La crisi siriana e l’Italia, di Roberto Buffagni

La crisi siriana e l’Italia

 

Mentre scrivo è in corso la riunione del Consiglio di Sicurezza ONU sulla crisi siriana. Registro le due dichiarazioni molto dure e direttamente antirusse di Stati Uniti e Francia, la dichiarazione interlocutoria della Cina che invita a una soluzione politica e non militare della crisi, e la dichiarazione più cauta del Regno Unito che non dà per scontata la responsabilità siriana nell’uso dei gas: il governo May è debole, i laburisti protestano, i conservatori non sono saldamente uniti, e il Ministro della Difesa russo proprio oggi ha ufficialmente accusato il governo britannico di aver appoggiato chi ha inscenato “il falso attacco provocatorio con i gas”.

In Italia non si registrano prese di posizione serie sulla crisi siriana. Si è costretti a prendere atto, con dispiacere e vergogna, di un allineamento totale del PD alle posizioni USA più oltranziste, quando persino all’interno dell’Amministrazione americana e tra gli alti gradi delle FFAA USA ci sono serie perplessità e posizioni nettamente contrarie a un attacco non dimostrativo contro Siria e Russia. Unico a invitare alla calma e a non invischiarsi in una situazione pericolosa, Matteo Salvini: nel paese dei ciechi l’orbo è re, ma non basta.

Che cosa rischiano l’Italia e il mondo intero? In sintesi, quanto segue. In caso di un attacco USA non dimostrativo contro la Siria e il suo alleato russo, l’enorme superiorità di mezzi di cui dispongono gli USA nel teatro mediterraneo può soverchiare le difese siriane e russe. Una prima fitta ondata di missili viene abbattuta dal sistema difensivo russo-siriano che però esaurisce lo stock missilistico, che non è possibile rifornire in tempo utile per le difficoltà logistiche imposte dalla distanza tra Russia e Siria. Una seconda ondata passa e causa gravi danni, colpendo personale siriano e russo. I russi sono costretti a rispondere dal Mar Caspio e dal Mar Nero, forse anche dal suolo russo. Gli USA rispondono, lo scontro si internazionalizza. Se un missile USA colpisce il suolo russo, la Russia colpirà il suolo americano. Sebbene lo scenario sinora tratteggiato non preveda l’uso di armi nucleari, nessuno può escludere che l’escalation vi conduca. E naturalmente, a ogni passo dell’escalation diventa sempre più difficile la de-escalation, sempre maggiori le probabilità di una perdita di controllo da parte di uno o entrambi i contendenti.

Per la sua posizione geografica, in caso di attacco USA non dimostrativo l’Italia sarà in prima linea, perché gli USA vorranno usare le loro basi situate su territorio italiano. Chi dice “siamo nella NATO e dunque dobbiamo appoggiare l’intervento americano contro la Siria” mente spudoratamente. La NATO non, ripeto NON c’entra niente con l’intervento USA contro la Siria. Un’azione aggressiva NATO esige l’accordo unanime, ripeto unanime, dei membri dell’alleanza. Né alcun membro NATO è stato aggredito dalla Siria o dalla Russia. Se dalle basi USA (USA, non NATO) presenti sul territorio italiano partissero truppe o voli diretti ad aggredire la Siria, questo avverrebbe con la piena corresponsabilità del governo italiano e della nazione. Nelle basi USA su territorio italiano, infatti, ci sono due comandanti, uno americano uno italiano. Il comandante americano è tenuto a comunicare in anticipo al comandante italiano tutte le operazioni, e il comandante italiano può autorizzarle oppure no, ripeto OPPURE NO. In caso di attacco USA contro la Siria che parta da basi USA su territorio italiano, il comandante italiano della base USA è tenuto a comunicare ai superiori gerarchici il piano operativo a lui sottoposto dal comandante americano, e i superiori gerarchici a informarne il governo e il Presidente della Repubblica, comandante in capo delle FFAA, perché un atto di guerra contro la Siria e la Russia intrapreso da base USA su territorio italiano configura un identico atto di guerra dell’Italia contro Siria e Russia. Per intenderci: se la Russia rispondesse a un attacco USA partito dall’Italia attaccando obiettivi militari su territorio italiano, sarebbe giustificata dal diritto di guerra. Invitiamo caldamente tutte le forze politiche che abbiano a cuore la sicurezza e l’onore nazionale a fare pressione sul governo e sul Presidente della Repubblica, comandante in capo delle FFAA, perché con apposita comunicazione scritta ribadiscano a tutti comandanti italiani di basi militari USA che è loro diritto e dovere esigere dal comandante americano il controllo preventivo del piano di operazioni, e comunicare prontamente per via gerarchica al governo eventuali piani di operazioni USA contro Siria e Russia che partano dal suolo italiano. Se questa possibilità si verifica, viste le gravi ripercussioni possibili e anzi probabili, il governo è politicamente e moralmente tenuto a darne notizia al Parlamento, e a sottoporre a un voto delle Camere l’autorizzazione italiana di qualsivoglia operazione americana contro Siria e Russia in partenza dal territorio nazionale. Vogliamo sperare che i rappresentanti del popolo italiano si mostrerebbero all’altezza del loro ufficio, negando l’autorizzazione e così tutelando sicurezza e onore dell’Italia. Chi non lo facesse si assumerebbe una gravissima responsabilità storica e morale.

