Khashoggi, il buono e il cattivo_di Giuseppe Germinario

La sparizione e la probabile morte del saudita Jamal Khashoggi a Istanbul ha provocato una vera e propria indignata sollevazione di scudi. La Turchia in questi mesi ha conosciuto altri eventi drammatici che hanno riguardato diplomatici, nella fattispecie l’uccisione dell’ambasciatore russo; ha vissuto tragici attentati, un tentativo di golpe e una drastica conseguente epurazione di decine di migliaia di funzionari pubblici e giornalisti che hanno rafforzato il pieno controllo politico di Erdogan sul paese. In Arabia Saudita, d’altro canto, paese componente e sino a pochi mesi fa posto senza remore alla presidenza del Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU, il confronto politico prevede da sempre, nella gamma delle modalità, la liquidazione fisica degli avversari ed altre amene trivialità; in un paese dove la pena di morte, le punizioni corporali e il controllo capillare sono connaturati al regime integralista sin dalla nascita. A conferma che queste pratiche non risparmiano nessuno il recente attacco sanguinoso con fucili di assalto nel palazzo del Principe Selmani prontamente censurato.

Da questa plumbea normalità il caso Khashoggi è emerso con grande clamore rimbalzando in tutto il mondo.

Il paladino della democrazia, il giornalista militante della libera informazione vittima della crudeltà triviale del Principe Saudita oscurantista e paranoico. In un mondo così confuso finalmente un chiaro discrimine tra il buono e il cattivo così in voga nella narrazione cinematografica.

Una nobile indignazione colta ed alimentata da quella grande stampa che negli ultimi anni pare aver spento ogni spirito critico e ogni precauzione alla manipolazione dei fatti.

Ma siamo proprio sicuri di trovarci ad un atto di redenzione sia pure tardivo?

Proviamo a porci e porre qualche domanda.

Come mai Erdogan, sino a pochi giorni fa presentato come il grande affossatore della libertà di stampa, il fustigatore di decine di giornalisti, l’epuratore per antonomasia assurge improvvisamente agli stessi occhi dei fustigatori di un tempo al ruolo di dispensatore della verità e di giudice della barbarie saudita? Eppure sono stati i turchi ad avvertire i sauditi del prossimo arrivo di Khashoggi a Istanbul; dicono di avere prove schiaccianti e filmati del barbaro assassinio, ma tardano ad esibirle. La stessa presenza di filmati, se confermata, confermerebbe piuttosto l’esistenza di una quinta colonna nel drappello saudita incaricato della missione. In operazioni analoghe i sauditi hanno per altro dimostrato ben altra perizia con il trasbordo forzato in madrepatria della vittima designata.

Come mai la testa dello schieramento dei partigiani della verità e della democrazia è fermamente e tempestivamente presidiata, tra gli altri del medesimo campo, da John Brennan, ex capo della CIA ai tempi di Obama, grande artefice delle primavere non solo arabe e del grande caos in Medio Oriente e dal Washington Post, giornale ormai ridotto a mera cassa di risonanza partigiana dell’establishment sconfitto alle elezioni presidenziali americane. Figure ormai poco attendibili e credibili per questo genere di proclami e di campagne.

Come mai il martire Khashoggi è stato unanimemente presentato come fine giornalista e scrittore e come paladino della democrazia liberale quando il suo curriculum è ben più nutrito e abbraccia un campo di interessi e di interventi ben più vasto e rilevante. La figura del giornalista, purtroppo non è più così ben definita. Il confine tra il ruolo di giornalista, quello di informatore e di agente sta diventando labile. La scena indecoroso fferta a Tripoli da buona parte degli addetti nel 2011 è rivelatrice di una insana commistione. Nel caso di Khashoggi per altro sembrano esserci pochi dubbi. Negli anni ’80 lo vediamo impegnato a buoni livelli nella resistenza jihadista in Afghanistan; successivamente lo si vede in contatto stretto con Al Qaida e con Bin Laden al punto da essere indicato dai sauditi come mediatore di una possibile riconciliazione del capo qadista con la famiglia saudita; ancora dopo lo si vede tra i sostenitori e simpatizzanti dei Fratelli Musulmani, notoriamente sostenuti e finanziati dall’emiro del Qatar e dai Turchi e ormai da tempo scaricati dai sauditi, dopo le fallimentari prove offerte in Egitto e in Libia. Obama e il suo cerchio magico aveva notoriamente riposto in essi le maggiori speranze di successo di un ribaltamento dei regimi in Medio Oriente. Da qui il suo impegno in Siria a favore dei “ribelli moderati”, almeno nelle sigle. La democrazia rivendicata da essi e dallo stesso Khashoggi, a leggere con attenzione i suoi testi, non era altro che un tentativo di imporre un diverso regime, alternativo al modello wahabita dei Saud, ma pur sempre nettamente integralista. Quanto alla sua visione geopolitica è sufficiente sottolineare la sua conclamata omologazione del Principe Selman alla figura altrettanto nefasta di Putin. Per ultimo Khashoggi è stato per anni segretario del capo dei servizi segreti sauditi, Principe Suleiman, acerrimo avversario del Principe Selman, attualmente capo di fatto della casa saudita. Negli ultimi tempi il giornalista, entrato nelle grazie di Obama, è apparso sempre più distante ed estraneo ai giochi interni alla casa saudita e sempre più legato alle trame dei servizi angloamericani. Lo stesso era addirittura in predicato di diventare uno dei capi all’estero di una eventuale rivoluzione d’Arabia che prevedeva il controllo diretto da parte americana dei pozzi di petrolio e l’instaurazione di un nuovo regime che spodestasse i Saud. Un progetto per il momento naufragato con lo stallo in Siria e l’elezione di Trump alla Casa Bianca.

Il caso Khashoggi in realtà si sta trasformando in un’occasione e uno strumento da brandire da parte dei vari attori dello scacchiere geopolitico mediorientale e delle due fazioni in lotta negli Stati Uniti. Può servire ad Erdogan per ottenere un qualche salvacondotto nella politica di sanzioni all’Iran, visto il suo vitale interscambio commerciale con esso. Può servire a ridurre a patti e a ridimensionare il peso geopolitico del Principe Selman ed indebolire quindi il suo patto di ferro con Trump ed Israele e di conseguenza a ricucire il rapporti di Erdogan con i due schieramenti negli USA. Sarebbe in proposito interessante analizzare le linee di condotta Russa e Cinese nell’eventualità di un nuovo giro di valzer turco. Per la prima volta Trump appare stretto in un cul di sac, obbligato a due scelte alternative altrettanto costose: sostenere il maldestro Bin Selman e con questo rendersi complice di un comportamento efferato; scaricarlo e con questo mettere in discussione la triplice alleanza con i sauditi e Israele; il perno della attuale politica americana in Medio Oriente.

