mondo perché vedono solo il lato oscuro della storia. In effetti, i Paesi responsabili dello sfruttamento, del colonialismo, dell’imperialismo e di crimini terribili – come il nazismo tedesco e il comunismo russo, come i crimini commessi nelle colonie – devono fare ammenda per il proprio passato.

Questo fa parte del nostro DNA europeo: la ricerca della verità e della giustizia. Ma l’Europa storica non è solo fonte di vergogna per noi. Lo sviluppo scientifico e la straordinaria prosperità di oggi sono, si potrebbe dire, il frutto dell’Europa.

La via da seguire per l’Europa non è nemmeno la “mondializzazione politica”. Essa deve basarsi sulla propria diversità. Il tentativo di unificare artificialmente l’Europa in nome dell’abolizione delle differenze nazionali e politiche porterà in pratica al caos e al conflitto tra gli europei.

È la cooperazione combinata con la competizione il modo migliore per l’Europa di avere successo nel mondo globale.

Milioni di persone provenienti da tutto il mondo visitano ogni anno Parigi, Roma, Colonia, Madrid, Cracovia, Londra o Praga. La ricchezza di queste belle città e il loro potere di attrazione risiedono nel fatto che ognuna di esse ha una propria identità.

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Non vogliamo un’Europa che dia un ultimatum: rinunciate volontariamente alla vostra nazionalità o eserciteremo su di voi ogni tipo di pressione politica ed economica.

La Polonia ha accolto milioni di rifugiati negli ultimi mesi. Gli ucraini hanno trovato rifugio da noi. La nostra concezione dei valori europei comprende certamente il sostegno al vicino in difficoltà. Tuttavia, abbiamo ricevuto solo un aiuto minimo. In questo contesto, vediamo differenze di trattamento tra Paesi che si trovano nella stessa situazione, il che è la definizione stessa di discriminazione.

Mentre la Polonia è stata in prima linea nel fornire armi all’Ucraina e nell’accogliere i rifugiati ucraini, il che ha contribuito ad appianare le sue divergenze con la Commissione europea, l’Ungheria di Viktor Orban sta lottando per prendere le distanze da Putin. L’enfasi posta da Mateusz Morawiecki sull’accoglienza dei rifugiati ucraini in Polonia non deve far dimenticare che, pochi mesi prima dello scoppio della guerra in Ucraina, il governo polacco si era fatto un nome per la sua intransigenza poco ospitale (e poco cristiana, si sarebbe tentati di aggiungere) quando i rifugiati provenienti dal Medio Oriente e dall’Africa centrale si ammassavano al confine tra Polonia e Bielorussia.

Vietando l’accesso ai media e alle ONG nella zona di confine – le stesse ONG che ora svolgono un ruolo centrale nell’accoglienza dei rifugiati ucraini – e praticando il metodo del “respingimento”, il governo polacco si è posto ancora una volta in contrasto con i trattati europei. Alla luce di questa politica dei rifugiati a due livelli, che distingue tra europei e non europei, cristiani e musulmani, il seguente passaggio sulla “discriminazione” di cui la Polonia sarebbe vittima è indecente.

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La Polonia subisce questa discriminazione anche a causa di una totale mancanza di comprensione delle riforme che un Paese emergente dal post-comunismo doveva intraprendere; a causa del coinvolgimento delle istituzioni europee nei conflitti interni di uno Stato membro con lo slogan di “difendere lo Stato di diritto”.

Vorrei sottolineare che in Polonia abbiamo la stessa concezione del termine “Stato di diritto” che abbiamo in Germania. E ci sono poche cose di cui sono sicuro come il fatto che il mio schieramento politico difende il vero Stato di diritto in misura molto maggiore rispetto ai primi 25 anni dopo il 1989.

Combatte contro l’oligarchia, contro il dominio delle corporazioni professionali chiuse, contro la povertà e contro la corruzione. Protegge la Polonia da questi mali. Ma poiché questo non è l’argomento principale della mia discussione, mi fermo qui.

Morawiecki giustifica qui le famose riforme del sistema giudiziario e della magistratura che sono valse alla Polonia una procedura di infrazione dello Stato di diritto.

