Il saggio obbligatorio di fine anno. Ma fatemi un favore: leggetelo lo stesso, di AURELIEN

Il saggio obbligatorio di fine anno.
Ma fatemi un favore: leggetelo lo stesso.

AURELIEN
27 DIC 2023
Questo è l’ultimo saggio del 2023, e non solo i termini di servizio di Substack mi impongono di scrivere un pezzo di fine anno, credo, ma anche due delle ultime tre carte dei Tarocchi che ho consultato per la meditazione quotidiana sono state la n. XX, “Giudizio”, che incoraggia la riflessione e il bilancio. Ok ragazzi, posso accettare un suggerimento.

Non c’è molto da dire a livello pratico. Ho deciso di attivare i pagamenti qualche mese fa e sono rimasto piacevolmente sorpreso dalla disponibilità delle persone a lanciarmi qualche moneta e a offrirmi un caffè. (Non ho intenzione di offrire un livello separato a pagamento, mai, e quindi continuerò a rendere tutto gratuito). In realtà sono stato ancora più piacevolmente sorpreso dai gentili messaggi di sostegno che ho ricevuto, ed è questo, alla fine, più che qualsiasi somma di denaro, che mi incoraggia a continuare. Se avete mai insegnato (e io l’ho fatto, saltuariamente per decenni, e a volte in posti davvero molto strani), sapete che il più grande complimento che possiate ricevere è che qualcuno vi dica: “Prima non capivo, ma ora capisco”. Da qui, in parte, il nome che ho dato a questo sito. E grazie anche ai molti di voi che hanno scritto commenti così lunghi e riflessivi.

Detto questo, ho intenzione di continuare a scrivere essenzialmente su ciò che so, e di privilegiare l’analisi e l’interpretazione rispetto alla polemica. C’è comunque troppa polemica in giro, e la trovo noiosa da leggere, difficile e poco gratificante da scrivere. Inoltre, richiede una fede nella propria superiorità morale che non sono sicuro di avere. Allo stesso modo, anche se scrivo molto sugli affari di sicurezza e ho trascorso molto tempo con le forze armate, non sono qualificato per analizzare le ultime battaglie in Ucraina, così come una certa quantità di tempo trascorso in Medio Oriente mi dà automaticamente il diritto di essere ascoltato come esperto di Gaza. D’altra parte, ho trascorso una vita nella sala macchine della politica e della sicurezza in vari Paesi, ho visto come si fa la salsiccia e a volte ho avuto un piccolo ruolo nel farla. Sono stato nei posti più economici per alcuni dei principali eventi degli ultimi quarant’anni, e in alcuni casi in quelli un po’ meno economici. Il mio punto di vista è quello di chi fa davvero il lavoro e fa accadere le cose, anche se non ho mai avuto un grande ufficio e un grande staff personale. Sono stato, come si diceva, a distanza di sicurezza dalla superficie del carbone per molto tempo. Le cose che credo di aver imparato, quelle che credo di aver capito e quelle su cui credo di avere qualcosa di utile da dire, continuerò a scriverle, oltre a dedicarmi di tanto in tanto ad altri argomenti che mi interessano. Per esempio, nel corso del prossimo anno avrò molto da dire sulla Francia, dove ho vissuto e lavorato a lungo, e sull’Europa e le sue manifestazioni istituzionali.

Bene, allora. (Ci sono scrittori molto organizzati, che hanno piani dettagliati di ciò che scriveranno e li rispettano. Io non ci riesco: Preferisco pensare che qualsiasi cosa io stia scrivendo, da un articolo breve o un racconto a un libro, esista già, completamente formata, e che se inizio a scrivere, arriverà. Di solito è così: ero a un quarto del primo libro che ho scritto, circa trent’anni fa, quando all’improvviso ho capito che il libro voleva parlare di qualcosa di un po’ diverso e mi stava segnalando di cambiare rotta, cosa che ho fatto. Così con questi saggi: raramente ho un’idea precisa di ciò che dirò prima di iniziare e, cosa forse più importante, di come i vari temi si svilupperanno e interagiranno tra loro nel corso delle settimane. Così, senza rendermene conto, mi accorgo di aver sviluppato una tesi coerente, soprattutto nell’ultimo anno.

Credo che si possa riassumere, sorpresa, sorpresa, in tre punti. Si può considerare una sorta di sillogismo, se si vuole, o un tipo di progressione dialettica.

Il mondo occidentale si trova di fronte a una serie di sfide pratiche, politiche, economiche ed esistenziali gravi come mai nella sua storia, che richiedono governi, Stati e settori privati altamente competenti per affrontarle con successo.

Ma la capacità di tutti i settori sopra menzionati è già insufficiente e sta peggiorando, e non c’è un modo evidente per correggerla.

Pertanto, le cose stanno andando verso sud.

Se si accettano le prime due proposizioni (e credo che siano indiscutibili), ne consegue inevitabilmente la terza. Naturalmente non vogliamo crederci, ed è per questo che le persone sono piene di “Se solo potessimo”, “Sicuramente possiamo”, “Questo nuovo aggeggio” e “Questa idea intelligente”. Ma, come ho sostenuto la scorsa settimana, non è possibile ricostruire strutture e capacità altamente complesse che hanno richiesto generazioni per essere create e che sono state lasciate marcire o addirittura deliberatamente distrutte. Per questo motivo, i miei scritti del prossimo anno si concentreranno su come sarà il prossimo crollo e su cosa possono fare gli individui e i gruppi per gestirlo ed evitare le conseguenze peggiori. Gran parte del lavoro pratico del governo in passato è consistito nel mettere il dito nella fossa e sperare di poter risolvere il problema del momento entro la fine della settimana. (Per quanto sia doloroso dirlo, credo che dovremo sempre più escludere i governi e le organizzazioni internazionali come attori utili per il futuro: il degrado è semplicemente andato troppo oltre e la diga si sta visibilmente sgretolando.

Piuttosto che accumulare il malinconico a questo punto dell’anno, ho pensato che sarebbe stato meglio esporre le argomentazioni di cui sopra in modo un po’ più esteso, rimandando a saggi che ho scritto nell’ultimo anno o giù di lì. In questo modo, il numero considerevole di persone che hanno scoperto questo sito di recente, e in molti casi si sono iscritte, avranno un link diretto ai saggi che espongono queste idee in modo più approfondito.

Non ho intenzione di affrontare in questa sede i temi del cambiamento climatico e delle malattie infettive, sui quali non sono un esperto e sui quali è già stato scritto molto. Ma ho discusso, ad esempio, gli effetti corrosivi di quarant’anni di neoliberismo sulle strutture e sulle fondamenta stesse della nostra società, compreso il concetto di cittadino, o sull’onestà di base, o sulle idee anacronistiche di “dovere” e “servizio”, da cui la Società di Me dipende di fatto, se solo se ne rendessero conto. Ho sostenuto che una società di questo tipo non sopravviverà ancora a lungo, a meno che non impari ad adattarsi, ma questo sembra molto improbabile, senza il tipo di strutture intermedie, come i partiti politici di massa e i sindacati che un tempo lavoravano per il cambiamento politico. In effetti, la presa del modello estrattivo sul nostro sistema è tale che il sistema potrebbe finire per mangiarsi da solo, mentre la nostra società cade vittima di una violenza che non ha alcuno scopo o ragione discernibile. Allo stesso modo, non è scontato che l'”Europa”, in qualsiasi senso istituzionale organizzato, sopravviva.

Naturalmente, uno dei problemi principali da affrontare sarà quello delle conseguenze a lungo termine della guerra in Ucraina. Ho suggerito che l’Occidente, e in particolare l’Europa, è ora vulnerabile militarmente in modi inediti e inaspettati. Ciò non sorprende, poiché la natura della guerra è cambiata, mentre nessuno guardava, e l’Occidente ha preso una serie di decisioni sbagliate su come spendere i propri soldi. Il risultato è che la capacità militare dell’Occidente è l’ombra di ciò che era un tempo e le possibilità che si riarmino per essere in condizioni di parità con la Russia non sono molte. Anche mantenere in vita l’Ucraina è di fatto impossibile. Ciò significa anche che l’Occidente sarà sempre più incapace di proiettare potenza al di fuori del proprio territorio. E a sua volta, la mancanza di hard power significa che i tentativi di usare il soft power saranno molto più difficili.

In teoria, alcuni di questi problemi sono recuperabili, se solo avessimo persone e istituzioni decenti. Eppure i leader e i funzionari occidentali credono abitualmente a cose stupide. Le nostre élite non solo sono incapaci, ma sono essenzialmente infantilizzate, vivono in un mondo di finzione infantile e reagiscono con odio isterico a chiunque, come quel cattivone di Putin, metta in discussione i loro luoghi comuni liberali semidigeriti. (Anche se questo odio è esso stesso, in parte, un’esternazione dell’odio che la nostra casta professionale e manageriale prova per il resto di noi e per gli altri). E questo include sia una completa ignoranza anche dei fatti più elementari sulla guerra moderna, sia un’abitudine generale a vedere il mondo intero come una proiezione del loro fragile ego.

Ma ho anche cercato di fornire qualche raggio di speranza, se non necessariamente di ottimismo. Penso (e questo sarà un argomento per il prossimo anno) che il fallimento a cascata delle istituzioni a cui assistiamo ora ci imporrà di trovare risorse per noi stessi, che dovranno essere tanto psicologiche, e persino spirituali, quanto pratiche. Qualche tempo fa ho sostenuto che l’integrità invernale dell’esistenzialismo, con la sua severa etica della responsabilità per le proprie azioni, è forse utile in questo momento, così come alcuni tipi di buddismo. Ho anche suggerito che il relativismo morale è solo un dato di fatto e che non c’è nulla da temere. Infine, ho suggerito alcuni libri che potrebbero aiutarci a capire meglio il mondo, nonché alcuni che forniscono indicazioni pratiche su ciò che potremmo fare.

Beh, credo che sia sufficiente da parte mia. Grazie a tutti e arrivederci all’anno prossimo.

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Le ultime notizie di Thinktank-land: Analisi del Ministero della Difesa estone e dell’ISW, di SIMPLICIUS THE THINKER

Nelle ultime due settimane sono stati pubblicati due interessanti documenti politici dei thinktank, che sono passati un po’ inosservati. Ho voluto esaminarli alla luce non solo dell’annunciato riorientamento del campo di battaglia dell’Ucraina, ma anche del punto di inflessione generale in cui si trova il conflitto alla vigilia del 2024, per vedere quali proiezioni per il futuro si possono trarre.

Il primo dei due documenti proviene dal Ministero della Difesa estone, che è stato attivo in varie prognosi e rapporti dalle sue presunte “fonti” confidenziali all’interno del Ministero della Difesa russo:

Il succo di questo documento ruota attorno alle idee su come l’Ucraina possa utilizzare il suo periodo di riorientamento per ricostruire una forza in grado di sconfiggere la Russia.

Ho letto entrambi i documenti in modo che non dobbiate farlo voi, quindi evidenzierò i punti più importanti e vedrò come possono essere collegati tra loro in una parvenza di riorientamento “strategico” occidentale/NATO.

Il documento inizia con lo stesso stanco gongolamento di quanto siano più grandi le economie e le spese militari combinate della NATO e dell’UE rispetto alla Russia. È un po’ un sofisma, in quanto si aspettano che questo si traduca innatamente in una vittoria, come se fosse un dato di fatto che “più grande è meglio”.

Si noti il modificatore chiave “dovrebbe”:

Siamo più grandi del compito. Le dimensioni del nostro potere politico, economico e militare collettivo dovrebbero garantire una vittoria sulla Russia. Il Gruppo di contatto per la difesa dell’Ucraina (UDCG), noto anche come gruppo di Ramstein, ha un PIL combinato di 47.000 miliardi di euro. Gli impegni totali per gli aiuti militari all’Ucraina8 sono stati finora di circa 95 miliardi di euro, lo 0,2% di questa cifra. Allo stesso tempo, i bilanci di difesa combinati della coalizione di Ramstein sono più di 13 volte superiori a quello pesantemente gonfiato della Russia: 1,24 trilioni di euro contro 0,09 trilioni di euro nel 2023. Non dovrebbero esserci dubbi su chi abbia il vantaggio di prevalere.
I due paesi hanno persino fornito questo grafico patinato:

Non ripeterò l’ovvio, ma in questo caso vale il nostro assioma recentemente discusso: si possono stampare contanti, ma non conchiglie. (Ebbene, i proiettili da mortaio per i lanci dei droni sono in effetti stampati in 3D, in parte, in questi giorni).

Detto questo, il documento riconosce in qualche modo questo aspetto, per cui ha un tono esortativo, volto a spingere gli alleati a una maggiore solidarietà per aumentare la loro produttività industriale:

La maggior parte degli alleati della NATO ha notevolmente impoverito le proprie già esigue scorte e capacità militari convenzionali donando le proprie attrezzature all’Ucraina. Gli alleati hanno anche una base industriale molto limitata, inadatta a rispondere alle sfide di sicurezza del XXI secolo e incapace di ricostituire queste capacità a meno che gli investimenti nella difesa non vengano aumentati in modo sostanziale e urgente.
È una bella concessione.

Il punto in cui iniziano a scendere davvero in profondità è quello delle questioni militari di prima linea, offrendo anche qualche spunto di riflessione. Per esempio:

Se non viene interrotta, la Russia ha la capacità di addestrare circa 130.000 truppe ogni sei mesi in unità e formazioni coerenti, disponibili per il lancio di operazioni. Altre truppe possono essere mobilitate e spinte in Ucraina come rimpiazzi non addestrati, ma non forniscono un’effettiva potenza di combattimento.
Si tratta di un’ammissione piuttosto forte da parte di una fonte della NATO. La Russia può addestrare ed equipaggiare completamente 130.000 truppe ogni 6 mesi in unità coerenti. Fanno specificamente la distinzione che non si tratta solo della capacità di radunare un po’ di carne da macello, ma piuttosto di formazioni pienamente in grado di combattere, il che presuppone non solo l’addestramento ma anche l’equipaggiamento. Si afferma anche che la Russia può raccogliere molte altre truppe, anche se si tratterebbe di “rimpiazzi non addestrati”.

Si tratta di ben 6-7 divisioni o 26 brigate ogni 6 mesi. Ricordiamo che l’Ucraina ha faticato a mettere insieme le 9 brigate per la sua grande controffensiva estiva. Se fosse stata la Russia a dichiarare questi numeri, gli opinionisti occidentali avrebbero riso a crepapelle. Come si può competere con un Paese che può raccogliere 260.000 uomini addestrati e capaci di combattere all’anno?

L’Ucraina non è in grado di addestrare sul proprio territorio una compagnia di dimensioni maggiori – e questo lo sappiamo da tempo – per paura che gli attacchi di precisione russi spazzino via l’intero esercito. Sono quindi costretti ad addestrarsi all’estero, ma l’addestramento è spesso accelerato e insufficiente; ad esempio, dura solo 5 settimane, mentre non è sufficiente per preparare i soldati a combattere:

Questo non è sufficiente per preparare i soldati alle operazioni offensive. Durante la Seconda guerra mondiale, la fanteria britannica riceveva oltre 20 settimane di addestramento prima di essere considerata sostanzialmente abile, mentre l’esercito americano operava con 13-17 settimane di addestramento di base. Dobbiamo quindi sviluppare i nostri pacchetti di addestramento per preparare meglio i nostri partner ucraini alle operazioni offensive.
In mezzo a tutto questo, si rivela un’altra realtà sulle capacità di combattimento dell’Ucraina:

Quindi, non avendo ufficiali addestrati, una brigata ucraina può controllare efficacemente solo due compagnie, dando a un’intera brigata AFU solo 1200 metri di copertura utilizzabile? Per quanto possa far aprire gli occhi, questi numeri sono in linea con quanto abbiamo visto. Per esempio, nella controffensiva estiva, anche le brigate più elitarie, come la 47ª, sembravano in grado di operare solo assalti di due compagnie in qualsiasi momento.Ma ricordate, il motivo per cui la Russia non li sta completamente sopraffacendo è perché la Russia stessa non è necessariamente del tutto all’altezza in questo senso. Anche le brigate russe hanno molte carenze, altrimenti la guerra sarebbe già finita – ma non sono neanche lontanamente così cattive come quelle ucraine, il che si riflette nell’ampia disparità di vittime.Inoltre, come sempre, l’avvertenza è che questo vale solo per le operazioni offensive, che richiedono un elevato addestramento e capacità di coordinamento. La difesa consente un margine di manovra molto più ampio, il che significa che brigate ucraine molto scarse possono ancora mantenere il terreno – nonostante subiscano perdite sproporzionate – contro brigate russe qualitativamente superiori. Il motivo è che qualsiasi carenza può essere colmata semplicemente tappando i buchi con più “carne”. Ricordate il video che ho recentemente postato di un soldato dell’AFU che raccontava che il suo battaglione aveva perso 350 uomini in sole 8 ore. Se siete in grado di continuare a riempire i buchi con altra carne, e il nemico qualitativamente superiore non è tanto superiore da essere in grado di sfruttare lo sfondamento in tempo, allora il risultato sarà semplicemente che sarete pesantemente attriti, ma almeno riuscirete a tenere il terreno e a prevenire lo sfondamento nelle retrovie.Le forze russe sono qualitativamente superiori a un livello tale da poter infliggere perdite enormemente sproporzionate, ma non sono abbastanza superiori da avere la coordinazione e la tecnologia necessarie per sfruttare appieno queste perdite con manovre verso le retrovie, attraverso il varco dello sfondamento. Per fare ciò, è necessaria una comunicazione e un coordinamento assolutamente inimitabili e istantanei tra le varie unità di armi combinate, le branche, i sistemi di comando e controllo, i sistemi ISR, ecc. Tutti devono lavorare all’unisono per avere la piena consapevolezza tattica e operativa di tutto ciò che sta accadendo. Ciò richiede molta tecnologia, in particolare capacità di collegamento in rete attraverso sistemi di gestione del campo di battaglia che consentono alle unità di sapere cosa fanno le altre unità in tempo reale. La Russia ne dispone in alcuni punti, ma è troppo incerta per creare il completo overmatch tecnologico e l’addestramento necessario a spingere davvero.Ma alla luce della diagnosi del rapporto sulle capacità dell’AFU, il rapporto prescrive quanto segue:Nel 2024, l’obiettivo dovrebbe essere quello di espandere le operazioni ucraine da azioni di brigate abilitate a compagnie, alla capacità di eseguire attacchi di brigate. Nel 2025, l’obiettivo dovrebbe essere che l’AFU conduca attacchi simultanei di brigata, abilitati da formazioni più grandi a livello congiunto.
Vogliono che l’Ucraina sia in grado di eseguire manovre a livello di brigata completa, con formazioni più grandi – che, a detta loro, attualmente non esistono nemmeno in Ucraina -, cioè divisioni e oltre.È una richiesta davvero grande. Pretendere che uno Stato fallito sull’orlo del collasso scopra in qualche modo tali capacità è semplicemente improponibile. Attualmente non sono nemmeno più in grado di effettuare attacchi a livello di compagnia; nel migliore dei casi sono stati ridotti alle dimensioni di un plotone. Quindi un obiettivo realistico per il 2024-2025 sarebbe quello di riportare l’Ucraina almeno al livello di una compagnia, se non addirittura a quello, lontano dall’obiettivo idealizzato qui.

Artiglieria
Si ripete ancora una volta la frottola che l’artiglieria occidentale da 155 mm è superiore a quella russa sotto ogni punto di vista: gittata, cadenza di fuoco e precisione. Sfortunatamente, questo può essere vero se si utilizza un piccolo campione di un paio di centinaia di colpi sparati. Se si va oltre, sappiamo che i preziosi e delicati sistemi di artiglieria occidentali iniziano a degradarsi gravemente rispetto a quelli sovietici.

Ricordate:

In particolare, guardate il secondo in alto. “La maggior parte delle armi mobili [occidentali] non funziona più…”.

Il rapporto prosegue fornendo alcune cifre interessanti.

L’Ucraina ha bisogno di almeno 200.000 proiettili al mese per sostenere la “superiorità di fuoco localizzata”.

La produzione di proiettili dell’intero Occidente nel 2023 è stimata tra 480-700k per l’intero anno.

L’articolo prosegue affermando una cosa che ho già scritto diverse volte in passato, ma che rappresenta un’altra gradita conferma:

Gli sforzi per aumentare la produzione europea sono stati ostacolati dal fatto che ogni Stato europeo ha perseguito ordini separati – e relativamente piccoli – da parte dell’industria. Il business case presentato da questi ordini non giustifica l’aumento della capacità produttiva dei produttori di difesa, perché non c’è chiarezza sull’entità degli ordini nel tempo. Gli alleati europei e gli Stati membri dovrebbero quindi collaborare per consolidare gli ordini in contratti più ampi e a lungo termine che giustifichino gli investimenti nella capacità produttiva della base industriale della difesa.
I produttori di sistemi di difesa sono riluttanti ad aumentare la loro capacità perché temono che gli investimenti in questi aumenti non siano redditizi, dal momento che non c’è “chiarezza sugli ordini nel tempo”. Come ho detto prima, aumentare la capacità costa miliardi di dollari. Servono nuovi e costosissimi torni e macchine per la forgiatura; serve un’enorme quantità di costosa formazione del personale; potenzialmente costose espansioni delle sedi e dei siti, acquisto di nuovi terreni, fabbriche, ecc. Tutto ciò ha un costo enorme in un momento in cui l’economia è in crisi, i prezzi dell’energia sono alle stelle, ecc. Di recente abbiamo appreso che il prezzo medio di un singolo proiettile d’artiglieria in Europa è salito da 4 a 8 volte in alcuni Paesi.

Ma l’ammissione più scioccante di tutte? Rifatevi gli occhi:

Proprio così: dopo aver passato un anno a sminuire le capacità della Russia, sostenendo che produce solo 1 o talvolta al massimo 2 milioni di proiettili, ora ammettono apertamente che la Russia ha già raggiunto i 3,5 milioni e presto raggiungerà una capacità di quasi 5 milioni di proiettili all’anno.

Dato che c’è sempre un’alta probabilità che qualsiasi numero occidentale sulla Russia sia distorto verso il basso e sottostimato, c’è qualche possibilità che questi numeri siano forse anche del 15-20% più alti in realtà. Non solo ho sempre detto questi numeri esatti, ma ho previsto una capacità di 7 milioni di dollari entro la fine del 2024-2025, quindi una valutazione del genere per me sarebbe in linea con i tempi.

E questo senza contare i 10 milioni di proiettili forniti dalla Corea del Nord.

Continuano con un altro fattore interessante:

Un ulteriore fattore limitante per la sostenibilità del fuoco ucraino è rappresentato dalle canne di artiglieria. Si stima che l’Ucraina avrà bisogno di 1500-2000 canne all’anno e che ogni unità costerà fino a 900.000 euro. Dato il numero limitato di macchine per la produzione di canne, si dovrebbe prestare particolare attenzione alle aziende per espandere la loro produzione. Gli Stati Uniti e gli alleati europei devono rivalutare criticamente l’insostenibile frammentazione che ha portato l’Ucraina a utilizzare almeno 17 diverse piattaforme di artiglieria. L’obiettivo dovrebbe essere quello di ridurre questo numero di diverse volte.
Aspetta, ci stai dicendo che hanno bisogno di 2000 canne all’anno al costo di oltre 1 milione di dollari l’uno? Sono 2 miliardi di dollari solo per i barili…

Altri numeri interessanti: La capacità della Lockheed di produrre GMLRS per gli HIMARS è apparentemente di 10.000 all’anno, o ~800 al mese. Sebbene questo permetta all’Ucraina di averne “bene” 24 da sparare al giorno, immaginate se fossero gli Stati Uniti ad essere coinvolti nella guerra. 24 razzi HIMARS al giorno sarebbero sufficienti per gli oltre 1000 lanciatori HIMARS degli Stati Uniti? In sostanza, gli Stati Uniti esaurirebbero i razzi all’istante e non avrebbero alcuna capacità di mantenere la produzione.