 

PARASSITARIO O PREDATORIO?, di Teodoro Klitsche de la Grange

PARASSITARIO O PREDATORIO?

  1. Come è noto gli studiosi (italiani) di Scienza delle finanze sono soliti distinguere gli assetti di potere (sotto il profilo economico-finanziario) coercitivi in: tutoriali, quando le scelte dei governanti sono orientate alla salvaguardia dell’interesse di tutti; parassitari (i più sono sottomessi e sfruttati al fine di trovare durevole vantaggio a favore di ceti ed interessi preferiti dalla élite dirigente); predatori (dove prevale l’interesse delle classi dominanti ad aumentare il proprio utile “a breve periodo”). Gli assetti suddetti non sono definiti in maniera univoca, né i criteri sono i medesimi per tutti gli studiosi che se ne sono occupati[1].

La distinzione, vicina (e in parte lo comprende) – al giudizio di Max Weber per la quale l’uomo politico vive, in qualche misura, anche di politica (e non solo per la politica), non è spesso agevolmente applicabile al concreto perché in diversa misura ogni organizzazione, anche la più tutoriale ed efficiente – ha dei costi (compresi quelli del vertice direttivo), come li hanno le altre. Onde spesso la distinzione si fonda su elementi quantitativi più che qualitativi.

Per cui la “soglia” tra l’uno e l’altro assetto è determinata (per lo più) dal quantum idoneo a distinguerli; ma non è solo questione – anche se è l’aspetto più importante – di percentuale di ricchezza prelevata (o estorta) ai governati, ma anche – ad esempio – dell’uso della forza, del provvedimento in luogo del contratto e così via.

  1. A quasi nove anni dall’inizio della crisi economica e delle vicende, in particolare italiane, che ne sono conseguite, è da chiedersi quanto le trasformazioni intervenute nell’assetto dei rapporti economici tra classe dirigente e cittadini siano riconducibili (nel risultato) ad una delle tre specie identificate.

All’uopo è meglio ricordare – tra i tanti dati disponibili (più o meno affidabili) che: quanto al PIL questo, tra il 2000 e il 2016 è cresciuto meno di un punto percentuale (dato ISTAT settembre 2017); invece l’aumento della pressione fiscale rispetto al PIL è stato il secondo più alto d’Europa, ossia +3,2%, più del doppio della zona euro (+ 1,5%) e più del triplo della Ue a 28 paesi (1%)[2]; nel periodo 2008-2017 l’aumento è stato dell’1,3%[3].

