Il maglio giudiziario, di Giuseppe Germinario

Il caso Amara e il caso Palamara, nella loro rapida successione, hanno portato alla luce del sole l’evidenza di quanto sino ad ora intuito: anche la magistratura è campo di azione politico, oggetto di scontro politico per il suo esercizio; è costituita da soggetti politici partecipi non solo nel loro ambito operativo ma anche attivi nell’agone politico generale sia con strutture istituzionali ed associative formalmente riconosciute che per il tramite di gruppi informali. Sul criterio della separazione dei poteri sembra ormai prevalere quello della divisione e della compartecipazione soprattutto in questa fase di crisi e ristrutturazione degli assetti.

Prima però di dilungarsi su questo tema così delicato e su di un aspetto particolare ma cruciale di esso occorrono però alcune precisazioni necessarie a contestualizzare il merito di quanto scritto:

  • l’azione della magistratura nell’esercizio delle sue funzioni è per sua natura destabilizzante e distruttiva in quanto agisce su singoli attori o al massimo su gruppi o settori della società, segno tra l’altro che non sempre l’azione del magistrato è individuale, ma spesso e volentieri orientata e coordinata; costringe quindi gli attori politici con funzioni “costruttive” a riposizionarsi negli spazi, nei comportamenti e nei rapporti di forza diversamente disposti

  • la magistratura è organizzata secondo il criterio dell’ordinamento, in assenza quindi di una rigida struttura gerarchica. Ragion per cui il singolo magistrato, tuttalpiù le singole procure e strutture giudicanti godono almeno formalmente di “completa autonomia e indipendenza”

  • in ambito penale l’attività giudiziaria è regolata dall’obbligatorietà dell’azione; criterio che vieterebbe la selezione gerarchica, nei tempi e nei mezzi utilizzati, dei vari procedimenti

  • l’attività del magistrato, specie nella fase inquirente, è resa possibile ed è inevitabilmente condizionata dagli input forniti da soggetti politici “costruttivi” quali sono gli organi di informazione, organi di polizia, servizi di intelligence, uomini di apparato e singoli cittadini motivati in senso lato politicamente. Di solito nelle fasi di normalità o di gestione controllata delle dinamiche tale influenza si esercita con isolate eccezioni sotto traccia e discretamente; in quelle di crisi acuta o marcescenti emergono nella loro invasività e virulenza. Un esempio tra i tanti, gli evidenti e ormai conclamati legami e condizionamenti di settori dei servizi di intelligence nazionali e americani operati su alcuni magistrati propedeutici allo scoppio di Tangentopoli, alla defenestrazione di un intero ceto politico governativo e di potere, alle dismissioni e privatizzazioni gestite scelleratamente da quello surrogato in posizione servile e raffazzonata.

Gli indirizzi espressi nel secondo e terzo punto hanno lo scopo dichiarato di garantire al meglio l’imparzialità del magistrato e la parità di trattamento del cittadino; in effetti in particolari ambiti e tempi ci si è avvicinati a questo obbiettivo che più che di imparzialità si potrebbe definire di maggiore considerazione delle parti più deboli individualmente della società.

Al pari di qualsiasi sistema di relazioni e di apparati anche quello della magistratura ha conosciuto fasi ascendenti di funzionamento e fasi discendenti di decadenza e progressiva degenerazione. Le sue modalità di funzionamento ed organizzazione non possono certo impedire l’esercizio dell’impegno e del conflitto politici, proprio per la funzione di indirizzo e di collante che consustanzialmente il “politico”deve esercitare nei vari ambiti di azione umana; ne condizionano certamente però le modalità di esercizio, specie nella magistratura inquirente, sia all’interno, sia all’esterno di essa, sia ancora nelle intricate interrelazioni.

La gerarchizzazione approssimativa dell’ordinamento, la mancanza di un esplicito prevalente rapporto di indirizzo esterno dell’attività giudiziaria, in particolare di quella inquirente, ha determinato al suo interno la formazione e frammentazione di centri di potere e decisionali ostentatamente autonomi e sempre più in conflitto tra di essi, con per di più un armamentario di strumenti disponibili peculiari della categoria, ma così dirompenti nei loro effetti; ha consentito a questi nuclei di tessere, di inserirsi o di essere assorbiti più autonomamente in reti di relazioni e centri decisionali; ha creato infine le condizioni per assumere un ruolo e una capacità di influenza abnormi ormai consolidato e difficilmente scalfibile.

L’esercizio fluido del potere esige il funzionamento corretto e coordinato dei vari centri di potere, in particolare di quelli istituzionali, nella diversità delle loro funzioni; l’incisività dei vari centri strategici in conflitto e cooperazione tra di essi dipende soprattutto dalla capillarità della loro presenza in quelli istituzionali. Quando per un qualche motivo l’equilibrio dinamico viene sconvolto, mettendo per lo più in crisi il funzionamento di uno o più di questi centri di potere, in qualche modo si sopperisce alla crisi sovraccaricando altri settori con tutte le distorsioni che ne conseguono specie in caso di protrazione indefinita delle condizioni di emergenza. È quello che sta avvenendo negli Stati Uniti con l’avvento e la defenestrazione di Trump; è quello che sta avvenendo in Italia sino ad incancrenirsi da ormai circa trenta anni con la crisi focalizzata nel ceto politico governativo e progressivamente nel ceto di controllo e gestione degli apparati.

La crisi al e del CSM (Consiglio Superiore della Magistratura) è il portato di queste dinamiche. Sequenze dettate dagli imprevisti e dalle incognite di uno scontro politico così acceso e cadenzate da soggetti non necessariamente consapevoli viste le modalità altamente sofisticate di condizionamento e influenza delle azioni.

Ma passiamo al punto centrale di questo articolo.

Se esiste un ambito di azione dell’attività dei magistrati dove sono più evidenti queste implicazioni, questo è l’agone internazionale. Non è un caso quindi che la crisi sia deflagrata sui procedimenti giudiziari a carico di dirigenti dell’ENI impegnati nelle attività all’estero, nella fattispecie in Nigeria, risoltisi con l’assoluzione.

Certamente il punto centrale della crisi non riguarda il carattere informale dei comportamenti nel CSM al riguardo. A qualunque livello dell’attività politica, compreso gli organi della magistratura, i rapporti informali sono altrettanto se non più importanti di quelli formali nel preparare e portare avanti le decisioni, nel determinare le posizioni di potere. Né lo sono le rivalità personali legate al consolidamento o alla minaccia alle posizioni di potere stesse nelle procure e nel CSM.

Le stesse rivalità in seno alla dirigenza dell’ENI, in particolare tra gli amministratori delegati Scaroni e Descalzi, le quali avrebbero alimentato e fornito pretesti al proseguimento dell’inchiesta, sono il portato di dinamiche molto più grandi e complesse che vedono esposta una azienda a caccia sempre più in proprio di coperture internazionali data la crescente evanescenza del peso geopolitico dello Stato che dovrebbe tutelarla, coprirla ed indirizzarla.

L’attività legale, i procedimenti giudiziari, la stessa giurisdizione internazionali hanno delle implicazioni e godono di una aleatorietà tali da innescare pesanti dinamiche geopolitiche e politiche che prescindono dall’esito stesso delle sentenze. Quello geopolitico è un ambito privilegiato per cercare di individuare al meglio il ruolo della giustizia e dei magistrati; ambito che va esaminato sulla base di alcune premesse.

Parlare intanto di diritto internazionale è improprio in quanto il fondamento di queste, ad eccezione parziale dell’ambito dei diritti umani, sono i trattati e non un corpo di leggi; l’adesione a questi e agli organismi internazionali preposti alla gestione, l’applicazione e il rispetto delle norme sono continuamente oggetto di trattative, deroghe e violazioni in realtà difficilmente sanzionabili universalmente; laddove si è riusciti a istituire delle corti, come nell’ambito dei diritti umani, queste corti non hanno potestà su tutti i paesi e paradossalmente viene utilizzato il loro dispositivo da paesi, come gli Stati Uniti, che non vi aderiscono, almeno sino a quando utili al loro esercizio di potenza. L’ultimo esempio clamoroso in tal senso è stato il processo a Milosevic, conclusosi tra l’altro con qualche dubbio sulle cause di morte dell’imputato. Si tratta in realtà di una coperta corta utilizzata dagli stati egemoni al momento in auge a sanzione dei rapporti di forza e degli interventi intromissori. Una aleatorietà che lascia ampi margini di azione agli Stati e alla pletora di associazioni e ONG che fungono da complemento. Ai dispositivi giudiziari internazionali manca comunque il supporto fondamentale di una forza di polizia alle dirette dipendenze, impossibile da realizzare per l’assenza di un governo e di una organizzazione statuale mondiale, al momento scritta solo nel libro dei sogni.

Più interessante è la valutazione dell’azione dei corpi giudiziari nazionali nell’agone internazionale.

L’ambito penale e dirittoumanitarista è quello che si presta maggiormente alla manipolazione indiretta tesa a logorare e condizionare la collocazione geopolitica di un paese. Il caso Regeni è emblematico da questo punto di vista per la direzione unilaterale delle indagini, sia per la permeabilità alle manipolazioni esterne e alle campagne propagandistiche, nella fattispecie di matrice anglosassone. Azioni che tendono a pregiudicare e delimitare ulteriormente il nostro ruolo nel Mediterraneo.

Molto più diretto ed articolato è l’uso del diritto in ambito geoeconomico sino a diventare un vero e proprio sofisticato strumento di guerra economica e confronto geopolitico. Soprattutto in ambito economico l’adozione di un modello giurisprudenziale, nella fattispecie quello anglosassone, rappresenta la sanzione della superiorità egemonica di un paese e il tentativo di protrazione di questa per inerzia anche in una fase di incrinatura e di relativa decadenza della sua capacità di dominio. L’adozione di tali modelli apre la strada al radicamento di studi professionale avvezzi a quelle procedure, alla individuazione di sedi di definizione di controversie solo apparentemente neutrali, alla formazione di gruppi lobbistici sempre più influenti, alla circolazione di conoscenze, dati riservati e quant’altro le quali regolarmente affluiscono nelle case madri degli studi legali e da esse verso i centri di potere politici e politico-economici. La proliferazione di studi legali americani nel modo, specie nell’area occidentale, non è certo casuale e politicamente neutra; è sufficiente analizzare il corollario sviluppatosi attorno alle controversie di giganti come Airbus e Bayer per avere una idea delle dimensioni del fenomeno. La corruzione, la violazione delle regole della concorrenza, il mancato rispetto dei vincoli finanziari e debitori, la violazione dei brevetti sono le costanti di tali azioni.

Il principio della extraterritorialità è invece il fattore decisivo in grado di far compiere il salto di qualità alla efficacia delle azioni giudiziarie dei paesi. In senso masochistico ai paesi scarsamente in grado di applicarlo, in senso proattivo agli altri. L’Italia primeggia, manco a dirlo, tra i primi, gli Stati Uniti in assoluto, con la Cina come neofita ed aspirante, tra i secondi.

La base di questo principio viene posta dal lontano caso Lockeed che investì negli anni ‘70 numerosi paesi, tra i quali gli Stati Uniti, l’Italia, il Giappone, l’Olanda. Sull’onda di indignazione sollevata dallo scandalo, gli Stati Uniti in prima battuta, seguiti pedissequamente con grande solerzia da gran parte degli stati europei e dal Giappone, vararono leggi che penalizzavano le proprie imprese implicate in azioni di corruttela. Con il passare del tempo, ma in pochissimi anni, i centri decisionali americani si accorsero della discriminazione e del danno arrecato alle proprie aziende con un intervento in esclusiva. Estesero così progressivamente il campo sanzionatorio a tutte le imprese intrattenitrici di rapporti con paesi implicati in casi di corruzione, ma anche con quelli vittime di provvedimenti anche unilaterali di sanzioni per violazione dei diritti umani, per fomentazione del terrorismo (Iran), per minaccia alla “coesistenza pacifica” o per insolvenza debitoria (Argentina), comprese quelle straniere che in qualche maniera utilizzassero servizi e componenti produttivi americani. A cotanto zelo non hanno saputo resistere molti paesi, prima fra tutti l’Italia. Ma quello che per gli Stati Uniti è diventato via via uno strumento offensivo temibile e sempre più perfezionato nel conflitto geoeconomico e geopolitico, per l’Italia si è rivelato uno zelo autolesionistico di rara efficacia e perseveranza. Agli Stati Uniti è bastato ostacolare l’accesso ai propri servizi finanziari, al proprio bagaglio tecnologico e al proprio mercato interno per “correggere” i comportamenti riottosi e allineare le politiche governative e aziendali ai propri disegni; l’Italia non ha questa capacità geopolitica e nemmeno quella di determinare o contribuire a fissare gli standard di mercato e commerciali. La conseguenza è che gli Stati Uniti hanno concentrato in casa altrui le attenzioni e affibbiato l’80% dei provvedimenti sanzionatori ad aziende straniere riuscendo in qualche maniera a condizionare a proprio favore i comportamenti generali all’interno della propria sfera di influenza e a condizionare pesantemente quella dei competitori ed degli avversari dichiarati; l’Italia ha concentrato tutte le sue attenzioni verso le proprie aziende e a rivolgere gli strali più pesanti verso le proprie aziende pubbliche. La pletora di indagini e provvedimenti giudiziari ai danni di ENI, Leonardo e Finmeccanica per le loro attività estere, spesso conclusi con un nulla di fatto dopo anni di indagini e processi, hanno sconvolto le strategie aziendali in settori strategici, hanno minato profondamente la credibilità e l’affidabilità internazionale di queste e del paese stesso, hanno arrecato danni economici e politici enormi specie nell’area operativa mediterranea e subsahariana, hanno spinto queste aziende ad intensificare per proprio conto i legami politico-economici con paesi stranieri geopoliticamente più attivi indebolendo quelli con la casa madre. Tanto per non farci mancare niente, non è nemmeno l’unico campo dove si è entrati giudiziariamente con la grazia di un elefante in un negozio di cristalli sino a scombussolare assetti e reti operative: basterebbe seguire le peregrinazioni giudiziarie di tanti vertici dei servizi di informazione in quest’ultimo trentennio. In questo quadro, azzardare l’ipotesi di una particolare permeabilità degli ambienti giudiziari a questi disegni e a queste dinamiche ed esercizi di influenza e manipolazione non è poi così peregrina, a prescindere dalla consapevolezza e dalla correttezza di comportamento dei singoli magistrati. Servirebbe anche ad inquadrare con maggior respiro conflitti istituzionali gravissimi e feroci presentati dagli organi di informazione per lo più come deplorevoli beghe di bottega dal sapore corporativo. Queste naturalmente esistono, ma assumono l’aspetto del contenzioso tra i polli di Renzo, se non peggio.