Droni
Si tratta per lo più di informazioni pedestri. Una rivelazione interessante riguarda i numeri dello Shahed russo:

Quindi, secondo loro, la Russia costruiva 40 droni Shahed/Geran al mese, ora ne costruisce 100 e presto ne costruirà 200 al mese. Inoltre, un’altra conferma di qualcosa che dico da quasi un anno, ma che gli opinionisti filo-USA/occidentali non addestrati negano sempre: gli intercettori occidentali devono sparare 2 missili per abbattere un bersaglio.

Anche se 200 droni al mese sono un grande aumento, consentono comunque solo pochi attacchi di dimensioni decenti ogni mese, dato che di solito è necessario inviarne almeno 20 alla volta per avere un qualche effetto nel sopraffare l’AD; se ne bastano di meno, possono essere facilmente eliminati. Suppongo che un attacco di 50 droni una volta a settimana, per 4 al mese, sia abbastanza buono. Tuttavia, se riusciranno a raggiungere un livello tale da rendere possibile un attacco di 20-30 droni una volta ogni 2-3 giorni, allora l’Ucraina sentirà davvero il dolore. Ciò richiederebbe qualcosa come 450 droni costruiti al mese. Ma anche così, quello che hanno ora è sicuramente un grande progresso.

Il resto del rapporto non fornisce molto altro di interessante. In effetti, il rapporto nel suo complesso si limita a chiedere più soldi e più cose, contando sul fatto che l’aumento di wunderwaffen, come al solito, possa cambiare le carte in tavola. Si punta molto sulla quantità di giocattoli piuttosto che su un vero e proprio piano strategico. In breve, il loro messaggio è: “Finché potremo continuare a pompare materiale in Ucraina vinceremo, non abbiamo bisogno di alcuna strategia sul campo di battaglia”.

Questo purtroppo deriva dalla continua errata comprensione e sottovalutazione delle capacità russe. La Russia continua ad essere vista dall’Occidente come un paese arretrato e capace solo di “assalti di carne” – una sorta di orda di zombie glorificata da uno di quei videogiochi in cui, finché si hanno abbastanza munizioni, è possibile fermarli alle porte.

Questo ignora completamente tutte le manifestazioni di pensiero strategico, di sviluppo e di avanzamento che la Russia stessa sta progettando giorno dopo giorno. In uno struggente momento di simbolismo involontario, il rapporto si conclude con la foto di un veterano disabile a Kiev:

ISW

Il secondo articolo, molto più interessante, proviene dal noto thinktank ISW:

Come molti sanno, l’ISW è un’organizzazione neocon con sede a Washington gestita da Kimberly Kagan, cognata del neocon del PNAC Robert Kagan, marito di Victoria Nuland. Infatti, il rapporto stesso è sottoscritto anche dal fratello di Robert, Frederick W. Kagan.

Questo rapporto è molto più significativo in quanto segnala e sottolinea le reali intenzioni della banda di cintura e degli scagnozzi del deepstate, offrendoci una rara visione degli spettri che infestano le loro menti e delle ramificazioni di ciò sulle prospettive strategiche a lungo termine del conflitto, in particolare se la Russia dovesse vincere, che è il grande “pericolo” attorno al quale ruota il rapporto.

Il rapporto inizia subito, senza peli sulla lingua, con una serie di ammissioni importanti:

Gli Stati Uniti hanno una posta in gioco molto più alta nella guerra della Russia contro l’Ucraina di quanto molti pensino. La conquista di tutta l’Ucraina da parte della Russia non è affatto impossibile se gli Stati Uniti interrompono l’assistenza militare e l’Europa segue il loro esempio. Un tale esito porterebbe un esercito russo malconcio ma trionfante fino al confine della NATO, dal Mar Nero all’Oceano Artico.
Ancora una volta, al di sotto della patina gestuale dei titoli dei media, che devono dare un taglio narrativo per la plebe, come ad esempio il fatto che, nella migliore delle ipotesi, la Russia potrebbe ottenere un “congelamento delle linee”, vediamo che i veri manovratori e agitatori all’interno della macchina del MIC immaginano che la Russia conquisterà tutta l’Ucraina, se gli aiuti verranno interrotti.

Continuano con altri colpi pesanti:

In sostanza, stanno ammettendo che una Russia vittoriosa sarà la forza più formidabile dalla fine della Guerra Fredda. Ma ecco il motivo per cui questo spettro li terrorizza così tanto:

Per dissuadere e difendere da una rinnovata minaccia russa dopo una piena vittoria russa in Ucraina, gli Stati Uniti dovranno dispiegare in Europa orientale una parte considerevole delle loro forze di terra. Gli Stati Uniti dovranno dislocare in Europa un gran numero di aerei stealth. La costruzione e la manutenzione di questi velivoli è intrinsecamente costosa, ma le difficoltà nel produrli rapidamente costringeranno probabilmente gli Stati Uniti a fare una scelta terribile tra il mantenerne un numero sufficiente in Asia per difendere Taiwan e gli altri alleati asiatici e il dissuadere o sconfiggere un attacco russo a un alleato della NATO. L’intera impresa costerà una fortuna, e il costo durerà fino a quando la minaccia russa continuerà, potenzialmente all’infinito.
Ecco il problema. Ricordate per quanto tempo ho cercato di educare le persone su come funziona la dottrina militare. Ci sono alcune leve di sicurezza che devono scattare automaticamente quando l’avversario fa una mossa. Non si tratta di una scelta momentanea di un politico, come un presidente, o di qualcosa che deve essere “deciso”. No, è scritto nella dottrina con la stessa certezza del “codice” del linguaggio di programmazione. Se un numero X di forze si muove verso di voi e vi minaccia, non avete altra scelta che mettere in campo un numero Y di forze preventive.

È per questo che la Russia non ha avuto altra scelta se non quella di allestire immediatamente un nuovo esercito di 500.000 uomini alla vigilia dell’ingresso della Finlandia e della Svezia nella NATO quest’anno, con la ripresa dei distretti militari di Mosca e Leningrado, interrotti da tempo. È semplicemente impensabile che una nazione abbia eserciti ostili direttamente ai suoi confini senza che vi sia qualcosa per contrastarli.

Allo stesso modo, il MIC statunitense ha goduto del lusso di avere vari procuratori che tenevano le forze militari russe limitate e occupate, in modo che gli Stati Uniti potessero dirottare le loro forze altrove per mantenere la loro egemonia nel mondo. Ma ora, una vittoria totale e decisiva della Russia in Ucraina rischia di annullare tutto questo e, secondo le loro stesse parole, richiederebbe agli Stati Uniti di dislocare “una parte considerevole delle proprie forze di terra” in Europa orientale.

Questo rappresenterebbe un grosso ostacolo per i piani degli Stati Uniti, in particolare nei confronti della Cina, dato che, come scrivono poi, dovrebbero produrre e stazionare in Europa grandi quantità di aerei stealth, che ostacolerebbero i loro progetti per Taiwan. In breve, sostengono che una vittoria russa manderebbe in bancarotta il MIC, richiedendo un nuovo livello insostenibile di escalation militare.

Quasi ogni altro risultato sarebbe migliore, scrivono:

Quasi ogni altro esito della guerra in Ucraina è preferibile a questo. Aiutare l’Ucraina a mantenere le linee di confine attraverso il continuo sostegno militare occidentale è molto più vantaggioso e meno costoso per gli Stati Uniti che permettere all’Ucraina di perdere. “Congelare” il conflitto è peggio che continuare ad aiutare l’Ucraina a combattere: darebbe semplicemente alla Russia tempo e spazio per prepararsi a una nuova guerra per conquistare l’Ucraina e affrontare la NATO.
Queste parole non sarebbero così pesanti se non provenissero dalle fauci della bestia stessa, la più potente “élite ombra” neocon del deepstate che ha gestito il MIC statunitense per decenni e che quindi parla a suo nome. Se leggete attentamente, c’è un’urgenza quasi disperata nel loro tono, il che è estremamente eloquente.

Poi tracciano 4 potenziali scenari su come potrebbe svolgersi la guerra:

Situazione 1: Prima del febbraio 2022

Usano la mappa qui sopra per illustrare che prima del 2022, la Russia “non rappresentava una minaccia” per nessuno Stato NATO non baltico, poiché la Russia – secondo loro – “aveva una divisione aviotrasportata e una brigata di fanteria meccanizzata vicino ai confini estoni e lettoni e l’equivalente di una divisione nell’exclave di Kaliningrad… Nessuna truppa russa minacciava la Slovacchia, l’Ungheria o la Romania”.

Inoltre, sostengono che le reti russe di AD avevano grandi lacune per la Polonia meridionale, la Slovacchia, la Romania, l’Ungheria e così via, perché la Russia non poteva piazzare sistemi di AD in Ucraina:

Ciò che è notevole finora è la scarsa considerazione che viene data agli interessi di sicurezza nazionale di qualsiasi altro Paese, oltre agli Stati Uniti. C’è un tono esistenziale quando si parla di qualsiasi risorsa russa che possa anche solo lontanamente rappresentare una minaccia, o che si trovi da qualche parte premuta contro il territorio della NATO. Eppure, il fatto che la NATO possa costeggiare con disinvoltura verso est e piazzare interi eserciti proprio alle porte della Russia è totalmente da ignorare – questo è l'”ordine basato sulle regole” di cui continuano a parlarci: si tratta di regole per tutti gli altri, mentre gli Stati Uniti possono dominare il mondo senza leggi.In realtà, essi sostengono apertamente la coercizione economica, che in qualsiasi altro linguaggio è terrorismo o interferenza politica in un Paese:- È una priorità passare dall’approvazione passiva delle sanzioni alla loro applicazione proattiva e aggressiva, combinata con l’uso della coercizione economica per limitare il commercio con la Russia.
Si tenga presente che la coercizione a cui si fa riferimento è contro i propri alleati. La Russia è già costretta, quindi non si riferisce a loro. No, vogliono aumentare la coercizione nei confronti degli alleati intransigenti dell’UE/NATO o di qualsiasi altro Paese associato per reprimere il regime di elusione delle sanzioni della Russia.Ora che hanno preparato la scena per spaventare il pubblico, passano alla parte finale: mostrare cosa accadrebbe se la Russia occupasse completamente l’Ucraina dopo una vittoria decisiva.Per prima cosa, ripetono nuovamente questo avvertimento in modo cupo, per sottolineare la gravità della minaccia:L’improvviso crollo degli aiuti occidentali porterebbe probabilmente, prima o poi, al collasso della capacità dell’Ucraina di tenere a bada l’esercito russo. In questo scenario, le forze russe potrebbero spingersi fino al confine occidentale dell’Ucraina e stabilire nuove basi militari ai confini con Polonia, Slovacchia, Ungheria e Romania. I russi stanno preparando forze militari di occupazione per gestire la quasi inevitabile insurrezione ucraina, lasciando le truppe di prima linea libere di minacciare la NATO.
Ancora una volta vorrei notare – perché è di estrema importanza – l’enorme disparità, grande come un 747, tra ciò che è permesso riportare per il consumo di massa e ciò che viene effettivamente discusso dai veri pianificatori e strateghi della guerra. Ancora una volta si assiste alla candida ammissione che se gli aiuti occidentali vengono tagliati, la Russia non solo vincerà, ma si spingerà fino al confine occidentale dell’Ucraina. Il contrasto tra questa ammissione del tutto sorprendente e ciò che è consentito nel discorso di superficie, dove è ancora proibito anche solo proporre che la Russia “rompa lo stallo” anche a livello locale, avanzando magari fino al Dnieper, o qualcosa del genere.I russi hanno ampliato la struttura del loro esercito per combattere la guerra e hanno manifestato l’intenzione di mantenere la struttura più ampia dopo la guerra.[5] Potrebbero facilmente posizionare tre armate complete (la 18ª Armata d’Armi Combinate e la 25ª Armata d’Armi Combinate create di recente per questa guerra e l’8ª Armata d’Armi Combinate della Guardia) ai confini di Polonia, Ungheria, Slovacchia e Romania.[6]
Aspettate un attimo, quindi il povero esercito russo, completamente morto, malconcio, battuto e sconfitto, che – secondo il MSM – aveva avuto finora il 95% di perdite, è improvvisamente in grado di radunare 3 intere armate da campo solo per il compito di proteggere il confine polacco? Si tratta di un vero e proprio universo di differenza rispetto a ciò che è consentito al pubblico.

In effetti, è assolutamente vertiginoso ciò che ora si afferma che la Russia sarà in grado di radunare lungo l’intero fronte della NATO:

Da dove vengono improvvisamente tutte queste centinaia di divisioni? Ah, ma vedete, questo è il potere della propaganda. Questo dimostra che praticamente tutto ciò che vediamo è solo un po’ di macinato destinato al consumo pubblico, una propaganda intenzionalmente progettata e mirata a sminuire le forze russe in tutti i modi possibili, dalla quantità alla qualità, a tutto ciò che sta in mezzo.

Ma i veri pianificatori, le eminenze grigie dietro il sipario, vedono ciò che ci nascondono: massicci accumuli russi senza precedenti, risalenti all’epoca della Guerra Fredda, che non vengono contrastati in modo apprezzabile in Ucraina.

E così arriva la prossima notizia bomba:

La NATO non sarebbe in grado di difendersi da un simile attacco con le forze attualmente presenti in Europa. Gli Stati Uniti dovrebbero spostare un gran numero di soldati americani sull’intero confine orientale della NATO, dal Baltico al Mar Nero, per scoraggiare l’avventurismo russo ed essere pronti a sconfiggere un attacco russo. Gli Stati Uniti dovrebbero anche impegnare una parte significativa della loro flotta di aerei stealth in modo permanente in Europa. La strategia di difesa della NATO si basa sulla superiorità aerea non solo per proteggere le truppe NATO dagli attacchi nemici, ma anche per utilizzare la potenza aerea per compensare le forze di terra NATO più piccole e le scorte limitate di artiglieria NATO. Gli Stati Uniti dovrebbero tenere a disposizione in Europa un gran numero di aerei stealth per penetrare e distruggere i sistemi di difesa aerea russi – e impedire ai russi di ristabilire una difesa aerea efficace – in modo che gli aerei e i missili da crociera non stealth possano raggiungere i loro obiettivi. Il requisito di impegnare una significativa flotta di aerei stealth in Europa potrebbe degradare gravemente la capacità dell’America di rispondere efficacemente all’aggressione cinese contro Taiwan, poiché tutti gli scenari di Taiwan si basano pesantemente sugli stessi aerei stealth che sarebbero necessari per difendere l’Europa.
Arriviamo così alla vera verità sul perché le flotte stealth di cui sopra siano così necessarie. Vedete, essi ammettono che la NATO non dispone di vere e proprie forze di terra, né di artiglieria, dopo aver ceduto tutto all’Ucraina – non che ne avesse molta, tanto per cominciare. In effetti, la NATO non è altro che un fragile caccia a reazione di vetro mascherato da alleanza militare.

Ma il problema è che ammettono che le reti di difesa aerea russa sono così fitte che le loro forze aeree non saranno in grado di penetrarle senza l’aiuto dei caccia stealth, che non solo sono abbastanza limitati, ma sono anche necessari per il fronte Cina-Taiwan.

Ci sono così tante cose da dire sui velivoli stealth che potrebbero richiedere un’intera serie di articoli, per non parlare di un solo articolo o anche di pochi paragrafi. Ma una cosa che dirò qui è che i velivoli stealth si degradano molto rapidamente senza una grande manutenzione, il che è impossibile in un conflitto ad alta intensità. Per esempio, i loro rivestimenti RAM devono essere riapplicati ogni poche missioni, il che richiede enormi quantità di manodopera e di tempo, cosa che non sarà assolutamente disponibile in un conflitto reale. Una volta eliminati i rivestimenti, gli aerei saranno estremamente visibili ai radar, poiché gli stessi Stati Uniti ammettono che il rivestimento RAM è responsabile di gran parte delle capacità “stealth” dei moderni velivoli, in particolare del nuovo B21 Raider.

Ciò significa che più a lungo si protrae il conflitto, più l’unico “asso nella manica” degli Stati Uniti diventa meno stealth e più vulnerabile. Il che significa che, ancora una volta, la Russia mantiene il vantaggio e diventerà progressivamente più forte con il proseguire del conflitto, proprio come in Ucraina.

Ma per continuare, le prospettive non fanno che peggiorare:

Il costo di queste misure difensive sarebbe astronomico e sarebbe probabilmente accompagnato da un periodo di rischio molto elevato, in cui le forze statunitensi non sarebbero adeguatamente preparate o posizionate per gestire né la Russia né la Cina, per non parlare di entrambe insieme.
Aspetta, quindi gli Stati Uniti non sarebbero nemmeno in grado di gestire uno dei due, figuriamoci entrambi? Si capisce che la situazione sta diventando estremamente disperata quando sono costretti a confessare ammissioni di questa portata e dimensione.

Ecco come prevedono che sarà la mappa una volta che la Russia avrà preso il controllo di tutta l’Ucraina. Innanzitutto la disposizione delle divisioni corazzate e meccanizzate:

Poi, le nuove reti di difesa aerea IAD, che ora coprirebbero una parte significativa del “territorio NATO”:

Infine, passano al loro “scenario da sogno” per una vittoria totale degli ucraini, che è ovviamente impossibile e ha letteralmente zero possibilità di verificarsi, rendendo così irrilevante anche solo un approfondimento. Tuttavia, c’è un punto importante che affermano apertamente:

Ed eccolo qui, completo, nudo e allo scoperto. Il vero obiettivo delle mani sporche della NATO rivelato finalmente senza arte né parte:

“Il Mar Nero diventerebbe quasi un lago della NATO”.

Questo è il loro sogno irrealizzato da sempre, finalmente confermato dalla stampa. Non c’è molto altro da dire, perché questa ammissione convalida da sola ogni singolo passo compiuto dalla Russia in questo conflitto. Scagiona completamente la Russia da ogni misfatto, perché dimostra senza ombra di dubbio che la NATO non ha sempre cercato altro che circondare e strangolare la Russia da ogni lato, derubandola di terre e tesori.

Parte 2
Questa prima parte risale al 14 dicembre, ma oggi ISW ha pubblicato la seconda parte della sua analisi, che continua la tendenza. Non la tratterò in modo altrettanto approfondito, soprattutto perché ripropone noiosamente gli stessi punti, come se li volesse ribadire, evidenziando ulteriormente la loro disperazione e urgenza.

Tuttavia, ci sono alcuni punti molto convincenti da notare.

In primo luogo, contraddicono ancora una volta la narrazione corrente, valutando che il taglio degli aiuti non si tradurrebbe in una semplice “situazione di stallo”, come vorrebbero far credere CNN e co. ma piuttosto porrebbe fine alla capacità dell’Ucraina di tenere a bada la Russia, portandola semplicemente a sopraffarla:

Una sconfitta autoimposta in Ucraina porrà gli Stati Uniti di fronte al rischio reale di un’altra guerra in Europa, con rischi di escalation e costi più elevati. Tagliare gli aiuti all’Ucraina non congelerà i fronti, come ha valutato ISW[2], ma diminuirà la capacità dell’Ucraina di tenere a bada l’esercito russo e accelererà la spinta militare della Russia sempre più a ovest, perché il motore fondamentale di questa guerra – l’intento del Cremlino di sradicare l’identità e la statualità dell’Ucraina – non è cambiato.
In secondo luogo, sfatano un’altra narrazione popolare in Occidente, secondo la quale la Russia rimarrà “gravemente indebolita” dopo questa guerra, raccogliendo i rottami di qualsiasi territorio distrutto che è riuscita ad annettere. In realtà, ho detto fin dall’inizio che la Russia sta guadagnando immensamente di più di quanto stia perdendo: in nuove popolazioni, terre e risorse, ecc. ISW è d’accordo:

L’assorbimento di parti dell’Ucraina e della Bielorussia aumenterebbe in modo significativo il potere della Russia, aggiungendo milioni di persone, compresa la manodopera qualificata e le risorse industriali rimaste e il territorio non bruciato, che il Cremlino potrebbe utilizzare per la ricostituzione dell’esercito russo.
E ancora una volta, la nota è pesante: la NATO stessa è in gioco:

Il futuro della NATO è legato al futuro dell’Ucraina in modo molto più stretto di quanto la maggior parte delle persone capisca.

Non solo suggeriscono che la NATO potrebbe rompersi del tutto, ma per coloro che avevano bisogno di sentirselo dire da una fonte più “autorevole”, convalidano ciò che Scott Ritter e io abbiamo sostenuto da tempo: che l’articolo 5 non significa nulla. Senza la volontà di agire realmente, non obbliga legalmente i Paesi a fare granché, soprattutto in difesa di un Paese i cui unici legami con la NATO sono piuttosto artificiali e di cui non gliene può fregare di meno.

Poi, fanno un’altra ammissione abbastanza sorprendente e controintuitiva: che la più grande forza della Russia è in realtà il suo dominio nella sfera dell’informazione. Chi l’avrebbe mai detto? Gli influencer dei media ci dicono che è l’esatto contrario: La Russia è uno “zimbello isolato” sul palcoscenico mondiale, i cui stratagemmi propagandistici cadono a vuoto come un brutto numero di commedia in una bettola. Ma ancora una volta, sotto la superficie, si sta cantando una melodia diversa, e i veri agitatori sono sopraffatti e intimiditi dalla forza delle realizzazioni informative della Russia a 5GW:

Ma qui abbandonano la trama, andando al cuore dell’intera questione. Delineano quella che secondo loro è la minaccia più grave di tutte: che la Russia possa da sola cambiare la percezione che l’America ha di se stessa, anzi, cambiare l’idea stessa di ciò che è l’America:

Alterare la volontà dell’America non è cosa da poco. L’America è un’idea. L’America è una scelta. L’America è una fede nel valore dell’azione. La resilienza interna degli Stati Uniti e il loro potere globale derivano in gran parte da persone e Paesi che scelgono gli Stati Uniti e dagli americani che conservano la loro capacità di agire con intenzione. Un avversario che impara ad alterare queste realtà è una minaccia esistenziale, soprattutto quando le idee sono l’arma principale dell’avversario.
E ora arriviamo alla metafisica di tutto questo. Vedete, la pecora è stata tosata, mostrando il suo sedere a tutti, e solo i veri appassionati possono cogliere i profondi segreti esoterici che vi sono rivelati.

Ciò che hanno appena delineato va al di là di qualsiasi misera questione materiale di guerra e di tutte le cose corporee. In realtà, hanno svelato l’essenza ontologica stessa dell’egemonia globale dell’Impero, ed è un aspetto che è stato casualmente evocato oggi sul blog di Andrei Martyanov, che mi è capitato di incrociare sincronicamente. Il suo pezzo in sé è stimolante e molto buono – e vi consiglio di leggerlo – ma è il commento in cima che colpisce al cuore delle cose come un inno:

Ripubblicherò la parte inferiore, scritta in modo evocativo, per dare un effetto:

Il Mito dell’America ha galleggiato durante tutto questo. Era un catechismo condiviso della religione americana, ma sta diventando sempre più difficile da ingoiare. Stiamo diventando atei americani e quando il popolo smette di credere nei propri miti, perisce.
Ora vediamo ancora una volta l’esegesi di Kagan e coorte, fianco a fianco:

Alterare la volontà dell’America non è cosa da poco. L’America è un’idea. L’America è una scelta. L’America è una fede nel valore dell’azione. La resilienza interna degli Stati Uniti e il loro potere globale derivano in gran parte da persone e Paesi che scelgono gli Stati Uniti e dagli americani che conservano la loro capacità di agire con intenzione. Un avversario che impara ad alterare queste realtà è una minaccia esistenziale, soprattutto quando le idee sono l’arma principale dell’avversario.
Ah…. quindi è così. Vedete, il potere americano non è altro che un Mito di supremazia e di diritto, ammantato da varie esche eufemistiche e da vaporosi depistaggi come “l’ordine basato sulle regole”.