In realtà la componente wahabita più integralista, quella stessa osteggiata dal Principe Selman, potrebbe essere quell’avversario ancora più spietato e determinato, interessato a liquidare il “giornalista” troppo vicino ai Fratelli Musulmani e agli americani. Il temporaneo sodalizio di questa con il sultano turco e la sua simbiosi con la componente democratica-neocon americana potrebbe essere il trio diabolico più interessato a liquidare e sacrificare “il paladino della democrazia” addebitandone la responsabilità al Principe saudita di fatto reggente. L’improvvisa prudenza con la quale Erdogan in queste ore sta affrontando l’affaire lascia margini alla fantapolitica. Potrebbe essere la scappatoia che consentirebbe a Trump di uscire dalla trappola e di ribaltare sulle spalle altrui il dilemma; in questo, ancora una volta, sarà importante il lavoro sotterraneo di Israele, ben presente nei tre paesi principali di quell’area.

Intanto l’Arabia Saudita ha improvvisamente aumentato i volumi di produzione del petrolio; ci sarà da attendersi una pressione dei prezzi al ribasso. Russia e Stati Uniti sono avvertiti.

Ci attende un mondo sempre più complicato e dalle apparenze ingannevoli dove i buoni, in realtà, possono rivelarsi ben peggiori dei cattivi.

LA SOLUZIONE PER LA SIRIA E’ IN VISTA, MANCA SOLO UN MEDIATORE. O FORSE TRE, di Antonio de Martini

LA SOLUZIONE PER LA SIRIA E’ IN VISTA, MANCA SOLO UN MEDIATORE. O FORSE TRE.

Il professor Jeffrey Sachs della Columbia University ha rotto il fronte dei Think Tank americani rilasciando una pacata intervista alla MSNBC in cui dichiara di aver ben spiegato, sette anni fa, al Presidente Obama che la situazione siriaana era tale da non permettere la riuscita di un ” regime change” in Siria.

Adesso, ” dopo mezzo milione di morti e dieci milioni di profughi” il professore ribadisce il concetto e invita Trump a fare quel che ” istintivamente aveva capito” cioé a ritirare dalla Siria i 2.200 uomini che si trovano ” nel terzo orientale” del paese e rinunziare al cambio di regime voluto da Obama e Clinton.

Il ritiro é inevitabile, specie non appena sarà caduto, senza l’ecatombe prospettata dalla stampa, IDLIB, l’ultimo bastione su cui sventola la bandiera della ribellione. La Siria avrà truppe sufficienti per riprendere il controllo di tutte le sue frontiere.

L’accordo per creare un ” buffer zone ” ( zona cuscinetto) tra Putin e Erdogan è stato il primo passo per diminuire la pressione ed evitare scontri su iniziativa di comandanti minori. IDLIB non può resistere al prossimo inverno e questo lo sanno tutti. Siamo dunque agli sgoccioli.

Lo si evince anche dai comunicati sempre più stizziti dei “media da combattimento” USA impegnati a descrivere una utilità delle truppe americane che nessun altro nota.

Il Consigliere per la sicurezza della Casa Bianca, John Bolton ha presentato le condizioni della resa: parlando a un uditorio di iraniani residenti negli USA, ha detto che le truppe americane resteranno in Siria ” fintanto che in quel territorio ci saranno truppe e milizie iraniane”. In pratica propone un ritiro bilanciato dei contendenti dal campo di battaglia.

Rouhani, anche lui negli USA per partecipare all’Assemblea dell’ONU, ha fatto rispondere a denti stretti che ” L’Iran non si farà condizionare da terze parti nel suo appoggio alla Siria”.

Nel linguaggio orientale, significa che è disponibile a trattare, ma non direttamente con gli USA. Cercasi mediatore accettabile da tutte le parti in causa.

La reazione israeliana non si è fatta attendere e sta cercando di accreditare un Rouhani in avvicinamento al Presidente iraniano Ali Kamenei, mostrato come l’estremista da cui gli USA devono guardarsi. E’ falso.

Difficile per Putin offrirsi come mediatore dato che è parte in causa, ma indispensabile che la Russia accetti e colabori con una figura di mediazione gradita.
Una coppia , uno per parte, sarebbe una buona soluzione, dato che ha già fatto le sue prove disinnescando la bomba di Idlib.

Forse è per questo che Erdogan, dopo l’assemblea ONU – alla quale partecipa – domenica volerà a Berlino per incontrare la Cancelliera Merkel.

Lui cerca di rassicurare i mercati, gli alleati NATO e gli investitori esteri tentennanti ( tedeschi?) e lei cerca di rinverdire il blasone appannato da anni di governo pacioso in un mondo turbolento e porre autorevolmente la sua candidatura alla presidenza della Commissione UE, liberando al contempo Trump dal sospetto di un accordo diretto con la Russia.
Tra un mese gli USA hanno le elezioni di mezzo termine.

MORIRE PER IDLIB?, di Antonio de Martini

MORIRE PER IDLIB?

Idlib é un paesotto – censimento del 2004- inferiore a centomila abitanti a cinquecento metri di altezza e a meno di 60 km a sud di Aleppo.

Diciamo che con il tempo e i rifugiati sia salita a centosessantamila ed ora è raddoppiata.

Già , ricordate il can can per Aleppo ?
Il servizio di propaganda israelo-americano insiste nella ripetizione del ritornello già usato per Aleppo, ricordate? sembrava la Danzica del nuovo secolo.

Alti lai, minacce ripetute, timore di stragi di innocenti bambini, con il coro di tutte le ONG felici di poter distrarre i sovventori dalle inchieste per abusi sessuali ed uso dei fondi a fini di prostituzione in cui sono invischiate.

Anche per Aleppo si sono inventati i numeri e li hanno strombazzati ai quattro venti. La gente non si commuove più per gli adulti? Si citano i bambini che sulle mamme fanno sempre effetto.
Sono stufi di morti e non seguono più? Minacciamoli con tre milioni di nuovi profughi.

Quattro milioni di rifugiati in sette anni da tutta la Siria e tre milioni in un anno concentrati in una cittadina grande quanto Bologna ? La geografia non la studiano più nemmeno in USA o Israele…

In questi giorni Israele , sta osando più di tutti e ha effettuato due incursioni aere ravvicinate colpendo due depositi di munizioni. Tutto, pur di impedire o ritardare il più possibile una azione militare governativa di successo .

I motivi di tanto accanimento propagandistico e politico sono tre. Due importanti e uno importantissimo.

a) se viene liberata Idlib , finisce la guerra e finisce il salasso di uomini e mezzi sia degli iraniani che dei russi, mentre l’idea è di condurre la guerra in parallelo con quella Afgana che è entrata nel diciassettesimo anno e che i russi riforniscono.

b) Fino a che Idlib resta in bilico, resta in bilico anche la delicata posizione politica turca cui fu fatto balenare il miraggio di un incremento territoriale sulla direttrice Alessandretta- Mossul. Finito anche quello, ci sarebbe un ancor più deciso irrigidimento di Erdogan verso gli USA.

c) Più i siriani sono impegnati nel Nord, alla frontiera turca, più restano – così sperano a Tel Aviv – lontani dalla frontiera israeliana che è la vera, comprensibile , preoccupazione degli israeliani e anche degli USA. Hanno fatto un sito ” southfront” che inonda di notizie guerresche che fissano l’attenzione su qualsiasi movimento NON si svolga alla frontiera israeliana.