Possiamo ricordare brevemente le principali misure adottate dal governo polacco dal 2015, che sono tutt’altro che aneddotiche poiché minano la separazione dei poteri: nomine di fedelissimi del PiS alla Corte costituzionale; nomina di membri del Consiglio giudiziario nazionale (competente per la nomina dei giudici) sotto il controllo del Parlamento; pensionamento forzato dei giudici della Corte suprema; licenziamento di oltre 150 presidenti e vicepresidenti di tribunale da parte del ministro della Giustizia; istituzione di una nuova camera disciplinare per i giudici della Corte suprema, i cui membri sono selezionati dal Consiglio nazionale della magistratura; avvio di procedimenti disciplinari contro i giudici che applicano alcune disposizioni del diritto europeo o che sottopongono questioni preliminari alla Corte di giustizia dell’Unione europea (CGUE).

La CGUE ha ripetutamente condannato queste riforme, che continuano a essere utilizzate per trasferire o licenziare i giudici. Cfr. Johannes Vöhler, “I ‘casi polacchi’ e la giurisprudenza sullo Stato di diritto della Corte di giustizia dell’Unione europea”, Europa dei diritti e delle libertà, marzo 2022/1, n. 5.

Inoltre, recenti sentenze della Corte costituzionale hanno stabilito che la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e il Trattato sull’Unione europea sono solo parzialmente compatibili con la Costituzione polacca. Questa sfida al principio del primato del diritto dell’UE mina la struttura giuridica su cui si fonda l’integrazione europea.

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In un senso più profondo, il conflitto odierno è tra sovranità statale e sovranità istituzionale; tra il potere democratico del popolo alla base e l’imposizione del potere dall’alto da parte di una ristretta élite.

Nei duemila anni di esistenza dell’Europa, nessuno è mai riuscito a subordinare politicamente l’intero continente. Non funzionerà nemmeno oggi.

La visione di un’Europa centralizzata finirà esattamente come il concetto di fine della storia annunciato 30 anni fa. Prima ci allontaniamo da questa visione e accettiamo la democrazia come fonte legittima di potere in Europa, migliore sarà il nostro futuro.

A proposito, non c’è nessuna fine della storia. La storia accelera e porta sfide di proporzioni illimitate.

L’opposizione tra la sovranità degli Stati e quella delle istituzioni europee, tra il voto democratico del popolo e l’élite cosmopolita, riflette una concezione minimalista della democrazia, come quella difesa da Viktor Orban. Una democrazia puramente formale in cui conta solo la volontà della maggioranza espressa attraverso le elezioni, senza pesi e contrappesi, senza gerarchie di norme e senza libertà fondamentali che possano essere opposte alla volontà dei governanti che, in questa concezione della democrazia, non hanno nulla che impedisca loro di trasformarsi in tiranni.

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Purtroppo, gran parte dell’attuale élite europea opera in una realtà alternativa.

Se le élite dell’UE si ostinano a difendere la visione di un superstato centralizzato, saranno contrastate da un numero maggiore di nazioni europee. Quanto più si ostinano, tanto più feroce sarà la ribellione. Non voglio polarizzazione, divisione e caos; voglio un’Europa forte e competitiva.

4. Passiamo ora all’ultima grande questione: come può l’Europa diventare un polo importante nella corsa alla leadership globale?

Innanzitutto, le politiche dell’Unione devono cambiare. Non nella direzione di una maggiore centralizzazione e di un trasferimento di potere a poche istituzioni chiave e ai Paesi più forti, ma verso il rafforzamento dell’equilibrio di potere tra i popoli del Nord, dell’Ovest, del Centro, dell’Est e del Sud dell’Europa, e per completare l’integrazione dell’UE con i Balcani occidentali, l’Ucraina e la Moldavia, in linea con i confini geografici dell’Europa.

È necessario chiedersi: quanto seriamente prendiamo la questione della costruzione di un’Unione europea forte e influente?

Oggi l’europeismo si esprime nella visione dell’allargamento, non nell’attenzione a noi stessi e alla centralizzazione dell’UE.

Curiosamente, i Paesi che amano presentarsi come europeisti e proporre un’integrazione ad alta velocità sono allo stesso tempo i più scettici nei confronti della politica di allargamento e giocano a poker politico.

Non dovremmo parlare dei valori che uniscono l’UE dividendo l’Europa in coloro che meritano di farne parte e coloro a cui è negato l’accesso.

