Siamo tutti Stati civili Solo che alcuni non se ne rendono conto, di Aurelien

Siamo tutti Stati civili
Solo che alcuni non se ne rendono conto.

AURELIEN
24 MAG 2023

Il termine “Stato civile” è stato molto utilizzato negli ultimi anni e ora ha anche l’onore di avere una propria pagina su Wikipedia, non che sia molto utile. Come al solito, il termine non ha un significato condiviso e viene usato dai suoi difensori e detrattori in sensi piuttosto diversi. In sostanza, si tratta di un tentativo di descrivere i Paesi, soprattutto quelli con una lunga storia, utilizzando un quadro concettuale diverso da quello dello Stato-nazione liberale standard post-westfaliano del 1789. I difensori del concetto sostengono che è sbagliato cercare di applicare concetti presumibilmente “universali”, ma in realtà occidentali moderni, a Paesi come la Cina, con la sua lunga e ricca storia, mentre gli oppositori sostengono che questa è solo una scusa per questi Stati che non rispettano gli stessi standard universali dei diritti umani e altri shibboleth moderni.

Non sono qui per arbitrare questo dibattito, e comunque non sono in grado di farlo, ma piuttosto per cercare di spiegare cosa penso stia succedendo e perché è importante nell’evoluzione della politica internazionale. È legato, ovviamente, alla lenta decadenza dell’egemonia intellettuale ed economica dell’Occidente e alle sue sfide che sono locali e differenziate, come ci si aspetterebbe se fossero culturalmente specifiche. Partiamo quindi dall’inizio. Possiamo procedere attraverso tre domande. Notate che la maggior parte dei miei esempi sono tratti dall’Europa e dall’UE, perché è lì che vivo, e non mi sento competente a discutere degli Stati Uniti, per esempio. Ma gli statunitensi sono invitati a considerare le questioni parallele.

In primo luogo, o ci sono sistemi e forme di governo ideali, a cui tutti gli Stati finiranno per arrivare, o non ci sono. Finora si è sostenuto che le forme tecniche di governo adottate nel XX secolo in Occidente, e perfezionate nel corso dell’ultima generazione o giù di lì, sono le uniche corrette e inevitabili, e che tutte le nazioni troveranno la loro strada verso tali forme prima o poi. Tradizione, cultura, religione e storia non sono contributi a un sistema politico, ma irritazioni e ostacoli che devono essere eliminati prima di raggiungere la forma di governo corretta. Questa forma è una democrazia indiretta di tipo elitario, in cui gruppi di politici professionisti competono per il potere facendo varie promesse economiche e sociali, e in cui il ruolo del pubblico si limita a votare occasionalmente alle elezioni. Sebbene vi siano notevoli variazioni nei dettagli (presidenti eletti o non eletti, ad esempio), il concetto fondamentale di una classe politica professionale, il cui accesso è limitato e su cui le forze esterne dovrebbero teoricamente avere poca influenza, si ritrova ovunque. Altri attori, tra cui la magistratura e il parlamento in alcuni tipi di sistemi, hanno una parte di potere e i loro protagonisti provengono generalmente dalle stesse classi sociali ed economiche e possono persino essere legati da rapporti di parentela o di educazione. Tali sistemi politici sono in pratica governati da élite oligarchiche, anche se la configurazione formale può apparire leggermente diversa in ciascun caso. È dunque questo il sistema politico ideale e uno Stato o un partito politico che dubiti della sua validità universale è automaticamente sbagliato?

Allo stesso modo, o ci sono visioni universali delle relazioni individuali e sociali, a cui tutti gli Stati finiranno per arrivare, o non ci sono. Finora si è sostenuto che la base di tutte queste visioni è il moderno concetto occidentale di “diritti umani”. Ho già analizzato la storia piuttosto discutibile di questa idea: qui voglio solo osservare che l’egemonia di questa particolare idea, vaga e contestata, è tale che in realtà è molto difficile parlarne razionalmente. È difficile trovare una risposta all’accusa “Suppongo che tu pensi che sia giusto rinchiudere le persone senza processo?” nei termini in cui viene posta. (Anche se è legittimo dire che molti sedicenti “difensori dei diritti umani” credono essi stessi nell’opportunità di rinchiudere le persone senza processo se hanno opinioni sbagliate). Come Socrate che si difende dalle accuse di empietà verso gli dei, o Giovanni Bruno che si difende dalle accuse di eresia, è impossibile difendersi se si è costretti a rimanere nei limiti intellettuali della domanda. Il problema, infatti, è la concezione liberale radicale della società, che si è affermata a partire dal XVIII secolo e che vede la società non come un’entità, ma come un insieme di individui che massimizzano l’utilità, in lotta tra loro per ottenere il massimo vantaggio finanziario e personale, e regolati solo dalle leggi assolutamente necessarie. In una “società” di questo tipo non c’è società: le questioni sociali riguardano o la garanzia di un equilibrio matematico tra i vari desideri degli individui (come in Bentham) o un semplice gioco libero in cui chi ha più soldi e potere confisca il maggior numero di diritti. Il concetto di interesse collettivo è una contraddizione in termini. Infatti, i membri di una società possono passare ad essere membri di un’altra società con poche formalità, poiché non esistono vere e proprie “società”, ma solo collezioni temporanee e contingenti di persone che commerciano tra loro e che potrebbero benissimo trovarsi altrove. Inoltre, non esistono “diritti” collettivi, ma solo la somma dei diritti di tutti gli individui nella stessa situazione. Quando i diritti di alcuni individui si scontrano con i diritti di altri (come è normale che sia), si ricorre ai giudici per decidere chi ha più diritti. L’esistenza stessa di interessi più ampi della sola massimizzazione dell’utilità individuale non viene semplicemente riconosciuta. È dunque questo il sistema sociale ed economico universalmente valido, e uno Stato o un partito politico che dubiti di questa validità universale è automaticamente sbagliato?

Infine, o esistono modi ideali post-culturali, post-storici, post-religiosi e post-nazionalisti di guardare alla politica e alla società, a cui tutti gli Stati finiranno per approdare, oppure non esistono. Il liberalismo ha sempre teso verso una sorta di efficienza vuota e manageriale, priva di tutte le caratteristiche che ci rendono umani. Considera le credenze, le lealtà, l’amicizia e i legami sociali di qualsiasi tipo nel migliore dei casi inefficienti, in quanto impediscono il buon funzionamento dell’economia di mercato, e nel peggiore dei casi come simboli di oscurità e superstizione, da scacciare con la pura luce della ragione. La sua epitome è forse la visione da incubo di Comte di una società perfettamente razionale in cui i dittatori scientifici si assicurerebbero che ogni persona viva una vita interamente razionale che massimizza l’utilità, senza la scomoda influenza di sentimenti o emozioni. Una società di questo tipo è in realtà già presente, a grandi linee, nei presupposti dell’Unione Europea. La religione, la storia, la cultura, la lingua e le credenze dividono le persone l’una dall’altra, causando così (si sostiene) conflitti e persino guerre. Di conseguenza, si deve fare ogni sforzo per estinguere le differenze nazionali scoraggiando l’insegnamento e l’invocazione di storie e culture distinte, se non per mettere in guardia dai loro aspetti negativi, promuovendo invece una zuppa di Bruxelles grigia e insapore, che si distingue in gran parte per gli ingredienti che mancano. La storia, nella misura in cui se ne riconosce l’esistenza, è passata dall’essere una storia nazionale a un campo di dibattiti e lotte feroci in cui i gruppi cercano di imporre le loro interpretazioni della storia gli uni sugli altri, come i membri di una famiglia che si combattono davanti a un giudice per i diritti di eredità.

Bruxelles oggi è, di fatto, il nulla: nessuna storia, nessuna cultura, nessun patrimonio comune e un’ideologia costruita interamente su luoghi comuni, dove gli argomenti difficili non vengono discussi. (La religione è considerata un artefatto puramente culturale e qualsiasi critica ai praticanti di religioni non europee, per qualsiasi motivo, è considerata razzismo). La storia, sotto forma di edifici e monumenti, è accettabile solo nella misura in cui favorisce l’industria del turismo o rappresenta un’opportunità commerciale. Anche la lingua ufficiale è artificiale: una sorta di inglese semplificato, con una forte influenza del vocabolario giuridico francese, spesso chiamato Globisch. Di certo, se si entra in un ristorante di rue Archimède, dove la Commissione si reca spesso a pranzo, non si sentirà parlare fiammingo e probabilmente non si sentirà nemmeno parlare francese. Persino i menu sono in Globisch e la gente paga con banconote in euro dal design volutamente anonimo, come se avesse paura di dire da quale continente provengono. Se si va a Strasburgo, sede (o almeno albergo) del Parlamento europeo, si vede la stessa cosa nell’area europea: edifici moderni, senza volto e senza carattere che sembrano essere stati progettati proprio per essere brutti e non memorabili. Geograficamente, sono posizionati esattamente sul confine franco-tedesco, come se avessero paura di essere visti in uno dei due Paesi. Questo sistema di credenze è dunque universale (o almeno idealmente tale) e uno Stato o un partito politico che dubiti della sua validità universale ha automaticamente torto?

Non vi sorprenderà sapere che io penso che la risposta a tutte queste domande sia “no”. Ma ciò che penso non ha molta importanza. Ciò che è molto più importante è che il tipo di opinioni che ho delineato sopra rappresentano in realtà un’opinione minoritaria nell’Occidente stesso, a volte una minoranza piuttosto piccola. In questo senso, l’argomento della divisione tra Stati “moderni” e “civilizzati”, e ancor meno le sciocchezze sulla presunta distinzione tra Stati “democratici” e “autoritari”, sono una falsa antitesi. Esiste una classe dirigente globale (e no, non si tratta di una cospirazione) che condivide ampiamente questi punti di vista e che ha avuto più successo nell’imporli ad alcuni Paesi che ad altri. Nella maggior parte dell’Occidente ha avuto successo, in altre parti del mondo ha fatto progressi, ma in altre parti del mondo ancora ha avuto meno successo, o addirittura ha fallito. Questi Paesi (Russia, Cina, India) tendono a essere grandi Stati con una lunga storia e una forte cultura. Ma ci sono anche altri Stati che contestano attivamente l’egemonia ideologica occidentale, eppure non vengono criticati allo stesso modo: gli Stati produttori di petrolio del Golfo, per esempio. Sto ancora aspettando che qualcuno me lo spieghi.

Se guardiamo ai termini con cui gli Stati civilizzati vengono spesso criticati: “autoritari”, “populisti”, “dittatoriali”, “nazionalisti” e così via, possiamo anche confonderci, perché alcuni di questi termini sembrano essere il contrario di altri. Non è possibile avere un dittatore populista, vero? Ebbene, se si aderisce a questa ideologia diffusa, contraddittoria e mal concepita che ho descritto, si può, o almeno si possono amalgamare tutte queste critiche in un’unica cosa negativa. Per capirlo dobbiamo dare un’occhiata alla storia del liberalismo stesso.

Per sua natura il liberalismo è una dottrina elitaria: non può essere altrimenti. Ideologia di avvocati e uomini d’affari della classe media e dei loro apologeti intellettuali, promuove il successo individuale, i diritti e i privilegi personali e l’organizzazione razionale della società da parte delle élite stesse. Depreca la tradizione, la comunità, la religione, la solidarietà e qualsiasi senso di impegno verso qualcosa al di fuori del proprio ego. Adora i libri di regole e le sue chiese sono tribunali che, a differenza dei luoghi di culto tradizionali, sono aperti solo a chi ha i soldi.

Il liberalismo è sorto in un luogo e in un’epoca particolari, quando la democrazia di massa, così come la intendiamo noi, non aveva ancora attecchito, ed era l’ideologia politica della nascente classe media nel suo tentativo di sottrarre il potere alle forze tradizionali dell’aristocrazia, della Chiesa e dell’esercito. Naturalmente non c’è nulla di sbagliato nel fatto che una classe politica sviluppi un’ideologia che sostenga i suoi interessi: anzi, è del tutto normale. La difficoltà è sorta con l’avvento della democrazia di massa, a cui il liberalismo è sempre stato fondamentalmente antipatico, e con la conseguente necessità di convincere un numero molto elevato di persone comuni a votare contro i propri interessi e a votare invece nell’interesse delle classi medie e dei datori di lavoro.

In una certa misura, fattori esterni hanno offuscato queste distinzioni e hanno permesso al liberalismo di fingere di essere qualcosa che non era. Mentre i liberali irriducibili erano tenuti in strutture di contenimento sicure nei think tank, soprattutto negli Stati Uniti, i pensatori liberali influenti in pubblico erano spesso persone piuttosto piacevoli e inoffensive (John Rawls, per esempio, dà l’impressione di una persona che non fa male a una mosca). La sfida elettorale dei partiti socialisti e comunisti fino all’ultima generazione ha costretto il liberalismo ad adottare almeno una certa retorica populista e a sostenere iniziative che andassero a beneficio della gente comune. La paura della rivoluzione (che è stata una nevrosi liberale per gran parte del XX secolo) ha obbligato i liberali ad accettare ogni tipo di politica e di accordo che altrimenti avrebbero disapprovato. Poi c’è stata la Guerra Fredda: che si accetti o meno la tesi che il comunismo sovietico sia nato essenzialmente dalla stessa mentalità del liberalismo, è vero che marcare la differenza tra l’Occidente e l’autoritario Stato comunista senza Dio ha richiesto ai liberali di prestare almeno un po’ di attenzione alle idee di costume, tradizione, religione ecc. che la loro stessa ideologia li avrebbe portati a rifiutare. Alcuni dei nodi in cui si sono annodati sono stati davvero impressionanti.

L’ironia della sorte è che la gente comune, che per definizione costituiva la massa degli elettori, tendeva ad aggrapparsi molto strettamente alle tradizioni e alle consuetudini. Non è difficile da capire: si trattava, in fondo, di una sorta di protezione collettiva. L’operaio o il bracciante agricolo erano ben consapevoli che sarebbero stati le prime vittime di una società liberale più debole e che la loro unica speranza risiedeva nelle strutture collettive e nella conservazione dei legami sociali e delle norme culturali. Anche le chiese (soprattutto quelle di tendenza anticonformista) potevano essere meccanismi di protezione per credenti e non credenti. I partiti della sinistra tradizionale spesso lo riconoscevano: l’internazionalismo della sinistra era una solidarietà collettiva contro i nemici di classe, non la negazione nichilista dell’esistenza stessa delle nazioni e delle differenze etniche e culturali che troviamo oggi. Il Manifesto comunista può aver detto che “gli operai non hanno patria”, ma questa era solo un’asserzione sulla situazione del 1848: la borghesia possedeva la patria e, dopo una rivoluzione socialista, le nazioni sarebbero rimaste ma l’antipatia tra di esse sarebbe cessata. La mescolanza di idee politiche ed economiche radicali con il patriottismo inglese, che risale almeno a William Blake ed è forse meglio espressa ne Il leone e l’unicorno di George Orwell, si colloca interamente in questa tradizione.

Lo stesso vale per gran parte dell’Europa: I partiti comunisti erano molto attivi nella Resistenza, ma le loro motivazioni erano spesso almeno altrettanto patriottiche che strettamente politiche. (Il grande poeta e romanziere francese Louis Aragon, comunista convinto, contribuì a fondare la Resistenza intellettuale all’occupazione e scrisse poesie ampiamente diffuse in cui invitava tutti i francesi a trarre forza dalla storia e dalla cultura del Paese). Allo stesso modo, il programma del Partito Comunista Francese del 1944 chiedeva, tra le altre cose, il ripristino della “gloria nazionale” della Francia e la conservazione del suo Impero. Questi sentimenti erano ineccepibili un paio di generazioni fa, e molto in sintonia con ciò che la gente comune sentiva istintivamente.

Ne Il leone e l’unicorno Orwell suggerisce che un governo veramente socialista, che sperava di vedere in Inghilterra, avrebbe abolito la Camera dei Lord ma mantenuto la monarchia. Era consapevole dell’enorme importanza simbolica e della risonanza storica della carica e sperava che potesse essere svincolata dal sistema di classi che tanto disprezzava. Il che ci porta al riferimento obbligato, suppongo, all’incoronazione di Carlo III e all’atteggiamento di sputo, derisione e scherno di gran parte dei media e dell’intellighenzia liberale nei suoi confronti, nonché al loro stupore per il fatto che così tante persone fossero uscite sotto la pioggia per assistere. Ma per certi versi questo disprezzo politico era solo un modo misconosciuto di ridere della gente comune e di chiamarla stupida, come i liberali fanno dai tempi di John Locke. Il liberalismo è fondamentalmente solipsistico: tutto riguarda me, i miei diritti, i miei privilegi e tutta la realtà è essenzialmente una proiezione del mio ego. Il desiderio di identificarsi con altre persone in una comunità più ampia e di identificarsi collettivamente con qualcosa che vada oltre il proprio ego è impossibile da capire per i liberali, perché richiede che il fantasma affamato che è all’origine del liberalismo taccia per un po’.

L’incoronazione (e parlo da repubblicano da sempre) è stata un gigantesco atto di resistenza collettiva all’ideologia liberale, e credo che sia stata in gran parte percepita come tale, motivo per cui l’élite liberale è diventata così isterica. Per ore e giorni interi, nessuno ha cercato di vendervi qualcosa. Non c’erano sponsor, non c’era pubblicità, non si poteva comprare un posto accanto al Re, non importa quanto denaro si avesse. La gente comune poteva assistere senza pagare e avvicinarsi al Re più di quanto la stragrande maggioranza di loro potesse sperare di fare con qualche personaggio dei media o persino con molti Presidenti eletti. (La visita di Carlo in Francia è stata annullata, non per timore della sua sicurezza, ma di quella di Macron). Per una volta, persone di tutte le classi, razze e nazioni si sono mescolate insieme. Si è tentati di immaginare un banchiere stanco del jet lag che arriva a Londra, accende la TV e si chiede: “Dove sono le tende VIP per i dirigenti della Silicon Valley? Perché a tutti questi comuni idioti è permesso di entrare senza pagare?

In effetti, è difficile capire come si possa costruire un’identità collettiva sulla base dei tre punti che ho esposto sopra: il che va bene, perché il liberalismo non crede comunque nelle identità collettive. Quindi, l'”Europa” in questo senso non è una costruzione culturale, storica o sociale, ma puramente giuridica. Non vive nell’architettura, nelle chiese, nella letteratura, nella pittura, nella musica e nella memoria, ma nei libri sugli scaffali e nei bit nei computer. È infatti impossibile descrivere cosa sia l'”Europa” come concetto e non come luogo. Per molti versi, è una costruzione virtuale o, se preferite, una quarta dimensione ad angolo retto rispetto al continente che conosciamo.

Mi è stato chiesto più volte in Africa e in Medio Oriente se penso che queste regioni possano o debbano evolvere nella stessa direzione istituzionale dell’Europa. La mia risposta è sempre: “Siete disposti ad avere anche la nostra storia? La vera storia dell’Europa, ed è una grande storia, è quella del superamento delle divisioni religiose e politiche, delle lotte dinastiche, delle guerre e delle atrocità, e infine della creazione di una zona di relativa pace, oltre che di un incredibile patrimonio culturale e intellettuale. I successi, gli errori e le false partenze dell’Europa sono una ricca fonte di lezioni per il resto del mondo.

Ma queste lezioni non vengono mai invocate. L’unico senso in cui il passato compare nel pensiero collettivo europeo è negativo. Cultura, storia, lingua e tradizione sono potenziali fonti di divisione da superare, in parte semplicemente ignorandole. A sua volta, l’interazione dell’Europa con il resto del mondo oggi non avviene mai in termini di storia, successi e fallimenti, ma in termini di principi astratti, dedotti a priori. In effetti, come i liberali radicali che introdussero brevemente la settimana di dieci giorni e la giornata di dieci ore dopo la Rivoluzione francese, il punto era voltare le spalle al passato e ricominciare da capo. La storia non aveva nulla da insegnare, solo cose da evitare. In questo, ovviamente, l’Europa è del tutto tipica delle istituzioni liberali internazionali che sono influenti in gran parte del pianeta. Non ha senso chiedersi su quale esperienza e riflessione si basino i programmi della Banca Mondiale, del FMI, dell’OCSE o del PNUD: la risposta è nessuna. Anzi, queste istituzioni non amano l’apprendimento dall’esperienza, perché può portare a conclusioni sgradite.

Questo spiega forse l’approccio querulo, aggressivo, intollerante ed esortativo di tante istituzioni e donatori di oggi: fai questo, perché. I loro programmi cercano essenzialmente di infliggere agli altri le conseguenze di assunti liberali a priori. Poiché tali presupposti sono universalmente validi, sono per definizione superiori e devono sostituire tutte le tradizioni e le pratiche culturalmente specifiche. L’interazione dell’Occidente con le altre parti del mondo ha quasi sempre un tono negativo, perché l’Occidente oggi non ha alcun contributo positivo da dare. Ci sono programmi per la lotta alla corruzione, ma non per rafforzare la società, programmi per il controllo della polizia, ma non per rendere le persone più sicure, e soprattutto programmi per sostituire la fiducia, le usanze e i controlli sociali con codici legali tradotti dalle lingue occidentali. E naturalmente per alcuni questo va benissimo. In molti Paesi ci sono strati della società occidentalizzati che vedono nelle idee liberali molte attrattive per se stessi, che studiano all’estero, parlano lingue straniere e sono ricompensati con lavori e profili lusinghieri nei media occidentali. Tuttavia, mentre questi individui sono talvolta in grado di prendere il potere in certi Paesi in determinati momenti, la base di questo potere è spesso fragile e facile da perdere. Quando ciò accade, o è minacciato, il risultato in Occidente è il panico e il vocabolario di “populismo”, “autoritarismo” e così via, viene ripreso e sventolato come una bandiera insanguinata.

L’ironia di tutto ciò è che l’Occidente ha in realtà molto da contribuire se solo mettesse da parte il proprio ego e smettesse di dire “perché lo dico io” o “perché noi facciamo così”. Questo è spesso difficile, a causa delle strette restrizioni ideologiche in cui operano i donatori e le organizzazioni internazionali, e della spesso palese ignoranza e mancanza di interesse per le circostanze sul campo. Ma si può fare: come sono solito dire regolarmente a certe platee, forse non abbiamo tutte le risposte, ma abbiamo fatto centinaia di anni di errori. Questi sentimenti sono spesso apprezzati.

In definitiva, il liberalismo è molto insicuro perché anche i suoi più ferventi sostenitori sono consapevoli della misura in cui si basa sulle nozioni a priori che ho descritto. È per questo che il liberalismo gestisce male i conflitti e ricorre ad abusi e lamentele, incapace di immaginare che potrebbe non essere chiaramente nel giusto. Nessuno, alla fine, ha mai combattuto per i principi liberali, nei quali, come mostrerò tra poco, i liberali non credono comunque. Hanno combattuto per i propri interessi. Nessuno è mai andato a morire per l’introduzione del diritto contrattuale, di tasse sulla proprietà più basse o di accordi matrimoniali non convenzionali, e nessuno lo farà mai. Tutto ciò che il liberalismo ha è l’opposizione alla tradizione, alla cultura, alla religione e alla società. Il che ci porta naturalmente all’Ucraina e alla violenta isteria che caratterizza la posizione occidentale, di cui ho già parlato in precedenza. Se avete letto fin qui, la negatività non dovrebbe sorprendere: L’ideologia liberale non può tollerare di vivere nello stesso mondo di un Paese in cui religione, patriottismo, tradizione, lingua e cultura sono ancora importanti: un Paese del genere è un abominio che deve essere distrutto. Inoltre, qualsiasi leadership nazionale che sposa tali idee è, per definizione, non rappresentativa del suo popolo e dovrebbe essere rovesciata.

Eppure, eppure. Se i liberali vivessero davvero la loro vita secondo questi precetti (sarebbero ovviamente molto infelici) sarebbe una cosa. Ma non lo fanno. I liberali, a mio avviso, hanno famiglie, amici, circoli sociali, aderiscono a organizzazioni e hanno legami emotivi, e sono capaci di comportamenti irrazionali e illogici come chiunque altro. In effetti, uno dei maggiori problemi politici delle società occidentali è la quantità di emozioni primitive e violente nascoste sotto una facciata di razionalità liberale, ma questo dovrà aspettare la prossima settimana.

Consideriamo ad esempio la “libertà di parola” (le virgolette sono ormai d’obbligo), che un tempo era un principio liberale e in teoria lo è ancora. Tuttavia, le sue origini risalgono alla lotta dei liberali per esprimersi liberamente sotto regimi assolutistici o autoritari a partire dal XVIII secolo. Una volta ottenute queste libertà, i liberali hanno inevitabilmente iniziato a notare gli inconvenienti associati alla libertà di parola che non condividevano. E poiché la loro era un’ideologia basata essenzialmente su una serie di asserzioni non supportate sul mondo, la libera indagine e la messa in discussione razionale, ironia della sorte, le erano inibite. Non sorprende quindi che negli ultimi tempi il sostegno alla libertà di espressione sia in netto calo tra le persone che si identificano come liberali e “di sinistra”, che di questi tempi equivalgono più o meno alla stessa cosa. Oppure si potrebbe sottolineare lo spettacolo sgradevole di sedicenti liberali che chiedono l’incarcerazione senza processo o addirittura l’assassinio di politici che non amano. Ma qui non si tratta di accusare i liberali di ipocrisia, di cui sono certamente colpevoli come tutti noi, ma piuttosto di notare che un insieme di principi basati su asserzioni a priori, avulsi dalla storia, dalla cultura, dalla lingua, dalla religione e dalla tradizione, non può funzionare efficacemente come base sicura per esprimere giudizi difficili. Questo, senza dubbio, è il motivo per cui in questo momento nei circoli liberali si sta agitando in modo così sgradevole.

Alla fine, tutti gli Stati devono essere “civili” (cioè basarsi su qualcosa di condiviso dalla popolazione) o non sopravviveranno. È stato notato che la credibilità e il sostegno politico di molti leader occidentali oggi sono spesso inferiori a quelli dei leader dei cosiddetti Stati “civilizzati”. Questo non dovrebbe sorprendere nessuno, ed è probabile che la situazione peggiori, soprattutto quando le conseguenze della guerra in Ucraina continueranno a svilupparsi. L’ironia finale, che difficilmente sarebbe sembrata possibile anche solo dieci anni fa, è che i liberali, molti dei quali identificati con la sinistra nozionistica e molti di quelli che si considerano “moderati”, sono diventati strillanti propagandisti di un regime nazionalista estremo con elementi neonazisti, e ora si sbizzarriscono con video di uomini virili con tatuaggi Waffen-SS e amazzoni bionde che imbracciano kalashnikov. In effetti, l’Ucraina non è solo una guerra per procura dal punto di vista politico, è una guerra per procura dal punto di vista ideologico. Per una volta, tutto il bagaglio nazionalista, culturale, militarista e storico che è stato soppresso con tanto successo in Europa può esplodere altrove, e noi possiamo applaudire deliranti da bordo campo, perché non siamo noi a farlo.

Il che è un altro modo per dire che non si può creare qualcosa dal nulla, non si può creare una struttura politica efficace dal nulla. L’Europa non ha nulla da contribuire alla crisi attuale se non l’odio delle élite e, quando sarà finita, ho il sospetto che anche in Occidente assisteremo a un nuovo modo di fare politica, più “civile”.

https://aurelien2022.substack.com/p/we-are-all-civilisational-states?utm_source=post-email-title&publication_id=841976&post_id=123560446&isFreemail=true&utm_medium=email

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Il realismo negletto_con Gennaro Scala

L’Italia, a dispetto della sua condizione politica in epoca moderna e in gran parte di quella contemporanea, si è comunque distinta nei vari ambiti della cultura, compresa la teoria politica. Uno spazio particolare è stato occupato dal realismo politico seguendo però quest’ultimo un percorso, pur a fasi alterne, di una progressiva dissociazione dall’azione concreta degli esponenti politici. Con Gennaro Scala ci avventuriamo in una breve carrellata che parte da Dante, la figura di maggior interesse coltivato dall’autore, per passare con brevi accenni a Machiavelli e al gruppo di teorici realisti, a cavallo tra ‘800 e ‘900, Mosca, Pareto, Ferrero, Michels. Questi ultimi, ben conosciuti all’estero, quasi del tutto rimossi dal dibattito politico-culturale italiano sviluppatosi dal secondo dopoguerra per ovvie, ma sconsolanti ragioni. Una delle rare figure riuscite a emergere in questa fase decadente è stata Gramsci, ma al prezzo del progressivo disconoscimento del ruolo della coercizione nella funzione egemonica riconosciuta agli apparati e alle leadership. Una rimozione che ha aperto praterie a movimenti ed organizzazioni, tra queste Podemos e M5S, considerate innovatrici, in realtà tasselli terminali di un ciclo decadente. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

NB _ In calce alla conversazione un saggio di Gennaro Scala su Dante e la figura di Ulisse nella Commedia

https://rumble.com/v2psxkm-il-realismo-negletto-con-gennaro-scala.html

Il folle volo in Occidente. La tragicommedia di Ulisse (I parte)

“O frati”, dissi “che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente…”

Per quale motivo Dante colloca l’invettiva contro Firenze all’inizio del Canto XXVI dell’Inferno, qual è il suo rapporto con la parte dedicata ad Ulisse? Considerata l’attenzione di Dante per questi particolari, pensiamo solo alla teoria politica dei due soli posta esattamente al centro della Commedia (Pur. XVI), non può essere casuale che la più dura invettiva contro Firenze sia collocata all’inizio del «canto di Ulisse». Partiremo con questo interrogativo, che mi è servito da orientamento nella labirintica creazione dantesca in cui, tra le figure memorabili della Commedia, si staglia quella di Ulisse, cercando di capire meglio il significato dell’invettiva:

Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande,
che per mare e per terra batti l’ali,
e per lo ’nferno tuo nome si spande!

Com’è noto, i versi richiamano la targa del Palazzo del Capitano del Popolo (Bargello), fatto costruire nel 1255 dal «Governo del primo popolo», in seguito alla sconfitta dei cavalieri ghibelllini. Un passo dell’iscrizione ricalcava quasi alla lettera i versi della Pharsalia di Lucano riguardanti la potenza romana: «que mare, que terras, que totum possidet orbem».

Dante, appartenente all’Arte dei medici e degli speziali (fra le Arti maggiori) fu uno dei sei priori, la massima carica nel governo detto del Secondo popolo di Giano della Bella, che istituì gli Ordinamenti di giustizia che escludevano dal governo della città i “magnati” appartenenti alle grandi famiglie. Gli anni che vanno dal Governo del primo popolo fino alla fine del secolo furono di grandi trasformazioni, videro il rapido ingrandimento della città e il sorgere di una proto-borghesia composta soprattutto da grandi mercanti e imprenditori appartenenti alle Arti maggiori, e artigiani appartenenti alle Arti minori, la «gente nova» dai «subiti guadagni».

Firenze era diventata una delle più potenti città europee, se non la più popolosa (seconda solo a Parigi), sicuramente la più «dinamica» sul piano economico, come si direbbe oggi. Il «maladetto fiore» stava per diventare in quegli anni la moneta dominante nell’Europa del tempo. Scriveva Francesco Buti, commentatore della Commedia del 1300: «erano allora i Fiorentini sparti molto fuor di Fiorenza per diverse parti del mondo, ed erano in mare e in terra, di che forse li fiorentini se ne gloriavano». Forse ispirata da Brunetto Latini, il maestro di Dante (che ritroverà nell’Inferno), la targa esternava la volontà di potenza dei fiorentini.

Secondo Elisa Brilli, Dante in prima persona, quale voce narrante e non personaggio della Commedia «parodiando la retorica romaneggiante dell’iscrizione ufficiale, attacca non la Firenze contemporanea o del recente passato, bensì quella del Primo Popolo e le sue velleità imperialiste, qui capovolte nell’impero ernale» 1. Il lavoro della Brilli su Dante e Firenze è di grande interesse, però a me pare un’eccessiva sottigliezza circoscrivere il sarcasmo dell’invettiva alla Firenze del Primo Popolo, esso è diretto alla nuova Firenze nel suo complesso sorta nella seconda metà del XIII secolo. Lo spirito dell’iscrizione del Bargello è risibile poiché Firenze si atteggiava a nuova Roma, perché aveva affari dappertutto, ma nella corruzione che manifestava, nella brama di ricchezza, nella cupidigia che la muoveva per il mondo, non era possibile riscontrare nessuna manifestazione della virtù romana.

Dante verrà poi esiliato da Firenze dopo la sconfitta dei guelfi bianchi, a cui apparteneva, da parte dei guelfi neri, in seguito alle trame di Bonifacio VIII che portarono all’ingresso in Firenze delle truppe di Carlo di Valois. Probabilmente in gioventù avrà guardato con altri occhi alla targa del Bargello, nel Convivio scriveva: «Poi che fu piacere de li cittadini de la bellissima e famosissima figlia di Roma, Fiorenza, di gittarmi fuori del suo dolce seno» (Convivio, I, 3). La nota amaramente ironica di queste parole nell’invettiva si trasformava in sarcasmo già di per sé esaustivo riguardo al paragonarsi di Firenze a Roma, che diventerà piuttosto un’anti-Roma. Dante rovescerà il giudizio di Agostino su Roma, la cui «sementa santa», (Inferno XV, 76) sembrava del tutto scomparsa a Firenze che infine diventerà l’agostiniana civitas diaboli, la mala pianta di Lucifero (Paradiso, IX, 129).

Nella contrapposizione tra Roma e Firenze vi è una premonizione della differenza tra l’imperialismo che poi sarà proprio di tutte le nazioni europee e la civiltà romana, che, come tutte le civiltà che nella storia hanno acquisito una forma stabile, non si muove disordinatamente, non sbatte di qua e di là le ali per il mondo al fine di accrescere la propria ricchezza, identificandola illusoriamente con la potenza, ma si muove, come l’Aquila imperiale, in modo rettilineo, acquisendo contiguamente e sussumendo nel proprio sistema i territori conquistati. L’espansionismo fiorentino è spinto invece dalla cupidigia di ricchezze (capitalismo), una definizione che precorre quella marxista di imperialismo.

L’invettiva profetizza la fine di Firenze:

Ma se presso al mattin del ver si sogna,
tu sentirai, di qua da picciol tempo,
di quel che Prato, non ch’altri, t’agogna.
E se già fosse, non saria per tempo.
Così foss’ ei, da che pur esser dee!
ché più mi graverà, com’ più m’attempo.

Pur non avendo trovato nessun commento che lo rilevi, a me pare proprio che Dante nel profetizzare la distruzione di Firenze da parte delle città vicine, se non dalla stessa Prato, abbia in mente quel passo di Tito Livio secondo cui Roma crebbe sulla distruzione di Alba2. È da Livio che è tratta (Purgatorio, VI) la descrizione del passaggio dell’Aquila da Alba, dove aveva dimorato per trecento anni, a Roma. Corsi e ricorsi storici. Come avvenne tra le due antiche città, Firenze sarà distrutta da una delle città vicine, che alla prima occasione metterà fine al suo «volo», già dimostratosi privo del favore della Provvidenza. Con la venuta di Arrigo VII e il ritorno dell’ordine imperiale, Prato, che aveva già dimostrato la sua insofferenza verso Firenze con la cacciata dei neri nell’Aprile del 1309, potrebbe prendersi la sua rivincita. Avendo ciò presente, tale profezia, ancor oggi considerata in parte oscura3, acquisirebbe un significato più preciso, comunque nel senso intelligibile della stessa se ne deduce che Firenze sarà portata alla rovina dalle città vicine, se non dalla piccola Prato, da qualche altra città più grande. Firenze non è Roma. In analogia, con quanto era avvenuto tra Alba e Roma, Firenze, patria di ladroni, ormai con-dannata, andrà incontro alla sua fine. Se la Provvidenza vuole che ciò accada che accada presto. Così la storia potrà indirizzarsi su un cammino più virtuoso, come avvenne con Roma. Arrigo VII morì invece nel 1313 durante la sua discesa in Italia prima di attaccare Firenze e senza riportare «l’ordine imperiale».

L’Aquila, che per lungo tempo si posò su Roma, si muove secondo un disegno provvidenziale, magari non intellegibile a tutti ma presente (Paradiso, VI), il volatile fiorentino spinto dalla cupidigia di ricchezze svolazza disordinatamente per il mondo, per mare e per terra, assomiglia al «folle volo» di Ulisse.

Com’è noto, l’Ulisse dantesco con l’Ulisse omerico non ha un rapporto diretto. Dante non conosceva l’Odissea, le sue fonti sono quelle classiche romane e latine, in primo luogo Virgilio, nonché Cicerone, Orazio, Ovidio, Agostino, Orosio. Ulisse si trova condannato nell’Inferno nel girone dei consiglieri fraudolenti in qualità di «scelerum inventor» e «fandi fictor» , inventore di scelleratezze e dai falsi discorsi, per il celebre inganno del cavallo di Troia, e per il furto della statua di Pallade protrettrice di Troia (Virgilio, Eneide), per l’inganno ai danni di Deidamia (in questo caso la fonte è l’Achilleide di Stazio) che ancora si duole nel Limbo per Achille.

Si ispirò invece alla letteratura medievale su Alessandro Magno nella parte in cui Ulisse narra di se stesso e delle vicende dopo la sconfitta di Troia e la dipartita da Circe che lo portarono a peregrinare per il mediterraneo, fino alla vicenda conclusiva. Nessuno crea nulla dal nulla, queste vesti classiche hanno un loro significato, come vedremo, ma Ulisse è una creazione dantesca ed è una figura che sentiamo come la più moderna dell’intero poema, anzi taluni ci vedono un archetipo dell’uomo moderno.

L’Ulisse di Dante è stato interpretato nel corso dei secoli in molteplici e opposti modi. Nel dopoguerra la «letteratura dantesca», con la crescita delle università, ha raggiunto dimensioni vertiginose. Impossibile tener conto dell’insieme di essa, mi sono limitato quindi ai testi con cui ho ritenuto aver raggiunto un’immagine coerente del personaggio dantesco, seguendo delle mie tracce di lettura. Credo scherzi fino ad un certo punto il «filologo complottista» Francesco Benozzo quando fissa4 un limite al 5 per mille degli interi scritti su Dante che un singolo individuo può arrivare a consultare. Preciso che quanto segue non è un lavoro di carattere filologico, ma estetico-filosofico. Non voglio proclamare l’inutilità della filologia, che mi è stata di molto aiuto nel tentativo di avvicinarmi al personaggio dantesco, né credo che ciò intenda Benozzi da filologo, tuttavia non si può non rilevare, che tutta questa «letteratura» pur essendo sovente utile per questioni specifiche, lascia nel complesso insoddisfatti, essendo davvero pochi coloro, almeno nel «campione» da me consultato, che non si occupino solo di «pezzi di Dante», che non trattino solo della questione specifica, ed è difficile quindi non pensare che la «critica dantesca» sia una sorta di vivisezione, per dirla con Benozzo, oppure la dissezione di un cadavere. Pare che Dante abbia oggi poco da dirci, e che, ora, il suo cadavere intellettuale sia pertinenza esclusiva degli «specialisti», oppure possa essere oggetto solo di vuote e stanche celebrazioni.

Cominciamo da Ulisse quale navigatore. Francesco De Sanctis intravvedeva in Ulisse il moderno navigatore, una premonizione dei viaggi che di lì a qualche secolo avrebbero cambiato radicalmente la conoscenza e il rapporto che abbiamo con la Terra. A tale intuizione Bruno Nardi aggiunse la notizia dei fratelli Vivaldi, salpati da Genova nel maggio del 1291 con l’intenzione di raggiungere le Indie via mare, poi scomparsi in luogo ignoto delle coste africane. Recentemente la tesi è stata ripresa e sviluppata da Sergio Cristaldi: «Se ha convocato l’eroe greco è anche per affrontare, in maniera trasposta, un enigma recente e fosco; a costo di manipolare il mito, di avvicinarlo il più possibile alla propria moderna condizione, alle ambizioni e alle sconfitte che la segnavano»5 . L’enigma è quello della morte dei fratelli Vivaldi. Come scrive Cristaldi, è molto probabile che Dante conoscesse la vicenda dei due fratelli che aveva suscitato clamore tanto a Genova, e che doveva aver fatto notizia anche a Firenze, che allora mirava ad un’alleanza con Genova, in opposizione a Pisa, concorrendo a creare nella mente dantesca la figura, in modo più o meno consapevole, non lo possiamo sapere, è probabile, visto l’interrogativo sulla morte di Ulisse, che potrebbe rispecchiare un analogo interrogativo diffuso allora tra Genova e Firenze.

Ulisse quale simbolico precursore delle grandi navigazioni, già iniziate in quegli anni è lettura suggestiva, ma diventa riduttiva se volesse esaurire la poliedrica figura. Infatti, «perché Ulisse e non direttamente i fratelli Vivaldi? Le risposte a disposizione indicano la convenienza dell’aggancio a un personaggio fittizio semanticamente denso, già implicato in una serie di opposizioni esemplari – Ulisse-Enea, greco-troiano, folle-savio, callidus-pius –, e rilevano ancora la disponibilità di un simile profilo a ricevere significati ulteriori, legati all’attualità di Dante»6. Queste «significazioni ulteriori» non possono essere tralasciate, se vogliamo avvicinarci al personaggio dantesco.

Di grande interesse la ricerca di D’Arco Silvio Avalle, il quale rimanda alla letteratura medievale intorno alla figura di Alessandro Magno, per quanto riguarda l’oltrepassamento delle Colonne d’Ercole e morte di Ulisse (ciò che differenzia il personaggio dantesco dall’Ulisse omerico), adducendo numerosi riscontri tra il testo dantesco e i testi letterari medievali7, in particolare con l’Alessandreide di Gualtiero di Châtillon e El libro de Alexandre, quest’ultimo, secondo Avalle, quasi sicuramente non conosciuto da Dante, ma rispetto al quale vi sono sorprendenti coincidenze verbali. Oltre alla ripresa l’antico topos narrativo del superamento delle Colonne D’Ercole, vi sono altre rilevanti analogie nella descrizione della dismisura di Alessandro, che come vedremo, è intrinseca al personaggio dantesco. Al di là degli aspetti filologico-letterari, indubbiamente interessanti, il lato alessandrino di Ulisse, per così dire, ha significato ulteriore se collocato nella teologia della storia dantesca, se riferito a quel passo della Monarchia in cui si afferma la non provvidenzialità del tentativo alessandrino di conquistare il mondo che aveva dovuto cedere il passo ai romani. Non solo i viaggi marittimi, e in generale la rinascita e l’espansione dei commerci nel Mediterraneo, stavano avendo un profondo impatto sulla cultura cristiana medievale. Non è da sottovalutare l’impatto sul piano culturale della riscoperta della cultura greca. Per questo, la grecità di Ulisse ha un suo significato.

Ulisse modernissimo precursore dei viaggi marittimi oppure Ulisse sosia di Alessandro Magno? Già l’eroe omerico è politropo, e in diversi e contrastanti modi l’avevano interpretato Virgilio, Orazio, Cicerone, Stazio. Dai classici Dante avrà tratto l’abilità ingannatrice di Ulisse nell’assumere diversi volti, intanto è da sottolineare la compresenza in esso di nuovo e antico.

Se per Orazio Ulisse è «simbolo di ciò che possono virtù e saggezza»8, più articolato è il giudizio di Cicerone9: dell’ardore di conoscenza, dote naturale dell’essere umano, fu espressione Ulisse, ma in lui tale passione fu superiore all’amore per la patria, per cui il desiderio di conoscere ogni cosa, e non ciò che davvero conta, diventava mera curiositas. Giorgio Padoan nel suo saggio Il saggio Enea e l’empio Ulisse osserva che per la contrapposizione fra Enea e Ulisse nel complesso la cultura romana considerava negativamente l’eroe greco, e parimenti Dante riprende nel Canto tale contrapposizione: il viaggio del primo si conclude nella fondazione di una patria, il secondo nel naufragio. Padoan, ritrova nell’Achilleide di Stazio maggiormente che nell’Eneide, la descrizione delle capacità retoriche, l’abilità ingannatrice attraverso il discorso di Ulisse: «Anche questa volta, come sempre, Ulisse ha detto le verità più sacrosante e solenni per indurre ad un’azione non giusta»10. Però in questo caso Ulisse, oltre a ingannare i compagni, avrebbe ingannato se stesso, quindi in qualche modo sarebbe un inganno non consapevole, quindi non un vero e proprio inganno. Ma non v’è dubbio sulla condanna di Dante, nonostante che la «lettura prometeica» abbia voluto rovesciare il giudizio dantesco. Il prometeismo  di De Sanctis e Croce, in Bruno Nardi, il più grande studioso di Dante, diventava decadentismo luciferino, a detta del suo avversario teorico Mario Fubini, con allusione alle convinzioni filosofiche-politiche di Nardi. Fubini era pur tra coloro che intendevano assolvere Ulisse, ma più pacatamente, «senza porlo in contrasto con l’orizzonte etico-religioso della Commedia»11. Costanzo Preve con le parole di Bobby Solo sunteggiava un certo heideggerismo quale ideologia della depressione europea, oggi che «non c’è più niente da fare, è stato bello sognare», non c’è più spazio per gli slanci prometeici dopo la fine della centralità europea, dopo guerre mondiali, bombe atomiche, crollo della «fede nel progresso», fallimento delle principali ideologie. Del prometeismo otto-noventesco è rimasta solo l’immagine generica e senza precisi contorni di un «Ulisse eroe della scienza», diventata quasi luogo comune, che è esattamente il contrario di quanto voleva dirci Dante con il suo Ulisse.

Certo, la lettura prometeica faceva violenza al personaggio dantesco, ma Dante gli aveva pur messo in bocca le sue più profonde convinzioni. Essa ha avuto se non altro il merito di promuovere una lettura più complessa rispetto all’attestazione della pura e semplice condanna da parte di Dante (come per altri personaggi, ad es. De Sanctis si interessò maggiormente a Francesca). Lo stesso Padoan riconosce che si tratta di uno dei personaggi «particolari» dell’Inferno, ovvero quei personaggi come Francesca o Farinata verso i quali Dante mostra un’affezione particolare, nonostante la condanna.