Con un esercito siriano ( ed Hezbollah) collaudati da una campagna lunga e difficile e una intera frontiera siriana e libanese da sorvegliare ( senza contare Gaza e il sempre possibile contagio giordano) devono essere mobilitate almeno due brigate e i civili israeliani danno segni crescenti di stanchezza per i continui richiami, per l’incertezza di vita nelle zone di frontiera e per i rallentamenti economici procurati dai riservisti di terra e di cielo.

I CURDI: UN POPOLO CONTROTENDENZA, di Antonio de Martini

I CURDI: UN POPOLO CONTROTENDENZA

I Curdi non hanno mai avuto uno stato, perché non l’hanno mai voluto.
Sono nomadi e grazie al nomadismo difendono il loro stile di vita.
Quando vessati, emigrano in uno dei quattro stati di cui occupano una porzione ( Iran, Irak, Siria e Turchia).

Il nomadismo, ne ha spinte frazioni fin verso est – in Armenia- e ovest – in Libano.
Nessuno sa quanti siano, ma tutti si sbizzarriscono a dare i numeri che variano da 15 a 30 milioni a seconda della convenienza politica dei valutatori.

Il crocevia del vicino oriente si trova a est della Mesopotamia ed è abitato nell’altipiano dai curdi.
Vengono definiti ” una popolazione Indo europea” che vuol dire che non sono semiti come gli arabi e gli ebrei.

Quando il XIX secolo e la scoperta del petrolio incitarono gli europei al ” divide et impera” , furono scoperti e valorizzati dai tedeschi prima, dai russi poi ed infine dagli israeliani – in cerca di appoggi anti arabi.

Fatalmente se ne interessarono gli americani.

La tecnica è sempre la stessa: vivendo di preda, come ogni nomade che si rispetti, si lasciamo volentieri armare, sono bravi combattenti e appoggiano ogni causa che possa dare gloria e guadagno.

Iil più grosso sforzo per sedentarizzarli lo fece lo Scià Reza, padre dell’ultimo regnante di Persia, ma la possibilità di spostarsi in uno dei paesi vicini, li ha sempre protetti.

A turno hanno combattuto contro ognuno dei paesi ospitanti. Contro i turchi, paese NATO su commissione dell’URSS . Resta il ricordo del vecchio El Barzani che girava il paese ( nella zona persiana) nel 1944 in uniforme da generale sovietico.

Hanno ripreso le armi contro i turchi, ma su mandato siriano, quando la Turchia varò il piano agricolo dell’est costruendo molte dighe ( 30) minacciando di ridurre oltre il 40% del gettito dell’Eufrate.

Il rapporto con gli israeliani, iniziato in funzione anti irachena ed ereditato poi dagli USA ha prodotto anche cocenti delusioni per via degli stop and go ( specie nel 1991) e dei finanziamenti a singhiozzo che seguivano l’andrivieni degli interessi USA.

Una qualche stabilità sembra essere stata trovata
grazie alla lunghezza del conflitto siriano e della riluttanza israeliana e americana a intervenire direttamente con truppe proprie.

Attualmente, il paese con cui sono in pace è l’Iran col quale dividono la struttura della lingua, benché – secondo la narrativa USA dovrebbero essere in frizione in quanto sunniti, quello col quale brigano per ottenere ” l’indipendenza” ( o forse una forma di autonomia molto spinta) è l’Irak. Su questo tema, il 25 settembre prossimo terranno un referendum.

Con i turchi esiste un residuo di guerra ex URSS gestito dal PKK ( partito curdo dei lavoratori) e da Abdullah Ocalan che tutti conosciamo per essere stato consegnato ai turchi da un altro avanzo del comunismo questa volta italiano. La nuova guerra anti turca si svolge sotto le mentite spoglie della guerra all’ISIS, in realtà si disputano i villaggi di frontiera siriani.

Coi siriani esiste uno stato di pace, di guerra e di cooperazione ad un tempo: cooperano per difendere i villaggi curdi dall’ISIS e dai turchi che cercano di penetrare in territori siriani. Cooperano anche con gli USA per mantenere viva la leggenda dell’esercito libero siriano.

Non si tratta di incoerenza, bensì di residui di lealtà personale acquisiti negli anni dai vari capi clan. Coi siriani ci si arrangia comunque. Coi turchi, no.

Su tutti troneggiano le due famiglie egemoni da sempre: i Talabani che dominano la capitale Sulmenya e i Barzani che comandano a Erbil.

Il presidente iracheno è Talabani che come presidente della Repubblica deve difendere l’unità del paese e come Talabani, l’indipendenza del kurdistan.

La chiave di lettura della intera vicenda è che i curdi, in realtà detestano il centralismo e lo combattono. Loro stanno sugli altopiani e gli arabi in pianura. Perché obbedirgli?

Crediamo che combattano per la democrazia, sconosciuta da queste parti, e ci stanno simpatici perché le foto delle soldatesse curde sono tutte belle.

Sfido, sono modelle israeliane per la propaganda pagata dallo zio Sam.

TRUMP E ERDOGAN: PRIMO INCONTRO IN AMBITO N.A.T.O. DOPO IL FALLITO GOLPE, di Antonio de Martini

TRUMP E ERDOGAN: PRIMO INCONTRO IN AMBITO N.A.T.O. DOPO IL FALLITO GOLPE.

Ahmet Insel, gia titolare di cattedra alla Sorbona e editorialista di Cumhurriet, ha finalmente ammesso quel che scrivo da quattro anni: Erdogan è – mutatis mutandis- il nuovo Ataturk.

Ha vinto la sfida interna, sconfiggendo i golpisti e i seguaci di Gulen, ha sfidato gli USA, uscendone indenne e
adesso ruba la scena a Trump alla riunione NATO nella sua prima uscita estera dopo la rielezione.

Tutti gli analisti guardano a lui e liquidano le ingiunzioni del presidente USA, che è gia pronto ad offrire i saldi di stagione, agli alleati che ormai lo guardano con la preoccupata compassione riservata ai ripetitori di poesiole già logorate dalla Corea che resta nucleare.

Mezza Asia è intervenuta alla cerimonia di insediamento del “very powerful president” e poco contano gli assenti.
La Turchia assume sempre più i propri connotati asiatici e riesuma il passato che Ataturk aveva rinnegato per marciare verso l’Europa.

Il più grande scrittore Kirghiso, Cenghiz Aytmatov, – il terzo scrittore più letto al mondo con 70 milioni di copie vendute, amico e consigliere di Gorbaciov- viene commemorato ufficialmente da tutta la Turchia che gli ha dedicato l’intero l’anno 2018.

Ecco un avvicinamento in più tra russi e turchi, visto che Aytmatov era cittadino sovietico ( e ambasciatore URSS presso la NATO) e che oltre che in Kirghiso ha scritto in lin lingua russa.

In vista del suo primo incontro con Erdogan dopo il tentato golpe di ispirazione USA, Trump ha ostentato disinteresse per la sorte della NATO con l’intento di attutire il potere contrattuale di Erdogan, ma, in realtà, preoccupa solo se stesso. Erano anni che il massimo rappresentante USa non partecipava a un vertice N.A.T.O. e questa presenza suona smentita alle dichiarazioni fatte.