Un mercato comune più ampio e la diversità delle sue risorse economiche ci renderebbero un forte attore globale.

Spesso sento dire che l’UE ha bisogno di riforme per allargarsi. Molto spesso si tratta di una proposta mascherata di federalizzazione e, di fatto, di centralizzazione.

Infatti, lo slogan della “federalizzazione” è una concentrazione del processo decisionale imposta dall’alto.

Secondo gli autori di questa centralizzazione chiamata “federalizzazione”, il processo decisionale deve passare dall’unanimità alla maggioranza qualificata in una serie di nuovi settori. L’argomento a favore di questa soluzione è che sarà difficile ottenere l’unanimità di più di 30 Paesi.

È vero che è più difficile ottenere un parere unificato all’interno di un gruppo più ampio di Stati. Tuttavia, la domanda è: dobbiamo pensare che le decisioni debbano essere prese dalla maggioranza, contro gli interessi della minoranza?

Mateusz Morawiecki sostiene un riequilibrio geopolitico dell’Unione a favore degli Stati dell’Europa centrale e orientale, giustificato dalla guerra in Ucraina e dalla prospettiva (ancora molto ipotetica) di un’adesione di questi ultimi all’Unione. Questa posizione si accompagna a una messa in discussione dei progetti di federalizzazione (“centralizzazione”), come quelli avanzati da Scholz e Macron con l’idea di abbandonare il voto all’unanimità in alcuni settori – a favore di una concezione opposta, quella di un’Unione più intergovernativa, ancora una volta in nome della sovranità degli Stati nazionali, presumibilmente democratica.

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Ho un’altra proposta da fare: asteniamoci dall’invadere questioni in cui l’interesse nazionale rimane diviso. Facciamo un passo indietro per farne due avanti. Concentriamoci sui settori in cui il Trattato di Roma ha attribuito all’Unione la competenza e lasciamo che il resto sia guidato dal principio di sussidiarietà.

Da diversi decenni osserviamo il processo di “spill-over” delle competenze dell’UE in nuovi settori. In molti Stati membri viene valutato criticamente. Tuttavia, di recente ha subito un’accelerazione.

La questione della misura in cui gli Stati rimangono “padroni del trattato”, come ha detto una volta la Corte costituzionale di Karlsruhe, è ancora più rilevante oggi.

Pertanto, se l’UE vuole apportare modifiche al suo processo decisionale che abbiano legittimità democratica e permettano la fiducia reciproca, gli Stati membri devono riacquistare la loro piena autorità sui trattati.

Non possono abbandonare il potere decisionale al “quartier generale di Bruxelles” e alle “coalizioni di potere”.

In altre parole, rivediamo i settori di competenza di Bruxelles e, guidati dal principio di sussidiarietà, ripristiniamo un maggiore equilibrio. Più democrazia, più consenso, più equilibrio tra gli Stati e le istituzioni europee. Riduciamo il numero di aree di competenza dell’UE; allora l’Unione, anche con 35 Paesi, sarà più facile da navigare e più democratica.

Più centralizzazione significa più errori. È stato un errore non ascoltare le voci dei Paesi che avevano ragione su Putin. Questo dà potere a persone come Gerhard Schroeder, che ha reso l’Europa dipendente dalla Russia e ha messo l’intero continente a rischio esistenziale”.

Morawiecki si riferisce al ruolo svolto dall’ex cancelliere tedesco Gerhard Schröder che, dopo la fine della sua carriera politica, ha assunto la direzione del consorzio incaricato della costruzione del gasdotto NordStream ed è entrato nel consiglio di amministrazione della società russa Gazprom.

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Un esempio: solo pochi mesi fa, nel giugno 2021, si parlava di celebrare la riunione del Consiglio europeo con Vladimir Putin. Come se per allora non ci fosse stata alcuna azione aggressiva da parte della Russia. Dove saremmo senza l’opposizione di Polonia, Finlandia e Stati baltici? Se l’unanimità fosse stata rifiutata?

La politica estera polacca – in questo contesto – è decisa in elezioni democratiche dai cittadini polacchi – persone per le quali un vicino aggressivo è un problema reale. Non si tratta di persone che vivono a migliaia di chilometri di distanza e che vedono la Russia solo attraverso il prisma delle opere di Pushkin, Tolstoj o Tchaikovsky.