Per quanto riguarda Ulisse quale incarnazione della curiositas, che da Cicerone passava per la squalifica cristiana della conoscenza meramente terrena, essa è pur presente nel Canto come indicato dalla forte curiosità espressa da Dante personaggio della Commedia nel voler sapere di Ulisse. Tuttavia è piuttosto riduttivo liquidare Ulisse quale incarnazione della sola curiositasexemplum negativo rispetto a chi come Enea aveva in mente solo Dio, Patria, Famiglia. Dante condanna la curiositas quando è fine a sé stessa, ma di per sé la curiosità fa parte del desiderio naturale di conoscenza, che non condanna affatto, che anzi in quanto dotazione naturale ha una sua ragion d’essere («la natura non fa nulla invano», ripete nel Convivio, con Aristotele). La curiosità, o il desiderio naturale di conoscere fa parte dell’essere umano, ma può avere effetti diversi e opposti, secondo come viene indirizzata.

Il desiderio naturale di sapere ci conduce al tema centrale del Canto: la conoscenza. Ulisse ha il doppio volto della vita attiva e della vita contemplativa. La prima, in quanto incarna il navigatore, scopritore e conquistatore, la seconda in quanto incarna il desiderio naturale che può trasformarsi in cupidigia di conoscenza. Due volti di un’unica prassi umana, in quanto si contempla in vista dell’agire (Monarchia I, 3, 4). Il principio vale anche per Ulisse, nonostante trapasserà il segno, sia nell’azione che nella conoscenza.

Dicevamo, Ulisse è allo stesso tempo moderno e antico, e in quanto tale è espressione di quella cultura greca, la cui riscoperta a partire dalla prime traduzioni dei testi di Aristotele stava avendo un impatto profondo sulla cultura a lui contemporanea e a Dante stesso, ma vista, allo stesso tempo, con gli occhi di Virgilio, il quale nel noto passo del’Eneide (VI, 847-850), pur lodando le capacità artistiche e l’arte oratoria dei Greci, ricorda che il talento dei romani dovrà essere quello del governo dei popoli. Ciò rispecchia il giudizio ambivalente dei romani nei confronti dei greci, della cui civiltà furono allo stesso tempo vincitori e realizzatori (Graecia capta ferum victorem cepit), dato il disfacimento prematuro della civiltà greca, seguito all’imperial overstretch di Alessandro Magno. Solo con le arti dello spergiuro e ingannatore Sinone i Greci riuscirono a vincere Troia (Eneide, II). A sua volta condannato da Dante tra i falsari di parola (erno, XXX) «Secondo il τόπος letterario diffusissimo sin dalla latinità: i Greci sono gente superba, crudele e nefanda (cfr. Inferno, XXVIII, 84)»12.

Ricordiamo, ci deve essere rapporto tra l’invettiva contro Firenze e il resto del canto. Firenze che «per mare e per terra batte l’ali» ci rimanda al folle vole di Ulisse, contrapposti al volo dell’Aquila descritto nel paradiso. Per Dante la storia è stata segnata dal peccato di Adamo, risanato dalla morte di Cristo, e per questo fu provvidenziale l’Impero romano, la cui affermazione, nella ordalia dei popoli per il dominio mondiale, fu espressione del volere divino, in quanto lì doveva nascere Gesù e lì essere ucciso per rimediare al peccato originale. O, diremmo, metterci una pezza (se il termine non suonasse irrispettoso), poiché il sacrificio di Cristo, a causa della natura umana che restava corrotta, fu presto infirmato involontariamente da Costantino che con la sua donazione riportò il disordine nel mondo, dando il potere temporale alla Chiesa, provocando una confusione tra potere temporale e potere religioso che fu l’origine dei mali successivi.

Dante cerca di comprendere il suo tempo attraverso categorie teologiche e mitologiche (anch’esse sono una forma di sapere), ad es. la lettura dell’Eneide come storia vera, comune ai suoi tempi. Nonostante l’allora limitata conoscenza dell’antichità, Dante aveva un robusto senso della storia. Avvertiva (e a ragione, con il senno di poi) di vivere un’epoca nuova e cercava di decifrarla all’interno di una idea complessiva della storia, con le categorie che aveva a disposizione. È significativa l’associazione tra Firenze e Ulisse (quale simbolo della cultura greca, la grecità di Ulisse è rimarcata da Virgilio). Essa implicava che Firenze, e l’Italia comunale, fosse segnata dal disfavore della Provvidenza come la Grecia di Alessandro, il qual era stato ad un passo dalla conquista della monarchia universale ma aveva dovuto cedere il passo a Roma (Monarchia, II, 8). La non provvidenzialità di Firenze e dei comuni italiani era attestata dal prevalere della cupida avidità di ricchezze che avevano distrutto l’armonia sociale della Firenze dell’avo Cacciaguida. Il giudizio si estendeva all’intera civiltà comunale italiana. e ai suoi ferocissimi e incomponibili odi tra città e fazioni all’interno delle città, di cui il Conte Ugolino è indimenticabile rappresentazione, fino alle lotte di potere tra papato e impero, dovute alla cupidigia dei papi . Dante riserva a Firenze le migliori invettive, ma non scherzano neanche quelle rivolte alle altre città. Firenze era con-dannata e con lei l’intera civiltà comunale.

Vi deve essere un rapporto tra la condanna di Ulisse e la condanna di Firenze. L’orazion picciola di Ulisse è solo un utilizzo fraudolentemente retorico di un ideale sacrosanto, come sostiene Padoan? «Alle parole di un greco non è da prestar fiducia (“timeo Danaos et dona ferentis… ”): presteremo fiducia a quelle di Ulisse, quando sappiamo che dietro il suo discorso può celarsi il sorriso dolcissimo di Gerione?»13. Greco era anche Aristotele, e l’orazion picciola, chiama in causa lo stesso Aristotele, come vedremo tra un po’, ma basti per ora ricordare l’inizio del Convivio che richiama l’inizio della Metafisica: «Sì come dice lo Filosofo nel principio de la Prima Filosofia, tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere».

Come sappiamo la ragione senza la fede non è un viatico sufficiente per il cammino verso la salvezza, per questo Aristotele è nel sommo del Limbo e per questo Virgilio deve cedere il passo a Beatrice. L’insufficienza della ragione aristotelica però non implica una condanna (una negazione, in termini filosofici) come vorrebbe la sua associazione con Ulisse.

In che misura il discorso di Ulisse riguarda lo stesso Aristotele?
Poiché tale questione nella critica dantesca è pochissimo affrontata, per quanto io ne so, ho dovuto tentare personalmente una risposta. Solo Maria Corti affronta incidentalmente il problema, e Massimo Cacciari vi accenna in una conferenza, sostenendo che Ulisse incarna l’Aristotele physicus, senza l’Etica e la Politica, cioè l’averroismo.

Con Ulisse Dante prende le distanze dalla filosofia del Convivio. Secondo Cicerone le sirene attraevano i viaggiatori con la promessa di conoscenza14. Una «serena» di queste aveva già svelato in sogno a Dante in tutta la sua laidezza (Purgatorio, XIX). Beatrice al loro (re)incontro (Purgatorio, XXX e XXXI) muove a Dante, con dure parole, il rimprovero di non aver resistito in gioventù al canto delle sirene. Nella reprimenda iniziata nel canto precedente, non rivolgendosi di persona a Dante, Beatrice gli riconosce la grazia divina dell’ingegno che ha avuto in dono da Dio, ma è sprecato se virtù nol guida, si finisce per seguire false immagini di bene (Pur. XXX). Ben a ragione Dante doveva quindi «raffrenar l’ingegno» prima di incontrare Ulisse. Infine, Beatrice fa molto cristianamente sentire in colpa Dante, ricordando che lei si è recata fino all’inferno per poterlo salvare (ma si direbbe quasi che sia morta proprio per poi effettuare questo salvataggio), ma lui invece non appena morta, si diede altrui, ovvero alla donna gentile della Vita nuova, la Filosofia.

Se teniamo presente, in base a quanto sopra, che consapevolmente Dante rappresenta in Ulisse una parte di se stesso, possiamo apprezzare la sublime ironia con cui Dante insiste sulla sua stessa curiosità nei confronti di Ulisse. È la stessa ironia a cui tutti siamo inclini verso i comportamenti giovanili da scavezzacollo (per la curiosità Dante si protende verso le figure fiammeggianti giù nella valle e rischia di cascare giù dal costone di roccia dove è giunto con Virgilio), rafforzata dall’insistenza fanciullesca nel voler parlare ad Ulisse, ed espressa fanciullescamente nei confronti di Virgilio (Maestro, assai ten priego/. E ripriego, che il priego vaglia mille»). E curiosi sono soprattutto i fanciulli per Cicerone15. Pericolo filosofico quello in cui incorre(va) Dante, ma con rischi non meno gravi del rompersi l’osso del collo, poiché, quando si intraprende un viaggio di conoscenza, il rischio è di smarrirsi (nella selva), finire nella follia, e incorrere nella rovina individuale. O, per dirlo con metafora nautica, perdere la rotta e affondare, come Ulisse. È un’ironia che possiamo permetterci solo quando siamo certi di esser usciti fuor dal pelago a la riva.

Di preciso cosa Dante del Convivio riteneva fosse frutto degli «errori di gioventù»?

Maria Corti, con l’espressione «felicità mentale» indicava la riscoperta dell’ideale dell’eudemonismo intellettuale aristotelico, la conoscenza quale ideale di vita che nella contemplazione raggiungeva il suo compimento e felicità ultima. In seguito alla diffusione della filosofia araba, alla riscoperta e traduzione dei testi aristotelici nel XIII secolo, e alla nascita delle prime università a Parigi, Bologna e Oxford, nasceva una cultura «laica» (cioè esterna all’ambito delle istituzioni religiose) centrata sulla ripresa dell’eudemonismo intellettuale aristotelico. Questa filosofia fu frequentata in gioventù da Dante, insieme al suo «primo amico». Un’indicazione di questi rapporti veniva dalla scoperta della dedica a Cavalcanti in una delle copie della Quaestio de Felicitate di Giacomo da Pistoia.

L’ideale della «vita contemplativa» è condiviso da Dante nel Convivio (esordio):

«la scienza è ultima perfezione de la nostra anima, ne la quale sta la nostra ultima felicitade, tutti naturalmente al suo desiderio semo subietti».

Cavalcanti, o la sua ombra, turba la coscienza di Dante, ritorna in tutta la Commedia, come scrisse Gianfranco Contini e come ha scritto più recentemente Enrico Malato. Come Ulisse, aggiungerei. Se è vero che Donna me prega è una raffinata «polemica non dichiarata»16 nei confronti di Dante, quando Guido si dichiara «fuor d’ogni fraude», possiamo immaginare a chi alludesse. Solo nel discorso di Ulisse nella Commedia troviamo il termine «canoscenza»17, utilizzato, a sua volta, da Cavalcanti nella canzone suddetta. Se questo solo termine può sembrare indizio insufficiente per scorgere ora in Ulisse il volto di Cavalcanti, si tenga presente che un analogo calco dei versi cavalcantiani è in Purgatorio XXV riguardo il «possibile intelletto», concetto strettamente connesso al contenuto dell’orazion picciola. La condanna per frode di Ulisse vuol dire ritorcere all’accusante l’accusa di frode18. Dunque l’orazion picciola sarebbe frode? La questione è complessa.

L’interpretazione di Nardi ascriveva la canzone Donna me prega a quell’averroismo radicale non dissimile all’epicureismo di coloro che «l’anima col corpo morta fanno». Boccaccio narrava nel Decamerone che Guido «alquanto tenea dell’oppinione degli epicuri, si diceva tra la gente volgare che queste sue speculazioni erano solo in cercare se trovar si potesse che Iddio non fosse »,. Per epicureismo, di cui è condannato Cavalcante padre, era da intendersi più che altro la negazione del dogma dell’immortalità dell’anima, in quanto « la dottrina averroistica coincideva in pratica coll’opinione d’Epicuro esso è per logica conseguenza una sostanza separata e unica per tutti gli uomini, non è più possibile parlare di sopravvivenza dell’anima individuale; individuale è certamente l’anima sensitiva, che sola è forma e perfezione del corpo; ma essa muore col corpo»19. La canzone è volutamente enigmatica, alcuni versi non sono chiarissimi tuttora neanche agli specialisti, tuttavia ciò che conta per noi è ciò che ne pensava Dante, non per la comprensione della poesia cavalcantiana, ma per la comprensione di Cavalcanti quale personaggio ombra nella Commedia, che non deve necessariamente coincidere con il personaggio reale. Cavalcanti padre è condannato nel girone degli epicurei e degli eretici, ed è abbastanza ovvio che ci sia in vece del figlio, in ogni caso, alla sua domanda perché suo figlio Guido, pari a lui per ingegno, non fosse con lui, Dante risponde «qui mi mena/forse cui Guido vostro ebbe a disdegno», cioè Beatrice20, ovvero la patrocinatrice del viaggio salvifico e simbolo della fede.

L’analisi del canto di Ulisse è uno snodo centrale nell’indagine della Corti, poiché proprio Ulisse veniva ad incarnare nei famosi versi l’ideale della «felicità mentale», in tal modo Ulisse veniva associato con l’averroismo di Cavalcanti, soprattutto per la canzone Donna me prega, ma insieme ad esso i magistri artium bolognesi, con la scoperta della dedica a Cavalcanti della Quaestio de felicitate di Giacomo da Pistoia, e con Boezio di Dacia, esponente di primo piagno dell’averroismo e aristotelismo parigino. «Cosí Dante, nel condannare una certa posizione di pensiero, ne immortala l’esistenza e il messaggio, trasformando gli intellettuali stessi in auctoritates parlanti per bocca di Ulisse»21. Ma in che misura la condanna riguardava lo stesso Aristotele?

Sorprendente è il modo in cui la Corti espone la sua interpretazione dei famosi versi:

Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza

«Ma questo è Aristotele bell’e buono nell’Etica Nicomachea: il paragone con l’animal brutum, il suggerimento della operatio boni e della cognitio veri.» Nella pagina successiva, tuttavia, ci chiarisce che abbiamo capito male, no, non è Aristotele, bensì è «con gli enunciati dell’aristotelismo radicale che Ulisse arringa i suoi, non con il puro Aristotele»22. In merito rimanda alla Questio 5 dei Modi significandi di Boezio da Dacia, esponente di rilievo dell’aristotelismo radicale. Ma lo stesso concetto enunciato con le stesse parole ritorna nel De summo bono, che ugualmente Dante conosceva secondo la Corti. Secondo Tullio Gregory «la delineazione della vita philosophi nel De summo bono di Boezio di Dacia rappresenta in modo esemplare la ripresa dell’antico ideale del βίος θεωρητικός»23. E allora, forse, ci dobbiamo ricredere di nuovo, l’orazion picciola potrebbe riguardare lo stesso Aristotele, cosa oltremodo sorprendente, e difficile da credere, poiché, come scrive la Corti, Aristotele è l’autore più lodato da Dante.

L’analisi della Corti ruota intorno al raffronto tra Dante e Cavalcanti, che partiva dall’analisi di Nardi relativa all’averroismo del primo amico, estendendosi poi all’aristotelismo radicale, che veniva a confondersi con l’averroismo dei magistri parigini e bolognesi. Indagini più recenti, quali quelle raccolte nel volume Le felicità nel medioevo, hanno distinto tra l’averroismo e la filosofia dei magistri più prossima all’aristotelismo.

Gianfranco Fioravanti nel volume Le felicità nel medioevo riconosce la fecondità del concetto di «felicità mentale», «un’intuizione geniale (per paradosso tanto più geniale in quanto non sempre sostenuta da analisi e raffronti testuali pienamente convincenti)»24, che aveva poi suscitato tutto un filone di studi successivi. Fioravanti apporta però alcune distinzioni tra la filosofia dei magistri artium e l’averroismo, soprattutto per quanto riguarda la «congiunzione con le sostanze separate, ossia come piena attuazione dell’intelletto possibile da parte dell’intelletto agente, secondo la tesi attribuita ad Averroè dai suoi lettori latini del XIII secolo»25. Fioravanti osserva, «è proprio vero che il progetto dei philosophi parigini è indissolubilmente legato alla dottrina, o alla favola, della copulatio con le intelligenze separate? Il De summo bono, ad esempio non vi fa il minimo accenno; l’unica conoscenza delle cause più alte di cui si parla è una conoscenza che procede dagli enti naturali, cioè, come afferma chiaramente il testo, dagli effetti». Quanto a Sigieri, «il filosofo brabantino riconosce i limiti della conoscenza umana quando essa, a partire dalla esperienza degli enti finiti, vuole estendere le sue affermazioni alla natura ed al modo di agire del Principio Primo»26. Luca Bianchi, in un saggio contenuto nel suddetto volume, mentre ritiene vi sia una maggiore vicinanza di Sigieri ad Averroè, ritiene invece assente l’averroismo di Boezio di Dacia, dato finora per scontato. Sempre nello stesso volume, per Irene Zavattero la Quaestio de Felicitate di Giacomo da Pistoia «per la formulazione della teoria della “suprema felicità umana”, attinge soprattutto al pensiero etico aristotelico» 27. In breve, ai tempi di Dante esistevano varie forme di «felicità mentali» e vi era una differenza significativa tra l’averroismo e la filosofia dei philosophi più prossima all’aristotelismo.

Questioni a cui fa riferimento Paolo Falzone nel suo lavoro dedicato principalmente al Convivio28, e in particolare al «forte dubitare» di Dante riguardo la «scienza che qui avere si può». Può essa rendere felici visto che non può attingere ad una conoscenza diretta di Dio? Per quale motivo la natura ci avrebbe dotati di questo desiderio di conoscere se ine non possiamo conoscere Dio attraverso le nostre capacità naturali?

Secondo Falzone la soluzione di Dante, non è un’uscita «inattesa» dal problema (come ebbe a dire Étienne Gilson in Dante e la filosofia), piuttosto frutto di un ragionamento svolto con rigorosa conseguenza logica e che essa non fosse solo di Dante, ma diffusa tra i philosophi, a riprova di ciò apporta la descrizione che ne faceva Enrico di Gand che in un passo «tratteggia e riassume la tesi dei philosophi»:

«Philosophi vero ponentes finem humanae cognitionis ex puns naturalibus haberi et in vita ista ex cognitione scientiarum speculativarum et primorum principiorum quantum homini possibile est, et quod in modica cognitione divinorum consistit eius summa perfectio et delectatio, licet non possit attingere ad quidditates substantiarum separatarum et eorum quae apud illas sunt, dicerent quod homo nullum appetitum haberet sciendi illa, ex quo ex suis naturalibus ad ea pervenire non posset, ne ille appetitus esset frustra»29.

L’assenza di brama verso la conoscenza quidditativa della sostanze separate può indurre in errore nella somiglianza con l’argomentazione di Dante, ma c’è un punto decisivo che distingue Dante dai philosophi (secondo la descrizione di quest’ultimi di Enrico de Gand), la soluzione di Dante esclude anche una modica cognitione divinorum in ambito filosofico:

Onde, con ciò sia cosa che conoscere di Dio, e di certe altre cose, quello esso è, non sia possibile alla nostra natura, quello da noi naturalmente non è desiderato di sapere. E per questo è la dubitazione soluta.

Le tesi dei philosophi (con «philosophi, ossia, dobbiamo supporre, ai magistri della Facultas artium»30) sono solo in parte simili a quelle di Dante, il quale si differenzia anche dai filosofi più strettamente aristotelici, escludendo dalla filosofia anche una limitata conoscenza di Dio, luogo di un sapere esclusivamente terreno. È quanto rende effettivamente «radicale» la «soluzione» dantesca. Concordo con la definizione di Falzone, solo che è una posizione propria di Dante, diversa da quella dei philosophi.

Sostenendo che l’essere umano non può accontentarsi di «un po’ di Dio» in questa vita, Tommaso fonda la subordinazione della filosofia alla fede, in quanto esisterebbe un desiderio naturale, insito all’essere umano, di andare sempre oltre nella conoscenza che ci spinge verso l’infinito a conoscere Dio, ma tale desiderio può compiersi solo nell’altra vita e per mezzo della fede. Per Dante invece esso non fa parte della sfera naturale dell’essere umano, ma di quella soprannaturale, porlo nella sfera della conoscenza naturale vuol dire assimilare la conoscenza a quella dell’avaro che mira al «numero impossibile a giugnere». Sebbene non citato da Dante nel passo in questione, come osserva Nardi di fatto la concezione di Tommaso viene ad essere simile a quella dell’avaro descritta nel Convivio31. Ritorneremo sulla questione, importante per la definizione del concetto dantesco di cupidigia, ci basti questo per ora intendere perché in ambito filosofico è esclusa anche una conoscenza limitata di Dio, posizione che poi porterà alla netta separazione tra filosofia e fede della Monarchia.

La suddetta «soluzione» dantesca, secondo Falzone, è un «radicale naturalismo», una filosofia «assai più temibile per la fede cristiana di quanto non lo sia quella di Averroè»32. In effetti, il modo in cui Dante esce dall’impasse relativo all’inconoscibilità razionale di Dio poteva esitare in qualcosa di simile all’ateismo, ma era una strada che Dante non intendeva certo percorrere, anzi, oserei dire, a lui mentalmente preclusa. Non è da escludere che l’aver collocato Cavalcante padre, ed è ovvio che il giudizio si estendeva al figlio, poteva anche essere una netta presa di distanza, per evitare che si estendessero a Dante stesso le dicerie su Cavalcanti, riportate da Boccaccio, il quale si presume non se le fosse inventate di sana pianta, ma che fossero ancora diffuse ai tempi del Decamerone. Dante intendeva restare all’interno del cristianesimo (ma profondamente rinnovato dal suo viaggio profetico). Inoltre, l’ideale della vita contemplativa filosofica sfociava spesso un impolitico elitarismo, al limite del classismo, nel senso di una differenza ontologica tra filosofi autenticamente uomini in mezzo ai «bruti»33. Invece, nel cristianesimo tale frattura ontologica era assente. Un riflesso della preoccupazione di evitare le derive elitarie dell’eudemonismo intellettuale potrebbe essere il preciso elenco all’inizio del Convivio dei diversi ostacoli materiali alla formazione intellettuale.

Sebbene per il Dante del Convivio la «donna gentile» sia un’unione di fede e filosofia, e per quanto non metta ancora in discussione la preminenza della vita contemplativa, già si fa viva l’imprescindibile esigenza politica di Dante della fine del potere temporale dei papi, e della separazione tra potere temporale e potere spirituale, che porterà alla separazione tra fede e filosofia.

Anche Ulisse deve la sua ri-nascita ai dubbi in cui si dibatteva Dante, non meno radicale è il suo significato, come vedremo, ma in un senso più complesso di un diretto ateismo che lo conduceva fuori dal cristianesimo e dalla cultura del suo tempo.

Il trapassar del segno di Ulisse è oltrepassamento dei limiti della conoscenza umana, che invece doveva limitarsi in filosofia ad un ambito terreno (almeno nel tentativo di uscire dalle difficoltà in cui era incorso, per il resto nel Convivio vige l’unione di filosofia e fede). Il naturalismo del Convivio lo ritroviamo nella narrazione della vicenda di Ulisse. Come ben scrive Gennaro Sasso: «”Volta” la “poppa nel mattino”, dato ai remi l’impulso necessario al “folle volo”, protagonista assoluta fu, nella sua nuova e indecifrabile oggettività, la natura. Fu la forza che spinse la nave verso sinistra, nella direzione di sud-ovest. Furono le stelle rivelate dall’emergere dell’altro polo, mentre il nostro si inabissava tanto “che non sorgea fuor del marin suolo” (v. 129). Fu la luna che, accesasi cinque volte nel cielo, e altrettante spentasi, scandì, con i suoi tempi, le fasi della fatale navigazione. Fu la montagna “bruna” che, con il “turbo” che all’improvviso ne nacque, provocò, come “altrui piacque”, il tragico naufragio»34.

Una stretta identificazione di Ulisse con Boezio di Dacia, o con Cavalcanti, è restrittiva per una figura di portata universale come Ulisse. Infine è sempre  Bruno Nardi che ci restituisce l’ampiezza della visione dantesca, nel suo magnifico saggio Dante e la filosofia35. La conoscenza umana secondo Aristotele è partecipazione alla Divina Sapienza, attraverso di essa l’essere umano si avvicina a Dio, nei limiti delle sue possibilità. Un concetto che risale a Platone36 ma comune anche alla cultura biblica, compresa quella araba e cristiana, fino ad Agostino e Tommaso. In merito, cultura pagana e cultura cristiana non erano in contrapposizione. Grazie a questo «misticismo» (Nardi) che accomuna Platone e Aristotele ad Agostino e Tommaso era sempre possibile subordinare la filosofia alla fede.

E Ulisse è l’uomo che dimentico dei propri limiti umani «trapassa il segno» e vuole assimilarsi a Dio, qualificandosi come continuatore del «primo parente».

Il canto di Ulisse è il momento della negazione, è il momento del rifiuto di un’intera cultura nella quale Dante si era formato in gioventù. Come osserva Enrico Fenzi37, nell’incontro con Brunetto Latini Dante sancisce il fallimento del maestro nella formazione intellettuale di una nuova classe dirigente a Firenze. Nel Canto di Ulisse, che inizia con l’invettiva ultima e lapidaria contro Firenze, abbiamo la rottura finale con una cultura condivisa da Dante stesso, pur già con molte differenziazioni, ai tempi del Convivio.

La radicalità con cui Dante condannava la civiltà del suo tempo, ricordiamo che è un canto in cui si preconizza la distruzione di Firenze, trapassa nella radicalità della critica della cultura del suo tempo. Ulisse è figura della perdita del senso del limite umano, e dell’illusione di un completo padroneggiamento dell’uomo sul mondo attraverso il suo indiarsi.

Tuttavia Ulisse è una figura di passaggio, appartiene al momento della negazione. La condanna di Ulisse-Aristotele è un passaggio verso la separazione tra la filosofia e fede. La prima è fondamento del potere temporale, mentre la secondo riguarda l’ambito della salvezza individuale. Tale separazione assumerà forma definitiva nella Monarchia, ma il punto di partenza è nel Convivio. Alla conoscenza di Dio non si arrivava attraverso la ragione, ma attraverso la fede, mentre la ragione ha un ambito suo proprio e serve da fondamento alla felicità terrena, al cui ordinamento è preposto l’imperatore, per questo l’ideale della vita contemplativa viene condannato (negato) da Dante, in quanto commistione di fede e ragione che devono andare separate.

Sulla datazione della Monarchia, di stretta pertinenza della filologia, non posso che esprimere un’opinione, attenendomi alle questioni relative alla figura di Ulisse, è più coerente una datazione della Monarchia contemporanea o successiva alla composizione del Paradiso38. La Commedia è sembrata a tanti commentatori un ritorno ad un cristianesimo più ortodosso rispetto al Convivio perché , soprattutto l’Inferno, e in particolare il «canto di Ulisse», sono il momento della negazione. Più coerente pare l’evoluzione del pensiero dantesco se la guardiamo attraverso il modello tesi-antitesi-sintesi. Abbiamo una tesi: priorità della vita contemplativa in cui si compendiava la rinascente cultura filosofica del suo tempo. Essa viene negata attraverso la figura di Ulisse. Dopo la negazione abbiamo un movimento verso la sintesi nel Paradiso, con l’«enigmatica» presenza di Sigieri tra i Sapienti del Cielo del Sole, in vece di Averroè (sarebbe stato un po’ troppo collocarci direttamente il filosofo arabo) La lode di Sigieri fatta pronunciare da Tommaso che fu suo avversario in vita significa la conciliazione immaginaria tra contrari, ovvero intelletto possibile congiunto all’anima individuale, senza quindi negazione dell’immortalità dell’anima. Alla negazione seguirà la sintesi compiuta nella Monarchia, dove la teoria averroistica è il fondamento dell’autonomia del potere imperiale che deve realizzare la felicità terrena, creando le condizioni per il massimo dispiegamento dell’intelletto possibile, la realizzazione dell’umanità dell’essere umano. La filosofia (i philosophica documenta) è il fondamento della felicità su questa terra pertinenza del potere temporale autonomo dal potere religioso. Non a caso la Monarchia è stata opera messa all’indice dalla Chiesa Cattolica fino alla fine dell’Ottocento.

Nella Monarchia la teoria aristotelica viene recuperata, attraverso la decisiva chiarificazione del «gran commento» di Averroè, quale fondamento del potere temporale che nell’unità del genere umano deve realizzare la massima potenzialità dell’intelletto possibile. La realizzazione dell’umanità dell’uomo è un compito collettivo. Ciò riguarda la stessa teoria aristotelica, in quanto se ciò che è specifico dell’uomo è l’intelletto possibile, categoria irriducibilmente collettiva, l’essere umano può realizzare la sua umanità soltanto collettivamente, mentre l’ideale della vita contemplativa è un ideale individuale.

La Monarchia, frutto di un intero percorso, segna la storia del pensiero politico. Come scrive Giorgio Agamben, «Per questo la filosofia politica moderna non comincia col pensiero classico, che aveva fatto della contemplazione, del bios theoreticos, un’attività separata e solitaria (“esilio di un solo presso un solo”), ma solo con l’averroismo, cioè col pensiero dell’unico intelletto possibile comune a tutti gli uomini, e, segnatamente, nel punto in cui Dante, nel De monarchia, afferma l’inerire di una multitudo alla stessa potenza del pensiero»39.

La Monarchia presenta un’interessante e ancora attuale dialettica tra contemplazione e azione. Si contempla in vista dell’agire40. Teoria e azione sono solo momenti di un’unica prassi umana. Qualsiasi azione deve avere una cognizione dell’oggetto su cui vuole applicarsi. La contraddizione irrisolta in Aristotele tra vita contemplativa e vita attiva, riguarda, inoltre la contraddizione tra individuo e società, propria della condizione umana, che quando si trasforma in polarizzazione denota sempre un grave problema. Ulisse è espressione della polarizzazione individuale in cui può esitare l’esigenza insopprimibile di un’esistenza pienamente umana. Quando diventa impresa esclusivamente individuale, proprio in virtù della sua forza porta l’individuo in contrapposizione con i suoi doveri di essere umano appartenente alla società e quindi alla perdizione e alla dannazione.

Fatti non foste a vivere come bruti, d’accordo, ma come, nella sua vita, possiamo realizzare la nostra umanità, e non piuttosto ricadere in una forma di vita più simile quella delle bestie? La frode non è nell’esortazione a vivere da esseri umani, ma piuttosto nell’incapacità della filosofia di Ulisse di conseguire questo obiettivo, principalmente per il fatto che lo intende come un obiettivo personale. Considerato in termini non religiosi, il tema della salvezza investe l’essenza stessa dell’essere uomini, come può l’essere umano non smarrirsi nella vita? Realizzando la sua umanità, realizzando ciò che specificamente lo rende uomo, distinguendosi dall’animal brutum. Ma la conoscenza, capacità specifica dell’essere umano, è un’impresa collettiva, grande o piccolo che sia il contributo individuale, esso è sempre subordinato alla conoscenza collettiva che sopravvive all’individuo, basti pensare alla lingua attraverso cui accediamo al sapere collettivo che sopravvive all’individuo («intelletto possibile»). Ulisse ha smarrito la finalità terrena e umana del conoscere, che è un’impresa collettiva dell’essere umano in quanto essere sociale. A differenza di Enea egli non è alla ricerca di una terra in cui insediarsi e farne la sua patria, egli persegue un fine puramente personale («misi me per l’alto mare aperto e i suoi compagni sono strumento per questo suo fine, diventano tutt’uno con i remi fatti ali al folle volo41.

Molto interessante, dal punto di vista della storia del pensiero politico, è la tesi di Nardi42, secondo cui nella Monarchia attraverso il concetto averroistico di intelletto possibile abbiamo il recuperò della concezione comunitaria aristotelica (l’uomo come zoon politikon) in una società segnata dal peccato originale. Mi permetto di intrepretare in termini di sociologia storica. La comunità della polis, non ancora attraversata, almeno tra coloro che erano cittadini, da uno strutturale conflitto interno, poteva ancora postulare l’unità naturale tra i suoi componenti (l’uomo come zoon politikon, ma si dimentica sempre che tale uomo era il cittadino della polis). È rotta, invece, tale unità naturale, in una società più complessa, più articolata, differenziata e attraversata dai conflitti interni come era quella romana, anche nella fase conclusiva in cui visse Agostino. Il peccato originale agostiniano, e connessa necessità dello Stato, corrisponde maggiormente a questo secondo tipo di società, supper in termini mitico-religiosi. In fondo, cosa indica il mito del peccato originale, l’inevitabilità del male, cioè del conflitto tra gli uomini. La necessità della Monarchia, con a capo il monarca in cui si spengono tutti i conflitti interni, per Dante deriva dalla presenza della cupidigia, che, come vedremo, è una sorta di riedizione del peccato originale. La realizzazione della massima potenzialità dell’«intelletto possibile» è il recupero di un fine unitario nella «società di classe», se volessimo dirlo in termini moderni.

La Monarchia testimonia che Dante non abbandonerà l’ideale di una felicità terrena, di una vita pienamente umana espresso dai famosi versi, né dirà con Tommaso che è possibile realizzarlo solo nell’al di là. Certo, nell’ottica di tutto uno sviluppo del pensiero politico successivo potremmo dire che la Monarchia è segnata da un universalismo utopico, che è un’uscita utopica dalla strada senza uscita in cui si era cacciata la civiltà comunale italiana, e volendo possiamo considerare il passaggio dall’individualismo del bios therotikos all’universalismo della monarchia universale come segnato dalla furia del dileguare hegeliano nel suo capovolgimento dell’individualismo in universalismo. Tuttavia è epocale il contributo di Dante all’adeguamento e allo sviluppo del pensiero politico classico aristotelico ad una società complessa. Il fine di una vita pienamente umana viene recuperato come fine collettivo, e a ragione, poiché in quanto fine esclusivamente individuale esso non può che condurre allo scacco individuale, simboleggiato dal destino di Ulisse.

È sempre e solo questo il fine: realizzare una vita degna dell’essere umano, tanto sul piano individuale che collettivo. Bisogna ricordarlo, proprio oggi che pare smarrita ogni finalità autenticamente politica, ognuno perso nella sua «bolla individuale» scientemente gonfiata da chi manovra i «social», quando sembra una lontana illusione ogni idea di una vita autenticamente umana, ogni idea di riacquisire un controllo sull’immenso Apparato creato pur sempre dall’attività umana, quando lo smarrimento collettivo è sinistro preludio a qualche nuova tragedia che ci riserva l’Inferno del Capitale,

Già quanto detto può dare un’idea della radicalità del simbolo dantesco, che riguarda le radici della nostra cultura, ma ne potremo mostrare tutta l’ampiezza estendendo, nella prossima parte, il discorso al rapporto dell’Ulisse dantesco con la cupidigia, che la fa da padrone nell’inferno del capitale (Non a caso Marx fu un grande estimatore della Commedia).

La figura di Ulisse era stata ri-evocata da tutta una serie di questioni che ruotavano intorno all’esigenza di una filosofia terrena, fondamento della felicità terrena, fondamento dell’autonomia del potere temporale dal potere religioso, principale soluzione dei gravi disordini della società comunale. Ma Ulisse, ritornato per inabissarsi nell’oceano, continuerà ad avere vita propria quale memento al lungo e non ancora concluso oblio dell’essere umano (occidentale) dei propri limiti umani, ovvero l’auto-equiparazione dell’essere umano a Dio, ovvero l’illusione di un completo controllo sulla natura, e in quanto tale riguarda Aristotele, quanto l’aristotelismo medievale, riguarda il cristianesimo, riguarda lo stesso Dante, riguarda la scienza moderna, che si crede in opposizione alla religione ma si basa sugli stessi presupposti. Riguarda l’intera cultura europea-occidentale.
La figura da lui stesso creata turba la coscienza e i sogni di Dante. L’ombra di Ulisse lo accompagna dal primo Canto in cui viene evocata la figura del naufrago, fino all’inizio del Purgatorio dove Dante scrittore rassicura il Dante personaggio della Commedia della grazia del dono poetico-profetico, per cui «com’altrui piacque» (Purgatorio, I) ha potuto raggiungere la spiaggia del Purgatorio, a differenza di Ulisse che «com’altrui piacque» (Inferno, XXVI) giace in fondo al mare. Nel Paradiso (XXVII) Dante, prima di ascendere all’empireo con Beatrice, vede dall’alto il «varco folle Ulisse», dopo che nel canto precedente Adamo gli ha detto di essere stato cacciato dall’Eden per il «trapassar del segno» (notare: canti XXVI e XXVII), cioè voler essere come Dio. Ormai il timore che il suo stesso viaggio fosse destinato a naufragare, perché non sotto il segno della grazia, è un lontano ricordo. Ma il suo Ulisse figuralmente immortalato nell’Inferno resta lì a ricordarci che non si può trasumanar senza trapassar del segno. «Così Ulisse muore, ancora e ancora, per i peccati di Dante».43
Ulisse «eroe della conoscenza» infine riguarda la scienza moderna nata dalla stessa volontà di potenza di cui sono espressione la filosofia e la religione44. La civiltà europea-occidentale è malata alla radice. Dante l’aveva intuito, prima della filosofia contemporanea.

Emanuele Severino appartiene ai grandi della filosofia per aver dedicato l’intero suo lavoro a farci acquisire la cognizione dei gravi problemi di fondo dalla nostra civiltà, che avrebbero origine in Platone che per primo cominciò a far «uscire ed entrare le cose dal nulla»45. Purtroppo, la hegeliana marcia trionfale verso la libertà che culminava con la Germania, si rovesciava in Severino in una lunga storia di follia ed errore. Karl Löwith, grande studioso ma non della stessa portata filosofica di Severino e Heidegger, egualmente reso edotto dalla Seconda guerra mondiale dei gravi problemi di fondo della cultura europea-occidentale, rispetto ai quali auspicava «ritorno alla physis», aveva un indirizzo più ragionevole rispetto alla condanna dell’intera cultura occidentale: massimamente riteneva il naturalismo di Spinoza in contro-tendenza, e quindi Goethe quale suo grande lettore. Diversi altri hanno pensato in contro-tendenza rispetto alla volontà di potenza dominante, o in contro-tendenza con diversi indirizzi del loro stesso pensiero. Cominciando da Aristotele che, nonostante il predominio del finalismo nell’intero suo sistema, ripristina ine la priorità della physis, concetto cardine della cultura greca, espresso da Eraclito: il mondo eterno e non creato dagli dèi46. Aggiungerei Machiavelli, Marx, ma credo che in diversi altri autori ci siano elementi per rifondare su basi diverse il pensiero occidentale, ripristinando la cognizione dell’inevitabile subordinazione dell’essere umano alla Natura che lo ha generato. Tuttavia, ha ragione Cacciari, è impossibile oggi, ripristinare il senso naturale degli antichi di dipendenza dalla Natura. Va ripristinato su basi nuove. Se il passato è solo errore, impossibile diventa un diverso futuro, a cui non possiamo giungere dal nulla, ma riprendendo i «sentieri interrotti» nel passato (credo che ciò intenda Agamben scorgendo un significato filosofico nella boutade di Flaiano: faccio solo progetti per il passato). Chi più eloquentemente dell’Ulisse di Dante ci avvisa dal passato che la nostra rotta va in collisione con la Natura?

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NOTE

1Elisa Brilli, Firenze e il profeta, Carocci, 2012, p. 107

2«Frattanto Roma si ingrandisce sulle rovine di Alba». Tito Livio, Storia di Roma. I,30 (UTET, 1974)

3Inferno, Introduzione, cronologia, bibliografia, commento a cura di Anna Maria Chiavacci Leonardi, Mondadori, 1991. Vedi commento in merito della Chiavacci.

4Appello all’Unesco per liberare Dante dai dantisti, Edizioni dell’Orso, 2003

5Sergio Cristaldi, Il richiamo del lontano, in Lecturae Dantis. Dante oggi e letture dell’ Inferno, a cura di Sergio Cristaldi, Rivista “Le forme e la storia” n.s. IX, Rubettino 2016, p. 269

6ivi, p. 293

7D’Arco Silvio Avalle, L’ultimo viaggio di Ulisse, in Modelli semiologici nella Commedia di Dante, Bompiani, 1975

Numerose e sistematiche analogie vi sono tra l’Ulisse di Dante e i romanzi medievali «come risulta dalla frequenza dei rinvii, con l’Alexandreis di Gautier de Chatillon. Significative non solo in rapporto alla struttura delle due narrazioni, ma anche per talune coincidenze verbali che sarebbe in ogni modo malagevole spiegare come un prodotto del caso.» (p. 47) Mentre Curzio Rufo, a cui si fa L’Alessandreide, contiene già un riferimento alla «sete di conoscenza (“esuries mentis”) di Alessandro, “rex cognosendi plura cupidine accensus [re acceso dal desiderio di conoscere tutte le cose]. Tuttavia nei versi di Gautier essi si trovano per la prima volta strettamente uniti e per di più ben rilevati in posizione esordiale,

– Tua, regum maxime, virtus
-inquit – et esuries mentis […]
alla pari insomma, nonostante la diversa collocazione sintattica, di quanto avviene nel verso dantesco:

ma per seguir virtute e canoscenza »

Nell’Alessandreide c’è il tema dell’oltrepassamento delle colonne d’Ercole, ripreso da Rufo, e Alessandro viene definito. Al che Gautier si chiede quale sara il termine della fame di conquista e della sete di conoscenza di Alessandro, definendolo poi folle, «demens» (p. 53).

«Anagologie davvero soprendenti» presenta El libro de Alexandre, uno dei mag‏giori derivati dell’Alessandreide, che «quasi sicuramente Dante non ha conosciuto», in particolare, per l’appello ai compagni che da dieci anni hanno lasciato le proprie famiglie per seguirlo e la «cupidigia luciferina», di quel «folle che non conosce misura» quale Alessandro. Ma la «coincidenza verbale più straordinaria» è il passo in cui Dio dice « yol tornaré el gozo todo en amargura [io gli tornerò la gioia tutta in amarezza]» che richiama «tosto tornò la gioia in pianto» (p. 62).

8Epistole, I,2

9De finibus bonorum et malorum, V, 18

10Giorgio Padoan, l pio Enea, l’empio Ulisse. Tradizione classica e intendimento medievale, Longo Angelo, 1973, p. 196

11Simone Invernizzi, Dante e il nuovo mito di Ulisse, Academia.edu (pagina personale dell’autore)

12Padoan, op. cit., p. 191

13Ivi, p. 195

14De finibus bonorum et malorum, V, 18

15Idem

16Enrico Malato, Introduzione alla Divina Commedia, Salerno editrice, 2020, p. 30

17Enciclopedia dantesca Treccani, voce Canoscenza, https://www.treccani.it/enciclopedia/conoscenza_%28Enciclopedia-Dantesca%29/

18«…un uomo “che sia vile” non può “servire” una donna che si trovi nella corte d’Amore: così Guido aveva ammonito Dante nel sonetto Se vedi amore (XXI). Questa concezione eroica dell’amore, comune alla poesia cortese del Duecento, è stata rinnegata da Dante nella Vita nuova con il passaggio alla poesia della lode, paga di se stessa, perché sottratta alla sanguinosa dialettica del rapporto con la donna: questa è, per Guido, più ancora che una vigliaccheria, una frode intellettuale.[…] E non ci può sfuggire che, come in un’acre rivalsa postuma, proprio nel girone dei consiglieri fraudolenti (Inferno, XXVI) Dante condanna, con Ulisse, tutti i cattivi maestri che ingannarono altri uomini con la folle superbia di una conoscenza non illuminata dalla fede, trascinandoli con sé nella dannazione eterna.» Noemi Ghetti, L’ombra di Cavalcanti e Dante, L’Asino d’oro, 2011, p. 146-147

19Dante e la cultura medievale, Laterza, 1983, p. 106

20«Il cui è riferito, ormai da tutti, a Beatrice – non a Virgilio, come molti intesero, interpretazione che

non dà senso convincente in questo contesto – che rappresenta la sapienza e la grazia divina.[…]Il significato complessivo della frase, su cui si è molto discusso, appare in ogni caso ormai certo: Guido ebbe a disdegno quella via di fede e di grazia – vale a dire, sul piano intellettuale, l’accettazione di una realtà trascendente e di una verità rivelata, e, sul piano spirituale, della propria insufficienza all’assoluto – che Dante invece, a un certo punto della sua vita, decisamente scelse. Qui passò la rottura fra i due amici, e di qui cambiò strada la poesia e lo stile del secondo». A. M. Chiavacci, nota integrativa al Canto X dell’Inferno, op. cit.

21Maria Corti, Scritti su Cavalcanti e Dante. La felicità mentale – Percorsi dell’invenzione e altri saggi, Einaudi, 2003, p. 364

22Ivi, p. 278

23Mundana sapientia: forme di conoscenza nella cultura medievale, Storia e Letteratura, 1992, p. 25

24Le felicità nel Mediovevo, a cura di Maria Bettetini e Francesco 0. Paparella, LOUVAIN-LA-NEUVE, 2005, p. 5

25Ivi, p. IX

26ivi, p. 10-11

27ivi. p. 369

28Desiderio della scienza e desiderio di Dio nel Convivio di Dante, Il Mulino, 2011.

29ivi, p. 234

30Ivi, p. 215

31Bruno Nardi, Dal convivio alla commedia (Sei saggi danteschi), Istituto storico italiano per il Medio Evo. 1992p. 74. Il passo di Tommaso in questione è nella Summa contra gentiles, III, 50

32Falzone, op. cit. pp. 217 e 219

33Su rischio che le differenza tra uomini comuni e filosofi sfociassero in differenze ontologiche nella dottrina averroista e nell’averrosismo vedi Luca Bianchi, Filosofi uomini e bruti, Rinascimento, s.s. 32, 1992

34Ulisse e il desiderio: Il canto XXVI dell’Inferno, Edizioni Viella, 2011 pp. 39-40

35Il saggio è contenuto nel volume Nel mondo di Dante, Edizioni “Storia e letteratura”, 1944

36Ecco perché anche ci conviene adoprarci di fuggire di qui al più [b] presto per andare lassù. E questo fuggire è un assomigliarsi a Dio per quel che uomo può; e assomigliarsi a Dio è acquistare giustizia e santità, e insieme sapienza.Teeteto, C. 25,176b (Opere complete, Laterza, 2013)

Questo bisogna pensare dell’uomo giusto, anche se vive in povertà o colpito da malattie o afflitto da qualche altro di quelli che sembrano mali: che tutto questo si risolverà per lui in un bene in vita o anche in morte. Mai gli dèi trascureranno chi si sforzi di diventare giusto e coltivare la virtù per farsi simile a un dio nei limiti delle possibilità umane. Repubblica., X. 613 a-b Opere complete, Laterza, 2013)

37Dante ghibellino, La Scuola di Pitagora, 2019, p. 38-39

38Enrico Fenzi, Ancora sulla datazione della Monarchia, Academia.edu (pagina personale dell’autore)

39L’uso dei corpi, Homo sacer, IV, 2 Neri Pozza Editore. 2014, p. 269

40«Si è pertanto dichiarato a sufficienza che il compito proprio del genere umano preso nella sua totalità è di attuare sempre e completamente la potenza dell’intelletto possibile, in primo luogo per speculare e secondariamente, per estensione, per operare di conseguenza. » Dante, Monarchia, I, 4 (Mondadori 2015)

41: «His men, his “brothers,” now show their real relationship to Ulysses: it is an instrumental one. They are his oars». R. Hollander (Ed.), Dante Alighieri, Inferno, New York, 2002, p. 493

42Il concetto dell’Impero nello svolgimento del pensiero dantesco, in Saggi di filosofia dantesca, La Nuova Italia, Firenze, 1967

43Teodolinda Barolini, The undivine Comedy. Detheologizing Dante, Princeton University Press, 1992, pp. 54 e 58.