Il presidente USA, credendo di intimidire i turchi rimbrottando gli europei, si è inimicato l’intera UE e anche questo non mi pare un successo.

Il metanodotto verso l’Europa si farà, diminuendo il potere contrattuale dell’Ucraina verso la Russia e il 4% di spese per la Difesa non finiranno nelle tasche dei committenti del presidente USA che vuole gestire il mondo come fosse un condominio del New England e noi dei fornitori da spremere.

NOTA: questo post è stato aggiornato.

 

PERCHè ODIANO ERDOGAN. PERCHè NON DEVONO PASSARE, di Antonio de Martini

PERCHE ODIANO ERDOGAN. PERCHE’ NON DEVONO PASSARE.

A causa delle bizze fatte in sede di spartizione delle future spoglie della Siria, Erdogan è diventato persona non grata a Americani della CIA e a tedeschi, incaricati di gestire il problema per conto NATO.

La prima scelta fu di “correggere il discolo”, facendogli capire che l’accesso all’Europa dipendeva dal loro benvolere.

La seconda manovra, fu quella di volgere l’occhio altrove mentre alti gradi dell’aeronautica ( la più tecnologica e filo USA) tentavano un colpo di Stato.

Fallimento.

Rimase, agli stateghi da caffé, il sistema di finanziare i partiti politici avversi ( ma non i kemalisti) ammucchiando curdi e omosessuali in un solo “fascio di dibattimento” e condendolo con un paio di attentati per dar vita a una instabilità che avrebbe dovuto costringere il Premier turco a un governo di coalizione..

Preso il terrorista. Chiesta l’estradizione di Fetullah Gulen ( capo della P2 islamista turca, cittadino USA). Riformata la Costituzione in senso presidenziale. Attenuata la guerra indiretta contro Assad.

Con questa tornata elettorale, preceduta da contratti di acquisto di armi contraeree russe, Erdogan ha raggiunto la stabilità politica che gli permetterà di compiere il grande balzo in avanti che gli si voleva impedire.

COSA FARA’

Riprenderà, come promesso, il controllo della Banca centrale. Un esempio per tutto il Vicino Oriente che renderebbe vano l’assassinio di Gheddafi e darebbe l’indipendenza effettiva alla Turchia, consentendole di raddoppiare, quasi, l’efficacia dei suoi investimenti punbblici.

All’indomani delle elezioni, la borsa turca ha segnato un più 2,2% e la lira turca che ha vissuto di svalutazioni competitive nel corso dello scorso anno, ( 17%) si è apprezzata sul dollaro USA dell1,4% per poi ricadere.
Adesso, resta loro soltanto da giocare l’accusa di tradimento dell’occidente.

COSA FARANNO LORO

E’ per questo che gli USA hanno decretato il boicottaggio delle esportazioni petrolifere iraniane a partire dal prossimo 4 novembre. Sanno che la Turchia sosterrà l’Iran – come ha già fatto in passato- e vogliono criminalizzarla agli occhi del mondo.
Si tratta di due paesi di cui siamo primari fornitori in tutto o quasi. Essi valgono un paio di punti di PIL italiano.

Cento anni fa, proprio in quel giorno, vincevamo – prima degli anglo-francesi- la guerra mondiale.

Dobbiamo ritrovare l’orgoglio dei nostri sacrifici vittoriosi e creare una rete di solidarietà mediterranea e vanificare le sanzioni. Già nel 1953, quando gli angloamericani boicottarono l’Iran di Mossadeq, i soli che ruppero l’embargo furono gli italiani con la petroliera ” Mirella”.
Ripetere e resistere.

Diplomazie parallele, di Giuseppe Germinario

Un articolo del Boston Globe del 4 maggio scorso  narra di un incontro tra John Kerry, l’ex segretario di stato americano in carica durante l’amministrazione Obama e il ministro degli esteri iraniano Javad Zarif avvenuto circa due settimane prima nella sede dell’ONU. https://www.bostonglobe.com/news/nation/2018/05/04/kerry-quietly-seeking-salvage-iran-deal-helped-craft/2fTkGON7xvaNbO0YbHECUL/story.html

(qui invece la traduzione automatica del testo) https://translate.google.com/translate?depth=1&hl=it&rurl=translate.google.com&sl=auto&tl=it&u=https://www.bostonglobe.com/news/nation/2018/05/04/kerry-quietly-seeking-salvage-iran-deal-helped-craft/2fTkGON7xvaNbO0YbHECUL/story.html  

L’autore in realtà sostiene che l’incontro rappresenta solo l’ultimo atto conosciuto di una intensa attività intrapresa discretamente dall’ex-diplomatico in questi mesi mettendo in piedi uno staff di decine di personaggi più o meno influenti, denominato “diplomacy work” e tessendo una fitta trama di iniziative e relazioni che arriva a coinvolgere anche i più alti esponenti politici europei, tra di essi Mogherini, Merkel e Macron nonchè a influenzare l’azione politica dei detrattori dell’accordo con l’Iran. Tra queste ultime, assieme alla diffusione di centinaia di articoli e servizi, la pubblicazione di un appello di ventisei ex alti ufficiali israeliani favorevoli al mantenimento dell’accordo.

Una iniziativa certamente importante per il merito. Su questo le analisi politiche non difettano di informazioni e di punti di vista diversi pur con la solita deprimente eccezione nostrana.

Molto più significativa e dirompente è l’iniziativa in se stessa.

Nelle relazioni internazionali i vari centri decisionali dispongono sempre di canali paralleli e dei più disparati livelli di azione, più o meno ortodossi, attraverso i quali mettere in atto le proprie strategie. Accade anche che in caso di conflitto o di disaccordo tra centri decisionali interni ad un paese la tenzone non si risolva con un regolamento diretto e l’accettazione del verdetto ma attraverso l’azione che coinvolge l’intero sistema di relazioni internazionali. Con il rispetto, solitamente, di una regola aurea: la assoluta discrezione. L’iniziativa di J. Kerry infrange ancora una volta, negli ultimi tempi e soprattutto nel campo fondamentale della politica estera, questo tabù. Lo stesso per il quale venne infangato e detronizzato, a pochi giorni dal suo incarico, un anno fa il suo omologo Flynn in una condizione decisamente più dubitevole e pretestuosa. E infatti lo ha immediatamente rimarcato Devin Nunes, presidente del comitato di vigilanza sui servizi segreti del Congresso Americano https://www.alternet.org/devin-nunes-calls-john-kerry-be-arrested-fbi-send-g-men

Una situazione inconsueta di aperto osteggiamento di una azione politica, tipica di una condizione di guerra civile o di colpo di stato strisciante piuttosto che di ordinario confronto politico

Rappresenta l’ulteriore indizio dell’incomponibilità e della virulenza dello scontro in atto tra centri decisionali negli Stati Uniti. Un conflitto che non lascia spazi a mediazioni durature e che si risolverà con l’annichilimento sempre più probabile di uno dei contendenti in scena. La stessa radicalizzazione e contraddittorietà del confronto geopolitico oltre che la causa ormai può essere considerata anche la conseguenza di questo conflitto interno in corso. Con una importante novità. Due anni fa poteva apparire un conflitto estemporaneo tra un establishment tetragono e una élite estemporanea e avulsa; oggi questa élite, a costo di pesanti compromessi che hanno snaturato gran parte dei propositi originari, è riuscita a mettere radici negli apparati di potere e decisionali e a consolidare un proprio sistema di relazioni internazionali sia conclamato che più discreto entro il quale trovano spazi e mediazioni alcuni centri decisionali di potenze minori come la Francia, la Turchia e la Corea.