La riforma dello Stato, di Giancarlo Elia Valori

In calce un articolo particolarmente interessante di Giancarlo Elia Valori che affronta il tema della riforma dello Stato, di fatto il tema della modalità di selezione di una classe dirigente e di esercizio del potere in un contesto altro rispetto al bipolarismo, fase nella quale di fatto si è formata la classe dirigente emersa, già in stato abortivo al suo sorgere, dalle pesanti scorie di una tangentopoli mai terminata, ormai a trenta anni di distanza dal suo inizio. L’uscita di Valori ha coinciso con la drammatica crisi del coronavirus. La concomitanza non è detto che sia voluta, ma non è certo casuale. La crisi pandemica, sia pure ancora incipiente, già colpisce emotivamente le popolazioni e le stesse classi dirigenti, destruttura ulteriormente, in maniera ormai irreversibile, i residui equilibri geopolitici e il sistema di relazioni economiche fondati su una visione unipolare e multilaterale dei rapporti internazionali. Una visione accantonata formalmente dalla Russia di Putin sin dall’importante discorso alla conferenza di Monaco del 2007, ma che verrà ormai sancita definitivamente ob torto collo anche dalle élites dominanti della Cina e degli Stati Uniti lungo un percorso al cui traguardo non si può prefigurare al momento un vincitore certo. Non si deve mai trascurare in politica l’aspetto emotivo di una crisi, specie se dal carattere così dirompente, legato alle modalità stesse di esistenza delle persone e delle formazioni sociali. Accresce le esigenze di efficacia e centralizzazione del potere. Se le formazioni sociali sono sufficientemente articolate ma provviste di una identità forte la realizzazione di questa esigenza produce formazioni e soggetti coesi in grado di navigare con sufficiente autonomia nelle incertezze del multipolarismo; al contrario si rischia la formazione di élites arroccate nelle proprie cittadelle e sempre più dipendenti dal volere degli agenti esterni. Dall’articolo di Valori appare chiaramente questo sentimento. L’esigenza, però, di una redifinizione dei centri e delle modalità di esercizio non può prescindere ed è connaturata agli obbiettivi strategici e alla collocazione geopolitica delle aspiranti nuove élites di potere. La collocazione politica e specificatamente geopolitica di Valori, strettamente e indefettibilmente atlantista e filoisraeliana, tanto per stigmatizzarne un aspetto che da adito a tali perplessità da far temere la mutazione di una azione di trasformazione delle dinamiche di esercizio magari ben intenzionata in quella di una classica operazione trasformistica. Il richiamo alle grandi virtù della tradizione liberale senza citarne i macroscopici difetti, messe a nudo soprattutto nella fase politica di fine ‘800 e di fine ‘900, propedeutiche alle crisi stagnanti e logoranti successive, destano più di qualche sospetto. Una visione di “bene pubblico” insita nell’azione politica di una possibile nuova classe dirigente troppo neutra, tipicamente propria del punto di vista liberale. Non vi è cenno nell’articolo sulla funzione positiva di un conflitto sociale ben indirizzato e sulla funzione di coesione delle associazioni, in un contesto però agli antipodi di quello parassitario, remissivo e decadente dell’Italia presente; manca una caratterizzazione e distinzione tra le figure politiche trainanti ed espressive di una strategia politica e l’azione dei centri strategici più o meno presenti negli ambiti nevralgici di esercizio del potere, nonché un disvelamento delle dinamiche di conflitto interno ai centri e di relazione con i centri esterni al paese; come pure viene sottovalutata colpevolmente la funzione regressiva e ammorbante di gran parte di quei centri accademici e di elaborazione che dovrebbero formare altrimenti élites alternative. La via di formazione di queste ultime si prospetta purtroppo molto più tortuosa, defatigante, approssimativa e avulsa dai centri istituzionali principalmente preposti. Forse è chiede troppo ad un semplice articolo; l’impressione, però, è che queste omissioni svelino il limite di un tema sollevato meritoriamente. Ciò nonostante l’articolo mette in evidenza aspetti, dinamiche virtuose e punti di crisi decisivi, corroborati coraggiosamente dalla rievocazione di figure politiche, quali Cossiga, da riconsiderare e ricollocare storicamente. Buona lettura_Giuseppe Germinario

tratto da https://formiche.net/2020/03/stato-cossiga-costituzione-italia-governo-presidente-del-consiglio/

La riforma dello Stato si può fare. Le istruzioni di Valori

La riforma dello Stato si può fare. Le istruzioni di Valori

A partire dal 1991 la nostra Costituzione è cambiata. Ora si può ancora riformare lo Stato centrale. Ma bisogna stare attenti a…

Fin dal suo messaggio alle Camere del 26 giugno 1991, Francesco Cossiga ebbe chiarissimo che il sistema degli equilibri costituzionali, nel dopo-Guerra fredda, stava inevitabilmente per saltare.
Nella sua visione, c’era un insieme di processi positivi e di altri potenzialmente pericolosi, che avevano messo entrambi in crisi il grande progetto iniziale della Costituzione repubblicana: l’aumento della partecipazione popolare non direttamente politica, poi la trasformazione dei partiti, da non dimenticare nemmeno la fine dell’equilibrio bipartitico della suddetta guerra fredda, poi ancora la diversa collocazione, dopo la “caduta del Muro”, delle forze politiche, infine una ulteriore differenza del ruolo dell’Italia rispetto a quello del mondo dei due blocchi contrapposti.
La Costituzione nasceva dalla Guerra fredda. Finita quest’ultima, doveva cambiare anche la Carta fondamentale e lo Stato.

Poi, per Cossiga c’era un altro elemento strutturale da notare: tutti i partiti immaginavano, in fase costituente, di poter essere, un giorno, collocati all’opposizione, e non si sa nemmeno quanto democratica, quindi programmarono di concerto un sistema di controlli e contrappesi quasi paralizzante.

Niente esecutivi forti e stabili, quindi, solo continue e successive maggioranze deboli, temporanee, e con un grande partito di opposizione, da dover essere escluso, per ovvi motivi internazionali, dal potere: ma che comunque era presente con un meccanismo ad consociandum nelle amministrazioni locali, negli apparati (tutti) poi nel sistema economico, nel potere territoriale.
Un equilibrio paradossale tra centro e periferia che disegnava anche il flebile potere, garantito dalla Costituzione, di poter rimanere nella Nato e in Occidente.

Salvo, poi, dare al Pci e ai suoi alleati il potere di fatto di destabilizzare lentamente il Governo, ma senza destabilizzare, per quanto possibile, il Paese. Ognuno dei due schieramenti si presentava con la capacità di interdire la realizzazione dell’egemonia, termine gramsciano, all’altro. Questa, la destabilizzazione dico, la fecero altri, amici e nemici.

In quegli anni ero molto vicino a Francesco Cossiga, e di queste cose ne parlammo appassionatamente per mesi, prima del suo straordinario messaggio alle Camere. Per il presidente, finita la Guerra fredda, e trasformatasi l’entità, la natura e la forma del sistema politico italiano, occorreva riformare subito la Costituzione e l’intero Stato. Aveva ragione, come spesso gli è capitato, ma oggi siamo davvero alla morte cerebrale e fisica del nostro sistema politico.

Non mi riferisco, ovviamente, a questo o quel partito, ma l’incapacità patologica di reggere le sorti del Paese è ormai evidente in tutti i gruppi parlamentari. Dopo la crisi della fine della Guerra fredda, che parlava di noi, soprattutto di noi, con la trasformazione rapida dell’Est e dei Balcani, la nuova dimensione politica e militare del mondo arabo, la crisi programmata dei vecchi alleati africani e islamici dell’occidente, con le “primavere arabe”, poi il jihad della spada, la conclusione delle nostre alleanze nel Mediterraneo, infine la fine di un automatismo fin troppo facile, nella Nato, e anche tra noi e gli Usa, tutto doveva far pensare, nella povera testa delle nuove classi politiche, che occorreva cambiare soprattutto una cosa: l’architettura costituzionale.
Per evitare, almeno, di entrare nel XXI secolo con un vecchio automezzo degli anni ’60. Ora, siamo alla fine definitiva del sistema politico incompleto che ha seguito, rabborracciato e spesso inane, la fine della Guerra fredda.

Ed è stata la lunga epoca, invece, il post-Guerra fredda italiano, dei modesti succedanei.
Invece di pensare, le classi politiche successive alla guerra fredda si sono baloccate soprattutto con la “comunicazione”. Che non è un sostituto del pensiero, anzi. Chi sa non parla, chi non parla sa, come diceva il saggio cinese Lao-Tzu. Ovvero, abbiamo assistito, dopo la crisi del 1994, generata dall’operazione Tangentopoli, alla creazione del partito-brand pubblicitario, con il solito uomo solo al comando che, però, comanda ben poco e si annoia a far politica, che lascia fare ad altri, ma che poi seleziona i parlamentari con il criterio del casting Tv; poi abbiamo anche avuto il riciclaggio del vecchio Partito democratico Usa, in un lungo remake, con tanto di asinelli e di primarie, e ci mancavano solo gli hot dogs e la pessima senape.

Sembrava un vecchio film di Bud Spencer e Terence Hill. Quando ci si vende, in politica, è bene mascherare l’identità del compratore. Ed è morto, invece, caduto sempre nella rete della operazione Tangentopoli, che operazione infatti fu, il Centro democratico e liberale, in ossequio alla vecchia battuta, detta proprio in Assemblea Costituzionale, di Togliatti: “fuori i pagliacci”. E si perse così, nella cultura politica italiana attuale, il senso della tradizione risorgimentale, liberale, statuale.
Ed è morta proprio la tradizione risorgimentale, asse dello Stato unitario, che era stata inserita nella Costituzione Repubblicana sia dai cattolici che da socialisti, con figure del calibro di Don Sturzo, Costantino MortatiFanfaniMoroLa PiraVittorio FoaMario ZagariPaolo Rossi.

Il cattolicesimo politico è stato certamente anti-risorgimentale, ma non ha distrutto la tradizione dello Stato unitario, questo lo si deve ad altri. Ogni fenomeno politico del post-guerra fredda, in Italia, è quindi stata la continuazione, con altri mezzi, come la guerra in Von Clausewitz, della vecchia guerra fredda, ma a polveri bagnate. Il meccanismo della inutile litigiosità da spot pubblicitario è oggi lo stesso, il livello di scontro è ancora elevatissimo, ma il reale meccanismo costituzionale è figlio di una fase storica definitivamente passata e, anzi, produttrice di sventati anacronismi e inutili, pericolosi, impedimenti.

Cossiga scrisse, dopo i tentativi dell’on. Aldo Bozzi, di De Mita e di Nilde Iotti, fino alla intelligente e sfortunata operazione della Bicamerale di Massimo d’Alema, nel 1997, che venne dopo, un tracciato chiaro e inevitabile: l’uso dell’art.138 Cost. per il rinnovamento della Carta Costituzionale, la fine della sciocca diminutio capitis dell’Esecutivo, che non è un luogo di transazioni, infine il ripensamento, militare, geopolitico, economico del ruolo italiano nel Mediterraneo.

La fine, in altri termini, del vecchio sistema derivato dal Trattato di Parigi del 1947. Chi aveva vinto con il solo eroismo litigioso di De Gaulle, ma che aveva patito la vastissima Repubblica di Vichy, chi poi aveva sofferto il dramma del frazionamento della patria tedesca, con il controllo alleato perfino della emissione dei francobolli, chi aveva patito la dittatura spagnola, tutti si ritrovavano, nel post-guerra fredda, in un nuovo contesto, privo delle leve strategiche del mondo diviso in due blocchi. Era, questa, la riedizione del documento di Camaldoli, insomma, a cui partecipavano anche, lo ricordiamo, laici e cattolici. E che fu poco ascoltato, anche all’inizio. Ritornare lì è ancora essenziale. Leve, quelle strategiche, che allora si trovavano ovunque, peraltro. La pervasività della lotta tra i due blocchi non permetteva una concentrazione del potere e dell’esecutivo.