Oggi non basta parlare di ricostruzione dell’Europa. Dobbiamo parlare di una nuova visione dell’Europa. In modo che la pace e la sicurezza diventino le basi sostenibili dello sviluppo nei decenni a venire.

Se gli ultimi mesi possono essere considerati un successo, è certamente grazie alla cooperazione nel campo della sicurezza.

La cooperazione transatlantica e la NATO in particolare hanno dimostrato di essere la più efficace alleanza di difesa disponibile. Senza il coinvolgimento degli Stati Uniti e – forse – della Polonia, l’Ucraina oggi non esisterebbe.

La NATO, che presto sarà rafforzata dall’adesione di Finlandia e Svezia, è essenziale per la sicurezza dell’Europa. Deve essere rafforzata e sviluppata. Allo stesso tempo, dobbiamo sviluppare le nostre capacità di difesa. Questo è ciò che sta facendo la Polonia. Stiamo costruendo un esercito moderno, non solo per difenderci, ma anche per aiutare i nostri alleati. Stiamo spendendo fino al 4% del PIL per la difesa, il che è possibile solo grazie alle riparazioni delle finanze pubbliche dopo i buchi lasciati dai nostri predecessori. E proponiamo che la spesa per la difesa non sia inclusa nel criterio del Trattato di Maastricht che prevede un limite del 3%.

L’Europa si è disarmata; oggi non ha le munizioni e le armi di base per rispondere all’invasione russa. Per non parlare di altre minacce che potrebbero sorgere altrove.

Il mio augurio per i Paesi europei è di essere così forti militarmente da non aver bisogno di aiuti esterni in caso di attacco, ma di poter fornire supporto militare ad altri.

Oggi non è così. Senza il coinvolgimento americano, l’Ucraina non esisterebbe più. E il Cremlino sarebbe passato alla sua prossima vittima.

Durante la “distensione” degli anni Settanta sono stati commessi molti errori. Quell’epoca finì con l’invasione sovietica dell’Afghanistan. L’Occidente reagì correttamente. Questa volta, l’aggressione russa degli ultimi 20 anni non ha destato altrettanta preoccupazione. La sobrietà è arrivata tardi, il 24 febbraio 2022.

Ora, 4.1 cosa serve ancora per rafforzare la posizione dell’Europa?

Tutti ricordiamo lo slogan della campagna elettorale di Clinton: “È l’economia, stupido!”.

All’epoca, quasi tutti credevano che il denaro fosse un rimedio universale.

Anche in Paesi come la Russia e la Cina, il denaro avrebbe aiutato a sviluppare la classe media e a democratizzare la vita pubblica.

Le cose sono andate diversamente. Oggi sappiamo che l’economia deve andare di pari passo con i desideri sociali e le esigenze di sicurezza.

Molti dei problemi dell’Europa moderna derivano dalla frustrazione dei giovani, le cui prospettive future spesso non sono all’altezza di quelle dei loro genitori. La classe media si sta erodendo in tutta Europa. Un mondo in cui l’1% più ricco accumula più ricchezza del restante 99% è scandaloso. Ed è quello che sta accadendo oggi.

I paradisi fiscali, che sarebbe più corretto chiamare “inferni fiscali”, stanno derubando la classe media e i bilanci pubblici di Germania, Francia, Spagna e Polonia.

La forza dell’Europa deriva principalmente dalla sua base più solida, la sua robusta classe media. La convinzione che la prosperità e la crescita possano essere condivise non solo da un gruppo di ricchi, ma dall’intera società, è stata la forza trainante dello sviluppo occidentale fin dagli anni Cinquanta.

Purtroppo, questa convinzione sta scomparendo e le disuguaglianze stanno aumentando. Questa situazione è molto pericolosa perché, da un lato, rafforza i movimenti radicali che chiedono la distruzione dell’attuale struttura economica e politica. Dall’altro, scoraggia il lavoro e lo sviluppo.

Dobbiamo invertire questo processo. Perché rischiamo di perdere la corsa a favore dei nostri concorrenti, civiltà incallite e intransigenti che organizzano le relazioni sociali ed economiche in modo diverso.

Il nostro compito di politici è quello di garantire a tutti una vita onesta. Il mercato del lavoro europeo deve offrire salari dignitosi, facilitare l’ingresso dei giovani nella vita lavorativa e dare loro un senso di stabilità.