44“La volontà di dominio che caratterizza la scienza moderna è resa possibile dall’apertura del senso greco del divenire. Solo se l’ente che si mostra nell’esperienza è inteso come un uscire dal nulla e un ritornarvi (e appunto questo è l’intendimento del pensiero greco), solo allora può sorgere quella forma radicale di volontà di potenza che decide di strappare gli enti dal nulla e di risospingerveli, conformemente al progetto che l’uomo vuol far diventare realtà.” E. Severino, La filosofia dai greci al nostro tempo, BUR 2004

45Ma cosa era questo “far uscire ed entrare le cose dal nulla” se non l’affermarsi del creazionismo? La discussione del problema ci porterebbe troppo fuori tema, per una discussione più ampia del pensiero di Severino vedi il mio lavoro Per un nuovo socialismo. Per l’orgine greca del creazionismo vedi David Sedley, Creazionismo. Il dibattito antico da Anassagora a Galeno.

46Questo ordinamento del mondo, il medesimo per tutti gli uomini, nessuno degli dèi o degli uomini lo ha fatto, ma è sempre stato, è, e sempre sarà: un fuoco sempre-vivo, che di misura si accende e di misura si spegne. 51 (30 DK; 20 B) (Bompiani, 2007)

Il folle volo in Occidente. La tragicommedia di Ulisse (II parte)

L’Ulisse dantesco è una figura della cupidigia, quindi è necessario un esame del significato della cupidigia nella Commedia.

L’intero cammino, dall’Inferno, dall’iniziale incontro con le Tre Fiere fino al Paradiso, fino alla confessione a Beatrice della propria cupidigia, è un percorso verso la liberazione di Dante, e, con lui, dell’intera umanità, dalla cupidigia.

All’uscita dalla selva, il primo incontro sono le Tre Fiere. Nel corso dei secoli si è scritto tantissimo sull’identificazione di queste tre allegorie, qui ci limiteremo a quanto è necessario. Esse sono una parodia della trinità come Lucifero e altre figure dell’Inferno1, sono una e trine, ma trine nel senso di molteplice, l’insieme dei vizi sono rappresentati dalle fiere. La principale è la lupa, la cui identificazione con la cupidigia è abbastanza fuori discussione.

Il mistero della Trinità, pur nella sua parodia infernale, si trasforma in una dialettica tra l’uno e i molti, in quanto se la radice del peccato è una, molteplici sono le sue manifestazioni. Le fiere rappresentano un diverso modo di intendere i vizi capitali (espressione anche questa della natura profetica della Commedia), ma per il solo Inferno, nel Purgatorio si torna ad una visione più canonica.

Giovanni Pascoli, tra i commentatori da me consultati, è uno dei pochi che aiuta a districarsi in questa complessa allegoria dantesca: «Se la lupa è l’avarizia divenuta malizia, quest’avarizia maliziosa è raffigurata anche nel leone; e dunque il leone è la lupa. Così può dire alcuno. E rispondo: sì: in vero assomigliano. Famelico il leone, famelica la lupa; terribile in vista il leone, terribile dalla vista la lupa. E rispondo: sì: in vero il leone è dentro la lupa»2. La lupa dovrà essere cacciata dal veltro, ovvero il programma della Monarchia secondo cui l’imperatore dovrà porre fine alla cupidigia di potere. Il leone è la lupa, se è vero che il leone rappresenta la superbia e quindi la brama di potere, ma essendo senza limiti, il leone viene a sovrapporsi alla lupa. Una sola fiera non rappresenta un vizio specifico, ma più di uno.

La lupa è la brama senza fine, è la cupidigia in quanto tale («di tutte brame parea carca») ma che può manifestarsi in diversi ambiti, nella brama delle ricchezze, del potere, della conoscenza e in generale di tutte le cose terrene.

Tuttavia la lupa ha una relazione speciale con l’avarizia (intesa come desiderio smisurato di accumulare ricchezze). Dopo aver incontrato la lupa, Dante ricorre ad una similitudine con l’avaro («E qual è quei che volentieri acquista»), poiché l’analisi aristotelica della crematistica rappresenta un elemento centrale nella delineazione della cupidigia (Teniamo presente che nell’italiano di Dante l’avaro non è solo il tirchio, ma principalmente colui che è bramoso di denaro)3. Giustamente Leonid Batkin vide nella cupidigia una rappresentazione della accumulazione capitalistica, proprio dall’osservazione del nascente capitalismo nasce la centralità della cupidigia, ma un’analisi strettamente «economica» non ci restituisce tutta la portata della visione dantesca.

La filosofia aristotelica serve a Dante per decifrare la nuova società che vedeva nascere sotto agli occhi, per la quale era necessaria una nuova dottrina politica che potesse arginare la cupidigia sul piano politico (esposta principalmente nella Monarchia). E, al tempo stesso, era necessario un rinnovamento profetico culturale e religioso del cristianesimo che avesse al centro il superamento della cupidigia (Divina Commedia).

Le Tre Fiere sono una creazione dantesca molto complessa e raffinata, tanto sul piano figurativo, una triade con al vertice la lupa, con le connotazioni di ogni fiera che si sovrappongono e si intersecano su ogni altra, fino a formare un insieme i cui significati sono molteplici e unitari allo stesso tempo, tanto sul piano psicologico, infatti Virgilio fa ben intendere che sono una proiezione della cattiva coscienza di Dante personaggio della Commedia4.

La lupa ha a sua volta qualcosa della lonza, della lussuria. È stata una sirena a distogliere Ulisse dal suo cammino, che nel sogno di Dante in Purg. XIX si presenta inizialmente con le sembianze della lussuria, per poi rivelarsi essere l’«antica lupa».

I vizi capitali riguardano l’anima, mentre le condanne sono dovute ad atti specifici, giudicati secondo l’Etica aristotelica, e secondo la concezione romana del diritto (la distinzione del dolo in base alla violenza o alla frode riprende il De officis di Cicerone).

I condannati sono giudicati per gradi, per il rinnegamento della natura dell’uomo quale essere razionale, e per l’infrazione del vincolo d’amore a cui siamo tenuti in quanto creature frutto dell’amore di Dio.

La cupidigia, la lupa, si associa agli altri vizi («molti son li animali a cui s’ammoglia») per dar luogo a una scala di gravità che va dagli incontinenti dei primi gironi, a Giuda che tradì Cristo per i trenta denari, a Cassio e Bruto che tradirono Cesare per cupidigia di potere. Tutti e tre sono maciullati nelle tre bocche di Lucifero, fonte originaria della cupidigia nel suo voler essere come Dio. Al massimo grado la cupidigia contiene in sé, si confonde con la superbia, da ciò l’apparente assenza della superbia dai cerchi infernali (vecchio problema dell’esegesi dantesca)5, che in realtà non è assente, non viene assegnata a dei peccatori terreni ma ai giganti del Canto XXXI, che precedono Lucifero, nel quale cupidigia e superbia coincidono6. In Inf. I la lupa viene indicata quale emanazione dell’invidia di Lucifero, risvolto inevitabile della sua superbia che non potendo paragonarsi a Dio si trasforma in invidia.

«La lupa, infatti, non è solo avarizia, accumulazione di beni puramente materiali, smania di possesso; tutto questo culmina nella smania di dominio, cioè nella volontà di potenza. È questo, forse, il peccato di Lucifero ed esso o essa, la volontà di potenza, si incorpora la superbia quale noi abitanti del terzo millennio la intendiamo oggi. »7 Illuminante commento di Maria Gabriella Riccobono, proprio della volontà di potenza si tratta, come vedremo, ma dobbiamo procedere per gradi.

Le Tre Fiere vengono quindi da Lucifero, e la maggiore è la cupidigia che ridefinisce tutti gli altri vizi, nel complesso si tratta una una nuova manifestazione, diciamo un peccato originale 2.0 (Dio mi perdoni!) dopo che il peccato dei «primi parenti» è stato sanato dalla morte di Gesù Cristo (perciò Adamo si trova in Paradiso). La causa di questo ritorno del peccato originale è stata la Donazione di Costantino che ha destato la cupidigia dei beni temporali nella Chiesa, e da essa il disordine si è diffuso all’intera società. La cupidigia ha un’origine religiosa, da cui il messaggio profetico della Commedia, tuttavia nella definizione della cupidigia è fondamentale l’analisi aristotelica della dismisura nella crematistica. Possiamo dire che la cupidigia ha un doppio piano, religioso ed economico, è una figura teologico-economica.

Nella teologia medievale l’avarizia aveva assunto un nuovo ruolo finendo per soppiantare la superbia quale vizio capitale8. La centralità e l’estensione del concetto di avarizia nella teologia morale cristiana venivano incontro all’indirizzo complessivo della filosofia dantesca di integrare il cristianesimo con la filosofia aristotelica, in particolare, in tal modo, crea una sua peculiare concezione dell’avarizia/cupidigia. Conformemente alla visione cristiana che estendeva il concetto di avarizia, la progressione all’infinito che si verifica nella cattiva crematistica viene estesa all’ambito politico e all’ambito della conoscenza e in quest’ultimo Ulisse ne è il simbolo.

Ha ragione Teodolinda Barolini a definire la cupidigia un «meta-vizio»9, tuttavia essa non riguarda solo all’ambito della incontinenza, poiché il malizioso Ulisse è una figura della cupidigia. Le tre categorie, incontinenza, malizia e matta bestialitade, secondo cui è strutturato l’Inferno non sono degli ulteriori vizi che si sommano a quelli capitali, ma servono a definire la gravità della colpa a cui possono portare i vizi capitali.

«Se si resta fermi al concetto aristotelico di bestialità (e alla sua continuazione medievale), si vede bene, in effetti, che per il filosofo la bestialità non è un vizio a sé, ma piuttosto una particolare (ed estremamente difficile) tonalità del vizio. Ciò significa che ogni vizio è in teoria suscettibile di assumere una connotazione bestiale»10.

Secondo Paolo Falzone, «incontinenza, malizia e matta bestialitade», i tre termini derivati dall’Etica aristotelica menzionati da Virgilio in Inf. XI, in cui vengono esposti i criteri secondo cui sono comminate le condanne, vanno intesi come una gradazione della bestialità. Tuttavia, se è certo a quali cerchi e quali peccatori vanno classificati secondo il criterio dell’incontinenza e della malizia, incerto è invece cosa intendere per matta bestialità. Per Aristotele e Tommaso, osserva Falzone, sarebbero comportamenti aberranti da ascrivere alla patologia (in quest’ultimo sarebbero per questo motivo suscettibili di una pena minore).

Il termine non definisce, appunto, un comportamento specifico, ma la massima degradazione umana. Se gli incontinenti hanno perseguito il male perché non vi è stato controllo della ragione sugli affetti, i maliziosi invece lo hanno fatto con cognizione di causa, hanno usato l’intelligenza per danneggiare il prossimo. Tuttavia, ciò che distingue la malizia dalla matta bestialitade è la presenza nella malizia di una parte d’incontinenza. Ad es., Ulisse ha perseguito il male spinto dal desiderio di conoscenza che di per sé è naturale per l’uomo, ma in lui traviato dalla cupidigia. Invece, nella matta bestialitade vi è quella completa perversione dell’uomo che è l’adesione al male per il male. La concezione dantesca non è del tutto congruente con quella aristotelica, ma in gran parte lo è, perché interviene il concetto cristiano di libero arbitrio .

I peccati infernali sono rappresentati nella forma di fiere perché causano l’imbestiamento dell’essere umano. E il cammino nell’Inferno segue un progressivo imbestiamento fino alla massima bestialità di Lucifero, che ne possiede i connotati più mostruosi e disgustosi.

Bestialità non è mera degradazione dell’umano. Tra i riferimenti di Dante bisogna avere presente non solo la «tua Etica» (Virgilio) ma quel passo centrale della Politica in cui Aristotele, contestualmente alla definizione dell’uomo come «animale politico», definisce l’essere umano tanto la migliore quanto la peggiore delle creature proprio in virtù della sua intelligenza. Per questo il tradimento è la peggiore delle colpe in quanto provoca la distruzione del vincolo comunitario, da cui derivano i più grandi mali.

Secondo il commento della Barolini ai versi di Paradiso XV, l’Inferno è il regno della cupidigia:

«”La volontà retta è un amore buono, la volontà perversa un amore cattivo” – “recta itaque voluntas est bonus amor et voluntas perversa malus amor” – scrive Agostino, fornendo un modello fondamentale per il trattamento dell’amore nella Commedia. Il bonus amor agostiniano, opposto al malus amor, è sotteso alla caratterizzazione data da Dante dell’entrata del purgatorio come «la porta / che ’l mal amor de l’anime disusa» (Purg. X). Il poeta poi si avvicina molto a una parafrasi diretta di Agostino all’inizio di Paradiso XV, quando egli associa la volontà retta (“benigna volontade”) all’amore ben diretto (“amor che drittamente spira”) e la volontà malvagia (“la iniqua [volontade]”) all’amore mal diretto, ovvero alla “cupidità”: “Benigna volontade in che si liqua / sempre l’amor che drittamente spira, / come cupidità fa ne la iniqua”» (Par. XV)»11.

Su questi principi sono stati edificati l’Inferno e il Paradiso (e il Purgatorio in cui il pentimento dimostra la non cattiva volontà delle anime traviate sulla strada terrena). La cupidigia anche sul piano terreno è pura volontà, può quindi essere soppressa dall’Imperatore.

In definitiva, è la buona o la cattiva volontà che conduce all’inferno o al paradiso. È un concetto di volontà che deriva dal creazionismo cristiano che determina una frattura tra essere (in senso ontologico) e agire, che ha determinato l’ineffettualità dell’etica cristiana, in quanto incapace di tenere conto delle necessità naturali dell’uomo, delle costrizioni sociali, della realtà del conflitto che pervade le relazioni umane. L’etica antica, non intendeva espungere il male dal mondo, a differenza dell’etica cristiana che invece paradossalmente ne sancisce il dominio, in quanto nel mondo terreno domina il maligno, mentre invece il bene è riservato al mondo ultraterreno. Machiavelli recupera lo spirito dell’etica antica ripristinando la cognizione della realtà del conflitto (polemos è padre di tutte le cose) e indica di «non partirsi dal bene potendo, a saper entrare nel male necessitati». Il Principe deve avere come fine il bene della Stato, ma deve essere capace di usare il male (la violenza), se necessario, per difenderlo. Il discorso di Machiavelli, tutt’altro che estraneo all’etica, si oppone alla morale cristiana che rende imbelli e così favorisce «i più scellerati». Il superamento della antinomia tra bene e male della morale cristiana trova il suo compimento Goethe:

FAUST
Insomma, tu chi sei?
MEFISTOFELE
Parte di quella forza
che vuole sempre il male e produce sempre il bene

Se il libero arbitrio è l’idea dell’essere umano artefice del proprio destino, tale idea della libertà umana si presenta nel cristianesimo con una frattura verso il mondo reale. Una filosofia della libertà come quella hegeliana superava tale frattura: «La libertà è coscienza della necessità».

Ritornando alla Commedia, insieme alla filosofia cristiana concorre alla creazione della concezione dantesca della cupidigia la filosofia aristotelica. Il concetto di dismisura, l’inversione di mezzo e scopo che causa la progressione all’infinito, della «cattiva» crematistica, viene estesa alla sfera del potere (temporale e religioso) e, sul piano individuale, alla sfera della conoscenza.

Carlos López Cortezo scrive che è la lonza, non la lupa, a rappresentare l’avarizia, ciò è plausibile, data l’intercambiabilità delle Fiere, non dobbiamo attenerci ad una stretta identificazione. La lupa è la brama insaziabile, non rappresenta solo l’avarizia, ma la cupidigia in quanto tale, tuttavia nella lonza, sempre sulla base del metodo interpretativo di Carducci, possiamo vederci sia la lussuria che il desiderio smodato di ricchezza. Ciò trova riscontro nella canzone Doglia mi reca, la cui cifra è il parallelo tra avarizia e rapporto sessuale basato sul solo desiderio carnale, secondo il commento della Barolini12. È in errore Cortezo, invece, quando ritiene che la lussuria non abbia niente a che fare con la cupidigia. Nella suddetta canzone il puro desiderio carnale viene indicato come fonte di dismisura, così il vento che sballotta senza sosta le anime di Paolo e Francesca è una rappresentazione della dismisura13.

La dismisura appare già nel primo canto nella brama senza fine della Lupa, il suo rapporto con l’analisi aristotelica della crematistica ce lo ricorda il paragone con l’avaro nell’incontro con la Lupa. Che fosse una reazione al proto-capitalismo della Firenze ai tempi di Dante appare nella prima invettiva contro Firenze14.

La gente nuova e i sùbiti guadagni
orgoglio e dismisura han generata

Nella Commedia la cupidigia assume la figura di un pervertimento complessivo del comportamento umano. La canzone Doglia mi reca testimonia che la cupidigia, oltre alle connotazioni religiose, ha origine dall’esperienza diretta di Dante nella Firenze del suo tempo. Veniamo quindi alle connotazioni economiche della cupidigia

L’acuta cognizione dantesca delle trasformazioni economiche intervenute nel suo tempo, e in particolare del processo di accumulazione capitalistica, è stata ben descritta da Enrico Fenzi nel commento a suddetta canzone. La figura dell’«avaro» (tesaurizzatore), già ben nota alla cultura filosofica e religiosa, antica e contemporanea a Dante, da eccezione sociale si trasformava in una normalità sociale a cui era difficile sfuggire. Alcuni versi della canzone sono un importante documento storico, il processo di accumulazione del nascente capitalismo viene identificato ed analizzato con notevole precisione.

Come con dismisura si rauna,
così con dismisura si ristrigne;
e questo è quel che pigne
molti in servaggio, e s’alcun si difende,
non è sanza gran briga.

Il denaro viene accumulato e tesaurizzato con dismisura. Ciò conduce molti alla servitù e se qualcuno riesce a sottrarsi a questo processo non è senza gran fatica .

Nella canzone abbiamo un’esposizione più dettagliata della realtà sociale che da origine alla cupidigia, soprattutto per quanto riguarda la dimensione della dismisura, che nella Commedia prende il rilievo di una categoria generale, nella suddetta invettiva contro Firenze vi è lo stesso contenuto, ma espresso in termini più incisivi e allo stesso tempo più generici.

Come osserva Fenzi15, l’avaro non è più eccezione sociale, e non basta più che a lui segua lo scialacquatore, consueto redistributore della ricchezza, in quanto tale fenomeno sociale ha raggiunto un livello tale che trasforma qualitativamente la società. Nel proto-capitalismo fiorentino il denaro principiava ad avere un ruolo quantitativamente e qualitativamente diverso rispetto alle società precedenti. Ciò che oggi chiamiamo capitalismo.

Ciò credo sufficiente per stabilire quanto conti l’osservazione del nascente capitalismo nella genesi della concezione dantesca della cupidigia.

Il concetto di dismisura proviene dall’analisi della cattiva crematistica di Aristotele, ed è l’inversione di mezzo e scopo che si verifica quando il denaro diventa scopo e non mezzo, per cui l’azione spostandosi sul mezzo che è potenzialmente illimitato sul piano quantitativo (denaro) si riproduce su stessa all’infinito. Uno degli aspetti più interessanti e più attuali, detto senza retorica, del pensiero di Dante, è l’applicazione di questo modello analitico al potere religioso e temporale, alla conoscenza.

Fenzi riconduce alla comune radice aristotelica la centralità in Dante e Marx della dismisura:

«La circolazione semplice delle merci -la vendita per la compera- serve di mezzo per un fine ultimo che sta fuori della sfera della circolazione, cioè per lʼappropriazione di valori dʼuso, per la soddisfazione di bisogni. Invece, la circolazione del denaro come capitale è fine a se stessa, poiché la valorizzazione del valore esiste soltanto entro tale movimento sempre rinnovato. Quindi il movimento del capitale è senza misura»16.

Il movimento senza fine del capitale, la brama senza fine della lupa.

Non è la sola significativa convergenza. In una genealogia del sapere, Dante è tra i progenitori di Marx, una parentela che si palesa ancora in Inf. XI, dove l’usura è condannata come contro natura, perché la natura è imitazione di Dio e il lavoro a sua volta è imitazione della natura, ed essendo che la ricchezza può venire solo dal lavoro, l’«usuriere che altra via tiene» commette un sopruso contro Dio e la natura. Se è dichiarata l’ispirazione aristotelica della condanna dell’usura , vi è allo tesso tempo una concezione del lavoro come unico creatore della ricchezza che non è aristotelica, ed è un’anticipazione della concezione marxiana.

Una volta definita, nei suoi tratti essenziali, la visione dantesca della cupidigia, possiamo tornare alla figura di Ulisse quale incarnazione della cupidigia intellettuale.

Ciò è opportunamente chiarito dallo stesso Dante. In Purg. XIX sogna una «dolce serena», che poi nel sogno si trasforma in un orrendo mostro. Lei che aveva distolto Ulisse dal suo cammino, secondo Virgilio è «quell’antica strega/che sola sovr’ a noi omai si piagne», ovvero la cupidigia/avarizia che viene punita nella IV cornice dove si trovano. Il Canto successivo chiarisce ulteriormente che era l’ «antica lupa».

In Purg. XIX vi è un’invettiva contro la lupa che ne fa un quadro più preciso rispetto ad Inf. I:

Maladetta sie tu, antica lupa,
che più che tutte l’altre bestie hai preda
per la tua fame sanza fine cupa!

Secondo il commento di Anna Maria Chiavacci Leonardi, «questa lupa è infatti il primo nemico di Dante, e degli uomini, in tutta la Commedia. È quella che impedisce la salvezza nel I dell’Inferno, e che a più riprese è denunciata e condannata nelle sue manifestazioni più gravi – cioè nei potenti, e soprattutto nei papi – lungo il poema che infine per questo è stato scritto. Di qui la forza racchiusa in queste due terzine, la prima di condanna, la seconda di sospiro e invocazione verso lo sperato intervento divino. L’invettiva è posta non casualmente tra l’incontro con Adriano V – un pontefice – e quello con Ugo Capeto – un re – che impersonano i due poteri della terra, ambedue corrotti e viziati da questo terribile tra tutti i mali.»

Papa Adriano V narra di essersi volto alla vita eterna soltanto quando, diventato papa, « vidi che lì non s’acquetava il core,/né più salir potiesi in quella vita». La sua quindi è un’avarizia di tipo particolare. «Citando Gregorio Magno, ecco che cosa insegna nella Summa Tommaso d’Aquino […] : «avaritia – insegna – est non solum pecuniae (avarizia non è solo avidità di denaro), sed etiam scientiae et altitudinis, cum supra modo sublimitas ambitur (ma è anche avidità di sapere e di eccellere, qualora il primato sia perseguito smodatamente)»17.

L’estensione da parte di Tommaso del significato del termine avaritia era iniziata con Agostino che intendeva in questo modo conciliare l’antico e il nuovo testamento. Per il primo l’inizio di tutti i mali è la superbia, «A superbia initium sumpsit omnis perditio» (Dalla superbia prende inizio ogni perdizione, Tobia, 4, 13), per il secondo la radice di tutti i mali è la cupidigia, «Radix omnium malorum est cupiditas» (La cupidigia è la radice di ogni male, San Paolo) 18. Dante segue tale indirizzo, in Purg. XIX sono presenti tutte le «avarizie», quella in senso ordinario, l’avarizia di potere (papi e regnanti), e l’«avarizia» di conoscenza. In quest’ultimo caso, attraverso la sirena che richiama la figura di Ulisse.

Se quella di Adriano V è indubbiamente avaritia altitudinis, quella di Ulisse è avaritia scientiae (deduzione di Vittorio Sermonti). Dante ci vuole a caccia della verità, secondo la bella immagine della fera in lustra di Par. IV, la fiera che dopo la caccia si gode nella sua tana la sua preda-verità. Il Canto, che inizia con il sogno della «dolce serena» ci fornisce molti indizi per decifrare la figura di Ulisse e insieme della concezione dantesca della cupidigia, in merito alla quale Dante personaggio non ha ancora del tutto la coscienza a posto, visto che la nuova incarnazione del mostro viene a turbargli i sogni. La liberazione interiore finale avverrà con la confessione a Beatrice della propria cupidigia.

Il Convivio ha tra i suoi temi centrali l’avaritia scientiae, cioè il naturale desiderio di conoscenza pervertito dalla cupidigia. Ma è utile partire dai versi di Doglia mi reca che hanno una precisa corrispondenza lessicale e concettuale con il Convivio:

Corre l’avaro, ma più fugge pace:
oh mente cieca, che non può vedere
lo suo folle volere
che ‘l numero, ch’ognora a passar bada,
che ‘nfinito vaneggia.

Secondo il commento di Fenzi «un numero nel quale s’è consumata sino in fondo ogni idea di concreta ricchezza di cose, di valori d’uso, e dove per contro trionfa l’idea opposta di una forma di ricchezza astratta, puramente contabile e finanziaria, tendente all’infinito e proprio per questo inseguita dall’avaro sedotto precisamente dal miraggio di una tale infinita realizzazione di sé nell’infinita realizzazione del suo denaro come capitale»19.

Nel Convivio ritorna l’avaro che rincorre l’infinito, ma come paragone con chi attraverso la conoscenza razionale vuole raggiungere la conoscenza diretta di Dio.

Per Dante esiste un desiderio di conoscenza naturale che dirige la conoscenza verso l’oggetto, e di questo la coscienza è temporaneamente soddisfatta, mentre esiste un desiderio di conoscenza non naturale, in cui interviene quel pervertimento dell’ordine morale, tanto individuale che collettivo, costituito dalla cupidigia che devia da un’intenctio recta verso l’oggetto (trovo appropriate le categorie di Nicolai Hartmann) in direzione di un’intenctio obligua che devia la conoscenza dall’oggetto verso il soggetto del conoscere.

Smarrite le sue finalità concrete, la conoscenza diventa un fine per se stessa, e per se stessi, diventa il proprio fine ultimo. In questa deviazione il desiderio non può che crescere su stesso perennemente lasciando perennemente insoddisfatti.

La similitudine tra alimentazione e conoscenza è dei primi passi del Convivio. Il desiderio naturale di conoscenza trova un suo compimento nella relazione con l’oggetto, recando soddisfazione, a somiglianza dell’alimentazione, il più elementare rapporto umano con la natura. Invece la lupa, la cupidigia, «dopo ‘l pasto ha più fame che pria», non consegue quella soddisfazione temporanea accessibile all’essere umano, seppure il desiderio di conoscenza, come nel caso dell’alimentazione, essendo un rapporto processuale con la natura, naturalmente si rinnova.

Il naturale desiderio umano di conoscenza «è misurato in questa vita a quella scienza che qui avere si può, e quello punto non passa se non per errore, lo quale è fuori di naturale intenzione» e l’errore è quello dell’«avaro maladetto». Non è naturale, invece, la cupidigia di conoscenza simile al comportamento dell’avaro, essa è piuttosto il pervertimento del desiderio naturale.

Qual è il fine della conoscenza? Veniamo quindi al seguente passo (III xv 6-10), molto importante, del Convivio dove l’oggetto della critica dantesca è la conoscenza di Dio come concepita da Tommaso. È un confronto di grande interesse, siamo nel pieno di quella «teologia economica» dalla cui secolarizzazione sorge l’ideologia del capitalismo moderno.

Dov’è da sapere che in alcuno modo queste cose nostro intelletto abbagliano, in quanto certe cose [si] affermano essere che lo intelletto nostro guardare non può, cioè Dio e la etternitate e la prima materia; che certissimamente si veggiono, e con tutta fede si credono essere, e per quello che sono intendere noi non potemo; [e nullo] se non cose negando si può appressare a la sua conoscenza, e non altrimenti. Veramente può qui alcuno forte dubitare come ciò sia, che la sapienza possa fare l’uomo beato, non potendo a lui perfettamente certe cose mostrare; con ciò sia cosa che ‘l naturale desiderio sia a l’uomo di sapere, e sanza compiere lo desiderio beato essere non possa. A ciò si può chiaramente rispondere che lo desiderio naturale in ciascuna cosa è misurato secondo la possibilitade de la cosa desiderante: altrimenti andrebbe in contrario di se medesimo, che impossibile è; e la Natura l’avrebbe fatto indarno, che è anche impossibile. In contrario andrebbe: chè, desiderando la sua perfezione, desiderrebbe la sua imperfezione; imperò che desiderrebbe sè sempre desiderare e non compiere mai suo desiderio (e in questo errore cade l’avaro maladetto, e non s’accorge che desidera sè sempre desiderare, andando dietro al numero impossibile a giugnere). Avrebbelo anco la Natura fatto indarno, però che non sarebbe ad alcuno fine ordinato. E però l’umano desiderio è misurato in questa vita a quella scienza che qui avere si può, e quello punto non passa se non per errore, lo quale è di fuori di naturale intenzione […] Onde, con ciò sia cosa che conoscere di Dio e di certe altre cose quello esse sono non sia possibile a la nostra natura, quello da noi naturalmente non è desiderato di sapere. E per questo è la dubitazione soluta .

Soluzione temporanea, considerando che la Commedia si dirigerà verso una conoscenza diretta di Dio. Ma riceve un provvisorio punto fermo. Di Dio, dell’eternità, della prima materia arriviamo con la ragione ad averne cognizione, ma non desideriamo conoscerli direttamente. La natura, come dice il Filosofo (Aristotele) nihil facit frusta , nulla fa invano, ci ha fornito di organi naturali per la conoscenza limitata che in quanto esseri limitati possiamo raggiungere, e nell’esercizio di queste nostre capacità siamo soddisfatti. L’errore dei desideri non naturali non sta nel limite della conoscenza, ma piuttosto, al contrario, nella sua mancanza.

L’avaro che mira al numero impossibile da raggiungere rimanda a un preciso passo della Metafisica in cui Aristotele respinge l’operatività del concetto di infinito, poiché gli esseri umani nel processo conoscitivo operano sempre con il finito, altrimenti non sarebbe possibile la conoscenza. Da notare che ammette la divisibilità all’infinito di una retta, che tuttavia «non può essere pensata, se non si arresta la divisione». L’ammissione nel regno della conoscibilità dell’infinito avrebbe delle conseguenze sul piano etico, in quanto annullerebbe la causa finale, senza cui gli esseri umani perderebbero lo scopo dalla loro azione, poiché non avrebbe un termine, termine che è anche fine20.

L’osservazione che la cupidigia di conoscenza condivide con l’avaro il falso scopo di mirare al numero impossibile da raggiungere, cioè il cattivo infinito della dismisura, se volessimo dirlo con terminologia hegeliana, stabilisce un collegamento tra la dismisura analizzata nella Politica e il passo suddetto della Metafisica. È una lettura originale del testo aristotelico.

La conoscenza dantesca di Aristotele passa sicuramente attraverso Tommaso D’Aquino, ma tale questione segna tra loro una netta divergenza. Bruno Nardi osserva come Tommaso volesse introdurre in modo piuttosto surrettizio, con «dissimulata ingenuità», l’idea che per Aristotele il desiderio naturale di conoscenza conduce al desiderio di conoscere Dio, e in modo affatto contrario anche alla lettera del testo aristotelico, fa l’esempio della retta o della serie numerica a cui possiamo fare aggiunte all’infinito, finendo per ragionare proprio come l’«avaro maladetto»21.

È in questo passo l’osservazione aristotelica relativa alle infinite divisioni della linea. Tommaso22 e Dante menzionano la linea e i numeri, ma il senso è lo stesso. Mentre per Aristotele attraverso queste operazioni mentali non è possibile giungere all’infinito, al contrario per Tommaso tale operazione geometrica ci fornisce un esempio non solo della pensabilità dell’infinito, cioè di Dio, ma dimostra che gli esseri umani mirano in ultima istanza alla conoscenza diretta di Dio, che possono conseguire solo parzialmente in questa vita, e interamente nella vita dopo la morte.

Significativo quindi il parallelo dantesco tra l’avaro che persegue un’accumulazione virtualmente infinita, moneta per moneta, e la conoscenza di Dio a cui possiamo arrivare allo stesso modo in cui possiamo prolungare la retta, o la serie dei numeri, fino all’infinito. Ma è un numero «impossibile a giugnere», per quanto possiamo prolungare la retta avremo sempre una retta finita. Aggiungo un’interpretazione, che a me pare piuttosto evidente, ma implicita in Dante, altrimenti avrebbe dovuto accusare apertamente Tommaso. Per prolungare la retta all’infinito dovremmo immaginarci immortali, e quindi assimilarci a Dio, cadendo quindi nel peccato originale. Nella cupidigia di Ulisse Dante condanna il desiderio di essere simili a Dio tramite la conoscenza.

Come l’avaro, Ulisse è accumulatore di conoscenza, vuole «arricchirsi culturalmente», per dirlo con un’abusata espressione comune. Per quanto possa sembrare inappropriato il paragone tra il comportamento eroico di Ulisse e la superficialità dell’uomo-turista odierno (l’Europa trasformata in un grande parco per turisti è uno dei temi dell’ultimo Houellebecq), anche se nel 1300 la figura del turista non esisteva ancora, non è molto lontano dal vero dire che Ulisse per Dante è, per certi aspetti, come quei ricchi turisti che «ammazzano il tempo» nel vagabondare da una meta turistica all’altra.

Il vagabondare di Ulisse è dovuto alla mancanza uno scopo autentico. Nessuna terra può soddisfare la sua cupidigia di conoscenza, perché il suo fine non è l’oggetto della conoscenza, ma accrescere la sua potenza tramite la conoscenza. Ulisse ha smarrito la finalità concreta e sociale del conoscere, non è alla ricerca di una terra in cui insediarsi per farne la sua patria con i suoi compagni, egli persegue un fine puramente individuale ( «misi me per l’alto mare aperto») e i suoi compagni sono strumento sono suoi strumenti insieme ai remi fatti ali al «folle volo» 23. Anche la conoscenza può essere veicolo di alienazione nella misura in cui diventa «fine ultimo ed unico» (Marx).

Mirare al «numero impossibile da raggiungere» comporta un appiattimento della conoscenza sulla dimensione puramente quantitativa (anche questa analisi di notevole attualità). Mentre l’accumulazione di ricchezza cresce in modo puramente quantitativo, posso aumentare il patrimonio di 100 fiorini, ma questi 100 sono uguali ai 100 che avevo in precedenza, la conoscenza cresce in modo qualitativo, passando attraverso diversi livelli, ognuno compiuto e avente in sé la sua perfezione. Lasciamo la parola a Dante (Convivio, IV, 13):

« … quello che propriamente cresce sempe è uno; lo desiderio della scienza non è sempre uno ma è molti, e, finito l’uno, viene l’altro: sì che, propiamente parlando, non è crescere lo suo dilatare, ma successione di picciola cosa in grande cosa. Ché se io desidero di sapere li pricipii delle cose naturali, incontanente che io so questi, è compiuto e terminato questo desiderio. E se poi io desidero di sapere che cosa e com’è ciascuno di questi principii, questo è un altro desiderio nuovo, né per l’avenimento di questo non mi si toglie la perfezione alla quale mi condusse l’altro; e questo cotale dilatare non è cagione d’imperfezione, ma di perfezione maggiore. Quello veramente della ricchezza è propiamente crescere, che è sempre pur uno, sì che nulla successione quivi si vede, e per nullo termine e per nulla perfezione.»

La conoscenza di Ulisse pervertita dalla cupidigia è una conoscenza puramente quantitativa, appena conosciuta una terra passa alla successiva, perché intende solo accrescere il numero delle terre conosciute. Potremmo dire che Ulisse ha conosciuto tante terre, ma non ne ha conosciuta veramente nessuna.

La «forte dubitazione», termine che indica un affanno interiore, non era «soluta». Il forte dissidio interiore, da cui nasce Ulisse, su tali questione emerge nel passo successivo, collegato a quello appena citato, dove si parla dei diversi livelli di conoscenza secondo le fasi dell’età.

E perché la sua conoscenza prima è imperfetta per non essere esperta né dottrinata, piccioli beni le paiono grandi, e però da quelli comincia prima a desiderare. Onde vedemo li parvuli desiderare massimamente un pomo; e poi, più procedendo, desiderare uno augellino; e poi, più oltre, desiderare bel vestimento; e poi lo cavallo; e poi una donna; e poi ricchezza non grande, e poi grande, e poi più. E questo incontra perché in nulla di queste cose truova quella che va cercando, e credela trovare più oltre.

Questo passo segue maggiormente la filosofia tomasiana, anche se il desiderio naturale piuttosto che condurre alla conoscenza di Dio, porta sotto il dominio della lupa, ma per la filosofia di Agostino il desiderio può condurre al bonus o malus amor, secondo Tommaso che segue Agostino, ««la conversione, o adesione disordinata al bene transitorio» (“inordinata conversio ad commutabile bono”)»24, l’adesione affettiva ai beni terreni.

All’inizio vi è la crescita qualitativa della conoscenza. Il bambino gode del pomo, dell’augellino, che simboleggiano diversi livelli di conoscenza ma questi godimenti si esauriscono con il loro compiersi e spingono ad acquisire un diverso oggetto, un diverso livello di conoscenza. Ma tutto poi si conclude in una crescita puramente quantitativa, «ricchezza, e poi grande, e poi più», per cui lo stesso Dante ragiona come l’avaro e come Ulisse che deve andare sempre più oltre. Qui emerge pienamente il dissidio interno al pensiero di Dante. Nella Commedia vi sarà una maggiore vicinanza a Tommaso, già rilevato da altri, tra cui Nardi25 e Falzone26ma le premesse ci sono già nel Convivio. Per andare fino in fondo nella critica alla filosofia tomasiana, Dante avrebbe dovuto indirizzarsi verso un naturalismo a lui precluso, per vari motivi (come abbiamo già visto nella prima parte di questo lavoro).

Dal dissidio sulla questione della conoscenza nasce la figura di Ulisse, alter ego di Dante.

Il riavvicinamento alla visione cristiana più ortodossa, non attenua la potente critica alla volontà di potenza rappresentata dalla figura di Ulisse, che è autocritica di Dante stesso, come osservavo nella prima parte di questo lavoro. Vi è in gioco non solo la questione della subordinazione della ragione alla fede, anzi è proprio essa che consente la critica della volontà di potenza. È il desiderio di assimilarsi a Dio attraverso la conoscenza che comporta la perdita del senso del limite.

Ulisse ha le sembianze dell’eroe perché segue coerentemente il suo principio interiore, sempre più oltre, finché non incontra il suo destino. Tuttavia ciò che lo spinge è la cupidigia di conoscenza, non il desiderio di conoscenza come vuole Gennaro Sasso, che è tra quanti vogliono assolvere Ulisse27.

In mezzo alle contraddizioni, e al dissidio interiore, prende corpo un’analisi originale di Dante che vede un disordine esiziale, simile al comportamento dell’avaro, che si estende a tutti gli ambiti della società. Una perdita del fine delle azioni umane che non giungono al loro termine, si perdono in una progressione all’infinito che causa disordine, caos sociale, violenza, distruzione. La monarchia universale servirebbe proprio a fermare questa progressione della cupidigia di potere, poiché il monarca dantesco giunto al sommo, non potendo ambire a maggiore potere, ferma questa progressione. Un’osservazione incidentale di Marx spiega bene questa estensione del comportamento dell’ «avaro» (tesaurizzatore) all’ambito del potere. «Questa contraddizione tra il limite quantitativo e l’illimitatezza qualitativa del denaro risospinge sempre il tesaurizzatore al lavoro di Sisifo dell’accumulazione. Al tesaurizzatore succede come al conquistatore del mondo: la conquista di un nuovo paese è solo la conquista di un nuovo confine.»28 Il mito di Sisifo viene ripreso da Dante per il contrappasso degli avari in purgatorio.

Troppo bene si è rispecchiata in Ulisse la coscienza occidentale perché non facesse di lui un «eroe della conoscenza», ignorando la condanna dantesca. Ma perseguendo la conoscenza per se stessa, e per se stessi, Ulisse non incontra lo stesso scacco che incontra Faust alla conclusione-nuovo inizio della sua vita, quando ritiene di aver sprecato la sua vita e che «nulla si può conoscere?».

Ulisse per conoscere il mondo non ha paura di sfidare l’ignoto. Il destino vorrà la sua morte, ma altri dopo di lui avranno successo. Così è nato il mondo moderno. Ma, considerati gli esiti, era il viaggio di Ulisse necessario? Enormi problemi ed enormi rischi derivano dalla progressione all’infinito, il paradigma su cui viene a fondarsi la civiltà occidentale che rischia di devastare la Terra e di innescare uno scontro con le altre civiltà che oggi costituiscono il limite oggettivo di Ulisse, l’uomo occidentale. La Natura e l’Altro sono oggi il limite di Ulisse, il termine contro il quale si infrange la progressione all’infinito. Negare l’intero percorso della nostra civiltà, come dettato dalla sola follia, non ha utilità e non ha senso. Il percorso fallimentare di Ulisse ci indica la necessità di ritrovare i «sentieri interrotti» nel passato.

Ulisse è un prodigioso simbolo che intuisce uno sviluppo che allora era ancora in germe. La conoscenza tecnico-scientifica (incluse la tecnica di governo e la tecnica militare), insieme alla conoscenza della Terra seguita alle scoperte geografiche, permetterà alla civiltà europea un balzo in avanti rispetto alle altre civiltà. C’è da osservare, però, che è uno sviluppo dell’intera umanità, che verrà raccolto in modo casuale dalla civiltà europea, perché allora era in formazione. Basti ricordare che i numeri, la carta, la polvere da sparo non sono invenzione europea, ma strumenti di cui essa si appropria.

Massimo Cacciari in un’intervista si chiedeva retoricamente: la civiltà europea ha seguito la strada di Enea o quella di Ulisse? Dante veder in anticipo il fallimento di civiltà insito nel dominio della cupidigia, lo vede nell’esplosione degli odi inconciliabili tra fazioni e tra città, che aveva causato il fallimento della civiltà cumunale, con-dannata interamente all’Inferno. Dopo la società comunale, il testimone storico, nella civiltà europea in formazione, passava ai regni (già con-dannati da Dante per la medesima cupidigia), mentre lo «maladetto fiore» , ovvero l’accumulazione capitalistica fiorentina e delle altre città italiane, finanzierà la prima delle guerre secolari tra Francia e Inghilterra, che accompagneranno il lungo parto abortito dell’Europa moderna. I Bardi e i Peruzzi, principali bancheri fiorentini, nel 1340 perderanno il capitale prestato al re d’Inghilterra, causando il fallimento a catena delle attività a loro collegate, e una grave crisi economica a Firenze (la prima crisi economica in senso moderno). Il capitale originario delle città italiane, si trasferirà, accumulandosi da egemone ad egemone. All’egemonia del fiorino subentrerà quella di altre monete, ma il simbolo del dollaro conserva ancora oggi la volontà di superare le Colonne d’Ercole. La derivazione indicata come più probabile della $ (il simbolo originale aveva due stanghette) deriva dalle due colonne avvolte da un nastro con la scritta «Plus ultra» raffigurati nel cosiddetto dollaro spagnolo. Secoli di conflitti egemonici nell’ambito del mondo europeo-occidentale, che hanno causato continue rivoluzioni nell’ambito dell’organizzazione del lavoro, dello Stato, e della Tecnica, senza che nessuno Stato sia stato in grado da funzionare da principio ordinatore, fino all’esplosione finale della civiltà europea in due guerre mondiali. Il tutto all’interno di una progressiva accelerazione della storia che assomiglia alla caduta di un peso.

Ulisse è simbolo della progressione all’infinito, che comporta il continuo superamento dei limiti, ovvero il paradigma su cui viene a fondarsi la civiltà europea-occidentale. Devo rimandare alla I parte per il complesso rapporto tra grecità e romanità che si gioca intorno alla dismisura di Alessandro Magno, quale uno dei volti di Ulisse. Non è senza motivo che Dante scelga proprio un eroe greco per affermare, in negativo, quel principio della misura quale valore che maggiormente caratterizza il pensiero di Aristotele, e la cultura greca29.

Cos’è il senso del limite? Il ceppo posto dalla divinità davanti all’uomo per provocarne il superamento? Nel caso di Ulisse non è tanto il superamento delle Colonne d’Ercole, ma questo ulteriore viaggio, quando lui e i suoi compagni sono oramai vecchi e tardi, per vedere «il mondo sanza gente». Più che una sfida alla divinità, sembra il gesto folle, senza senso, di chi ha perso il senso della misura e della finitudine umana.

Ulisse non può che protrarre fino alle fine la stessa operazione, la scoperta di una nuova terra, da addizionare alla precedente. Avendo smarrito il fine terreno, che per Aristotele è anche un termine, non può che proseguire all’infinito, finché la sua finitudine di essere umano non metta la parola fine. Erano davvero per Dante, cristiano, le colonne un limite posto da Dio? Ai suoi tempi erano già state superate, come scriveva il suo maestro Brunetto Latini30. Le Colonne d’Ercole, mito pagano, non potevano avere per Dante un significato religioso, sono piuttosto un simbolo della necessità che le azioni umane abbiano uno scopo concreto, che costituisce anche un termine per l’azione stessa (Aristotele). L’agire di Ulisse non ha questo termine, il termine è il termine stesso, il continuo superamento, una terra, poi un’altra e un’altra ancora, finché incontra il limite, nella natura esterna, oppure nella nostra natura di esseri umani mortali, per questo Dante mette ben in chiaro che Ulisse è vecchio quasi decrepito. Andando sempre più oltre infine inevitabilmente ci si scontra con il limite. Il «trapassare del limite» (simbolico delle Colonne d’Ercole) ha il significato della perdita del senso della finitudine umana.