Cosa fare, allora?
a) garantire la stabilità dell’esecutivo, non tramite alchimie elettorali, ma con garanzie costituzionali, poi b) evitare il frazionismo estremo delle rappresentanze regionali, provinciali, comunali, consortili, o comunque altrimenti ordinate, c) incentrare nel duopolio presidente del Consiglio-presidente della Repubblica, senza eccessive mediazioni, la responsabilità strategica e militare della politica estera italiana, che opera a contrappassi parlamentari post-factum, ma non di più di quelli, d) riformare i servizi, ancora una volta, in modo che siano strumento efficientissimo e potente dell’esecutivo; e anche capaci di azioni efficacissime e immediate, senza inutili noie parlamentari, che casomai lavorano, lo abbiamo detto, ex post, d) riformare il comando dell’economia, che è oggi troppo policefalo e, talvolta, anche acefalo.

Il mondo è fatto di velocità, di decisioni quasi immediate, di mediazioni, quando ci sono, con entità che poco hanno a che fare con i vecchi partiti politici. Altro che Aula: oggi, chi manovra il potere reale, ha a che fare con ben altri gruppi di potere. Occorre uno Stato capace di parlare e talvolta imporsi a questi nuovi attori geopolitici, finanziari, tecnologici. Il mito del mercato che si autoregola va bene per gli studenti di economia che leggono, annoiati, certi manuali che, ai miei tempi, avrebbero fatto ridere generazioni di studiosi.

Occorre dunque velocità e accuratezza insieme dell’esecuzione dell’atto di governo, la cui verifica di legittimità, qualora occorra, è demandata ad altri organi tecnici, non solo a intermediazioni politiche. Che arrivano, se arrivano, in seconda istanza. Cosa proporre, quindi, come riforma dello Stato, dopo che la nostra Repubblica soggiace a una torma di ragazzini che credono di salvare il mondo, come in un vecchio romanzo di Elsa Morante?

1. Un sistema elettorale con una soglia accettabile e razionale per l’entrata in Parlamento, ma non è poi questo il vero problema. Occorre, invece, un sistema elettorale che possa selezionare automaticamente i “campioni” rappresentativi. Ma non è nemmeno questo il punto, addirittura. Occorre, alla fine, che il governo non possa essere sciolto da una serie di costrizioni parlamentari che riprendono il vecchio modello della guerra fredda, ma senza motivo alcuno. Per esempio, la questione militare, che è troppo “commissionata”. Oppure, la inevitabile longa manus dell’Esecutivo sulla Banca d’Italia, al di là di chiacchiere illuministe sull’autonomia, peraltro mai verificatesi nella realtà.

a) La durata del governo liberamente eletto deve essere davvero di cinque anni, con un meccanismo come la tedesca sfiducia costruttiva. Lo so bene che, in questo caso, si arriva rapidamente alla conta (o al mercato) delle vacche, ma questo è sempre l’applicazione di un vecchio detto di Voltaire, “un piccolo male per un grande bene”. Al governo devono arrivare tutte le decisioni essenziali della politica, dell’economia, della strategia globale, senza mediazioni inutili, poi esso deve trattarle, ma com grano salis, e solo quando occorre, in Parlamento. Basta con le mediazioni infinite tra commissioni, sottosegretari avversi, lobbies, apparati burocratici. Chi decide è solo il governo liberamente eletto, poi si vedrà.

b) La regolamentazione delle lobbies. 200 sono oggi le organizzazioni di interessi registrate in Parlamento dal 2017 a oggi, ma in Parlamento Europeo sono 11.882 con ben 7526 persone fisiche accreditate. Se un parlamentare non sa farsi una idea dei problemi da solo, allora vada a casa.
c) Quindi, regolamentazione durissima dei “rappresentanti di interessi”, ma anche una raccolta dei dati di prima mano che sia a disposizione di tutti i parlamentari. Certo, già Costantino Mortati riteneva che il Parlamento futuro fosse soprattutto “in Commissione”, dove si lavorano i particolari e si tralascia la retorica ufficiale, ma qui siamo arrivando a una vera e propria privatizzazione della rappresentanza politica eletta.
d) L’autonomia relativa dei corpi separati, che va sostenuta. Che saranno comandati solo dai vertici politici e non da una infinita mediazione parlamentar-partitica. Basta con la vecchia tradizione per la quale i Servizi di Sicurezza, per esempio, erano obbligati a eseguire gli ordini del Presidente del Consiglio, o alcuni gruppi del Consiglio di Stato per questa o quella corrente politica. Possibilità di interlocuzione, riserva di scelta al ministro o al presidente del Consiglio, responsabilità tecnica e anche politica (Mortati parlava di alta burocrazia come politica) delle burocrazie.

e) Espansione dei settori che davvero contano: Intelligence, controllo delle transazioni finanziarie, ordinamenti di pubblica sicurezza, Forze Armate, Ricerca & Sviluppo, politica tecnologica e di investimenti. Il resto va bene per i consorzi agrari, detto senza offesa per i Consorzi stessi.
f) Ogni scelta futura verso la stabilità del sistema politico italiano avrà a che fare soprattutto con l’ideologia europeista. Anche l’Italia, Paese fondatore, deve utilizzare l’UE à la carte, per quel che gli serve, e rendere tranquillamente inutile quello che non gli serve. Come fanno gli altri Paesi europei, peraltro.

g) La nostra naturale direzione strategica è disegnata dalla geografia: il Mediterraneo, il Medio Oriente, il Maghreb, perfino certe aree dell’Estremo Oriente. Altro non v’è. Quindi, la nostra espansione commerciale, pacifica, in accordo non necessariamente ovvio con gli alleati Nato e Ue deve essere in queste zone, non nel Nord Europa dove, come diceva Napoleone per l’Europa dell’Est, “c’è troppo pieno”. Quindi, mano libera, nei limiti del possibile, in queste aree, ma anche capacità di spostare i limiti del possibile, quando occorra.

h) Una selezione diversa delle cariche pubbliche. Basta con il gioco degli sherpa che, dopo aver fatto i ghost writers, divengono burocrati, ma iniziare a creare burocrati tramite le normali filiere che tutti i Paesi moderni usano. Ovvero le grandi università, le Scuole di eccellenza, i Centri di Ricerca, i think tank di qualità. La porta girevole tra Pubblica amministrazione e professioni, alta cultura, burocrazia, scienza, deve funzionare stabilmente. Basta con questa sceneggiata russoviana e assolutista del Concorso pubblico, si inizi la chiamata ad personam di chi ha amplissimi titoli. La burocrazia, che va riformata ab initio, deve diventare il passaggio naturale, stabile o meno, delle migliori intelligenze del Paese. Quindi, molti posti senza lista di riferimento e indipendenti (lo fa già il mercato, con le società di recruiting) e, poi, una carriera possibile dentro o fuori lo Stato. Magari, tutto questo lo potrebbe fare la presidenza della Repubblica.

i) Basta con la “immonda anzianità”, come la chiamavano i Futuristi. Chi è bravo, verificabilmente bravo, va avanti, chi è solo vecchio rimane dove è. I meccanismi giuridici si possono fare in un attimo, basta volerlo.
j) Elezione dal basso del presidente della Repubblica, che deve avere un peso politico tale da obbligare parti del sistema politico a tacere, quando occorra.
k) Unica Camera. Ma le Regioni avranno, per i loro interessi, le varie strutture di settore che già operano benissimo. Le quali comunicheranno con la presidenza del Consiglio. Se riforma dello Stato dovrà essere, sarà certamente meno ossessivamente regionalista/localista della ormai pluridecennale tradizione politica post-guerra fredda, che credeva di risolvere tutti i busillis del sistema distruggendo lo “Stato centrale”, mostro puerilmente pericoloso. Una ingenuità davvero pericolosa. Il problema è la riforma dello Stato centrale, non la sua diluizione in piccole Patrie. La Svizzera è, infatti, esattamente il contrario: una federazione fortissima e centralizzata che devolve ai Cantoni solo quello che intralcerebbe la Grosse Politik di Berna.

BETTINO CRAXI, UNO DEGLI UOMINI POLITICI PIU’ ONESTI NELLA STORIA DEL NOVECENTO ITALIANO, di Giuseppe Angiuli

 

BETTINO CRAXI, UNO DEGLI UOMINI POLITICI PIU’ONESTI NELLA STORIA DEL NOVECENTO ITALIANO

 

 

Il ventesimo anniversario della morte di Bettino Craxi è stato accompagnato da un inatteso clima di curiosità, attenzione e partecipazione emotiva nell’opinione pubblica del nostro Paese, lasciandoci forse intravedere per la prima volta dei barlumi circa la possibilità di aprire finalmente un serio dibattito che conduca ad una radicale riscoperta e ad una giusta ri-valorizzazione della figura del leader socialista, con cui porre fine ad un lungo periodo di ingiusto oblio e di inaccettabile damnatio memoriae nei suoi riguardi.

A determinare tale clima nel Paese non penso abbia contribuito unicamente la programmazione nelle sale cinematografiche della pregevole pellicola di Gianni Amelio dal titolo Hammamet, contraddistinta da una interpretazione straordinariamente realistica dell’attore Pierfrancesco Favino e che, lungi dal fare luce sui torbidi retroscena del Golpe morbido del 1992 passato alla storia come Mani Pulite, è riuscito quanto meno nell’intento di risarcire parzialmente la dignità di Bettino Craxi restituendolo in tutta la sua nuda umanità all’immaginario collettivo degli italiani.

In realtà, a distanza di 20 anni esatti dalla tragica dipartita dello statista milanese – a cui fu di fatto reso impossibile il rientro in Italia per curarsi, senza correre il contestuale rischio di farsi arrestare – vi sono ormai tutte le condizioni per trarre finalmente un serio ed onesto bilancio sulle vicende che portarono alla fine della cosiddetta Prima Repubblica, con tutto quel che ne è conseguito in termini di trionfo del neo-liberismo e della globalizzazione nonché in termini di drastica riduzione della sfera delle opportunità economiche e dei diritti sociali degli italiani.

In particolare, i nostri concittadini con un po’ di capelli bianchi sul cranio sono oggi perfettamente in grado di operare un serio e crudo confronto fra le condizioni generali di vita in cui si trovava il Belpaese nei tanto vituperati anni ’80 del secolo scorso, quando i socialisti craxiani erano collocati a Palazzo Chigi (all’epoca l’Italia era la quinta potenza industriale al mondo) e le condizioni miserevoli e patetiche in cui esso si trova oggigiorno, dopo una lunga fase di sistematica spoliazione delle nostre ricchezze e di umiliazione della nostra sovranità nazionale e dopo quasi un trentennio di idiozie e scempiaggini (prima fra tutte quella sui meccanismi che avrebbero dato vita alla spirale dell’incremento del nostro debito pubblico) che hanno preso il totale sopravvento nel dibattito politico di casa nostra su qualsiasi ragionamento strategico minimamente dotato di buon senso.

Negli anni ’30 del secolo scorso, Benedetto Croce, con una saggia riflessione che al giorno d’oggi si attaglierebbe perfettamente a tutti i post-dipietristi travagliati ed in particolar modo ai grilloidi a cinque stelle, affermava che la frequente richiesta di onestà in politica altro non è che un «ideale che canta nell’anima di tutti gli imbecilli».

E a chi gli domandava che cosa fosse per lui, in fondo, l’essere onesti nella vita politica, il filosofo nativo di Pescasseroli rispondeva così: «L’onestà politica non è altro che la capacità politica, come l’onestà del medico e del chirurgo è la sua capacità di medico e di chirurgo, che non rovina e assassina la gente con la propria insipienza condita di buone intenzioni e di svariate e teoriche conoscenze».

Noi siamo d’accordo con Croce e ci permettiamo di aggiungere che a nostro avviso l’uomo politico onesto fino in fondo è colui il quale si dedica con passione alla lotta politica perseguendo una sua precisa visione del mondo e del Governo della cosa pubblica, che è capace di comunicare con trasparenza tale visione ai suoi elettori o seguaci e che, una volta acquisite delle responsabilità dirette verso la collettività, è in grado di ancorare nel modo più possibilmente coerente i suoi atti e comportamenti alle sue parole.

 

La tomba di Bettino Craxi nel cimitero cristiano di Hammamet

Ebbene, se ci si potesse trovare tutti quanti concordi con questa definizione del concetto di onestà nella vita politica, ecco che dovremmo quasi inevitabilmente pervenire alla conclusione per cui Bettino Craxi non soltanto poteva a giusta ragione qualificarsi come un uomo politico di grande onestà intellettuale ma con buona probabilità è stato senz’altro tra i più onesti e capaci fra tutti i dirigenti politici che il nostro Paese abbia avuto nella storia del novecento.

Craxi è stato onesto e capace prima di tutto nell’avere saputo approntare per tempo una rielaborazione critica, seria e lineare del retaggio ideologico ereditato dal pensiero positivista ottocentesco e dai movimenti politici di matrice marxiana[1].