In questo quadro possono trovare posto eventi apparentemente incomprensibili e contraddittori come la sospensione e l’eventuale taglio dei finanziamenti americani agli “Elmetti Bianchi” in Siria, una formazione assistenziale collaterale ai gruppi ribelli sostenuti e finanziati dal campo occidentale. https://www.cbsnews.com/news/u-s-freezes-funding-for-syrias-white-helmets/

Potrebbe essere un segnale lanciato ai russi di un loro riconoscimento come attori principali di una trattativa sulla Siria ancora tutta da definire ma con un ruolo dell’Iran da ridimensionare drasticamente; potrebbe essere altresì un avvertimento alla Gran Bretagna di May, principale finanziatrice e sostenitrice di quella organizzazione, ad astenersi da iniziative autonome di pressione e provocazione, come la messa in scena dell’attacco chimico a Goutha del 7 aprile; un invito a concordare le mosse con l’attore geopolitico principale, per meglio dire con la fazione attualmente al governo se non proprio al potere.

L’una ipotesi non esclude necessariamente l’altra. Si vedrà nelle prossime puntate. Con un consiglio però: leggete attentamente gli articoli postati nei link. Raffigurano la rappresentazione plastica della complessità della trama e delle dinamiche che stanno sconvolgendo le formazioni sociali. https://www.scribd.com/document/378289155/U-S-Special-Counsel-Mueller-Vs-Paul-Manafort-Judge-TS-Ellis-III-Presiding-May-4-2017

 

SIRIA, DOSSIER E FAKE NEWS, di Giuseppe Germinario

Tranne rare eccezioni in un confronto militare la particolare posizione dell’aggressore richiede solitamente un’azione specifica che possa innescare o giustificare l’iniziativa. La gamma di iniziative è particolarmente nutrita. Si va dalla provocazione all’induzione alla reazione, alla istigazione, alla vera e propria montatura del casus belli. Un evento così traumatico deve essere giustificato, richiede la necessaria motivazione specie in un agone ancora delimitato dalla presenza degli stati nazionali e dal riconoscimento reciproco della propria esistenza.

Il conflitto in Siria non sfugge a queste dinamiche.

Partito da un movimento di contestazione, grazie ad alcune provocazioni mirate soprattutto verso le forze di polizia si è trasformato in guerra civile; da guerra civile in pochi mesi si è evoluto in un confronto prevalente con orde di uomini, da soli o con la propria famiglia, provenienti dall’Europa e dai luoghi più disparati del Nord-Africa e del Medio Oriente in cerca di fortuna; messe a mal partito queste ultime, la Siria sta ormai diventando sempre più terreno di confronto diretto di potenze regionali e globali. Una condizione che difficilmente le consentirà di salvaguardare totalmente l’integrità territoriale.

L’attitudine alla resistenza del regime di Assad è stata mirabile come pure la sua capacità di guadagnare consenso tra la popolazione. Nel suo cammino ha incontrato fortunatamente la volontà dei russi di porre finalmente un limite all’incalzare sino all’interno dei propri confini delle strategie americane; volontà senza la quale Assad probabilmente avrebbe già raggiunto Gheddafi nel suo tragico destino e la Siria avrebbe subito una sorte analoga alla Libia, ma con consistenti parti di territorio predate dai vicini.

Le forze esterne presenti sul campo sono ancora, almeno ufficialmente e con la parziale eccezione dell’esercito turco, in numero limitato e sono attente ad evitare scontri diretti tali da innescare un crescendo imprevedibile del conflitto.

Non mancano di certo casi di attacchi diretti, in parte legati alla casualità, in parte al tentativo di testare le reazioni, in parte ancora dovuti alla conduzione schizofrenica delle campagne militari dettata dal conflitto di strategie e dal drammatico scontro politico interno soprattutto ai centri americani e sauditi. In quest’ultimo caso sono il probabile esito di pesanti provocazioni dei fautori di un conflitto più aperto presenti anche nelle potenze regionali, in particolare Israele e Arabia Saudita, intenzionate a trascinare i grandi nel conflitto a loro sostegno e in loro vece. Ne hanno fatto le spese, circa un mese fa, alcune decine di contractors russi (ex militari) vittime di bombardamenti aerei americani e israeliani.

Sta di fatto, però che le forze irregolari disposte a prestarsi a strumento di questi giochi sono in via di significativo prosciugamento, mentre gli eserciti regolari sono restii ad entrare in campo sia per un’opinione pubblica ancora ostile agli interventi, sia per l’insostenibilità di un eventuale numero elevato di perdite specie del campo occidentale, sia per la condizione caotica del fronte che ancora per la concreta possibilità di estensione incontrollata del conflitto.

Da qui la ricerca di una giustificazione e la costruzione di pretesti verosimili che legittimino gli interventi e motivino le forze disponibili.

Gli attacchi chimici sono tornati di gran voga ad essere il motivo scatenante delle intromissioni, salvo essere smentiti se non addirittura attribuiti alle presunte vittime nel breve volgere di pochi giorni e a seguito di rapidi accertamenti.

Dal punto di vista emotivo sono ancora un buon detonatore; quanto alla verosimiglianza delle versioni offerte lasciano però ormai a desiderare, visti i precedenti ingannevoli e la relativa permeabilità del sistema di informazione.

Il rapporto dato in pasto dai servizi segreti francesi e utilizzato per giustificare l’intervento anglo-franco-americano del quattordici aprile in Siria rappresenta al momento lo stato dell’arte della pretestuosità e dell’arroganza.  https://www.les-crises.fr/frappes-syrie-les-preuves-presentees-par-le-drian-le-vide-comme-nouveau-fondement-juridique-a-l-agression/

https://www.les-crises.fr/en-quete-de-verite-dans-les-decombres-de-douma-et-les-doutes-dun-medecin-sur-lattaque-chimique-par-robert-fisk/

Alcuni siti francesi si sono premurati di smontarlo punto per punto nei vari aspetti praticamente in tempo reale

  • Hanno stigmatizzato la scarsa serietà dei redattori affidatisi esclusivamente a immagini raccogliticce, definite spontanee, senza data e indicazioni precise
  • Hanno sottolineato l’ipocrisia dell’affermazione riguardante l’assenza di informatori sul campo, quando gli stessi servizi sono stati in grado di fornire l’esatta composizione delle fazioni impegnate a resistere agli attacchi delle truppe lealiste
  • Hanno denunciato la palese capziosità dell’indicazione in Assad dell’unico beneficiario possibile di tale utilizzo, a dispetto dei precedenti rapporti di organizzazioni internazionali

Sta di fatto che ciò che è apparso poco attendibile per una parte dello stesso staff presidenziale americano è rimasta una incontrovertibile verità per l’altra parte e soprattutto per il giovane Macron.