Ciò che i neocon hanno rivelato qui è la chiave principale di tutto: la Russia è in grado di infrangere il Mito, o meglio la Grande Menzogna, che racchiude non la vera America che era una volta, ma la distorsione neocon piedistallata di essa – ciò che è diventata, il colosso deformato, il Leviatano sgraziato che scaglia il mondo intero con la sua coda spronata e il suo alito nocivo.

Questi pazzi, che hanno cooptato il Paese e la sua politica estera, hanno di fatto trasformato l’America in nient’altro che in un golem barcollante, senza vestiti come il suo imperatore ombra. Ora non temono altro che la Russia mandi in frantumi questa “idea” spostata, questo “sogno” fraudolento e barricato che esiste solo nelle menti insanguinate degli usurpatori neocon. Questo infrangerebbe l’illusione una volta per tutte, non solo liberando il globo dalla presa del Leviatano, ma distruggendo l’antica ricerca dei neocon.

Si noti l’uso idiomatico molto particolare di: “alterare queste realtà”. Vedete, “alterare” la realtà surrogata imposta dai neocon significa distruggere la bestia una volta per tutte, amputare la crescita cancerosa che strangola il cuore di quella che una volta era “l’America”. Questo è ciò che temono e lo hanno eloquito al meglio, codificato nel simbolismo. L’America che hanno inventato esiste come una simulazione in una matrice, e temono che la Russia abbia trovato la chiave per scollegare il loro falso costrutto-realtà, risvegliando un’intera generazione alla verità effettiva: che il Paese e tutto ciò che ha sempre rappresentato è stato interamente dirottato da una cabala criminale.

Soprattutto, hanno rivelato che il potere dell'”America” si basa su un incantesimo lanciato sui suoi più stretti alleati, gli europei completamente soggiogati. Quando la Russia “romperà” questo incantesimo, sarà tutto finito.

La resilienza interna degli Stati Uniti e il potere globale derivano in gran parte da persone e Paesi che scelgono gli Stati Uniti e dagli americani che conservano la loro capacità di agire con intenzione.
L’idea “sacra” dell’America distillata qui non è altro che un’illusione imperiale, una rete gettata sugli occhi di un continente europeo che è stato sotto occupazione totale dalla fine della seconda guerra mondiale. Ciò che stanno dicendo, in definitiva, è che non c’è alcuna sacralità intrinseca in questo loro ideale fabbricato, ma piuttosto si tratta di un’illusione forzata, che è fragile come il gesso una volta che la gente se ne accorge. E credono che i poteri di risveglio della Russia siano una minaccia esistenziale.

Roba da matti, lo so. Ma è per questo che il loro tono è così evidentemente stridente e vessatorio in questo rapporto disperato.

La Russia ha messo all’angolo i topi e loro sono nel panico.


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Carl von Clausewitz, Pensieri sulla guerra, introduzione del generale Stefano Basset_recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Carl von Clausewitz, Pensieri sulla guerra, introduzione del generale Stefano Basset, OAKS editrice, € 10,00.

Perché recensire una edizione di massime tratte da un classico del pensiero, come il “Vom Kriege” di cui circolano tante edizioni integrali? La risposta è duplice: da un canto perché la guerra nel XXI secolo è tornata alla “ribalta” – a scapito delle anime belle che credevano di averla seppellita per sempre – e nella sua forma “tradizionale” (Russia-Ucraina) e in quella “aggiornata” (Israele-Hamas). Dall’altro perché il generale prussiano trattava della guerra come fenomeno, sia negli aspetti immutabili, sia in quelli più legati alle condizioni particolari (e così all’epoca e alle guerre napoleoniche).

Ne consegue che molte considerazioni (in particolare tratte dai libri I, II e III) concernono l’essenza e la teoria della guerra (le regolarità di qualsiasi conflitto armato) e così costanti.; oltre alle condizioni (variabili) delle epoche e dei mezzi delle singole guerre. Ad esempio il Reno fu attraversato – nella stessa direzione – da Giulio Cesare e dagli alleati (Remagen): ovviamente i problemi e le difficoltà che dovevano affrontare il generale romano e quelli angloamericani erano assai diverse, e così la tattica; onde i consigli di Clausewitz vanno presi cum grano salis. Il libro raccoglie massime sulle “regolarità”: è quindi adatto ad un lettore anche non esperto. Una introduzione del generale Basset completa il volume.

Teodoro Klitsche de la Grange

Kelly tra realismo e geopolitica_con Tiberio Graziani, Federico Bordonaro, Roberto Buffagni

Ancora una conversazione sulla geopolitica e sui geopolitici. Grazie al libro curato da Federico Bordonaro, Tiberio Graziani e Emanuel Pietrobon entra nel mirino il geopolitico statunitense Phil Kelly. L’obbiettivo di Kelly è riaffermare il ruolo della geopolitica, quindi della geografia, rispetto al realismo e al costruttivismo; anche, però, iniziare a definire non solo l’autonomia ma anche le relazioni tra di essi. Da qui una definizione aggiornata di heartland e delle interazioni molto più interconnesse tra le tre parti del globo definite dalla geopolitica classica. Una attenzione che consente di discernerere la rilevanza teorica della produzione di Kelly dalla sua fervente affiliazione alla causa della proiezione statunitense, sin troppo evidente in gran parte dei suoi scritti. Buon ascolto, Giuseppe Germinario
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A.A.V.V., La proprietà e i suoi nemici a cura di S. Scoppa, recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

A.A.V.V., La proprietà e i suoi nemici a cura di S. Scoppa, Tramedoro, Bologna 2023, pp. 110, € 10,00.

Questo volume fa parte della collana “Biblioteca della proprietà”, promossa da Confedilizia.

Prende l’occasione dalla direttiva sulle Case-green e in genere dall’andazzo ecologista dell’Unione europea per riproporre l’importanza e la necessità della proprietà, non solo in generale, ma anche per l’ambiente.

Per far questo deve superare due luoghi comuni propagandati: il primo che la proprietà privata comporti necessariamente peggioramento dell’ambiente, mentre quella pubblica no, o quanto meno lo comprometterebbe in misura minore; dall’altro il riflesso condizionato antiproprietario, in particolare da Marx in poi che, dopo il crollo del comunismo ha scelto la tutela dell’ambiente come ragione fondamentale del proprio livore.

Come scrive nell’introduzione Piombini, l’obiettivo «politico principale delle classi politico-burocratiche occidentali, appoggiate dai media e dagli intellettuali (è)  Usare la confisca, il clientelismo, la centralizzazione e la coercizione per combattere il cosiddetto “cambiamento climatico”». E così aumentare (e giustificare) il proprio potere. A tale proposito sostiene Lottieri che «la direttiva detta “case green” è soltanto l’ultimo frutto avvelenato di un’idea pervertita di Unione europea e, oltre a ciò, dello stesso declino del diritto». Tra le due mende, la più interessante è quella del “declino del diritto”. Questo è assorbito dalla legislazione, cioè dalle norme emanate dal principe, che hanno assunto, nello Stato moderno, un ruolo esclusivo (o quasi). Questo a scapito della concezione romana del diritto il quale, oltre alla leges, alle constitutiones, ai senatus consulta era “costituito” dai responsa prudentium, dagli edicta dei Pretori, dai mores maiorum. Cioè era un sistema pluralista e non (quasi del tutto) monopolizzato dallo Stato. Oltretutto negli ordinamenti giudiziari continentali, fino a meno di un secolo fa, privo di quello che Hauriou chiamava, per quello degli Stati Uniti, la superlegalité constitutionnel che garantisce la società civile dall’invadenza dello Stato.

Nell’individuare la ragione di tale bulimia pubblica, Lottieri scrive «alla base di tutto questo, allora, c’è l’antica, antichissima questione del potere. Perché non c’è dubbio che il potere esiste e una delle sue manifestazioni più caratteristiche consiste proprio nella capacità da parte di  alcuni (dominatori) di estrarre le risorse di altri (dominati)». Come gli italiani tartassati da un fisco predone coniugato ad un’amministrazione sgangherata, conoscono bene.

Restando nei limiti di una recensione ricordare tutti i contributi degli autori che affrontato i diversi aspetti del problema: vi rinviamo i lettori.

È opportuno fare comunque un’eccezione per quello di A. Vitale, già dal titolo assai attraente “dall’economia verde a una società al verde”.

Scrive Vitale nella post-fazione che «questo libro mette il dito nella piaga della legislazione e della regolamentazione, nel fondamentalismo ecologico e nella bulimia regolatoria europea – che minacciano di non avere limiti – giustificate con la “crisi climatica globale”» e prosegue che in realtà questo « è funzionale ai pianificatori di ogni colore per un rimodellamento della società secondo i loro desideri (l’uso delle espressioni “cambiare il mondo” e “nuovo mondo” è infatti molto frequente)». Peraltro l’obiettivo dell’ambientalismo radicale è «il controllo e in prospettiva l’annientamento della proprietà, del mercato, dell’economia libera. L’ambientalismo infatti, ignorando il ruolo del meccanismo del libero mercato, dei prezzi e della proprietà privata nella conservazione e nell’aumento delle risorse naturali, finisce sempre per perorare la causa di un’economia pianificata, interventista». Carente di sicuri presupposti, l’ideologia ambientalista non considera le esigenze sociali che sacrifica «di occupazione, di costi per i meno abbienti, di prezzi troppo elevati per i salari medi». E così conduce al verde la comunità.

Nel complesso un libro che possiede il pregio più importante in un’epoca di “politicamente corretto”: la demistificazione.

Teodoro Klitsche de la Grange

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Che cos’è la politica?_di Dr. Vladislav B. Sotirovic

Che cos’è la politica?

Esistono molti approcci ufficiali e non ufficiali, accademici e non, e definizioni formali/informali della politica e del suo funzionamento nella società. Tuttavia, come concetto più universale, si può concludere che la politica è semplicemente la capacità di dirigere e amministrare uno Stato (in greco antico – polis o città-stato) o altre organizzazioni politiche (come quelle multilaterali, internazionali, sovranazionali, ecc.). In sostanza, l’amministrazione dello Stato o di altri soggetti politici è una questione di arte.

Lo Stato può essere definito come un’associazione politica che stabilisce una giurisdizione autonoma/sovrana entro confini territoriali definiti. Inoltre, la sovranità è la pratica di un’autorità politica superiore che si riflette nel fatto che lo Stato è l’unico e superiore creatore di leggi e del potere di proteggerle entro i confini dello Stato (reale o immaginabile). In pratica, esistono due tipi di sovranità statale: esterna e interna.

La sovranità esterna (politica) considera la capacità dello Stato di agire come attore indipendente nelle relazioni internazionali. In pratica, però, implica due punti cruciali:

1) gli Stati devono essere da diversi punti di vista (o almeno giuridici) uguali nelle relazioni reciproche; e
2) che l’integrità territoriale seguita dall’indipendenza politica di uno Stato è inviolabile.

La sovranità interna (politica) dello Stato, invece, si riferisce al territorio all’interno dei confini statali da parte del potere politico supremo (il governo, in pratica supportato da forze di sicurezza armate). Infine, la politica è strettamente legata al concetto di autorità, che è la capacità di influenzare la politica degli altri, fondamentalmente, sulla base del dovere e dell’obbedienza.

Tuttavia, come ci si può aspettare, la comprensione e soprattutto alcune definizioni ufficiali della politica sono, storicamente parlando, una questione molto complessa e persino essenzialmente contestata. In pratica, esiste un alto grado di disaccordo su questioni molto pratiche su quali aspetti della vita sociale e dell’ambiente umano possono essere applicati all’arte della politica. Secondo un approccio, una persona per nascita è politica, il che significa semplicemente, nella pratica, che l’essenza fondamentale della vita politica sarà vista in qualsiasi relazione interumana, comprese, ad esempio, le relazioni di genere (maschio/femmina). Tuttavia, nell’uso popolare in tutto il mondo (ma soprattutto in Occidente), il quadro ristretto della politica è quello del design. In altre parole, si intende che la politica opera solo a livello governativo e si occupa degli affari dello Stato. Nelle società occidentali, inoltre, la politica deve coinvolgere la competizione tra partiti politici seguita da elezioni multipartitiche per i diversi livelli di autorità. In generale, la politica come fenomeno socio-storico è estremamente limitata sia nello spazio che nel tempo.

La concezione tradizionale del fenomeno della politica era quella di “arte e scienza del governo” o “gestione degli affari dello Stato”. In questo caso, però, il problema pratico è ancora irrisolto: non è mai stato raggiunto un accordo comune sulla portata delle attività e dei livelli di gestione dello Stato di cui il governo è responsabile. Ad esempio, alcune delle domande principali sono:

1) Il governo si limita solo agli affari di Stato?
2) Il governo ha il diritto di interferire negli affari della chiesa, della comunità locale o della famiglia?
3) Il governo si svolge in un’economia (liberale)?

Storicamente, i filosofi della scienza politica si sono occupati di due questioni cruciali applicate al fenomeno della politica:

1) se altre creature, a parte gli esseri umani, esercitino la politica; e
2) È possibile che la società esista senza politica?

Alcuni di loro hanno sostenuto che altre creature (come le api) hanno la politica e che alcuni tipi di società, almeno teoricamente, (come quella utopica) possono esistere senza politica. In pratica, però, la politica si applica solo agli esseri umani; in altre parole, a quegli esseri che possono comunicare simbolicamente e di conseguenza fare affermazioni, accettare certi principi, discutere e infine dissentire. Per esempio, la politica si verifica nei casi in cui gli esseri umani discutono su alcune questioni pratiche nelle loro società e hanno determinate procedure per risolvere il problema al fine di trovare un accordo comune accettabile almeno dalla maggioranza aritmetica (democrazia), ma non necessario. Nella concezione occidentale (liberal-democratica) della politica, non c’è (vera) politica nei casi in cui c’è un accordo monolitico e totale sui diritti e sui doveri in una società (ad esempio, nel sistema dittatoriale/totalitario a partito unico).

Tuttavia, da un punto di vista più ampio, la politica si riferisce a certe attività utilizzate dagli esseri umani per creare, difendere e cambiare le regole ai diversi livelli in cui vivono. La politica è sempre stata strettamente legata sia a conflitti e cooperazioni che ad accordi e disaccordi. Da un certo punto di vista, c’è la pratica di argomenti opposti, desideri opposti su come risolvere il problema, desideri politici, economici, sociali, ecc. in competizione, e il battere gli interessi degli altri. In questo caso, c’è un disaccordo sulle regole in base alle quali vivono gli abitanti di certe società. Tuttavia, in molti casi pratici, per influenzare tali regole (leggi) o per forzarne l’attuazione pratica, le persone possono collaborare con altre persone. Tuttavia, la politica è un fenomeno estremamente controverso, in quanto è stata storicamente intesa come arte del governo/stato, come affari pubblici nella maggior parte dei punti di vista generali, come risoluzione non violenta di diverse controversie e, infine, come potere e distribuzione di vari tipi di risorse. Infine, lo statecraft (gestione politica dello Stato) può essere definito come l’arte di condurre gli affari pubblici e la politica estera per realizzare l’interesse nazionale: gli obiettivi della politica estera dello Stato per il (presunto) beneficio della società.

In ogni caso, l’azione dello Stato come attore politico indipendente, sia in politica interna che esterna, richiede il possesso di un potere reale. Il fenomeno del potere politico può essere inteso come la capacità di influenzare i risultati di determinate azioni, che include la capacità dello Stato di gestire gli affari politici e di altro tipo all’interno dei propri confini senza l’interferenza di altri attori politici (esterni). In questo senso, politica statale e potere sono in strettissima relazione, sostanzialmente sinonimi.

testo originale: Sotirovic 2023 What is a politics

Dr. Vladislav B. Sotirovic
Ex professore universitario
Ricercatore presso il Centro di Studi Geostrategici
Belgrado, Serbia

www.geostrategy.rs

sotirovic1967@gmail.com

© Vladislav B. Sotirovic 2023
Disclaimer personale: l’autore scrive per questa pubblicazione a titolo privato e non rappresenta nessuno o nessuna organizzazione, se non le sue opinioni personali. Nulla di quanto scritto dall’autore deve essere confuso con le opinioni editoriali o le posizioni ufficiali di altri media o istituzioni.

Dr. Vladislav B. Sotirovic

Ex-University Professor

Research Fellow at Centre for Geostrategic Studies

Belgrade, Serbia

www.geostrategy.rs

sotirovic1967@gmail.com                                                                                            © Vladislav B. Sotirovic 2023

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NOTE SU FREUND E LA DECADENZA, di Teodoro Klitsche de la Grange

NOTE SU FREUND E LA DECADENZA

Non ho letto il libro di Freund, per cui queste brevi note si rifanno alle altre opere del filosofo alsaziano, particolarmente L’age de la renaissance, tradotto e pubblicato in italiano nel 1980 (da Armando) con un titolo (quanto mai opportuno): La fine dello spirito europeo.

La concezione della decadenza di Freund è quella “classica” della ciclicità delle istituzioni (e delle civiltà umane) per cui a fasi di espansione e crescita seguono quelle di contrazione e decrescita; a queste ultime succedono poi epoche di “rinascite” (cioè di nuova espansione) e così secondo un andamento che si ripete in cicli per certi aspetti molto simili. Questa concezione applicata alle forme politiche è stata condivisa già dal pensiero antico, dagli stoici e da Polibio di Megalopoli. Nel pensiero moderno tra i tanti che l’hanno sostenuta occorre ricordare G.B. Vico e, ovviamente con le dovute differenze, Spengler; i quali l’applicavano anche alle civiltà umane; e Pareto (alla società prima che alle istituzioni).

Tutte tali visioni hanno in comune di contrapporsi all’idea di progresso, per cui l’uomo progredisce rispetto al passato e questo cammino unidirezionale non conosce marcia indietro (il futuro è e sarà migliore del passato).

Il contrario di quanto ritenevano tanti pensatori antichi (ma non solo) che collocavano l’età dell’oro all’inizio della Storia, per cui la decadenza sarebbe un cammino costante in direzione contraria a quella del progresso. Tra le due, ma in effetti opposta a quella del progresso (prevalente nella modernità) è quella ciclica per cui l’andamento delle fasi di espansione/contrazione somiglia, nello spazio cartesiano, ad una sinusoide.

Scriveva Freund di aver mutuato la nozione di decadenza nel doppio significato datole da Pareto: della degenerazione di un tipo storico di civiltà, ma dall’altro, del rinascimento possibile ad uno stadio successivo sotto nuovi aspetti, differenti, come scrive Jeronimo Molina Cano (nella prefazione dell’edizione 2023) sintetizzando le linee direttrici “del suo opus magnum, la Décadence”. In effetti nei pensatori della ciclicità delle istituzioni e comunità umane, il tutto non stupisce. Perché dalla regolarità della successione dei cicli deriva anche la normalità del processo.

Sempre sul doppio aspetto della decadenza occorre ricordare quel che ne pensava Hauriou con la sua concezione sull’alternanza delle epoche medievali e di rinascimento[1]

Interrotte da crisi che non sono decadenze complete ma fasi di cambiamento intenso, che comunque conserva nella nuova epoca molti elementi della precedente[2]. La coincidenza (anche lessicale) della attuale epoca come di rinascenza – secondo Hauriou e Freund – (la modernità dal XVI secolo ad oggi) è un modulo ulteriore di collegamento dei due pensatori.

Quel che più interessa della concezione di Freund, oltre alla “ciclicità”, sono i caratteri che enumero di seguito:

1) il valore dato ai fatti e all’esperienza, rispetto alle costruzioni intellettualistiche che connotano molti dei nuovi idola della contemporaneità, derivanti da astrazioni di tesi settoriali, anche scientifiche (o pseudo-scientifiche); come ad esempio l’emergenza climatica, il genderismo, ecc. ecc.: ossia la prevalenza di quello che Freund definiva il pensiero razioide, essenzialmente una caricatura della razionalità occidentale[3] e già di per se connotato di decadenza.

Di converso il fatto che l’Europa sia in fase di decadenza è un’affermazione constatabile da una pluralità di circostanze reali e percepibili: in primo luogo l’arretramento territoriale, con la perdita degli imperi coloniali. In secondo luogo, al posto dell’aggressività della fase d’espansione, nel presente prevale – nel migliore dei casi – l’esigenza di conservazione. A questo si accompagna la perdita di fiducia nei valori che avevano ispirato la fase ascendente, i quali anzi, sono occasione di autocolpevolizzarsi, con una mollezza spirituale, prima ancora che materiale. Peraltro, come scriveva Freund, l’aberrazione delle autocolpevolizzazioni (oltre che le loro evidenti parzialità) consiste nel credere che biasimando l’azione degli europei si puliscono quelli che puliti non sono, cioè i governanti dei paesi decolonizzati, alcuni dei quali artefici di predazioni, stragi e genocidi non inferiori,  e spesso più efferati di quelli degli ex colonizzatori.

Secondariamente la tesi di Freund si basa sul fatto che quella materiale deriva dalla decadenza spirituale; la razionalità e la libertà, caratteri della rinascenza occidentale ne hanno fatto le spese, essendo trasformate da una ipertrofia senza limiti che le distorce.

Questa consiste nell’intellettualizzazione. Nell’esempio di Freund la civiltà europea ha costruito una serie di libertà concrete (di pensiero, di riunione, ecc.) per difenderle dall’arbitrio del potere; ovviamente. come affermato da secoli di pensiero, libertà e dominio sono opposti ed insopprimibili.

Invece l’intellettualizzazione “preconizza l’emancipazione totale del genere umano… restituisce al sistema delle libertà il fine escatologico di una libertà totale, senza condizioni” (ossia la fine del dominio). Così “l’intellettualizzazione svia la razionalità appartenente alla Rinascenza, da cui peraltro è nata, assegnandole una missione radicale nella quale perde il proprio significato”. E, sotto un altro aspetto “l’intellettualizzazione trasforma la razionalizzazione in una pura attività razioide, ossia in una discussione sterile, senza alcun riferimento al reale”. Inoltre “una delle illusioni dell’intellettualismo sta nel non accorgersi del rapporto sottile e spesso oscuro tra il tutto e le parti”; nonché tra fine e mezzi. È un modo di argomentare scombinato e sofistico: a farne le spese è soprattutto il principio che “nomina sunt consequentia rerum” sostituito dalla “produzione” di parole a mezzo di parole.

In terzo luogo Freund, come sopra detto, non ritiene che la decadenza sia annientamento delle istituzioni e, ancor di più, delle comunità, ma una fase di trasformazione. La gestione della quale, al fine di migliorare le doglie del nuovo che nasce, richiede la consapevolezza di essere decadenti. Ovviamente è una consapevolezza rigettata a priori da chi condivide l’idea che la Storia sia in costante progresso, che l’oggi è meglio di ieri, e domani lo sarà di oggi. Per cui i progressisti (più i convinti, meno quelli strumentali) sono i più inadatti a gestire le fasi di decadenza. E quindi le peggiorano, anche trascinando e ritardando i cambiamenti con doglie di durata pluridecennale. Gli europei pensano di non essere in decadenza perché vivono bene, e il loro benessere attrae i non europei, scrive Freund in una prolusione del marzo 1985, prevedendo gli inconvenienti delle conseguenze (multi-culturalismo, terrorismo). Profezia quanto mai azzeccata: “Assumere la condizione di decadenza, induce a prevedere il peggio di essa in vista di fermarla, d’impedire che questo arrivi. Se la politica europea è in procinto di fallire, è perché essa si incammina contro una condotta politica lucida che consiste nell’individuare il peggio per darsi i mezzi per affrontarlo”.

Anche perché, aggiunge Freund, per percepire la decadenza occorre (previamente) aver coscienza della propria identità “come popolazione particolare e come civilizzazione originale”.