Senza operare alcuna comoda o frettolosa abiura – come avrebbero fatto i post-comunisti appena dopo il collasso della cortina di ferro nel 1989 – appena dopo avere assunto la guida del P.S.I. nel 1976, Craxi seppe rapidamente dotare il suo partito di una visione moderna e realistica del socialismo riformista, una visione che riusciva a collegare sapientemente i meriti con i bisogni, la giustizia sociale con la salvaguardia delle libertà degli individui, le esigenze della crescita, della produttività e dello sviluppo con quelle legate al welfare ed all’ambizione di ascesa dal basso verso l’alto della piramide sociale.

Tale operazione di saggio revisionismo storico del pensiero marxiano – alla cui elaborazione concorse senz’altro in misura determinante l’apporto dottrinale di pensatori del calibro di Luciano Pellicani e Norberto Bobbio – consentì ai socialisti italiani di giungere bene attrezzati alla responsabilità di guidare il nostro Paese, nel corso degli anni ’80 del secolo scorso, muniti di grande credibilità, di sano realismo e di un’indubbia solidità politico-programmatica.

Il contesto che i detrattori di Craxi oggi descrivono in modo caricaturale come quello degli anni bui della «Milano da bere», della corruzione e delle tangenti fu in realtà un periodo di straordinaria ed impetuosa crescita economica dell’intero Paese, un periodo in cui al successo del Made in Italy nel mondo si associavano un’efficace mobilità sociale ed un potere reale d’acquisto dei salari dei lavoratori italiani impensabilmente alto se posto al confronto con quello odierno, un periodo in cui, in fin dei conti, anche alle famiglie di operai italiani era concesso ogni anno il lusso di farsi almeno due settimane di vacanza in riviera romagnola o sulle Dolomiti.

 

 

Sbaglia peraltro chi pensa di potere accostare politicamente ed ideologicamente in modo perfetto le figure di Bettino Craxi e di Silvio Berlusconi, che erano due personalità molto diverse e per certi versi di natura opposta.

Il rapporto di amicizia, complicità e di reciproca convenienza che Craxi strinse con Berlusconi fu dettato in primo luogo dallo stato di necessità in cui venne a trovarsi lo statista socialista: giunto a Palazzo Chigi nel 1983, egli si trovò a dover fronteggiare il fuoco di sbarramento dell’intero gotha economico-finanziario italiano, a cominciare da Cuccia-Mediobanca, Agnelli e De Benedetti con tutto il corollario della grande stampa ad essi connessa: Corriere, Stampa, Repubblica-L’Espresso.

Fu così che Craxi si trovò di fronte alla scelta obbligata di cercare una sponda mediatica nel parvenu Berlusconi, il quale a sua volta, non essendo mai riuscito a fare ingresso in certi salotti che contano, dapprima utilizzò l’amicizia con Craxi per conquistare terreno nel settore televisivo ma poi nel 1992 mollò presto il suo vecchio amico al suo triste destino, cavalcando anch’egli la prima fase dell’ondata giustizialista di Mani Pulite.

Ma Craxi fu un leader di grande onestà anche e soprattutto per il merito di non avere mai smarrito nella sua azione un forte senso della difesa dell’interesse nazionale, in un Paese come l’Italia che da almeno un migliaio di anni si contraddistingue per una strutturale e atavica propensione al particolarismo, al tradimento, ad un’esterofilia figlia della nostra debole autostima come italiani, un sentimento patologico che molto spesso ci induce perfino a vantare e sbandierare pubblicamente la nostra intelligenza col nemico, all’insegna del celebre motto «Franza o Spagna, purchè se magna».

La sua visione dirigista, statalista ed anti-liberista in economia non venne mai meno nel corso degli anni di Governo a partecipazione socialista, allorquando Bettino non mancò di protendersi coraggiosamente a difendere i gioielli delle nostre partecipazioni statali dalle grinfie e dagli appetiti famelici di uomini senza scrupoli del calibro di Carlo De Benedetti il quale già nel 1985, platealmente agevolato da Romano Prodi, con il tentativo maldestro di acquisizione del comparto alimentare dell’IRI (SME) provò con impudenza a mettere in atto le prime prove tecniche di privatizzazioni-svendita.

 

Craxi in compagnia dello storico leader palestinese Yasser Arafat

La notevole abilità e destrezza con cui Bettino Craxi si muoveva sui più complessi scenari della politica estera costituisce la prova più evidente del carattere genuino della sua passione politica, coltivata fin da quando era un ragazzino e che negli anni lo condusse ad instaurare una rete assai fitta e articolata di rapporti politici, in cui un posto d’onore era riservato ai leader laici e socialisteggianti dell’area mediterranea e dei Paesi in via di sviluppo, su tutti il palestinese Yasser Arafat, il somalo Siad Barre e il libico Muhammar Gheddafi (a quest’ultimo Craxi salvò la vita nel 1986, avvertendolo per tempo dell’intenzione degli USA di bombardare il suo quartiere generale a Tripoli).

Con la visione craxiana della politica estera euro-mediterranea l’Italia ha saputo esprimere il meglio della sua credibilità nel campo delle relazioni internazionali, agendo all’insegna di uno spirito di mutua cooperazione con tutti i popoli del bacino mediterraneo, una modalità d’azione che riusciva a coniugare la legittima difesa dei nostri interessi nazionali col rispetto della sacra aspirazione dei popoli del sud del mondo a coltivare il loro diritto alla conquista della sovranità ed il definitivo affrancamento dal colonialismo.

Secondo l’analista Luca Pinasco, «il grande sogno di Craxi era la costruzione di una “terza via socialista” definita “Socialismo Mediterraneo” che vedeva l’Italia leader di un terzo polo, socialista, il quale aggregava Paesi del sud Europa e i Paesi arabi più laici a sud e a est del Mediterraneo, proseguendo nella via già tracciata qualche decennio prima da Enrico Mattei»[2].

Sfortunatamente per Craxi e per il nostro Paese, agli inizi degli anni ’90 del Novecento, dopo il crollo del Muro di Berlino, gli USA iniziarono a guardare all’Europa con un’ottica del tutto nuova,  in un contesto inedito nel quale il nostro Paese aveva ormai perso la sua funzione strategica di contenimento dell’avanzata del comunismo sovietico verso ovest.

 

Antonio Di Pietro a cena con Bruno Contrada e con altri amici fidati il giorno del primo avviso di garanzia a Craxi (dicembre 1992)

L’operazione sporca Mani Pulite, nella cui orchestrazione furono coinvolti senza alcun dubbio alcuni apparati investigativi e/o informativi d’oltre-oceano, si configurò dunque come una precisa strategia di destabilizzazione degli equilibri politici dell’Italia, alla cui guida era previsto che si collocasse una nuova classe politica docilmente addomesticabile o comunque non in grado di opporre alcuna resistenza a tutte le principali dinamiche che avrebbero contraddistinto la successiva fase storica della Seconda Repubblica, nel contesto generale della globalizzazione neo-liberista: privatizzazioni scriteriate, de-industrializzazione del Paese, smantellamento del welfare e delle tradizionali garanzie del mondo del lavoro dipendente e, in politica estera, sudditanza euro-atlantica senza se e senza ma (la manifestazione più clamorosa di tale sudditanza l’avremmo avuta nel 1999 col bombardamento NATO di Belgrado, avvenuto giusto in coincidenza con l’ingresso del primo Presidente del Consiglio “comunista” a Palazzo Chigi).

Bettino Craxi, una volta compresa la natura sostanzialmente e politicamente eversiva – ancorchè formalmente confinata entro i limiti del diritto positivo – dell’azione dei magistrati del pool di Mani Pulite, si rese conto che per lui, soprattutto se fosse andato in carcere, il destino avrebbe riservato una fine assai simile a quella del caffè al cianuro già dispensato a personaggi del calibro di Michele Sindona e Gaspare Pisciotta e fu così che egli, essenzialmente al fine di salvaguardare la sua incolumità fisica, decise di rifugiarsi stabilmente in Tunisia sotto la protezione dell’amico Presidente Ben Alì (il quale nel 1987 era stato aiutato proprio da Craxi e dal nostro SISMI ad ascendere al potere a Tunisi, facendo infuriare i francesi).

Negli anni del suo esilio malinconico di Hammamet, Craxi seppe riordinare i suoi pensieri e ci regalò delle pillole di verità così chiarificatrici sulla natura oligarchica e profondamente penalizzante per l’Italia del processo di costruzione dell’Unione Europea al punto da apparire oggigiorno preveggenti.

Su tutte merita di essere ricordata la sua infausta previsione sui profondi squilibri economici e sociali che l’incauta adozione dell’euro avrebbe ineluttabilmente creato: «Affidare effetti taumaturgici e miracolose resurrezioni alla moneta unica europea, dopo aver provveduto a isterilire, rinunciare, accrescere i conflitti sociali, è una fantastica illusione che i fatti e le realtà economiche e finanziarie del mondo non tarderanno a mettere in chiaro»[3].

Nell’Italia del 2020, la riscoperta della figura di Craxi potrebbe costituire il miglior viatico per l’auspicabile imbocco di una nuova strada per il Paese all’insegna del recupero della dignità nazionale e del rilancio della stessa dimensione della politica al cospetto di organismi oligarchici a carattere sovranazionale che in questi ultimi decenni ci hanno colpito al cuore con delle «limitazioni di sovranità» che sono andate ben aldilà dei confini semantici dettati dall’articolo 11 della nostra carta costituzionale.

Ecco perché per i nostri giovani è oggi essenziale studiare a fondo la figura politica di Bettino Craxi sotto tutti i suoi profili quale dirigente socialista riformista, uomo di Governo, statista, stratega in politica estera, patriota e infine martire dell’indipendenza nazionale.

Per i giustizialisti pedanti come Marco Travaglio, che con la loro voce stridula ancora oggi strepitano e ululano alla luna ripetendo il consueto ritornello stantio del Craxi uomo corrotto e «latitante», la migliore risposta la si può forse attingere da una celebre riflessione di Indro Montanelli (che proprio del Travaglio fu a suo tempo maestro protettore nel periodo di avvio della sua carriera di giornalista), il quale soleva ripetere: «Nella mia vita ho conosciuto farabutti che non erano moralisti ma raramente dei moralisti che non erano farabutti».

 

Giuseppe Angiuli

 

[1] Si legga il significativo discorso tenuto da Craxi nel 1977 a Treviri, in occasione del 30° anniversario della ricostruzione della casa natale di Karl Marx, dal titolo «Marxismo, socialismo e libertà» (http://www.circolorossellimilano.org/MaterialePDF/marxismo_socialismo_liberta_bettino_craxi.pdf). Più noto di tale discorso è il celebre articolo Il Vangelo socialista, pubblicato sul settimanale L’Espresso nel 1978.

[2] L. Pinasco, Bettino Craxi e Giulio Andreotti: il Mediterraneo come spazio vitale, pubbl. in AA. VV., L’Italia nel Mondo – L’altra politica estera italiana dal dopoguerra ad oggi, Circolo Proudhon, 2016, p. 135.

[3] Citazione riportata nel libro Io parlo e continuerò a parlare – Note e appunti sull’Italia vista da Hammamet, a cura di A. Spiri, Oscar Mondadori, 2016.

BORRELLI E L’IPOCRISIA, di Augusto Sinagra

Tangentopoli non fu solo questo. Fu molto altro, politicamente anche molto più importante. Ne abbiamo scritto più volte. Fu però anche quanto scritto qui sotto. Non è poco.Ancora dopo una chiosa apparentemente non correlata alla prima_Giuseppe Germinario

BORRELLI E L’IPOCRISIA

Verso chiunque muore va dato lo stesso rispetto. Ai familiari di chiunque muore va manifestata la stessa comprensione.
È morto Francesco Saverio Borrelli. Ne parlo ora con lo stesso rispetto che ho per chiunque muore, anche l’ultimo degli ultimi.
Il solo tacere sarebbe ipocrisia. La morte non deve impedire di dire la verità con riguardo a chi è morto. Diversamente sarebbe mistificazione o atto di bassa politica.
È giusto allora ricordare che Francesco Saverio Borrelli fu artefice, ispiratore e coordinatore di quella vicenda ancora non chiara che fu “Mani pulite”.
Nei confronti dei suoi collaboratori alla Procura della Repubblica e alla Procura Generale di Milano, si è detto che era un buon capo perché “proteggeva i suoi”. Così forse fa un buon “capo” ma non un buon magistrato che deve prevenire e reprimere gli abusi commessi dai “suoi”. E in quell’epoca, in quell’intreccio di vicende giudiziarie e politiche, di abusi ne furono commessi tanti.
Non so se Francesco Saverio Borrelli sia stato artefice consapevole o inconsapevole di quello che è stato definito un “colpo di Stato”. Forse un giorno lo si saprà. Quel che è certo è che le indagini, i processi, le persecuzioni giudiziarie furono smaccatamente “selettive” con franchigia per l’area comunista e i suoi esponenti. E viene ora da ridere a proposito della bufala dei soldi russi alla Lega quando l’allora PCI ricevette finanziamenti dall’URSS per 989 miliardi di lire, e lo sapevano tutti: cani e porci.
Si disse che i “valorosi” magistrati di Milano (la cui Procura della Repubblica ora come allora pretende competenza territoriale universale in spregio del codice di procedura penale), combatterono la corruzione. Il risultato fu che la corruzione è aumentata in modo esponenziale e Partiti, che pure avevano fatto la storia d’Italia, furono disintegrati (la DC e il PSI).
Io non so se Francesco Saverio Borrelli professionalmente sia stato un buon magistrato o meno. Certamente come lui ce n’erano e ce ne sono tanti.
Quel che non gli perdono è la morte in terra d’esilio di Bettino Craxi: il migliore Capo di Governo dal dopo guerra ad oggi per lungimiranza, cura degli effettivi interessi nazionali, attenzione alla classe lavoratrice, che di lui fecero un vero statista.
Mi auguro che Francesco Saverio Borrelli abbia capito prima di morire cosa intendeva il Presidente Bettino Craxi quando diceva che “la libertà vale più della vita”.
Ma una cosa soprattutto non gli perdonerò mai: di avere utilizzato e immiserito nel contesto di una non commendevole lotta politico-giudiziaria le parole del Presidente della Vittoria, Vittorio Emanuele Orlando che dopo la tragedia di Caporetto, dal banco della Presidenza della Camera dei Deputati, rivolgendosi ai ragazzini di diciassette e diciotto anni attestati sulla riva occidentale del Fiume Sacro, gridò disperatamente: “Resistete, resistete, resistete!!!”.
Ecco, questo a Francesco Saverio Borrelli non glielo perdonerò mai.
Ora lui è morto e ora conoscerà la vera giustizia.
Che Dio abbia misericordia di lui.