In altri tempi, quando le cortine di ferro delimitavano più chiaramente le sfere di influenza e ingessavano il confronto mediatico, tanta sfrontatezza sarebbe passata inosservata se non spacciata con buone probabilità di successo addirittura per autorevolezza.

Oggi lo scontro politico attraversa platealmente e apertamente i centri decisionali specie americani, senza esclusione di colpi. L’allentamento della presa sta facendo emergere potenziali competitori globali e una miriade di potenze regionali ambiziose in un turbinio di posizioni e di giravolte repentine tali da rendere sempre meno credibile la parola e la costruzione mediatica. Una complessità della quale rischiano di rimanere vittime, oltre che artefici anche gli attori più importanti e navigati.

Sta di fatto che la Siria è ormai diventato prevalentemente un campo di battaglia tra forze esterne dove le stesse forze lealiste di Assad, le più gelose paladine delle prerogative sovrane del paese, anche in caso di vittoria definitiva, per altro ancora lungi dall’essere conseguita, difficilmente potranno recuperare in tempi rapidi l’autonomia politica di un tempo. La posta in palio, ormai, nel breve periodo non è più l’allontanamento di Assad e nemmeno la sconfitta dei russi; è piuttosto il drastico contenimento dell’Iran. Un obbiettivo in grado di conciliare in qualche modo, in casa americana, le posizioni del nucleo originario sostenitore di Trump favorevole ad un accordo e la componente del vecchio establishment sostenitrice di uno scontro più tattico verso la Russia di Putin. Il sacrificio di Flynn e di Bannon e lo snaturamento dei propositi iniziali sono stati l’obolo necessario alla sanzione del compromesso e della stessa sopravvivenza di Trump.

Sul piano degli schieramenti internazionali hanno sancito il sodalizio americano con l’Arabia del giovane Saud e l’Israele del vecchio Netanyau; una alleanza che si sta trasformando rapidamente in un vero e proprio processo di integrazione degli stessi comandi militari nel teatro siriano i frutti del quale non tarderanno purtroppo a manifestarsi.

Si sente parlare sempre più spesso di una prossima vittoria in campo aperto rispettivamente della Russia, dell’Iran e di Assad. La sproporzione evidente delle forze militari in campo e delle risorse economiche, umane e tecnologiche disponibili dovrebbe indurre a maggior prudenza.

La maggiore coesione, la motivazione più convinta, una maggiore sagacia tattica, il parziale recupero del gap tecnologico sono i fattori che hanno consentito la tenuta dello scacchiere siriano e del regime di Assad nel breve periodo; nel lungo il logoramento potrebbe incidere più pesantemente sullo schieramento lealista.

Di tenuta tuttavia si tratta. Di una strategia tutto sommato ancora difensiva anche se dall’esito diverso rispetto a quanto accaduto in Libia e nell’Europa Orientale negli ultimi trenta anni.

Sono altri i fattori in grado di determinare un ribaltamento dei rapporti e un eventuale collasso, per lo più inerenti la situazione interna dei paesi coinvolti.

Anche la Siria ha conosciuto la propria nemesi.

Da oggetto delle brame del vicinato e da punto focale di una crisi definitiva della capacità di resistenza russa e iraniana si è trasformata in punto di irradiamento di crisi e destabilizzazione verso i predatori.

Lo si è visto in Turchia con la recrudescenza dell’irredentismo curdo e con il tentativo di colpo di stato di Gulen, duramente sopito da Erdogan. Eventi che hanno spinto il governo turco ad una inedita aspirazione di autonomia e ad un controllo ferreo delle leve anche a scapito dell’immediata efficienza degli apparati.

 Lo si intravede in Israele con la sorda guerra di Netanyau con parti della magistratura e dei servizi di intelligence che rischia di trascinare il leader verso un destino simile al suo ex-omologo Sarkozy

Lo si sospetta in Arabia Saudita dove il processo ambizioso e inderogabile di ammodernamento istituzionale, quello di riconversione di una economia troppo legata alla monocoltura di giacimenti petroliferi in via di esaurimento e di (apparente?) distanziamento dai settori più integralisti e oscurantisti del sunnismo viene sostenuto dai classici strumenti di una struttura tribale costituiti da rapimenti, sequestri e uccisioni di notabili rivali, espropriazione di patrimoni e colpi di mano su rituali di successione codificati nel tempo. Il colpo di mano nella notte di sabato scorso, documentato da immagini nelle quali riecheggiavano nutrite sparatorie nel palazzo reale a base di fucili di assalto e granate, apparse solo per pochi minuti e miracolosamente scomparse assieme all’assoluto silenzio stampa in prima mondiale, rivela quanto siano ancora precari e instabili gli equilibri in quel paese con un delfino impegnato a stringere relazioni sempre più strette, quasi simbiotiche con il nemico conclamato del mondo arabo, Israele e con il “profanatore della terra sacra” dai tempi della prima guerra a Saddam, gli Stati Uniti e coinvolto ormai direttamente in due conflitti apparentemente minori, quanto inaspettatamente logoranti. Una irruenza e un cumulo di contraddizioni e contrapposizioni giunte sino ai regimi sunniti della penisola che potrebbero costare cari alle ambizioni se non addirittura alla vita del delfino Salman.

Quanto all’Iran si è visto offrire su un piatto d’argento, grazie all’intervento americano in Iraq, l’allargamento della sfera di influenza ad occidente dopo aver approfittato della situazione precaria in Afghanistan. Si è guadagnato sul campo il potere di influenza in Siria, Libano e Striscia di Gaza incuneandosi tra le rivalità di Turchia e Arabia Saudita. E’ riuscita a mantenere un equilibrio in Libano e continua a strumentalizzare, come il resto degli attori, la questione palestinese. Allarmato dalle primavere arabe ha intensificato lo sviluppo del programma nucleare diventando un avversario temibile di Israele e dell’Arabia Saudita e cercando di entrare nel club della dissuasione nucleare. Alcune iniziative propagandistiche apparentemente gratuite ai danni degli Stati Uniti hanno forse mitigato le irruenze dei più oltranzisti, ma hanno certamente contribuito a lacerare il tenue filo che li univa agli USA. Con l’arrivo di Trump gran parte delle mediazioni raggiunte sono destinate a saltare; a meno che nel frattempo non salti il Presidente. Si tratta, comunque, di un regime e di una società molto più permeabili rispetto alle apparenze. Lo scempio operato dai servizi israeliani e americani tra i tecnici e i responsabili del programma nucleare sono un evidente indizio dello stato presente.

Lo si arguisce in Francia con un giovane e intraprendente presidente smanioso di acquisire il supporto indispensabile del paese ancora più potente, gli Stati Uniti, necessario a preservare le proprie residue sfere di influenza, di riserva economica in Africa, in Siria e nel Pacifico. Quanto sia però precaria e debole questa posizione lo rivela l’aleatorietà degli impegni economici che il regime saudita ha stretto con esso a differenza della consistenza con quelli americani. Una aleatorietà, concretizzatasi in un semplice accordo di valorizzazione del settore turistico in Arabia in netto contrasto con la pesante influenza e con le compromissioni pesanti di essa nel sistema economico-finanziario e sociale della Francia. Legami che hanno già fatto saltare le ambizioni di Sarkozy, con l’affaire libico e che promettono ulteriori sviluppi.