Smarrito il fine concreto in cui l’azione umana deve andare a concludersi, e spostandosi la finalità sul mezzo, l’azione effettua, in un loop infinito, la ripetizione della stessa azione.

Ulisse è come Don Giovanni del libretto di Lorenzo Da Ponte. A Don Giovanni non interessa che la nuova conquista sia alta o bassa, bruna o bionda, ricca o povera, basta che faccia numero, da annoverare nel catalogo tenuto da Leporello, a testimonianza della sua smisurata potenza sessuale. Come quella di Don Giovanni, quella di Ulisse è una tragicommedia. Don Giovanni non ha paura, non si tira indietro quando la statua del Commendatore lo invita a cena, contrappuntata dai commenti comici di Leporello. Provando a liberarci delle stratificazioni culturali createsi intorno alla figura di Ulisse, questo vegliardo ormai agli ultimi anni della vita che si mette in mare e incita i compagni ad andare a visitare la «terra senza gente», ci ricorda il vecchio che vorrebbe comportarsi come se avesse il vigore sessuale della gioventù. Come detto nel canto successivo, Ulisse era nell’età in cui bisogna «tirare i remi in barca». Se non proprio ilarità il comportamento di Ulisse suscita l’idea di un comportamento insensato, e tale è per Dante il suo «folle volo».

A causa della mitizzazione (l’«eroe della conoscenza»), non si è voluta vedere la comicità nel «canto di Ulisse». Necessariamente Virgilio opera un inganno ai suoi danni, se si fosse presentato nei suoi veri panni, l’eroe greco, che come tutti i dannati conoscono quanto è accaduto dopo di loro (l’aveva spiegato Farinata), si sarebbe rifiutato di parlare con chi aveva espresso pessimi giudizi su lui nell’Eneide. Quindi Virgilio, l’unico a conoscere il greco, parla ad Ulisse, fingendosi qualcun altro, un greco, forse Omero, come deduceva il Tasso qualche secolo fa. È legittimo ingannare l’ingannatore, è un altro contrappasso, e senza inganno sarebbe fallito l’obiettivo di farsi dire com’era morto, Dante personaggio ne è curiosissimo. Se non basta questa deduzione, pur necessaria, allora sentiamo come Virgilio liquida Ulisse (vien detto nel canto successivo), dismettendo il tono aulico e rivolgendosi a lui in mantovano: «Istra t’en va più non d’adizzo». Ora vai, non voglio più aizzarti. Ma forse per rendere il tono dovremmo usare un’espressione volgare (alle quali il Poeta non era estraneo): vai ora, e non rompere più il c… Secondo Francesco de Sanctis, il comico di Dante non fa ridere, ma in questo caso, se abbiamo presente l’inganno di cui è vittima Ulisse, dobbiamo ammettere che un certo grado di comicità non manca.

Come non manca il tragico, Ulisse è un eroe che persegue coerentemente il suo principio interiore, va fino in fondo al suo destino, fino al limite ultimo. Ma allo stesso tempo il suo è un comportamento insensato, il suo è un «folle volo». Per questo al tragico si deve aggiungere il comico. Ulisse è la prima figura di ereo tragicomico, nel senso della coesistenza di comico e tragico.

Il desiderio di conoscenza per l’uomo non si estingue mai, questa è una convinzione che fa parte non solo di Dante e della cultura alta. Tra i centinaia di detti ereditati da mia madre della cultura contadina vi è quello secondo cui «la vecchia a cent’anni diceva che aveva ancora da imparare». Vi è però anche un’età in cui mettere a frutto l’esperienza, in particolare Ulisse è nell’età senile in cui l’uomo «alluma non pur sé ma gli altri», o meglio, dovrebbe, secondo il comportamento consono alle diverse età descritto nel Convivio (IV, 27), invece prevale il personale desiderio di conoscenza, di cui continua a bruciare, quindi dovrà bruciare in eterno all’Inferno31.

Con l’estensione dell’analisi aristotelica della cattiva crematistica, l’analisi dantesca si avvicina, anticipandola, alla critica hedeideggeriana della volontà di potenza. Tralasciando la ricostruzione della nascita della metafisica, la volontà di potenza che culmina con Nietzsche è essenzialmente assenza di scopo, essa non ha altro scopo se non il proprio accrescimento. Scrive Heidegger: «Non è il nulla ciò di fronte a cui la volontà indietreggia spaventata, ma il non volere, l’annientamento della sua propria possibilità essenziale». Per gli stessi motivi Ulisse non può indietreggiare fronte al limite estremo, oltre il quale vi è «il mondo sanza gente». Rappresentazione molto efficace del nichilismo. Nietzsche: «Che cosa significa nichilismo? Manca il fine, manca la risposta al perché». Ulisse essenzialmente manca del fine.

La massima vicinanza è laddove Dante definisce, nel già citato passo, la cupidigia di conoscenza come desiderio di desiderio (chi mira al numero impossibile da raggiungere «desiderebbe sempre sé desiderare»). Per Nietzsche «la volontà di potenza vuole se stessa – e nient’altro», e di conseguenza il suo continuo accrescimento. Per questo, secondo Heidegger, la volontà di potenza è volontà di volontà32.

Il motivo per cui la critica della volontà di potenza di Heidegger così ben si adegua alla figura di Ulisse è più di una singolare coincidenza, considerato che il filosofo tedesco non risulta fosse un estimatore della Commedia, ma l’indicazione che entrambi hanno un trattato delle stesse questioni di fondo della cultura occidentale. La scienza, «la conoscenza in generale, sono una forma della volontà di potenza», ma «giunti ad avere nella storia dell’Occidente una potenza essenziale» 33 Nella Monarchia «la più alta facoltà dell’umanità è la facoltà o potenza intellettiva.» Per questo la perversione di questa facoltà ad opera della cupidigia è la forma più elevata di cupidigia.

La volontà di potenza nella Divina Commedia è incarnata da Dio («vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole»). La colpa di Ulisse è di voler essere come Dio. La divina volontà di potenza è ancora argine alla umana volontà di potenza. Con la «morte di Dio», inevitabilmente seguita alla sua umanizzazione, l’argine crolla.

Il cristianesimo fonda quell’identità tra volontà ed essere, e quindi l’identità tra volontà e potenza, cioè la potenza di portare ad essere quanto è nella mente del Creatore, come espresso dal celeberrimo passo appena citato.

«Quando Tommaso identifica in Dio essenza e volonta {“Est igitur voluntas Dei ipsa eius essentia”: Contra Gentiles, lib. 1, cap. 75, n. 2), egli non fa in realta che spingere all’estremo questo primato della volontà. Poiché ciò che la volonta di Dio vuole e la sua stessa essenza (“principale divinae voluntatis volitum est eius essentia”: ibid., lib. 1, cap. 74, n. 1), cio implica che la volonta di Dio vuole sempre se stessa, e sempre volontà di volontà. »

Secondo Giorgio Agamben, il concetto moderno di volontà è essenzialmente estraneo alla tradizione del pensiero greco e si forma attraverso un lento processo che coincide con quello che porta alla creazione dell’io.

Perché nasca l’oikonomia è necessario che il mondo sia frutto della Creazione e quindi determinato dalla volontà del Creatore. In generale il passaggio costituito dal cristianesimo e dalla filosofia medievale viene poco considerato da Heidegger, l’analisi di Agamben risulta quindi integrativa per il nostro discorso, soprattutto per quanto riguarda il rapporto tra la volontà di potenza e l’oikonomia che si afferma con il cristianesimo.

«Alla domanda “perché Dio ha fatto il cielo e la terra?”, Agostino risponde: “quia voluit”, “perché così ha voluto” (A u g ., Gen. Man., 1, 2,4). E secoli dopo, al vertice della scolastica, l’infondabilità della creazione nell’essere è chiaramente ribadita contra Gentiles da Tommaso: “Dio non agisce per necessitatem naturae, ma per arbitrium voluntatis” {Contra Gentiles, lib. 2, cap. 23, n. 1). La volontà è, cioè, il dispositivo che deve articolare insieme essere e azione, che si sono divisi in Dio. Il primato della volontà, che, secondo Heidegger, domina la storia della metafisica occidentale e giunge con Schelling e Nietzsche al suo compimento, ha la sua radice nella frattura fra essere e agire in Dio ed è, pertanto, fin dall’inizio solidale con l’oikonomia teologica»34.

Il peccato di Ulisse è voler acquisire una volontà di potenza che è propria di Dio. Ulisse di Dante, eroe cristiano nel suo essere individuo, è espressione della natura contraddittoria del cristianesimo che è stato tanto generatore della volontà di potenza, quanto suo freno. D’altronde, questa contraddizione non è nella stessa Bibbia? Per quale motivo furono condannati Adamo ed Eva per aver mangiato dall’albero della conoscenza se essi erano stati fatti ad immagine e somiglianza di Dio?

Come scrisse Marx nelle Tesi su Feuerbach finora per quanto riguarda la conoscenza il «lato attivo è stato sviluppato, in modo astratto e in contrasto col materialismo, dall’idealismo, che naturalmente ignora l’attività reale, sensibile come tale». L’uomo non si limita a conoscere la realtà, l’uomo è creatore, crea il suo mondo con la sua attività. Il platonismo, il cristianesimo, l’idealismo sono stati espressione della facoltà creativa dell’essere umano, destinato naturalmente ad un diverso rapporto con la natura, che non gli ha fornito artigli per difendersi, arti adeguati alla corsa, una pelliccia per difendersi dal freddo e dal caldo. Che questo rapporto abbia portato l’essere umano, in primis occidentale, in rotta di collisione con la natura, non significa che debba essere rinnegato in toto.

La Commedia è una delle massime espressioni poetiche della divinizzazione dell’essere umano (pensiamo a come si conclude) insita nel creazionismo, che inevitabilmente comporta la scomparsa della trascendenza. Ciò che solo trascende l’essere umano è la natura infinita ed eterna che lo ha generato, e che non è stata creata da nessun Dio (Eraclito). Ma ne è stato allo stesso tempo l’autocritica, di cui l’Ulisse è la creazione più significativa. .

Nel cristianesimo dantesco la trascendenza della natura si presenta accoppiata con la sua antropomorfizzazione («Dio, l’eternitate e la prima materia»). Questo consente a Dante di con-dannare il viaggio di Ulisse che vuole essere simile a Dio, salvo poi realizzarlo con successo egli stesso grazie alla grazia (se mi passate il gioco di parole).

In conclusione del suo viaggio Dante incontra Dio, che non è altri che noi stessi. Il cristianesimo, la religione cede il passo alla divinizzazione dell’uomo, all’umanesimo scientifico. All’uomo religioso medioevale subentra l’uomo vitruviano di Leonardo, l’effige del Dio-Uomo inscritta nel cerchio e nel quadrato, commisurazione di infinito e finito, vista in conclusione del suo viaggio da Dante. Una storia che ha condotto, nei nostri giorni all’illusione, attraverso la Tecnica, di una completa padronanza del mondo. Ma Ulisse resta nell’Inferno ad ammonirci con il ricordo dell’inevitabile naufragio a cui conduce questa rotta.

Come ha scritto Emanuele Severino, l’inversione di mezzo e scopo prima di verificarsi nel denaro si verifica in ambito teologico, Gesù invece di essere tramite a Dio, diventa esso stesso scopo, così come il denaro invece che mezzo di scambio diventa scopo stesso dello scambio35.

Gli Dei nell’antica Grecia erano un tramite alla natura non generata e infinita, ma ad un certo livello di sviluppo della conoscenza umana sorge nell’essere umano (occidentale) l’illusione di potersi ergere al di sopra della natura, di diventarne il creatore, così come si era fatto creatore del proprio mondo umano. Questo ergersi dell’essere umano al di sopra della natura crea l’inversione di mezzo e scopo. Perso il senso del limite posto dalla Natura lo si perde anche nella società, così sorge l’illusione dell’oikonomia, l’illusione di poter amministrare l’intera società come se fosse la propria casa, che non fosse necessario gestire politicamente la natura umana (come ritiene Aristotele), ma che questa fosse determinabile e plasmabile a piacere.

Oggi indichiamo con il termine «economia» ciò che per Aristotele era la crematistica, ovvero l’arte di acquisire i beni e la ricchezza. Sebbene nella Politica la distinzione non è chiara, vi è una crematistica buona (i beni sono pur sempre necessari alla polis) fondata sul valore d’uso (più vicina scrive Aristotele all’amministrazione della casa, all’economia, in quanto questa fondata sul valore d’uso, ma non a questa identica) e in una cattiva che ha come fine l’accrescimento delle ricchezze nella forma monetaria, basata sul valore di scambio (ciò che successivamente abbiamo chiamato capitalismo). L’economia, per Aristotele, riguarda l’amministrazione della casa sulla base delle decisioni prese dal suo padrone e quindi non è soggetta a deliberazione politica. La crematistica invece riguarda l’intera collettività e quindi sarebbe soggetta a deliberazione politica. Che il singolare qui pro quo non sia casuale? Che vi fosse insito dal principio l’idea dell’amministrazione del mondo come fosse una casa proprietà di un padrone? In questa frattura tra essere e prassi determinata dal creazionismo sorge l’oikonomia divina, che secolarizzata porta all’idea di una completa amministrabilità del mondo. Proprio perché il mondo è plasmabile a piacere e non vi più alcun limite nella natura, sorge l’idea di una possibile crescita all’infinito della potenza economica. In breve, l’affermarsi di una sfera dell’oikonomia (mondo amministrato) è condizione necessaria per il perseguimento dell’illimimato, in quanto comporta la caduta dei limiti naturali che in precedenza erano da ostacolo. Il denaro, da quando aveva acquisito una nuova funzione ai tempi di Dante, non ha cessato di evolversi. Marx scriveva che l’anatomia della scimmia si può comprendere solo in base all’anatomia dell’uomo, per dire che talune strutture sociali si comprendono solo quando sono giunte alla loro piena formazione. Così possiamo analizzare in prospettiva la nuova funzione del denaro che nasce in Italia circa 7 secoli fa, vista da Dante nella Firenze del suo tempo. Oggi, con la virtualizzazione della moneta è possibile un enorme controllo sulla società, con un solo click sarebbe possibile, in un futuro non tanto lontano, tagliare a chiunque i mezzi di sussistenza (anzi è già stato fatto in Canada e Germania con taluni giornalisti «dissidenti» che si sono recati nel Donbass). Così si realizza il significato effettivo del termine economia, ovvero la gestione, l’amministrazione della società come se fosse una casa di proprietà del padrone. Il capitale è dall’inizio una nuova forma di potere sulla società che, insieme alla concentrazione del potere coercitivo nello Stato, consente, tra l’altro, l’abbandono della schiavitù perché si stabilisce un nuovo potere di controllo più efficace.

Il motivo per cui Dante risulta tra i classici più citati nel Capitale non è dovuto alla sola ammirazione artistica di Marx, ma viene, ritengo, da una affinità più profonda. Così come la via d’uscita dal vicolo cieco della società comunale italiana è verso un monarchia universalista oikonomica, in cui l’imperatore dantesco sopprimendo tutte le cupidigie, trasforma il mondo in una casa di sua proprietà, dove vige solo la sua volontà. Così nel comunismo marxiano la via d’uscita dal vicolo cieco della civiltà europea dopo la sconfitta di Napoleone è verso un universalismo oikonomico chiamato comunismo, dove si estingue la famiglia, lo Stato, i principali corpi intermedi. Motivo per cui Preve applicava giustamente al comunismo il concetto hegeliano di furia del dileguare. Critica che si applica ugualmente all’universalismo dantesco. Marx pensava come Dante che si dovesse porre fine all’illimitato (nell’economia, a differenza di Dante che lo riscontrava anche nella sfera del potere e della conoscenza), e che si potesse giungere con il comunismo ad una padronanza decisiva sulla società, una convinzione molto interna all’oikonomia. Engels ebbe solo il merito dell’enunciazione esplicita della sostituzione dello Stato con «l’amministrazione delle cose»36. Sia Dante che Marx partono da Aristotele, ma finiscono per negare quell’assunto fondamentale della Politica secondo cui i rapporti tra gli esseri umani nella polis devono essere governati politicamente, non si può estendere l’amministrazione della casa (oikonomia) all’intera polis. Dante quindi deve essere inseparabile da Machiavelli nella nostra cultura, figlio di Dante non solo per il modello della romanità (fu il poeta a rovesciare il primo a rovesciare il giudizio complessivamente negativo del cristianesimo sulla romanità), ma anche nella sua opposizione a lui quale pensatore del conflitto, ineliminabile, e quindi da gestire politicamente.

A ragione, Costanzo Preve in Storia alternativa della filosofia ritiene Marx, e Heidegger per la critica della volontà di potenza, i maggiori critici della società occidentale, ma allo stesso tempo rileva che condividono entrambi un medesimo eurocentrismo che proviene da Hegel. Solo Lenin contribuì a «diminuire l’occidentalismo marxiano», per il suo antimperialismo che fu dovuto più che altro all’intuito politico di Lenin, anzi sia Marx che Engels furono complessivamente favorevoli all’imperialismo inglese.

Bisognerebbe ricostruire una teoria filosofica e politica adeguata al mondo multipolare che tenga conto della presenza di altre civiltà, che superi il radicatissimo eurocentrismo (oggi occidentalocentrismo), ma allo stesso tempo radicata nella nostra non trascurabile eredità culturale, che stiamo letteralmente buttando via.

Al suo tramonto, abbiamo della civiltà europea-occidentale due critiche radicali (nel senso marxiano, che intendono andare alla radice del problema).

La critica dell’oikonomia da parte di Marx che però resta nell’ambito dell’oikonomia (anche in questo molto affine a Dante). La sua teoria resta fondamentale per l’analisi del capitalismo, ma non ha strumenti per definire il ruolo nella storia dell’identità culturale (civiltà). Dalle civiltà storiche derivano le principali potenze che contendono l’egemonia mondiale statunitense.

La seconda, è una critica della civiltà occidentale, la critica della volontà di potenza, ovvero il paradigma su cui viene a fondarsi la civiltà occidentale che si origina dalla «metafisica» di Platone, si estende dal cristianesimo, fino alla Tecnoscienza dei nostri giorni, trovando la massima espressione in Nietzsche. Assente la questione del rapporto con le altre civiltà, tale critica riguarda la salvezza della civiltà occidentale, che per un certo periodo coincide con l’egemonia mondiale della Germania, per poi lasciare spazio al pessimismo filosofico: «Non c’è più niente da fare, solo un Dio ci può salvare»

Il giovane filosofo Diego Fusaro37, nel libro La notte del mondo, ha cercato ciò che unisce Marx e HeideggerEcco, io vedo, andando all’indietro, una loro congiunzione in Dante. All’alba del mondo moderno, egli vede un’unica cupidigia, di ricchezze (il comportamento dell’avaro diventato norma sociale), di conoscenza, espressione dalla volontà di potenza di Ulisse, di potere (regnanti e papi), nell’imperialismo di Firenze mosso dalla sola cupidigia di ricchezze. Sì, Dante ha una cognizione dell’imperialismo, che nel marxismo verrà dopo Marx.

La visione dantesca sa contenere in sé sia la dimensione culturale, filosofica e religiosa sia la cruciale questione del sorgere dell’oikonomia.

In conclusione, ecco perché l’invettiva contro Firenze si trova in apertura del «Canto di Ulisse». La cupidigia o volontà di potenza unisce Firenze e Ulisse, cupidigia di cui quest’ultimo è espressione intellettuale. Il viaggio di Ulisse avviene all’insegna del «maladetto fiore», la logica con cui Ulisse compie il suo viaggio è la stessa dell’«avaro maladetto» che mira al «numero impossibile a giugnere». L’imperialismo fiorentino non è guidato dalla virtù romana, ma dalla brama illimitata di denaro e di possesso.

La filosofia dantesca è universalistica, la sua Monarchia è un impero universale. Possiamo dire che tutte le religioni e filosofie imperiali sono universalistiche, mirano per loro natura ad includere «tutti gli uomini», vale per il cattolicesimo, il cristianesimo ortodosso, l’islamismo, il liberalismo e il comunismo. Fu proprio per il suo indirizzo universalistico che il comunismo potè essere una sfida globale al liberalismo. Tuttavia, l’universalismo dantesco seppe contenere al suo interno il senso del limite. Le colonne d’Ercole sono un simbolo nato dall’antico limite naturale della civiltà greco-romana, prettamente mediterranea. Limite che i Greci varcarono con Alessandro Magno (uno dei volti di Ulisse, come abbiamo visto nella parte precedente) le cui conquiste segnarono la fine della civiltà greca, la cui eredità fu raccolta e salvata dai romani, i quali invece nel complesso, fra alterne vicende, convissero seppur in modo conflittuale, con l’impero partico. Con la modernità questo limite «naturale» è scomparso, ma ne è sorto uno nuovo nella presenza di altre civiltà dotate di armi atomiche. Dobbiamo imparare a riconoscere questo limite, se vogliamo con-vivere con le altre civiltà della Terra.

Ha davvero qualcosa di prodigioso la figura di Ulisse, in cui Dante ha saputo racchiudere e presentire tutto uno sviluppo successivo, reso possibile dalle scoperte geografiche e scientifiche, dall’espansione economica e imperialistica (contrapposta alla prassi imperiale di Roma). Ora che Ulisse, l’uomo occidentale, è giunto al limite estremo, deve decidere se proseguire nella rotta che lo porta al «mondo sanza gente», oppure ritornare a Itaca per rimettere ordine nella sua patria.

1« … è vero quanto notava Gorni: “l’Inferno dantesco è popolato di personaggi che recano il segno trino di una divinità negata”, a cominciare dalle tre fiere; dal ricordato Cerbero che con le tre teste che caninamente latrano e gli altri suoi tratti è la prima impressionante ‘figura’ di Lucifero, e proprio come lui è definito «il gran vermo» (Inf. VI, 22, e XXXIV, 108); da Gerione che al corpo umano aggiunge quello di leone, serpente e scorpione… tutti animali, dunque, variamente connotati della mostruosità alla quale apertamente si riallaccia Lucifero con quella cresta da drago alla quale convergono, al sommo della testa, le sue tre facce. Quanto al loro significato, ancora oggi può ben valere quanto chiosava Pietro di Dante: “ut in Deo est potentia, sapientia, et amor summus, sic in isto per oppositum est impotentia, ignorantia, et odium summum: et haec tria in tribus ejus capitibus significantur”» Enrico Fenzi, Lucifero, Academia.edu

2Giovanni Pascoli, Sotto il velame. Saggio di un’interpretazione generale del poema sacro. e-book

3V. voce Avaro, Enciclopedia Dantesca Treccani online

4Cfr. Gianfranco Contini, Dante come personaggio-poeta della “Commedia”. In Varianti e altra linguistica, Torino: Einaudi, 1970

5V. voce Superbia e superbi, in Enciclopedia dantesca Treccani online

6Per questo non c’è contraddizione tra la confessione a Beatrice della propria cupidigia e la confessione della propria superbia in Purg 13, 136-38

7Maria Gabriella Riccobono, Portar nel tempio le cupide vele, Academia.edu

8«Sulla base della notissima sentenza paolina “radix enim omnium malorum est cupiditas” (Tim 6, 10), l’avarizia, intesa in senso generale, ovvero, con Tommaso, come ogni desiderio smodato di ottenere qualsiasi cosa: “nomen avaritiae ampliatum est ad omnem immoderatum appetitum habendi quamcumque rem” (ST II-II, q. 118, a. 2co), oppure, con Agostino, come desiderio di possesso per amore di se e della propria eccellenza: “si avaritiam generalem intellegamus, qua quisque appetit aliquid amplius quam oportet, propter excellentiam suam, et quemdam propriae rei amorem”, diviene nel medioevo il principale peccato della cristianita, arrivando ad includere, assieme all’attaccamento ai beni materiali, anche la brama di potere, di onori e di sapere, e contendendo cosi alla superbia il primato di massimo vizio del settenario, come spiega ancora Tommaso sulla scorta della stessa sentenza paolina: “sic enim ex amore rerum temporalium omne peccatum procedit” (ST I-II, q. 84, a. 1). In quanto tale, l’avarizia, che e esecrata gia nelle Scritture come una vera e propria forma di idolatria, risulta essere “il vizio di cui si e scritto di piu per tutto il Medioevo”. Che la cupidigia domini il mondo non e dunque convinzione del solo Dante, che nel vizio incarnato dalla lupa pure riconosce nel canto proemiale la principale causa di perdizione dell’umanita, e quindi lo maledice, in quanto tale, non solo nella Commedia (al “maladetto lupo” del v. 8 si aggiunga la gia ricordata invettiva di Purg. XX, 10-12: “Maladetta sie tu, antica lupa / che piu di tutte l’altre bestie hai preda / per la tua fame sanza fine cupa!”), ma con pari veemenza gia nella canzone Doglia mi reca (vv. 78-80: “Maladetta tua culla… maladetto lo tuo perduto pane…”) e nella circostanziata analisi del vizio del Convivio (Conv. IV, xv, 8-9) “e in questo errore cade l’avaro maledetto…”».

Roberto Rea, La paura della lupa e le forme dell’ira (lettura di Inferno VII, Academia.edu

9«Cupidigia is a “super-vice”: an unbridled desire that is a composite of three of the sins of incontinence; it embraces excess desire for carnal pleasure, excess desire for food, and excess desire for money, honors, and advancement.» https://digitaldante.columbia.edu/dante/divine-comedy/inferno/inferno-12/

10Paolo Falzone, Dante e il mondo animale, Academia.edu

11Teodolinda Barolini, Multiculturalismo medievale e teologia dell’inferno dantesco, Dante: Rivista internazionale di studi su Dante Alighieri, Vol. 2 (2005)

12Teodolinda Barolini, Ora parrà di Guittone, Doglia mi reca di Dante e l’anatomia del desiderio nella Commedia, Academia.edu

13«Credo sia proprio questo il significato della lonza: l’oro, la ricchezza, e non la lussuria. Anche perché l’apparizione successiva dei tre animali sta ad indicare, oltre la gerarchica già considerata, un rapporto di causalità -Gorni (1995: 23-55), le cui preziose osservazioni tengo molto presenti, a questo proposito parla di metamorfosi della “bestia”-, e non vedo la relazione tra lussuria (almeno che non sia intesa nel suo significato latino di ‘vita lussuosa’) e il significato attribuito al leone (superbia) e alla lupa (cupidigia): la lussuria non genera superbia e non ha niente a che vedere con la cupidigia. Sì invece le ricchezze, dalle quali nasce la superbia: “ex divitiis nascitur superbia” (Alain de Lille: vox dives) e la cupidigia (cfr. Pg. XXII, 40-41: “Perché non reggi tu, o sacra fame / de l’oro, l’appetito de’ mortali?”), se si considera che è “un desiderio disordinato di possedere ricchezze” (S. Theol. II-II C.118 a.2), ma -come si è visto sopra- in un senso ampio era definita pure come un desiderio smisurato, non soltanto di danaro, ma anche di scienza (ibid.)».Carlos López Cortezo, Le promesse della filosofia. Analisi del proemio della Commedia, Academia.edu

14Per una buona e dettagliata discussione del rapporto tra Dante e il proto-capitalismo fiorentino v. Francis R. Hittinger, Dante as Critic of Medieval Political Economy in Convivio and Monarchia, https://academiccommons.columbia.edu/doi/10.7916/D87P962W/download

15E. Fenzi, Tra etica del dono e accumulazione. Note di lettura a Doglia mi reca ne lo core ardire, in Id., Le canzoni di Dante. Interpretazioni e letture, Le Lettere, Firenze 2017

16 Marx, K., Il capitale, Roma, Editori Riuniti, I, 1, p. 164.

17Vittorio Sermonti, Il purgatorio di Dante, Garzanti 2021, e-book

18«Agostino nel De libero arbitrio aveva cercato, senza grande successo, di risolvere il contrasto tra Vecchio (Ecclesiastico) e Nuovo Testamento (San Paolo) in modo diretto, attraverso una dilatazione, un allargamento del concetto di avarizia. Definendo quest’ultima come desiderio smodato e disordinato di ogni cosa (non necessariamente di solo denaro), Agostino interpreta la celebre frase di San Paolo come a significare la forza del bramare, e non tanto l’oggetto del desiderio (avarus, infatti, da aveo, è l’avido – non importa di che cosa). Lucifero cade per avarizia; non però per amore del denaro, bensì del potere. È questo un punto che verrà confermato successivamente da Gregorio Magno: «L’avarizia ha a che fare non solo col denaro ma anche con le alte posizioni; giustamente si parla di avarizia quando il prestigio è ricercato oltre misura». (Si tenga presente che era stato Girolamo a tradurre con cupiditas, da cui avaritia, il termine greco philargyria, che propriamente sta per “amore del denaro”. Come vedremo, tale slittamento semantico sarà poi all’origine di non poche incomprensioni ed equivoci).
Va da sé che dilatando in tal modo la nozione di avarizia, essa finisce con il coincidere di fatto con la superbia, che è appunto la ricerca ossessiva delle «alte posizioni». È per questo che il tentativo di mediazione operato da Agostino non avrà successo: esso non accontenta pienamente nessuno e soprattutto non è funzionale alle esigenze di stabilità dell’ordine sociale dell’epoca.»

Stefano Zamagni, AvariziaLa passione dell’avere. I 7 vizi capitali, Il Mulino, 2009, p. 15

«La superbia fu l’origine di tutti i mali; l’orgoglio di Lucifero fu il principio e la causa di ogni rovina. Questa era la visione di Agostino e tale rimase la concezione dei posteri: l’orgoglio è la fonte di tutti i peccati, che crescono da esso come il tronco dalla radice. Tuttavia accanto al passo biblico, che confermava questa opinione: “A superbia initium sumpsit omnis perditio”, ve n’era un altro: “Radix omnium malorum est cupiditas”. Pertanto si poteva considerare anche l’avidità come la radice di tutti i mali, poiché per “cupiditas”, che come tale non si trova nella serie dei peccati capitali, si intendeva qui “avaritia”, come era riferito anche in un’altra lezione del testo. E sembra che, soprattutto dal XIII secolo in poi, la convinzione che sia l’avidità sfrenata a corrompere il mondo scacci l’orgoglio dal suo posto di primo e più fatale dei peccati nel giudizio delle genti. L’antico primato teologico della superbia viene scalzato dal sempre più forte coro di voci che attribuiscono tutti i guai dei tempi alla sempre crescente avidità. Come l’ha maledetta Dante: la cieca cupidigia!»

Johan Huizinga L’autunno del medioevo, Roma, Newton Compton, 1992, p. 46

19E. Fenzi, Tra etica del dono e accumulazione, cit

20 « … lo scopo costituisce il fine, il quale è tale che non è in vista di un altro scopo, ma le altre cose sono in vista di esso, sicché, se c’è un fine ultimo, non si andrà all’infinito; ma se non c’è nessun fine ultimo, non ci sarà lo scopo. Coloro i quali ammettono l’infinito non si rendono conto che eliminano anche la natura del bene: eppure nessuno tenterebbe di fare nulla, se non avesse la prospettiva di pervenire a un limite. E non esisterebbe neppure intelligenza, perché chi ha intelletto agisce sempre in vista di qualche cosa, e questo è un limite: il fine infatti è un limite.
Ma non è neppure possibile ricondurre la definizione dell’essenza sostanziale a una definizione via via più dettagliata, perché il titolo maggiore di definizione ce l’ha la prima, nella serie che si otterrebbe, e non l’ultima, e se 20 non è definizione la prima, non lo è neppure la successiva. Inoltre coloro che sostengono questa dottrina eliminano anche il sapere scientifico, perché non è possibile conoscere prima di essere arrivati ai termini indivisibili. E non sarà possibile neppure la conoscenza, perché come è possibile pensare cose infinite in questo senso? Diverso è il caso della linea, che può essere divisa indefinitamente, ma che non può essere pensata, se non si arresta la divisione (e perciò non può contare le operazioni di divisione chi le prosegue all’infinito); ma è necessario pensare anche la materia in una cosa che si muove. E non può esistere nulla d’infinito: se esistesse non sarebbe infinito l’essere dell’infinito.
E non sarebbe possibile il conoscere neppure se le specie delle cause fossero di numero infinito, perché crediamo di conoscere soltanto quando conosciamo ciò che è causa; e non è possibile percorrere in un tempo finito ciò cui si possono aggiungere parti all’infinito». Metafisica II 2, ed. Utet, 2013

21Bruno Nardi, Dal convivio alla commedia, cit. p. 74

22«Niente di finito può quietare il desiderio dell’intelletto. E lo dimostra il fatto che l’intelletto, data una qualsiasi cosa finita, escogita qualche cosa che la sorpassa: data, p. es., una qualsiasi linea finita, può concepirne una più estesa; e lo stesso si dica dei numeri. Questa è appunto la ragione dell’infinita addizionalità dei numeri e delle linee geometriche. Ora, l’altezza e la virtù di qualunque sostanza creata è finita. Quindi l’intelletto delle sostanze separate non si acquieta per il fatto che conosce delle sostanze create, per quanto eminenti, ma col desiderio naturale tende a conoscere una sostanza di dignità infinita, quale è appunto la sostanza divina». Somma contra gentili, III, 50, ed. UTET, 1997

23: «His men, his “brothers,” now show their real relationship to Ulysses: it is an instrumental one. They are his oars». R. Hollander (Ed.), Dante Alighieri, Inferno, New York, 2002, p. 493

24Teodolinda Barolini, Multiculturalismo medievale … cit.

25«Questo dissidio tra due affermazioni, una apertamente mistica, l’altra tendenzialmente razionalistica, dissidio che riflette il carattere della cultura dantista nel Convivio, formata di elementi filosofici frammisti a elementi teologici, non ancora ben fusi tra loro, anzi spesso discordanti gli uni dagli altri, ucciderà la donna gentile come simbolo unitario della Filosofia, e condurrà, nella Monarchia, a una netta separazione della filosofia umana dalla dottrina rivelata.» B. Nardi, Nel mondo di Dante, cit. p. 228

26«Nella Commedia la prospettiva di Convivio, III, 15 è dunque ribaltata. Il desiderio naturale di sapere — diceva il trattato — deve poter conseguire già in questa vita la sua completa realizzazione, altrimenti sarebbe una potenza vana; ancorché naturale, il desiderio di sapere — afferma invece la terzina del Purgatorio — è recato all’atto da un agente sovrannaturale (la grazia): o in questa vita per speciale privilegio concesso da Dio (ed è in fondo il caso che Dante immagina per sé) o nella vita futura, allorché l’uomo che avrà ben meritato sarà ammesso a godere della visione beatifica. Tanto la tesi del Convivio si discosta da quella tomasiana, quanto il senso di questi versi le è invece omogeneo, sicché non sembra improprio sostenere, con Nardi (attraverso Tommaso), che nella Commedia «mortalis ista felicitas (…) ad immortalem felicitatem ordinatur».» P. Falzone, Desiderio della scienza …, cit. p. 251

27«Non è evidente che, esemplare perfetto dell’umano desiderio di sapere, e perciò della scienza e della connessa virtù, da quello, dal desiderio che lo possedeva e lo assoggettava a sé come al suo proprio destino, il personaggio era (se l’espressione non appaia enfatica) insieme condannato e, in senso specifico, salvato? Era salvato dalla forza medesima che lo condannava e che, per la sua irresistibilità, lo rendeva innocente. Era dannato perché, in questa peculiare situazione, innocente com’era nel prestare ascolto alla voce che lo soggiogava, da questa era spinto verso il luogo della sua catastrofe dove, “perduto” , scomparve.» Gennaro Sasso, Ulisse e il desiderio: Il canto XXVI dell’Inferno, Viella, 2011, p. 64

28K. Marx, Il capitale, cit. p. 185

29«Secondo Hegel, i Greci hanno “ad un tempo animato ed onorato il finito”. Animare il finito significa ovviamente rinunciare al concetto biblico-cristiano di creazione, e riconoscere al finito la capacità potenziale di automovimento e di direzione verso la propria finalità che il finito stesso contiene in sé (dynamei on). Onorare il finito significa cercare la perfezione non in un infinito smisurato ed indeterminato (apeiron, aoriston), ma proprio nel finito stesso, che è perfetto proprio perché è finito

Costanzo Preve, Per una storia alternativa della filosofia, Petite Plaisance, 2013, p. 155

30«Era in anticipo sui tempi, il progetto dei Vivaldi? Ma lo stretto di Gibilterra era stato già violato, e con successo. Non alludiamo semplicemente alla rotta in direzione nord, testimoniata da Brunetto Latini in un disteso passo del Tesoretto (vv. 1043-1062), che spira la superiore serenità dell’uomo colto. È persino arguto, Brunetto: le Colonne d’Ercole, ci assicura, sono state varcate, dopo la morte del semidio, da gruppi desiderosi di nuovi stanziamenti, che sono «oltre passati, / sì che sono abitati / di là in bel paese / e ricco per le spese». Dovrebbe essere, questa fiorente contrada, la Gran Bretagna. Evidentemente, risalire l’Atlantico alla volta di spiagge settentrionali non era, nella percezione del tempo, la violazione di un tabù. Lo era invece cercare, al di là delle Colonne, le sconosciute acque meridionali, le rive misteriose dell’Africa? Neanche la direzione sud, in verità, rimaneva vergine, la marineria italiana aveva preso a sondarla. Tant’è: nel 1291, la costa atlantica del Marocco veniva stabilmente vigilata da una flotta in armi agli ordini di un ammiraglio genovese. Lo scorcio finale del XIII secolo, insomma, schiudeva possibilità piuttosto che incentivare timori: la navigazione oceanica poteva apparire praticabile in ogni senso, almeno a ridosso di masse continentali; e, se praticabile, anche lecita. »
S. Cristaldi, Il richiamo del lontano, cit. p. 269

31Cfr. Mario Trovato, Il contrapasso nell’ottava bolgia, Dante Studies, No. 94 (1976)

32«La volontà umana “ha bisogno di una meta — e preferisce volere il nulla piuttosto che non volere” [Nietzsche]. Infatti la volontà, in quanto volontà di potenza, è: potenza di potenza, o, come possiamo dire ugualmente bene, volontà di volontà, volontà di rimanere al di sopra e di poter comandare. Non è il nulla ciò di fronte a cui la volontà indietreggia spaventata, ma il non volere, l’annientamento della sua propria possibilità essenziale. L’orrore del vuoto del non volere — questo « horror vacui » — è il “fatto fondamentale della volontà umana”. E proprio da questo «fatto fondamentale » della volontà umana, cioè che essa preferisce essere volontà del nulla piuttosto che non volere, Nietzsche ricava la prova della sua tesi che la volontà è, nella sua essenza, volontà di potenza.

La volontà in quanto volontà di volontà, è volontà di potenza nel senso dell’autorizzazione alla potenza». In quanto existentia essa sarebbe rappresentata dall’eterno ritorno dell’identico: “Poiché vuole l’ultrapotenziamento di se stessa, la volontà non si acquieta a nessun livello di vita, per elevato che sia. La volontà esercita la potenza nell’oltrepassamento del suo stesso volere. Essa ritorna costantemente a se stessa come uguale a se stessa”» .

M. Heidegger, La sentenza di Nietzsche “Dio è morto”, in Sentieri interrotti, tr. it. di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 218

« …che cosa intende Nietzsche stesso con il termine « volontà di potenza »? Che cosa significa volontà? Che cosa significa volontà di potenza? Queste due domande sono per Nietzsche un’unica domanda; infatti per lui la volontà non è altro che volontà di potenza, e la potenza non è altro che l’essenza della volontà. La volontà di potenza è allora volontà di volontà, cioè volere è volere se stesso. »

Heidegger, Nietzsche, Adelphi, 1994, p. 49

«Per che cosa si lotti è, pensato e auspicato come fine con un contenuto particolare, sempre di importanza secondaria. Tutti i fini della lotta e le grida di battaglia sono sempre e solo strumenti di lotta. Per che cosa si lotti è già deciso in anticipo: è la potenza stessa che non ha bisogno di fini. Essa è senza-fini, così come l’insieme dell’ente privo-di-valore. Questa mancanza-di-fini fa parte dell’essenza metafisica della potenza. Se mai qui si può parlare di un fine, questo fine è la mancanza di fini dell’incondizionato dominio dell’uomo sulla terra. L’uomo di questo dominio è il super-uomo (Uber-Mensch). (Ivi, p. 638).

33Ivi, p. 409

34G. Agamben, Il regno e la gloria, cit, p. 72

35La filosofia futura, Rizzoli, 1989 p. 69

36Al posto del governo sulle persone appare l’amministrazione delle cose e la direzione dei processi produttivi. Lo Stato non viene “abolito”: esso si estingue» (Engels, Antiduhring)

37 Riporto questo passo che maggiormente riguarda le questioni da me trattate:
«Sia che lo si chiami kapitalistische Produktionsweise, secondo la definizione di Marx metabolizzata dai suoi eterodossi allievi del Novecento, sia che lo si etichetti come Technik, in accordo con il lessico di Heidegger e dei suoi epigoni, il sistema della produzione mondializzata, nella sua anonima autoreferenzialità di un minaccioso dispositivo che signoreggia gli uomini, presenta una dinamica di sviluppo illimitata e illimitabile: marxianamente, il capitale persegue il telos del proprio incremento smisurato, proprio come, heideggerianamente, la tecnica rincorre lo scopo del proprio irrelato e insensato autopotenziamento, in una cornice di mero nichilismo antiumanistico, in cui il mercato diventa il solo valore direttivo.»

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Il paradigma machiavelliano. Per la definizione di una teoria politica non ideologica, di Gennaro Scala

Fu la lettura del saggio di Marco Geuna Machiavelli e il ruolo dei conflitti nella vita politica (2005), circa 4 o 5 anni fa, a mettermi sulla traccia di un percorso di ricerca che successivamente mi ha associato alla scoperta del «continente teorico» (per usare le parole di Luca Baccelli) del «repubblicanesimo», un continente ormai esplorato teoricamente da vari decenni, ma non ancora abitato politicamente. La fertilità di questo continente apparirà in tutta la sua potenzialità soltanto se pensiamo radicalmente, se «andiamo alla radice dei problemi».

Ritengo che il repubblicanesimo possa diventare, da corrente teorica confinata all’ambito accademico, un utile strumento per iniziare a definire una nuova teoria politica per gli emergenti movimenti, più emergenti che compiutamente formati, cosiddetti «populisti» (un epiteto con cui si vorrebbe stigmatizzare un’istanza sostanzialmente democratica). È senso comune ormai ritenere che il discredito raggiunto dai partiti politici sorti nell’ambito dello stato moderno sia radicale e definitivo. I partiti politici esistenti non sono in grado, e non ne hanno nessuna intenzione, di affrontare i problemi che assillano la maggior parte delle società odierne. Vedremo in che senso il paradigma machiavelliano può essere utile per affrontare un radicale ripensamento della politica necessario per far fronte alla crisi radicale a cui ci troviamo di fronte. E questo mio scritto vuole essere un modesto quanto iniziale contributo in tal senso.

L’epoca delle ideologie, delle visioni del mondo complessive, una patologia europea del secolo scorso, è tramontata. Machiavelli a distanza di cinque secoli può essere letto con profitto, ma il suo repubblicanesimo non dovrebbe essere considerato un’ideologia, ma un paradigma che configura una teoria politica diversa rispetto alle altre teorie politiche. Tanto più che i repubblicani, sul piano puramente nominale, in Italia ci sono già già stati (un ormai scomparso partito liberale non di massa della «I repubblica» che aveva le sue radici nella storia dell’unità d’Italia), e attualmente sono uno dei due maggiori partiti degli Stati Uniti. Anche per evitare questi equivoci preferisco parlare di paradigma machiavelliano.

Com’è noto, Machiavelli è l’autore più politico dell’intera storia del pensiero occidentale: non confonde la politica con la religione, ma nemmeno con la filosofia o con l’etica. Non per questo è immorale, privo di fini etici secondo quella che è stata una diffamazione secolare. Esiste una specifica moralità della politica che è diversa dalla morale dei rapporti intersoggettivi. Il fine della politica è di mantenere la «repubblica bene ordinata», e a questo scopo è lecito usare la violenza, se necessario, perché il male che ne risulterebbe in caso di disgregazione della collettività, cioè disordine e maggiore violenza, è minore rispetto alle violenze a cui si può essere costretti per mantenere un determinato assetto politico. Come ha chiarito definitivamente Isaiah Berlin, Machiavelli non «separa la morale dalla politica», nel senso che la politica sarebbe priva di fini etici, piuttosto ha una morale diversa rispetto a quella cristiana che ha informato l’intero pensiero moderno, secondo la quale l’individuo ha la preminenza, ma è invece quella antica secondo la quale l’insieme è prioritario rispetto al singolo, la salvezza della città è più importante della salvezza dell’anima. Machiavelli pur non mancando di fini morali (la «repubblica bene ordinata» in cui gli uomini possano vivere liberi) non confonde i piani, voler subordinare l’etica, la religione, la cultura, la filosofia, l’arte ai fini politici è l’essenza della ideologia, che finisce per cancellare qualsiasi piano culturale comune al di là dei conflitti che necessariamente attraversano le relazioni umane. Il concetto marxiano di ideologia partiva da un dato di fatto: l’arte, il diritto, la filosofia, la morale dominante, la religione, persino la ricerca scientifica riflettono i conflitti del loro tempo, ma questo non vuol dire che sono pura espressione di «classe», che i romanzi di Balzac (che Marx tanto apprezzava), espressione sicuramente di un certo mondo borghese, non possano interessare i «proletari».

Il fine della politica è un fine necessariamente particolare che riguarda i conflitti tra gli esseri umani, quindi non può innalzarsi a visione generale. Chi è alla ricerca di una visione del mondo non deve rivolgersi alla politica, ma all’arte, alla filosofia, alla religione, all’insieme del cultura del proprio tempo e di quello passato. Ma proprio perché l’individualismo su cui si regge la società moderna distruggeva ogni presupposto di una cultura comune ci si rivolse alle ideologie nella ricerca di una patria spirituale, ma il rimedio fu peggiore del male.

Se oggi continuiamo a leggere Marx, Hegel, Nietzsche, Heidegger è perché nonostante una loro precisa collocazione nei conflitti del loro tempo, e nonostante il loro essere immersi nell’ideologismo del loro tempo, le loro riflessioni superavano questo fatto contingente per toccare questioni che riguardano tutti. Uno studioso non è tale se non tocca questo livello comune, altrimenti è un puro e semplice propagandista destinato ad essere dimenticato. Nel suo tener fermo alla questione politica Machiavelli è un pensatore anti-ideologico, un salutare correttivo rispetto all’ideologismo del secolo scorso. Se si trasforma la lotta politica in una lotta ideologica, simile alle lotte di religione, il conflitto politico mira necessariamente alla conversione o al non riconoscimento come interlocutore e tendenzialmente all’annientamento di chi non condivide la propria ideologia. Quando una società si divide in gruppi impegnati in una lotta ideologica questa è una società che è destinata al declino, e sottoposta all’influenza determinante di altre società che possono manipolare queste contrapposizioni.