DIFENDO LUCA PALAMARA!

È notizia dell’attualità che il noto Luca Palamara è stato sospeso dalle funzioni e da metà stipendio dalla Sezione disciplinare del CSM.
Non giudico le ragioni del provvedimento perché non conosco gli atti. Lo trovo tuttavia sommamente ingiusto sul piano di una giustizia che dovrebbe essere uguale per tutti. Altrimenti non è giustizia ma è discriminazione.
Mi riferisco a quell’ineffabile personaggio di Riccardo Fuzio, Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, indagato per rivelazione di notizie e di atti secretati, proprio a Luca Palamara.
A parte la deplorevoleza del fatto che sia stato il coindagato Riccardo Fuzio in quanto “sodale” di Luca Palamara, a chiedere la sospensione dalle funzioni proprio di Luca Palamara, il CSM, che sembra agire secondo criteri che nulla hanno a che fare con la legge e con la giustizia, avrebbe dovuto sospendere dalle funzioni e dallo stipendio anche e soprattutto il detto Riccardo Fuzio non fosse che per le più importanti e sovraordinate funzioni da lui svolte rispetto al Luca Palamara.
Al contrario, è stata accolta la richiesta di prepensionamento dell’ineffabile Riccardo Fuzio ma con decorrenza dal 20 novembre 2019.
Capisco che il Riccardo Fuzio voglia trascorrere le ferie a intere spese dello Stato, ma non si capisce cosa abbia tale soggetto da sistemare prima del prepensionamento, e cioè dal 1° settembre al 20 novembre p.v. (e cioè a ferie “godute”). Mistero!
Non è tutto: Luca Palamara è stato esposto al pubblico ludibrio (cui lui ha dato causa) e viceversa il Fuzio Riccardo ha ricevuto complimenti e ringraziamenti indovinate da chi? Dal solito figlio di Bernardo Mattarella!
E ancora: se la giustizia ha ancora un senso, perché non si svolgono indagini approfondite anche nei confronti di quegli altri grossi personaggi (Magistrati di vertice della Corte dei conti e Ufficiali della Guardia di Finanza e dei Carabinieri) che, come ha dichiarato Luca Palamara al CSM, hanno avuto rapporti con quell’imprenditore Fabrizio Centofanti?
È stata aperta la procedura per la nomina del successore di Riccardo Fuzio: se ne occuperà ancora Luca Palamara o quale altra “cordata” di giudici, politici, trafficanti e marchettari?

In memoria di una insolita intelligenza travolta dagli eventi, di Antonio de Martini e Giuseppe Masala

 

ANTONIO de MARTINI

 

Mi è appena giunta la notizia della morte di Gianni de Michelis.

Ministro a 39 anni, professore universitario di chimica, presidente della federazione italiana pallacanestro e mio amico.

L’ho conosciuto dopo che la tempesta di tangentopoli lo aveva travolto.
Figlio di un pastore protestante sentiva tutto il peso di colpe non sue. Lo ospitai casualmente a casa mia a un incontro sociale e diventammo amici.

Berlusconi lo ha usato e poi odiato per una sciocchezza e lo fece mettere fuori gioco da Umberto Bossi con una dichiarazione pre elettorale stupida e ingenerosa.L’idiota temeva che volesse prendere il suo posto. Lo stesso mi aveva detto , tempo prima, il generale Luigi Calligaris, cofondatore di Forza Italia.

Era l’unico con cui si potesse parlare indifferentemente delle varie etnie abissine, o dell’Amu Daria; delle problematiche di Maastricht su cui scrisse in esclusiva un saggio su Nuova Repubblica andato a ruba, o del Vicino Oriente.

Fu l’inventore della Ost-Politik italiana e fece creare la SIMEST , una banca destinata a finanziare la nostra penetrazione nei Balcani, poi fu usata da altri per altri fini.

Lo stuolo di diplomatici che ha continuato a frequentarlo ad onta delle persecuzioni ministeriali ufficiali è indicativo del rispetto professionale e umano che riscuoteva.
Erano anni che era ridotto malissimo, difeso ferocemente dal protettivo figlio.

Ho già perso il prezioso rapporto con l’ex comunista Giovanni Posani. Ora le parche hanno reciso un altro filo importante che mi legava alla vita.

Forse andrebbe detto – e scritto- che accusato di finanziamento illecito assieme ad altri, chiese – su suggerimento del legale- il patteggiamento e si prese una condanna.
I suoi ‘“correi” che non patteggiarono furono tutti assolti. A lui lasciarono la condanna a riprova che viviamo in un paese di str…ambi personaggi.

 

 

GIUSEPPE MASALA

Se ne va Gianni De Michelis, firmatario del Trattato di Maastricht che per noi è stato un capestro. Probabilmente nella sua visione si trattava solo di una sottoscrizione formale tanto poi lo avrebbe rigettato il Parlamento.

Sfortuna volle che quel maledetto trattato fu votato nel momento di massima debolezza del Parlamento. Gli uomini della DC e del PSI o in galera o in procinto di entrarci sotto lo scherno di folle idiote che applaudivano ai propri carnefici. Il PDS in vendita al miglior offerente votò si alla Truffa del Secolo nella speranza che il servizio gli valesse poltrone e potere.

Disserro no solo gli uomini del Msi con motivazioni nazionalistiche e quelli di Rifondazione Comunista con motivazioni sociali, economiche e strategiche. Troppo pochi gli assennati. I pannelliani pur ultraliberisti fanatici uscirono dall’aula; non se la sentirono di votare quel Trattato, e anche questo da l’idea di che batosta abbiamo preso.

Ancora oggi paghiamo quel disastro. Vuoi o non vuoi di De Michelis rimarrà quella maledetta firma. Se ne parlerà anche tra mille anni.

Magistrati e politica. Con i piedi nel piatto, due chiacchiere con Augusto Sinagra

Il 28 febbraio si terrà il XXII congresso di Magistratura Democratica. Un buon osservatorio su cosa si muove negli ambienti giudiziari, su quale tipo di investitura intendono attribuirsi e su come intendono influire sulle vicende politiche del paese. Qui il link della relazione del segretario. Un testo particolarmente illuminante  http://www.magistraturademocratica.it/congresso/2019/relazione-guglielmi

Augusto Sinagra, già magistrato ed accademico, ora avvocato, con il suo consueto acume ci offre il suo punto di vista su un ruolo così controverso e determinante delle vicende del nostro paese. I magistrati e la magistratura in qualche maniera partecipano sempre del gioco politico tra centri decisionali. Le modalità con le quali però intervengono da almeno trenta anni contribuiscono a destabilizzare sin dalle fondamenta il paese sino ad ostacolare la formazione di una nuova classe dirigente. Intanto l’orologio giudiziario prosegue intermittente. Un nuovo avviso ha raggiunto il Ministro Salvini. Questa volta per vilipendio. Buon ascolto Giuseppe Germinario

VIRTU’ E STATO MODERNO. di Teodoro Klitsche de la Grange

VIRTU’ E STATO MODERNO

 

  1. Scriveva un giurista di valore come Ernst Forsthoff[1] che la dottrina dello Stato occidentale ha avuto inizio da Platone ed Aristotele con una concezione dello Stato come istituzione volta alla realizzazione della virtù, e, finché il pensiero classico e cristiano accompagnarono “sulla sua strada lo spirito occidentale, anche la virtù ebbe assicurato il suo posto nella dottrina dello Stato”. Solo nel periodo più recente, successivo alla rivoluzione francese “la dottrina dello Stato ha preso una via che l’allontanò dalle qualità umane e per conseguenza anche dalla virtù”[2]. Cosi, ricorda Forsthoff, nelle opere di Jellinek non se ne parla più. Tantomeno in quelle di Kelsen e di quasi tutti i giuristi del XX secolo: se comunque alcuni di essi non sottovalutavano le qualità umane (e presupposti e condizionamenti concreti e “fattuali”) nessuno, a quanto risulta, ha considerato la virtù alla maniera di Montesquieu come principio di (una) forma di governo.

Il che è, in qualche misura, comprensibile: in un periodo storico, connotato, per il diritto, dalla prevalenza del positivismo, per cui la legge è il dato che l’operatore giuridico deve interpretare ed applicare, attraverso idonei strumenti  logici ed ermeneutici, chiedersi quale sia nel “sillogismo giudiziario” il posto che compete alla virtù, può provocare, e correttamente, solo una risposta: nulla. O tutt’al più, si può rispondere, il ruolo del disturbatore: perché se in un elegante ragionamento fatto di deduzioni, valutazioni, presunzioni, s’inserisce il parametro della virtù, l’esito può essere uno solo: una gran confusione. Ciò non toglie, che, da altra prospettiva, come quella della dottrina dello Stato “classica”, la tematica della virtù abbia un ruolo tutt’altro che secondario. Peraltro le vicende politiche italiane dell’ultimo decennio sono state connotate da un continuo richiamo alla morale, alla bontà, alla necessità di governi e governanti irreprensibili sotto il profilo etico: cose che con la virtù hanno una certa affinità. Ma, nel contempo, generano equivoci se non scompiglio: perché al di là dell’uso strumentale che può farsi della morale in politica, non pare proprio che la virtù, come intesa da Aristotele o Machiavelli, da Montesquieu o da Saint-Just abbia tanto in comune con la morale e la bontà di politici e rotocalchi nostri contemporanei.

Pertanto, è il caso di chiedersi in primo luogo se, (e quanto) la virtù abbia in comune con la dirittura morale, quali ne siano le differenze, e cosa si possa intendere per virtù. Secondariamente se la virtù sia necessaria allo Stato e in che modo ci si può assicurare che non manchi.

  1. Quanto al primo problema, già Aristotele se lo pone nella Politica[3] in relazione al buon cittadino ritenendo che “si può essere buoni cittadini senza possedere la virtù per la quale l’uomo è buono…non è assolutamente la stessa la virtù dell’uomo buono e del buon cittadino” e, interrogandosi su cosa sia la virtù (del cittadino), sostiene “c’è una forma di comando col quale l’uomo regge persone della stessa stirpe e libere. Questa forma di comando noi diciamo politico…la virtù di chi comanda e di chi obbedisce è diversa, ma il bravo cittadino deve sapere e potere obbedire e comandare ed è proprio questa la virtù del cittadino…” Aristotele con ciò non solo distingue nettamente tra privato (bontà dell’uomo) e pubblico (virtù del cittadino) ma fa consistere la virtù nella conoscenza (e pratica) di un altro dei “presupposti del politico”, come denominati da Freund; il rapporto tra comando ed obbedienza. Rapporto particolarmente importante, giacché assicura coesione e capacità d’agire alla comunità, e con ciò l’esistenza della medesima: senza una catena “gerarchica” di comando ed obbedienza che organizzi l’unità politica dal vertice alla base, questa infatti non si tiene in piedi (e non agisce).

Non molto diverso è quanto pensava Machiavelli: nel pensiero del quale è fin troppo evidente che la morale non deve essere confusa in alcun modo con la politica, perché è il fine e la necessità politica l’imperativo primario, e se osservare regole religiose e morali può metterlo in pericolo, è bene violarle: “è necessario a un principe, volendosi mantenere, imparare a poter essere non buono e usarlo o non l’usare secondo la necessità”[4]; perché la patria “è bene difesa in qualunque modo la si difende, o con ignominia o con gloria”.

Quanto alla virtù, tante volte ricorrente negli scritti del Segretario Fiorentino, a volerne intendere il significato, è quello della prudenza nel (costituire e) reggere lo Stato: cioè essenzialmente legata al ruolo pubblico.