Dobbiamo anche creare le migliori condizioni possibili per la creazione di famiglie. Allora l’Europa avrà un futuro luminoso. Le famiglie ben funzionanti sono la base per una vita sana, felice e stabile.

Dobbiamo anche evitare che l’Europa diventi dipendente da altri. La cooperazione con la Cina è una grande sfida. È un Paese enorme con grandi ambizioni. L’Europa deve, come minimo, essere su un piano di parità con la Cina, il suo partner. La dipendenza dalla Cina è una strada che non porta da nessuna parte. È un obiettivo che l’Europa deve cercare di raggiungere con urgenza. Oltre alla vittoria dell’Ucraina, questa è un’altra grande sfida per gli anni a venire.

Non esistono errori che non possano essere corretti, almeno in parte. Quando sento che il nostro governo ha avuto ragione su Russia e Ucraina, sono soddisfatto. Ma scambierei volentieri anche il più grande senso di soddisfazione con la volontà europea di combattere.

Per una volontà politica ancora più forte – di continuare a sostenere l’Ucraina. E per la volontà di confiscare 400 miliardi di euro di beni russi. Congelarli non è sufficiente. La Russia deve rispondere dei suoi crimini e della distruzione materiale che ha causato. I brutali aggressori devono sapere che prima o poi il loro Paese pagherà per le perdite causate dalla violenza.

Oggi rivolgo un nuovo appello a tutti i leader europei: è tempo di confiscare i beni russi in modo totale e permanente. Ricostruire l’Ucraina e ridurre i costi energetici per i cittadini europei.

L’Europa è molto più forte della Russia. Ma oltre al nostro potenziale, dobbiamo avere la volontà di usarlo. Se lasciamo che la Russia vinca questa guerra, rischiamo di non perdere solo l’Ucraina. Rischiamo di emarginare l’intero continente.

La conclusione di fondo è semplice. Nel mondo contano solo i Paesi forti, efficienti e sicuri di sé. Putin ha attaccato l’Ucraina perché vedeva gli europei esausti, deboli e inattivi. Un anno dopo, vediamo che si sbagliava. Almeno in parte.

L’Europa non è ancora morta, finché vivremo. Ma non è ancora vittoriosa.

Il riferimento è all’inno nazionale polacco: “Jeszcze Polska nie zginęła, kiedy my żyjemy” (“La Polonia non è ancora morta, finché viviamo”).

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Signore e signori, all’inizio ho ricordato che anche molti polacchi si sono laureati all’Università di Heidelberg: medici, avvocati, filosofi. Uno di loro era il nostro grande poeta, Adam Asnyk. Nella primavera del 1871, proprio nel momento in cui stava nascendo la Germania unificata, anche Asnyk sognava di far rinascere una Polonia indipendente. Capì che i grandi compiti potevano essere portati a termine solo attraverso un lavoro paziente e sistematico, grazie allo sforzo collettivo di tutta la comunità. Scrisse:

“Disprezzate sempre la vana gloria trionfale,

non applaudire l’oppressore violento

Non venerate l’abbondanza delle vostre sconfitte,

né vantatevi di essere sempre piccoli”.

L’Europa deve dimostrare la sua forza e il suo valore. Questo è il nostro momento di “essere o non essere”. Ma, a differenza dell’Amleto di Shakespeare, non possiamo esitare. Nel 1844, quando la Germania assomigliava ancora alle rovine del castello di Heidelberg – imponente ma incompleto – il poeta tedesco Ferdinand Freiligrath ammoniva: “Deutschland ist Hamlet! I tedeschi esitano troppo invece di prendere una posizione chiara dalla parte del bene”.

Giovanni Paolo II è stato uno dei principali sostenitori dell’unificazione europea. Ha svolto un ruolo chiave nella liberazione delle nazioni europee. E insieme al suo grande successore tedesco, Benedetto XVI, questo singolare duo tedesco-polacco è stato una voce importante per il futuro dell’Europa – la sua direzione, la sua cultura e la sua civiltà.

Infine, permettetemi di riassumere le quattro questioni principali che sono state oggetto del mio discorso.

1. In primo luogo, non possiamo costruire il nostro futuro senza imparare dal nostro passato. La storia dimostra che una politica che non rispetta la sovranità e la volontà del popolo prima o poi si dissolve in utopia o dittatura. L’Europa ha un futuro luminoso se rispetta la diversità delle sue nazioni.