Peraltro i dati vanno compresi (e l’effetto spesso è peggiore): ad esempio l’IVA è aumentata (durante il periodo della crisi) di due punti percentuali (dal 20% al 22%). Il gettito in termini reali è lievemente calato, ma solo perché la crisi ha ristretto la base imponibile per cui, onde ottenere un gettito più o meno pari, il governo è stato costretto ad aumentare del 2% l’aliquota (dal 20 al 22%). E così si potrebbe andare avanti citando fonti ufficiali (credibili fino ad un certo punto) e non ufficiali (meno credibili?).

Da questi (e altri) dati possono farsi due considerazioni generali. La prima è che la crisi economica ha decurtato il reddito di tutti i cittadini; la seconda, che, invece, non ha inciso (o molto meno) sulle élite dirigenti e su coloro che vivono del bilancio pubblico: il costante aumento del prelievo fiscale – malgrado la contrazione della base imponibile – lo prova. Il reddito calante (per i governati) si è sommato al prelievo crescente.

Qualcuno potrebbe sostenere, a seguire Gaetano Mosca, che la ragione di ciò è “la naturale tendenza, che hanno coloro che stanno a capo della gerarchia sociale ad abusare dei loro poteri”. Ovviamente a beneficio proprio e dei propri protetti/seguaci (e protettori). Ma è da chiedersi, fino a quando? L’equilibrio tra costi e benefici delle organizzazioni delle comunità non è mai pari: l’importante, per mantenerlo, è che non sia troppo distante dalla parità.

Quando nell’impero romano si ruppe – Settimio Severo lo predicò sul letto di morte – quell’equilibrio (progressivamente peggiorando), avvenne che i sudditi dell’impero scappavano dalle zone ancora amministrate dai funzionari imperiali verso quelle occupate dai barbari, le cui pretese erano assai più “miti” di quelle degli esattori romani[4].

Anche nell’Italia contemporanea abbiamo almeno due “classi” di cittadini italiani che scappano (in massa, come i romani): coloro che cercano (e trovano) lavoro all’estero (nel 2016 oltre centomila) prevalentemente giovani; e i pensionati che si trasferiscono in paesi (anche europei come il Portogallo) dove la vita è meno costosa e il fisco meno rapace (per i quali, a leggere i giornali, il fisco sta studiando come tosarli meglio).

  1. Ciò stante cerchiamo di dare una risposta all’interrogativo iniziale: a quale dei tre assetti corrisponde la situazione concreta dell’Italia?

Quello sicuramente da escludere è che si tratti di un assetto tutorio (il preferibile per i governati). La classe dirigente – e i suoi manutengoli mediatici – si affannano a sostenere che tra costi e benefici c’è equilibrio, anzi che i secondi (per i governati) fanno aggio sui primi, ma, a prescindere che un simile giudizio suscita generalmente un misto di rabbia e ilarità, resta il fatto che al calare dei secondi (v. pensioni, sanità, ecc. ecc.) corrisponde l’aumento dei primi (imposte, corrispettivi vari, svendite del debito pubblico). Per cui è insostenibile nei (e dai) fatti.

Meno agevole è ricondurre il tutto a uno degli altri due assetti.

Il cui discrimine è, secondo alcuni, la prospettiva di durata (lunga in quello parassitario, perciò meno oppressivo), e breve nel predatorio (consistente in vantaggi immediati a favore esclusivo dei governanti); secondo altri la regolamentazione/difesa giuridica, presente nel parassitario e assente o del tutto inconsistente nel predatorio (il cui caso-limite è il saccheggio di una città espugnata dal nemico), che richiama in certo modo la visione/concezione hobbesiana del bellum omnium cantra omnes. Altri criteri possono essere l’aumento e la prevalenza di strumenti d’amministrazione negoziali o autoritativi (contratto o provvedimento); paritari o non paritari e così via.

  1. Come cennato i criteri distintivi dell’assetto predatorio da quello parassitario sono prevalentemente ritenuti due: la prospettiva a “breve periodo” e l’assenza di difesa giuridica. Il “tipo ideale” di assetto predatorio è, come prima scritto, quello di una città o un territorio occupato e saccheggiato da un esercito nemico. Il quale non si aspetta né che il saccheggio continui indefinitamente ma neppure che vi sia alcuna pretesa giuridica che possa farsi valere contro il diritto del vincitore/occupatore a disporre senza limiti dei beni e delle vite dei vinti (che comprendeva nell’antichità sia lo jus vitae et necis, sia quello sulle persone, riducibili in schiavitù).