A Montesquieu si devono le più penetranti osservazioni del rapporto tra virtù e (assetto dello) Stato. Com’è noto distingue tra natura del governo (cioè della forma di Stato)  e principio del medesimo “Fra la natura del governo e il suo principio esiste questa differenza: che è la sua natura a farlo tale, ed il suo principio a farlo agire. L’una è la sua struttura particolare, l’altro le passioni umane che lo fanno muovere. Ora, le leggi non debbono essere meno relative al principio di ciascun governo”[5]; e relativamente alla democrazia: “Ad un governo monarchico o ad uno dispotico non occorre molta probità per mantenersi o sostenersi. La forza delle leggi nell’uno, il braccio del principe ognora levato nell’altro, regolano o reggono ogni cosa. Ma in uno Stato popolare occorre una molla in più, la quale non è altri che la virtù[6], mentre queste “molle” sono diverse per le altre forme di governo (moderazione, onore e timore), per cui conclude “Questi sono i principi dei tre governi; il che non vuole affatto dire che in una particolare repubblica si sia virtuosi, ma che si dovrebbe esserlo. E nemmeno prova che, in una data monarchia, regni l’onore, in un certo Stato dispotico la paura, ma bensì che essi vi dovrebbero regnare, altrimenti il governo sarebbe imperfetto” (il corsivo è nostro); quanto all’essenza della virtù, già nell’Avertissement all’Esprit des lois, chiarisce che, quando parla della virtù, parla di quella politica, non di quella religiosa o morale, tanto ne temeva la confusione. Sempre nell’ “avertissement” aggiunge che “ciò che chiamo virtù in una repubblica è l’amore di patria ossia l’amore dell’eguaglianza”[7]

Saint-Just pone la questione nel solco del pensiero di Montesquieu (con una variante essenziale) “un governo repubblicano ha per principio la virtù; altrimenti il terrore” e insiste nel concetto, con riguardo alla rivoluzione “In ogni rivoluzione occorre o un dittatore per salvare lo Stato con la forza o censori per salvarlo con la virtù”[8]. Per cui se la virtù non c’è, o se non ve n’è a sufficienza, occorre far ricorso alla forza e incutere paura: è escluso che senza questi “principi” (o “sentimenti”) uno Stato possa reggersi.

Ma non era questo il solo “filone” di pensiero che determinava la dottrina  dello Stato nell’epoca delle rivoluzioni americana e francese. L’altro, e principale, si può sintetizzare nel giudizio di Sieyés che “sarebbe un cattivo conoscitore degli uomini chi legasse il destino della società agli sforzi della virtù”; occorrono infatti accorgimenti idonei a far si che gli interessi particolari cospirino a realizzare quello generale. Il principio del costituzionalismo liberal-democratico non è solo di salvaguardare la libertà e il rispetto della volontà popolare, ma anche quello di modellare le istituzioni in modo da conseguire l’interesse di tutti  attraverso quelli particolari, gli equilibri e le sanzioni (afflittive e premiali) relative. E’ questa la principale preoccupazione dei costituzionalisti. Tuttavia l’altra tesi non è dimenticata: Benjamin Constant scrive infatti che “Occorre agli uomini perché associno reciprocamente i loro destini ben altra cosa che l’interesse”[9]; per cui, pur essendo primaria l’esigenza di “governare” gli interessi, non era l’unica, né la (sola) sufficiente .

  1. Non stupisce che, al riguardo, il collegamento più stretto tra virtù e assetto statale l’abbia formulato proprio Montesquieu, perché l’esprit des loi consiste nelle varie relazioni che le leggi possono avere con diverse cose[10], cioè con condizioni, situazioni, dati reali. La razionalità (o la non razionalità) delle norme è verificata in base alle circostanze e alle determinanti concrete e “fattuali”. Il che significa che il normativo vola basso sul fattuale; o con altre parole che l’esistente (il reale) condiziona le norme assai più di quanto queste possano su quello. Tale impostazione non era dimenticata neanche dai teorici politici del ‘700. Lo stesso Rousseau ricorda che se il legislatore “se trompant dans son objet, prend un principe different de celui qui naît de la nature des choses… l’État ne cessera d’être agité jusq’a ce qu’il soi détruit ou changé, et que l’invincible nature ait repris son empire[11].

D’altra parte Montesquieu chiarisce molto bene, nell’Avertissement a l’ “Esprit des lois” in che senso la virtù per la democrazia, l’onore per la monarchia (e così via) sono principi di quei regimi politici, e lo fa paragonando lo Stato ad un orologio, e la virtù (o l’onore, la moderazione o il timore) alla molla, che contrappone a rotelle e pignoni: questi, che non danno impulso, quella che da ed assicura il movimento dell’insieme. Onde il “peso” e il connotato specifico del principio rispetto alle altre qualità, è di costituire il motore dell’istituzione statale: quello che la fa funzionare, mobilitando sentimenti ed energie dei cittadini.

Nella dottrina del diritto e dello Stato successiva, a partire dalla seconda metà del XX secolo la virtù non è, come scrive Forsthoff, affatto considerata: come, d’altra parte, anche gli altri principi di Montesquieu; nulla anche in molti autori e assai ridotta in altri è poi la valutazione, nella costituzione dello Stato, di tutti gli altri fattori concreti e “fattuali”. Se ancora Hegel e Tocqueville spiegavano la Costituzione federale degli Stati Uniti con l’assenza, nel continente americano, di nemici credibili ai confini, di ragionamenti simili v’è punta o poca traccia nei giuristi[12].

In effetti a ciò contribuiscono almeno tre ragioni. Da un canto la specializzazione scientifica ed accademica tendeva a separare lo studio del diritto (e dello Stato inteso restrittivamente  come ordinamento normativo) come legge (positiva) da quella dei fattori determinanti quelle norme come tali. Per cui tale indagine è ritenuta di competenza di altre discipline scientifiche, come sociologia, scienza politica e così via.

Dall’altro che, da un punto di vista normativistico, l’angolo visuale tipico dell’interprete – applicatore del diritto, il “peso” che nell’esegesi possono avere i fattori condizionanti le norme, è, rispetto a queste, praticamente nullo.

Infine anche le teorie del diritto o dello Stato più attente alle determinanti “fattuali” dell’ordinamento si sono per lo più indirizzate verso lo studio e la valutazione degli interessi in qualche misura sviluppando quelle teorie precedenti (e contemporanee) alla Rivoluzione francese ed americana; Jhering costruisce il diritto come meccanica sociale, cui sono essenziali scopo e molle (ricompensa e coercizione) per ottenere una società regolata e ordinata. E’ l’interesse la categoria cui è , in ultima istanza, ricondotto il diritto – e lo Stato[13].

Peraltro anche la teoria marxista del diritto e dello Stato, considerando l’uno e l’altro come riflesso dei rapporti reali di produzione – e conseguentemente di potere – non prendeva affatto in considerazione la virtù (o l’onore e così via): certi rapporti di produzione determinano un assetto sovrastrutturale corrispondente: cambiando quelli muterà anche questo. Non c’è spazio per altro che non sia una relazione economica.

La conseguenza di queste teorie e ideologie, così diverse, è che tutte tendono a ricondurre o a espungere quei moventi dell’agire umano non riconducibili al meccanismo  premio/afflizione. Il quale ne spiega molto (e forse la maggior parte) ma non è idoneo a spiegare tutto. Il meccanismo di premio/afflizione facente leva sull’interesse non può dar conto del perché, in guerra, i soldati sacrificano la vita, giacchè nessuna afflizione le è superiore e nessun premio può essere goduto da chi muore, come notava Schmitt. Anche se può argomentarsi che in tal caso è l’interesse generale a determinare il comportamento inducendo al sacrificio di quello individuale, è chiaro che, in tali espressioni, a fare la differenza  – e di sostanza – è l’aggettivo non il sostantivo.

Parimenti a una costituzione giuridicamente perfetta, con i rapporti tra poteri ed organi, freni e contrappesi ben studiati, non si capisce chi dovrebbe dare il movimento, giacché questo non è indotto, se non in parte minima, e non può quindi essere assicurato, dall’ammirazione per la sapiente opera del legislatore. Se fosse vero l’inverso, le migliori costituzioni sarebbero quelle redatte a tavolino, e sarebbe sufficiente per organizzare uno Stato comprarne il testo in libreria; mentre è noto che le migliori sono quelle modellate dal tempo, dall’esperienza e dalla lotta. Perché nella realtà lo Stato non è paragonabile – malgrado la radice del termine che richiama la staticità – a qualcosa d’immobile come un affresco, una fotografia, uno scritto: ma è vita e movimento, non foss’altro perché elemento determinante e costitutivo ne sono i milioni di persone che formano la popolazione. Dalle cui volontà, scelte, sentimenti ed anche credenze e pregiudizi non si può prescindere .

Se a un assetto (astrattamente) perfetto nessuno di coloro ha volontà di partecipare, lo Stato nascerà morto, come un corpo senz’anima, o una macchina senza motore[14]. Cioè proprio quello che sosteneva Montesquieu, quando in mancanza – all’epoca – di motori termici, doveva ricorrere alla metafora della molla (che da movimento) e delle rotelle, per spiegare la differenza tra principio e natura del regime politico.

E che il problema sussista è dimostrato dal fatto che indurre a cooperare, obbedire, comandare ed agire gli uomini e i gruppi sociali richiamandosi all’ “imputazione” o alla “competenza” appare altrettanto irreale del pretendere di avviare un’automobile declamando le leggi della termodinamica. Per cui la struttura ed il motore sono ambedue necessari all’esistenza – ed all’azione – dell’istituzione.

Neppure le teorie marxiste del diritto, pur così ancorate a un dato reale, come i rapporti di produzione, arrivano a spiegare la necessità del “principio”: e ciò non solo perché l’introduzione del concetto d’interesse non egoistico (cioè non economicistico) ne falsifica il presupposto, ma anche perché la teoria montequieuviana del “principio” rende irriducibile il rapporto politico alla sola relazione comando-obbedienza. In buona sostanza perché chiarisce una delle ragioni per cui si presta obbedienza al comando.

  1. A questo punto occorre chiedersi cosa sia la virtù. La prima determinazione ovvia è che la stessa non è la bontà dell’onest’uomo (privato) né quella del credente. Ciò comunque non appare sufficiente a determinare il concetto per cui occorre cercare, oltre a ciò che non è, ciò che è.

In tal senso la virtù consiste in un sentimento “pubblico”, cioè attinente all’esistenza ed all’agire dell’unità politica; per cui la virtù è l’amore (e l’azione a favore) dell’unità politica. Sono virtuose qualità ed atti che si risolvono a favore di quella, in particolare ove costituenti condizioni necessarie  e sufficienti alla stessa.

Criterio che vale a distinguere le qualità positive dell’onest’uomo, del bonus paterfamilias caro ai manuali di diritto civile, da quelle del cittadino. Sulle prime si può costruire(e fino ad un certo punto) una società ben regolata, ma non una comunità politica, come aveva compreso Aristotele. Lavorare onestamente, pagare i creditori, non arrecar torto ad altri non sono condizioni sufficienti a costituire e mantenere la comunità politica (anzi talvolta possono essere controproducenti). Questa richiede la disponibilità dei componenti al sacrificio dei propri interessi a quello generale: in certi casi al sacrificio della vita per garantire l’esistenza della comunità. Quando Montesquieu (e gli scrittori che di tale tema si sono occupati) parlavano di virtù non pensavano a quella di S. Genoveffa o di S. Sebastiano, ma alla qualità e all’esempio di Leonida, di Attilio Regolo o di Catone l’uticense. Al valore generale – in senso hegeliano – di azioni finalizzate all’interesse generale per cui gli uomini “zugleich in und für das Allgemeine wollen und eine dieses Zwecks bewuβte Wirksamkeit haben”[15]

Del pari le qualità del bonus paterfamilias non sono neppure necessarie: orde barbariche, carenti di quelle, hanno saputo espandersi, vincere e costituire nuovi Stati. Anzi talvolta la bontà è controindicata come sostenevano, tra gli altri, Machiavelli e Hobbes. Proprio il Segretario fiorentino elogia come esempi di virtù (politica) i costruttori di nuovi Principati, personaggi tra i quali, di solito, la bontà (privata) non costituiva una primaria regola di condotta, perché di sicuro impedimento. La stessa carenza si presenta in una teoria dello Stato (e del diritto pubblico) che voglia spiegarlo col solo interesse individuale. Tale via è percorribile per il diritto privato, che presuppone individui tesi a realizzare e garantire il proprio interesse e che nulla può legittimamente costringere a sacrificare. Una società in cui tutti  scambiano tutto e non rinunciano a nulla: questa è l’essenza (il “tipo ideale”) della bürgerliche gesellshaft. Ma nello Stato, in cui la disponibilità (in concreto) a rinunce e sacrifici è essenziale, una impostazione simile appare non tanto erronea, ma sicuramente insufficiente[16].