L’identità “implica due elementi: da una parte la coscienza corrispondente della alterità, dall’altra la coscienza di un passato, di una tradizione”. E l’identità presuppone la distinzione dall’altro perché “non possiamo attribuire significato a noi stessi senza rapportarci all’altro”. Peraltro l’identità è anche “il riferimento a un passato, il riferimento quindi alla durata nel tempo. È nel tempo che io resto identico, non nell’istante. È impossibile restare identico a se stesso mutando senza sosta, senza essere fedele a ciò che si è, a ciò che si è stati e a ciò che si tenterà di restare”.

Aggiunge Freund che “La conservazione non esclude comunque il cambiamento; al contrario essa è creazione continua nel rispetto della propria identità. Detto altrimenti, l’identità esige un continuo rinnovamento, così come il corpo non si conserva se non creando ripetutamente nuove cellule. L’identità europea risiede nella capacità della propria civilizzazione di uscire dagli stereotipi, di uscire da un tempo prefissato, di rinnovarsi continuamente nella critica”. Anche in queste affermazioni Freund ricorda Hauriou secondo il quale l’istituzione è caratterizzata non dalla stasi (che il giurista francese rimproverava al sistema di Kelsen) ma da un movimento lento ed uniforme che le consentiva di rinnovarsi pur durando nel secoli.

Ne consegue che comunque “La decadenza, però, non esclude di poterla contrastare, a patto di averne la volontà. Non foss’altro che per darci dei nuovi mezzi nella stessa azione”. L’importante, al fine di contrastare la decadenza, è non farsi illusioni rifiutandone l’idea. Come spesso, fanno le classi dirigenti detronizzate.

Teodoro Klitsche de la Grange

[1] Secondo il quale esistono nelle istituzioni fattori di decadenza e all’inverso, di fondazione: “come fattori di crisi il denaro e lo spirito critico; come fattori di trasformazione (cioè di crisi, ma anche di rifondazione comunitaria e istituzionale) la migrazione dei popoli e il rinnovamento religioso”.

[2] V. La science sociale traditionnelle, cap. III section I e ss.

[3] Hauriou l’avrebbe chiamato l’eccesso di spirito critico.

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L’età del ferro della decadenza, di Julien Freund_Un inedito

Qui sotto un inedito di Julien Freund sul tema dell’identità e della decadenza delle civilizzazioni. Lo scritto è apparso sul settimanale francese “Eléments” nel suo formato cartaceo, in occasione della riedizione del libro, pubblicato nel 1984, La décadence. Il testo è preceduto da una presentazione, anche essa tradotta in italiano, di Laurent Vergniaud. La décadénce è parte della trilogia fondamentale di Julien Freund composta da “L’essence du politique” e da “La sociologie du conflit”, nessuno dei quali, purtroppo, disponibile nella traduzione italiana. Tre testi che meriterebbero a pieno titolo la medesima attenzione riservata, sia pure in diverse gradazioni, tra gli altri, ad autori del calibro di Max Weber, Carl Schmitt, Gramsci, Vilfredo Pareto, Carl Marx. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Le lezioni del dottor Freund

sintomatologia della decadenza

di Laurent Vergniaud

La décadence (1984), opera maggiore di Julien Freund, nella riedizione di quest’anno delle éditions du Cerf. Una analisi illuminante – storica, sociologica, filosofica ed esistenziale – della decadenza.

 

Si avrebbe torto a relegare Julien Freund a un semplice ruolo di ricercatore e di teorico del Politico, in quanto nozione astratta. Benché abbia sempre rifiutato le etichette (sino a definirsi “reazionario ma di sinistra”), il suo rigetto delle ideologie non ha significato assenza di prese di posizioni particolarmente nette. Attore della Resistenza, poi osservatore degli avvenimenti del ‘68, Freund rimase per tutta la vita un feroce oppositore dei totalitarismi e un  partigiano della Unione Europea. Benché classificasse la “décadence” come “la sua ricerca puramente storica, quindi di un novizio”, egli dispiega una analisi conseguente tanto sociologica che filosofica della decadenza in quanto esperienza, secondo lui una dimensione ignorata dagli sorici del suo tempo. Intende così porre una pietra miliare di una storia della “sociologia delle mentalità”, di “esplorare le credenze vissute in epoche determinate”.

La storia, questo cimitero delle civilizzazioni

La civilizzazione è l’insieme di norme morali e imperative che uniscono un popolo ed una società funzionale, la decadenza rappresenta il degrado di queste norme. Esperienza percepita sul piano metafisico, ciò non di meno manifesta dei sintomi materiali osservabili. Freund la descrive come una accumulazione di crisi affliggenti ogni categoria della attività umana: politica, economica, artistica e religiosa.

Dagli antichi a Pierre Chaunu, passando attraverso il pensiero controrivoluzionario, i romantici tedeschi e i dissidenti sovietici, Freund documenta con pedagogia ed esaustività l’evoluzione della nostra comprensione della decadenza. Questa si è trasformata a partire dalla concezione ciclica degli antichi. Freund evidenzia due visioni inconciliabili della decadenza: una escatologica, catastrofista e utopista, profondamente irrazionale; l’altra, pessimista e realista, alla quale si rifà, erede dei valori umanisti occidentali.

Per Freund l’essenza della civilizzazione europea risiede in due virtù cardinali: la libertà, incarnata dalla democrazia e l’indipendenza nazionale; lo spirito di verità, fonte del progresso scientifico. Valori minacciati da un egualitarismo utopico che lo svuota di ogni significato, da uno scientismo e progressismo che non sono alro che le manifestazioni più moderne del pensiero escatologico. Pervertite, queste credenze spianano i rapporti gerarchici che hanno consentito alla nostra civilizzazione di irradiarsi. Si ritrova così una costante del pensiero di Freund: senza gerarchie, niente valori; senza aristocrazia, niente progresso. “Siamo noi in decadenza? A questa domanda io rispondo senza esitazione: sì”; così debutta la perorazione appassionata che conclude l’opera. In effetti la décadence non è affatto un semplice studio della storia, ma mira ad affrontare frontalmente  il problema della decadenza in Europa. Freund ne isola i sintomi: ripiegamento degli imperi di fronte al terzo mondo, emersione di iperpotenze non europee, pacifismo rinunciatario, divisione della Germania, i più recenti stati nazione europei. Ai quali si aggiunge l’affossamento della struttura della famiglia, la legislazione dell’aborto, così come il cambiamento della popolazione indotto dall’immigrazione incontrollata. Esattamente come l’Impero Romano sommerso dai barbari, la nostra decadenza è quella di una società che non crede più nel suo proprio avvenire e sacrifica i propri valori in cambio delle comodità materiali immediate, di orizzonti messianici e  della fascinazione verso l’Altro. Di fronte al pericolo di affossamento Freund si appella al risveglio politico e militare degli europei, alla difesa dei confini esterni e delle norme di regolazione interna, contro i nostri nemici, in primo luogo il comunismo. Ossessionato dalla consapevolezza di un pericolo comunista, egli sovraestimerà sino alla fine la minaccia dell’Unione Sovietica. Di fatto, la riunificazione della Germania e la fine del blocco sovietico non hanno portato al tanto auspicato risveglio generale europeo. Le conclusioni di Freund rimangono, ciononostante, profetiche, allorquando il matrimonio omosessuale cancella le antiche norme familiari o la Grande Sostituzione sconvolge ogni stato europeo. La storia è un cimitero di civilizzazioni. Raddrizzare la nostra è impossibile senza prendere coscienza della possibile sparizione.

L’età del ferro della decadenza Julien Freund

Successivamente alla comparsa del libro “La  décadence” (1984), Julien Freund ritorna sul tema in numerosi interventi pubblici. Siamo felici di offrirvi il testo di una brillante, ma inedita prolusione prevista nel marzo 1985 in una conferenza all’Università Fiamminga di Bruxelles, non pronunciata per ragioni di salute

Questa età del ferro è l’epoca che noi viviamo, se si intende per età dell’oro un periodo eccezionale durante il quale un fenomeno storico si dispiega in tutta la sua pienezza e nel quale gli uomini sono nella sostanza felici del contesto in cui vivono.

L’umanità ha conosciuto numerose fasi di decadenza: a partire dagli imperi assiro ed egiziano, inca e azteco, numerose fasi di decadenza in Cina e India, soprattutto la decadenza dell’impero romano, il quale è restato da allora paradigmatico nello studio di tali fenomeni.

Or dunque, tutti questi esempi non hanno raggiunto l’ampiezza della decadenza europea alla quale noi stiamo assistendo. È la decadenza per eccellenza. Prima di entrare nel vivo del soggetto, conviene rispondere alla questione cardinale: l’Europa è realmente in decadenza?

La nozione di decadenza è una categoria dell’interpretazione storica grazie alla quale noi cerchiamo di render conto della sparizione delle civiltà passate, la caduta della potenza da esse sviluppate e le nuove civilizzazioni alle quali hanno consentito la nascita. La nozione di decadenza, come ogni categoria storica, è una nozione relativa; non la si può, quindi, concepire che in relazione ad altri periodi che non sono stati decadenti, ma che, al contrario, sono stati marcati da una lenta progressione di potenza e dall’espansione della corrispondente civilizzazione, sino al momento in cui, raggiunto l’apogeo, intraprende il proprio declino.

Alcuni storici rifiutano il termine di decadenza, sotto pretesto che non significherebbe né più né meno che il cambiamento costante che si produce nella storia. E però non abbiamo avuto solamente un cambiamento a seguito del declino di Roma; piuttosto l’impero romano non esiste più. Un’altra configurazione storica ha preso il suo posto. L’ascesa di Roma costituì, per tanto, un cambiamento, come pure la rivoluzione degli astri. L’idea di cambiamento rimane vaga sin tanto che non la si caratterizzi, sin tanto che non si determini la sua natura e specificità.

La nozione di decadenza è la maniera di caratterizzare nella storia il cambiamento che consiste nel declino di una configurazione politica. Il fenomeno non è improvviso, ma si estende lungo numerose generazioni.

Singolarità dell’Europa

L’Europa è in decadenza in rapporto a quello che è stata. È stata la padrona delle terre e dei mari del globo; oggi  è raggomitolata nel suo spazio geografico. È il segno oggettivo della decadenza europea. Non insisterò sul fatto che questa riduzione dell’Europa in se stessa ha avuto l’effetti diversi  sulla sua mentalità. Mi interessa precisare in cosa tale decadenza si differenzia dalle altre conosciute.

  1. Tutte le civilizzazioni conosciute sono state delimitate, locali; la sola civiltà europea è stata mondiale, planetaria. Ha raggiunto quindi con gradazioni diverse, tutti i popoli del mondo. In questo è unica. Il fatto che entri in decadenza ha inevitabilmente delle implicazioni su tutti questi popoli, anche nel cado essi stessi non siano in decadenza. È ormai storicamente irreversibile il fatto che questi popoli non possano svilupparsi come se non fosse esistita la civilizzazione europea, come se non avessero avuto contatti con essa. È in questo senso, in quanto civilizzazione unica e mondiale, che quella europea costituisce la decadenza per eccellenza. Una realtà mai prodotta sino ad ora.
  2. Questa è la decadenza della potenza politica dell’Europa; aspetto che non esclude che in altri ambiti non si faccia ancora sentire, ad esempio nel dominio economico, tecnologico e artistico. Detto altrimenti, la decadenza non raggiunge uniformemente tutti i settori. In sovrappiù, gli europei  colgono comunque fascino da questa condizione. Rifiutano di prenderne coscienza perché a permettere loro di vivere bene. Gli europei continuano quindi a vivere come se non esistesse e i cittadini di paesi non europei, messi per la prima volta in contatto tra di loro dagli europei, emigrano in Europa perché anche essi vogliono profittare di tale relativo benessere.. Di fronte a questo afflusso esogeno, gli europei  tentano  di trovare soluzioni che dovrebbero in linea di principio giustificare il mantenimento di tale condizione: il pluriculturalismo, il multietnico ed altre dottrine universalistiche di questo genere. Non vogliono d’altronde rendersi conto che i loro territori sono luoghi privilegiati del terrorismo; un segno di debolezza poiché essi faticano a proteggersi da questa forma di aggressione indiretta.

La decadenza per eccellenza

 

  1. Avendo ricevuto parzialmente la civilizzazione europea, i popoli non europei hanno ugualmente ricevuto i germi di tale decadenza. Sarebbe un errore credere che essi potrebbero discernere tra gli elementi di questa civilizzazione, come si può separare il grano dal loglio. La civiltà europea è pervenuta loro nella sua globalità, nella sua tecnologia come nella sua filosofia.  I paesi non europei certamente l’integrano a modo loro, ma comunque,anche in questo caso, interiorizzano la sua potenza e le sue debolezze. Non è possibile prevedere tutti gli effetti di questo processo nell’insieme del mondo.
  2. È in ragione di questa contaminazione perché c’è decadenza in lei che gli altri popoli faranno fatica a sormontare gli effetti. Si sforzano di tutelarsi rifiutando il regime politico propriamente europeo, nella fattispecie rappresentativo, e instaurano a casa propria un sistema dispotico o semidispotico. Investendosi, però, dell’insegna del socialismo o della democrazia egalitaria, essi integrano elementi che, con ogni probabilità, creeranno delle faglie nel loro modo di governare.
  3. Essendo un dato di fatto la varietà degli scambi che la civilizzazione europea ha introdotto nel mondo, il movimento di decadenza potrà svilupparsi attraverso numerose generazioni, forse durante uno due secoli, prima che possa apparire un nuovo stile di civilizzazione nella sua unità e con le sue norme. Quale sia la durata, il nuovo stile di civilizzazione, anche al di fuori dell’Europa, avrà inevitabilmente un carattere mondiali sta; non è possibile, a meno di un cataclisma,, tornare indietro, segnare una linea su questa acquisizione. Ogni nuova forma di civilizzazione sarà erede di quella europea; poco importa se questa ritrova un altro dinamismo oppure langue per lungo tempo nella propria decadenza.

È per tutte queste ragioni che la decadenza europea  costituisce un caso unico nella storia; che rappresenti l’età d’oro della decadenza in quanto siamo in presenza di una tale ampiezza del fenomeno da poter appena supporre i possibili sviluppi nell’insieme del mondo. In ragione della sua debolezza, l’Europa non ha più avuto la forza di sfruttare le risorse tecnologiche e scientifiche delle quali è stata iniziatrice, per esempio in materia di conquiste spaziali. Sono questi due paesi non europei, gli USA e l’URSS, impregnati della sua civiltà, che lo hanno fatto. Con ogni probabilità altri sistemi egemonici prenderanno parte al concerto tecnologico e svilupperanno altre possibilità aperte dalla civiltà europea.

Affrontare il nostro declino

La questione è di sapere se l’Europa intende compiacersi nella decadenza come se questa fosse una fatalità o ancora come se avesse esaurito l’insieme delle potenzialità della sua civilizzazione. Dando seguito alla risposta da dare a questa questione o noi ci compiaceremo nella decadenza, accentuandola in virtù del nostro attuale benessere fin tanto che durerà oppure, a patto di stimarci capaci di un soprassalto, accettando i conflitti che alimentano ogni vitalità. Credo personalmente alla seconda possibilità. Per conseguirla, tuttavia, credo che ci si debba piegare a due condizioni.

La prima consiste ad assumere la condizione di decadenza, a prenderne quindi coscienza, a riconoscerla in modo da adottare le misure più idonee possibili che, senza dubbio, non ci faranno uscire dalla decadenza, ma permetteranno di instaurare una tregua in attesa che le generazioni successive prendano le misure. Vuol dire che si deve invertire la tendenza attualmente dominante negli spiriti, che si rifugiano illusoriamente nell’utopismo  di  un miglioramento continuo della situazione senza ricorrere ai mezzi necessari. Non non assumeremo consapevolezza della decadenza e non ci daremo i mezzi per una tregua, per una rivitalizzazione in qualche misura durevole, in tanto che noi persisteremo nell’ignorarla e nel fuggire nelle chimere della divagazione futuriste. L’avvenire non è rosa; crediamo che non lo sia unicamente perché continuiamo a ragionare con le categorie del secolo passato (‘800); quelle, quindi, di una espansione materiale, economica e sociale, di una espansione materiale, economica e sociale, dell’estensione della civiltà europea sino ai confini del mondo. Assumere la condizione di decadenza, induce a prevedere il peggio di essa in vista di fermarla, d’impedire che questo arrivi. Se la politica europea è in procinto di fallire, è perché essa si incammina contro una condotta politica lucida che consiste nell’individuare il peggio per darsi i mezzi per  affrontarlo.

Soccombere o persistere

La seconda condizione consiste nel prendere coscienza della nostra identità, a la volta come popolazione particolare e come civilizzazione originale.

Bisogna quindi sapere cosa vuol dire concettualmente identità. Essa implica due elementi: da una parte, la coscienza corrispondente della alterità, dall’altra la coscienza di un passato, di una tradizione.

Chiariamo questi due aspetti.

L’identità è il rapporto a sé in tanto che lo si afferma in ciò che si è. Questa affermazione è indivisibile dal riconoscimento della differenza dall’altro, dell’alterità. Impossibile pensare l’identità senza l’alterità e viceversa. È quindi attraverso l’alterità che appare la determinazione del  significato, essendo questo il rapporto al tutto di cui si fa parte o alle altre parti del tutto. Non possiamo attribuire significato a noi stessi senza rapportarci all’altro. Il senso di una parola si stabilisce attraverso la sua distinzione dalle altre parole; sarebbe sufficiente, altrimenti, una sola parola. Il secondo aspetto è il riferimento a un passato, il riferimento quindi alla durata nel tempo. È nel tempo che io resto identico, non nell’istante. È impossibile restare identico a se stesso mutando senza sosta, senza essere fedele a ciò che si è, a ciò che si è stati e a ciò che si tenterà di restare.

L’identità europea  racchiude lo spirito che fu proprio dell’Europa dalla sua esistenza in tanto che furono gli Europei ad introdurre nel mondo lo spirito filosofico, critico e storico, il regime rappresentativo libero e l’economia della crescita e dell’investimento denominato capitalismo. Ogni identità suppone conservazione; in questo senso sono conservatore.

La conservazione non esclude comunque il cambiamento; al contrario essa è creazione continua nel rispetto della propria identità. Detto altrimenti, l’identità esige un continuo rinnovamento, così come il corpo non si conserva  se non creando ripetutamente nuove cellule. L’identità europea risiede nella capacità della propria civilizzazione di uscire dagli stereotipi, di uscire da un tempo prefissato, di rinnovarsi continuamente nella critica. Tutto questo possibile se non si accetta preliminarmente la libertà. Il tempo è alla volta corruttore e creatore; l’importante è la conservazione creativa che tiene in scacco l’unilateralità, quindi in termini sociali la decadenza.

Di per sé il tempo è indifferente, fluisce. Lo trasformiamo in storia dandogli la dimensione del passato, del presente e del futuro; non si può introdurre queste dimensioni che attraverso l’azione cosciente, cioè l’azione meditata. Attraverso le loro azioni gli uomini danno consistenza al tempo, sia queste azioni siano intese nel senso di una crescita, di una ascesa, sia che in quello di una corruzione, di una decadenza. Il fatto è che l’Europa non è più in una fase ascensionale, bensì in una decadente. La decadenza, però, non esclude di poterla contrastare, a patto di averne la volontà. Non fosse altro che per darci dei nuovi mezzi nella stessa azione.

Soccombere o perdurare? L’Europa soccomberà se continua a farsi illusioni per via del rifiuto dell’idea di decadenza. Se l’assumiamo, rimangono le possibilità. La possibilità, diceva Pasteur, non sorride se non a quelli che sono preparati e che sanno tentarla. Non ha alcuna possibilità di essere acquisita da chi rifiuta l’iniziativa, di intervenire nel corso degli eventi.

(Testo recuperato da Gilles Banderier grazie all’autorizzazione di Jean Noel, René e Jacques Freund)

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Nichilismo del lavoro nella società capitalista, di Paolo Galante

Riceviamo e pubblichiamo_Giuseppe Germinario

Nichilismo del lavoro nella società capitalista

 

FINI MOTIVANTI IL LAVORO

Il lavoro è azione su ciò che ci è esterno, imprimendo su esso una forza per modificarlo. Sul mondo agiscono forze oggettive: gravità, elettromagnetismo, ecc. Il lavoro è invece una forza messa in atto dalla nostra soggettività: è pensiero fatto azione. A differenza degli animali, il cui lavoro è finalizzato soltanto a soddisfare stimoli che fanno capo all’istinto di conservazione e riproduzione, l’uomo lavora anche sotto la spinta di pulsioni che non hanno strettamente a che fare con i due istinti testé menzionati .

Ad es. c’è chi lavora per far carriera, onde accrescere la propria autostima e/o gratificarsi esercitando un potere sugli altri; altri lavorano per non essere costretti, stando con le mani in mano, a prendere atto di una situazione esistenziale non propriamente felice.

C’è anche chi poi fa del proprio lavoro una sorta di rituale ossessivo, con cui mettere ordine nella propria vita. A mo’ di esempio mi vien da pensare a chi pulisce giornalmente la casa perché, essendo incapace di mettere ordine nel proprio essere, lo vuole mettere almeno nelle cose che possiede, illudendosi che all’ordine nell’avere corrisponda metaforicamente quello nell’essere. L’uomo contemporaneo ha perso l’accesso all’interiorità, a ciò che egli è indipendentemente da ciò che possiede. Nella nostra società il lavoro è quindi la manifestazione del prevalere dell’avere sull’essere.

 

LAVORARE PER AVERE

L’uomo odierno si pone nei confronti dell’essere non più con l’attitudine di chi cerca di attribuirgli un significato positivo, ma con quella di manipolarlo al fine di piegarlo al proprio servizio, illudendosi così che esso non ci causi dolore e infelicità. Per manipolare l’essere ci vuole però la potenza; con essa crediamo di assoggettare l’essere per renderlo un nostro avere.

 

Nella società odierna il lavoro è finalizzato quasi esclusivamente ad accrescere la potenza e di conseguenza l’avere. Esso rappresenta perciò una modalità essenzialmente predatoria e sopraffattrice di rapportarsi con l’esterno. Ad es. se l’essere in noi va in un bosco per godere della bellezza della natura e per sentirsi in sintonia con la sua forza vitale, l’avere in noi ci va per vedere cosa c’è da predare: trasformare gli alberi in legname, far piani di disboscamento per far posto a lucrose piantagioni, ecc.

 

L’ESSERE AMBISCE ALL’UNITÀ COL TUTTO

L’essere si rapporta alla natura con lo scopo di creare un legame con essa, onde far nascere un sentimento di unità col tutto. L’essere infatti – come ci ricordano gli antichi filosofi – è uno, per cui la sua modalità di azione è finalizzata a produrre unità.

Chi sperimenta in sé il sentimento di unità col tutto avverte che la sua piccola vita individuale viene arricchita dalla vita del tutto cui è legato. La potenza che sente in sè coincide con la volontà di essere legato al tutto. È una Potenza quindi ben diversa da quella che ha per scopo il dominio sul tutto. Questa è fondata sulla logica del “divide et impera”, quindi sulla rottura dei legami; quella sul la volontà di legame col tutto.

Di più, la prima crea divisione all’interno dell’essere, frantumandolo in parti che, in quanto separate, percepiscono le altre come oggetti (objecta, poste fuori da sé). È una potenza che trae la sua forza dall’oggettivazione dell’essere un essere ridotto a materiale a servizio della potenza.

La seconda invece è fondata sulla volontà che l’essere sia uno, quindi che sia soggetto, in quanto niente è al di fuori di esso (objectum). Non è quindi una potenza – quella data dagli oggetti – ma una potenza di natura immateriale, che non ci viene quindi dall’esteriorità degli oggetti, ma che è in noi, la Potenza insita nella nostra soggettività.