La fretta tradita e la grossolana costruzione di quel documento rivelano la fragilità della sicumera tutta francese di Macron, piuttosto che la sua fattiva determinazione. Il comunicato finale seguito all’incontro tra Trump e il Presidente di Francia, non ostante le effusioni, è tutta lì a rivelare le divergenze con la dirigenza americana e i legami troppo stretti, sia pur discreti, di Macron con il vecchio establishment.

Tutto dipenderà dalla prosecuzione della deriva che sta seguendo Trump. A determinarla però non sarà certamente ed eventualmente il nuovo Napoleone, se non in misura irrilevante.

Il passo dalle fake alle bolle può consumarsi rapidamente e imprevedibilmente.

Questo secolo ha rivelato la rapida evaporazione di tanti leader di successo dalle promettenti carriere. E siamo appena all’inizio.

 

SIRIA! ELOGIO DELLE SORELLE TRAPPISTE, di Luigi Longo

ELOGIO DELLE SORELLE TRAPPISTE IN SIRIA

di Luigi Longo

 

Chiedo la pubblicazione della lettera aperta delle sorelle trappiste in Siria apparsa sul blog: www.oraprosiria.com del 4 marzo 2018.

E’ una analisi e una denuncia lucida, materiale e spirituale della pesante e drammatica situazione in Siria.

E’ un pensiero critico femminile che si pone nelle contraddizioni reali della vita ben sapendo che il bene e il male fanno parte della storia umana sessuata.

Soltanto la ricerca del senso della vita può tracciare e progettare la strada del bene: il pensiero critico femminile è fondante per la ricerca di un’altra strada sessuata e sensata della vita.

 

Lettera aperta delle Monache siriane: Chiamare le cose con il loro nome, è questo l’inizio della pace

 

Quando taceranno le armi ? E quando tacerà tanto giornalismo di parte ?

Noi che in Siria ci viviamo, siamo davvero stanchi, nauseati da questa indignazione generale che si leva a bacchetta per condannare chi difende la propria vita e la propria terra.

Più volte in questi mesi siamo andati a Damasco; siamo andati dopo che le bombe dei ribelli avevano fatto strage in una scuola, eravamo lì anche pochi giorni fa, il giorno dopo che erano caduti, lanciati dal Goutha, 90 missili sulla parte governativa della città. Abbiamo ascoltato i racconti dei bambini , la paura di uscire di casa e andare a scuola, il terrore di dover vedere ancora i loro compagni di classe saltare per aria, o saltare loro stessi, bambini che non riescono a dormire la notte, per la paura che un missile arrivi sul loro tetto. Paura, lacrime, sangue, morte. Non sono anche questi bambini degni della nostra attenzione?

Perché l’opinione pubblica non ha battuto ciglio, perché nessuno si è indignato, perché non sono stati lanciati appelli umanitari o altro per questi innocenti? E perché solo e soltanto quando il Governo siriano interviene, suscitando gratitudine nei cittadini siriani che si sentono difesi da tanto orrore (come abbiamo constatato e ci raccontano), ci si indigna per la ferocia della guerra?

Certo, anche quando l’esercito siriano bombarda ci sono donne, bambini, civili, feriti o morti. E anche per loro preghiamo. Non solo i civili: preghiamo anche per i jihadisti, perché ogni uomo che sceglie il male è un figlio perduto, è un mistero nascosto nel cuore di Dio. Ed è a Dio che si deve lasciare il giudizio, Lui che non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva.

Ma questo non significa che non si debbano chiamare le cose con il loro nome. E non si può confondere chi attacca con chi si difende.

A Damasco, è dalla zona del Goutha che sono cominciati gli attacchi verso i civili che abitano nella parte controllata dal governo, e non viceversa. Lo stesso Goutha dove – occorre ricordarlo ? – i civili che non appoggiavano i jihadisti sono stati messi in gabbie di ferro: uomini, donne, esposti all’aperto e usati come scudi umani. Goutha: il quartiere dove oggi i civili che vogliono scappare, e rifugiarsi nella parte governativa, approfittando dalla tregua concessa, sono presi di mira dai cecchini dei ribelli…

Perché questa cecità dell’Occidente? Come è possibile che chi informa, anche in ambito ecclesiale, sia così unilaterale?

La guerra è brutta, oh sì, sì se è brutta! Non venitelo a raccontare ai siriani, che da sette anni se la sono vista portare in casa… Ma non si può scandalizzarsi per la brutalità della guerra e tacere su chi la guerra l’ha voluta e la vuole ancora oggi, sui Governi che hanno riversato in Siria in questi anni le loro armi sempre più potenti, le loro intelligence… per non parlare dei mercenari lasciati deliberatamente entrare in Siria facendoli passare dai Paesi confinanti (tanti che poi sono diventati Isis, va ricordato all’Occidente, che almeno questa sigla sa cosa significa). Tacere sui Governi che da questa guerra hanno guadagnato e guadagnano. Basta vedere che fine hanno fatto i più importanti pozzi petroliferi siriani. Ma questo è solo un dettaglio, c’è molto più importante in gioco.

La guerra è brutta. Ma non siamo ancora arrivati alla meta, là dove il lupo e l’agnello dimoreranno insieme, e per chi è credente bisogna ricordare che la Chiesa non condanna la legittima difesa; e se anche non si augura certamente il ricorso alle armi e alla guerra, la fede non condanna chi difende la propria patria, la propria famiglia, neppure la propria vita. Si può scegliere la non-violenza, fino a morirne. Ma è una scelta personale, che può mettere in gioco solo la vita di chi lo sceglie, non si può certo chiederlo ad una nazione intera, a un intero popolo.

Nessun uomo che abbia un minimo di umanità vera, può augurarsi la guerra. Ma oggi dire alla Siria, al governo siriano, di non difendere la sua nazione è contro ogni giustizia : troppo spesso è solo un modo per facilitare il compito di quanti vogliono depredare il Paese, fare strage del suo popolo, come accaduto in questi lunghi anni nei quali le tregue sono servite soprattutto per riarmare i ribelli, e i corridoi umanitari per far entrare nuove armi e nuovi mercenari.. e come non ricordare quali atrocità sono accadute in questi anni nelle zone controllate dai jihadisti? violenze, esecuzioni sommarie, stupri… i racconti rilasciati da chi alla fine è riuscito a scappare ?

In queste settimane ci hanno fatto leggere un articolo veramente incredibile: tante parole per far passare in fondo una sola tesi, e cioè che tutte le Chiese di Oriente sono solo serve del potere…per convenienza… Qualche bella frase ad effetto, tipo la riverenza di Vescovi e Cristiani verso il Satrapo Siriano…un modo per delegittimare qualunque appello della Chiesa siriana che faccia intravedere l’altro lato della medaglia, quella di cui non si parla.