Comunque l’evoluzione delle idee nel XIX e XX secolo è stata tale da espungere  la virtù, anche se poi questa è stata praticata, senza che tuttavia se ne avesse, a livello di massa, grande consapevolezza e se ne traessero le conseguenze. Rilevabili anche dalla desuetudine del termine. Se per Machiavelli o Montesquieu sarebbe stato ovvio qualificare virtuosi De Gaulle o Bismarck, Cavour o De Gasperi, non consta che a quegli  statisti sia stata riconosciuta tale qualità, anche se la possedevano. Forse perché nell’epoca della tecnica – e della tecnocrazia – la virtù appare qualcosa di desueto, da relegare nei libri di storia o nelle declamazioni dei poeti d’altri tempi. Se a determinare i successi politici – ivi compresi quelli bellici – è l’abbondanza dei mezzi materiali e il progresso tecnico-scientifico, i protagonisti ne diventano capitani d’impresa e tecnocrati, per cui la virtù diviene un elemento decorativo, tutt’altro che indispensabile.

Ma, a prescindere  che la storia del XX secolo – e l’inizio della cronaca del XXI – danno copiosi esempi del contrario, di successi politici riportati da uomini e gruppi sociali enormemente inferiori per mezzi e cultura tecnica rispetto ai loro avversari (da ultimo l’11 settembre) altro è il problema sul tappeto. Ovvero di capire perché, in piena era della tecnica (e della tecnocrazia) si sia riproposto, prepotentemente, in Italia, nel corso degli anni ’90, il problema della “virtù”, in modo così acuto da cancellare una classe dirigente. E, in particolare, perché sotto un aspetto così diverso, difficilmente riconoscibile da Machiavelli o da Montesquieu, al punto da assumere altri nomi, peraltro più congeniali alle “nuove” connotazioni. In effetti il profilo più interessante è che, mentre la virtù ha un carattere essenzialmente pubblico la, “bontà” o la “legalità”, lo hanno, in altrettanta misura, privato. Si potrebbe indicarne la ragione nelle necessità di propaganda, di utilizzo politico dell’accusa di immoralità: ma, pur consentendo a questo, il tutto risolve il problema a metà: perché resta da spiegare perché tale mutamento corrisponda a convinzioni e credenze diffuse.

Proprio quelle credenze e teorie che in crescendo dalla metà del XIX secolo, predicano e prevedono la fine della politica, la sua sostituzione con l’economia, il venir meno del governo degli uomini sostituito dall’amministrazione delle cose. Ma in un mondo senza politica, non servirebbero né istituzioni politiche (come lo Stato) né capacità e sentimenti politici (come quelli riassunti nella virtù).

La lunga pax americana nella metà del mondo di cui fa parte l’Italia, ha, nel nostro Paese, rafforzato ed accresciuto, in misura maggiore che in altre nazioni occidentali, quella tendenza, peraltro comune a tutti: non aveva tutti i torti Lelio Basso quando diceva che finchè l’Italia era nella NATO, il Ministero degli Esteri era inutile, perché bastava quello delle Poste per ricevere i telegrammi da Washington. Ma una sovranità dimezzata, una politica estera imposta su “binari” e con limiti (esogeni) invalicabili, non porta ad altro che ad identificare la politica con l’amministrazione, o, al massimo, con l’attività di polizia (interna) in senso lato[17].

E’ la figura del tecnico, e soprattutto del funzionario che, in questo frangente, appare insostituibile e necessaria. L’etica “professionale” del funzionario non è quella – o meglio, è solo in parte – quella del politico, come sosteneva Max Weber, non foss’altro perché           questi è sopratutto un efficiente ed intelligente esecutore di ordini, mentre il politico gli ordini li deve dare, e suscitare consenso tale da garantirne l’esecuzione e in un certo senso l’interiorizzazione e l’identificazione dei governanti con il progetto e l’impresa politica (l’integrazione). Sotto altro angolo visuale, quello della responsabilità e del rischio, è più vicino al politico virtuoso il “tipo ideale” dell’imprenditore di successo: ma la direzione dello scopo e degli interessi tra (l’impresa e) l’imprenditore politico  e quello economico, e l’irriducibilità del politico all’economico, è tale da costituire differenze essenziali tra le due figure.

  1. Ciò stante siamo ritornati al problema che Montesquieu aveva risolto, se cioè sia necessario allo Stato, specificamente a quello liberaldemocratico (ma non solo), un certo tasso di virtù. Il fatto che questa non sia più presente negli scritti degli addetti ai lavori ,“non implica naturalmente che anche la virtù sia assente dagli ordinamenti degli Stati”, come scriveva Forsthoff. Perché ogni unità politica “si basa sulla qualità degli uomini che la sorreggono e che esercitano le sue funzioni”: altrimenti, nella prima metà del secolo scorso, non si capirebbe come milioni di europei (e non solo) si siano sacrificati combattendo in guerra se non avessero posseduto qualità virtuose.

Ma, anche in società e situazioni politiche in cui la possibilità reale della guerra sia ritenuta (e di fatto è stata) lontana, o tutt’al più circoscritta ed episodica, come quella europea occidentale nella seconda metà del XX secolo, la necessità di una certa dose di virtù non appare ridondante ma, all’inverso, necessaria. Concorrono a ciò sia l’espansione  delle funzioni e attività dello Stato, cioè l’innestarsi dello “Stato sociale” o del “benessere” sul corpo dello Stato legislativo, nato con le rivoluzioni borghesi, sia l’esigenze proprie allo Stato legislativo medesimo.

Il principio di legalità – ovvero la “sottomissione” del potere giudiziario e amministrativo (burocratico) alla legge – richiede, per non ridursi ad un’applicazione soggettiva – quindi variabile e imprevedibile – ed episodica, una certa dose di virtù, indipendentemente dai diversi rimedi modellati, con maggiore o minore efficacia, dal legislatore per reprimere abusi ed omissioni dei funzionari (spesso risolventisi in autoassoluzioni reciproche e collettive). Anche perché le garanzie istituzionali del personale burocratico finalizzate a garantirne un certo grado d’indipendenza (massime quelle riconosciute alla magistratura) limitano o escludono che l’operato e le persone dei medesimi possono essere valutate e riesaminate da un potere in certa misura personale (contrariamente alla legge, per natura impersonale), come quello del Sovrano o del ministro, segnatamente di uno Stato assoluto[18]. Per cui il corretto uso di poteri e funzioni è, in misura maggiore che in altri ordinamenti, rimesso alla capacità ed all’inclinazione “virtuosa” del burocrate.

La querelle tra indipendenza ed imparzialità della magistratura che da tempo contrappone diverse visioni del ruolo del Giudice deriva da una situazione concreta, per cui, di fatto, l’uso improprio di atti e della funzione giudiziaria – sospetta in tali casi di parzialità – non può essere sanzionata. Specie quando alle garanzie stabilite dal legislatore se ne aggiungono altre, di origine politica, sindacale o anche, genericamente sociale. Indubbiamente l’esigenza di garantire una certa dose di virtù è condivisa assai largamente: ma c’è disparità – altrettanto ampia – di vedute su come fare. Ciò dipende, per lo più, da un equivoco e da un’illusione. L’equivoco è quello paventato da Montesquieu, del confondere virtù (pubblica) con quella privata, e, più in generale, diritti (e doveri) inerenti alla funzione pubblica con diritti del cittadino. Per cui, ad esempio, il funzionario che esterna e concede interviste, contravvenendo al dovere di riservatezza e anche al segreto d’ufficio, si appella alla libertà di parola; quando, di converso, è chiaro che lo status di funzionario (con gli obblighi e i diritti connessi) prevale su quello di cittadino.

La seconda è l’illusione di poter garantire ciò attraverso una (idonea) normativa: il che è, da un canto, condivisibile, ove non pretenda di essere la soluzione esclusiva, né prevalente.

Perché se di converso, si volesse cercare di imporre un sufficiente tasso di virtù con leggi, decreti, sentenze e Carabinieri la delusione sarebbe pari all’inutilità dell’apparato che si mobilita, in particolare non appena si manifestasse un’emergenza: frangente in cui dosi di virtù sono l’elemento decisivo per uscirne. In realtà della virtù si può dire ciò che don Abbondio sosteneva del coraggio: che se uno non ce l’ha non se lo può dare. E tutto l’armamentario di coazione e sanzioni può servire a incentivare, consolidare azioni virtuose, e reprimere le non virtuose, ma presuppone necessariamente di “operare” su una certa dose di virtù. E’ vero che per tutte le azioni umane può valere il giudizio espresso da due eccellenti professionisti della guerra, come il Maresciallo sovietico Zukov e il feldmaresciallo tedesco Schörner; i quali richiesti di come avevano fatto l’uno a superare le munite difese tedesche, l’altro a contenere gli impetuosi attacchi sovietici, rispondevano, in termini uguali, che i soldati da loro comandati avevano più timore di quanto poteva capitare loro volgendo le spalle al nemico che ad affrontarlo. Le pattuglie e le Corti volanti dell’NKVD da una parte, delle SS e della feldgendarmerie dall’altra erano efficienti corroboratori e moltiplicatori di virtù. Comunque presente nei soldati: infatti i generali zaristi, i cui modi non erano molto più soavi di quelli di Zukov, non riuscirono ad evitare il collasso – e la rivolta –  dell’esercito sfiduciato ed esaurito; né le fucilazioni alla schiena, praticate con tanta larghezza sull’Isonzo, a scongiurare Caporetto. Quanto vale per la guerra, cioè per una situazione per definizione eccezionale,  vale – anche se con misura minore – per una situazione normale. Vero è che frangente, difficoltà (e urgenza) sono assai diverse: ma lo è pure quanto concesso a un governo che lotti per l’esistenza di una nazione, non riconosciuto se quella non è in dubbio; se gli uomini tollerano lo stato d’assedio, non si può governare in permanenza con quello e, in genere, con misure eccezionali. Le quali, per essere accettate presuppongono uno stato di fatto proporzionato alla gravità delle stesse: per l’appunto uno stato d’eccezione. Fucilare alla schiena, o anche condannare a molti anni di reclusione un ladro di polli o un impiegato corrotto sarebbe meno idoneo a incentivare comportamenti virtuosi che a convincere i cittadini a sbarazzarsi di un governo repressivo, incompatibile col principio della repubblica, quanto vicino a quello del dispotismo. Montesquieu con l’assegnare un principio proprio (ed esclusivo) ad ogni forma di governo aveva ben capito come armonizzare situazioni concrete, spirito pubblico ed assetto istituzionale: perché come in una democrazia, connotata dal ruolo attivo di tutti i cittadini nella gestione delle funzioni pubbliche occorre una dose di virtù diffusa, così a un governo dispotico che non ha quel presupposto, occorre, di converso, ispirare altrettanto generalizzato timore. Governare con la paura una repubblica, è, alla lunga, altrettanto illusorio che, per un governo dispotico, presupporre la virtù dei cittadini

Addossare l’onere del tutto al “diritto” (intendendo con tale termine, in modo un po’ improprio, leggi, pene, polizia e Tribunali) è assai più che sottovalutare la virtù è, principalmente, pretendere di governare un gruppo umano prescindendo da qualità, inclinazioni, aspirazioni umane; voler costruire una “meccanica” sociale senza motore. Ma dato che il problema da risolvere è in sostanza, far agire la comunità, dargli movimento, e per far questo occorre il motore, la soluzione offerta è peggio che errata: è, a dir poco, bizzarra. Anche perché coniugata ad una visione normativistica del diritto: il che accanto all’eliminazione del “principio” dal regime politico, lasciando solo la nature cioè la forma, aggiunge l’ulteriore riduzione  dell’ordinamento alle norme. Con ciò se ne estromette un’altra componente necessaria ed insopprimibile, che Montesquieu intravedeva con chiarezza assai prima che la querelle tra concezioni normativistiche ed istituzioniste la portasse a generale consapevolezza. In effetti quando parla di leggi e in particolare nel delineare la distinzione dei poteri, da rilievo, per l’appunto, ai poteri e ai rapporti tra gli organi che li esercitano cioè alle choses non alle regole.

Proprio nell’XI libro dell’Esprit des lois, nel sostenere l’opportunità della distinzione dei poteri sostiene “perché non si possa abusare del potere, bisogna che per la disposizione delle cose, il potere freni il potere” (il corsivo è nostro). E concetti ed asserzioni simili sono continuamente ripetuti nell’Esprit des lois; Montesquieu sostiene che è la conformazione dei rapporti tra organi statali e “corpi” politici a determinare l’assetto complessivo dello Stato e non (solo) le regole enunciate e (formalmente) vigenti, le quali senza istituti, organi, poteri e “forze sociali”, rimarrebbero largamente inapplicate, e presto, per lo più, desuete. L’attenzione che dava a tutti i dati reali, all’esistente, lo vaccinava dal pensare che le gazzette ufficiali o anche un législateur onnipotente, quali quelli immaginati dai suoi posteri, potesse realmente e stabilmente rimodellare le comunità politiche. Opinione che, invece sarebbe stata alla base delle esperienze successive delle “dittature sovrane”, segnatamente quella giacobina e bolscevica, incisive ma, in sostanza, transeunti .

Nel pensiero di Montesquieu sono le condizioni oggettive (e “pre-giuridiche”) sia materiali che spirituali a condizionare l’assetto istituzionale; è questo, ovvero l’ordinamento, a determinare le norme[19], in modo simile a come avrebbe, con il paragone della scacchiera, sostenuto Santi Romano; per cui quelle, per il pensatore francese, sono l’ultimo risultato di una serie di “cause” e ragioni concrete che, di giuridico, prima delle norme, hanno solo l’istituzione.