Dopo il «crollo del muro» nessuno più crede ad una delle ideologie concorrenti del liberalismo, il comunismo, mentre per quanto riguarda quella particolare declinazione del nazionalismo che furono il fascismo e il nazismo, la questione fu chiusa con la II guerra mondiale. Oggi esiste una solo grande ideologia, il liberalismo, che non si presenta più come tale, ma come una sorta di senso comune che ogni gruppo politico che vuole avere un ruolo non può non professare. In tale «liberal consensus» che è sempre stato dominante negli Usa, che non hanno avuto movimento nazionalisti e socialisti paragonabili a quelli europei, mentre nelle nazioni europee si è venuto affermando dopo «il crollo del muro», e mentre già negli anni settanta già si iniziava a sperimentare il cosiddetto neo-liberismo in Cile, fece discutere la scoperta del «repubblicanesimo» da parte di John Greville Agard Pocock in The Machiavellian Moment portava alla luce un filone di pensiero «sommerso» che parte dal pensiero comunale repubblicano comunale italiano e che ebbe come massimo esponente Machiavelli, e passa per i pensatori inglesi della prima rivoluzione inglese (principalmente Harrington), fino ai rivoluzionari americani. Il «repubblicanesimo» metteva radicalmente in discussione il «liberal consensus», una storia del pensiero politico statunitense che vedeva «Locke e poco altro», ma non riguardava solo tale contesto, ma il modo in cui guardiamo all’insieme delle dottrine politiche moderne occidentali.

La rilettura della storia del pensiero politico «occidentale» nasceva da un disagio, se così vogliamo chiamarlo, nei confronti di tale paradigma liberale dominante e da un’insoddisfazione per la «democrazia liberale» (come recitava il titolo di un libro di Michael J. Sandel, Democracy and its discontents). In questo modo però si dava per buono il concetto che ciò che la «democrazia liberale» sia davvero tale. Il repubblicanesimo machiavelliano, tra le altre cose, è utile per evidenziare la moderna distorsione del concetto di democrazia, che secondo il significato etimologico significa pur sempre potere del popolo. Particolarmente ostico per la mentalità indivualistica moderna che si ritiene sommamente «libera e democratica» confrontarsi con l’ideale della democrazia antica basata sul cittadino-soldato. Scrive Pocock:

«È proprio l’Arte della guerra [di Machiavelli] a fornirci il quadro preciso delle caratteristiche morali ed economiche del cittadino-soldato. Costui, infatti, per nutrire il dovuto interesse per il pubblico bene, deve possedere una famiglia e avere un’occupazione che non sia quella delle armi . Il criterio qui applicato è identico a quello cui doveva corrispondere il cittadino di Aristotele, che deve, anche lui, avere una sua famiglia da reggere e guidare per non essere servo di alcuno e per poter e conseguire di persona e con le proprie forze il bene, imparando cosí ad avvertire il rapporto che il suo bene particolare ha con il bene generale della polis». 1

Grazie alla sottolineatura della continuità del pensiero repubblicano comunale con il pensiero classico greco, principalmente quello aristotelico, in un primo momento il repubblicanesimo è stato visto come una variante del comunitarismo. Ma se è vero che Machiavelli condivide l’ideale classico della democrazia antica è pur vero che aggiunge qualcosa in più rispetto al pensiero classico che costituisce il suo contributo specifico alla storia del pensiero politico.

Con la critica dell’eccessivo avvicinamento del repubblicanesimo al comunitarismo, che rischiava di far scolorire il profilo autonomo del primo, studiosi come Quentin Skinner si sono affermati nella discussione internazionale sul repubblicanesimo (discussione soprattutto di carattere accademico). Come scrive Geuna, «Skinner cerca di dare un profilo autonomo al repubblicanesimo, sottraendolo all’abbraccio di aristotelici vecchi e nuovi . A suo giudizio, il repubblicanesimo non è una forma di politica aristotelica … Per dimostrare questo, mette in luce come nel pensiero di Machiavelli, e dei repubblicani che a lui si rifanno, non ricorrano alcuni assunti tipicamente aristotelici: l’uomo, innanzitutto, non è presentato come un animal politicum et sociale, per usare l’espressione tomistica, ma come un essere esposto alla “corruzione”, un essere che tende a trascurare i suoi doveri verso la collettività»2.

Per separare il repubblicanesimo dall’ «aristotelismo» (comunitarismo) si è individuata una componente «romana» (Skinner ha adottato la definizione «repubblicanesimo romano» avanzata da Philip Pettit), ma è stata un’operazione teoricamente poco convincente. «L’enfasi sul fatto che la tradizione repubblicana sia una tradizione esclusivamente romana, per origini e caratteri di fondo, lascia più di un dubbio: quasi che l’esperienza politica e culturale di Roma sia avvenuta senza alcun legame con quella greca, quasi che Cicerone nel redigere le sue opere non abbia avuto dei precisi modelli, primo fra tutti Platone»3. Condivisibile è il proposito di differenziare il repubblicanesimo dal comunitarismo, si tratta in effetti di dottrine diverse, senza però creare una netta separazione (ignorando i legami che pur ci sono), operazione che consente a Skinner e Pettit di riavvicinarlo al liberalismo, annacquando il carattere di alternativa teorica del repubblicanesimo.

Per i greci e i romani la libertà individuale si identifica con quella collettiva: il singolo partecipando alla determinazione dei fini collettivi si considerava libero. Nel pensiero comunale e poi nel Rinascimento si fa strada una maggiore individualizzazione, tuttavia la libertà non è ancora vista come esclusivamente individuale, divergente dai fini collettivi, come sarà poi nel liberalismo. Se è vero che la libertà è un concetto fondamentale per il pensiero comunale e rinascimentale, e certo Machiavelli conosceva i versi di Dante «Libertà va cercando che è si cara», altrettanto vero è che la libertà di Machiavelli non è quella di Hobbes o di Locke, è una libertà che comprende anche la «libertà degli antichi», è, se vogliamo dirlo con il Faust di Goehte, il «vivere libero con un popolo libero». Che si tratti di libertà come «non interferenza» (liberalismo) o di libertà come «non dominio» (repubblicanesimo come inteso da Skinner e Pettit), il fine principale è sempre la libertà dell’individuo, mentre per Machiavelli, com’è noto, la salvezza della città è prioritaria rispetto alla salvezza dell’individuo. L’«urbanizzazione» (come l’ha definita Geuna) del repubblicanesimo operata da Skinner e Pettit a me pare piuttosto una compatibilizzazione con il paradigma liberale ancora dominante. Quindi, pur condividendo il proposito di differenziare il repubblicaneismo dal comunitarismo, non condivido questo avvicinamento opposto al liberalismo. Pocock resta molto più interessante nel mettere in luce tutti gli aspetti in cui il repubblicanesimo che nasce da Machiavelli cozza contro la mentalità individualista moderna.

Machiavelli è più vicino a noi rispetto ad Aristotele non solo in senso temporale, pur perseguendo un fine «comunitario» (Machiavelli si considerò sempre un patriota, disse che bisogna amare la propria patria anche quando da questa si un cattivo trattamento4), lo fa tenendo conto della divisione in classi, mentre invece il comunitarismo può significare imporre un «patriottismo», la ricerca di un’unità sociale, che alla fine non può che essere velleitaria oltre che autoritaria, in quanto prescinde dalla mancanza di volontà delle classi superiori di integrare le classi popolari nella società. Mentre si persegue deliberatamente la precarizzazione, demolendo le conquiste del movimento operaio del secolo scorso, al fine di una esclusione delle classi non dominanti, non si può pretendere che si sentano partecipi di una società che le esclude. Machiavelli è più vicino a noi perché prendeva atto del fatto che nella società esistono due «umori diversi», e l’arte della politica consisteva nel far in modo che la conflittualità che ne scaturiva fosse fonte di dinamismo e non di disgregazione. Per quanto riguarda un comunitarismo, anch’esso aristotelico, che tiene conto della divisione in classi, abbiamo un comunitarismo abbastanza unico nel panorama teorico internazionale come quello di Costanzo Preve, per il quale la comunità si può realizzare attraverso il comunismo di Marx, cioè attraverso l’abolizione delle classi, ma tale comunitarismo oggi, dopo la passata esperienza storica, si può conservare solo come utopia, o nei termini dell’ideale regolativo kantiano, come ebbe a riformulare l’ideale comunista Costanzo Preve negli ultimi anni della sua vita.

Per quale motivo il repubblicanesimo è entrato a far parte delle storia delle «correnti sommerse» (Skinner) del pensiero umano? Diamo anche in questo caso la parola a Geuna «Qual è il senso di queste argomentazioni di Skinner? A che cosa mira questo suo lavoro di scavo? Anche in questo caso, si possono individuare due ordini di ragioni: ragioni di tipo storico e ragioni di tipo teorico. Ragioni di tipo storico, innanzitutto. Skinner è alla ricerca di spiegazioni persuasive del tramonto, della decadenza della teoria neo-romana . E effettivamente convinto che le critiche mosse alla teoria neo-romana della libertà, sul lungo periodo, abbiano contato . Menziona, a dire il vero, anche altri motivi, che non attengono al piano delle argomentazioni politiche, motivi di tipo sociale . E cioè il tramonto dell’ideale del gentiluomo indipendente, che tra Sei e Settecento aveva incarnato le aspirazioni di libertà e indipendenza dei teorici neo-romani. Ma le sue ragioni sono, ancora una volta, soprattutto di ordine teorico. Skinner intende difendere la teoria neo-romana da queste critiche. E’ convinto che queste critiche, per quanto importanti ed influenti, non si misurino con il cuore dell’argomentazione dei teorici neo-romani: con il loro modo complesso di pensare la costrizione, che assegna un ruolo di rilievo alla dipendenza. Nell’esporre e discutere le tesi dei pensatori liberali, Skinner ha dunque l’occasione per ribadire la sostanziale fondatezza, coerenza, e persuasività della teoria neo-romana»5.
Ma il repubblicanesimo machiavelliano non venne dimenticato perché soccombette alle critiche degli avversari. Federico Chabod ci fornisce una convincente esposizione dei «limiti» dell’analisi politica di Machiavelli, soprattutto per quanto riguarda la critica del «mercenarismo», cioè al suo «fissarsi» soltanto sulle questione di ordine militare, senza tenere conto delle questioni di ordine «economico». «E non s’avvedeva che proprio in quei tempi il mercenarismo militare diventava una necessità assoluta per i monarchi, volti a creare faticosamente gli Stati nazionali; e non sapeva intendere come, volendo dar loro i mezzi per trionfare delle resistenze feudali, de’ particolarismi di regioni o città, e ad un tempo per consentire l’inizio di una vera, grande politica di espansione europea, fosse necessario porre sotto gli ordini del capo del governo centrale un esercito che soltanto da lui dipendesse, da lui e dal suo tesoro, ed acquistasse, nella lunga consuetudine di una vita guerresca, la disciplina e la tecnica di battaglia necessarie per una vittoria … è superfluo mettere quindi in rilievo quanto sia errata l’affermazione di Machiavelli, che i denari non sono il nerbo della guerra, l’esperienza di quegli anni stava dimostrando proprio il contrario»6. E ciò si aggiunga la diffidenza di Machiavelli per le armi da fuoco che a suo parere non potevano sostituire la virtù.

Dunque Machiavelli non seppe vedere che il futuro apparteneva allo stato nazionale basato sulla concentrazione del potere coercitivo, nella creazione degli eserciti professionali e nello sviluppo della potenza economica atta a sostenerli. Ma Machiavelli aveva in mente uno ordinamento diverso basato sulla virtù del cittadino-soldato. Più adatta fu la teoria hobbesiana quale espressione teorica della concentrazione del potere statuale, presupposto necessario per creare quelle condizioni adatte allo sviluppo del commercio e dell’industria. In verità, Machiavelli pur cogliendo gli inizi un rivolgimento storico epocale, (la civiltà europea moderna nella fase della sua formazione) non credeva molto a ciò che stava nascendo che vedeva segnato fin dalla nascita dalla corruzione7. L’incoraggiamento della ricerca della ricchezza personale (a cui Machiavelli era contrario8 ), l’auri sacra fames, è stato il principale stimolo che ha alimentato una delle rivoluzioni tecnologiche più impressionanti dell’intera storia dell’umanità, a cui la civiltà europea si è trovata alla testa, ma che riesce a realizzare mettendo insieme le scoperte di tutte le altre civiltà (carta, polvere da sparo, sistema numerico decimale, per dirne solo alcune), conferendole un enorme vantaggio sulle altre grandi civiltà. La civiltà europea ha potuto puntare tutto sulla tecnica trascurando la virtù. La superiorità tecnica ha permesso alle società europee di superare le contraddizioni interne attraverso l’espansione coloniale e imperialistica, ed è esattamente l’opposto di quello sviluppo basato sul territorialismo a cui pensava Machiavelli rifacendosi all’esperienza di Roma.

Non è affatto «apparente»9 l’anti-imperialismo di Machiavelli, a meno di non trasformare l’anti-imperialismo in uno strumento del «politicamente corretto» con cui si condanna l’imperialismo altrui, mentre si persegue il proprio sventolando la bandiera dei diritti umani e della democrazia. Non è l’espansionismo in quanto tale ad essere imperialistico, ma un determinato tipo di espansionismo. Tutti gli stati moderni sono stati creati dall’espansionismo di una parte sull’altra che acquisisce la funzione di gruppo dominante. Il risultato finale di un anti-imperialismo basato sul concetto morale di autonomia sarebbe che ognuno dovrebbe starsene per sé. Tuttavia ci sono aggregazioni umane che lasciano uno spazio per vivere secondo i propri intendimenti e svilupparsi anche a chi è subordinato e aggregazioni basate su un dominio che tende al completo assoggettamento e controllo. Roma seguì il primo modello di dominio10 Il fascismo e il nazismo che si richiamavano per motivi propagandistici all’Impero romano seguirono il secondo. Lo sciovinismo razziale è l’antitesi della concezione imperiale romana, esso è piuttosto un prodotto dell’imperialismo europeo. Il razzialismo, poi elevato a ideologia ufficiale dal nazismo, non a caso è nato in Inghilterra. L’imperialismo vero e proprio è l’espansionismo senza limiti e senza confini che non crea un ordine, basato sulla ricerca dell’accumulazione potenzialmente illimitata di ricchezza. L’imperialismo europeo ha assoggettato e stravolto l’intero globo, ha costretto a cambiamenti radicali le altre civiltà, imponendo dappertutto il suo modello. L’imperialismo statunitense attualmente, dopo il «crollo del muro», mira alla distruzione di qualsiasi forma statuale al fine di stabilire il suo dominio mondiale. L’imperialismo europeo non ha mai creato un sistema stabile, ma ha prodotto delle «egemonie» che sono durate l’espace d’un matin rispetto all’Impero romano. Il regime finora più lungo, quello dell’egemonia britannica non è durato neanche un secolo (dalla sconfitta di Napoleone alla I guerra mondiale quando essa è già seriamente minata). Il regime statunitense sembra sulla strada di battere ogni altro «impero» (le virgolette sono d’obbligo) della storia per brevità di durata.

Per quale motivo gli stati europei non sono riusciti a costituire un sistema unitario, cioè un «impero» (tra virgolette perché a mio parere sarebbe possibile un sistema unitario di stati senza un imperatore) non può essere discusso adeguatamente in questo saggio. Dobbiamo accontentarci di riprendere alcune valutazioni di Victoria Tin-Bor Hui11: «Gli stati europei non impiegarono gli stratagemmi machiavelliani o stile-Qin l’uno contro l’altro, neanche Napoleone che “lesse avidamente e ammirò grandemente” Il Principe». Le valutazioni sul mancato impero europeo si basano su di un principio comparativo con lo sviluppo della Cina imperiale che meriterebbe di essere approfondito: «Gli europeisti credono che tale processo di formazione degli stati sia unicamente europeo e moderno. Ma le stesse dinamiche sono nel sistema dello zhongguo o stati centrali nella Cina antica»12. Possiamo dire che la politica di Napoleone fu più militaristica che strategica, motivo per cui non seppe creare un sistema di alleanze europee, come fece Roma. Non fu soltanto la mancanza dell’impiego della forza o dell’inganno, ma la mancanza soprattutto della capacità strategica che mostrarono i romani. Questo parallelo tra l’Europa moderna e la Cina antica è molto suggestivo ma data la mia scarsa conoscenza della storia cinese altro non saprei dire, mi limito a riportare un’osservazione di una certa importanza «Sun Tzu and e Fei sono talvolta chiamati i Machiavelli cinesi. Ma si potrebbe anche chiamare Machiavelli il Sun Tzu europeo»13. Rilievo ineccepibile in quanto Sun Tsu visse un millennio prima di Machiavelli. Vediamo come Machiavelli sintetizza la condotta strategica dei Romani: «Perché come ei cominciorono a uscire con gli eserciti di Italia, e ridurre i regni in provincie, e farsi suggetti color o che per essere consueti a vivere sotto i re non si curavano di esser e suggetti, ed avendo governatori romani ed essendo stati vinti da eserciti con il titolo romano, non riconoscevano per superiore altro che Roma . Di modo che quegli compagni di Roma che erano in Italia, si trovarono in un tratto cinti da’ sudditi romani ed oppressi da una grossissima città come era Roma; e quando ei s’avviddono dello inganno sotto il quale erano vissuti, non furono a tempo a rimediarvi».

Fu questo il principale stratagemma con cui Roma costituì il suo impero. Il fatto che Roma lasciò una relativa autonomia ai popoli conquistati, anche dopo che fu compiuta la sua egemonia sul Mediterraneo, dimostra che non si trattò di un puro e semplice stratagemma, ma di un carattere costitutivo della politica dei romani.

Machiavelli è il pensatore dell’Europa intesa come sistema di stati, questo è il senso principale dell’avere come modello Roma. Se è vero che un sistema di stati si è sviluppato solo in Cina e in Europa, ha molto più senso paragonare l’Europa moderna alla Cina imperiale piuttosto che all’Impero romano che si sviluppò in modo simile a quell degli altri imperi da una città-stato. Machiavelli conosceva però solo lo sviluppo dell’Impero romano e attraverso questo termine di riferimento cerca di capire la dinamica del sistema di stati europeo agli albori sotto i suoi occhi. Questo sistema implica la presenza di più stati, il che può avere sviluppi positivi in quanto «il mondo è stato più virtuoso dove sono stati più Stati che abbiano favorita la virtù o per necessità o per altra umana passione»14. Tuttavia c’è qualcosa di diverso nello sviluppo di Roma, che determina qualcosa di irrisolto nel pensiero di Machiavelli: sa che per Roma la fine del suo doppio, Cartagine (una città che aveva un sistema sociale molto simile a quello di Roma), la fine della sua sorella antagonista fu la fine della virtù di Roma. Meglio sarebbe dire che Machiavelli è fautore di quel processo che poi portò alla costituzione dell’impero. Vorrebbe che gli stati europei si indirizzassero su un percorso simile a quello di Roma e se questo sfociò nell’Impero fu negativo, ma tutte le cose di questo mondo sono finite, nondimeno Roma visse libera per 500 anni.

Se è vero che «tutto torna ma diverso», e quindi l’Europa non avrebbe seguito di pari passo l’evoluzione della Repubblica Romana#, è pur vero che qualcosa è andato storto nella storia dell’Europa moderna. Con Napoleone l’Europa si avvicinava ad un’evoluzione paragonabile a quella di Roma, ma com’è noto fu sconfitto. Noi che siamo vissuti dopo possiamo vedere come la rovina degli stati europei consista nel fatto di non esser riusciti a costruire un’aggregazione «imperiale» (secondo i termini suoi propri che non potevano essere quelli dell’antica Roma) che trascendesse e risolvesse i conflitti interni. Dalla sconfitta di Napoleone inizia una fase di decadenza dell’Europa da cui nascono le contrapposizioni ideologiche nazionalistiche o di classe. Secondo Toynbee, la nascita di un «proletariato interno» è l’indice di una frattura interna nella società che segna la sua fase di decadenza. Le contrapposizioni ideologiche non sono dovute a motivi meramente spirituali ma sono la manifestazione superficiale di fratture profonde della società.

Che Machiavelli non sia solo un patriota che auspica la nascita dello stato nazionale italiano (cosa che certamente fu, basti pensare alla parte finale de Il principe), ma che la sua ottica sia europea, lo si evince dall’analisi delle vicende dello stato francese. «Per combattere l’Inghilterra, Carlo VII costituì il primo esercito permanente in Europa, le Compagnie d’Ordinanza. Egli impose anche un drastico incremento delle tasse dirette e indirette. Sebbene rudimentali, queste furono misure auto-rafforzanti perché richiedevano alla Corte francese il miglioramento della propria capacità estrattiva [in senso finanziario]. Se la Francia avesse sviluppato queste pratiche, la storia europea sarebbe stata più simile a quella cinese … è degno di nota che Machiavelli avesse identificato il problema fin dall’inizio del sedicesimo secolo. Machiavelli elogiava la comprensione di Carlo VII della “necessità di armarsi di arme proprie”. Egli credeva che se il Regno di Francia sarebbe stato “insuperabile, se l’ordine di Carlo era accresciuto o preservato”. Sfortunatamente “re Luigi suo figliuolo spense quella de’ fanti, e cominciò a soldare Svizzeri: il quale errore, seguitato dalli altri, è, come si vede ora in fatto, cagione de’ pericoli di quello regno. Perché, avendo dato reputazione a’ Svizzeri, ha invilito tutte l’arme sua; perché le fanterie ha spento e le sua gente d’arme ha obligato alle arme d’altri; perché, sendo assuefatte a militare con Svizzeri, non par loro di potere vincere sanza essi”»15 .

Machiavelli non condivide la concezione imperiale di Dante ancora legata al medioevo e al compromesso tra i «due soli», intuendo che quanto stava venendo formandosi era qualcosa di nuovo che per affermarsi dovette lottare sia contro il Papato che il Sacro Romano Impero. La continuità tra la Roma repubblicana e quella imperiale è un elemento irrisolto del pensiero di Machiavelli, tuttavia se è vero che la fine della Roma repubblicana è la fine della virtù romana, e che fu proprio essa a dar vita all’impero si tratta di un processo inevitabile in un mondo in cui tutto è destinato a nascere, crescere e perire. Machiavelli era un patriota, ma non in senso angustamente nazionalistico. La patria di Machiavelli è laddove si sviluppa la virtù. Se la virtù muore a Roma, rinasce da qualche altra parte16.

Tuttavia vi sono delle affinità con la visione dantesca. L’Ulisse di Dante è una figura della hybris greca, la cui incarnazione con un po’ di immaginazione individuo in Alessandro Magno che dalla Persia volle raggiungere l’India in direzione di un confine ignoto, un assalto all’infinito, un voler andare oltre i limiti (come Ulisse) che poteva terminare solo con la sua sconfitta e la fine della civiltà greca.

Non a caso il Canto inizia con l’invettiva contro Firenze che stabilisce una precisa relazione con la hybris greca:

«Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande,

che per mare e per terra batti l’ali,

e per lo ‘nferno tuo nome si spande!»

(Inferno, Canto XXVI)

Lo spirito capitalistico di espansione infinita, illimitata, senza confini agli albori in Firenze per Dante è erede della hybris greca. Egualmente Machiavelli condanna Atene, Sparta e Firenze da parte di Machiavelli per aver assoggettato i territori circostanti, e la condanna è sincera perché il puro e semplice desiderio di conquista è diverso dalla capacità strategica dei Romani.

Diversamente procedette Roma. Roma nei suoi mille anni di storia arrivò ad un confronto diretto con l’impero persiano solo verso la fine dell’Impero romano (e persiano). Roma operò nell’ambito suo proprio costituito dal bacino del Mediterraneo.

L’Europa moderna invece ha varcato stabilmente le colonne d’Ercole conducendo il mondo di fronte ad un pericolo mortale.

L’imperialismo europeo trasfiguratosi nel non-luogo denominato Occidente è arrivato alla conclusione del suo percorso ora che le altre grandi civiltà, ad eccezione della civiltà islamica, sono riuscite a far fronte alla minaccia distruttiva della «civiltà occidentale». L’aver fondato tutto sulla superiorità tecnica ed economica ci rivela che la civiltà occidentale si è fondata sul nulla. Forse è questo uno dei motivi, più o meno consapevoli, per cui vari studiosi hanno ripreso a leggere Machiavelli. Ad es. Skinner dichiara che il suo interesse per Machiavelli sta proprio nella sua alterità rispetto al pensiero moderno.

In realtà il repubblicanesimo non è stato sommerso del tutto, c’è un motivo per cui continua a persistere pur all’interno di una teoria dello stato dominata dal paradigma hobbesiano. Nel conflitto tra gli stati che ha portato alla piena formazione dello stato europeo (secondo la «sociologia storica» di Charles Tilly ed altri) si è avuto ancora bisogno della virtù, in particolare durante le due più importanti rivoluzioni nell’organizzazione dello stato, la guerra civile inglese seguita dalla Glorious revolution e la rivoluzione francese, che sono due rivoluzioni principalmente statuali dettate dal conflitto tra le nazioni europee che è stato il principale motore di questo sviluppo (in tal senso vedi Tilly che ne è stato il principale teorico). «L’esercito cromwelliano fu una forza rivoluzionaria perché fu meno un’armata mantenuta dallo stato che un esercito in cerca di uno stato che potesse mantenerlo»17 Harrington non può ancora concepire l’esercito professionale, poiché era ancora in formazione, ma da ciò deriva il suo interesse per la critica machiavelliana delle milizie mercenarie.

E’ nella new model army di Cromwell che si diffondono le tendenze radicali, repubblicane, rivoluzionarie fino al radicalismo dei livellatori. Il tentativo teorico di Harrington è quello di fare una sintesi tra il repubblicanesimo e l’assolutismo. Un’eguale tendenza a conciliare il repubblicanesimo con l’assolutismo si riscontra in Rousseau «un pensatore che ha inserito sul patrimonio di concettualizzazioni del diritto naturale categorie tipiche della tradizione repubblicana moderna, pur a costo di rilevanti tensioni teoriche»18.

Se è vero che l’esercito professionale da cui poi si è sviluppato l’esercito di leva è diverso («Non è stata la coscrizione militare di per sé ma l’esercito cittadino auto-equipaggiato che storicamente ha servito come baluardo contro la dominazione»19) dall’esercito di popolo sul modello romano a cui pensava Machiavelli è pur vero che è diverso dall’esercito mercenario e dall’esercito medievale. Come scrive Max Weber:

«Il motivo della democratizzazione è sempre di natura militare; sta nella comparsa della fanteria disciplinata, dell’esercito di corporazione nel Medioevo, dove l’elemento decisivo era che la disciplina militare prevaleva sulla lotta tra eroi. La disciplina militare significò la vittoria della democrazia poiché si dovevano e volevano arruolare le masse di non cavalieri, si mettevano loro in mano le armi, e quindi il potere politico»20.

Da questa necessità di coinvolgere le popolazioni nella lotte reciproche dei principali stati europei, sorgono delle contro-tendenze democratiche nella costituzione sostanzialmente oligarchica degli stati moderni fino ai nostri giorni. Riconoscere il potere «assoluto» dello stato vuol dire riconoscere il potere assoluto di chi controlla il potere coercitivo dello stato, cioè un’oligarchia. Siccome però queste oligarchie hanno avuto bisogno del popolo si è creato quello «ossimoro» vivente che sono state le «democrazie» moderne: la democrazia oligarchica come l’ha definita il direttore di un quotidiano italiano che di repubblicano ha solo il nome, senza però tematizzare la contraddizione per cui il suo «ossimoro» è semplicemente un’assurdità, tipo il secco dell’acqua, o l’umidità della fiamma.

Il repubblicanesimo liberale di Harrington e di Locke è un sistema basato su di una contraddizione di fondo: voler conciliare il repubblicanesimo con l’assolutismo. «Né Harrington né Locke si opponevano a un potere sovrano: ritenevano entrambi che in qualunque società civile si rendesse necessaria da qualche parte la presenza di un potere politico, a cui, come si doveva sottintendere, ogni individuo avesse rimesso tutti i propri diritti e poteri, e che non fosse sottoposto a limiti da parte di qualsiasi potere umano superiore o associato. Harrington fu del tutto esplicito: “Là dove il potere sovrano non è intero e assoluto proprio come nella monarchia, non ci può assolutamente essere alcun governo” . Locke pose il potere sovrano nella società civile, cioè nella maggioranza: ammetteva che la maggioranza non volesse nient’altro che il bene pubblico, e che perciò potesse detenere senza pericolo il potere sovrano da conferire a qualcuno. Ovviamente, l’uomo o l’assemblea a cui la società civile affidava allora il potere legislativo e l’esecutivo non erano sovrani; ma in questi casi, in cui il potere veniva affidato a un’assemblea elettiva piuttosto che a un’assemblea o a un monarca auto-perpetuantesi, Locke riconosceva un esercizio virtuale del potere sovrano. Sia Harrington che Locke non videro la necessità di porre irrevocabilmente il potere sovrano nelle mani di una persona o di un’assemblea di persone con l’autorità di designare il proprio successore o i propri successori; anzi, giudicarono ciò incompatibile con gli unici scopi plausibili per cui degli individui potrebbero autorizzare un potere sovrano. In effetti, si opponevano non a un potere sovrano perpetuo, ma a una persona o a un’assemblea sovrana auto-perpentuantisi»21.

Lo stesso Hobbes aveva chiarito il potere assoluto poteva essere incarnato anche da una assemblea, tuttavia poiché riteneva necessaria l’auto-perpetuazione del potere assoluto è stato visto erroneamente come un teorico della monarchia assoluta. Poiché il suo modello, prevedeva un’inevitabile frammentazione sociale dovuta alla conflittualità generalizzata, come sostiene Macpherson, non potè considerare il dominio della borghesia in modo maggiormente flessibile ammettendo la possibilità di un assetto costituzionale che consentisse importanti cambiamenti al suo interno, pur perpetuandosi come sistema di dominio. A ciò va aggiunto il fatto che il nuovo tipo di stato è ancora un modello rigido privo di quelle articolazioni che svilupperà in seguito per restando il modello di base lo stesso.

L’equivoco riguardo al rapporto tra la teoria di Hobbes e al liberalismo è dovuto al fatto che il «collettivismo», cioè il potere assoluto dello stato, sembra escludere l’individualismo, ma si tratta di una coppia polare, l’individualismo è inseparabile dal potere assoluto dello stato, come ha brillantemente messo in luce Macpherson:. «La concezione per cui individualismo e “collettivismo” sono le estremità opposte di una scala lungo la quale si possono disporre stati e teorie dello stato, senza tener conto dello stadio di sviluppo sociale in cui si formano, appare superficiale e induce in errore. L’individualismo di Locke, cioè di una società capitalistica emergente, non esclude, ma, al contrario, richiede la supremazia dello stato sull’individuo. Non si tratta di più individualismo o di meno collettivismo. Piuttosto, quanto più compiuto è l’individualismo, tanto più totale è il collettivismo. Esempio estremamente significativo ne è la teoria di Hobbes, ma il fatto di aver negato la legge naturale della tradizione e di non aver garantito la proprietà nei confronti di un sovrano che si perpetuava, non raccomandava le sue concezioni a quelli che vedevano la proprietà al centro dei fatti sociali. Locke era più accettabile, sia per la posizione ambigua sulla legge naturale, sia per un certo tipo di garanzia che forniva ai diritti di proprietà. Se si interpreta in questo modo il carattere specifico dell’individualismo borghese del diciassettesimo secolo, non è più necessario cercare un compromesso tra le affermazioni lockiane individualiste e quelle collettiviste: nel contesto infatti si implicano a vicenda»22.

Cosa vuol dire potere assoluto dello stato? Lo stato non è e non potrà mai essere il popolo. Nietzsche la denuncia come la più «fredda menzogna del mostro», ovvero il Leviatano hobbesiano. La democrazia pura cioè basata sul governo del popolo è stata costitutivamente instabile. Machiavelli rifiuta il modello ateniese, modello di ogni forma ideale di democrazia, per la sua instabilità, dissolvendosi nella lotta tra fazioni a causa della mancanza di un governo centrale, che determina il passaggio alla monarchia (governo di uno solo), che degenera in dittatura per cui si passa all’aristocrazia che degenera a sua volta in oligarchia, da cui si passa alla democrazia determinando quel ciclo in cui si erano avvitate le città greche (ad esclusione di Sparta) che secondo Polibio il sistema misto della Roma repubblicana aveva interrotto. Il sistema non instabile più vicino alla democrazia è il sistema misto, a cui al potere dello stato si affiancano dei contro-poteri esterni allo stato. Bodin lo identifica con la democrazia tout court. Assolutismo e democrazia sono termini antitetici se stiamo al significato etimologico dei due termini. Incidentalmente Kant mise in luce il carattere non democratico del sistema parlamentare proprio perché fondato sull’assolutismo.

Che cos’è un monarca assoluto? È quello che, se dice: «Guerra sia», è subito guerra. – Che cos’è viceversa un monarca limitato? Colui che prima deve chiedere al popolo se ci debba esserci o no la guerra; e se il popolo dice «Non ci dev’essere guerra», allora non viene fatta. – La guerra, infatti, è una condizione in cui tutte le forze dello stato devono stare agli ordini del suo capo supremo. Ora, le guerre che ha condotto il monarca britannico senza chiedere alcun consenso su ciò sono davvero molte. Perciò tale re è un monarca assoluto, cosa che in base alla costituzione egli non dovrebbe essere; la quale, invece, si può sempre aggirare, proprio perché attraverso quei poteri dello stato può assicurarsi il consenso dei rappresentanti del popolo, dato cioè che egli ha il potere di affidare tutti gli uffici e gli onori. Per avere successo, un tale meccanismo di corruzione non ha certo bisogno della pubblicità. Perciò rimane sotto il velo, molto evidente, del segreto»23.

Ecco perché il potere effettivo diventa qualcosa di nascosto. Il sistema parlamentare si basa fin da Hobbes su di un patto: la sovranità, cioè il potere, la gerarchia sociale non sono legittimi in sé stessi ma derivano da un accordo collettivo che conferisce il potere a qualcuno al fine di evitare la guerra di tutti contro tutti, cioè la disgregazione sociale. In realtà il potere che non deriva da nessuna legittimazione esterna esiste eccome, come tutti sanno. Tuttavia questa finzione funzionale è essenziale al sistema, per cui la gerarchia sociale diventa qualcosa di nascosto. Per questo Marx ad es. va a ricercare dove si «nasconde» la struttura del potere effettivo, individuandola nei «rapporti di proprietà», in particolare in chi controlla i mezzi di produzione, ma è una visione parziale ed erronea, chi controlla gli strumenti coercitivi dello stato ha avuto un ruolo preponderante.
Finora nessuna società è riuscita a funzionare senza una gerarchia. Motivo per cui la gerarchia sociale non avrebbe bisogno di nessuna giustificazione. Nella Roma antica i Consoli e il Senato non avevano bisogno della legittimazione popolare (giustamente per questo Polibio dice che i Consoli erano dei re), ma oltre ai Consoli e al Senato c’era un’articolazione di varie assemblee popolari che costituivano l’aspetto democratico della Roma repubblicana.
Il potere delle classi dominanti può affermare apertamente la sua legittimità quando riconosce l’esistenza di contro-poteri nelle classi popolari. Il potere assoluto adotta invece una maschera, cioè la personae fittizia dello stato.

Oggi a noi sembra addirittura inconcepibile che il popolo possa decidere della guerra, al massimo possiamo pensare che la decisione possa essere nelle mani del parlamento, quale «rappresentante della volontà popolare», ma sappiamo che il parlamento è piuttosto uno strumento dello stato, come efficacemente mette in luce Kant. Inoltre, negli ultimi tempi si è imposta la tendenza a bypassare anche il parlamento. In Italia ad es. molte missioni all’estero sono state decise dal governo con lo strumento del decreto-legge. Nella Roma repubblicana la decisione ultima sulla guerra spettava ai comitia centuriata che erano delle assemblee popolari.

Questo patto hobbesiano fonda il sistema su basi individualistiche. L’individualismo è la radice del totalitarismo, come ha ben messo in evidenza Louis Dumont nei sui Saggi sull’individualismo: il razzialismo hitleriano era un modo meccanico per ristabilire l’unità in una società individualistica. Ma come abbiamo visto l’individualismo è inseparabile dal «collettivismo» cioè dalla concentrazione del potere statuale che crea le condizioni per cui possa esistere una «sfera privata» in cui l’individuo è «libero» di perseguire il suo «interesse privato». Tuttavia perché potesse configurarsi ciò che noi definiamo totalitarismo era necessaria un’ulteriore evoluzione dello stato, la concentrazione del potere ideologico che è stata la trasformazione precipua dello stato nel XX secolo, ragione per cui molti studiosi si sono concentrati sulla funzione svolta dai media. Con la concentrazione del potere ideologico il sistema di dominio diventa più articolato e capillare, lo stato si evolve come Apparato di dominio.

I totalitarismi sovietico e tedesco furono tentativi imperfetti, rudimentali di far fronte ai mezzi, alla capacità di mobilitazione che aveva lo stato totalitario pienamente sviluppato, cioè gli Usa, il quale proprio perché funziona bene può instaurare un controllo capillare senza abbandonare la facciata democratica. Lasciamo da parte l’Unione Sovietica che aveva la concentrazione di potere statuale necessaria per questo scopo, ma non aveva lo sviluppo economico necessario per la creazione di un’ampia classe media, per cui sviluppò un totalitarismo molto rudimentale. La Germania invece già dal finire del XIX secolo era lo stato europeo più avanzato, quello che mostrava maggiori somiglianza con gli Usa, ed è stato quello che maggiormente ha sviluppato questi nuovi aspetti dello stato (lo stesso Hitler paragonava la propaganda politica alla propaganda americana delle saponette).

Questa dinamica la si può cogliere sulla base della teoria di Charles Tilly secondo cui le strutture statuali e non solo, ma l’organizzazione complessiva della società, si sviluppano attraverso il conflitto, in pratica, ogni qualvolta uno stato introduce un cambiamento che aumenta la propria potenza costringe gli altri stati ad introdurlo anch’essi, pena la sconfitta. La stessa rivoluzione francese ha le sue radici in questa dinamica (vedi il mio Ripensare la rivoluzione francese). Gli Stati Uniti, oltre alla concentrazione del capitale e alla concentrazione del potere coercitivo (che per Tilly sono i tratti costitutivi dello stato moderno), introducono la concentrazione del potere ideologico con lo sviluppo del sistema mediatico.

Questo nuovo regime ha la sua base nella classe media, che è essa stessa prodotto di un’ulteriore concentrazione del capitale e lo sviluppo dell’economia di scala: Charles Wright Mills nel suo classico studio sui «colletti bianchi» sottolineava la somiglianza di questa classe media con gli «impiegati» tedeschi descritti da Kracauer. Una classe media semi-parassitaria, privilegiata e allo stesso tempo priva di potere, che guarda con orrore alla classe lavoratrice. Da questa condizione sociale derivano tutte le storture della sua psicologia (in merito esiste un’ampia letteratura). E’ la progenitrice del ceto medio semi-colto, che è la principale base di propagazione del diritto-umanesimo e del politicamente corretto costitutivi dell’ideologia dominante (vedi in merito il mio Tendenze totalitarie odierne: la gender theory).

Machiavelli è il pensatore anti-totalitario per eccellenza proprio perché il totalitarismo è un’evoluzione dello stato moderno rispetto alla quale Machiavelli indica un’altra direzione.

Skinner si è occupato in vari scritti della nascita del concetto di stato, lavori sicuramente interessanti, frutto di un impressionante scavo storico, tuttavia individua una inesistente continuità24, al di là delle normali interazioni tra i principali pensatori della politica. Machiavelli è l’anti-Hobbes, il suo concetto dello stato è l’opposto dell’assolutismo hobbesiano. Il sistema misto come descritto da Polibio di cui Machiavelli era fautore è ciò che principalmente rifiutano i teorici dell’assolutismo.

Skinner e Pettit hanno concorso a darne una migliore definizione, ma ritengo che l’effettiva enucleazione del paradigma repubblicano machiavelliano la si debba allo studioso italiano Marco Geuna (e sulla sua scorta Baccelli), nonostante la minore notorietà internazionale (in ambito accademico), soprattutto perché riesce a mettere in evidenza la radicale alterità di Machiavelli rispetto a Hobbes, il principale teorico dello stato moderno. Credo non vi sia campanilismo quando Baccelli sottolinea l’italianità di Machiavelli, egli è pur sempre un prodotto della cultura italiana, chi ha studiato nella scuola italiana meglio può capirne le sfumature del linguaggio. Riporto qui un’estratto che contiene in sintesi una definizione del «paradigma machiavelliano» ripresa, approfondita e differenziata in vari articoli25.

È forse utile ricordare la pluralità di termini utilizzati da Machiavelli, sia nei Discorsi sia nelle Istorie, per sviluppare le sue riflessioni. Egli si serve, per lo più, dei termini ʻdisunioniʼ e ʻtumultiʼ per riferirsi a quei conflitti fra le parti costitutive della città che trovano una sorta di composizione istituzionale e arricchiscono di leggi e ordini la vita politica della res publica, mantenendo viva la sua libertà; altre volte, per riferirsi a questo primo tipo di conflitti, usa le espressioni ʻcontroversieʼ, ʻdissensioniʼ, ʻdifferenzieʼ, ʻromoriʼ.

Ricorre, invece, alle espressioni ʻcivili discordieʼ, ʻintrinseche inimicizieʼ, per designare un altro tipo di conflitti, per riferirsi a quegli antagonismi che degenerano in scontro di ʻfazioniʼ e di ʻsetteʼ, e mettono a repentaglio la libertà stessa della res publica. Con questi termini, Machiavelli riesce a veicolare una riflessione sui conflitti assolutamente nuova e peculiare che lo colloca in posizione di marcata discontinuità rispetto alla tradizione antica e medioevale del pensiero politico occidentale; ma che lo situa anche ai margini, in una prospettiva altra, rispetto al cosiddetto progetto politico moderno, incentrato, da Bodin e Hobbes in poi, sul ruolo del potere sovrano e sulla neutralizzazione del conflitto da esso attuata.

Questo è in sintesi il paradigma machiavelliano, il suo principale apporto allo storia del pensiero politico, il nucleo concettuale attorno al quale Machiavelli articola la sua teoria politica, una nuova concezione del conflitto che in determinate condizioni, quando non si trasforma nella creazione di «sette» è fonte di dinamismo sociale, di difesa della libertà, e delle leggi che creano l’ordine sociale.

Per chi volesse farsene un’idea con le parole di Machiavelli stesso consiglio di primo acchitto la lettura del cap. IV dei Discorsi dal titolo Che la disunione della Plebe e del Senato romano fece libera e potente quella republica.

Proviamo ad applicare il paradigma alle principali ideologie moderne: tutte sono segnate dal paradigma hobbesiano, a dispetto delle loro differenze sono accomunate dalla volontà di eliminare i conflitti sociali.

Il liberalismo neutralizza il conflitto sociale attraverso una pseudo-democrazia, basata sul gioco di specchi fra destra e sinistra, che ha inondato di menzogna e corruzione il mondo.

Il socialismo/comunismo intendeva eliminare i conflitti eliminandone le cause economiche (addirittura eliminando la divisione del lavoro secondo l’estremismo individualistico del giovane Marx), ma tale intento si rovescia necessariamente una volta al potere nella soppressione autoritaria dei conflitti.

Il fascismo intendeva sopprimere i conflitti sociali attraverso il corporativismo. Il nazismo invece li soppresse nella creazione della comunità razziale saldata dal Führerprinzip.

Tutte e tre le principali ideologie moderne e loro derivati sono segnate da un totalitarismo di fondo perché tutte nascono dal paradigma individualista hobbesiano.

Voler eliminare la conflittualità dalle relazioni umane è un’aspirazione di per sé totalitaria. Polemos è il padre di tutte le cose, scriveva Eraclito 2500 anni fa. È il conflitto per l’esistenza tra le creature viventi, e tra queste e le condizioni ambientali (caldo, freddo, acqua, mancanza di acqua, vento), che ha fatto sorgere occhi per cogliere il più piccolo movimento, arti per correre velocemente, artigli, udito, olfatto ecc. Gli esseri umani lottano per l’esistenza tanto in cooperazione quanto in lotta con i propri simili. Il conflitto scaturisce dalla necessità di cooperazione stessa, in quanto necessita di stabilire dei singoli che abbiano un ruolo di comando (finora nessuno è riuscito a creare delle società senza gerarchie, le società primitive sono soltanto più semplici ma non ne sono prive). Soltanto attraverso il conflitto si può stabilire chi comanda, ed è con il conflitto che vengono spodestate le classi dominanti incapaci di svolgere il loro principale compito, quale assicurare un’adeguata riproduzione sociale. E’ attraverso il conflitto tra i vari insiemi sociali (stati-nazione) che si evolvono i vari sistemi sociali. Negare il conflitto attraverso il pacifismo finora è servito soltanto a screditare il nemico in modo totale, in quanto nemico della «pace», criminale da spazzare dalla faccia della terra (su tale questione è imprescindibile Carl Schmitt, e più recentemente Danilo Zolo), cioè per portare al nemico una guerra più totale rispetto a chi riconosce lo justus hostis (nemico legittimo: un concetto quasi inconcepibile per la mentalità moderna egemonizzata dall’ipocrita pacifismo). Voler eliminare il conflitto è un’aspirazione propriamente totalitaria, piuttosto bisognerebbe indirizzarlo verso forme non distruttive che favoriscano lo sviluppo sociale.