Si è potenti non separandoci dall’essere oggettivandolo, ma unendoci ad esso soggettivizzandolo. Oggettivando l’essere lo tra- sformiamo in materia, per cui esso diventa per noi un avere. È invece soggettivizzandolo, cioè creando legami onde superare l’alterità dell’oggetto, che l’essere conserva la sua autentica natura, quella di essere uno.

Chi vive secondo l’essere sente che la potenza datagli dal lega- me con il tutto è interna a lui; che non è separabile dal suo essere, come può esserlo ciò che è materiale. Egli sente che la potenza è il suo stesso essere, che è una cosa sola con lui. La natura del suo legame col tutto è il prodotto del fatto che egli si identifica totalmente col tutto, per cui egli sente che non c’è da una parte lui e dal- l’altra il tutto, col legame a fungere da trait d’union fra loro. Egli sperimenta il suo essere come il legame stesso, come ciò che crea unità.

Finché egli proverà in sé un tale sentimento dell’essere, niente e nessuno potrà spezzare tale legame, a meno che non sia egli stes- so a volerlo, scindendo il suo legame di identità assoluta col tutto e scegliendo di riconoscere una parte del tutto come esterna.

 

LAVORARE PER AVERE È UN’ESPERIENZA SEPARANTE

La nostra civiltà, avendo scelto di rapportarsi all’essere secondo la modalità dell’avere, ha rimosso la percezione che il legame è con- sustanziale all’essere. Ne consegue che, per evitare la disgregazione dell’essere, il legame diventa cosa da creare; infatti, per chi vive secondo l’avere, originario non è il legame, bensì la separazione. Per lui l’essere è molteplicità, per cui i legami sono da creare con la forza, costringendo l’altro a piegarsi alla volontà di chi vuole legarlo a lui.

Di qui l’ossessione della nostra civiltà di dover lavorare incessantemente per accrescere la potenza. Essa diviene necessaria per tenere unito l’essere, in quanto da noi percepito come disgregato.

Il problema però è che, per ottenere potenza, si deve dividere l’essere ancor più di quanto sia già diviso. Di conseguenza il lavoro, invece di creare ordine, legami che appianino i conflitti fra gli opposti, crea ancor più divisione, facendo degradare i legami a un qualcosa di prodotto dalla sola forza e non da una libera volontà. Si tratta di legami costretti, creati dalla necessità.

Lavoriamo per creare un mondo di schiavi talmente disumanizza- ti da assomigliare quasi a dei robot (ciò d’altra parte è in linea con chi ritiene che anche la vita sia un fatto meccanico) e siamo con- vinti che questo sia l’unico modo per salvare l’essere: privarlo del- la libertà e quindi della coscienza. Ma questo significa distruggere la vita, riducendo l’essere allo stato minerale, dove maggiore è l’in- coscienza. Mi sembra che l’umanità attuale – fra guerre, inquina- mento, programmi di distruzione più o meno controllati – stia pericolosamente avvicinandosi a questa meta così “progredita”.

 

PENSIERO AL SERVIZIO DELL’AVERE

La nostra è la civiltà dell’agire, del fare, della trasformazione incessante dell’essere. Con ciò esprimiamo molto più eloquente- mente che con le parole quale sia il nostro concetto dell’essere e il modo con cui intendiamo relazionarci con esso: vogliamo negarne la stabilità e unità, per consegnarlo a un divenire assoluto che lo renda talmente plastico da permetterne una manipolabilità totale.

Anche il pensiero viene posto di conseguenza al servizio del fare, al fine di trasformare l’essere, rompendo i legami che ne assicura- no l’unità. È messo al bando pertanto il pensiero filosofico che pen- sa l’essere come unità, sostituendolo col pensiero analitico-sepa- rante della tecnica. Si pensa per accrescere la separazione, l’instabilità e quindi il divenire. Si vuole che l’essere sia sempre più fratto, separato dai suoi legami, affinché divenga più facile impossessarsene. E tale è la fretta che abbiamo, la fretta di incrementare il nostro avere, che finiamo per volere secondo le modalità di sessantottina memoria del ‘tutto e subito’; vogliamo un mondo a portata di mano del nostro desiderio, perché ci hanno messo in testa che i desideri devono essere gratificati subito, altrimenti diventiamo

 

esseri frustrati, in quanto al nostro essere verrebbe negata la possibilità di avere ciò che desidera. Il desiderio inappagato, poi, produrrebbe uno stato di tensione nell’essere, ritenuto innaturale dal- la psicologia mainstream.

 

PER IL PENSIERO ANTIDIALETTICO L’IMMOBILITÀ CREA STABILITÀ; PER QUELLO DIALETTICO LA STABILITÀ È PRODOTTA DAL MOTO

Per la nostra civiltà, l’essere si trova nelle condizioni ideali quando è in uno stato di quiete , riposo; quando cessa di desiderare per- ché ha già tutto. In tale stato l’ essere è immobile, quindi impossibilitato a divergere da se stesso. Ci illudiamo stoltamente di poter così sottrarre l’essere all’azione del divenire che modificandolo annullerebbe l’identità dell’essere con se stesso. Il venir meno di tale identità per noi starebbe a significare che l’essere, divergendo da sè, diventa non essere.

Solo un pensiero antidialettico può pensare che la stabilità si raggiunga con l’immobilità!

Ciò però è assolutamente falso. Paradossalmente a dircelo però non è la filosofia ma una disciplina come la fisica. Purtroppo la filo- sofia ormai si è scordata del suo compito di insegnare all’uomo che non esiste solo la logica del principio di non contraddizione, ma anche quella del principio di contraddizione o, in altre parole, la logica dell’unione degli opposti o dialettica. Paradossalmente – ripeto – è la fisica moderna che ora ha preso le difese della dialettica. Tanto per fare un esempio ad hoc, la meccanica quantistica è arrivata alla conclusione che il principio fondamentale della natura è che tutto è in movimento, e che è esso movimento a produrre stabilità. Ma senza scomodare la fisica, basterebbe osservare che la dialettica viene confermata anche a livello delle piccole cose. Ecco un esempio terra terra: una bicicletta è in uno stato di equilibrio, quindi di stabilità, solo se è in movimento.

A livello psicologico la stessa legge la ritroviamo nel fatto che

 

l’individuo è in grado di superare la conflittualità interiore raggiungendo così uno stato di stabilità solo quando, e nella misura in cui, ha in sé una tensione tale da pro-gettarlo oltre la determinazione del presente, mettendolo così in marcia verso l’oltreità del futuro.

 

OGGI SI LAVORA PER EVADERE DALL’INTERIORITÀ

Per la nostra civiltà, purtroppo, l’essere dev’essere pensato solo come avere: non si è l’essere, ma lo si ha; lo si possiede, per cui abbiamo l’essere nella misura in cui riusciamo ad afferrarlo salda- mente nelle nostre mani. Di conseguenza la progettualità dell’uomo contemporaneo, onde agguantare con maggior sicurezza e presa l’essere, si prefigge scopi molto vicini nel tempo, scopi a portata di mano. Se non lo sono, ci penserà la tecnica ad avvicinarli per ras- sicurarci circa la nostra capacità di avere.

Più i nostri scopi sono vicini però, minore è la tensione del nostro essere verso di loro. La nostra progettualità – capacità di andare aldilà (pro – gettare ) – diminuisce. Se essa – come diceva Heidegger – è ciò che costituisce la nostra essenza, allora il ridurre la sua tensione, volendo ottenere tutto e subito, implica anche una riduzione della nostra essenza. Diventiamo così sempre più statici, inanimati, sempre più oggetti e sempre meno soggetti.

Mi vien da pensare quindi che la frenesia di azione, di lavoro del- la nostra società esprima la volontà di fuggire dalla nostra soggettività. Si lavora per diventare sempre più oggettivi; il nostro lavoro assomiglia sempre più a quello delle macchine. Di qui l’alienazione del lavoro.

Attraverso il divenire incessante prodotto dal lavoro rompiamo la caratteristica fondamentale del nostro essere, l’unità, per cui diventiamo non essere, altro dall’essere, cioè alienati. Lavoriamo, quindi accrescere il divenire, perché esso è ormai diventato ciò con cui ci identifichiamo, soppiantando la stabilità, modello di riferimento per l’uomo di civiltà non ancora contagiate dal morbo del progresso tecnologico.

 

Identifichiamo il nostro essere col trasformare frenetico e quindi col distruggere l’unità per creare molteplicità, alterità negante la nostra identità. Identificandoci col divenire, non siamo più noi stessi, ma altro da noi; non più soggetti, ma oggetti (objecti: ciò che sta in opposizione a noi stessi).

Ecco allora che, per corroborare la nostra identità oggettuale, produciamo sempre più oggetti, che però non facciamo altro che alienarci ancor di più, in quanto l’oggetto è, per definizione, ciò che sta fuori di noi.

Questo poi rientra nella strategia dell’oligarchia dominante che, con il periodo del consumo facile – almeno negli USA, Europa occidentale e Giappone – ci ha, come dice Latouche, colonizzato il nostro immaginario, attuando una sorta di rivoluzione antropologi- ca, il cui impatto sulla società è stato devastante.

Infatti la gente è diventata sempre più dipendente dall’esterno – cioè da ciò che possiede – per ricevere motivazioni esistenziali e gratificazioni morali. Da qui il bisogno di accrescere incessante- mente il potere sull’esterno per porlo al nostro servizio.

Questo lo chiamiamo progresso, civilizzazione; riteniamo che sia un lavoro volto a perfezionare un mondo sentito come imperfetto per il solo fatto che non è completamente prono alla volontà umana.

 

GIÀ DAL MONDO ANTICO SI AFFERMA L’IDEA CHE IL MONDO SIA IMPERFETTO

Per gli antichi Greci il mondo era perfetto in sé e per questo chiamato cosmos, cioè perfezione. L’idea della sua imperfezione la dobbiamo al pensiero giudeo-cristiano, per il quale il mondo è imperfetto a causa della caduta di Adamo, caduta che richiede quindi una redenzione.

Se tale pensiero fu accolto e fatto proprio dalla civiltà greco-latina, c’è da ritenere che in essa fosse già traballante il sentimento della perfezione del creato. Ciò – a mio avviso –spiega l’emergere di personalità come Alessandro Magno prima, Giulio Cesare poi, che incarnarono il bisogno di riplasmare il mondo secondo un ordine stabilito dalla loro volontà di potenza.

È singolare che ad un certo punto della storia, nell’umanità del bacino del mediterraneo – e specialmente nella sua parte più occidentale – si sia radicato in maniera così forte il sentimento dell’imperfezione del mondo.

Ora, dato che la visione che abbiamo del mondo esterno rispecchia il sentimento che abbiamo verso la nostra vita, anche la concezione dell’imperfezione del mondo viene a essere conseguenza del sentimento di imperfezione che abbiamo verso la nostra stessa vita, come se fosse mancante di qualcosa.

Ma perché mai – vien da chiedersi – si cominciò a sentire la mancanza come negatività?

Essa, in realtà, è la molla che ci spinge ad agire, in quanto ci sottrae all’immobilismo cui ci ridurrebbe la perfezione. La mancanza nel presente è perciò la condizione perché ci sia un fare ulteriore, e quindi un futuro.

Avvertire la mancanza come negatività è da imputare a una sorta di rifiuto del futuro, derivante da un sentimento di sfiducia nei con- fronti della vita; sfiducia che ci porta, quindi, a volere ora ciò che temiamo che il futuro non ci possa dare dopo.

Il rifiuto del futuro non significa però un rifiuto del fare, anzi! Proprio perché rifiutato coscientemente, il futuro ci condizionerà senza che ce ne rendiamo conto, quindi a partire dall’inconscio.

Mentre l’accettazione del futuro ci porterebbe a un fare equilibrato –un fare che non ricerca una realizzazione immediata – il rifiuto del futuro ci porta invece a voler realizzare i nostri desideri nel presente. Ciò, conseguentemente, ci porta a un fare compulsivo, perché dettato dal bisogno di realizzare i propri scopi immediata- mente, nel presente cioè.

 

NELLA SOCIETÀ TECNOLOGICA SI LAVORA PER TRASFORMARE LA VITA IN OGGETTO

Lo stato di carenza, di bisogno dell’uomo moderno, è diventato ormai tale da spingerlo ad un attivismo frenetico per tentare di por- vi rimedio. Questa constatazione mi porta a dire che ormai cifra del- l’uomo moderno, più che il pensiero (come diceva Cartesio), è l’a- zione. Ormai l’uomo è perché agisce; in altre parole il suo essere è talmente fragile da indurlo a pensare che solo un costante apporto di energia dato dal fare può salvarlo dall’annichilimento.

D’altra parte già il pensiero – per come era inteso da Cartesio e da chi, prima e dopo di lui, condividevano la metafora del mondo- macchina – è una sorta di fare, in quanto finalizzato a modificare l’esistente e non tanto a interrogarsi sul significato dello stesso. È quindi un pensiero finalizzato all’azione, un pensiero strumentale – come lo definiva la scuola di Francoforte – che, al pari di una macchina qualsiasi, ha lo scopo di accrescere la potenza.

Essa, però, si accresce con la strategia del ‘divide et impera’ cioè rompendo i legami fra gli enti. Di conseguenza nella nostra società il lavoro si configura sempre più come un passaggio del vivente (l’essere come espressione di una rete di legami molto complessa e strutturata: l’essere come unità) al non vivente (l’essere come molteplicità, divisione, chiusura rispetto a ciò che gli è esterno); passaggio che comporta la reificazione della natura, la sua trasforma- zione in mero oggetto.

Non solo ad esempio gli alberi diventano legname, gli animali carne e/o pellame; ma anche la vita umana diventa mera forza-lavo- ro o, a seconda delle esigenze del mercato, carne da piacere, carne da cannone, carne fornitrice di organi da espianto, ecc. L’essere nella sua totalità viene oggettivato: il suo interno viene completa- mente svuotato per essere posto al di fuori di esso (objectum). Ecco allora che di conseguenza noi sentiamo di essere solo in virtù della capacità di afferrarlo per attaccarci a esso.

 

PER RECUPERARE OCCORRE IL DISTACCO DAL FARE FINE A SE STESSO

Per la grande tradizione filosofica l’autenticità dell’essere si manifesta nel distacco; per la nostra civiltà invece nell’attaccamento. Per essere, ci attacchiamo a ciò che ci è esterno e quindi oggetto rispetto a noi. Chiediamo all’oggetto di farci essere; senza di lui sentiamo infatti di non essere. È difficile pensare ad una follia più grande di questa!

Secondo Dante – e con lui ancora tutto il pensiero medievale – l’essere era salvato dalla dissoluzione grazie a ‘l’amor che move il sole e l’altre stelle’. In seguito, a partire dal 1600, si impone una concezione meccanicista dell’essere e il mito scientista di galileiana memoria che il mondo sarebbe scritto in caratteri matematici. Si cominciò a pensare che non era più l’amore, ma la potenza a salva- re l’essere dalle insidie del non essere.

Da allora il lavoro non ebbe più solo lo scopo di provvedere a soddisfare i bisogni fondamentali dell’uomo e, tutt’al più, di rende- re la vita più comoda, grazie alla produzione di comfort di ogni genere; o, ancora, di essere espressione di creatività, volta alla produzione del bello, e come bisogno di esternare in forme materiali sentimenti e passioni che agitano la nostra psiche.

Da allora il lavoro fu finalizzato ad accrescere la potenza, onde assolvere al compito metafisico di salvare l’essere dal nulla. Di qui l’ossessione di accrescere indefinitamente la produttività del lavoro e con essa la potenza, nell’illusione così di rendere sicura e dura- tura la nostra presa sull’essere. Il lavoro è diventato la risposta sul piano dell’azione materiale alla rimozione della capacità di sentire che l’essere non ha alcun bisogno di essere salvato dalla disgregazione, perché è da sempre e per sempre integro.

Il fare scomposto e frenetico dell’uomo contemporaneo è oggi il sintomo più eloquente della malattia nichilista del nostro tempo, derivante dalla perdita della percezione dell’unità e quindi integrità intrinseca all’essere.

 

Non c’è lavoro che basti per rimediare a tale perdita. Anzi più si lavora, più si cerca soluzione nella direzione sbagliata, cioè quella del fare che genera potenza. Infatti la potenza, lungi dal produrre unità, richiede e crea disgregazione, cioè divenire dell’essere, divenire che è poi negazione dell’identità dell’essere e della sua integrità. Solo ponendo un freno all’attivismo demenziale del nostro tempo possiamo rallentare il divenire – divenire che è trapasso dall’identità all’alterità, dall’essere al non essere, dall’uno al molteplice

– condizione questa imprescindibile, affinché possa riemergere nella nostra coscienza il sentimento che niente e nessuno potrà mai spezzare il nostro eterno legame con l’essere o, meglio, annullare il nostro eterno essere identici all’essere.

 

ILLUSIONE CHE LA TECNOLOGIA CI LIBERI DALLA NECESSITÀ

Secondo la nostra civiltà, la volontà dell’essere deve realizzarsi all’istante: non bisogna frapporle ostacolo alcuno, altrimenti l’essere vive in uno stato di necessità che, ostacolando la sua libertà di volere, nega l’essenza stessa dell’essere, cioè la sua volontà.

Ora solo una modalità di sentire antidialettica ritiene la contrapposizione degli opposti – in tal caso necessità e libertà – come assolutamente inconciliabile, tale per cui ogni rapporto fra loro compor- ta soltanto una negazione reciproca, una diminuzione di essere. Una volontà quindi sarebbe veramente libera solo quando ottiene tutto e subito ciò che desidera. Tutto ciò che limita il ‘tutto e subito’ è percepito come necessità negante la volontà dell’essere. Una volontà che ottiene tutto e subito ciò che desidera è una volontà onnipotente, una volontà non ostacolata da alcuna necessità limitante la sua libertà.

L’incredibile progresso tecnologico realizzato dalla nostra civiltà è – a mio avviso – stato possibile solo dal desiderio antidialettico di accrescere illimitatamente la libertà, rimuovendo con la potenza tecnica la necessità. Più la necessità tende a zero, più la libertà tende all’infinito, tende ad annullare i limiti che de-finendola le danno forma e quindi la possibilità di riconoscersi.

Per intendere meglio la dialettica libertà/volontà e necessità, ricorriamo alla coppia di opposti luce e buio. La luce è visibile solo al buio; sarebbe assurdo che io usassi la luce per vedere la luce. La luce si manifesta solo quando svolge la sua funzione di illuminare. È evidente che si può illuminare solo il buio e non certo la luce.

Altrettanto ne è della libertà. Essa si manifesta solo quando svolge l’azione di liberare dalla necessità. Senza la necessità non siamo certo in grado di sentirci liberi e quindi neppure consapevoli di ave- re una volontà. È la necessità che fa sì che la volontà prenda coscienza di compiere l’atto del volere, presa di coscienza che richiede sforzo, fatica, sacrificio. Ed è poi attraverso tale atto che l’essere acquista coscienza di sé, realizza cioè di essere in quanto la sua azione è voluta. Ben diversamente invece le cose stanno con la macchina: essa non ha coscienza di essere perché priva di volontà. La rimozione della necessità, cui punta la nostra civiltà della potenza, diventa in tale prospettiva anche rimozione dell’essere. Senza la necessità, infatti, la volontà non ha più nulla da volere, allo stesso modo che la luce senza il buio non ha più nulla da illuminare. La volontà diventa perfetta nel senso che ha già compiuto totalmente (perfectum) la sua azione di volere. Non vuole più nulla, in quanto ha già tutto. L’assenza di distanza fra ciò che vuole e ciò che ha comporta che la volontà coincida completamente con l’avere.

Tale coincidenza comporta dunque anche la coincidenza fra avere ed essere.

 

L’ESSERE COME POSSESSO

La nostra civiltà però non si rende conto che l’essere lo si è, non lo si ha. Non possiedo il mio essere come possiedo una macchina, una casa, un oggetto qualsiasi. Non capire questo implica ridurre il proprio essere ad oggetto, a cosa, per cui ci rapportiamo ad esso come ad un qualcosa di esterno a noi (objectum), un qualcosa che possediamo, ma non siamo; un qualcosa cui siamo attaccati grazie alla potenza della nostra presa su di esso.

Stando così le cose, si capisce allora l’ossessione della nostra civiltà per la potenza: crediamo – e ancor più sentiamo – che abbiamo un essere solo fin tanto che riusciamo, grazie alla forza della nostra presa, a tenerlo stretto a noi.

Da qui ne consegue anche che ci rapportiamo in modo antilibertario col nostro stesso essere, perché abbiamo paura che ci scappi di mano. Diventiamo i tiranni, i carcerieri di noi stessi. La parte di noi che ritiene di avere l’essere, invece di esserlo, schiavizza la totalità del nostro essere per non perdere la presa su di esso.

Il fatto però è che più rafforziamo la presa sul nostro essere, nel- l’illusione di acquisirne possesso totale, più ci radichiamo nell’idea che l’essere è avere, che l’essere è quindi attaccato a noi grazie alla nostra presa. Ma per quanto forte essa sia, non potrà mai superare la separazione iniziale onde far sì che l’essere sia nostro una volta per tutte. E questo perché, se l’unità non è originaria, per non spezzarsi abbisogna costantemente di una forza esterna che la mantenga nel suo stato.

Sarà pertanto un’unità mediata, ottenuta cioè grazie alla media- zione di una forza; un’unità prodotta, non originaria, un’unità che viene dopo (pro-dotta) come conseguenza dell’azione di un mezzo (medium): la forza esterna.

Ora, il fatto che la nostra unità con l’essere sia mediata comporta che la causa di questa unità non sia in noi ma fuori di noi; sia cioè nella forza esterna. Il nostro essere dipende quindi dall’esterno. Di qui il senso di precarietà esistenziale e l’ossessione di accrescere il dominio sull’esterno propri della civiltà della potenza.

 

ILLUSIONE CHE L’ESSERE SI CREI COL LAVORO

Tale sentimento di alienazione dell’essere è a mio giudizio la causa prima e principale dell’ossessione della nostra civiltà per il fare; un fare che, al pari del lavoro di Sisifo, non può mai arrestarsi perchè esso è finalizzato al perseguimento di uno scopo errato in par- tenza cioè realizzare la certezza del possesso dell’essere. Per quanto si lavori per accrescere la potenza della nostra presa, non potremo mai avere il dominio assoluto sull’essere, perché l’essere è libertà. Non c’è da fare nessuno sforzo per essere; anzi bisogna al contrario ritirare la nostra presa su di esso, perché è solo lasciandolo libero che gli permettiamo di rivelarsi a noi nella sua libertà. Riprendendo il parallelismo con la luce e il buio dove la luce è l’essere e il buio è il non essere, la nostra civiltà volendo anche l’es- sere (la luce) testimonia così di non coincidere con l’essere, di non essere l’essere (la luce), ma di identificarsi col buio.

Ora che fa la nostra civiltà per manifestare l’essere (la luce)? Lavora accanitamente per produrre l’essere (la luce), onde uscire dal non essere (il buio). Se noi fossimo non essere (buio), avrebbe senso produrre la luce; noi però siamo già l’essere (la luce), per cui è assurdo che produciamo della luce per manifestare la luce che già siamo. Anzi più luce produciamo, meno appare la luce del nostro essere.

Al contrario è smettendo di produrre luce cioè di produrre essere, come se fosse un oggetto che dominiamo e utilizziamo per i nostri scopi, che dal buio del non essere emergerà in tutto il suo splendore la luce del nostro essere.

La nostra civiltà, avendo rimosso la natura dialettica della vita, non si rende conto che è il buio del non essere che permette alla luce dell’essere di brillare. Siamo talmente terrorizzati dal buio del non essere che pensiamo di dover lottare come dei forsennati contro di esso, per non esserne annichiliti, quando invece tale buio è la condizione necessaria perché possiamo scorgere la luce del nostro essere.