Il positivismo giuridico, che Schmitt connota come un misto di decisionismo e normativismo, ha comportato conseguenze – e convinzioni – opposte.

A livello – e nei momenti – politicamente “alti” prevale il profilo decisionista del législateur come ordinatore della comunità. Nei casi estremi, quello, sintetizzato da Saint-Just, di salvare la repubblica con dittatori o censori. Ma la durata di  tali assetti è stata generalmente assai breve; per cui, anche se occorre dar atto alla Convenzione di aver salvato la Francia (e la rivoluzione) nel 1793, occorre tuttavia ascrivere gran parte del merito (di cui di cui beneficiavano assai più che i giacobini, i termidoriani) all’entusiasmo (alla “virtù”) dei francesi.

Il suscitatore (e fomentatore) del quale furono assai meno le ghigliottine ed i processi, che la nuova era (e il nuovo “progetto” di società) che si schiudeva: vedeva bene Marx quando, nelle armate rivoluzionarie e napoleoniche riconosceva il “codice civile in marcia”.

Se invece si scende a livelli e momenti più bassi – tra i quali sono da considerare i contemporanei – la prospettiva cambia, e la pretesa di suscitare qualcosa di simile alla virtù con gli sbirri e gli avvisi di garanzia si manifesta ancora più irreale. In primo luogo perché l’angolo visuale da cui parte è l’opposto: se nel primo il rapporto prevalente tra decisione e norma è nel senso che la prima precede e crea la seconda, nell’altro, attento quasi esclusivamente al momento applicativo, è, ovviamente, la norma a determinare la decisione di chi la esegue. All’onnipotente législateur si sostituisce così il fonctionnaire, il quale infatti è la figura centrale di questo positivismo dimezzato, che al circuito coerente decisione/norma/decisione ha sostituito quello, limitato e claudicante, norma/decisione[20]. Nel primo caso il rapporto era visto complessivamente e dall’alto; nel secondo parzialmente e dal basso. Come se le norme fossero create dal nulla, e non volute, prodotte e, quanto meno, accettate dagli uomini. D’altro canto questo positivismo dimezzato non elimina il problema della virtù, dato che sono sempre uomini a decidere, anche se in base a norme. Perché siano concretamente attuate le quali, e realizzato il carattere impersonale del comando occorre la conformità “fotografica” delle decisioni irrimediabilmente personali dei funzionari al contenuto astratto delle norme applicate. Il che sposta solo la collocazione nello Stato della virtù, non la sua necessità. Se, per un illuminista, a esser virtuoso doveva essere soprattutto(ma non solo) il législateur – secondo la nota espressione di Rousseau il faudrait des dieux pour donner des lois aux hommes -, ora, deve esserlo (almeno) l’interprete – applicatore, la cui virtù specifica deve porlo al riparo da soggettivismi, condizionamenti ideologici, interessi mondani, ipertrofia dell’ego e così via. E senza la quale, l’aspirazione ad un governo di leggi, non di uomini, rimane confinata nei manuali giuridici o nei fondi domenicali dei quotidiani. Credere di poter cancellare (sempre) e deprecare (spesso) la personalità della decisione della norma, non significa comunque eliminarla dalla decisione in base alla norma. Il fatto che quest’ultima sia impersonale  ed oggettiva ex se si rivela un puro atto di fede.

Secondariamente una tale credenza presta il fianco a un obiezione (principale) e a un’altra (derivata). La prima che, come prima ricordato, il diritto “vola basso” sul concreto, sul sociale. Onde pensare che una società carente di virtù possa essere resa virtuosa con gli sbirri è quanto meno azzardato, non foss’altro perché se i comportamenti poco “virtuosi” hanno una tale prevalenza, ciò vuol dire che sono largamente condivisi, e pretendere di cambiarli con i carabinieri va contro il common sense. La seconda è che una società così corrotta dovrebbe aver prodotto, comunque, dei “censori” virtuosi. Ma anche tale presupposto appare poco probabile. Che le funzioni esercitate possono produrre uomini di una tempra etica così diversa è assai difficile. Sarebbe in altri termini, la tesi su cui ironizzavano gli autori  del Federalista sostenendo che i governi non sono composti da angeli. E gli uffici neppure. D’altra parte, approfondendo tale punto, un tale sistema è in grado di funzionare (più o meno bene) se la dose di virtù dei funzionari è sufficiente e congrua rispetto ai compiti. Uno Stato legislativo dove la legge sia poco applicata, domini il soggettivismo interpretativo e il corporativismo burocratico, dove, in altre parole, ci sia poco di quella virtù che connota i buoni funzionari, le istituzioni saranno – anche perciò – tendenzialmente deboli e poco confortate dal consenso popolare. Correttamente Forsthoff rilevava, a tale proposito, che il successo del positivismo giuridico nel periodo bismarckiano e guglielmino era merito, più che del rapporto “idealizzato” tra legge e applicazione concreta della stessa, delle doti professionali della burocrazia tedesca, ovvero della virtù della medesima.

Ma, quel che più rileva, in una democrazia le sorti della comunità sono nelle mani dei cittadini, ai quali competono le decisioni più importanti. Se il popolo è sovrano, e il popolo non è virtuoso, ciò significa che il sovrano non è virtuoso; ma non che qualcuno può (ha il diritto di) castigare il sovrano per la sua scarsa virtù[21]. Che è, di converso, proprio ciò che certe concezioni sottendono.

La ragione di Montesquieu sul porre come principio della repubblica democratica la virtù è proprio il fatto che ivi i cittadini hanno il potere di determinare il proprio destino, qualunque esso sia: perciò ove non possiedano la virtù tale regime ha scarse possibilità di durare; di converso ne avrebbero maggiori altre forme di governo cui la virtù (diffusa) non sia così essenziale.

  1. Montesquieu è stato uno degli interpreti e teorici del costituzionalismo moderno (forse il principale): con la teoria della distinzione dei poteri e della “disposition des choses” ha mostrato come possibile un organizzazione statale razionalmente concepita per la tutela delle libertà politiche e civili (di cui era fautore). Cioè proprio quella teoria che, col tempo, si è radicalmente modificata nel modo qui sottoposto a critica. Curioso sviluppo di una concezione assai equilibrata, in cui la progettualità umana era ancorata a presupposti e condizioni “fattuali” e così tenuta con i piedi per terra. Ma gli esiti successivi, con la sottovalutazione di quei presupposti e condizioni, l’esaltazione del législateur (e poi quella, meno esplicita, del fonctionnaire) la riduzione del diritto da istituzione a norma hanno completamente stravolto la concezione, in se equilibrata e ragionevole, del pensatore francese. Un ritorno alla quale (e al pensiero politico “classico”) può apportare un contributo di chiarimento e consapevolezza, essenziale in tempi in cui la politica, ridotta spesso alla propria caricatura, perde il proprio carattere di regolazione dell’ordine sociale e protezione della comunità. Carattere che forse può recuperare (ed è essenziale che recuperi) nello spirito pubblico, ove riportata alle sue corrette dimensioni ed ai suoi realistici presupposti.

Ciò avveniva contemporaneamente al processo di democratizzazione, quando, avendo i popoli preso in mano il loro destino e il timone degli Stati, c’era, e c’è, maggior bisogno di virtù diffusa. Alla cui mancanza non c’è rimedio “giudiziario”; ma semmai il cambiamento della forma di Stato, con l’adeguamento di questo a un altro “principio” dominante, o più, verosimilmente, la rinuncia alla politica e/o ad un’esistenza indipendente. Senza volontà di esistere politicamente e il peso delle decisioni che ciò comporta, basta veramente la bontà di Jacques le bonhomme.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

[1] Lo Stato moderno e la virtù, trad. it. ne Stato di diritto in trasformazione, Milano, 1973, p. 11 ss.

[2] Op. cit. p. 12.

[3] Politica, 3,4, 1276b-1277b

[4] Principe, XV.

[5] Esprit des lois, lib. 3, cap. II°.

[6] Op. cit., Lib. III°, cap. 3 (il corsivo è nostro).

[7] Lo stesso concetto è ripetuto in Esprit des lois, lib. V°, cap. 3. occorre ricordare che nell’ Avertissement scrive anche  «Enfin l’homme de bien dont il est question dans le livre III, chapitre V, n’est pas l’homme de bien chrétien, mais l’homme de bien politique, qui a la vertu politique dont j’ai parlé ».

[8] Frammenti sulle istituzioni repubblicane, trad. it., Torino 1975, p. 197 e 239.

[9] De l’esprit de conquête.

[10] Riportiamo il testo originale più esteso …les lois politiques et civiles de chaque nation…Il faut qu’elles se rapportent à la nature et au principe du gouvernement qui est établi ou qu’on veut établir; soit qu’elles le forment, comme font les lois politiques; soit qu’elles le maintiennent, comme font les lois civiles. Elles doivent êtrerelatives au phisique du pays ; au climat glacé, brûlant ou tempéré ; à la qualité du terrain, à sa situation, à sa grandeur ; au genre de vie des peuples, laboureurs, chasseurs ou pasteurs : elles doivent se rapporter au degré de liberté que la constitution peut souffrir, à la religion des habitants, à leurs inclinations, à leurs richesses, à leur nombre, à leur commerce, à leurs mœurs, à leurs manières. J’examinerai tous ces rapports : ils forment tous ensemble ce que l’on appelle l’esprit des lois. Je n’ai point séparé les lois politiques des civiles : car, comme je ne traite point des lois, mais de l’esprit des lois, et que cet esprit consiste dans les divers rapports que les lois peuvent avoir avec diverses choses, j’ai dû moins suivre l’ordre naturel des lois que celui de ces rapports et de ces choses.

[11] Du contrat social, Lib II, cap. XI.

[12] V. per Tocqueville La démocratie en Amérique, Lib. I°, p. I, cap. VII; per Hegel Vorlesungen über die Philosophie der Geschichte, trad. it., Firenze 1941, p. 231.

[13] In realtà Jhering riconosce che il comportamento umano può essere indotto anche da “molle” dell’agire umano diverse dall’egoismo, ricorrendo all’abnegazione che non nega l’interesse “ma si tratta di un interesse totalmente diverso da quello proprio dell’egoismo” Der Zweck in Recht, trad. it., Torino 1972, p. 52 (e seguenti).

[14] La teoria Kelseniana, così precisa nel distinguere tra casualità e imputazione, tra sein  e sollen, tra scienze empiriche e normative, non offre – nè intende offrire – una soluzione a tale problema (e a quelli analoghi), ritenuti estranei alla dottrina del diritto. Ma che il problema pur estraneo alla Reine Rechtslhere, sussista in concreto, ossia che per far funzionare la “gran macchina” occorre un motore, e che il centro d’ “imputazione” debba agire di fatto, è altrettanto innegabile.

[15] “Vogliono a un tempo e in vista dell’universale, e hanno un’attività consapevolmente rivolta a questo” G.G.F. Hegel Lineamenti di filosofia del diritto prgrf. 260.

[16] Oltre a non spiegare – ed è più importante – come una società del genere possa esistere e durare in un pluriverso politico, dove l’esistenza del nemico e la possibilità della guerra costituiscono dati concreti e reali. Vale, a maggior ragione in questo caso, il giudizio di Mably su Cartagine “ci sarà sempre in questo mondo qualche popolo sempre pronto a fare la guerra alle nazioni ricche, perché fino ad oggi le ricchezze che corrompono i costumi sono sempre il bottino del coraggio e della disciplina”. Destino comune generalmente a quei popoli, ricchi o non ricchi, cui la virtù – in senso precipuamente machiavellico – abbia fatto difetto.

[17] È sicuro comunque che anche in una dimensione ridotta, una politica (quasi esclusivamente) interna richiede comunque dati e sensibilità apposite, non riducibili alla dirittura morale o alle capacità imprenditoriali.

[18] Un esempio letterario ne è la conclusione del Tartuffe di Moliére, in cui il Re Sole “cassa” motu proprio l’ingiusta sentenza nei confronti di Orgon.

[19] È chiaro che nella concezione di Montesquieu c’è anche (ma assai di più) quella dell’ordinamento di Santi Romano, che è comunque un’idea squisitamente giuridica.

[20] Proprio Saint-Just, in parecchi passi, testimonia la considerazione di un pensiero borghese “forte” e in ascesa per gli “esecutori” della volontà nazionale espressa nella loi: “Quiconque est magistrat, n’est plus du peuple… Les autorités ne peuvent affecter ancun rang dans le peuple. Elles n’ont de rang que par rapport aux coupables et aux lois… Lorsqu’on parle à un fonctionnaire, on ne doit pas dire citoyen ; ce titre est au-dessus de lui » Fragments sur les Institutions républicaines, III, 4.

[21] Mentre è possibile punire il cittadino (o i cittadini) che trasgrediscono, non lo è, di fatto, quando costituiscono la larga maggioranza, e quando i comportamenti non “virtuosi” sono altrettanto  diffusi. Vale in tal caso comunque la regola Kantiana che il Sovrano non ha doveri suscettibili di coazione (cioè giuridici). Il che non esclude quelli non-giuridici e l’uso di strumenti non coattivi.