Acquisito il paradigma machiavelliano proveremo ad applicarlo per definire una nuova teoria politica, ma prima volevo riprendere un interessante contributo di Massimo Morigi che ci consente di articolare ulteriormente la definizione del repubblicanesimo. Libertà come non interferenza del potere o libertà come non dominio? Morigi ha effettuato un ribaltamento dei termini della questione, potenzialmente in grado di mettere fine alla diatriba, se non fosse che «il dibattito (accademico) deve continuare», ponendo la libertà come estensione e diffusione nella società del potere. In una serie di interventi, che mi auguro possano trasformarsi in un contributo più sistematico, egli ha delineato un «repubblicanesimo geopolitico», nel quale «l’accento è messo sul potere come energia generatrice di libertà mentre il marxismo classico vuole una società dove i rapporti di forza siano estinti (fine della storia, estinzione dello stato). Secondo perché se per il marxismo l’agente generatore di una società più libera è il proletariato, per il Repubblicanesimo Geopolitico l’agente per una maggiore libertà sono proprio quelle forze ed energie (quindi anche il proletariato ma pure le forze che vi si contrappongono) che scontrandosi originano una dialettica del potere che è alla base per un concreto e non astratto ampliamento della sfera della libertà (sottolineo che questa della conflittualità come origine della libertà e/o della forza di una comunità politica non è certo molto originale discendendo direttamente da Machiavelli e dalla sua spiegazione della forza militare degli antichi romani, la quale, secondo il Segretario fiorentino, discendeva direttamente dalla lotta fra patrizi e plebei che trovava una sua valvola di sfogo nella espansione territoriale di Roma). E queste forze ed energie per il Repubblicanesimo Geopolitico possono trovare la loro piena espressione solo a condizione che il quadro geopolitico in cui questa comunità vive la sua esperienza storica sia favorevole a che questa comunità possa irrobustire la sua identità e, di conseguenza, progettare e lottare per sempre maggiori spazi di libertà»26.

Inoltre, Morigi in un’intervista video27 sottolineava che che la divisione fra dominanti e dominati non deve condurre alla conclusione apparentemente logica che i dominati non decidono. I dominati decidono a loro modo, possono decidere di seguire o non seguire i dominanti, oppure se costretti possono decidere di seguire i dominanti in modo passivo, oppure facendo resistenza fino al sabotaggio. I romani lo sapevano benissimo ed è per questo che erano consci della necessità di coinvolgere il popolo, che costituiva la base dell’esercito, nelle decisioni. Gianfranco Campa, un «repubblicano» di origine italiana trasferitosi negli Usa, «appartenente prima al mondo militare e poi a quello delle forze dell’ordine», ha scritto un articolo28 in cui descrive a tinte fosche lo stato mentale dell’esercito statunitense dove imperversano malattie mentali, uso e abuso di droghe, alcol e psicofarmaci. Non è difficile capire perché i soldati rifiutano intimamente il loro ruolo pur essendo costretti ad esercitarlo per avere un salario. È evidente che l’essere pagati non è un motivo sufficiente per uccidere o essere uccisi, quando si è consapevoli che la propria famiglia non ha nessuna garanzia di appartenenza ad un sistema sociale che la protegga dal finire in mezzo alla strada (e negli Usa è molto facile che ciò accada). E quando non si capiscono i motivi per cui si combatte una determinata guerra, se non che questa guerra non migliorerà le condizioni della propria classe sociale. Le classi dominanti statunitensi non possono contare pienamente sul proprio esercito, ma proprio questo le rende molto pericolose, perché le può spingere ad una soluzione «tecnica» (cioè facendo affidamento su armi micidiali) della propria crisi di egemonia.

Geuna ha fornito un fondamentale contributo nella definizione del paradigma machiavelliano, tuttavia la radicalità del pensiero machiavelliano non può emergere se non osiamo andare oltre il recinto accademico, sfidando ciò che i colleghi accademici occidentali ritengono sia concepibile. Geuna alla fine ci propone una realizzazione pratica del conflitto tutta interna ad un pensiero dominante. La «contestazione» (nata in ambito studentesco) che ritiene una espressione del conflitto, sulla scorta di Pettit, è in realtà una sua parodia, ricorda piuttosto le recriminazioni adolescenziali relative alla paghetta. Se davvero vogliamo parlare di conflitto dobbiamo intendere il conflitto che avviene tra adulti. Le tesi di Pettit sono poco realistiche (come lamenta Baccelli) perché ricadono nel formalismo democratico, discostandosi alquanto da ogni realismo machiavelliano. Soltanto la teoria di Machiavelli può eguagliare in realismo quella di Hobbes. La legge senza la spada è nulla, e chi impugna la spada non è sottoposto alla legge, quindi la sovranità è per forza di cose assoluta, se è l’unico ad impugnare la spada. Il motivo per cui bisogna concedere la spada al popolo costituisce uno dei passi salienti dell’intera riflessione machiavelliana:

Per tanto, se tu vuoi fare uno popolo numeroso ed armato per poter fare un grande imperio, lo fai di qualità che tu non lo puoi poi maneggiare a tuo modo: se tu lo mantieni o piccolo o disarmato per poter maneggiarlo, se tu acquisti dominio, non lo puoi tenere, o ei diventa sì vile che tu sei preda di qualunque ti assalta.

Si doveva concedere la spada al popolo, anzi era necessario se si intendeva costruire quel tipo di repubblica espansiva sul modello romano. Questo fondamentale principio machiavelliano è simile un’arma che può essere utilizzata tanto in senso offensivo che difensivo, anche intende difendersi dall’espansionismo altrui deve poter contare su un popolo forte: altrimenti sei preda di chiunque ti assalta.

Il paradigma machiavelliano va inquadrato nel concetto di sistema misto di cui Machiavelli era fautore, soltanto in questo contesto può esplicarsi quella conflittualità virtuosa che costituì la grandezza di Roma. Riprendiamo la formulazione originaria di Polibio che Machiavelli ricalca nei Discorsi 29:

«Come ho detto sopra, tre erano gli organi dello stato che si spartivano l’autorità; il loro potere era così ben diviso e distribuito, che neppure i Romani avrebbero potuto dire con sicurezza se il loro governo fosse nel complesso aristocratico, democratico, o monarchico. Né è il caso di meravigliarsene, perché considerando il potere dei consoli, si sarebbe detto lo stato romano di forma monarchica, valutando quello del senato lo si sarebbe detto aristocratico; se qualcuno infine avesse considerato l’autorità del popolo, senz’altro avrebbe definito lo stato romano democratico»30.

Il governo misto romano nacque in uno specifico contesto, diverse sono le nostre società, ma possiamo ugualmente trarne un insegnamento: nei prossimi conflitti avranno la meglio quelle società che oltre a sviluppare gli strumenti difensivi e offensivi sapranno realizzare nuove forme di integrazione del popolo, quelle società che sapranno essere più compatte sviluppando un senso di appartenenza.

A partire da questi presupposti, proviamo a pensare un nuovo ruolo per degli ipotetici movimenti popolari di domani dei quali sentiamo assoluto bisogno. Essendo la mia formazione originaria marxista mi occuperò qui delle classi inferiori, ma ugualmente bisognerebbe tentare di ridefinire un ruolo per le classi medie. Per cominciare, le classi popolare dovrebbero creare delle proprie organizzazioni politiche che non abbiano come obiettivo inviare deputati al parlamento, perché questo è uno strumento delle classi dominanti. Cosa avrebbero detto i Populares qualora i Tribuni del popolo fossero diventati parte organica del Senato? È facile immaginarlo, avrebbero detto che non erano più i loro rappresentanti, mentre ciò avviene normalmente in tutti i sistemi parlamentari. Inoltre bisognerebbe pensare in prospettiva a forme di organizzazione militare finalizzata alla difese di queste organizzazioni, altrimenti esse sono ostaggio di chiunque detiene gli strumenti per l’utilizzo della forza.

Nella maggior parte delle nazioni occidentali, le classi popolari non possono utilizzare il rifiuto delle armi come strumento di pressione nei confronti delle classi dominanti, oggi la maggiori parte degli eserciti sono formati da professionisti volontari, e anche quando esisteva l’esercito di leva, la coscrizione impediva di utilizzare questo strumento, per la plebe romana invece questo era uno strumento di pressione maggiore ancora dello sciopero. Tuttavia bisogna capire che i professionisti militare non vivono nel nulla, il loro maggiore o minore impegno è determinato dal senso di appartenenza alla società, dalla presenza di motivi validi ed uno dei principali è il combattere per una società a cui si sente di appartenere.

Lo sciopero resterebbe una delle armi principali con cui le classi inferiori manifestano la loro indispensabilità per l’intera società, ma attualmente tale strumento è stato bagattellizzato da sindacati inghiottiti dallo stato. Anche in ambito sindacale bisognerebbe mirare a ricostuire delle organizzazioni autonome dei lavoratori.

I comunisti intendevano inserirsi nei parlamenti perché il loro obiettivo era il rovesciamento dello stato, mentre invece non deve essere questo l’obiettivo piuttosto quanto creare un contro-potere che difenda gli interessi delle classi popolari, consapevoli che una forma di comando, di governo ci deve pur essere altrimenti uno stato non è tale.

Le classi sociali non hanno una base esclusivamente «economica» eliminata la quale si eliminano anche le classi sociali, le classi sociali derivano dall’esistenza di chi comanda e chi è comandato. Tuttavia le classi dominanti se non hanno un contro-potere che le contrasta tendono ad assumere il massimo potere possibile, fino a forme estreme di esclusione dalla società di quote rilevanti delle classi popolari . Tra le sventure che possono colpire l’individuo l’esclusione sociale è oggi l’equivalente della schiavitù nel mondo antico, anzi forse per chi è «buttato in mezzo alla strada» e tagliato completamente fuori può sembrare preferibile la sorte dello schiavo a cui perlomeno era assicurato un tetto e del cibo. L’esclusione sociale condivide con la schiavizzazione la dimensione della «morte sociale» che Orlando Patterson individua come il tratto distintivo della schiavitù31. Le classi dominanti hanno per loro natura il sogno di un dominio assoluto ed eterno, compito delle classi inferiori è rendergli presente, ponendo loro un argine, che questo sogno è distruttivo perché irreale, altrimenti subiranno le tendenze distruttive delle classi superiori. Finora nessuna società è riuscita a stare insieme, ad assicurare la cooperazione dei suoi membri senza uniformare molte volontà, ad una sola o a poche volontà, e da ciò deriva la necessità di affidare il comando a qualcuno, e questo comporta l’esistenza di un potere coercitivo e relative diseguaglianze di potere. Marx ed Engels ammettevano benissimo questa realtà di fatto quando si trattava di polemizzare con gli anarchici (Engels adduceva l’esempio del comandante di una nave: quando c’è una tempesta è vitale che ognuno si uniformi alla sua volontà), tuttavia vollero conservare l’obiettivo dell’«estinzione dello stato».

Ci saranno esponenti delle classi dominanti disposti a tollerare e anche ad incoraggiare e favorire forme di auto-organizzazione delle classi popolari (e con questo termine intendo sia le classi medie che inferiori), avendo bene stampato in mente l’avvertimento di Machiavelli che senza un popolo forte, attivo alla fine un stato è preda di «chiunque l’assalta»)?

Le classi inferiori devono difendere delle condizioni di vita dignitose e difendere l’autonomia della propria classe sociale, ma allo stesso tempo devono accettare il posto subordinato nella società. Non c’è nulla di disonorevole nello stare alla base della società. Inoltre, sembra che oggi la vita non abbia senso se non si fa qualcosa di «particolare», a mio parere invece non va disprezzata una «normalità» costituita da una vita in cui si da il proprio contributo lavorativo necessario al funzionamento della società, che lasci il tempo libero necessario per curare la propria famiglia e i propri interessi, oltre alla formazione militare che rende capaci di difendere se stessi, la famiglia e la patria. Una vita fondata su queste basi è del tutto sensata. Chi invece è chiamato a compiti particolari per attitudini e vocazione, deve avere la possibilità di farlo, anche se proviene dalle classi inferiori.

La teoria marxiana che voleva la classe lavoratrice capace di gestire l’intera società si è rivelata infondata, seppur diversi sono stati partiti operai di massa del novecento costituiti dai lavoratori manuali della grande industria, in quanto Marx per classe lavoratrice intendeva dall’«ingegnere all’ultimo manovale». Le «forze mentali della produzione», cioè i tecnici non si sono uniti alla classe operaia, ma se anche si fosse verificata la dinamica prevista da Marx secondo cui la proprietà si sarebbe trasformata in un gruppo parassitario, a cui si sarebbe opposto il lavoratore associato (i lavoratori manuali insieme alla forze mentali della produzione o general intellect) credo che non avrebbe configurato una «classe intermodale», cioè capace di gestire la transizione ad un nuovo sistema sociale, poiché per guidare la società non sono sufficienti le sole conoscenze di carattere tecnico, ma è necessaria quella formazione che da sempre hanno caratterizzato le classi dominanti, cioè oltre alla formazione fornita dalla pratica politica, quel tipo di formazione definita «umanistica» che si acquisisce con la conoscenza della storia, della filosofia, della giurisprudenza, delle arti. Inoltre, la politica è un’arte e come tale necessita di attitudini specifiche, in parte innate, non solo un determinato grado di intelligenza e di formazione, ma anche le attitudini psico-fisiche per reggere il conflitto, che seppur in questo campo non si svolge direttamente con le armi, spesso è ugualmente pericoloso. La politica a tempo pieno non è per tutti, e neanche tutti sono interessati ad un tale tipo di impegno. Ci sono diversi gradi, c’è chi ne fa una ragione di vita, ma la maggioranza si interessa alle questioni politiche quando sente le proprie condizioni di vita minacciate.

Le classi popolari non possono svolgere un’efficace lotta politica senza organizzazione, la quale presuppone una forma di divisione in classi interna tra chi dirige e chi è diretto. Ciò significava il principio, che Lenin trasse dal «rinnegato Kautsky», secondo cui agli «operai la coscienza può essere portata solo dall’esterno», in base al quale si organizzarono i partiti operai del secolo scorso che ebbero come modello principale la socialdemocrazia tedesca.

L’obiettivo della «fine della società di classe» va abbandonato perché si è dimostrata un’utopia individualistica (il giovane Marx con la sua hybris estremistica individualistica avrebbe voluto addirittura abolire la «divisione del lavoro»)32. L’essere umano è un essere sociale che vive in società organizzate, cioè costituite da gerarchie. Una volta stabilito tale punto fermo tutto da discutere è il rapporto tra le classi. Sicuramente le società occidentali odierne con le loro mostruose differenze di reddito necessitano di una radicale riorganizzazione. Di una radicale riorganizzazione ha bisogno anche la forma dello stato, che miri al suo rafforzamento attraverso una sua trasformazione democratica che assegni un ruolo alle classi medie e alle classi inferiori (non mi soffermo qui sul ruolo del «ceto medio semicolto» trattato in vari interventi, che è in realtà un’appendice dell’apparato statale odierno). Tale radicale trasformazione dello stato assolutistico, implica un’estensione del potere alle classi non dominanti, per dirla con Massimo Morigi, pur mantenendo una gerarchia di poteri.

Una volta stabilito il principio dell’autonomia delle classi popolari, ma all’interno di una società organizzata, le classi popolari devono ricercare l’alleanza con i membri delle classi dominanti, se ce ne sono, che non abbiano le tendenze auto-distruttive prevalenti in quelle attuali, e che abbiano l’intenzione di combattere la deriva attuale delle società occidentali. Soltanto se si realizzare tale sinergia sarà possibile nelle condizioni attuali invertire la deriva.

Va ritrovata un’unità sociale nella difesa dello stato. I recenti movimenti «sovranisti» intendono difendere la sovranità dello stato nei confronti della «globalizzazione», cioè nei confronti del tentativo statunitense di stabilire un dominio mondiale. Tuttavia la difesa di questa sovranità implica una decisa trasformazione dello stato che ne trasformi radicalmente le basi assolutistiche sulle quali è fondato. Senza questo intento il «sovranismo» non potrà essere che un altra forma di inganno, ancora un altro partito che una volta in parlamento fa esattamente il contrario di quanto aveva promesso per ottenere il voto.

Toni Negri è un «cattivo maestro», ma si impara anche dai maestri cattivi una volta riconosciuti come tali. Come scrisse Preve, è un pensatore da prendere sul serio, perché a suo modo geniale e innovativo. In Impero egli effettua una colossale mistificazione, presentando la «globalizzazione» statunitense quale erede del repubblicanesimo machiavelliano, ma confrontandosi con i suoi argomenti, frutto di una conoscenza sofisticata, si possono migliorare gli strumenti teorici necessari per combattere i conflitti attuali. Quello di Negri è stato il tentativo più significativo di trasformare il repubblicanesimo machiavelliano in una teoria politica per l’oggi, ma pervertendone il significato, trasformandolo in un’ideologia a servizio della globalizzazione. La sua antropologia del desiderio è esattamente il contrario della virtù machiavelliana, quale attaccamento alla patria, fortezza e temperanza, senso della giustizia, capacità militare e politica allo stesso tempo, e infine audacia, perché sarà necessaria molta audacia per affrontare l’Idra. Leviatano, il mostro marino, vinse Behemoth, il mostro terrestre, e con questi poi si congiunse e con l’ausilio della Tecnica diede vita all’Idra che vuole dominare tutto il globo.

Non c’è dubbio che la critica di Toni Negri della sovranità statale corrisponda alle finalità di destrutturazione degli stati a cui mira la globalizzazione (statunitense), ciò non toglie che sia sostanzialmente giusta. Difendersi dalla globalizzazione semplicemente affermando la sovranità dello stato è una lotta di retroguardia destinata alla sconfitta, perché questo tipo di sovranità svuota di ogni forma di partecipazione le classi medie e le classi inferiori. Abbiamo una contrapposizione tra stato-apparato (l’insieme dell’apparato di dominio che comprende anche i media) e la nazione (l’intera collettività). Lo stato-nazione si difende quindi ritrovando una forma di partecipazione ad esso delle classi non dominanti, il che comporta la messa in discussione dell’assolutismo di base su cui è costruito lo stato moderno. Ecco la critica dell’assolutismo su cui si fonda lo stato moderno, è evidente che essa coglie i nodi essenziali della questione:

«La teoria hobbesiana della sovranità era funzionale allo sviluppo della monarchia assoluta e, tuttavia, il suo schema trascendentale poteva essere ugualmente applicato alle altre forme di governo: all’oligarchia e alla democrazia. Nel momento in cui la borghesia stava diventando la classe emergente, sembrava che non vi fosse alcuna alternativa a questo schema di potere. Non fu dunque casuale che il repubblicanesimo democratico di Rousseau finì per assomigliare al modello hobbesiano. Il contratto sociale di Rousseau garantisce che l’accordo tra le volontà individuali viene sostenuto e sublimato nella costruzione di una volontà generale che nasce dall’alienazione delle singole volontà a favore della sovranità dello stato. In quanto modello di sovranità, l’«assoluto repubblicano» di Rousseau non è realmente diverso dall’hobbesiano «Dio in terra», e cioè dal monarca assoluto. «Queste clausole [del contratto], beninteso, si riducono tutte a una sola, cioè all’alienazione totale di ciascun associato con tutti i suoi diritti a tutta la comunità». Le altre condizioni poste da Rousseau per la definizione della sovranità in senso democratico popolare sono assolutamente irrilevanti rispetto all’assolutezza della fondazione trascendente. In particolare, la nozione rousseauviana della rappresentanza diretta è completamente distorta e, in ultima analisi, viene inghiottita dalla rappresentanza della totalità a cui è strutturalmente connessa – e tutto ciò, ancora una volta, risulta perfettamente compatibile con la concezione hobbesiana della rappresentanza. Hobbes e Rousseau non facevano altro che ripetere il paradosso che Bodin aveva già concettualizzato nella seconda metà del sedicesimo secolo. La sovranità appartiene, propriamente, soltanto alla monarchia, poiché uno solo è il sovrano. Se due, tre o più avessero il potere, non vi sarebbe sovranità, poiché il sovrano non può essere soggetto al potere di altri. Le forme politiche democratiche, plurali e popolari potranno anche essere proclamate, ma la sovranità moderna avrà sempre una sola configurazione politica: un unico potere trascendente»33.

Uno dei primi a rendersi conto che una società senza una cultura comune non poteva andare avanti fu Rousseau, il quale propose di creare in sostituzione una «religione della patria», ma poiché non vi può essere una tale comunanza in presenza di differenze sociali sostanziali, egli propose allo stesso tempo una religione dell’umanità e dell’eguaglianza, che aveva anche un suo peccato originale costituito dallà «proprietà». Se all’inizio religione della patria e religione dell’umanità andavano accompagnate nella stessa persona, come ancora in Filippo Buonarroti34 successivamente finiranno per divaricarsi per dar vita a nazionalismo e socialismo (successivamente: fascismo e comunismo), diventeranno le sorelle nemiche tanto acerrime proprio perché nate dallo stesso seme. Era già iniziato il processo della disgregazione europea. Ma il problema non fu principalmente ideologico, se l’Europa non riusci a creare una cultura comune in sostituzione del cristianesimo fu perché non riusci a svilupparsi come realtà unitaria.

La civiltà europea è giunta ad un punto morto. La sua storia iniziata con le crociate si è conclusa con conflitti insolubili, sfociati in due guerre mondiali, e infine la sottomissione agli Usa, ma non prima di aver stravolto la faccia del mondo. Chi pensa di ripartire da questa storia, dai suoi nazionalismi, magari ribattezzati rispettabilmente in «patriottismo», secondo me perde tempo. La stato nazionale va difeso, pena la disgregazione totale, ma in un’ottica rivolta al futuro, e per quanto riguarda l’Europa ciò vuol dire ricostruire le sue articolazioni nazionali intorno ad un nuovo centro, il quale sarà Russia, se è vera la profezia secondo cui Mosca è la Terza Roma. Ma questa non è prospettiva a breve termine, emergerà come orizzonte politico dopo lo scontro tra le grandi potenze che si preannuncia.

Non ritengo sia tutto da buttare della storia europea, ma neanche ci si deve nascondere il sostanziale fallimento della civiltà europea. Potremmo dire che avremmo preferito con Machiavelli uno sviluppo più classico più simile a quella di Roma, con un «progresso» meno accellerato, e più integrabile dalla psiche umana e dalle strutture sociale e non lo sviluppo abnorme, mostruoso e fuori controllo a cui siamo di fronte, tuttavia la storia non segue degli sviluppi «classici» perché attinge nella natura (nel senso di physis) che per l’essere umano è imperscrutabile nei suoi fondamenti ultimi, a cui l’essere umano può accostarsi ma mai dominare a suo piacimento. A cosa ci condurrà l’odierna situazione non lo sappiamo, di sicuro l’epoca «tranquilla», seguita alla II guerra mondiale (perché basata sulla deterrenza nucleare) durata pochi decenni sta definitivamente per concludersi. Non sappiamo cosà accadrà, di sicuro saranno conflitti enormi, proporzionati alla capacità distruttiva acquisita dell’essere umano, per affrontare i quali sarà necessaria molta, tantissima virtù per non soccombere alla fortuna.

La capacità esplicativa del paradigma machiavelliano la si può verificare utilizzandola per quanto riguarda il mondo uscito dalla II guerra mondiale. Per l’occidente, e per la stessa Italia, le cose sono andate meglio fin quando gli Usa avevano un antagonista nell’Urss, era proprio questo antagonismo a creare un ordine. Non appena tale antagonista sbiadisce, e questo avviene ben prima del «crollo del muro», comincia la decadenza del mondo occidentale del dopoguerra e nasce il «neo-liberismo».

Machiavelli ritorna d’attualità nella misura in cui si esaurisce il vantaggio tecnologico «occidentale» sul resto del mondo iniziato cinque secoli fa. Se la civiltà ortodossa, quella sinica e anche quell’indiana (sebbene meno protagonista rispetto alla prime due non corre però rischi esistenziali), hanno superato la prova della minaccia mortale costituita dall’espansionismo mondiale dell’occidente, diversamente è stato per la civiltà islamica. A causa del fatto che ha avuto la sventura di trovarsi sopra i maggiori deposito di petrolio mondiale e per debolezze intrinseche dovute alle divisioni confessionali, la civiltà islamica è l’unica rimasta sotto le grinfie dell’occidente. Il tentativo di conquista del dominio mondiale degli Usa dopo il crollo del muro ha colpito soprattutto in questo ambito distruggendo l’Iraq e poi la Libia, mentre l’Iran resta permanentemente nel mirino. Attraverso l’Arabia Saudita e il Qatar si è riusciti a manipolare i movimenti islamisti che utilizzano gli attentati terroristici tra i principali mezzi di lotta, in modo da indirizzarli principalmente contro la Russia. Dato lo sporco gioco occidentale e dato il fatto che i nostro s-governanti hanno avuto la felice idea di lasciar crescere delle enclaves di popolazioni di religione islamiche nelle città europee, con organizzazioni legate all’Arabia Saudita e al Qatar è da prevedere che gli attentati cresceranno, qualora diventassero fenomeno quotidiano con un rischio statistico significativo, potrebbe essere lo sviluppo di forme di milizia popolare. Nei recenti attentati in Europa, la presenza diffusa di cittadini armati, con armi adeguate ed addestrati ad usarle, avrebbe potuto determinare esiti differenti (cittadini nel senso autentico della parola, cioè membri di una comunità capaci di difendere se stessi e la collettività in cui vivono). Altrimenti, l’alternativa sarebbe, nel caso di crescita significativa degli attentati sarebbe la militarizzazione delle società, e la fine di quella libertà di movimento a cui siamo attaccati.

Riconsideriamo quindi il monito che risuona nei secoli lanciato da Machiavelli alle classi dominanti:

Per tanto, se tu vuoi fare uno popolo numeroso ed armato per poter fare un grande imperio, lo fai di qualità che tu non lo puoi poi maneggiare a tuo modo: se tu lo mantieni o piccolo o disarmato per poter maneggiarlo, se tu acquisti dominio, non lo puoi tenere, o ei diventa sì vile che tu sei preda di qualunque ti assalta35.

Se è vero che gli eserciti odierni hanno una ineliminabile componente di specializzazione, è anche vero che ad usare questi strumenti sono pur sempre degli uomini e in quanto tali devono avere delle motivazioni per combattere. Il culto del drone radiocomandato è un simbolo del nichilismo tecnologico in cui si sono infognate le società occidentali. Ma il drone non si guida da solo, neppure è in grado di combattere Igor il cattivo, protagonista della recente e scadentissima saga mediatica. Le società occidentali individualiste e disgregate non forniscono queste motivazioni. Man mano che si intensificherà lo scontro multi-polare Machiavelli tornerà d’attualità. L’«occidente» ha puntato tutto sulla superiorità tecnica, ma il divario tecnico è la cosa più facile da colmare, mentre è molto più difficile far risalire la china ad una società disgregata, divisa al suo interno. Il divario tecnico di cui ha goduto l’occidente è già praticamente superato, e nel prossimo scontro vinceranno le società più compatte che sapranno realizzare forme di inclusione del popolo, che sapranno trovare un popolo disposto e capace di difendere la propria nazione.

Il Progresso è un’idea scaduta, messa radicalmente in discussione da due guerre mondiali e dall’invenzione della bomba atomica. Il progresso tecnico accresce tanto le capacità costruttive quanto quelle distruttive dell’essere umano. Affidarsi al Progresso equivale ad affidarsi alla Divina Provvidenza, un concetto religioso di cui il Progresso fu una secolarizzazione. Per gli occidentali che di fronte alla superstizione del progresso hanno adottato più o meno consapevolmente l’attitudine di alcuni superstiziosi in Italia secondo cui «non è vero ma ci credo», cioè essi non credono più al Progresso, ma continuano a credere che la «civiltà occidentale» sia comunque al culmine della civiltà mondiale, forse la visione ciclica di Machiavelli ha qualcosa da dire: «…la virtú partorisce quiete, la quiete ozio, l’ozio disordine, il disordine rovina, e similmente dalla rovina nasce l’ordine, dall’ordine virtù, da questa gloria e buona fortuna»36. Non è forse l’aver pensato di essere il culmine della civiltà e di non avere più nemici una delle cause della disgregazione e decadenza delle oscietà occidentali?

La cultura americana (statunitense) ha inondato il mondo di ciarpame, ma rispetto alla cultura europea attuale (se ne esiste una visto che ormai si limita a seguire al traino quella statunitense) è possibile rovistando trovare qualcosa di utile, talvolta indispensabile. Prendiamo la questione della guerra, è da tempo ormai che la cultura europea è incapace di affrontare tale fondamentale realtà umana, mentre invece la cultura statunitense non ha bisogno di rimuoverla. C’è un’attenzione alla questione del conflitto assente nella produzione intellettuale delle nazioni europee. Ad es. non saprei indicare un testo di uno scrittore europeo contemporaneo che possa eguagliare per profondità e realismo il libro di James Hillman, Un terribile amore per la guerra, una lettura altamente consigliata che può offrire un valido aiuto per affrontare i tempi che verranno, in quanto affronta la guerra da un punto di vista filosofico e psicologico. Penso inoltre inoltre a tutta una corrente storiografica e sociologica che ha visto nella guerra il principale fattore di sviluppo dello stato moderno. Proprio il marxismo, che si dimostra in questo un frutto della decadenza europea, è stato uno dei principali promotori di questa vera e propria rimozione. Nato, il marxismo, in un momento in cui le nazioni europee si incartavano, per così dire, in conflitti regressivi, pensava di superare questa situazione rimuovendo del tutto il fattore dell’identità di gruppo, della nazione, della conflittualità tra gli esseri umani, che ha caratterizzato ogni epoca della storia umana, sostituendovi la sola conflittualità tra le classi sociali, la quale portata all’estremo avrebbe creato un mondo senza conflitti. Il marxismo ha contribuito di molto alla perdita di contatto con la realtà della cultura europea. Non che il conflitto tra le diverse classi non esiste, l’errore è isolarlo dagli altri conflitti, non metterlo in relazione ad es. a quello inter-nazionale, mentre invece è in questa relazione che acquisisce significati diversi, anche opposti (vedi in merito il mio Relatività dei conflitti. Per un nuovo paradigma nell’analisi politica).

Guardiamo con realismo alla questione del conflitto. Ciò che ha moderato il carattere sostanzialmente oligarchico e degli stati occidentali che ha creato uno spazio per le rivendicazioni salariali è stata la necessità che si è avuta del coinvolgimento popolare per condurre il conflitto con gli altri stati. Dopo la seconda guerra mondiale la presenza dell’alternativa di sistema costituita dall’Unione Sovietica aveva spinto a delle misure, soprattutto in Europa, atte a mantenere un certo consenso popolare, da ciò è sorto il cosiddetto stato sociale. Dopo che, l’Unione Sovietica cessò di essere una sfida, prima del crollo del muro, già negli anni settanta si aveva sentore del non funzionamento del sistema sovietico, ritornò il neo-liberismo. Esso è sostanzialmente una forma estrema di individualismo, come disse la Thachter «la società non esiste». Le città statunitensi, dopo il breve periodo di ordine del dopoguerra, ritornavano allo hobbesiano stato di natura. Frank M. Colman in un articolo degli anni settanta, riconducendo il sistema alla sue radici hobbesiane, coglieva benissimo la tendenza (neo)liberista (ri)nascente. Come ha scritto successivamente Colemanm, lo stato hobbesiano quale incarnazione del creazionismo biblico nullifica il mondo. Il nichilismo in cui si è conclusa la cultura «occidentale», e che di conseguenza ha infettato le culture di tutto il mondo, è frutto di un lungo percorso. Se non altro Hobbes, il suo primo e principale fautore, ebbe l’onestà di chiamarlo con il suo nome di mostro marino, Leviatano. Esso combattè con un mostro terrestre, Behemoth, che sconfisse. Da allora Leviatano si è ingrandito al punto di essere capace ora di inghiottire la Terra, ma pochi osano dichiarare la sua mostruosità.

L’ «occidente» deve prendere atto dell’esistenza di altre civiltà con cui deve convivere. Esse non possono essere sottomesse o distrutte. L’unico tentativo «serio» di impedire la rinascita delle altre civiltà è stato quello nazista. Figurarsi quindi se l’ «occidente» oggi sarebbe in grado di sottomettere la Cina o la Russia.

Bisogna ricercare un assetto che prenda atto realisticamente della competizione per le sfere d’influenza fra le potenze eredi delle grandi civiltà, compresa la possibilità di conflitti locali e a margine delle linee di faglia degli stati eredi delle grandi civiltà, senza però che questo degeneri nel conflitto di civiltà. Il timore, anzi l’orrore, per le conseguenze probabili di una collisione diretta tra civiltà è ciò che deve guidare in negativo le relazioni internazionali. Per l’«occidente» si richiederebbe una decisa inversione di rotta dall’imperialismo da cui è sorto il globalismo (cioè la tendenza al dominio mondiale) ad un territorialismo che curi l’ordine interno. La campagna elettorale di Trump è stata improntata a un «protezionismo» che sembrava riflettesse in una certa misura il desiderio di una inversione di tendenza, ma naturalmente ora eletto non sta mantenendo nessuna promessa. Dicono perché costretto dal «deep state» (cioè dal potere effettivo nascosto, il vero stato), ma temo che quei settori delle classi dominanti che hanno sostenuto Trump non hanno avuto fin dall’inizio l’intenzione di effettuare una seria inversione di marcia. Il «populismo dall’alto» non potrà mai funzionare, se non si incontra con «populismo dal basso». Mi chiedo quanto le classi dominanti possano abusare del popolo nella loro infinita arroganza, finché i cittadini non decidano che sia il tempo di dare loro una lezione. Tra l’altro negli Usa si è conservato uno dei principi fondamentali del repubblicanesimo, cioè la possibilità per il popolo di portare le armi. Di solito si vuole discreditare questo principio sacrosanto attribuendogli la responsabilità dell’alto tasso di violenza. Accusa infondata in quanto in Canada e in Svizzera, dove ugualmente la possibilità di portare liberamente le armi è sancita dalla costituzione, vi sono tassi di mortalità per le armi da fuoco simili a quelli europei, mentre in varie nazioni dell’America Latina dove non vi è questo diritto costituzionale i tassi di mortalità sono più alti di quelli statunitensi.

Un radicale cambiamento di indirizzo degli Usa dal globalismo alla cura dell’ordine interno non è possibile senza cambiamento radicale della sua struttura interna. Tale cambiamento sembra molto difficile nelle condizioni attuali, ma l’alternativa è il declino e il disfacimento interno, oppure la ricerca di una «soluzione tecnica» della crisi attraverso le micidiali armi attuali che comporterebbe una catastrofe mai vista nell’intera storia dell’umanità. Anche se non credo che comporterebbe la fine del genere umano, si tratterebbe comunque di una catastrofe di proporzioni inenarrabili.

Siamo ad una tappa decisiva, che impone un radicale cambiamento di indirizzo, di un percorso iniziato oltre tre millenni fa. Ciò che Jaspers chiama il periodo assiale andrebbe visto come un percorso in cui l’essere umano è passato dalla soggezione verso la natura al tentativo di conquistarla. Non credo che la volontà di non essere in balia della natura sia in sé sbagliata, sicuramente vanno capite bene le modalità e i rischi che essa comporta. Innanzitutto l’essere umano può conquistare uno spazio di preminenza all’interna della natura, ma non può pensare di mettersi al di sopra di essa perché da essa è generato. Come aveva ben capito Jaspers è proprio attraverso l’insensato proposito dell’essere umano che la natura ristabilisce la preminenza. «La soggezione dell’uomo alla natura è resa manifesta in maniera nuova dalla tecnica moderna. La natura minaccia di sopraffare in modo imprevisto l’uomo stesso, proprio mercé il dominio enormemente maggiore che questi ha su di essa. Attraverso la natura dell’uomo impegnato nel lavoro tecnico, la natura diventa davvero la tiranna dell’essere umano. C’e il pericolo che l’uomo sia soffocato dalla seconda natura, a cui egli da vita tecnicamente come suo prodotto, mentre può apparire relativamente libero rispetto alla natura indomata nella sua perpetua lotta fisica per l’esistenza.»

Heidegger nell’analisi della illimitata volontà di potenza a cui Nietzsche diede l’espressione più pregnante, e che non fu certo solo della Germania nazista, scrisse: «La volontà di potenza non è soltanto il modo in cui e il mezzo mediante il quale accade la posizione di valori, ma è, in quanto essenza della potenza, l’unico valore fondamentale in base al quale viene stimata qualsiasi cosa che deve avere valore o che non puo pretendere di averne. «Ogni accadere, ogni movimento, ogni divenire come uno stabilire rapporti di grado e di forza, come una lotta… . Chi è che in tale lotta soccombe è, in quanto soccombe, nel torto e non vero. Chi è che in questa lotta rimane a galla è, in quanto vince, nella ragione e nel vero. Per che cosa si lotti è, pensato e auspicato come fine con un contenuto particolare, sempre di importanza secondaria. Tutti i fini della lotta e le grida di battaglia sono sempre e solo strumenti di lotta. Per che cosa si lotti è già deciso in anticipo: è la potenza stessa che non ha bisogno di fini. Essa è senza-fini, così come l’insieme dell’ente privo-di-valore. Questa mancanza-di-fini fa parte dell’essenza metafisica della potenza. Se mai qui si puo parlare di un fine, questo fine è la mancanza di fini dell’incondizionato dominio dell’uomo sulla terra. L’uomo di questo dominio è il super-uomo (Uber-Mensch)»37.

Frank Coleman, nell’analizzare il rapporto tra Hobbes e l’Antico Testamento, ritiene che nella misura in cui «il capitalismo è ciò che genera la percezione di un difetto nella natura, è anche il capitalismo, assistito dalla scienza moderna, che mostra ad Hobbes la via d’uscita. Il modo in cui il capitalismo ci libera dalla presenza di un difetto nella natura è attraverso il progetto di derivazione biblica di dominio sulla terra. I poteri del Dio dell’Antico Testamento sono riattribuiti al capitale e alla scienza moderna che procede quindi alla produzione di un artefatto della società civile che fa da parallelo e da rinforzo all’artefatto costituito dallo stato. […] Non è tanto il ruolo politico assegnato al capitalismo e alla scienza in sostegno allo stato moderno che è di interesse, ma il concetto che di natura ad esso sottostante. L’idea di derivazione biblica della natura quale artefatto, lasciatemi sottolineare, soggiace allo stato leviatano, alla scienza moderna, e al capitalismo nella teoria hobbesiana»38.

Seppure l’Antico Testamento ha giocato un ruolo fondamentale, io credo esso vada collocato nella cornice più ampia del movimento del pensiero umano costituito dal periodo assiale. Non a caso l’Artefice, il Creatore, the Maker (secondo la lingua inglese) ha un suo antenato nel Demiurgo platonico, figura che nasce dal e allo stesso tempo intende superare il netto dualismo tra mondo delle idee e realtà sensibile. Il trascendentalismo dominante durante il periodo assiale, che si differenzia rispetto ad un periodo precedente dominato da religioni immanenti alla natura, è l’espressione della volontà dell’essere umano di porsi al di sopra della natura. Poiché ciò che trascende l’essere umano è la natura da cui esso è generato, spostare la trascendenza dalla natura allo spirito, determinando una netta contrapposizione tra materia e spirito, tra corpo e anima, significa porre la trascendenza nell’intelligenza, in ciò che l’uomo ritiene che lo ponga al sopra degli altri esseri viventi, restringendo il significato di natura che nell’accezione dei greci comprendeva l’intero cosmo, alle sole «creature» viventi.

Il peccato maggiore dei moderni, prima che due guerre mondiali e la Bomba spegnessero le illusioni, è stata la hybris. Prometeo fu trasformato in una figura positiva, mettendone in secondo piano la tragicità. Persino Goethe, il più equilibrato di tutti, non fu esente da questa distorsione. Eppure se Prometeo fu condannato ad un pena terribile non fu senza ragione. Non tanto per aver rubato il fuoco agli Dei, quanto per aver pensato in questo modo di rendere gli uomini simili ad essi. Il peccato della hybris consiste nell’illusione di poter diventare padroni della natura, dimenticando che siamo sempre soggetti ad essa. Massima è la hybris di Marx secondo il quale sarebbe stato possibile padroneggiare addirittura la Storia, prevederne gli esiti. La storia e la natura hanno le loro radici nell’Ignoto, non sono prevedibili e padroneggiabili nei loro fondamenti ultimi. Far fronte a tale condizione esistenziale è compito degli esseri umani, ma senza pensare di poter padroneggiare ciò da cui siamo stati generati. Engels, un pensatore originale scrisse che la natura «si vendica di ogni nostra vittoria. Ogni vittoria ha infatti in prima istanza le conseguenze sulle quali avevamo fatto assegnamento; ma in seconda e terza istanza ha effetti del tutto impreveduti, che troppo spesso annullano a loro volta le prime conseguenze (…). Ad ogni passo ci vien ricordato che noi non dominiamo la natura come un conquistatore domina un popolo straniero soggiogato (…). Tuttavia il nostro dominio sulla natura consiste nella capacità, che ci eleva al di sopra delle altre creature, di conoscere le sue leggi e di impiegarle nel modo più appropriato»39.

Quando leggiamo Machiavelli lo sentiamo come un moderno, qualcuno che parla di un mondo che è anche il nostro, ma riguardo al rapporto dell’uomo con la natura appare la diversità del «pagano» Machiavelli portavoce di una modernità diversa rispetto a quella che ha prevalso.

«Quanto alle cause che vengono dal cielo, sono quelle che spengono la umana generazione, e riducano a pochi gli abitatori di parte del mondo. E questo viene o per peste o per fame o per una inondazione d’acque: e la più importante è questa ultima, sì perché la è più universale, sì perché quegli che si salvono sono uomini tutti montanari e rozzi, i quali, non avendo notizia di alcuna antichità, non la possono lasciare a’ posteri. […]. E che queste inondazioni, peste e fami venghino, non credo sia da dubitarne; sì perché ne sono piene tutte le istorie, sì perché si vede questo effetto della oblivione delle cose, sì perché e’ pare ragionevole ch’e’ sia: perché la natura, come ne’ corpi semplici, quando e’ vi è ragunato assai materia superflua, muove per sé medesima molte volte, e fa una purgazione, la quale è salute di quel corpo; così interviene in questo corpo misto della umana generazione, che, quando tutte le provincie sono ripiene di abitatori, in modo che non possono vivervi, né possono andare altrove, per essere occupati e ripieni tutti i luoghi; e quando la astuzia e la malignità umana è venuta dove la può venire, conviene di necessità che il mondo si purghi per uno de’ tre modi; acciocché gli uomini, sendo divenuti pochi e battuti, vivino più comodamente, e diventino migliori»40.

Vediamo quindi come Machiavelli ripristina spontaneamente la trascendenza nella natura. La modernità dalla antica visione del mondo si rivela tutta in queste parole che dovrebbero essere da monito per noi viventi. Se gli esseri umani non riusciranno ad invertire la tendenza riparando ai mali prodotti da un percorso millenario, che non è condannare in sé, quale volontà dell’essere umano di non essere in completa balia della natura, ma solo nell’illusione di poter soggiogare la natura, dimenticando che essa stabilisce comunque la sua preminenza rispetto al singolo individuo.

Il Grande Falegname (per quelli del tempo della Bibbia) o il Grande Ingegnere Interstellare per quelli di oggi è un concetto antropomorfico. C’è bisogno di un concetto che indichi l’esistenza di ciò che trascende la capacità di comprensione umana o che l’essere umano può cogliere in minima parte senza poterla esaurire, possiamo chiamarlo Dio, Infinito, Natura. E’ da superare il concetto di Dio creatore della natura (che il settimo giorno si riposò), perché è una proiezione dell’illusione umana di dominare la natura.

Se non si metterà il massimo impegno a invertire una «crescita» che ormai somiglia più al diffondersi di una metastasi e ristabilire un equilibrio allora sarà la natura a farlo. Questo non vuol dire affatto porsi dalla parte della «de-crescita», quel semplicismo per cui basta mettere il segno negativo al valore della «crescita». Sapranno conquistare l’egemonia quei sistemi sociali che sapranno indicare ai popoli un diverso modello qualitativo di sviluppo.

Siamo oggi nel crepuscolo del Demiurgo. Si spera che la notte che incombe non sia illuminata da esplosioni nucleari.

Non il pacifismo, né il buonismo, questi due figli ipocriti della carità cristiana, entrambi arruolati dal globalismo, ma la virtù machiavelliana può ispirare uno spirito di antagonismo nei confronti dell’Idra le cui teste sono sparse in tutto il globo, l’Apparato di potere che rischia di devastare l’intero mondo nella sua agonia. Il pericolo maggiore è che l’Idra-Apparato voglia ricorrere alla Tecnica (nello specifico all’utilizzo delle armi atomiche su vasta scala), sulla quale ha fatto sempre affidamento prioritario, per impedire o ritardare la sua fine, perché non può ricorrere alla virtù che da tempo ha soffocato nei suoi sottoposti. Il compito prioritario degli «occidentali» sarebbe distruggere questo mostro che altrimenti li porterà alla rovina. Siamo sulla strada che porterà ad uno scontro generalizzato che ridefinirà i rapporti inter-nazionali, acquisiranno un ruolo di primo piano le società che faranno affidamento non solo sulla superiorità tecnica degli armamenti, ma sulla loro maggiore compatezza, sul maggiore attaccamento dei loro cittadini al proprio stato, al proprio sistema sociale, alla proprià civiltà. Gli occidentali questo attaccamento non l’hanno, troppo marce sono diventate le società occidentali, troppo piene di diseguaglianza e plateali ingiustizie, troppo pieni di menzogne i programmi dei partiti politici, inqualificabili sono i media occidentali si dedicano deliberatamente al rimbambimento dei loro spettatori e a suscitare tutti i più miseri particolarismi.

Prepariamoci psicologicamente e fisicamente, non esiste una netta distinzione, a tempi difficili. La cosa peggiore è la fuga dalle realtà degli «occidentali», ma per chi non vuole essere in balia degli eventi, per chi ritiene che la dignità dell’essere umano consista nel tentare almeno di far fronte ai colpi della Fortuna, Machiavelli è sicuramente un compagno di strada.

1Pocock, Il momento machiavelliano, ed. it. II vol. p. 389. Ho semplificato i riferimenti bibliografici, con gli attuali strumenti informatici è molto facile ritrovare i testi citati. Inoltre, poiché ho utilizzato la versione digitale di molti testi, ho inserito il numero di pagina solo quando era disponibile, non l’ho inserito nel caso di articoli e introduzioni. L’eventuale lettore interessato al contesto da cui sono tratte alcune citazioni non farà fatica a ritrovarlo. Vorrei infine ringraziare che ha allestito il sito http://gen.lib.rus.ec/, dove ho reperito tantissimi testi e senza il quale non avrei potuto portare a termine questo lavoro.