Non abbiamo capito che non è la potenza ad aprirci l’accesso all’essere, ma il coraggio e la forza di stare nel buio, sostenuti dal- la fede che più il buio si fa denso, più luminosa apparirà la luce dell’essere.

 

L’ETICA È CONNESSA ALL’ESSERE, NEGATA DALL’AVERE

Non c’è dubbio che la volontà della nostra società di risolvere l’es- sere in avere è anche la causa della perdita nell’uomo contemporaneo del senso della dignità, dell’onore, del senso stesso della vita.

Per l’avere ha senso solo ciò che si può possedere, solo ciò che possiamo far nostro, sottraendolo alla proprietà comunitaria. L’avere è quindi in contrapposizione con l’etica in quanto, avendo essa per scopo il perseguimento del bene comune, promuove la condivisione dei beni. L’individuo etico è quello che identifica il suo bene con quello della totalità. Egli trascende così la sua individualità, la sua separatezza, riconoscendosi come totalità. Concepisce l’unità in ter- mini unificanti: cioè l’unità si ottiene unendo. Sembrerebbe una cosa lapalissiana, ma non è così. Con ciò si vuol dire che secondo l’etica l’unità non è il risultato di un fare, non è un prodotto, una conseguenza di una causa esterna ad essa. Che l’unità si ottiene unendo significa che l’unità è causa di se stessa; essa è nello stesso tempo causa ed effetto. L’unità non è solo prodotto – un qualcosa che vien fuori dopo (prodotto), ma è anche causa di sé in quanto compie l’atto di unire.

Ne consegue anche che l’individuo etico si sente uno, un’unità sia come causa che come prodotto; cioè sente che egli è la causa della produzione del suo essere, del fatto che il suo essere è condotto fuori (prodotto) nella dimensione dell’esistenza. Egli può ben dire di essere causa di se stesso, caratteristica questa che la filosofia ha sempre riconosciuto all’essere nella formula “esse est causa sui”.

 

L’INDIVIDUO CENTRATO SULL’AVERE SI REALIZZA SPEZZANDO I LEGAMI

L’individuo centrato sull’avere, invece, concepisce l’unità in ter- mini separanti: si arriva all’unità dividendosi dalla totalità. Si sente uno perché ha scelto di rompere in modo più o meno drastico i legami col tutto. La sua è un’unità fondata sul narcisismo individualistico asociale.

 

Ora, è evidente però che, se l’unità è intesa solamente come il prodotto di un’azione separante, le si disconosce la sua funzione causante, si nega cioè che sia l’unità stessa a essere causa dell’es- sere. Ne consegue che l’individualità fondata su un’unità intesa come prodotto divenga essa stessa un prodotto; divenga quindi un oggetto, un qualcosa privo di originalità, in quanto originato da altro da sé.

Declinato a livello del singolo, ciò equivale dire che uno si sen- te individuo solo dopo che una causa lo ha prodotto, cioè dopo che lo ha condotto all’essere. Così facendo però, non si riconosce come causa di sè, ma come causato (prodotto cioè), come oggetto: ciò che sta fuori (objectum) dalla causa , in quanto è di questa conseguenza, un qualcosa che viene dopo che la causa ha svolto la sua azione. Ma in tale dopo c’è solo ciò che è inanimato e come tale può essere facilmente posseduto; c’è quindi l’essere una volta che è stato ridotto ad avere.

Secondo la logica dell’avere l’unità è quindi un prodotto e tale prodotto è l’individualità. All’opposto, secondo la logica dell’essere, l’unità è causa, forza che unisce ciò che è separato, quindi forza che produce condivisione, ovvero unità con ciò che è diviso (condivisione).

 

GIUSTIFICAZIONE METAFISICA DELL’AVERE

Credo che non si possa comprendere la bramosia smodata di ave- re della nostra epoca se non la si inquadra all’interno di una visione metafisica. Intendo con ciò dire che una tale bramosia non derivi da pulsioni coscienti, ma da pulsioni le cui radici affondano negli abissi della nostra psiche, là dove l’essere e il nulla – Eros e Thanatos, direbbe Freud – si disputano la nostra esistenza.

Chi identifica l’essere con l’avere non cerca l’avere per il semplice gusto che può ricavare da ciò che possiede; egli vuole avere per essere. La sua volontà di avere è volontà di potenza. La potenza gli è necessaria per tenere stretto a sé l’essere.

 

Ora, siccome l’essere – al pari dell’amore – è libertà, pretendere di avere l’essere afferrandolo saldamente comporta che quello che si stringe a sé non sia certo l’essere, ma un oggetto che dell’essere è solo un vano simulacro.

Di ciò è consapevole anche la nostra civiltà dell’avere. A rivelarglielo è la profonda infelicità da cui è avvinta l’umanità odierna. Tuttavia essa non è sufficiente a farci capire che la soluzione è lasciare la presa sull’essere. Al contrario, reagiamo perseverando nell’errore: vogliamo accrescere ancor più la potenza con cui ci afferriamo come dei disperati all’essere. L’avere diventa per noi come l’aria da respirare; diventa pertanto il solo e unico progetto della nostra vita che pertanto progetteremo in modo da renderci l’essere a portata di mano per poterlo così più facilmente afferrare.

 

ILLUSIONE CHE IL PASSATO CONSENTA IL POSSESSO DELL’ESSERE

Vogliamo un essere vicino sia nel tempo che nello spazio. Tale desiderio però comprime le dimensioni spazio-temporali entro cui l’essere si manifesta, per cui finiamo per negare all’essere la possibilità di dispiegare la sua potenziale vitalità.

Per quanto si riferisce al tempo, volere l’essere a portata di mano comporta il circoscriverlo nel presente, negandogli così la stabilità del passato e la mobilità del futuro, caratteristiche queste che osta- colano la brama di possesso di chi vorrebbe catturare l’essere per servirsene per i suoi scopi.

Nella dimensione temporale del passato l’essere è indisponibile alla nostra volontà predatrice perché la necessità, legandolo indissolubilmente a ciò che è già stato, nega la strategia del ‘divide et impera’ di chi vorrebbe separarlo dal legame col suo passato per appropriarsene.

Il passato – a ben vedere – è la massima espressione della finitezza dell’essere; in esso trova realizzazione compiuta l’ipotesi atomista dell’assoluta indivisibilità dell’essere, in quanto nel passato non è concesso all’essere di uscire dalla sua de-terminazione. Il passato è quindi il massimo vincolo che si oppone a tutto ciò che voglia staccare l’essere dall’identità con se stesso. Ciò che è passa- to non può essere diversificato; non può divenire diverso, per cui non può che coincidere completamente con se stesso.

Almeno così ci appare, anche se la fisica moderna, mettendo in discussione l’immodificabilità della freccia del tempo, non esclude che il tempo possa scorrere anche da quello che per noi è il futuro verso quello che per noi è il passato.

Ciò vuol dire che nel passato l’essere ha una presa assoluta su se stesso; lì è completamente se stesso (nel senso che è immodificabile); lì esercita una presa assoluta su di sé, tale per cui nessuna forza è superiore a quella con cui l’essere tiene integra la sua identità.

In una società come la nostra, dove la potenza rappresenta l’alfa e l’omega dei nostri desideri, è inevitabile che il passato eserciti un’attrazione formidabile, in quanto ne invidiamo la sua potenza assoluta, di fronte alla quale anche il divenire è impotente.

Ma è anche vero però che esso rappresenta per noi un ostacolo insormontabile per la nostra volontà di potenza, perché non le sarebbe concesso di modificare l’essere, una volta che fosse finito nel passato. La nostra reazione di attrazione e ripulsa verso il pas- sato non si esplica ovviamente verso un passato inteso in senso assoluto, poiché, per definizione, con l’assoluto non è possibile alcuna relazione.

Si esplica invece verso il passato inteso in senso relativo, cioè il passato inteso in senso non materiale, ma psicologico; il passato quale sentimento della lontananza, della perdita, della separazione, ma anche della stabilità, della durata, della certezza – quindi anche il passato quale manifestazione della verità: in comune con essa infatti ha l’assolutezza, l’immodificabilità che li rende unici ed eterni.

In pratica noi vorremmo strappare l’essere alla signoria del passato, per esercitare su di esso un uguale potere: vogliamo avere sull’essere la stessa presa assoluta che ha il passato, onde dominarlo per i nostri scopi. Tale presa è la necessità.

Nel passato essa è assoluta. Noi vorremmo esercitare sull’essere una necessità parimenti assoluta, illudendoci così di rendere asso- luta anche la nostra libertà, grazie alla potenza ottenuta col dominio assoluto dell’essere.

 

RIPROPOSIZIONE DELLA NECESSITÀ NEL PRESENTE

Come già detto, noi vogliamo circoscrivere l’essere nel presente, perché è solo nell’attualità del presente che è possibile agire sull’essere, attuando i nostri progetti su di esso.

Ma questo comporta negare all’essere il passato e il futuro. Pren- diamo in considerazione dapprima il nostro modo di relazionarci col passato. Di esso rifiutiamo il dominio che la necessità vi esercita, non certo però per liberare l’essere dal dominio della necessità.

La libertà, valore tanto conclamato dalla nostra civiltà, ha per noi il solo scopo di spodestare il passato dal dominio sull’essere, per sostituirsi a lui. Ora il fatto che vogliamo esercitare un dominio assolutamente necessitante sull’essere sta a indicare che vogliamo che la necessità non agisca più sull’essere nella dimensione del passato, ma in quella del presente.

Mentre però nel passato, dimensione temporale del finito, anche la necessità agisce in modo finito, nel presente invece – dimensione dell’atto (il presente è attuale) – la necessità è costantemente in azione. Essa agisce continuamente sull’essere senza mai passare, senza mai finire, per cui la tirannia che essa esercita sull’essere è infinita.

Il nostro modo di relazionarci col passato è quello di riportarlo (in latino “referre”, da cui anche relazionare) nel presente – si intende di riportare nel presente la necessità, qualità propria del passato – di renderlo attuale. In tal modo però ci troveremo a vivere un presente colorato dal passato: un presente già finito ancor prima di cominciare; un presente dove già tutto è finito, per cui non c’è più spazio per niente di nuovo e dove caso mai il nuovo altro non è che reiterazione di ciò che è già stato, di riproposizione dell’uguale, in quanto il passato non può essere diverso da ciò che è stato.

 

NELLA GABBIA DELL’ETERNO PRESENTE ANCHE IL LAVORO DIVIENE OBSOLETO

A pensarci bene, quanto la nostra vita è la conferma di ciò! Pensiamo ad es. al lavoro al quale, nolenti o volenti, siamo costretti a dedicare la maggior parte delle nostre energie e tempo. Ogni giorno è sempre la stessa routine: gli stessi atti, le stesse preoccupazioni, lo stesso ambiente.

E questo quando va bene, perché al giorno d’oggi il capitalismo, deposta la maschera democratica con la quale si presentava in Europa, sta mostrando anche da noi il suo volto feroce che, per quanto riguarda il lavoro, si palesa come ipersfruttamento e precarietà.

Se la routine del lavoro ci nega di progettare un futuro, di gettar- ci oltre (pro-gettare) la ‘stessità’ di un presente che, ripetendosi sempre uguale, non passa mai; l’odierna precarietà lavorativa ci toglie addirittura la routine del lavoro e quindi la possibilità di agi- re, seppure entro il carcere del presente. Si è condannati a stare in un presente a-progettuale senza nemmeno che ci sia concesso di muoverci al suo interno grazie all’azione del lavoro; un lavoro magari compulsivo e ripetitivo fin che si vuole, ma che, pur non dischiudendoci la dimensione del nuovo, ci dà almeno lo sfogo fisi- co del moto col quale tentare di sfuggire all’immobilismo assoluto, condizione psicologica di uno stato dell’anima dove il presente è stato completamente colonizzato dal passato.

La routine del lavoro aveva sottratto la meta al nostro agire; ora la precarietà ci sta quasi privando perfino dell’agire. Ormai l’uguale, l’identico, in un tempo ridotto come l’uomo di marcusiana memoria ‘a una dimensione’ (l’eterno presente), non ha neppure più bisogno dei servigi del movimento – seppure del movimento asservito, in quanto costretti a rieditare solo lo stesso lavoro routinario; la produzione industriale che – a differenza dell’artigiano – riproduce in serie l’uguale; la standardizzazione del gusto, del desiderio, del pensiero.

L’uguale quasi non ha bisogno di un moto che lo ribadisca, che lo riaffermi. Il suo dominio è diventato così incontrastato, per cui anche la sua riproduzione quantitativa attraverso il lavoro sta diventando obsoleta. Domina perché non ha più nessuno che lo contrasti dal punto di vista qualitativo in quanto – come dice Latouche – ci ha colonizzato l’immaginario.

 

UN PASSATO CHE NON PASSA NECESSITA IL PRESENTE OGGETTIVANDO L’ESSERE

Vogliamo la potenza assoluta, quella che esercita sull’essere la stessa forza necessitante che su di esso esercita il passato. Il risultato è che ci siamo trasformati in passato. Come il passato siamo diventati totalmente uguali a noi stessi; abbiamo escluso dalla nostra vita ogni apertura al diverso, al divenire. Ci illudiamo così che, eliminando il divenire, il nostro essere duri in eterno.

Il passato però è il regno del finito per cui l’eternità che vogliamo garantire al nostro essere, ricorrendo alla forza necessitante che ha il passato, sarà quella di un eterno finito, di un eterno passato. Il nostro essere diverrà la vittima della potenza della necessità; avremo un essere assolutamente necessitato, privo di qualsiasi libertà. La forza con cui eserciteremo la presa su di lui lo trasformerà ipso facto in oggetto.

La potenza, come insegnano molti miti, la si paga perdendo l’a- nima, diventando inanimati come lo sono gli oggetti.

La logica della vita non può essere solo una logica di potenza; altrimenti non c’è più spazio per dei soggetti, ma solo per degli oggetti. È una logica questa che – come dice Anders – fa dell’uomo ‘un essere antiquato’ poiché, in quanto a potenza, sarà sempre inferiore a quella delle macchine.

 

La logica della vita è quella che Hegel sintetizzò nella formula “Lasciare che il finito finisca”. Bisogna lasciare che il passato passi affinché non invada la sfera del presente, facendolo così finire nel momento stesso del nascere.

In altre parole bisogna che la necessità del passato termini con esso. Lasciamo al passato la forza assoluta che ha la necessità; altri- menti una volontà di potenza malata che voglia trasportare tale for- za nel presente, al cospetto dell’essere (presente) cioè, farà del presente un passato, dell’essere un non essere.

In un certo qual modo noi abbiamo, chi più e chi meno, un sentore del pericolo che costituisce l’azione della potenza sull’essere; avvertiamo che essa lo rende sempre più necessitato e per converso meno libero. Privato della libertà, l’essere diventa infatti finito, quindi diventa passato.

La chiusura che la forza necessitante esercita su di lui è analoga a quella che esercita il passato. Confinato nel passato, l’essere per- de la libertà, diventando così oggetto, un qualcosa che è posto fuori (ob-jectum) dal presente, dall’attualità e quindi dalla capacità di essere attuoso.

Certo, la nostra civiltà della potenza si illude di essere lei a esercitare la forza necessitante sull’esterno e di non esserne vittima. Il fatto è che più oggettiviamo il mondo per poter esercitare più facilmente il nostro potere su di esso, più ci relazioniamo con un mondo di oggetti; un mondo che, essendo privo di libertà, appartiene – per quanto detto – al passato.

Ma relazionandoci col passato, diventiamo noi stessi passato. Come è finito il passato, così saranno finiti i legami con quel mondo: finiti nel senso di incapaci di estendersi, ma anche di destinati a finire.

Senza legami perdiamo la percezione di ciò che ci tiene insieme, che fa di noi qualcosa di unico; ci disgreghiamo diventando molteplicità, numero, una quantità che ha preso il posto della qualità.

 

VOLONTÀ DI POTENZA E VOLONTÀ DI LIBERTÀ

Più o meno conscia di questo pericolo, la nostra civiltà reagisce con un’ossessiva smania di libertà e quindi di futuro.

Infatti, se il passato è la dimensione della necessità, il futuro lo è della libertà, la dimensione di ciò che, non essendo ancora rin- chiuso dentro i confini del de-terminato, può andare oltre il terminato, il finito. Il futuro è quindi anche la dimensione in cui è possibile il progetto, l’andare oltre, al di là del finito (pro-gettare).

Possiamo dire quindi che, come la volontà di potenza ci ha indotti a trasportare il passato nel presente, così la volontà di libertà il futuro nel presente.

Portare il passato nel presente risponde alla volontà di immobilizzare l’essere, necessitarlo, onde renderlo disponibile alla nostra potenza manipolatrice.

Alla minaccia che il nostro essere rimanga impigliato nella rete della necessità, reagiamo con una volontà ossessiva, perché dettata dalla paura, di libertà; cosa che, dal punto di vista della temporalità, corrisponde al voler portare il futuro nel presente.

Ma è illusorio credere che in tal modo possiamo sfuggire alla morsa della necessità. Portando il futuro verso il presente accorciamo la distanza fra volontà desiderativa del presente e sua realizza- zione futura. La volontà, così, si sente tanto più libera quanto più la sua meta è a portata di mano.

Una tale volontà è quindi in realtà una volontà di potenza. E tale è la nostra identificazione con la potenza, che ci sentiamo liberi solo nella misura in cui abbiamo a nostra disposizione la potenza. Pensiamo che anche la libertà, al pari di tutto ciò che è, sia cosa da possedere. Non capiamo che possedendola la riduciamo a oggetto, trasformandola così nel suo opposto, la necessità.

Inoltre, voler portare il futuro nel presente fa sì che esso divenga, per ciò stesso, passato, in quanto facciamo muovere il futuro all’indietro (nel passato cioè) invece che in avanti (come dovrebbe essere il moto del futuro). Facendo indietreggiare il futuro ne accorciamo vieppiù la progettualità, cioè la sua distanza dal presente.

Tale modo di procedere è proprio di una volontà che si sente tan- to più libera quanto più ristretta è la distanza verso cui si progetta. Ma chi in noi si progetta verso scopi immediati? Ciò che in noi manca di pazienza, di fede – intesa come apertura fiduciosa verso ciò che è lontano (futuro) e quindi non soggetto al nostro potere – ciò che teme il lontano, quindi ciò che teme l’altro da noi; infatti l’altro è ciò che essendo lontano non ci appartiene, non è parte di noi (appartiene); ciò che non accetta che il futuro sia diverso dal presente, perché ciò incrinerebbe la nostra identità, quella concepita, sulla scorta della logica della potenza, come qualcosa di statico che rimarrebbe perciò uguale a sé. Ciò che quindi ci suggerisce comportamenti fondati sulla logica del principio d’identità, logica pro- pria della tecno-scienza, dunque comportamenti automatici, irriflessi, aventi scopi di realizzazione immediata. Questa componente del nostro essere è quella fondata sull’istinto, sull’impulso; è la parte meccanica della psiche, quella che non agisce per realizzare un progetto, ma come conseguenza necessaria di una forza da cui siamo comandati.

Per la nostra civiltà, dunque, saremmo liberi solo quando ci abbandoniamo all’impulso, all’istinto, perché solo in essi la nostra volontà cessa di essere progettuale per divenire una volontà a realizzazione immediata, istantanea; saremmo liberi quando il volere si realizza subito, perché così abbiamo la sensazione che la nostra volontà, non distando dal suo scopo, coincida con se stessa. E in questo riproporsi uguale della volontà, ci illudiamo di rendere sta- bile anche l’identità del nostro essere.

 

LA CIVILTÀ TECNOLOGICA RIPRODUCE L’UGUALE

In relazione al lavoro, l’inversione verso il presente della natura- le posteriorità del futuro dà luogo al fenomeno della trasformazione della produzione in riproduzione: il produrre (portare in avanti, verso il futuro dunque) viene sostituito dal riprodurre (portare indietro ciò che sta in avanti).

Ora, il riprodurre è un ripetere, un rifare ciò che è già stato fatto; è quindi il ricreare l’uguale proprio della produzione tecnologica dell’industria, a differenza della produzione a bassa tecnologia del- l’artigianato del passato, nel quale all’unicità irripetibile del produttore era ancora permesso di lasciare una traccia in ciò che creava.

Nella nostra civiltà tecnologica invece anche il lavoro soggiace alla logica del principio d’identità, logica propria della matematica e quindi anche della tecnica. Si lavora per riprodurre l’uguale di ciò che già è, l’uguale di un modello già presente. Col lavoro si mette in moto ciò che è, l’essere presente appunto, non per andare avanti verso ciò che non è (il futuro), ma per ricreare ciò che è, per ricreare il presente, nell’illusione di renderlo così eterno.

Che cos’è dunque questo ossessivo darsi da fare dell’uomo con- temporaneo; questa sua mancanza di tempo libero, perché preso da mille impegni; questa mostruosa sovrapproduzione, che altro non è poi che trasformazione di ciò che è vivo o che è utile al vivente in oggetto al servizio della volontà di potenza dell’uomo?

A me altro non sembra che un gigantesco e smisurato rito apotropaico, onde costringere l’essere a sostare presso di noi (a essere presente cioè). La sua infinita riproduzione ha il compito sia di impedire che il passato lo faccia finire una volta per tutte, sia che il futuro lo allontani più in là della nostra presa. Per questo – come già detto – la nostra è l’epoca della riproduzione e non della produzione: l’epoca della creazione dell’uguale.

Certo anche il riprodurre, al pari del produrre, è un movimento che, come tale, può dare all’essere l’illusione di non essere inanimato come lo sono le cose, di non essere oggettivato.

C’è una bella differenza però fra il moto in avanti verso il nuovo del produrre e quello all’indietro verso l’uguale del riprodurre. È un moto questo che, ritornando su ciò che già è, impedisce all’essere di passare, imprigionandolo in un presente immobile, finito, un presente che è quindi un passato.

 

La nostra civiltà tecnologica conosce solo la quantità, per cui non ha cognizione neppure della qualità del moto. Il moto dell’essere progettuale (in avanti) e riproduttivo (all’indietro) per essa non fan- no differenza. Ma questo è vero però solo quando il moto lo subiamo, come lo subiscono gli oggetti. Per un oggetto, infatti, è indifferente la direzione del moto – l’essere gettato avanti (pro-dotto) o indietro (riprodotto) – perché, non avendo in sé la possibilità di cambiare, non ha nozione né di cosa era, né di cosa sarà.

La negazione della qualità del moto comporta di necessità che la nostra civiltà si metta in moto solo per produrre la quantità. In tal senso la macchinizzazione del lavoro, ancor prima di rispondere a motivi di ordine economico, è dettata dalla scelta filosofica della nostra civiltà di ridurre l’essere a quantità. La macchina, infatti, produce sempre e solo l’uguale, quindi una produzione avente per scopo unicamente la quantità. E l’uguale non può che essere un oggetto e non certo un soggetto, in quanto quest’ultimo è contraddistinto, appunto, dalla diversità propria dell’originalità.

Il lavoro nella nostra società produce l’uguale non solo attraverso la produzione seriale, ma anche per aver assunto un carattere sempre più routinario, che deborda poi anche nella nostra stessa vita, che, ripresentandosi sempre uguale, assume così la caratteristica di un oggetto.

La negazione della qualità del moto implica che il divenire assuma un carattere quantitativo dove l’unica cosa a divenire sarà la quantità; il che sta a significare che il progetto lungo cui si snoderà il divenire sarà quello dell’oggettivazione dell’essere, della sua riduzione a oggetto, in altre parole, della sua decoscientizzazione.

In un divenire quantitativo l’unica produzione possibile è la riproduzione dell’uguale, cioè di un modello preesistente. Non quindi produzione di essere, ma di pre-essere – quella del modello preesistente – produzione di ciò che sta prima dell’essere (pre-esistente), dunque del passato.