2. In secondo luogo, il futuro dell’Europa è determinato dalla lotta dell’Ucraina per la libertà e dal nostro sostegno. È nostro dovere sostenere l’Ucraina. Lo spirito combattivo degli ucraini deve essere una fonte di ispirazione e una guida per le nostre azioni.

3. In terzo luogo, una comunità democratica di nazioni, basata sull’eredità greca, romana e cristiana, che promuove la pace, la libertà e la solidarietà, è il fondamento dei valori europei. Questi valori hanno costituito la base dell’integrazione europea e possono continuare a essere la forza trainante del continente.

Ciò che minaccia di minare queste forze è la centralizzazione. Il dominio del più forte e l’affidamento arbitrario del futuro dell’Europa a una burocrazia senza cuore, che sta cercando di “resettare i valori”. Questo “reset”, cioè l’accentramento burocratico sotto l’apparenza della “federalizzazione”, è il seme dei grandi conflitti e delle ribellioni sociali che verranno.

4. In quarto luogo, se l’Europa vuole vincere la corsa alla leadership globale, deve trasformarsi. Deve essere pronta ad accettare nuovi Paesi ma anche, di fronte a una comunità più ampia, a limitare alcune delle sue competenze.

Di fronte alle minacce esterne, deve rafforzare le proprie capacità difensive. Di fronte alle sfide economiche e sociali, deve costruire una prosperità egualitaria e ordoliberale e lottare contro gli inferni fiscali mascherati da paradisi fiscali.

L’Europa deve mantenere alleanze solide, ma deve anche promuovere la propria indipendenza e non diventare vittima di ricatti energetici o economici.

Un tempo l’Europa era il centro del mondo, rispettata in tutti i continenti. Ci interessa ancora la sopravvivenza dell’Europa e della nostra civiltà? E non solo se sopravviveranno, ma in quale forma? Abbiamo la volontà di essere leader? O forse abbiamo già accettato di fare da secondo piano? Abbiamo il coraggio di far tornare grande l’Europa? Di rendere l’Europa vittoriosa?

Io credo di sì.

L’Europa ha un grande potenziale. Esso deriva dalla sua storia e dal suo patrimonio, ma oggi si estende alle sue innumerevoli qualità e vantaggi. L’Europa ha bisogno di determinazione e coraggio.

E sono profondamente convinto che se lavoreremo duramente – a nome delle nostre rispettive patrie e del continente nel suo complesso – l’Europa vincerà.

In conclusione, questo è il discorso di un capo di governo polacco la cui posizione nel gioco politico europeo sembra essere stata temporaneamente rafforzata dalla nuova situazione aperta dalla guerra in Ucraina.

Lo scoppio della guerra ha convalidato il punto di vista tradizionalmente diffidente del PiS nei confronti della Russia. La richiesta di un riequilibrio dei rapporti di forza tra gli Stati europei a favore dell’Europa centrale, e in particolare della Polonia, non nasconde il timore di un “accordo” tra i leader europei (guidati da Macron) e Putin, che ricorderebbe ai polacchi il “tradimento di Yalta”. Questo timore di vedere i Paesi dell’Europa centrale e orientale relegati ai margini e sacrificati a vantaggio delle potenze occidentali e russe dovrebbe farci interrogare sulla natura della costruzione europea e sul modo in cui essa integra questa periferia centro-orientale, che vi ha aderito quasi vent’anni fa. Per liberarci da una visione geopolitica ereditata dalla Guerra Fredda, dovremmo prendere sul serio le aspirazioni sovrane delle nazioni poste tra la Germania e la Russia. Questo è l’aspetto più rilevante, ma anche il più inquietante, del discorso di Morawiecki. Ciò non significa, tuttavia, che si debba aderire all’ideologia nazionalista, conservatrice, familista e nativista dell’autore, che è evidente in questo testo. È dubbio che il governo polacco sarà in grado di unire un’ampia coalizione di Stati europei attorno a un’agenda politica di questo tipo. Resta il fatto che l’attuale governo polacco si oppone fermamente a qualsiasi progresso verso un’Europa più federale e potrebbe coalizzare l’opposizione a tale processo, che riflette ancora una volta una certa paura di essere relegati in un’Europa a più velocità.