Aldilà di ogni inutile difesa e polemica, facciamo un ragionamento semplice, a partire da una considerazione. E cioè che Cristo – che conosce bene il cuore dell’uomo, e cioè sa che il bene e il male coabitano in ciascuno di noi, vuole che i suoi siano lievito nella pasta, cioè quella presenza che a poco a poco, dall’interno, fa crescere una situazione e la orienta verso la verità e il bene. La sostiene dove è da sostenere, la cambia dove è da cambiare. Con coraggio, senza doppiezze, ma dall’interno. Gesù non ha assecondato i figli del tuono, che invocavano un fuoco di punizione .

Certo che la corruzione c’è nella politica siriana (come in tutti i Paesi del mondo) e c’è il peccato nella Chiesa (come in tutte le Chiese, come tante volte il Papa ha lamentato).

Ma, appellandoci al buon senso di tutti, anche non credenti : qual è l’alternativa reale che l’Occidente invoca per la Siria? Lo Stato islamico, la sharia? Questo in nome della libertà e la democrazia del popolo siriano? Ma non fateci ridere, anzi, non fateci piangere…

Ma se pensate che in ogni caso non sia mai lecito scendere a compromessi, allora per coerenza vi ricordiamo, solo per fare un piccolo esempio, che non potreste fare benzina ‘senza compromessi coi poteri forti’, dato che la maggior parte delle compagnie ha comprato petrolio a basso costo dall’Isis, attraverso il ponte della Turchia: così quando percorrete qualche chilometro in auto, lo fate anche grazie alla morte di qualcuno a cui questo petrolio è stato rubato, consumando il gasolio che doveva scaldare la casa di qualche bambino in Siria.

Se proprio volete portare la democrazia nel mondo, assicuratevi della vostra libertà dalle satrapie dell’Occidente, e preoccupatevi della vostra coerenza, prima di intervenire su quella degli altri..

Non ultimo, non si può non dire che dovrebbe suscitare almeno qualche sospetto il fatto che se un cristiano o un musulmano denuncia le atrocità dei gruppi jihadisti è fatto passare sotto silenzio, non trova che una rara eco mediatica, per rivoli marginali, mentre chi critica il governo siriano guadagna le prime pagine dei grandi media.. Qualcuno ricorda forse l’intervista o un intervento di un Vescovo siriano su qualche giornale importante dell’Occidente? Si può non essere d’accordo, evidentemente, ma una vera informazione suppone differenti punti di vista.

Del resto, chi parla di una interessata riverenza della Chiesa siriana verso il presidente Assad come di una difesa degli interessi miopi dei cristiani, dimostra di non conoscere la Siria, perché in questa terra cristiani e musulmani vivono insieme. E’ stata solo questa guerra a ferire in molte parti la convivenza, ma nelle zone messe in sicurezza dall’esercito ( a differenza di quelle controllate dagli ‘altri’) si vive ancora insieme. Con profonde ferite da ricucire, oggi purtroppo anche con molta fatica a perdonare, ma comunque insieme. E il bene è il bene per tutti: ne sono testimonianza le tante opere di carità, soccorso, sviluppo gestite da cristiani e musulmani insieme.

Certo, questo lo sa chi qui ci vive, pur in mezzo a tante contraddizioni, non chi scrive da dietro una scrivania, con tanti stereotipi di opposizione tra cristiani e musulmani.

“Liberaci Signore dalla guerra…e liberaci dalla mala stampa…”.

Con tutto il rispetto per i giornalisti che cercano davvero di comprendere le situazioni, ed informarci veramente. Ma non saranno certo loro ad aversene a male per quanto scriviamo…

 

Le sorelle Trappiste in Siria

 

MAMMA MIA, MAMMA LI TURCHI, di Antonio de Martini

MAMMA MIA!

Il governo turco, immediatamente dopo la fulminea visita di Erdogan a Roma, ha annunziato un vertice con Russia e Iran sul tema della Siria.

C’era già stato un vertice analogo a novembre e alla riunione di Astana, in Kazakistan ( prossimo paese ad essere destabilizzato) si affermò, realizzandolo poi sul terreno, la creazione di una serie di luoghi adatti per la de-escalation.

Come risultato, circa centomila profughi sono tornati alle loro case.
Troppo pochi, ma meglio di niente.

A questa iniziativa di pace, ha fatto seguito l’apertura di un nuovo fronte con nuovi protagonisti: truppe turche, nell’operazione ” ramo d’olivo” hanno invaso una enclave di frontiera occupata da elementi curdi armati dagli Stati Uniti.
I combattimenti sono iniziati il 20 gennaio e siamo al 10 febbraio.

I curdi hanno dato ad intendere di possedere mezzi antiaerei tipo STINGER abbattendo un aereo russo.

I turchi si sono adoprati per recuperare il corpo del pilota, a dimostrazione che distinguono la loro posizione da quella americana.

Il sottocapo di SM turco ha anche dichiarato che se gli ” advisor” americani vestono le stesse uniformi dei curdi, hanno gli stessi distintivi e partecipano ai combattimenti, ” distinguerli sarà molto difficile” . Un capolavoro di minaccia indiretta.

Gli USA hanno poi diffuso foto di ” carri armati che si ritirano dall’Irak per compiuta missione” .
Ritirarsi via terra, significa andare verso l’Arabia Saudita o verso la Siria.
Il Pentagono ha anche riconosciuto che nove carri armati Abrams ” sono finiti in mano a ribelli siriani” non meglio specificati.
Imparare ad usarli richiede almeno tre mesi di intenso addestramento…

Si preparano a uno scontro indiretto di prova, salvo poter dare la colpa a “focosi e incontrollabili alleati.”
Vogliono uccidere, ma non vogliono la guerra.
Quiindi, per ora, gli USA bombardano i governativi siriani, i turchi bombardano i curdi e i russi bombardano i ribelli siriani.

In pratica ognuno bastona il fratello piccolo dell’altro, solo che la Turchia sembra stanca di fare da spalla agli americani e questo rischia di scoprire il fianco sud della NATO che, come denunziato ieri dal generale @ Vincenzo Camporini, ex capo di Stato Maggiore della Difesa, è già strutturalmente debole a causa dell’incomprensibile mania di mandarci a presidiare i cieli del nord Europa per rasserenare le isterie delle Repubbliche baltiche.

Se esiste un pericolo, oggi questo è nell’area mediterranea.
Se abbiamo interessi strategici da difendere, questi sono in Libia, Egitto e nel Levante.
Se abbiamo prosperità da cercare, dobbiamo cercarla a est.
Non possiamo permetterci un alleato tanto ricco da stanziare 700 miliardi per la Difesa e poi pretendere di dividere le spese con noi.

 

MAMMA LI TURCHI

Hulusi Akar capo dell’esercito turco ha dichiarato che le FFAA turche sono in grado di combattere contemporaneamente sul fronte siriano e nell’Egeo. ( vogliono partecipare allo sfruttamento delle acque di Cipro. Nota per Cristiana Fischer che chiedeva cosa Erdogan è venuto a dire a Gentiloni).

È riuscito con una sola frase breve a inverare due nostri detti popolari.

a) la storia non insegna niente
b) la mamma dei fessi è sempre incinta.

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