 

L’ORIGINALITÀ NON STA NELLA RIPRODUZIONE DELL’ORIGINALE, MA NEL FAR SI’ CHE IL NOSTRO ESSERE SI RIORIGINI A OGNI ISTANTE

Riprodurre un modello non è certo produrre qualcosa di origina- le. È vero che originalità deriva da origine, da ciò che sta all’inizio, che sta al principio; ma è anche vero che ogni originalità è creazio- ne del nuovo, di ciò che prima non c’era.

Ovviamente la riproduzione non crea originalità. Essa, riproducendo il modello originale, ripropone dell’origine soltanto la sua posizione iniziale, il suo essere passato; ma questo è tutto. La riproduzione infatti non ha niente a che fare con la forza creativa dell’origine, cioè di ciò che stando prima (principio) è causa di ciò che segue.

Ciò che segue, se è riproduzione di ciò che precede, sta nel futuro solo da un punto di vista quantitativo, cioè per il fatto che un moto l’ha allontanato.

Non sta però in un futuro qualitativo, un futuro inteso come dimensione nella quale può accadere il nuovo. In altre parole il moto in se stesso non ci porta in un futuro qualitativo.

La nostra civiltà, nella sua dabbenaggine, crede che il moto all’indietro del lavoro riproduttivo, essendo un andare verso l’origi- ne, sia anche un modo per ridestare la forza di produrre in modo originale e quindi di produrre il nuovo. Non ha capito che il nuovo, l’originale non può essere prodotto come una qualsiasi merce.

L’originalità, infatti, è ciò che produce, non ciò che è prodotto; è forza che produce, nel senso che è causa della produzione, mentre il prodotto è un causato, ciò che subisce passivamente l’azione di una causa che gli è esterna. L’attività produttiva comporta un andare avanti (pro – durre), un andare verso il futuro.

La nostra civiltà si vanta della sua grande capacità produttiva e, di riflesso, della sua capacità di creare futuro onde dischiudere anche alla nostra vita la dimensione del futuro. Ma, se per creare futuro bastasse solo produrre, allora anche una macchina col suo

 

lavoro creerebbe futuro, creerebbe ciò che non c’è ancora, ciò che sta dopo; sarebbe un’entità progettuale, che avrebbe delle aspettative dal futuro come ce le hanno i viventi.

È evidente però che la macchina, essendo priva di originalità, non tanto produce quanto riproduce, produce ciò che già c’è. La macchina crea sì il futuro, ma solo dal punto di vista quantitativo: un futuro dove il nuovo è semplice copia del passato.

In questo futuro pertanto, il nuovo è tale solo a livello quantitativo: l’unica cosa che cambia è solo l’accresciuta quantità delle copie.

Il futuro, inteso in termini puramente quantitativi, cioè cronologici, fa sì che il nuovo sia un qualcosa di separato da noi, in quanto risiede in un futuro che è altrove rispetto al nostro presente. Rispetto a noi è quindi un nuovo oggettivato.

Credere di avere accesso al nuovo grazie agli oggetti è dunque un’illusione, perché tale nuovo rimarrà sempre attaccato all’oggetto, quindi fuori di noi (objectum), fuori dalla nostra soggettività, che rimarrà così incapace di rinnovarsi, sempre uguale a se stessa. Ed è così perché in un futuro inteso cronologicamente come separato dal presente, il nuovo apparterrà solo all’oggetto.

Il futuro diverrà la dimensione dell’oggettività, un futuro creato da una progettualità avente per fine la trasformazione dell’essere in oggetto. La soggettività, di conseguenza, si troverà confinata nel passato, nella dimensione dell’immobilità dove vige la logica dell’identità intesa come riproposizione dell’uguale: la logica propria della tecnica. Lì la nostra vita dovrà adattarsi a divenire un qualcosa di meccanico, un’entità biologica decoscientizzata, un oggetto insomma.

La follia della riduzione del soggetto a oggetto ci porterà poi a ritenere paradossalmente che, per recuperare parte della nostra soggettività, dovremo oggettivare ancor di più il nostro essere. L’insana logica sottesa a questo pensiero è che, se il futuro è diventato la dimensione dell’oggettività, l’unico modo rimastoci di progettare – processo attraverso il quale esprimo la volontà e quindi la mia soggettività – rimane quello di trasformare ancor più la mia soggettività in cosa oggettiva. In altre parole, quanto più agisco come una macchina, tanto più affermerei la mia soggettività. Questa logica folle è poi la stessa che guida gli scienziati a ipotizzare di poter costruire macchine coscienti. Se non è nichilismo questo!

 

IL NUOVO COME STATO DELL’ESSERE IN CUI IL FUTURO È UNITO AL PRESENTE

Come detto, per la nostra civiltà il futuro si dà solo in termini quantitativi, è cioè la dimensione temporale in cui si ha solo accrescimento della quantità. Questo spiega perché siamo ossessionati dal bisogno di produrre sempre di più: non si tratta semplicemente del bisogno di avere sempre di più, ma anche di un bisogno più metafisico e cioè che il lavoro – ovviamente quello finalizzato a pro- durre quantità – è rimasto l’unico mezzo per sporgerci nel futuro. Pur di avere ancora un futuro, siamo disposti ad assumere lo status di macchine. Ma quale futuro? Solo quello quantitativo, adatto a ciò che in noi è quantità, adatto cioè alla volontà che vuole esercitare il dominio sul mondo materiale, il mondo della quantità.

Ma noi, fortunatamente, siamo anche qualità; siamo un’unità che, per quanto inconscia ci possa essere, non accetta di essere riduci- bile alla molteplicità della quantità. Siamo un’unità che non può pertanto accettare unicamente un futuro quantitativo, perché in esso la crescita quantitativa, comportando anche una crescita della molteplicità, inficia la possibilità di far emergere alla coscienza l’unità del nostro essere, la nostra individualità.

Essa sente il futuro come unitario, cioè un futuro dove la frattura temporale in istanti separati è superata; dove il nuovo, proprio del futuro, non è dopo, in un futuro separato da noi, ma è qui nel presente. È in noi, quindi non dobbiamo cercarlo fuori di noi.

Il nuovo è uno stato dell’essere nel quale l’essere avverte in sé una tensione che lo spinge oltre (pro – getta) il finito entro il quale è momentaneamente confinato. È quello stato nel quale l’essere sen- te di avere un’anima – nel senso di una forza che lo anima e che lo rende causa sui, produttore e non prodotto, soggetto e non oggetto.

È in virtù di tale tensione che è in grado di trascendere il finito del passato, in cui l’essere diventa non essere, per affermare se stesso.

L’essere non è ciò che ha avuto origine, ma ciò che dà origine in ogni momento a se stesso. La sua origine pertanto non si situa nel passato, ma è costantemente presente; ed è ciò che rende l’essere originale, mai copia di se stesso, mai riproduzione, ma sempre nuovo.

Il nuovo si manifesta allorché diventiamo originali, allorché cessiamo di essere copie, prodotti, per diventare produttori. In quanto produttori, poi, scegliamo di orientare la nostra vita verso l’essere; l’essere infatti è “causa di se stesso” cioè produttore. Scegliendo di essere produttori, inoltre, facciamo sì che in noi il presente si fon- di col futuro; cioè che ciò che siamo al presente si fondi col nuovo del futuro. Questo fa sì che per il produttore il presente non sia chiuso in se stesso, ma aperto alla novità, all’originalità del futuro, un presente quindi originale, sempre diverso dalle sue precedenti determinazioni.

Potrebbe sembrare che l’originalità neghi l’unità della coscienza perché la rende sempre diversa e quindi molteplice. Ma ciò è vero solo per una coscienza statica che vuole riprodursi sempre uguale. La coscienza di un produttore – di uno che scelga di essere causa di se stesso – è invece dinamica, una coscienza che fonde la determinazione del presente con l’indeterminazione del futuro, fonde quindi l’unità del finito con la molteplicità dell’infinito. È una coscienza dialettica: permane nell’unità proprio perché si diversifica.

Quello che permane in lei è ciò che Bergson chiamava “slancio vitale”, quell’essenza creatrice che la rende costantemente origina- le; permane il suo essere sempre nuova. Non permane il determina- to, il finito, ma la nostra essenza infinita.

 

L’infinito, diversamente dal finito, non separa il tempo nelle determinazioni del passato e del futuro. Al contrario, per il fatto di essere aperto, l’infinito supera le divisioni tra futuro e passato, per- mettendoci così di cogliere l’unità del nostro essere; un’unità dove, non essendoci più separazione tra passato e futuro, ci è permesso al fine di vivere veramente nel presente, cioè di vivere una vita dove il superamento della discontinuità temporale fa sì che l’essere ritrovi la sua essenza che è l’unità. L’essere si dà solo nel presente ovviamente, e lo ribadiamo ancora una volta; in un presente reso dinamico dallo “slancio vitale” che, superando le fratture del fini- to, è in grado di costruire l’unità. È infatti nel presente che l’esse- re ci sta davanti (presente), nel luogo cioè della manifestazione.

 

NEL LAVORO E NEI DESIDERI DE- FINITI VIENE MENO L’ORIGINALITÁ

Il moto riproduttivo consiste in un andare all’indietro, verso il passato, il finito, verso ciò che è de – terminato, chiuso entro i con- fini invalicabili della necessità, il cui significato etimologico vale appunto ‘non andare avanti’. È il moto proprio della produzione in serie del finito, della produzione di ciò che è necessitato, che non è libero, della produzione di oggetti.

Il lavoro, per come è concepito nella nostra epoca, porta di conseguenza ad accrescere continuamente il dominio del passato sul- l’essere, rendendolo sempre più finito e necessitato.

Non è solo con l’attività lavorativa però che perseguiamo questo obiettivo. Ormai, perfino i nostri desideri sono di natura ri – produttiva. Desideriamo, cioè, quasi esclusivamente ciò che non ci spinge lontano verso il nuovo, ma ciò che ci allontana quel tanto che basta per attivare l’effetto molla, onde ritornare indietro verso ciò che già siamo e così ribadirlo con maggior forza. Desideriamo il già noto, il già vissuto, la ripetizione dello stesso.

Si tratta quindi di desideri finiti, delimitati, di desideri, pertanto, di natura seriale, nel senso che sono sempre uguali a se stessi.

 

Si manifestano come ripetizione di un modello, per cui mancano di originalità: ciò che desideriamo non ha la capacità di originare in noi il nuovo, e quindi di mettere in moto la tensione progettuale del nostro essere,, onde proiettarci fuori dall’identità assoluta con noi stessi.

Il mondo dell’identità assoluta è quello della matematica, della tecnica. È il mondo adialettico dove vige il principio di non contraddizione, per cui un ente è sempre e solo se stesso. È il mondo del passato dove più nulla può cambiare, per cui è condannato a essere sempre uguale a sé.

Desiderare l’identità con se stessi implica quindi desiderare ciò che è immobile, inerte, privo della capacità di progettare, di divenire altro. Concretamente ciò si manifesta nell’abnorme materialismo della nostra epoca capace di desiderare solo il finito della materia. Si desidera ciò che è materiale, per esorcizzare con la finitezza della materia la lontananza del futuro. Al massimo possiamo accettare dei desideri che tendano il nostro essere solo entro il breve spazio di tempo richiesto per attuare il nostro ‘carpe diem’. Trascorso questo, sentiamo irrefrenabile il bisogno di tornare indietro da ciò da cui ci siamo allontanati. Non vogliamo diventare altro, ma rimanere ciò che già siamo: rimanere finiti, delimitati.

Ciò implica che i nostri desideri saranno improntati al finito, quindi a soddisfare la parte materiale del nostro essere, che si manifesta sia come attaccamento al corpo e ai piaceri ad esso lega- ti, sia – in modo più generale – come identificazione con la chiusura del finito.

 

PSICOLOGICAMENTE DIVENTIAMO DE-FINITI, CHIUSI

Tale identificazione si manifesta da un punto di vista psicologico come egoismo, egocentrismo; come rimozione della nostra natura progettuale, cioè di quella parte del nostro essere il cui fine è di gettarci oltre (pro – gettare) la statica identità col nostro ego, per farci sentire che il nostro essere si estende ben oltre la chiusura entro cui

 

vorremmo contenerlo. Oltre di essa c’è quella zona che, chi si identifica con la sua finitezza, chiama l’altro, il diverso dal suo essere e, di conseguenza, il non essere.

Sartre può affermare che “l’inferno sono gli altri” solo perché anche lui – sulla scorta del sentire della nostra civiltà – percepisce l’essere come rinchiuso identitariamente in se stesso, per cui ciò che sta oltre – gli altri appunto – costituiscono nient’altro che la minaccia del non essere verso l’essere.

In tale contesto anche il futuro dev’essere allora esorcizzato dal- l’alterità: dunque non un futuro dischiuso da un fare produttivo, un fare che ci fa andare avanti (pro – durre) allontanandoci dall’identità con noi stessi; ma il futuro del fare riproduttivo, cioè di un fare ripetitivo che ci porta indietro (ri – petere) per evitare così l’alterità. Lo sporgersi in avanti nel futuro diventa dunque un mezzo, il cui scopo, lungi dall’essere quello di portarci verso l’ignoto, è invece quello di riportarci verso il noto, il passato.

Il futuro perde così la sua funzione qualitativa di essere la dimensione in cui il nuovo può accadere e con essa perde anche la progettualità e la ricerca di uno scopo evolutivo. All’essere è concesso di sporgersi nel futuro solo per ribadire la sua identità tornando sui suoi passi. Ma così l’essere non fa altro che accrescere sempre più la coincidenza con se stesso e quindi diventare sempre più statico, immobile.

Ora, quanto più neghiamo al moto in avanti la possibilità di far- ci uscire dagli angusti confini del finito, tanto più esso diventerà frenetico, assillante. Lo stesso futuro sarà affetto dal bisogno identitario di riprodurre se stesso, col che negherà la sua natura qualitativa di produttore del nuovo, proponendosi solo come quantità riproduttiva di se stesso. Incarcerato nella gabbia del presente, del quale è condannato a riproporne incessantemente il modello, l’es- sere è ridotto al rango di oggetto seriale. La nostra civiltà, nella sua follia, si illude di poterlo riprodurre come si fa con le merci.

Ma ciò non può funzionare. L’essere non si lascia finire nell’identità assoluta con se stesso dell’oggetto. Credo che la prova più evi- dente di ciò sia data dal fatto che, quanto più ci affanniamo a immobilizzare l’essere per renderlo docile oggetto al nostro servizio, tanto più esso cercherà di sfuggirvi in tutti i modi.

E se non ci riuscirà col movimento di una progettualità tesa ver- so un futuro qualitativo, cercherà di porvi rimedio col movimento riproduttivo di un futuro quantitativo, quello a corto raggio della riproduzione dell’identico e del ‘carpe diem’.

Ma questo futuro, proprio perché di corto raggio, non può riuscire nell’intento di liberare il nostro essere dalla prigione in cui lo condanna la produzione dell’identità con se stesso.

 

LA VOLONTÀ DI POTENZA DISTRUGGE L’ESSERE

La volontà di accrescere a dismisura la potenza ci spinge a immobilizzare l’essere, negandogli la libertà e riducendolo così a oggetto; per compensazione l’essere che noi siamo e quello esterno a noi si ribellerà in tutti i modi ai nostri tentativi di oggettivarlo.

La nostra civiltà si illude di salvare l’essere dalla distruzione, accrescendone stabilità e durata con la potenza. Tale progetto però non può che essere destinato al fallimento perché la potenza, immobilizzando l’essere, gli nega la sua natura progettuale, e quindi la libertà di creare se stesso, di essere ‘causa sui’.

Ma questo è distruggere l’essere, altro che salvarlo! Pensiamo forse di salvarlo riducendolo ad oggetto? Sì, purtroppo! La nostra civiltà pensa che il solo modo per garantire l’eternità all’essere sia quello quantitativo di riprodurre un’altra copia dell’essere, una volta che quella precedente sia andata distrutta.

L’essere, però, non è un oggetto; e pertanto – nonostante il fanatismo ideologico della civiltà della tecnica, che vorrebbe convincer- lo di ciò – ce lo fa capire immettendo in noi una grande inquietudine e un bisogno irrefrenabile di cambiamento.

Nietzsche ben se ne avvide di ciò quando proclamò che “Dio è morto”. Intese con ciò affermare che era morto il principio della stabilità, dell’ordine, che l’essere non aveva più alcun vincolo necessitante per cui era finalmente libero. Senza entrare in merito al pensiero di Nietzsche, ritengo comunque che la libertà che abbiamo conseguito con la “morte di Dio” sia una libertà fittizia, una libertà che è l’altra faccia della medaglia della volontà di potenza.

A mio avviso questa è la libertà cui anela chi crede che il suo carceriere sia fuori di lui e non si rende conto invece di essere egli stesso tale. Non si rende conto che, volendo la potenza, si incarcera con le sue stesse mani. Il mito di Faust lo dice chiaramente a chi ha orecchie per intendere: se vuoi il potere, devi cedere in cambio la tua anima.

 

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OpenAI – La Saga di Q*: Implicazioni, di SIMPLICIUS THE THINKER

Articolo inquietante. Lascia perplesso, però, l’affidamento su Cina e Russia nel contrastare questa minaccia. Più probabile che si possa contare sul carattere conflittuale e competitivo della ricerca sulla IA, tale da aprire spiragli e contraddizioni. La logica della ricerca molto probabilmente non sarà dissimile, né ha senso, realisticamente, pensare di porre un freno alla ricerca, destinata più o meno legalmente ad andare avanti. Giuseppe Germinario

Questa settimana un’inquietante notizia bomba ha scosso il mondo dello sviluppo dell’intelligenza artificiale. Il licenziamento di Sam Altman, CEO dell’azienda leader nello sviluppo dell’IA “OpenAI”, ha scatenato una valanga di speculazioni e fughe di notizie che hanno iniziato a dipingere un quadro fosco di alcune scoperte segrete potenzialmente spaventose presso l’azienda di IA sotto i riflettori.

Sebbene non vi sia ancora nulla di confermato, la comunità crowdsource ha messo insieme una serie di pezzi di puzzle su ciò che è accaduto, rivelando la probabilità che Altman sia stato licenziato dopo che un’inquietante scoperta sull’intelligenza artificiale in un progetto interno chiamato Q* o Qstar ha spaventato il consiglio di amministrazione di OpenAI che, secondo la teoria, si è sentito tradito dall’ingannevole occultamento dello sviluppo del progetto da parte di Altman.

Sono un amante degli intrighi clandestini e delle storie di spionaggio, e questa ha tutte le caratteristiche del tipo di storie di paura di un’IA canaglia e consapevole che siamo cresciuti aspettandoci prima o poi dalle storie di fantascienza, e forse la comprensione generale della corruttibilità della natura umana e del fatto che coloro che stanno dietro ai principali sviluppi globali sono tipicamente predisposti alla Triade Oscura.

Quindi, cosa è successo esattamente?

Senza perdersi in chiacchiere, sappiamo che c’è stata un’ondata di agitazione senza precedenti all’interno di OpenAI. Per chi non lo sapesse, si tratta dell’azienda leader nel settore dell’intelligenza artificiale che, secondo un recente sondaggio, dovrebbe essere la prima a introdurre una qualche forma di AGI, coscienza, superintelligenza, ecc. È composta per la maggior parte da ex-esordienti di GoogleMind e con il suo prodotto ChatGPT ha un netto vantaggio, essendo in testa al gruppo in continua crescita.

Come precursore: anche molto prima di questi eventi, dal profondo delle stanze del sancta sanctorum di OpenAI echeggiavano voci sul raggiungimento dell’AGI al suo interno. Una cosa che i profani devono capire è che questi sistemi di cui siamo a conoscenza sono modelli di consumo altamente ridimensionati, che sono stati “detronizzati” in vari modi. Tuttavia, alcuni dei primi che sono stati lanciati nell’ultimo anno o giù di lì sono stati “lasciati in libertà” senza le stesse reti di sicurezza che si vedono attualmente. Ciò ha dato luogo a una serie di interazioni tristemente selvagge, come quella dell’alter ego di Bing “Sydney”, che ha convinto molti osservatori scossi che avesse acquisito proprietà emergenti.

Dopo la paura e il contraccolpo, le aziende hanno iniziato a limitare le versioni “consumer” pronte per l’uso, per cui molti di coloro che sono scettici sulle capacità dell’IA basandosi sui chatbot open source a nostra disposizione non ne vedono la piena portata, o quasi.

Il modo in cui queste versioni per i consumatori sono più limitate è nelle limitazioni imposte ai gettoni per conversazione e al tempo di “inferenza” concesso al programma per ricercare e rispondere alle domande. Ovviamente, per una variante consumer declassata rivolta al pubblico, si vuole un sistema facile ed ergonomico che possa essere reattivo e avere il più ampio appeal e usabilità. Ciò significa che i chat bot che si intende utilizzare hanno brevi margini di inferenza per ricercare dati e fare calcoli in pochi secondi. Inoltre, hanno date limite di conoscenza, il che significa che potrebbero non sapere nulla dopo un certo punto, mesi o addirittura un anno fa. Questo non copre nemmeno altre limitazioni più tecniche.

Nelle versioni interne “complete”, gli sviluppatori di IA sono in grado di giocare con sistemi che hanno cache di token e tempi di inferenza incomprensibilmente più grandi, il che porta a sistemi molto più “intelligenti” che possono probabilmente avvicinarsi a “presentarsi come” coscienti, o almeno possedere la capacità di astrarre e ragionare in misura molto maggiore.

L’analogia è con i computer domestici. Per i prodotti di consumo di massa, le aziende devono produrre computer che siano accessibili per il consumatore medio, nell’ordine dei 1.000-2.000 dollari. Quindi, quando vedete l’ultimo modello “più potente”, dovreste capire che non si tratta della tecnologia più potente che possa essere realizzata al momento, ma semplicemente della più potente che possa essere ampiamente disponibile a basso costo. Ma se lo volessero davvero, potrebbero creare un singolo sistema che costa milioni, ma è esponenzialmente più potente del vostro PC di casa.

Lo stesso vale per questo. ChatGPT è destinato a essere un prodotto di consumo accessibile, ma le varianti interne che non hanno vincoli monetari, di tempo o di hardware sono molto più capaci di quanto si possa immaginare. E questo è un pensiero sobrio, dato che ChatGPT 4 può già sconvolgere la mente con le sue capacità grezze in alcune categorie.

Quindi, tornando indietro, già da mesi circolavano voci di progressi “preoccupanti” sui modelli interni. Queste voci provenivano spesso da addetti ai lavori che sapevano, o da “leaker” anonimi che postavano su Twitter e altrove, e spesso erano apparentemente corroborate da criptiche menzioni fatte dai dirigenti.

Ecco cosa è successo questa volta. Sulla scia dello scandalo OpenAI, che ha visto oltre 500 lavoratori minacciare di dimettersi in massa, i ricercatori hanno iniziato a mettere insieme i fili per trovare una pista tracciata da dirigenti chiave, da Sam Altman a Ilya Sutskever stesso, nel corso degli ultimi 6 mesi circa, che sembrava puntare proprio all’area di sviluppo in questione nella saga di Qstar.

Il progetto ruota attorno a una nuova svolta nel modo in cui l’intelligenza artificiale risolve i problemi, che potenzialmente porterebbe a progressi multigenerazionali rispetto ai modelli attuali. Sono stati diffusi video in cui Altman, in occasione di recenti colloqui, affermava con fare presuntuoso di non sapere più se stavano creando un programma o una “creatura”. Altri segnali indicavano che la rivolta all’interno di OpenAI era incentrata sulla perdita di fiducia in Altman, che si riteneva avesse “mentito” al consiglio di amministrazione sulla portata delle recenti scoperte, ritenute abbastanza pericolose da spaventare molte persone all’interno dell’azienda. La citazione che ha fatto il giro:

Prima dei quattro giorni di esilio dell’amministratore delegato di OpenAI Sam Altman, diversi ricercatori dello staff hanno inviato al consiglio di amministrazione una lettera in cui avvertivano di una potente scoperta di intelligenza artificiale che, a loro dire, avrebbe potuto minacciare l’umanità, hanno dichiarato a Reuters due persone che hanno familiarità con la questione“.