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L’Europa sarà vittoriosa!

Grazie per l’attenzione.

https://legrandcontinent.eu/fr/2023/03/26/le-projet-europeen-de-la-pologne/

Politiche UE e Interessi Nazionali Italiani, di Piergiorgio Rosso

Politiche UE e Interessi Nazionali Italiani (di Piergiorgio Rosso)

 

In questo inizio d’anno sono emerse tutte insieme all’attenzione della cronaca italiana numerose decisioni dell’UE relative alla svolta energetica e ambientale. Il denominatore comune è: de carbonizzazione. Produzione di elettricità unicamente da fonti rinnovabili, riconversione dell’industria automobilistica alla produzione di veicoli a batteria, incremento della classe energetica degli edifici residenziali e non, riconversione dell’industria agro-alimentare con abbandono progressivo degli allevamenti di ovini, suini e bovini.

 

Nel merito della questione de-carbonizzazione abbiamo già preso posizione più volte in questo blog, ad esempio qui e qui. In questa nota ci concentreremo su alcuni aspetti delle prese di posizione dell’attuale governo italiano nei confronti delle summenzionate proposte UE.

 

Nel merito tecnico è difficile contestare la correttezza degli argomenti utilizzati. Esaminiamoli brevemente e sinteticamente uno per uno.

 

Veicoli a batteria (BEV) vs. bio-combustibili: fintantoché l’elettricità non sia prodotta al 100% da fonti rinnovabili anche l’utilizzo di BEV comporta emissioni. Al raggiungimento eventuale ….  molto eventuale … di questo obiettivo, l’estrazione e la raffinazione dei metalli necessari per le batterie comporterà continue emissioni aggiuntive. D’altra parte i bio-combustibili già da ora dovrebbero essere considerati “neutrali” in quanto la loro combustione emette la stessa quantità di CO2 precedentemente inglobata dalla biomassa attraverso la fotosintesi.

 

Classe energetica degli edifici: obbligare tutti alla medesima classe energetica – espressa in kWh al m2/anno – non ha molto senso. Le sensibili differenze climatiche fra Europa del nord e del sud fanno sì che anche con una classe energetica inferiore, le emissioni effettive annue di una residenza/ufficio da Roma in giù, possano essere minori di quelle di un edificio di classe superiore da Amburgo in su.

 

Eliminazione degli allevamenti intensivi: dal punto di vista delle emissioni ogni animale emette tanto carbonio quanto precedentemente catturato dall’atmosfera dalla biomassa di cui si ciba.

 

Ma allora se le argomentazioni tecniche sono a favore della posizione espressa dai ministri italiani, come mai queste non prevalgono? Chissà forse c’entra la Politica nel senso lagrassiano del conflitto fra nazioni per la supremazia. Certo qui in Europa non parliamo certo di poteri globali in alcuna sfera, ma più limitatamente e prosaicamente alla supremazia per la distribuzione dei sussidi UE (che sono poi risorse messe a disposizione dalle nazioni secondo certe quote e poi redistribuite internamente secondo …. i rapporti di forza). E che la Germania stia indirizzando queste risorse verso i suoi interessi nazionali, appare evidente ai più.

 

Per gli interessi nazionali italiani non c’è molto spazio fintantoché i ministri non costruiscano dal nulla esistente, una rete di funzionari lobbisti abili almeno quanto quelli tedeschi e francesi. Temiamo però che anche in questo caso non otterremmo soddisfazione. Una nuova classe dirigente non dovrà essere solo abile nelle trattative tra Commissione, Consiglio e Parlamento europei, ma dotata di una ben radicata autonomia ideologica rispetto ad una UE ancora concepita prevalentemente, sia a destra che a sinistra, come il luogo dove si prendono le decisioni.

 

Occorre prima sapere esercitare un confronto autonomo bilaterale fra nazioni, per noi soprattutto Francia e Germania, ristabilendo la corretta gerarchia degli interessi e dei poteri (sempre relativi perché siamo comunque tutti vassalli degli USA).

 

Per ora accontentiamoci della possibilità che le stesse recenti decisioni UE in materia energetica ed ambientale – con il protagonismo assoluto del vice presidente Timmermans – contribuiscano ad alzare il velo a livello di massa sulla reale e sottostante natura nazionalistica delle sue decisioni.

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