2 Marco Geuna, Introduzione a Skinner, La Libertà prima del liberalismo, p. XVII

3 M. Geuna, Introduzione a Philip Pettit, Il repubblicanesimo. Una teoria della libertà e del governo, p. 28

4 «Sempre ch’io ho potuto onorare la patria mia, eziandio con mio carico et pericolo, l’ho fatto volentieri: perché l’uomo non ha maggiore obbligo nella vita sua che con quella, dependendo prima da essa l’essere, e dipoi tutto quello che di buono la fortuna e la natura ci hanno conceduto; e tanto viene a essere maggiore in coloro che hanno sortito patria piú nobile. E veramente colui il quale con l’animo et con l’opera si fa nimico della sua patria, meritamente si può chiamare parricida, ancora che da quella fussi suto offeso». Machiavelli, Discorso intorno alla nostra lingua

5 M. Geuna, Introduzione a Q. Skinner, La libertà prima del liberalismo

6 Chabod, Scritti su Machiavelli, p. 77

7 «Questo esemplo, con molti altri che di sopra si sono addotti, mostrano quanta bontà e quanta religione fusse in quel popolo [romano], e quanto bene fusse da sperare di lui. E veramente, dove non è questa bontà, non si può sperare nulla di bene; come non si può sperare nelle provincie che in questi tempi si veggono corrotte: come è la Italia sopra tutte l’altre, ed ancora la Francia e la Spagna di tale corrozione ritengono parte». Machiavelli, Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio

8« …tener ricco il pubblico, povero il privato, mantenere con sommo studio li esercizi militari, sono le vie a far grande una Repubblica» Machiavelli, Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio

9William J. Connell, L’espansione come telos dello stato

10 «Se però è corretto definire Impero “una organizzazione tale che in essa l’unità non agisca in modo distruttivo e livellatore nel riguardo della molteplicità etnica e culturale da essa compresa”, a ragione si può affermare con de Benoist che l’Impero romano, sotto questo profilo è un esempio particolarmente illuminante: nell’Impero romano la tolleranza religiosa è la norma, esiste una doppia cancelleria imperiale, in Egitto si continua ad applicare il diritto indigeno spolverato di diritto greco e il diritto ebraico continua ad essere valido per gli ebrei. Ogni comunità cioè ha il diritto di organizzarsi in base alla propria tradizione, benché chi gode del diritto di cittadinanza romana (concessa con l’editto di Caracalla del 212 d. C. a tutti gli abitanti liberi dell’impero) possa sempre appellarsi alla giustizia imperiale. Insomma, il cittadino romano si trova a dipendere sia dalla città in cui è nato sia dall’amministrazione imperiale. E Maurice Sartre giunge a sostenere: “Se c’è un insegnamento che dobbiamo trarre dalla storia dell’Impero romano potrebbe essere proprio questo: la coesione di un insieme tanto disparato che si basa sul rispetto di strutture locali responsabili della gestione della vita quotidiana, guardiane delle tradizioni […] A conti fatti, il rispetto delle identità culturali è più importante, a lungo termine, del successo economico o degli imperativi strategici”, in quanto sono in gioco un modello di civiltà e un sistema di valori che si ritiene di dover difendere “contro chi vorrebbe metterli in discussione, all’esterno (i barbari) o all’interno (in particolar modo i cristiani)”». Fabio Falchi, L’impero come «grande spazio» . Vedi l’intero articolo per una distinzione tra il concetto di impero e l’imperialismo. Anche se personalmente preferisco utilizzare il termine territorialismo al posto di impero. (L’articolo si può consultare sullo spazio dell’autore in academia.edu).

11da War and State Formation in Ancient China and Early Modern Europe Victoria Tin-Bor Hui, un’apparentemente modesta ricercatrice accademica, ma dal pensiero affilato come la lama di una katana, ha elaborato un interessantissimo saggio comparativo tra la sviluppo della Europa moderna e quello della Cina antica. Putroppo, lo stato comatoso della cultura europea ha lasciato passare inosservato questo saggio che pur ha ricevuto una serie di premi in ambito accademico statunitense.

12 Victoria Tin-Bor Hui, op. cit. p. 39

13Victoria Tin-Bor Hui, op. cit. p. 28

14 Arte della guerra

15Victoria Tin Hui, op. cit. p. 140-1. La citazione di Machiavelli è da Il principe

16… giudico il mondo sempre essere stato ad uno medesimo modo, ed in quello essere stato tanto di buono quanto di cattivo; ma variare questo cattivo e questo buono di provincia in provincia, come si vede per quello si ha notizia di quegli regni antichi, che variano dall’uno all’altro per la variazione de’ costumi, ma il mondo restava quel medesimo: solo vi era questa differenza, che dove quello aveva prima allogata la sua virtú in Assiria, la collocò in Media, dipoi in Persia, tanto che la ne venne in Italia e a Roma. E se dopo lo Imperio romano non è seguíto Imperio che sia durato né dove il mondo abbia ritenuta la sua virtú insieme, si vede nondimeno essere sparsa in di molte nazioni dove si viveva virtuosamente; come era il regno de’ Franchi, il regno de’ Turchi, quel del Soldano, ed oggi i popoli della Magna, e prima quella setta Saracina che fece tante gran cose ed occupò tanto mondo, poiché la distrusse lo Imperio romano orientale. In tutte queste provincie adunque, poiché i Romani rovinorono, ed in tutte queste sétte è stata quella virtú, ed è ancora in alcuna parte di esse, che si desidera e che con vera laude si lauda.

  1. Machiavelli, Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio

17 Pocock, Introduzione a James Harrington The Commonwealth of Oceana and A System of Politics

18 M. Geuna, Rousseau interprete di Machiavelli

19 Victoria Tin-Bor Hui, op. cit. p.. 194

20 Max Weber, Storia economica, p. 227-8

21Crawford Brough MacphersonLibertà e proprietà alle origini del pensiero borghese: la teoria dell’individualismo possessivo da Hobbes a Locke

22Idem

23 Kant, Il conflitto delle facoltà

24Come sintetizza il titolo, From the state of princes to the person of the state, del capitolo finale del II vol. di Vision of Politics

25Diversi testi di Marco Geuna sono disponibili sul sito academia.edu

26Gli interventi di Massimo Morigi sul Repubblicanesimo Geopolitico sono stati pubblicati dal sito http://corrieredellacollera.com

27https://www.youtube.com/watch?v=VeOUHYC8zq8&t=533s

28http://www.cogitoergo.it/l%E2%80%99esercito-esaurito/

29E avvengaché quelli suoi re perdessono l’imperio, per le cagioni e modi discorsi; nondimeno quelli che li cacciarono, ordinandovi subito due Consoli che stessono nel luogo de’ Re, vennero a cacciare di Roma il nome, e non la potestà regia: talché, essendo in quella republica i Consoli e il Senato, veniva solo a essere mista di due qualità delle tre soprascritte, cioè di Principato e di Ottimati. Restavale solo a dare luogo al governo popolare: onde, sendo diventata la Nobilità romana insolente per le cagioni che di sotto si diranno si levò il Popolo contro di quella; talché, per non perdere il tutto, fu costretta concedere al Popolo la sua parte e, dall’altra parte, il Senato e i Consoli restassono con tanta autorità, che potessono tenere in quella republica il grado loro. E così nacque la creazione de’ Tribuni della plebe, dopo la quale creazione venne a essere più stabilito lo stato di quella republica, avendovi tutte le tre qualità di governo la parte sua. E tanto le fu favorevole la fortuna, che, benché si passasse dal governo de’ Re e delli Ottimati al Popolo, per quelli medesimi gradi e per quelle medesime cagioni che di sopra si sono discorse, nondimeno non si tolse mai, per dare autorità agli Ottimati, tutta l’autorità alle qualità regie; ne si diminuì l’autorità in tutto agli Ottimati, per darla al Popolo; ma rimanendo mista, fece una republica perfetta: alla quale perfezione venne per la disunione della Plebe e del Senato

30Polibio, Storie (Libro VI) L’eccellenza della costituzione romana

31Slavery and Social Death

32Sull’individualismo di Marx vedi Louis Dumont, Homo aequalis

33Michael Hardt (Autore), Antonio Negri (Autore), A. Pandolfi (a cura di), D. Didero (a cura di), Impero

34Vedi in merito il lavoro di James H. Billington, Fire in the Minds of Men: Origins of the Revolutionary Faith

35 Machiavelli, Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio

36 N. Machiavelli, Istorie fiorentine

37 Nietzsche

38The prosthetic God: Thomas Hobbes, the bible, and modernity

39Dialettica della natura

40Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio

http://www.gennaroscala.it/2017/06/21/il-paradigma-machiavelliano-per-la-definizione-di-una-teoria-politica-non-ideologica/

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Geminello Preterossi, Teologia politica e diritto, Editori Laterza_a cura di Teodoro Klitsche de la Grange

Geminello Preterossi, Teologia politica e diritto, Editori Laterza Bari 2012, pp. 295, € 25,00.

L’espressione “teologia politica” è polisensa. Di solito denota l’influenza della religione nell’ordinamento delle comunità umane; in altri casi la corrispondenza tra rappresentazione dell’ordine metafisico-teologico e quello politico; in altri quello della somiglianza tra concetti della teologia con quelli del diritto pubblico. Il tutto in un’epoca in cui la secolarizzazione appare compiuta, il cielo si è eclissato ed ha lasciato la terra, onde parlare di teologia politica sembra un’attività di archeologia culturale.

L’autore ritiene invece che: “La tesi fondamentale di questo libro è che la teologia politica sia inestinguibile. Anche al tempo della sua negazione, qual è quello presente. L’obiettivo che ci proponiamo è di scavare dentro questa insuperabilità. Sia facendone la genealogia, in modo da illuminare il nucleo teologico-politico della modernità e la costante riemersione di domande di senso in ambito secolare. Sia evidenziando le forme rovesciate che la teologia politica assume nel contesto ideologico neoliberale, cioè come teologia economica e teologia giuridica”. Al posto della teologia politica appaiono quindi quelle economica e giuridica “Ma interpretare quella crisi come tramonto o scomparsa sarebbe ingenuo. Piuttosto, con la teologia economica e quella giuridica si assiste alla  riproposizione in forme rovesciate, spesso ostili al primato del “politico”, dei problemi di legittimazione e delle esigenze ordinative che sono alla base del nucleo teologico-politico moderno e del suo lascito paradossale”. Per teologia economica (il termine è anch’esso polisenso) Preterossi intende in primo luogo “una proposta ermeneutica sul neoliberalismo che non si limiti a sottolinearne gli aspetti ideologici e le conseguenze sociali, ma individui in esso un paradigma di razionalità e di governo basato su altre logiche (e altri “assoluti”) rispetto alla costellazione di senso propria della trascendenza politica sovrana”: il tutto senza alcuna trascendenza (almeno apparentemente). Mentre con la formula “teologia giuridica” si intende sottolineare la tendenza alla moralizzazione della normativa giuridica”. Come la teologica economica è rivolta contro la sovranità degli Stati, ma, non è riuscita ad eliminare quello che Miglio chiamava “regolarità della politica” e, in un diverso discorso, Freund “i presupposti del politico”, e ancor meno le situazioni eccezionali. Che anzi si sono ripresentate in modi (la pandemia) e in teatri (la guerra in Europa) dove sembravano estinte. Segno che i quattro cavalieri dell’apocalisse non sono stati pensionati dalla “fine della storia”. L’inconveniente fondamentale del neo-liberalismo è di andare “in direzione di un modello di società che escluda qualsiasi dimensione di trascendimento simbolico del piano di immanenza… non solo non riesce più a fare ordine, ma per arginare illusoriamente tale ingovernabilità si finisce per revocare… tutti gli elementi costitutivi del “politico”, senza tuttavia la possibilità di istituzionalizzarli, renderli produttivi, travolgendo così anche la funzione della mediazione giuridica e sociale”. Guerra e stati d’eccezione (da anni nell’occidente globalista viviamo per lo più tra l’uno e l’altra) mostrano come “tutti i tentativi di aggirare o rimuovere la teologia politica ne subiscono la nemesi, pagando il prezzo della mancata assunzione delle sfide alle quali essa corrispondeva. Così che, in un quadro disarmante di inefficienza ordinativa, si finisce per replicarla surrettiziamente in forme compensative e politicamente inefficaci”. In effetti caratteristica della modernità “grazie a una serie di passaggi che siamo abituati a denominare “secolarizzazione”, (e che) la politica e la mediazione giuridica si sostituiscono alla religione come forza coesiva mondana. Ma non si tratta di una liberazione del religioso, cioè delle aspettative che in esso erano riposte. Quella sostituzione carica la politica della funzione simbolica istitutiva che era stata propria della religione”, e produttiva di coesione sociale perché esercita la funzione di mediare e decidere i conflitti. Per cui il riemergere del “politico” (e del teologico-politico) ai tempi dell’anti politica, ne prova l’insostituibilità.

La stessa “teologia economica” neoliberale “è una teologia politica “anti-politica” perché fa dell’immanenza un assoluto, Cioè una forma di trascendenza sacrale che nega se stessa. Infatti il neoliberalismo non è, se si guarda alla sua logica profonda, solo una teoria “economica”, ma una filosofia della spoliticizzazione dell’agire umano”. Analogamente la sua opposizione dialettica, ossia il “populismo”, non rinuncia al “fondo” teologico. Scrive l’autore che “”Ne deriva che o c’è dio o c’è il popolo: nelle società secolarizzate, è inevitabile che la fonte sia quest’ultimo. Il popolo prende il posto di dio come soggetto costituente. Il populismo, evocando il popolo, si ricollegata a questo passaggio decisivo della tradizione democratica moderna, che è un passaggio teologico-politico in senso schmittiano, quindi come sostituzione di una “trascendenza politica” moderna, emergente sul piano dell’immanenza a una trascendenza sacrale, in sé “trascendente””.

Preterossi conclude sostenendo (cosa ormai evidente) che la “teologia economica” alla lunga, non ha funzionato: al deficit di eccedenza politica non ha sostituito alcun surplus ordinante “Ciò ha causato una profonda crisi di legittimazione”, né ha suscitato legami comunitari. La “teologia giuridica” neppure: la tesi dell’autore è che “la saldatura di un diritto sempre meno preoccupato dell’effettività e della certezza con la morale neoliberale sia non solo il segno di una generale crisi del “giuridico”, ma allo stesso tempo il tentativo, disperato e fallimentare, di individuare una sfera legale eticamente immunizzata, che compensi la perdita di auctoritas delle istituzioni e l’inaridimento della sfera pubblica”. La teologia politica è così inestinguibile “in quanto esprime la struttura di fondo della metafisica politica moderna… L’unico modo per tenerla sotto controllo è riconoscerla, non contrapporvisi direttamente, o negarla. Se, come credo, la modernità può essere concepita come una forma di “auto-trascendenza dell’immanenza”, ciò significa che la teologia politica è un movimento interno alla modernità secolare”. Non è necessario che il fondamento sia di natura religiosa “Può essere anche di natura etico-politica, ideale (nella modernità matura è stato prevalentemente tale). Ma il punto è che il “contenuto etico” non può risolversi in compensazione soggettivistica, moralistica del vuoto d’identità collettiva”. Così “La teologia politica si ripropone oggi nella forma del simulacro. Non produce risposte politiche, ma surrogati di verticalità e di sicurezza”.

Resta il dubbio se vi siano forme di soggettività politica collocabili “oltre” la teologia politica, che l’autore ritiene auspicabili “di visioni politiche ambiziose, che non temano di confrontarsi con le “cose ultime”, abbiamo bisogno.. La politica come amministrazione va bene, forse, per tempi tranquilli. Non quando lo spirito torna a calzare gli stivali delle sette leghe”

Un saggio assai interessante ed esauriente, nel solco pensiero di Hobbes, Hegel e Schmitt.

Una notazione del recensore ad un libro così articolato e del quale ho cercato di rendere l’essenziale.

È noto che a partire da de Bonald, continuando per Donoso Cortes e arrivando a Maurice Hauriou la correlazione tra concezioni teologiche e forme politiche (non solo statali) è stato variamente affermato. Così per de Bonald il deismo era la concezione teologica sottesa al costituzionalismo liberale (il re che regna ma non governa), il teismo cattolico allo Stato assoluto; per Donoso Cortes il nocciolo del liberalismo era sempre deista, quello del socialismo ateo. Per Maurice Hauriou lo stato borghese era uno dei possibili esiti della dottrina teologica del diritto divino provvidenziale, mentre lo Stato assoluto lo era del diritto divino soprannaturale; il decano di Tolosa riteneva anche come questo fosse un  intervento (intervention) della metafisica sul diritto. Il quale ricopre come un guscio (couche) il fondo (fond) teologico, ma non può sfuggire a questa costante (o regolarità). La quale si manifesta chiaramente quando il diritto viene a mancare, come nel caso dei governi di fatto, fondati sulla “giustificazione teologica” e non sulla legalità delle procedure. Il fond teologico è così creatore di forme giuridiche. Resta da vedere quali forme possa creare il “pilota automatico” (versione tecnocratica della “mano invisibile”) tecno-globalista. Probabilmente nessuna (se coerente); ove apocrifo (e ipocrita) la consegna del destino delle comunità a poteri indiretti ed opachi. Colla prospettiva di avere un governo né visibile né responsabile.

Teodoro Klitsche de la Grange

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RUSSIA E CINA: L’EMERGERE DEGLI STATI ASSOLUTI , di Stefano d’Andrea

Un testo breve, ma intenso e attuale. A mio avviso, però, è proprio la definizione di “stato capitalista” che andrebbe ridimensionata anche storicamente. Il diverso peso che hanno ed hanno avuto nei centri decisori la componente manageriale ed imprenditoriale capitalista non è sufficiente a definire “capitalista” o meno uno stato e un regime. Il “politico” e le espressioni fisiche del politico seguono logiche proprie. Buona lettura, Giuseppe Germinario

RUSSIA E CINA: L’EMERGERE DEGLI STATI ASSOLUTI

Russia e Cina sono ordinamenti giuridici statali, che rappresentano una novità assoluta nella storia.
Sono indubbiamente ordinamenti capitalistici, perché il rapporto di lavoro subordinato capitale-lavoro è la forma giuridico-economica prevalente.
E tuttavia il potere politico non è nelle mani alla classe capitalista.
Il potere politico non è semplicemente autonomo dal potere economico e dotato di una relativa forza propria, che gli consenta di “venire a patti” con il partito della grande impresa (come accadde in molti Stati per 20 o 30 anni dopo la seconda guerra mondiale) ma è sovraordinato al potere economico dei capitalisti, che, appunto, è un potere puramente economico.
Ciò è vero sicuramente in Cina, dove il partito comunista ha escluso dagli organi di vertice del partito e dagli organi costituzionali finanche i boiardi di Stato, perché fanno una vita simile ai grandi imprenditori e introiettano e diffondono una mentalità analoga a quella dei grandi capitalisti e dei CEO delle imprese private, ma, dopo la guerra in Ucraina, come testimonia il discorso di Putin del 22 febbraio 2023, anche in Russia.
Gli Stati assoluti hanno più potere politico di quanto ne avessero i monarchi assoluti, perché più di questi ultimi sono di fatto e di diritto indipendenti dal potere economico della classe capitalista, anche e soprattutto in ragione dell’esistenza della moneta fiat.
Gli emergenti Stati assoluti non sono una fase di transizione destinata a portare allo stato costituzionale “borghese”, che meglio avrebbe dovuto essere definito (fino al secondo dopoguerra) stato costituzionale “capitalista”, come furono le monarchie assolute. Sono, invece, o una recente reazione vincente a quest’ultimo (Russia), o una resistenza di più lunga durata e di grandissimo successo (Cina).
La radice storica dei due Stati assoluti è l’esperienza del comunismo reale, che mostra di aver lasciato tracce indelebili nella storia.
Negli Stati assoluti il potere politico è nelle mani del “partito dello Stato” e la classe capitalista non possiede, se non in minima è insignificante parte, il potere di conformare l’opinione pubblica (indispensabile per contrastare e poi vincere l’egemonia del partito dello Stato), potere che in Russia è detenuto più dall’opposizione comunista che dalla quasi inesistente opposizione capitalista (gli oligarchi) e in Cina più dall’opposizione maoista che da CEO e grandi imprenditori.
Viene meno, con questi Stati assoluti, un caposaldo del marxismo, che vedeva nel potere politico degli ordinamenti capitalisti, un potere direttamente o indirettamente (tramite il “comitato d’affari”) esercitato dalla classe dei capitalisti.

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Noi e i Robot – L’impatto dell’Intelligenza Artificiale su presente e futuro dell’umanità_della Fondazione Giuseppe e Adele Baracchi

Questo sito ha pubblicato già alcuni testi sulla Intelligenza Artificiale e sulle implicazioni sociali e politiche della formazione ed utilizzo delle applicazioni derivate. Quanto prima li raggrupperemo in un dossier. Qui sotto un video particolarmente interessante che fornisce alcune informazioni di base necessarie ad una discussione consapevole. Giuseppe Germinario

Nella terra desolata nulla si collega, di AURELIEN

Nella terra desolata
Nulla si collega.

AURELIEN
17 MAG 2023

Siamo in un momento strano della storia politica occidentale. Per la prima volta, possiamo vedere chiaramente che un vecchio sistema sta morendo, ma non riusciamo a capire come, o addirittura se, ne nascerà uno nuovo; e nemmeno come sarà, anche se dovesse nascere. Sembra che qualcosa sia andato storto nei meccanismi della storia e della politica.

Quando Gramsci ha prodotto la famosa citazione che ho appena riportato, scriveva in un’epoca in cui i cambiamenti politici discontinui erano piuttosto comuni. Le monarchie erano state sostituite da repubbliche, gli imperi erano crollati, i nazionalisti erano riusciti a creare nuovi Paesi o a dividere quelli vecchi, e forze politiche estremiste avevano preso il controllo di Paesi, compresa la sua Italia. Ma non c’erano solo forze politiche dietro questi cambiamenti, c’erano anche ideologie. I marxisti si aspettavano la rivoluzione, i nazionalisti le rivolte etniche, le espulsioni e il controllo del territorio, i conservatori i movimenti di rinnovamento per cancellare ciò che consideravano decenni di decadenza. Non mancavano le teorie politiche strutturanti a cui attingere: anzi, ce n’era una sovrabbondanza e tutti sembravano avere la propria teoria su come il mondo potesse essere rifatto.

Oggi abbiamo superato da tempo quella situazione. La morsa di quello che Mark Fisher ha notoriamente definito “realismo capitalista” sui pensieri e sulle convinzioni di chi detiene il potere e degli opinionisti di ogni tipo è tale che, a tutti i fini pratici, potrebbe anche non esistere un’alternativa. E come suggerirò, anche se si potesse trovare la volontà di realizzare un cambiamento, altri meccanismi utilizzati nella storia non sono più disponibili per realizzarlo. Non so se la battuta – attribuita a varie persone – secondo cui è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo sia davvero vera, ma in ogni caso, anche se si può immaginare qualcosa al di là del capitalismo, una cosa è immaginarla e un’altra è arrivarci davvero.

Se guardiamo alla storia – e lo faremo tra poco – vediamo che per realizzare un cambiamento politico fondamentale e discontinuo sono necessarie tre cose. Uno è un gruppo di individui con uno scopo comune (anche se non necessariamente identico). Il secondo è una visione chiara di ciò che si vuole, in termini di ideologia o almeno di obiettivi politici definiti. Il terzo sono le risorse e l’organizzazione in grado di realizzarlo. Avere solo due di questi elementi non è sufficiente. Tutto ciò può sembrare banale, ma in realtà lo sono molte cose della storia. E ci ricorda che la storia non è, di fatto, interamente il prodotto di forze cieche, ma piuttosto di una complessa interazione tra individui, gruppi e società.

Questo aspetto tende a essere mascherato dal modo incruento in cui gli scienziati politici e gli storici discutono dei cambiamenti discontinui. I governi “perdono potere”, sono “minati” e “cacciati dal potere” o “rovesciati”. Ma in generale, la politica non funziona con la voce passiva. Come ho già sottolineato in un altro contesto, le decisioni politiche sono prese e portate avanti da persone nominate, che generalmente lavorano insieme. Forse i politici intelligenti sanno come navigare sulle maree della storia, ma concetti come “politica” (o anche “storia”) non hanno un’agenzia indipendente in questi casi. Quindi le domande che gli storici si pongono dovrebbero essere sempre di tipo pratico: ad esempio, si chiede Machiavelli, ne Il Principe, perché il regno di Dario, conquistato da Alessandro, non si ribellò ai successori di Alessandro alla sua morte? Ed egli fornisce una risposta pratica, basata sulla comprensione delle strutture di potere comparate.

Tutti i cambiamenti politici discontinui di successo (esclusi quindi i semplici colpi di Stato o le dimissioni forzate) si basano sul funzionamento dei tre fattori sopra citati. Alcuni esempi sono noti. I bolscevichi non erano il partito più ovvio ad emergere vittorioso dal caos che seguì la caduta dello zar nel 1917. Se il potere era davvero “per strada”, come pare abbia detto Lenin, allora c’erano altri gruppi più grandi che avrebbero potuto raccoglierlo. Ma i bolscevichi avevano una leadership di cospiratori e rivoluzionari professionisti, una chiara dottrina per prendere e mantenere il potere, nonché una buona idea di cosa farne, e le forze necessarie per prendere e mantenere gli obiettivi più importanti in una società moderna. E’ importante notare che da vent’anni, dopo la scissione con i menscevichi, disponevano di un’organizzazione disciplinata, strutturata per impartire ed eseguire gli ordini. Lo stesso processo poteva funzionare anche al contrario. Ad esempio, il cosiddetto putsch di Kapp del 1920 (dal nome di uno dei suoi leader), che mirava a rovesciare il nuovo sistema politico democratico in Germania, fallì perché un numero massiccio di tedeschi, organizzati dai sindacati, obbedì all’appello del governo per uno sciopero generale, e il colpo di stato crollò.

Qualcosa di analogo accadde in Francia nel 1944, mentre le forze alleate stavano attraversando il Paese. Gli Stati Uniti avevano intenzione di installare un governo militare in Francia e di gestirlo in prima persona. Praticamente tutte le forze politiche in Francia e in esilio si opposero all’idea, dai nazionalisti ai comunisti. Tuttavia, de Gaulle era stato in grado di unificare i vari movimenti della Resistenza sotto la guida del grande martire della Resistenza Jean Moulin, e un intero governo ombra era già pronto nel Paese per essere attivato al momento dell’invasione. Così, quando le forze americane arrivarono, scoprirono che le città erano già state conquistate, i collaborazionisti erano in carcere o morti e la Resistenza controllava il territorio in attesa dell’arrivo delle truppe francesi. Quindi, ancora una volta, una leadership unita, un obiettivo chiaro e gli strumenti necessari avevano trionfato. È per questo che le forze rivoluzionarie hanno tipicamente un’ala militare e una politica, quest’ultima non solo per fornire una direzione politica, ma anche per prepararsi a governare. In alcuni casi, come l’ANC nel 1994, questo ha funzionato bene, in altri, come i Talebani nel 2021, molto meno.

Forse possiamo iniziare a vedere un modello che sta emergendo. L’entusiasmo o il malcontento popolare non sono in grado di produrre cambiamenti da soli: devono essere incanalati in qualche modo. Le idee non hanno valore se non vengono accolte da qualcuno che ha potere. E in gran parte si tratta di potere relativo, piuttosto che assoluto: è sufficiente avere il bastone più grosso, non necessariamente un bastone oggettivamente enorme. Vediamo un paio di esempi per capire come funziona in pratica e, così facendo, per gettare un occhio freddo sull’incapacità della maggior parte di coloro che oggi scrivono di cambiamenti politici di capire come avvengono.

Pochi episodi nella storia hanno avuto conseguenze maggiori e più disastrose della presa di potere nazista nel 1933. (Quando ero giovane, i libri su quell’epoca erano o memorie (che si concentravano sugli anni della guerra, per ovvie ragioni) o storie giornalistiche di scrittori come William Shirer, che avevano osservato da vicino gli eventi in Germania. Il periodo tra il 1933 e il 1939 non suscitò grande interesse, se non come racconto morale di debolezza, inazione e disastro, o come storia incomprensibile di manovre politiche da parte di persone con nomi strani. Per i marxisti, Hitler fu “messo al potere” (notare ancora il passivo) dai capitalisti, o addirittura “dal potere del capitale”. La spiegazione più diffusa è che egli era stato “trascinato alla vittoria” nelle elezioni, da una popolazione tedesca che era stata giustamente punita in seguito dai bombardamenti britannici e americani.

Tuttavia, anche all’epoca, la lettura dei resoconti del periodo 1932-3 era confusa. Dopo tutto, non più di un terzo dell’elettorato votò per i nazisti e il loro sostegno si ridusse tra le due elezioni del 1932. E nelle elezioni del dicembre 1932, i consensi per i partiti socialista e comunista combinati superarono quelli per i nazisti. Tutto questo, e ai nazisti furono offerti (e accettati) solo due seggi nel gabinetto del nuovo governo. Quindi, in che modo esattamente i nazisti furono “spazzati via dal potere”? Solo di recente, grazie alle sintesi di storici come Richard Evans, le cose sono diventate più chiare. Il fatto è che i nazisti stavano giocando una partita diversa da quella dell’establishment politico tedesco.

A Von Papen e Hindenburg deve essere sembrata una mossa intelligente. I nazisti erano il maggior partito del Reichstag, ma non potevano formare un governo da soli. Si pensava che, se si fosse dato loro qualche posto nel gabinetto, avrebbero portato i loro voti, si sarebbe potuto finalmente formare un governo vero e proprio e si sarebbe potuta riprendere la normale vita politica in Germania. I nazisti non potevano essere una minaccia: erano dilettanti in politica e potevano essere facilmente contenuti dai politici professionisti. Anche l’insistenza di Hitler nel voler diventare Cancelliere poteva essere sopportata: non avrebbe avuto alleati nel Gabinetto, a parte Goering, il Ministro dell’Aviazione, ma avrebbe avuto una macchina governativa ostile con cui confrontarsi. È vero che Hitler consolidò rapidamente il suo potere e portò altri nazisti al governo, ma questa non è la parte più importante di ciò che accadde.

Perché i nazisti non stavano facendo politica democratica: potevano avere poca esperienza di governo, ma avevano molta esperienza di violenza e una forza paramilitare di 400.000 uomini (la Sturmabteilung, popolarmente nota come “Brownshirts”) per amministrarla. Furono le SA a portare Hitler al potere, piuttosto che al governo, imponendo il regime nazista in tutto il Paese. Quindi, i nazisti non avevano solo una leadership con idee convergenti e un programma politico (vago), ma anche una concezione della politica attraverso la forza bruta e una grande organizzazione nazionale in grado di applicare tale forza a livello locale. L’esercito era troppo piccolo per intervenire, e comunque Hitler era il cancelliere. La polizia era largamente impotente, soprattutto dopo la nomina di Goering a Ministro-Presidente della Prussia.

Nessuna di queste componenti sarebbe stata sufficiente da sola. Hitler era un abile tattico politico, ma c’erano in giro molti tattici altrettanto abili. Il programma nazista non era particolarmente diverso da quello di molti altri partiti dell’epoca: ripudiare Versailles, ricostruire il Paese, combattere la minaccia comunista, ecc. Esistevano anche altre forze paramilitari, in particolare legate al Partito Comunista Tedesco, ma erano molto più piccole e non avevano la stessa copertura nazionale delle SA. Come spesso accade in politica, c’era un buco da riempire e i nazisti lo individuarono e vi si precipitarono. Uno dei vantaggi di un approccio meccanicistico alla comprensione della presa del potere da parte dei nazisti, tra l’altro, è quello di mettere al suo posto tutte le iperventilazioni, di allora e di allora, su una nazione che “impazzisce” e si “getta nelle mani” di un pazzo delirante. In realtà, il popolo tedesco non si è gettato da nessuna parte.

Vorrei ora soffermarmi brevemente su un’altra svolta estremamente inaspettata dopo un terremoto politico: ciò che accadde in Iran nel 1978 e nel 1979. Non solo questo episodio è poco compreso in Occidente, ma tale incomprensione ha contribuito a un più ampio fraintendimento sulla natura stessa delle transizioni politiche discontinue. È comune dire (e l’ho sentito dire anche da studenti di relazioni internazionali) che il governo dello Scià “cadde” o fu “rovesciato” dagli islamisti guidati da Khomeini. La verità è molto più complessa (per esempio, Khomeini non era nemmeno nel Paese quando lo Scià se ne andò), ma per i nostri scopi è sufficiente notare che l’opposizione allo Scià era diffusa, e andava dagli islamisti all’estrema sinistra, ma che gli islamisti sono usciti dalla confusione e dal caos del 1978-82 con il controllo della situazione perché avevano una leadership unita (sotto il venerato Khomeini), una dottrina chiara (la dottrina di Khomeni del governo islamico, “né Est né Ovest”) e forze massicce a disposizione organizzate dalla gerarchia religiosa. L’Occidente è rimasto completamente sbalordito dall’esito, poiché non si è verificato nessuno degli scenari ipotizzati. Le moderne forze “filo-occidentali” erano troppo piccole ed eccessivamente concentrate nelle grandi città, e l’esercito era confuso, scoraggiato e riluttante ad agire.

Tuttavia, anche in questo caso c’era molta contingenza. È vero che milioni di persone hanno partecipato alle manifestazioni anti-Shah nel 1978, per alcuni versi le più grandi manifestazioni nella storia del mondo. Tuttavia, c’era poca unità di vedute tra di loro e poca idea di ciò che sarebbe seguito al regime dello scià. Le manifestazioni di massa non causano di per sé rivoluzioni, ma ne creano semplicemente la possibilità. Allo stesso modo, Khomeini era in esilio in Francia all’epoca e le ragioni che spinsero il governo francese a rimandarlo in patria con una tale pubblicità rimangono ancora oggi oscure e controverse. È molto probabile che i francesi (e gli Stati Uniti) lo vedessero come una figura tranquillizzante, un ecclesiastico moderato che avrebbe frenato gli eccessi della Rivoluzione e contribuito a controbilanciare una tendenza pericolosamente di sinistra tra i suoi sostenitori. Alcuni sostenitori del suo ritorno in Iran sembravano vederlo come l’equivalente del vescovo Desmond Tutu in Sudafrica, o addirittura di Gandhi. Ebbene, tutti possiamo sbagliare: in realtà, Khomeini era un abile politico che si trovava a suo agio con l’idea di usare la violenza contro gli oppositori dell’Islam (quindi eretici e apostati) e che esprimeva un’ideologia che faceva appello al generale sentimento anti-occidentale del Paese. Se Khomeini fosse rimasto in Francia, la storia recente della regione sarebbe stata molto diversa.

Da tutto questo, credo, emerge un punto su tutti: l’importanza di quelli che i francesi chiamano Corps intermédiaires, meglio tradotti come “strutture intermedie”. Si possono avere le menti strategiche più brillanti e le idee più meravigliose, ma è necessario un meccanismo di trasmissione per mettere in pratica queste idee. Nel caso del tentato colpo di Kapp, citato in precedenza, esisteva un movimento sindacale grande e potente, legato al Partito socialista, probabilmente il più grande ed efficace partito politico mai visto in una democrazia occidentale. Aveva un’impressionante capacità organizzativa, molti funzionari pagati e persino un proprio giornale. Così, quando ha indetto lo sciopero, la gente ha scioperato e il putsch è stato sconfitto. Il 1° maggio di quest’anno, le forze che si opponevano ai cambiamenti delle pensioni in Francia hanno ingrossato i normali cortei del Primo Maggio: circa un milione di persone erano in piazza in tutta la Francia. Il governo non ne ha tenuto conto.

La differenza non è solo nelle dimensioni e nella scala. Se qualche centinaio di migliaia di lavoratori dei servizi essenziali si fossero uniti allo sciopero, il Paese si sarebbe potuto fermare. Ma ciò non è accaduto, in parte perché le strutture intermedie non sono potenti e ben supportate come in passato (solo il 5% circa dei lavoratori francesi è iscritto a un sindacato), ma anche perché la struttura della forza lavoro è cambiata. Il servizio postale, ad esempio, che potrebbe avere un effetto attraverso un’azione sindacale, è ora in gran parte occasionale e i lavoratori non sindacalizzati a salario minimo svolgono gran parte del lavoro. I lavoratori non vivono più in comunità e hanno a malapena il tempo di conoscere i loro colleghi, in una forza lavoro che cambia continuamente e che non sviluppa mai solidarietà. In queste circostanze, un’organizzazione efficace è impossibile, anche se ci fosse una leadership forte (che spesso manca) o un insieme chiaro di obiettivi (che spesso manca anch’esso).

Come indicato, i sindacati erano molto spesso legati ai partiti politici e in molti Paesi questi stessi partiti esercitavano un’influenza strutturante sulla società. In Francia e in Italia, ad esempio, il Partito Comunista era una sorta di governo parallelo (e un vero e proprio governo in alcune città) che spesso forniva ai poveri servizi che lo Stato non poteva o non voleva fornire. I partiti politici di massa fornivano un’intera serie di meccanismi per ottenere risultati al di fuori del potere dello Stato e, se necessario, in opposizione ad esso. Ma l’epoca dei partiti politici di massa, e persino l’interesse ad averli, è finita da tempo.

In Gran Bretagna lo sciopero dei minatori del 1984 è durato così a lungo perché l’industria mineraria era l’intera vita di varie comunità e intere famiglie erano coinvolte in tutti gli aspetti del lavoro e della sua cultura. Mentre gli uomini presidiavano i picchetti, le donne organizzavano la sopravvivenza sociale della comunità, cosa impensabile oggi. Comunità di questo tipo non esistono più, intorno a un centro Amazon o a un parco a tema. Un tempo le comunità esistevano nei centri cittadini e nei quartieri popolari più poveri. Oggi non è più così: in tutto il mondo, con la morte degli anziani residenti, gli appartamenti e le case vengono acquistati da speculatori e milionari. Il centro della maggior parte delle città occidentali è un deserto di notte.

Oltre ai sindacati, ai partiti politici e alle comunità di lavoro, l’altro tipo di struttura intermedia era la Chiesa. Le chiese hanno svolto ruoli così diversi nel cambiamento politico che è impossibile generalizzare, ma come minimo hanno operato come centri comunitari, raggruppando le persone socialmente e dando loro una capacità di azione, anche se in disaccordo su alcune cose. (Analogamente, la rete nazionale di moschee in Iran ha svolto un ruolo chiave nello sviluppo delle strutture che hanno portato Khomeini al potere). La Chiesa cristiana è stata una forza di reazione e di progresso allo stesso tempo (ad esempio in America Latina) ed è stata un centro di resistenza sia contro il governo comunista in Polonia che contro il regime di apartheid in Sudafrica, negli anni Ottanta. A prescindere dalle questioni ideologiche, tuttavia, le chiese e le istituzioni religiose hanno spesso agito come meccanismi di coordinamento nella lotta per o contro il cambiamento politico. In Francia nel XIX secolo, ad esempio, la destra si organizzò attorno alla gerarchia ecclesiastica, così come la sinistra utilizzò la rete massonica nazionale.

È un’ovvietà dire che in generale queste reti non esistono più o, laddove esistono, servono a poco. Per esempio, in un paese occidentale medio nessun movimento che dipendesse dai sindacati per il suo sostegno potrebbe sperare di uscire trionfante da una competizione con il governo, ed è sempre più chiaro che le comunità virtuali di Internet sono proprio questo: virtuali, non reali. L’entusiasmo per l’uso dei social media nella Primavera araba si è ormai placato, poiché è diventato chiaro che la capacità di organizzare manifestazioni non è la stessa cosa della capacità di prendere e mantenere il potere. I beneficiari della Primavera araba in Tunisia e poi in Egitto non sono stati politici occidentali di classe media, ma movimenti politici islamisti che hanno potuto raccogliere i frutti di decenni di preparazione e organizzazione.

Questo non dovrebbe essere una sorpresa: la politica non tollera il vuoto e il gruppo meglio organizzato (o meno disorganizzato) tenderà a prevalere. Questi gruppi non devono necessariamente essere esplicitamente politici: a un estremo, la criminalità organizzata può spesso fornire una serie di funzioni statali surrogate, proprio perché è organizzata. La criminalità organizzata è notevolmente intollerante nei confronti della criminalità disorganizzata, che tende ad abbattere con metodi che non sarebbero politicamente accettabili in un sistema democratico. Ma l’esperienza di molti Paesi in crisi e in conflitto (Bosnia, Somalia, Liberia tra gli altri) è che tendono ad emergere dei para-stati, spesso a base etnica, che combinano le funzioni del racket e del contrabbando con un ordine pubblico approssimativo e pronto, oltre a garantire un certo grado di sicurezza.

È ovvio che uno dei criteri per sostituire o modificare pesantemente sistemi politici esauriti o screditati è l’esistenza di queste istituzioni intermedie, che possono fornire l’organizzazione e forse il personale per realizzare il cambiamento. Non è necessario che siano movimenti di massa per essere influenti: le varie società politiche che fiorirono nella Francia pre-rivoluzionaria ne sono un esempio. Ma il problema in Occidente è che attualmente non esistono quasi più. Il liberalismo considera tutte queste istituzioni come reliquie del passato, il cui unico effetto è quello di ostacolare il buon funzionamento del mercato. Il che va bene finché c’è un mercato e i vostri desideri e bisogni sono limitati a quelli che un mercato può, almeno teoricamente, fornire.

Il rischio ora è che i sistemi politici di molti Stati occidentali comincino a crollare e che nulla li sostituisca: l’anarchia nel senso popolare del termine. È abbastanza facile capire come ciò possa accadere. L’interesse e la fiducia dei cittadini nei sistemi politici esistenti si stanno riducendo in tutto il mondo occidentale. In molti Paesi, quasi la metà della popolazione si preoccupa di votare, anche alle elezioni nazionali. I partiti hanno ancora differenze tra loro, ma spesso sono relativamente minori e non corrispondono alle differenze di opinione e di interesse all’interno delle società stesse. Sebbene le questioni sostanziali di destra e sinistra siano in realtà salienti come non lo sono mai state, la distinzione operativa più importante nel modo in cui le persone si sentono è tra la minoranza (10-20% a seconda del Paese) che beneficia dell’attuale dispensazione neoliberale, o spera di farlo un giorno, e il resto, che non ne beneficia o teme di non farlo più. Non esiste un partito escluso in nessun Paese occidentale, anche se alcuni partiti, spesso etichettati come “estremi” di sinistra e di destra, raccolgono voti di protesta. Inoltre, nella maggior parte dei sistemi politici, il partito escluso è diviso tra più partiti con orientamenti e obiettivi superficialmente diversi. In Francia, quindi, gran parte del vecchio voto di sinistra si è diviso in due: la classe media è passata ai Verdi, mentre la classe operaia è andata all’Assemblea Nazionale di Le Pen. Eppure, in pratica, sarebbe possibile prendere il voto della classe operaia e medio-bassa tra i partiti sparsi della sinistra e il voto della classe operaia ora perso a favore della destra, e farne una coalizione vincente. L’ironia è che i leader della sinistra non riescono a rendersene conto o, se lo fanno, scelgono di non fare nulla perché trovano i sostenitori della destra comuni, rozzi e bigotti e non desiderano essere associati a loro. L’ulteriore ironia è che i punti di vista dell’elettore medio della RN e quelli dell’elettore medio del Partito Comunista non sono poi così distanti. Il problema è la leadership.

Quindi non ho idea di dove tutto questo possa andare a parare. Il problema è che se il sistema politico è screditato – e questo lo è sicuramente – allora la consueta progressione degli eventi, in cui un altro sistema lo sostituisce naturalmente, sembra essere stata invalidata questa volta. Poiché i partiti neoliberali elitari e carrieristi che dominano la politica occidentale sono per lo più in pessime condizioni, si presume che dovranno riformarsi (praticamente impossibile) o che scompariranno. E certamente è vero che godono di un sostegno popolare sempre minore e che sempre meno persone votano per loro. Anche negli Stati Uniti e nel Regno Unito, la gente si sta stancando della politica del “pushme-pullyou”, in cui il governo viene semplicemente estratto dal meno screditato dei due partiti principali in un dato momento. Ma supponiamo che questi partiti si disintegrino. Quali partiti subentreranno e come saranno strutturati e organizzati, e su quali basi? E se l’intero sistema di democrazia liberale indiretta crolla, quali forze sono in attesa di sostituirlo e come si organizzeranno? In alcune parti dell’Europa centrale e orientale, abbiamo assistito a divisioni etniche e nazionalistiche che sono state alla base di partiti politici e, purtroppo, di conflitti. Ma nel mondo post-etnico e post-politico di Bruxelles, nemmeno questo accadrà. Ho la sgradevole sensazione che ci stiamo dirigendo verso una vera e propria forma di anarchia: niente regole, niente OK. Non ci sono precedenti, per quanto ne so, di un sistema politico che cade senza che nulla lo sostituisca, o perlomeno senza nulla di valido. Crimine organizzato, qualcuno? Milizie islamiste?

Forse stiamo entrando in una terra desolata dal punto di vista politico. “Sulle sabbie di Margate”, scriveva TS Eliot in un’omonima poesia, “non riesco a collegare nulla con nulla”. Beh, stava scrivendo di uno dei suoi abituali esaurimenti nervosi, che poi ha superato. Ma forse ora non c’è davvero una cura per il crollo di un intero sistema.

https://aurelien2022.substack.com/p/into-the-waste-land?utm_source=post-email-title&publication_id=841976&post_id=122102343&isFreemail=true&utm_medium=email

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SEMPRE PIÚ FITTA, di Teodoro Klitsche de la Grange

SEMPRE PIÚ FITTA

Qualche lettore ricorderà che nei primi tempi della guerra in Ucraina notavo che la clausewitziana “nebbia della guerra” era particolarmente densa e fuorviante perché alimentata a piene mani da una comunicazione tutt’altro che imparziale, informata ed esperta: con risultati spesso sconcertanti, a cominciare dal piano logico.

In occasione della controffensiva ucraina si è raggiunto un apice della (cattiva) informazione. Vediamo perché:

  1. a) in primo luogo della controffensiva sappiamo tutto leggendo il giornale o guardando la televisione: luogo (Dombass); entità delle forze ucraine (8 brigate in addestramento); tempo (imminente – ma rimandato già più volte nella sua imminenza perdurante); esiti politici (la caduta di Putin) e così via, vagamente precisando.