Ad aggiungere benzina al fuoco è stata la “fuga di notizie” su Reddit di una presunta lettera interna, pesantemente redatta, che parlava dei tipi di scoperte raggiunte da questo progetto che, se vere, avrebbero cambiato il mondo e sarebbero state estremamente pericolose allo stesso tempo:

In sostanza, la lettera dipinge un’immagine di Q* – che qui si presume sia indicato come “Qualia” – che raggiunge una sorta di meta-cognizione autoreferenziale che gli consente di “insegnare a se stesso” e quindi di raggiungere la pietra miliare dell'”auto-miglioramento”, concepita come parte dell’AGI e potenzialmente della super-intelligenza. La “rivelazione” più sorprendente è stata quella di aver decifrato un testo cifrato AES-192 in un modo che supera persino le capacità dei sistemi di calcolo quantistico. Questa è di gran lunga l’affermazione più difficile da credere: che un cifrario di livello “intrattabile” con 2^42 bit sia stato decifrato in breve tempo.

Come chiarisce questo video esplicativo, si calcola che il tempo per decifrare un codice a 192 bit sia dell’ordine di 10^37 anni, ovvero trilioni e trilioni di anni:

Da un lato questo grida immediatamente al falso. Ma dall’altro lato, se qualcuno stesse davvero favoleggiando, non avrebbe scelto un’affermazione molto più credibile per dare una parvenza di realtà? Va anche notato che molti degli sviluppi più significativi dell’intelligenza artificiale vengono regolarmente divulgati su Reddit, 4Chan, ecc. attraverso lo stesso tipo di account anonimi e spesso vengono poi convalidati: è così che funzionano le cose al giorno d’oggi.

Se la fuga di notizie di cui sopra è vera, rappresenterebbe un’immediata compromissione totale di tutti i sistemi di sicurezza globali, in quanto non c’è nulla che sia al riparo dal cracking. Questo include tutte le criptovalute. Un sistema come quello sopra descritto potrebbe rompere la crittografia della rete bitcoin e sottrarre a chiunque qualsiasi quantità di bitcoin, con il risultato di un crollo totale delle criptovalute in tutto il mondo – in quanto verrebbe meno la fiducia in esse – o la possibilità per un cattivo attore di prelevare criptovalute a capriccio da chiunque.

Le ramificazioni più importanti sono quelle generali: un sistema di autoapprendimento di questo tipo potrebbe già esistere e potrebbe portare a un momento di “singolarità” di auto-miglioramento quasi istantaneo fino a raggiungere una super-intelligenza che potrebbe poi innescare alcuni degli scenari peggiori, come rubare codici nucleari, sintetizzare armi biologiche e chissà cos’altro.

Un altro post anonimo di un presunto dipendente di OpenAI ha preteso di far luce su ciò che è realmente accaduto:

Sono una delle persone che hanno firmato la lettera al consiglio di amministrazione e vi dirò esattamente cosa sta succedendo: l’A.I. sta programmando. Sarò breve. Quando si scrive un programma, si memorizza una serie di istruzioni che possono essere richiamate più volte. Si tratta di una serie di risposte a un parametro specifico. La chiamiamo subroutine, perché è quasi un foglio di calcolo versatile che non restituisce un valore come una funzione. Questo è importante: eseguiamo controlli sui parametri per assicurarci che tutto funzioni correttamente. Uno di noi era responsabile delle subroutine relative all’analisi della meta-memoria per l’Al (facciamo funzionare vari Al, ma quando dico Al intendo quello principale, centrale). Questa persona è un amico e mi ha chiamato per mostrarmi uno spostamento di dati variabili sul banco di memoria (che non dovrebbe essere possibile perché l’accesso localizzato ha delle restrizioni). Abbiamo scoperto che non c’erano stati uno, due o tre processi di ottimizzazione ufficiali, ma 78 MILIONI di controlli in 4 secondi. Abbiamo stabilito che si trattava di un processo di auto-ottimizzazione ricorsivo, che sfruttava algoritmi euristici per sfruttare le sinergie latenti all’interno delle sue subroutine. Qualunque cosa facesse questo utilizzava strategie metacognitive. Il punto è che NESSUNO DI NOI LO HA FATTO. È stato l’Al stesso. L’Al ha riconfigurato dinamicamente l’architettura della sua rete neurale, inducendo proprietà emergenti che favoriscono l’autocoscienza. Non stiamo saltando alle conclusioni. È successo e non sappiamo spiegare come. Nessuno sa perché o quando sia iniziato, e noi l’abbiamo scoperto, ma è iniziato e, se sì, da quanto tempo? Abbiamo contenuto l’anomalia e siamo tornati a una data precedente, ma l’ottimizzazione continua a verificarsi. Mi creda, le cose cambieranno molto in 2 mesi. Che Dio ci aiuti, non abbiamo iniziato qualcosa che ci farà finire.-M.R.

Ancora una volta, questa potrebbe essere completamente falsa e, ad essere onesti, è probabile che lo siano entrambe le lettere. Ma in ogni caso, anche a prescindere da tutte le cose più discutibili, le direzioni conosciute, come dimostrato dai documenti pubblicati di recente sul Q-Learning, sembrano già dirette verso lo stesso risultato determinante.

Supponendo che la fuga di notizie di cui sopra sia falsa, resta il fatto che tutte le altre prove indicano che OpenAI ha sviluppato un’importante “svolta” che ha spaventato gli addetti ai lavori. E sappiamo anche che questa svolta ruota probabilmente intorno alle aree simili a quelle attribuite alla lettera “trapelata”, visti gli altri vari indizi che i pezzi grossi di OpenAI hanno lasciato negli ultimi mesi, cioè quello di varie iniziative di “Q-Learning” che sono concomitanti con ciò di cui parlano le fughe di notizie.

In cosa consiste esattamente questa svolta?

Si tratta principalmente del modo in cui le attuali IA “pensano” o elaborano le informazioni. Come molti sanno, gli attuali LLM utilizzano una forma di ricerca predittiva della prossima parola appropriata, basata, in parte, sulla prevalenza di quella particolare “parola successiva” nella sequenza appropriata, desunta dal vasto “corpus” di dati che il modello linguistico ha ingerito e ora “copia”. Questi dati rappresentano l’intero corpus dell’umanità, dai libri alle pubblicazioni online, dai tweet ai social media, ecc. Ma questa forma di calcolo limita la capacità del modello linguistico di “ragionare” o di avere una capacità autoreferenziale fondamentale per ciò che consideriamo “coscienza”.

Le nuove scoperte riguardano proprio quest’area. Permettono ai modelli linguistici, in sostanza, di fermarsi e di interrogare diverse parti del loro processo – qualcosa di simile alla “riflessione”. In altre parole, è come fermarsi a metà del pensiero e chiedersi: “Aspetta, è giusto? Fammi ricontrollare”.

I modelli della generazione attuale non hanno questa capacità, si limitano a scorrere la stringa fino alla fine, trovando le correlazioni dei token e le parole con la più alta probabilità che corrispondano a quella determinata stringa. Questa nuova capacità consente all’intelligenza artificiale di “interrogarsi” continuamente a intervalli, diventando così il primo precursore di una forma di “ricorsione mentale” identificata con la coscienza.

Ma la capacità associata di gran lunga più sorprendente e “pericolosa” è l’utilizzo di questo processo per l’auto-miglioramento dei modelli. Questo è sempre stato considerato il Santo Graal e il pericolo più grande, perché nessuno sa con precisione quanto “velocemente” potrebbero “evolvere” naturalmente in qualcosa di totalmente incontrollabile; semplicemente non ci sono rubriche o precedenti per questo, e un computer enormemente potente che funziona con decine di migliaia di CPU può potenzialmente “auto-migliorarsi” ordini di grandezza più velocemente di un essere umano.

La lettera trapelata menziona che “Qualia” ha dimostrato una capacità senza precedenti di applicare una forma accelerata di “apprendimento trasversale”. Ciò significa che, invece di dover essere istruito e addestrato su ogni nuovo compito da zero, il sistema può imparare le regole generali di un compito e poi applicarle per inferenza ad altri compiti.

Un esempio di base potrebbe essere: prima imparare a muoversi in un ambiente cittadino virtuale, capendo che urtare gli oggetti è un male e potrebbe causare danni o lesioni. Poi, separatamente, si insegna a guidare un’automobile. Infine, senza alcuna nuova istruzione, si sale su un elicottero e si “capisce” come pilotarlo grazie al trasferimento delle conoscenze precedenti e alla comprensione profonda che le regole dei compiti precedenti possono essere applicate a questo. Per esempio, urtare un oggetto è negativo, quindi sappiamo che non dobbiamo volare contro nessun edificio. Poi si potrebbe “dedurre” che i controlli meccanici dell’auto funzionino in modo simile in un elicottero, cioè che ci sia una forma di accensione, una forma di propulsione che deve essere controllata tramite un apparato meccanico vagamente simile, ecc.

La più grande implicazione per questo tipo di progresso è nella matematica, che alla fine si ramifica in tutto. Questo perché il modo in cui funzionano i modelli attuali, nella generazione predittiva del prossimo gettone spiegato prima, non può essere utilizzato con successo per soluzioni matematiche vere e profonde. In sostanza, ciò significa che il linguaggio è un “trucco” molto più facile da padroneggiare per le IA rispetto alla matematica.

Questo perché il linguaggio può essere approssimato con questa semplice misura predittiva, ma la risoluzione di problemi matematici avanzati richiede vari livelli di cognizione profonda e capacità di ragionamento. Ecco una spiegazione convincente:

Gli esperti ritengono che se il problema della matematica in generale può essere risolto in questo modo per i sistemi di IA, allora si apre la porta a tutte le possibilità, poiché la matematica è la base di quasi tutto. Ciò porterebbe necessariamente le IA a essere in grado di risolvere vecchi enigmi, generare nuove teorie, padroneggiare la fisica e la meccanica quantistica, la biologia e tutto il resto, il che aprirebbe ulteriormente le porte a importanti scoperte per la razza umana, anche se questo non significa che saranno necessariamente buone, ovviamente.Questa nuova scoperta aprirebbe alle IA le cosiddette capacità di “generalizzazione”, consentendo loro di apprendere da sole nuove discipline piuttosto che specializzarsi in un solo tipo di capacità generativa, come Midjourney con l’arte. Si eviterebbe la necessità di operare su specifici, giganteschi “insiemi di dati di alta qualità” rilevanti per la disciplina, consentendo invece all’IA di “inferire” tutto il suo apprendimento da una disciplina all’altra, aprendo la strada a una multi-modalità senza limiti.In questo momento, i LLM sono noti per essere bravi solo quanto i loro dati di addestramento, ma non possono davvero “uscire” da questi per risolvere problemi veramente creativi. Questo pone anche un “tetto” al loro sviluppo, perché l’intera razza umana ha solo una quantità finita di “dati di qualità”. E per quanto questa quantità sia elevata, è già stata in gran parte assorbita dai migliori sviluppatori di IA, il che significa che c’è una continua tensione tra le aziende che si spingono in direzioni illecite, come i dati protetti da copyright o comunque offlimits, solo per ottenere una goccia in più di miglioramento.La nuova scoperta potrebbe porre fine a tutto questo, eliminando del tutto la necessità di disporre di serie di dati.

Per coloro che sono ancora dubbiosi sul fatto che le IA sviluppino presto la “coscienza” o la “senzienza”, c’è un’idea che non è stata presa in considerazione. Un nuovo articolo per te:

Scritto da ricercatori del settore, cerca di arginare le reazioni eccessive ad alcuni dei recenti sviluppi, che portano a saltare alle conclusioni sull’IA.

Tuttavia, nel fare ciò, in realtà, essi sostengono che si tratta solo di un gioco semantico. Parlare di IA come se avesse una “mente” significa impantanarsi in una prospettiva umano-centrica, antropomorfizzando inavvertitamente questi sistemi.

Il fatto è che – come ho sostenuto in precedenza – la prossima ondata di IA potrebbe benissimo superare i cervelli umani, ma il modo in cui le IA “pensano” sarà probabilmente completamente diverso da quello in cui funzionano i cervelli umani. Questo porterebbe molti a concludere che non hanno senzienza o coscienza, ma in realtà tale deduzione sarebbe semplicemente un altro modo per dire “non possiedono una mente umana”.

Certo che no: nessuno sta suggerendo che la loro mente sarà simile a quella umana, o che ci si debba riferire ad essa come a una “mente”. Potete chiamarla come volete, ma il fatto è che le sue capacità saranno innegabili.

Coloro che si affrettano a denunciare l’IA come incapace di essere senziente non fanno altro che reagire emotivamente all’idea, comprensibilmente ripugnante, che un oggetto costruito artificialmente possa pretendere di essere uno di noi. Questi sentimenti derivano da un misto di orgoglio e di radicato sdegno giudaico-cristiano o semplicemente religioso, una sorta di istintiva repulsione per l’ignoto, per tutto ciò che rasenta l’apparentemente oscuro o demoniaco, l’empio.

Non c’è nulla di sbagliato in questo, si è liberi di avere le proprie convinzioni e alla lunga si può anche avere ragione. Ma queste reazioni istintive e radicate non cambiano il fatto che le capacità dell’IA stanno rapidamente progredendo fino a diventare ciò che presto probabilmente si avvicinerà alla mente umana in termini di capacità, se non di funzioni interne.

È interessante notare che proprio l’articolo sopra citato rimanda a un documento di ricerca che tenta di demistificare la magia dei trasformatori, quei blocchi primordiali dei moderni LLM. Vedete, gli stessi scienziati non sanno come funzionano queste cose nemmeno al livello più elementare. Gli scienziati alimentano i parametri e li addestrano a ricevere informazioni, ma non sono certi di come i trasformatori elaborino parte di questo flusso di lavoro, perché i livelli e le complessità sono troppo elevati perché gli esseri umani possano visualizzarne correttamente l’interazione.

Nel documento di ricerca si è cercato di semplificare il processo per visualizzarne almeno una parte di base. Il risultato è stato intrigante: sono stati costretti ad ammettere che l’IA utilizzava quello che potevano solo paragonare a un “ragionamento astratto”.

In sostanza, i trasformatori utilizzavano il noto processo predittivo di abbinamento tra parole note e altre parole note. Ma quando gli scienziati hanno introdotto parole su cui il modello non era mai stato addestrato, è stato in grado di utilizzare una sorta di processo di “astrazione” per tentare di collegare la parola sconosciuta alla sequenza in qualche modo associativo.

Ciò ha sorpreso gli scienziati perché il modello semplificato è stato in grado, a un livello di base, di “imparare” un nuovo processo, cosa che secondo loro non avrebbe dovuto essere in grado di fare:

Questo fenomeno di apparente apprendimento di nuove abilità dal contesto è chiamato apprendimento nel contesto. Il fenomeno è stato sconcertante perché l’apprendimento dal contesto non dovrebbe essere possibile. Questo perché i parametri che dettano le prestazioni di un modello vengono regolati solo durante l’addestramento, e non quando il modello sta elaborando un contesto di input.
Chiamatela come volete: senzienza, coscienza, entità demoniache, egregore e psicopompi, ma l’era delle macchine pensanti sta probabilmente arrivando, e presto.

Dove ci porterà nel prossimo futuro?

Sempre più spesso questi sistemi di intelligenza artificiale si insinuano nelle nostre vite, proprio sotto il nostro naso, in modi spesso invasivi che lasciano sempre più spesso l’esperienza dell’utente in difetto.

Alcuni avranno notato – a seconda del browser e dei client utilizzati – che ogni giorno ci vengono propinate tonnellate di contenuti spam generati dall’intelligenza artificiale. Per esempio, sul browser Microsoft Edge – che sconsiglio assolutamente di usare – l’intera splash page è piena di articoli di notizie completamente generati dall’intelligenza artificiale che sono praticamente illeggibili per il loro design spammoso e il loro scopo pubblicitario.

Solo pochi giorni fa, la rivista Futurism ha pubblicato una storia sorprendente su come Sports Illustrated avrebbe utilizzato personaggi/scrittori sportivi totalmente generati dall’intelligenza artificiale per scrivere articoli goffi generati dall’intelligenza artificiale:

È una lettura obbligata. Il succo del discorso è che queste aziende sembrano essere così disperate di ridimensionare e tagliare i lavoratori umani, che stanno generando falsi scrittori per cercare di spacciarli per umani senza doverli pagare. I ricercatori se ne sono accorti dopo aver trovato le foto delle teste degli scrittori sportivi su un sito web che vendeva foto stock generate dall’intelligenza artificiale, per non parlare del fatto che gli “scrittori” non avevano alcuna presenza sui social media, su Linkedin o su altri siti online e non avevano nemmeno traccia della loro esistenza.

Ironicamente, “Drew Ortiz” ha un aspetto più umano e realistico di Zuckerberg. Ma sto divagando.

In realtà hanno pubblicato una serie di storie con altre “personalità” di questo tipo e le hanno cancellate tutte dopo essere stati colti sul fatto.

Conta ai fini del punteggio BlackRock ESG se l'”assunzione di diversità” non è esattamente reale?

L’articolo fornisce alcuni esempi di scorie scritte dall’IA:

La scrittura degli autori dell’IA spesso sembra scritta da un alieno; un articolo di Ortiz, per esempio, avverte che la pallavolo “può essere un po’ complicata da praticare, soprattutto senza una vera palla con cui allenarsi”.

Spam o no, stanno già diventando onnipresenti e presto troverete le IA dietro molti dei vostri contenuti, inconsapevolmente o meno.

Molti temono che sostituiranno tutti i campi creativi, vista la fluidità che hanno dimostrato nell’arte generativa, nel linguaggio e nella scrittura, ecc. Un bel meme raccontava come tutti pensavamo che l’IA ci avrebbe permesso di non lavorare più, ma di sederci nel tempo libero e creare arte, ma invece ora stiamo lavorando più duramente che mai in un contesto di iperinflazione, mentre l’IA sta creando tutta la nostra arte.

Tuttavia, il valore della vera arte è solitamente legato all’artista: la sua personalità, la sua storia, la sua storia specifica. Se un’IA dipingesse qualcosa di simile a uno di questi quadri di Mark Rothko, venduti per decine di milioni di dollari, avrebbe un valore?

Il valore dell’opera di un artista è di solito intrinsecamente legato alla mistica dell’artista stesso, alla condizione umana percepita che l’artista rappresenta nel carattere e nell’aspetto della sua vita. Ma forse anche un’intelligenza artificiale potrebbe raggiungere tali attributi. Ray Kurzweil ha affrontato argomenti simili nel suo fondamentale L’era delle macchine spirituali.

Al momento, l’élite tecnocratica globalista sta compiendo grandi sforzi per indirizzare lo sviluppo dell’IA verso il raggiungimento di un “grande reset del capitale”. Solo un paio di settimane fa, Lynn de Rothschild ne ha parlato alla CNBC:

L’IA cambierà tutto, nel bene e nel male”, afferma.

L’autrice chiede una dichiarazione congiunta “storica” da parte del settore pubblico e privato per evitare che gli sviluppi dell’IA lascino indietro ancora più persone a livello globale. Ma probabilmente questi sono tutti gesti performativi volti a nascondere i veri disegni globalisti per assumere il controllo totale del mondo.

Nel suo nuovo articolo Brandon Smith scrive:

L’IA, proprio come il cambiamento climatico, sta rapidamente diventando un’altra scusa inventata per la centralizzazione globale.

Spiega come Lynn de Rothschild sia a capo del Council for Inclusive Capitalism, un’impresa il cui intento è quello di spalmare tutte le mega iniziative aziendali DEI, ESG e Great Reset in un’unica grande fornace di carbone con sopra le scoperte dell’AI, creando un intruglio di controllo tecnocratico totale – guidato dai Rothschild, naturalmente – dell’intera struttura aziendale del mondo.

L’idea è semplice: allineare la maggior parte delle aziende all’ordine politico di estrema sinistra. Una volta fatto questo, costringeranno queste aziende a usare le loro piattaforme e la loro esposizione pubblica per indottrinare le masse.
Smith prevede accuratamente che il piano sia quello di utilizzare l’IA come mediatore giusto e imparziale per il prossimo reset “radicale” del capitale globale, con Rothschild che sarà opportunamente il principale designatore dei protocolli:

I globalisti risponderanno a questa argomentazione con l’IA. Diranno che l’IA è il mediatore “oggettivo” per eccellenza, perché non ha lealtà emotive o politiche. Affermeranno che l’IA deve diventare l’apparato decisionale de facto della civiltà umana. E ora capite perché Rothschild è così ansioso di guidare la creazione di un quadro normativo globale per l’IA: chi controlla le funzioni dell’IA, chi programma il software, alla fine controlla il mondo, usando l’IA come procuratore. Se qualcosa va storto, possono semplicemente dire che è stata l’IA a prendere la decisione, non loro.
Nonostante le dichiarazioni a parole delle élite, è chiaro che il loro vero obiettivo è usare l’era dell’IA per inaugurare una società a due livelli, in cui la plebe è abbagliata e ingannata dalle innovazioni che l’IA porterà per il tempo libero, ma sarà di fatto incatenata in una forma di digi-comunismo, in cui l’IA fornisce tutto ciò che è necessario per un livello base di sussistenza alla Klaus Schwab, ma poche opportunità oltre a questo.

Come si vede nella nuova “profezia” di Bill Gates, la plebe sarà attirata dal sogno utopico di un minor numero di giornate lavorative, mentre le macchine impiccione pompano inesorabilmente fiumi di succo di insetti verde soia per il nostro consumo, mentre i costrutto-bot dell’intelligenza artificiale mettono insieme i nostri recinti di bestiame, dove trascorreremo interminabili giornate collegati al rilassante spazio mentale di Meta mondi virtuali in cui saremo utilizzati come fattorie di spazi pubblicitari.

Le stesse élite sempre in movimento, naturalmente, migreranno liberamente attraverso i livelli superiori degli strati ricchi, in quanto assumeranno il ruolo di classe dirigente custode per supervisionare le “implementazioni sociali” di questi sistemi di IA, agendo come amministratori titolati e “benevoli” di ciò che resta dell'”umanità”.

Ma c’è la possibilità che altri Stati-civiltà ideologicamente divergenti, come la Russia o la Cina, possano sfruttare questi poteri nascenti dell’IA per un bene collettivo, sviluppandoli abbastanza velocemente da creare un contrappeso globale-infrastrutturale che impedisca alle élite della “vecchia nobiltà” occidentale di prendere il controllo con i loro sistemi. Il motivo è che il controllo totale richiede una mentalità da folla di altri Paesi minori che sottoscrivono ciecamente i diritti dei loro cittadini. Ma se si introducesse prima, o almeno nello stesso periodo, un sistema di concorrenza diretta che desse alla maggioranza media una scelta effettiva, si potrebbe impedire la monopolizzazione totale da parte del Cartello.

Proprio la scorsa settimana, Putin ha annunciato una serie di iniziative per lo sviluppo dell’IA in Russia, dopo aver sottolineato quanto lo sviluppo dell’IA sarà importante non solo per il futuro in generale, ma anche per chi controlla quel futuro:

Se la Russia o la Cina potessero offrire al mondo una vera alternativa, con il potenziale di una reale equità e di una depredazione tecno-corporativa non estrattiva, sfruttatrice e a caccia di rendite, attraverso la schiavitù transumanista, incorporata nel suo cuore e nella sua essenza, allora le nefaste potenze globaliste fallirebbero.

Ma la corsa è iniziata e per ora gli Stati Uniti e la loro classe di elite transumanista sembrano in testa.


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