Ora la nebbia clausewitziana è frutto sia della natura della guerra che delle misure dei comandanti, tutte volte a non far capire al nemico i propri piani e obiettivi. Perché, a conoscerli, è facile prendere le contromisure. Non occorre aver fatto la scuola di guerra: basta ricordare l’Aida, quando Amonasro cerca di carpire, tramite la figlia, i piani di Radames. Nella storia militare vi sono poi dei casi clamorosi di “depistaggio” fornendo false (ma credibili) informazioni. Uno dei quali – così noto che ci è stato realizzato un film – consistente nel confondere  i tedeschi sul luogo dove sarebbe avvenuto lo sbarco degli alleati nel 1944. I servizi inglesi lo prepararono così accuratamente da trarre in inganno – anche a sbarco avvenuto in Normandia – Hitler, convinto che ce ne sarebbe stato un secondo a Calais.

La conseguenza logica non è solo che se uno dei contendenti ti dice che attaccherà a Charkiv invece che a Kiev, sicuramente non attaccherà Charkiv, probabilmente neppure Kiev, ma da un’altra parte, dove meno è atteso; ma anche che le informazioni più credibili sono quelle che non sono diffuse. I (falsi) piani dello sbarco in Francia furono messi dagli 007 inglesi sul cadavere di un ufficiale britannico fatto ritrovare agli spagnoli (e quindi dai tedeschi), e non pubblicati sul Times; se li avesse letti sul giornale, Hitler avrebbe creduto ad un espediente dell’Intelligence Service.

C’è da chiedersi per quale ragione la comunicazione mainstream è così lontana da una rappresentazione credibile (e coerente) della situazione. Perché se le notizie fuorvianti sono fornite – come in gran parte sono – dagli uffici dei belligeranti (e dei loro alleati) sarebbe il caso di citarne la fonte (almeno) e, in certi casi di scrivere due righe di commento. Cosa che qualche rara volta avviene, ma quasi sempre no. Escluso che tali mezzi possano trarre in inganno il nemico, per la loro disarmante ingenuità, occorre individuare altri obiettivi. Un analista attento come Pietro Baroni definisce la “guerra psicologica” come “L’insieme delle operazioni, delle azioni, delle iniziative tendenti a conseguire l’obiettivo di assumere e mantenere il controllo di grandi strati di masse e di pilotarne le opinioni, i giudizi e le conseguenti manifestazioni, agendo sulla ricettività istintiva, sull’emotività e sul processo formativo delle valutazioni”. Nel caso gli obiettivi non sono Putin o Zelensky, ma l’opinione pubblica, occidentale soprattutto. Dalla quale occorre far approvare le misure a favore dell’Ucraina, in modo da attenuare l’onere dei sacrifici e dei rischi che comportano. A tal fine è necessario rappresentare la situazione bellica in modo conforme agli scopi da raggiungere.

E il divario tra ciò che è e ciò che si rappresenta è l’inganno e la simulazione occorrente.

Teodoro Klitsche de la Grange

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UNA CIVILTA’ IN CRISI (2/2)_di Pierluigi Fagan

UNA CIVILTA’ IN CRISI (2/2). Le società animali e quelle umane più di altre, andrebbero intese come veicoli adattivi. Gli individui creano e si adattano alla società che aiuta ad adattarsi al mondo. Una civiltà è un meta-sistema, meno definito di quanto sia una società propriamente detta ma col vantaggio della massa. L’unità metodologica qui è la società, la società si adatta e partecipa della civiltà la quale aiuta ad adattarsi al mondo.
Lo stato di crisi precedentemente illustrato (precedente post, link sottostante) percorre tutti i livelli che vanno dalla civiltà alle società componenti, singole nazioni o gruppi di esse più omogenei, da queste alla loro composizione interna per strati, ceti, classi, funzioni, fino ai singoli individui. In una crisi adattiva, ognuno di questi soggetti, singoli o collettivi, si trova nella difficile situazione di esser, al contempo, “contro e con” qualcun altro.
Si può guadare con simpatia l’odierna emersione di nuove potenze interne altre sfere di civiltà, se non altro perché questo può muovere la struttura della nostra civiltà, aprire a possibili cambiamenti. Ma tali cambiamenti dovrebbero vederci pronti a farci carico della ridefinizione della nostra civiltà, non certo aspirare ingenuamente ad esser cambiati da altre civiltà. Ogni civiltà è aliena all’altra. Le civiltà possono e dovrebbero dialogare e scambiarsi idee, tratti e caratteri, ma rimangono soggetti con fini, scopi e modi integralmente diversi e di fondo, reciprocamente competitivi.
Così, la crisi della nostra civiltà ci riguarda integralmente tutti sebbene ognuno di noi abbia porzioni di distinguo e dissenso con la sua forma attuale. Ci riguarda come società che dovrebbe perseguire il proprio interesse nazionale ma “contro e con” altre società similari, il che vale anche per la dialettica tra ceti, classi e funzioni interne alla singola società, fino al livello individuale e nelle aspettative tra interessi teorici e pratici, financo dentro noi stessi.
Lo stato di crisi ontologica della civiltà occidentale e di ogni sua componente interna è certo la crisi dei suoi modi, strutture e dei suoi usuali processi di organizzazione, ma è anche la crisi del proprio mentale. Per gli umani, il mentale, è stata la principale e per altro molto potente arma adattativa. L’umano mostra una peculiarità cerebro-mentale che frappone tra intenzione ed azione uno spazio, in quello spazio c’è la simulazione degli effetti di ogni possibile azione, il pensiero. Il pensiero è una azione off line, una ipotesi di azione non ancora agita in attesa di diventare atto, soggetta a strategia, simulazione e valutazione. Tramite questa novità biologico-funzionale, abbiamo perso ogni tratto adattivo animale non più necessario (pelo, artigli, canini e potenti mascelle, agilità e muscoli etc), diventando al contempo uno degli animali più morfologicamente fragili a livello individuale quanto operativamente il più potente a livello collettivo o comunque sicuramente il più adattivo.
A questa dotazione mentale generale diamo il nome di “immagine di mondo”, ne sono dotate le civiltà, le società a gruppi o singolarmente prese, gli strati (ceti, classi e funzioni interne), gli individui. Oltre che nella scomoda situazione dell’esser al contempo “contro e con”, noi oggi ci troviamo con un mentale disallineato ai tempi. Il nostro mentale distilla i cinque secoli del moderno, anche se alcune strutture di pensiero che hanno funzione profonda, architettonica e fondazionale, risalgono a secoli e millenni addietro (greco-romani, cristianesimo). A seconda di quanta epocalità vogliamo riconoscere al passaggio storico nel quale siamo capitati, verificheremo anche la più o meno profonda inadeguatezza di ampie parti del nostro mentale. Siamo in una epoca nuova con una mentalità vecchia.
Quello che preoccupa più di ogni altra cosa di questa fase storica è proprio la mancanza di coraggio mentale. In Occidente, i complessi ideologici vanno irrigidendosi in tristi scolastiche, non si nota alcuna primavera del pensiero, in nessun campo che non sia attuativo-strumentale (tecnica). L’assenza di creatività del nostro pensiero è pari all’impressione di inoltrata anzianità delle nostre società alla fine di più di un ciclo storico.
La mentalità occidentale ha due problemi principali. Il primo è di forma. Una civiltà e viepiù la sua crisi adattiva, è un problema eminentemente complesso ovvero dotato di molte parti, molte interrelazioni tra queste parti, processi non lineari ovvero non-meccanici, un sistema posto in un contesto turbolento. Che si usino discipline scientifiche o storico-sociali o pensiero riflessivo, nel moderno abbiamo sviluppato singoli tagli, singoli sguardi, singole metodologie disciplinari. Ancorché proficuo spezzettare oggetti o fenomeni per ridurne la dimensione alle nostre limitate facoltà mentali, tutto ciò non torna mai alla visione completa, non arriva mai al “com-prendere”, al prendere assieme. L’intero in rapporto al suo contesto ci sfugge sistematicamente e con esso la facoltà di poterlo maneggiare.
Il secondo problema è dato dal fatto che ognuna di queste discipline è ingombra di teorie, per lo più locali, ma non solo. Il paesaggio teorico è una intricata foresta di legami e rimandi tessuti nel tempo storico proprio, periodi storici in cui la nostra civiltà si trovava in un punto ben diverso della sua curva adattiva ed altrettanto il contesto-mondo. In molte discipline cruciali per la comprensione allargata vige un paradigma meccanico-atemporale che governa l’indagine ed il pensiero su cose che però sono storico-biologiche. Sono quattro secoli che la nostra foga di fare ha portato a tipo ideale macchine idrauliche, fontane, orologi, il modello sistemico del primo moderno. Poi è stata la volta della macchina a vapore, oggi il computer. Ma niente del nostro essere umani, bio-sociali e mentali, ha a che fare con queste infondate analogie, è proprio la logica di comprensione che è disallineata. Infine, questo paesaggio teorico ha una sua propria consistenza interna che, nel tempo, si è allontanata dalla natura del proprio oggetto producendo una ingombrante selva di problemi fittizi e mal posti, stratificati in quadri polemici alimentati dalla competizione ideologica ed accademica, sempre più alla deriva di realtà.
Quello che manca per muoversi dentro lo stato di crisi in cerca dell’uscita non è un altro modello di società col suo immancabile lungo elenco di “vorrei che così fosse” qualora ci venisse concesso il ruolo di “legislatore del mondo”, ma un metodo per pensarla, discuterla e condividerla, tentarla, farla evolvere assieme ad altri.
In effetti il problema millenario del potere sociale è semplice. Di volta in volta, ristretti gruppi segnati da qualche specialità sociale (anagrafica, di genere, militare, religiosa, etnica, politica, oggi economica o forse più finanziaria), pur competendo tra loro per la quota di potere effettivo, sono stati strettamente solidali nella difesa del principio strutturale per cui Pochi dominano i Molti prendendosi la gran parte dei vantaggi adattivi del vivere in forma associata. Quando si è vissuto fasi di relativa abbondanza i Pochi hanno condiviso qualche briciola, quando si sono vissute fasi restrittive i Pochi hanno semplicemente scaricato tutta la contrazione sui Molti. Ai Molti questo principio pratico primo del potere sfugge, discutono di questa o quella miglior forma di società ed immagine di mondo come fosse loro permesso di decidere di questo o di quella versione quando il problema è proprio come rispondere alla domanda fondamentale “chi decide?”. Non “cosa” decidere, questo dovrebbe venire dopo, prima si deve porre il soggetto, il “chi?” ed il modo, il “come?”.
Quella che ci sembra essere una imprescindibile transizione adattativa, ha il duplice carattere del mentale e del reale, ma per costruire il secondo va trovato e condiviso il modo politico nel primo.
Quanto al mentale, la nuova era storica ci chiede di conoscere gli interi, il “penoso elenco di severe problematiche” cui abbiamo accennato (1/2), richiede conoscenze geo-storiche, culturali, ambientali, economiche, sociali, politiche, intrecciate tra loro, a valle di una nuova definizione di umano che non sarà più l’animale che fa, ma l’animale che pensa prima di fare. C’è da sviluppare un nuovo corso della conoscenza parallelo a quello sin qui svolto, un corso integrato, sistemico-olistico, che possa dare anche nuove condizioni di possibilità al pensiero per superare i pantani forestali di intrecci teorici non più utili poiché limitati e non più corrispondenti alla realtà. Un certo ritorno “ritorno alla realtà” s’impone date le caratteristiche del passaggio storico.
Quanto al reale sociale, è evidente che le società della civiltà occidentale, quantomeno quelle che non ne sono state il centro propulsore ovvero quelle anglosassoni, non possono più esser ordinate dal fatto economico. S’impone un ordinamento politico strutturato da una teoria forte della democrazia. Le civiltà, sino ad oggi, sono stati oggetti che abbiamo considerato dopo che si erano formate e sviluppate, nessuno le ha progettate ex-post. Se, come pare necessario, ci troviamo nella necessità di modificare le nostre forme di vita associata nel profondo e nel loro intreccio multidimensionale, non possiamo non presupporre una partecipazione ampia e costante di una ben vasta massa critica di associati, è la società intera che deve auto-trasformarsi.
Il processo di adattamento ad un mondo così inedito, mutato e mutante nel profondo, oltretutto con tempi accelerati, a livello di società-civiltà, sembra ci porti a dover diluire il potere sociale a quante più sue componenti di modo che il sistema di cui facciamo parte mostri agilità e prontezza coordinata al cambiamento deciso dalla massa critica. Il cambiamento dei fondamenti impone il ritorno ai fondamentali del nostro pensiero politico, all’eterna battaglia tra il potere dei Pochi e quello dei Molti. Nel mondo dei viventi, i sistemi complessi più adattivi sono autorganizzati. La forma politica del principio di autorganizzazione è la democrazia reale. Ci manca una teoria forte della democrazia.
Questo, a mio avviso, il più urgente compito per un pensiero che abbia a traguardo l’azione trasformativa ed adattativa.

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IL SIGNORAGGIO DEL SISTEMA FINANZIARIO. UNA RIFLESSIONE, di Luigi Longo

IL SIGNORAGGIO DEL SISTEMA FINANZIARIO. UNA RIFLESSIONE

di Luigi Longo

La finanza è un’arma, la politica è sapere

quando tirare il grilletto.

don Vito Lucchesi*

Ho trovato utile lo scritto Signoraggio e green transition di Marco Della Luna, apparso sul suo sito www.marcodellaluna.info il 26/2/2023, perché stimola una riflessione sul ruolo del denaro a partire da un campo delicato ma non fondamentale come il sistema finanziario che viene utilizzato dagli agenti strategici dominanti e sub-dominanti per le loro strategie di potere e di dominio (qui il denaro è inteso come rapporto sociale la cui accumulazione e appropriazione seguono diverse strade nelle ineguali sfere costituenti la società economica, politica, culturale, sociale).

Lo scritto fa riflettere, inoltre, sulla egemonia del sistema finanziario basato sulla valuta del dollaro (USA) che viene messa in discussione dall’avanzare di altri sistemi finanziari basati sulle valute dello yuan, del rublo, della rupia (che esprimono altri modelli di sviluppo ancora da capire bene) del costruendo polo asiatico che ha dato una svolta decisiva, a seguito dell’aggressione Usa alla Russia via Nato-EU-Ucraina, alla fase multicentrica mondiale. Pepe Escobar, riportando una sintesi dell’intervista a Sergey Glazyev (ministro incaricato per l’Integrazione e la Macroeconomia dell’Unione Economica dell’Eurasia nonché noto politico ed economista russo), così scrive << In sostanza, secondo Glazyev, la Russia, pesantemente sanzionata, non assumerà un ruolo di leadership nella creazione di un nuovo sistema finanziario globale. Questo ruolo potrebbe spettare all’iniziativa di sicurezza globale della Cina. La divisione in due blocchi sembra inevitabile: la zona dollarizzata – con l’eurozona incorporata – in contrasto con la maggioranza del Sud globale che utilizzerà un nuovo sistema finanziario e una nuova valuta commerciale per gli scambi internazionali. A livello interno, le singole nazioni continueranno a fare affari nelle loro valute nazionali. >> (1). Sulla efficacia relativa delle sanzioni, nei confronti della Russia da parte degli USA-NATO, e sul non sense del considerare un indicatore economico come il PIL (Prodotto Interno Lordo) per misurare la forza di una nazione riporto una interessante osservazione di Giorgio Ardeni e Francesco Sylos Labini:<< Il Pil totale della Federazione Russa, valutato in termini reali a prezzi 2017 a parità di potere d’acquisto […] tra il 1990 e il 2021 è cresciuto di pochissimo, passando dai 3.180.000 ai 4.080.000 miliardi di dollari. Il Pil pro capite, dopo il crollo degli anni Novanta, è invece passato dai 12.358 dollari del 1998 ai 27.960 del 2021, a metà circa tra quello cinese e quello europeo, quindi. Il Pil totale di Russia e Bielorussia, però, rappresenta appena il 3,3% del Pil occidentale o dei Pca (Paesi capitalistici avanzati, mia precisazione) (Stati Uniti, Anglosfera, Europa, Giappone, Corea del Sud). Inoltre, una delle maggiori entrate per la Russia era rappresentata dall’esportazione di gas e petrolio verso l’Europa. Per questo motivo, allo scoppiare della guerra, si era convinti che la Russia, con l’imposizione delle sanzioni, sarebbe stata schiacciata economicamente. Tuttavia, il rublo ha guadagnato l’8% rispetto al dollaro e il 18% rispetto all’euro dalla vigilia dell’ingresso in guerra. L’economia russa non solo ha retto bene il peso delle sanzioni, ma è stata capace di rivolgersi verso altri Paesi per l’esportazione di materie prima e l’importazione di tecnologia (quello che era un tempo l’accordo con la Germania, energia a basso costo in cambio di tecnologia) mentre l’industria bellica, fino ad ora, è riuscita a rifornire l’esercito. Come spiegare questa dinamicità economica se il Pil è così modesto? (corsivo mio, LL).

La guerra diventa un test dell’economia politica, è il grande rivelatore: ci si chiede come questo Pil insignificante possa affrontare la guerra e continuare a produrre missili. Todd fa notare che il motivo è che il Pil è una misura fittizia della produzione (corsivo mio, LL), soprattutto per un Paese con grandi risorse di materie prime come la Russia: «Se si sottrae dal Pil americano metà delle sue spese sanitarie sovrafatturate, poi la “ricchezza prodotta” dall’attività dei suoi avvocati, dalle carceri più affollate del mondo, poi da un’intera economia di servizi scarsamente definiti tra cui la “produzione” dei suoi 15-20.000 economisti con uno stipendio medio annuo di 120 mila dollari, ci rendiamo conto che una parte importante di questo Pil è solo vapore acqueo. La guerra ci riporta all’economia reale, rende possibile capire quale sia la vera ricchezza delle nazioni, la capacità produttiva e quindi la capacità di guerra. Se torniamo alle variabili materiali, vediamo l’economia russa. Nel 2014, abbiamo messo in atto le prime importanti sanzioni contro la Russia, ma essa ha da allora aumentato la sua produzione di grano, che va da 40 a 90 milioni di tonnellate nel 2020. Mentre, grazie al neoliberismo, la produzione americana di grano, tra il 1980 e 2020, è passata da 80 a 40 milioni di tonnellate. La Russia è anche diventata il primo esportatore di centrali nucleari. Nel 2007, gli americani hanno spiegato che il loro avversario strategico era in un tale stato di decadimento nucleare che presto gli Stati Uniti avrebbero avuto una capacità di primo colpo atomico su una Russia che non avrebbe potuto rispondere. Oggi i russi sono in superiorità nucleare con i loro missili ipersonici. La Russia ha quindi un’autentica capacità di adattamento. Quando vuoi prendere in giro le economie centralizzate, sottolinei la loro rigidità, mentre quando fai l’apologia del capitalismo, ne vanti la flessibilità. Giusto. Affinché un’economia sia flessibile, prendi ovviamente il mercato dei meccanismi finanziari e monetari. Ma prima di tutto, hai bisogno di una popolazione attiva che sappia fare delle cose. Gli Stati Uniti hanno ora più del doppio della popolazione della Russia (2,2 volte nelle fasce di età degli studenti). Resta il fatto che con proporzioni da parte di coorti comparabili di giovani che fanno istruzione superiore, negli Stati Uniti, il 7% sta studiando ingegneria, mentre in Russia è il 25%. Ciò significa che con 2,2 volte meno persone che studiano, i russi formano il 30% di più ingegneri. Gli Stati Uniti colmano il buco con studenti stranieri, ma che sono principalmente indiani e ancora più cinesi. Questa risorsa di sostituzione non è sicura e già diminuisce. È il dilemma fondamentale dell’economia americana: può affrontare la concorrenza cinese solo importando forza lavoro qualificata cinese. Propongo qui il concetto di bilanciamento economico. L’economia russa, da parte sua, ha accettato le regole operative del mercato (è persino un’ossessione per Putin quella di preservarle), ma con un ruolo grandissimo dello Stato (corsivo mio, LL). E si tiene anche la sua flessibilità della formazione di ingegneri che consentono gli adattamenti, sia industriali che militari». Sulla produzione di armi Todd aggiunge:<< Una delle cose sorprendenti in questo conflitto, e questo lo rende così incerto, è che pone (come qualsiasi guerra moderna) la questione dell’equilibrio tra tecnologie avanzate e produzione di massa. Non vi è dubbio che gli Stati Uniti abbiano alcune delle tecnologie militari più avanzate, che a volte sono state decisive per i successi militari ucraini. Ma quando si entra nella durata, in una guerra di logoramento, non solo dalla parte delle risorse umane, ma anche di quelle materiali, la capacità di continuare dipende dal settore della produzione di armi più basso. E troviamo, vedendolo ritornare dalla finestra, la questione della globalizzazione e il problema fondamentale degli occidentali: abbiamo trasferito una proporzione tale delle nostre attività industriali che non sappiamo se la nostra produzione di guerra può proseguire. Il problema viene ammesso. La Cnn, il New York Times e il Pentagono si chiedono se l’America riuscirà a rilanciare le catene di produzione di questo o quel tipo di missile. Ma non sappiamo se i russi saranno in grado di seguire il ritmo di un tale conflitto. Il risultato e la soluzione della guerra dipenderanno dalla capacità dei due sistemi di produrre armamenti» >>. (2).

Dopo questa lunga e interessante considerazione, riprendo la mia riflessione. Leggere il denaro come rapporto sociale permette di capire come si configurano gli agenti strategici egemonici (sia nelle diverse sfere sociali sia nell’insieme della società) che decidono le sorti delle rispettive potenze mondiali di appartenenza, delle loro aree di influenza e dell’equilibrio/squilibrio nelle diverse fasi del sistema mondiale (monocentrica, multicentrica e policentrica).

Nelle società occidentali e orientali (non interessa in questo scritto evidenziare le loro differenze storiche), basate sul modo di produzione capitalistico, il lavoro, la natura, le risorse, le materie prime sono merci e vengono utilizzate tenendo conto di un solo parametro che è quello della razionalità strumentale (minimo costo e massimo risultato) senza curarsi delle conseguenze sociali (nelle diverse articolazioni che compongono i popoli) e naturali (nelle diverse declinazioni ambientali, paesaggistiche, ecologiche e territoriali). << Il disvelamento, ormai indispensabile, dell’ideologia che predica la predominanza della razionalità del minimo mezzo (o massimo risultato) implica la comprensione che quest’ultima è invece puramente strumentale […] ed è dunque subordinata all’azione strategica, alle sue finalità di conflitto per conseguire una supremazia. Questo conflitto è politico in qualsiasi sfera sociale (economica, politica, ideologico-culturale) si esprima (corsivo mio, LL), pur se viene svolto con modalità particolari (e con diverse “ampiezze d’orizzonte”) nelle differenti sfere >> (3).

Pertanto la transizione ecologica (la green transition), che presuppone una rivoluzione dentro il capitale in termini di produzione e riproduzione della vita e delle sue forme territoriali (dalle città alle campagne), così come viene avanzata, a prescindere dal suo reale utilizzo e coordinamento mondiale, ha come obiettivo non un modello sociale basato sul benessere individuale e sociale dentro gli equilibri della natura ma un modello che produce la distruzione economica, politica e sociale di Paesi che, non avendo la forza per uno sviluppo autodeterminato (a partire dagli interessi della maggioranza della popolazione), sono sottoposti alle scelte strategiche delle potenze mondiali che impongono (con il consenso e con la coercizione) il loro modello di sviluppo egemone, basato su tecnologie e risorse rinnovabili, non mature, credendo di affrontare così gli squilibri sociali e naturali prodotti da uno sviluppo ineguale!: è solo pura ideologia nell’accezione marxiana del termine. Si pensi, per esempio, al processo di americanizzazione del territorio europeo, campo ancora poco esplorato e studiato.

Così Marco della Luna: << E’ controverso quanto delle alterazioni climatiche in atto sia naturale e quanto di origine antropica; ma è evidente che, senza profondi e rapidi mutamenti, una catastrofe per via climatica o di esaurimento delle risorse o di inquinamento è inevitabile e imminente – salvo forse ricorrere a complottistiche azioni di depopolamento rapido.

L’Occidente e l’Unione Europea in particolare stanno imponendo misure molto costose di green transition, dalla fine dei motori termici e delle caldaie di riscaldamento ai cappotti per le case. Centinaia di miliardi solo per l’Italia. Tali misure sono ancora allo stadio della speculazione politico-ideologica, perché non ha senso che ci imponiamo onerose restrizioni mentre il resto del mondo continua come prima, facendoci concorrenza; e anche perché esse materialmente non sono realizzabili, dato che, per alimentare tutte le automobili elettriche e le pompe di calore la produzione di elettricità dovrebbe essere ventuplicata in 12 anni (80 centrali termonucleari nella sola Italia). Ma presto, se non sopravverrà prima la catastrofe, e se Cina, India etc. si lasceranno coinvolgere, sarà giocoforza fare una conversione seria e molto costosa preparata da una adeguata ricerca tecnologica, che questo mondo, indebitato per un multiplo della somma dei PIL, non può sostenere. Se la catastrofe invece sopravverrà, bisognerà poi finanziare la ripartenza, e anche questo richiederà molto denaro. >> (4).

Il denaro (5), sia inteso come processo di accumulazione del capitale (la marxiana formula di D-M…P…M’-D’) (6), sia inteso come creazione dal nulla (7) da parte dello Stato (considerato come strumento nei rapporti sociali della società storicamente e territorialmente data), viene gestito come mezzo del conflitto tra gli agenti strategici delle diverse sfere sociali (economica, finanziaria, politica, culturale, eccetera), in particolare da quelli della sfera finanziaria che va vista come parte di un blocco politico egemone teso alle strategie, alla gestione e alla esecuzione del potere e del dominio. L’espansione finanziaria (8) rappresenta sia le crisi profonde e sistemiche delle società cosiddette capitalistiche dei singoli Paesi, sia le fasi di transizione (crisi d’epoca) caratterizzate dal conflitto tra potenze per il dominio mondiale come questa che stiamo vivendo. Secondo Fernand Braudel:<< [Ogni] sviluppo capitalistico di tale portata sembra annunciare, entrando nello stadio dell’espansione finanziaria, una sorta di maturità: [è] il segnale dell’autunno >> (oggi decadenza del ciclo egemonico statunitense) (9).

Pertanto, per dirla con Domenico de Simone, << In questo sistema i valori monetari nascondono ricchezza reale che viene sottratta a chi la produce per essere distribuita in maniera ineguale nel mercato finanziario sulla base dei rapporti di forza e non di capacità produttive. Le emissioni monetarie ed i titoli del debito pubblico sono gli strumenti a mezzo dei quali viene operata questa indebita appropriazione di ricchezza.>> (10). La destrezza nell’uso degli strumenti finanziari serve alla lotta tra gli agenti strategici per la conquista della loro egemonia sia nella sfera di appartenenza (economica, finanziaria, politica, culturale, eccetera) sia nell’insieme della società (11). Vedere la sfera della finanza in maniera autonoma ed egemonica, invece di considerarla come parte del conflitto nelle strategie politiche, è fuorviante perché non fa capire il conflitto strategico tra gruppi dominanti per il potere (nelle diverse sfere sociali) e per il dominio (nell’insieme della società) sia a livello nazionale sia a livello mondiale. In questa logica il processo di de-dollarizzazione (12) in atto è la messa in discussione di un ordine mondiale coordinato dagli USA (la fine della fase monocentrica) basato sul sistema finanziario del dollaro che è l’espressione di un modello di sviluppo economico, sociale e politico, di un modo di intendere la produzione e riproduzione della vita. La ricerca di un nuovo ordine (il nuovo nomos schmittiano) (13) avanzato dalle potenze che stanno configurando il polo asiatico, presuppone la nascita di un sistema finanziario basato sulle diverse monete (negli scambi Paese-Paese e mondiali) che sarà espressione di un nuovo modello, di una nuova idea di società (tutta da capire) in un mondo multicentrico dove l’equilibrio dinamico tra le potenze sarà garantito da una condivisione basata sul rispetto, sull’autodeterminazione, sulla democrazia, sulla sovranità e sul vantaggio reciproco nelle relazioni tra i Paesi.

Sullo sfondo si giocano due diversi modi di intendere le relazioni mondiali: da una parte, gli USA, come espressione di una egemonia assoluta dell’Occidente (modello monocentrico) e dall’altra, Cina e Russia (in particolare), come espressione di una egemonia relativa dell’Oriente in cui la diversità storica, territoriale e sociale sia mezzo di confronto, di crescita e di stimolo (modello multicentrico) (14). Spero che si affermi il modello multicentrico!

Marco Della Luna però non aiuta a capire come si configurano gli agenti strategici egemoni che sono dati dal conflitto in tutte le diverse sfere della società, che possono avere pesi specifici diversi (il marxiano fascio di luce che illumina) nelle differenti fasi della storia nazionale e mondiale, quando sostiene che :<< […] tutto il denaro, tranne quello metallico, viene creato (dalle banche centrali e da quelle ordinarie) senza una copertura aurea (o di altro genere), ossia dal nulla e a costo pressoché nullo, e prestato (agli stati e ai soggetti privati) contro interesse. Il denaro legale è costituito dalle banconote delle banche centrali. Il restante denaro è denaro contabile o scritturale, generato in piccola parte dalle banche centrali, e per il 90% circa dalle altre dalle banche, mediante semplice scritturazione contabile (ripeto: senza copertura in oro o altro valore). La Banca d’Italia, nei suoi bollettini, attesta che le banche italiane creano così ogni anno mediamente 1.000 miliardi di euro – che vanno a debito dei prestatari. La moneta contabile o scritturale non preesiste al prestarla, non viene prelevata da una riserva o altra voce di bilancio, bensì (per quanto suoni lontano dal pensiero comune) viene creata con l’atto di prestarla, digited into existence and lent into circulation. Orbene, mentre le leggi prevedono e regolano la creazione e immissione della moneta legale (banconote), niente dicono della moneta contabile o scritturale, la quale, giuridicamente, sia che si concreti come saldo attivo di conto corrente, che come importo di un assegno circolare o altro, costituisce una promessa di pagamento/ricognizione di debito di moneta legale (banconote) da parte della banca emittente verso il titolare del conto corrente o il legittimo portatore dell’assegno. Solo che l’aggregato di tale moneta è circa il decuplo dell’aggregato della moneta legale esistente, la quale per giunta è quasi interamente detenuta dai cittadini – sicché i depositi bancari e gli assegni circolari sono scoperti al 998 per mille circa – ma non è questo il problema, almeno finché non parte un bank rush, ossia una corsa al ritiro dei depositi! Il problema centrale è che la potestà di creazione ed emissione della moneta contabile-scritturale, che è il sangue dell’economia, non è prevista né disciplinata dalle leggi, anche se le leggi bancarie (ad es. TUB art. 10) non autorizzano le banche a creare moneta, ma solo a intermediarla – quindi, in realtà, questa potestà è negata, esclusa dalla legge (con la conseguenza giuridica che tutta l’attività di creazione monetaria in questione è illecita, quindi sono illeciti i contratti di mutuo, etc. etc.). Essa è però detenuta ed esercitata di fatto (e non di diritto), sotto le mentite spoglie di “esercizio del credito”, in regime di cartello, dai titolari di licenza bancaria, ossia dalla comunità bancaria, creando ed emettendo questa moneta contabile, che non può essere la moneta legale “Euro”, col nome abusivo di “Euro”. E’ esercitata privatamente, senza rendere conto all’interesse generale delle sperequazioni, dei danni, degli abusi, stante che le banche centrali, che dovrebbero sorvegliare sull’esercizio del credito, sono controllate dagli stessi titolari delle licenze bancarie, i quali hanno un potere condizionante sulla politica, data anche la loro capacità di dare il rating al debito pubblico.>>.

La domanda che si pone, a questo punto, è: chi detiene il potere della creazione del denaro dal nulla e quale ruolo assume questo capitale finanziario sia nella messa a valore dei differenti sistemi di sviluppo territoriali nazionali sia nell’allargamento delle aree di influenza delle nazioni-potenze? (15).

La ricchezza come mezzo di potere degli agenti strategici per il dominio nella società è illimitata (già Aristotele parlava della crematistica come produzione della ricchezza senza limiti) (16) e non è condizionata, se interpreto correttamente Marco Della Luna, dal fatto che:<< il sistema monetario moderno è compatibile solo con un’economia in continua espansione, perché si basa sulla moneta indebitante: il money supply è generato mediante prestiti (allo stato, ai privati) gravati di interessi composti, che, matematicamente, nel tempo, aumentando il capitale dovuto, ossia la base per gli interessi che via via maturano, richiedono che il sistema crei nuova moneta, sempre a debito, per pagare gli interessi e rimborsare eventualmente il capitale. La moneta emessa a debito crea dunque, macroeconomicamente, una necessità di continua crescita del fatturato come condizione per evitare il default >>, perché il limite infinito del processo di accumulazione del capitale è una conditio sine qua non della sua esistenza come modello di produzione e riproduzione della società storicamente e territorialmente data (17). David Harvey sostiene che << Il capitale […] crea un paesaggio fisico e relazioni spaziali adeguati ai suoi bisogni e ai suoi scopi (sia nella produzione che nel consumo) in un certo punto del tempo, solo per scoprire che ciò che ha creato diventa antagonista ai suoi bisogni in un punto futuro nel tempo. Fa parte della dinamica dell’accumulazione capitalistica la necessità di “costruire interi paesaggi e relazioni spaziali solo per farli a pezzi e ricostruire di nuovo in futuro” […] I regimi di valore regionali possono essere annidati a scale diverse. Sono identificabili negli Stati. […] I regimi di valore regionali sono configurazioni instabili e fluttuanti di influenza e di potere che esistono e hanno manifestazioni potenti anche se non hanno una definizione materiale chiara. Abbiamo iniziato questa esplorazione dello spazio e del tempo entro cui le leggi del moto del valore si impongono, con l’affermazione, più che plausibile, che è nella natura del capitale stesso conquistare e costruire il mercato mondiale. Ora, dopo aver percorso il terreno contraddittorio su cui queste leggi devono operare, vediamo che è nella natura del capitale anche frantumare l’uniformità, l’omogeneità e la razionalità sovrasensibile del mercato mondiale, in così tanti frammenti potenzialmente pericolosi e incompatibili di eterogeneità, differenza e sviluppo geografico disuguale, indipendentemente da tutti gli errori irrazionali umani che macchiano di sangue e fango la storia collettiva dell’umanità. Che tutto questo si trasformi in lotte geopolitiche fra blocchi di potenze sulla scena mondiale è questione di grande rilievo. La storia geopolitica del capitalismo è stata una faccenda piuttosto sgradevole (e continua a esserlo minacciosamente). Considerazioni che derivano dalla creazione di regimi di valore distinti nello spazio e nel tempo hanno un ruolo delicato in quella geografia storica.>> (18).

Il problema che si pone, in conclusione di questa riflessione, a partire dal sistema di signoraggio finanziario, è quello di capire qual è il ruolo che gli agenti strategici svolgono, sia attraverso il processo di accumulazione del capitale sia attraverso la creazione dal nulla della moneta, nel determinare il sistema di sviluppo territoriale sia a livello delle nazioni sia a livello mondiale (con relative aggregazioni territoriali: grandi aree, macroregioni, altro). La sovranità e l’autodeterminazione dei sistemi territoriali non va inquadrata nella logica economicistica ma nella logica dell’insieme delle sfere che compongono la società cosiddetta capitalistica. La comprensione di quanto fin qui sostenuto se fosse agito dai nuovi soggetti sessuati (19) che hanno consapevolezza dell’interezza della vita vissuta (che dà un senso alla esistenza) porterebbe alla trasformazione della realtà sociale storicamente e territorialmente data con la costruzione di un nuovo ordine sociale (20).

Intanto la fase multicentrica è decisamente avviata e le potenze mondiali in ascesa (il costituendo polo asiatico allargato) (21) sono decisamente determinate a mettere in discussione quello che Marco Della Luna definisce << […] il signoraggio monetario, come strumento di dominio globale, sia in via di affiancamento col signoraggio biologico, iniziato con le sementi ogm terminator, con le quali multinazionali come Monsanto mettono gli agricoltori in condizione di dipendenza rigida da esse per la fornitura sia dei semi che della chimica, senza di cui non possono produrre. Iniziato così anni or sono, oggi continua con farmaci modificanti il DNA e l’RNA dell’uomo, e con cose come la carne sintetica. Credo che stiamo passando da un sistema finanziario basato sulla moneta indebitante e che si regge sull’espansione consumistica di beni e servizi ad alto impatto ambientale (come l’automobile), quindi insostenibile, a uno sempre basato sulla moneta indebitante e sull’espansione consumistica, ma di beni e servizi medico-farmaceutici, a basso impatto ambientale, quindi eco-sostenibile. La popolazione, sempre più immuno-depressa e malata (o che si percepisce malata), spenderà il reddito disponibile per curarsi (con farmaci più o meno efficaci e tossici). Questo sistema agevolerà anche la soluzione del problema ecologico per via demografica, incidendo sulla fertilità e sulla durata media della vita, che già si sono ridotte. […] esiste anche, ed è importantissimo per gli equilibri geopolitici, il signoraggio monetario internazionale, attuato dagli USA dal ’44 in poi, e soprattutto dal 1971, ossia da quando Nixon liberò il Dollaro dalla convertibilità aurea, così da permettere a Washington di comperare da tutto il mondo a costo zero, semplicemente stampando carta (o digitando numeri) e imponendo la sua accettazione e il suo uso come moneta obbligatoria di riserva e per i pagamenti internazionali, soprattutto delle materie prime. Imposizione attuata mandando ora la CIA, ora le forze armate, in giro per il mondo a eliminare i governi (Indonesia, Cile, Iraq, Libia…) che, tentando di usare altre valute, minacciavano questo dominio del Dollaro, dal quale dipende anche la capacità degli USA di operare globalmente come estrattore (predatore) ‘imperiale’ di ricchezze prodotte da altri e di mantenere il loro enorme apparato militare e alti livelli di consumismo interno anche dopo il trasferimento all’estero di gran parte della loro capacità produttiva.

Da tempo si parla di crisi di questo signoraggio internazionale del Dollaro, di un processo in corso di de-dollarizzazione globale – processo che è il fulcro della proxy war in Ucraina >>.

*L’epigrafe è tratta dal film di Francis Ford Coppola, Il Padrino. Trilogia dei Corleone, parte terza, 1990.

NOTE

1. Pepe Escobar, Sergey Glazyev: “la strada verso il multipolarismo finanziario sarà lunga e irta di ostacoli”, www.comedonchisciotte.com, del 15/3/2023. Per un approfondimento su questi temi si rimanda a Pepe Escobar, Lo zar russo della geoeconomia Sergey Glazyev introduce il nuovo sistema finanziario globale, www.comedonchisciotte.com, del 22/4/2022 e a Sergev Glazvev, L’ultima guerra mondiale, Knizhny Mir, Mosca, 2016, (traduzione russo-inglese).

2. Pier Giorgio Ardeni-Francesco Sylos Labini, Mondo senza pace la responsabilità delle grandi potenze e la necessita di un nuovo equilibrio-economico, www.left.it, 30/3/2023, pp.7-9; si veda anche Patricia Adams e Lawrence Solomon, L’ascesa della Russia, www.maurizioblondet.it, 17/4/2023.

3. Gianfranco La Grassa, Finanza e poteri, Manifestolibri, Roma, 2008, pag.19; per una maggiore comprensione della differenza tra razionalità strumentale e razionalità strategica si legga tutta la parte Per una nuova indipendenza, pp.25-102.

4. Su questi temi intrecciati con la guerra scatenata dagli Usa (via Nato-Europa-Ucraina) contro la Russia si veda anche F.William Engdahl, L’agenda verde a zero emissioni di carbonio è impossibile sotto tutti i punti di vista, www.comedonchisciotte.org, 13/4/2023; Stefano Fantacone-Demostenes Floros, Crisi o transizione energetica? Come il conflitto in Ucraina cambia la strategia europea per la sostenibilità, Diarkos, Santarcangelo di Romagna (RN), 2022; Valeria Poletti, Il costo sociale della guerra, www.ariannaeditrice.it, 9/5/2023.

5. Sul termine denaro per distinguerlo da quello di moneta si rinvia a Carlo Boffito, Teoria della moneta, Einaudi, Torino, Parte terza, 1973; Suzanne De Brunhoff, La moneta in Marx, Editori Riuniti, Roma, 1973; Andrea Fumagalli, Suzanne De Brunhoff, Karl Marx e il dibattito sulla moneta, www.sinistrainrete.info, 19/4/2023. Così Alfred Sohn-Rethel:<< E’ il denaro e proprio il denaro nella sua forma monetaria, prodotta per la prima volta nel 680 a.C. nella Ionia, il termine di mediazione che stabilisce il nesso tra la realtà sociale e l’identità concettuale delle stesse astrazioni formali. Infatti l’astrattezza dello scambio delle merci si manifesta solo nel denaro coniato. Finché il denaro si presenta ancora nella sua rozza forma metallica come oro, o argento o rame ecc. e deve essere diviso, pesato, esaminato nel suo titolo in ogni traffico, viene trattato ancora nella sua forma naturale in modo non diverso dagli altri oggetti d’uso. Solo quando un’autorità monetaria assume in suo potere questi atti fisici garantendoli in maniera credibile, è possibile stampare sui pezzi di metallo che essi servono solo per lo scambio, ponendoli in contrasto esplicito con gli oggetti d’uso […] >>, in Alfred Sohn-Rethel, Il denaro, l’apriori in contanti, Editori Riuniti, Roma, 1991, pag. 9 e oltre pp. XI-55.

6. Karl Marx, Il Capitale. Critica dell’economia politica, Einaudi, Torino, 1975 [si rimanda alle parti che riguardano a) la teoria del valore del denaro (Libro primo); b) il finanziamento della produzione capitalistica (Libro secondo); c) le strutture del credito (Libro terzo).

7. Sulla creazione della moneta dal nulla in regime di monopolio si vedano gli scritti di Fabio Bonciani pubblicati sul sito www.comwdonchisciotte.org, a mò di esempio segnalo Fabio Bonciani, Cenerentola, Biancaneve e i bilanci in rosso delle banche centrali! www.comedonchisciotte.org, 4/4/2023.

8. Sulle fasi storiche dell’espansione finanziaria si rimanda a Giovanni Arrighi, Beverly J. Silver, Caos e governo del mondo. Come cambiano le egemonie e gli equilibri planetari, Bruno Mondadori, Milano, 2003.

9. Citato in Giovanni Arrighi, Capitalismo e (dis)ordine mondiale, a cura di Giorgio Cesarale e Mario Pianta, Manifestolibri, Roma, 2010, pag.146.

10. Domenico de Simone, Un milione al mese a tutti: subito! Edizioni Malatempora, Roma, 1999, pag. 30; Domenico de Simone Per un’economia dal volto umano, Edizioni Malatempora, Roma, 2002; Domenico de Simone, Un’altra moneta, Edizioni Malatempora, Roma, 2003.

11. Si vedano: le tre storie emblematiche sulla finanza e sulle frodi mercantili raccontate da Carlo Maria Cipolla, Tre storie extra vaganti, il Mulino, Bologna, 1994; il gioco sui titoli di Stato da parte della potente famiglia dei Rothschild per le loro strategie di arricchimento e di potere in Giovanni Fasanella e Antonella Grippo, Italia oscura, Sperling&Kupfer, 2016, pp.233-258; il conflitto degli agenti strategici tramite le banche raccontato da Lodovico Festa, Guerra per banche. L’Italia contesa tra economia, politica, giornali e magistratura, Boroli Editore, Milano, 2006.

12. Sul processo di de-dollarizzazione si veda Manlio Dinucci, Si allarga la ribellione all’impero del dollaro, www.voltairenet.org, 24/4/2023; Domenico Moro, Le conseguenze di breve e lungo periodo della guerra, www.comedonchisciotte.org, 27/4/2023; Pepe Escobar, La de-dollarizzazione ingrana la quarta, www.maurizioblondet.it, 29/4/2023. Sugli aspetti finanziari all’interno della ciclicità della storia si legga Federico Dezzani, Geopolitica, credito, mercati e cicli, www.federicodezzani.altervista.org, 4/4/2023; Qiao Liang, L’arco dell’impero. Con la Cina e gli Stati Uniti alle estremità, a cura del Generale Fabio Mini, Leg edizioni, 2021, soprattutto pp. 116-173.

13.Carl Schmitt, Il nomos della terra, Adelphi Edizioni, Milano, 2003; Carl Schmitt, Terra e mare, Adelphi Edizioni, Milano, 2006; Luigi Garofalo, Intrecci schmittiani, il Mulino, Bologna, 2020.

14. Radhika Desai e Michael Hudson, La Russia abbandona l’occidente neoliberale per unirsi alla maggioranza mondiale, www.italiaeilmondo.com, 19/4/2023.

15.Su questi temi si rimanda per approfondimenti a Qiao Liang, L’arco dell’impero, op. cit., pp.175-200; Giovanni Arrighi Caos e governo, op.cit., pp. 43-112; Pietro Ratto, I Rothschild e gli altri. Dal governo del mondo all’indebitamento delle nazioni: i segreti delle famiglie più potenti, Arianna Editrice, Bologna, 2015.

16.Sulla crematistica si legga Aristotele, La politica, Editori Laterza, Bari, 1966; sul concetto del limite interpretato come l’insieme della società nelle diverse fasi della storia umana si veda Remo Bodei, Limite, il Mulino, Bologna, 2016. Su questi temi si rimanda, inoltre, a Costanzo Preve-Luca Grecchi, Marx e gli antichi Greci, Petite Plaisance editrice, Pistoia, 2005.

17. Si veda Karl Marx, Il Capitale. Critica dell’economia politica, Einaudi, Torino, 1975, Libro terzo, terza sezione, pp.299-373.

18.David Harvey, Marx e la follia del capitale, Feltrinelli, Milano, 2018, pp. 135-136 e pag. 172.

19.Ricordo, con Costanzo Preve, che le grandi masse popolari non possono vivere a lungo senza più nessuna chiave interpretativa della riproduzione sociale (produzione e riproduzione dell’intera vita individuale e sociale), pena la caduta in sindromi di demenza generalizzata in Costanzo Preve, La demenza generalizzata del popolo italiano. Un enigma storico da decifrare, www.ariannaeditrice.it, 27/12/2011; si veda anche Costanzo Preve, Elogio del comunitarismo, Controcorrente edizioni, Napoli, 2006.

20.Maria Zambrano, La confessione come genere letterario, Bruno Mondadori, Milano, 1997; John Berger, Paesaggi, il Saggiatore, Milano, 2019.

21.Sul ruolo che potrebbe avere l’India (altra potenza in ascesa) nel polo asiatico si veda Andrew Korybko, Foreign affairs ha pubblicato un’analisi straordinariamente perspicace sulle relazioni tra India e Stati Uniti, www.italiaeilmondo.com, 9/5/2023.

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