Ma questo è un tipo ideale, cui le situazioni concrete si possono accostare e (parzialmente) essere ricomprese, senza esservi incluse totalmente. Né l’un criterio né l’altro coincidono con i connotati peculiari dell’assetto parassitario in cui gli sfruttatori (per interesse proprio) non hanno alcun intento che lo sfruttamento s’esaurisca in breve durata. Come scriveva Pareto, il loro interesse è spennare l’oca senza troppo farla gridare. Se l’oca muore o perde tutte le penne diventa inutile: lo sfruttamento si esaurisce per carenza di sfruttabile. La stessa difesa giuridica è compatibile con l’assetto parassitario, non foss’altro perché consente una utilizzazione regolata, quindi (entro certi limiti) prevedibile e calcolabile, anche da parte degli sfruttati (che ne siano consapevoli o meno). Pertanto possono distinguere l’assetto parassitario dal predatorio.

Il dominio, di converso, di una banda di briganti non si distingue da quello di un potere legittimo soltanto perché non è ispirato alla giustizia, come scriveva S. Agostino, ma, ancor più, perché non è finalizzato alla durata (e alle condizioni e limiti che la permettono).

Non costituisce invece criterio distintivo il monopolio (o almeno l’impiego) della violenza (più o meno) “legittima” perché questo connota ogni tipo di Stato (Weber) e relativo assetto, compreso il preferibile assetto “tutorio”, in quanto ogni sintesi politica presuppone comunque la (possibilità di) trasgressione e quindi la necessità di reprimerla. Anche se, nell’assetto predatorio l’uso della violenza è sistematico, ciò che lo rende qualitativamente diverso è l’assenza di limiti giuridici (nel tipo ideale) e (almeno) la loro minimizzazione (nelle situazioni concrete). Piuttosto ciò che appare un’antinomia è che l’assetto predatorio (a parte il caso-limite dell’occupatio militare, soprattutto quando esercitata con mezzi barbarici), proprio perché riferito ad un assetto statale, si svolge in un contesto istituzionale (come gli altri due). Il quale, come scriveva Hauriou è per sua natura ispirato alla durata, essendo questo carattere (e funzione) peculiare dell’istituzione.

Ma, anche in un’istituzione politica la sospensione del diritto è ricorrente e prevista dall’ordinamento. Il Gouvernement de fait del giurista francese, il Massnamezustand di Schmitt[5], lo justitium romano[6] sono tutte situazioni concrete in cui la sospensione del diritto può consentire l’assetto predatorio e ancor più, l’esercizio di pratiche predatorie.

  1. Sotto il profilo quantitativo ciò che connota l’assetto predatorio rispetto al parassitario è il risultato complessivo. Anche qui nel secondo l’esigenza di durata dello sfruttamento ne presuppone una certa tollerabilità. E nessun fatto la rende tollerabile quanto il successo, in particolare sotto il profilo economico. Lo sfruttamento in un assetto parassitario può essere notevole, nel senso che le risorse della comunità destinate al sostentamento della classe dirigente, del di essa aiutantato[7] e delle clientele preferite costituiscano una percentuale rilevante e perfino maggioritaria di quelle prelevate, ma comunque essere tollerato se la comunità è in crescita economica. Ma non lo è se questa non c’è, o si riduce di guisa da far arretrare, in un mondo dove altri Stati crescono in misura superiore, le chances di vita e d’esistenza comunitaria e individuale. Proprio questo è quello che è accaduto all’Italia della c.d. “seconda Repubblica”. Se è vero che la c.d. “prima Repubblica” aveva, in particolare dagli anni ’60 in poi, accentuato il “modello distributivo” della ricchezza, rispetto al “modello produttivo” prevalente dal primo dopoguerra fino all’inizio degli anni ’60, ciò avveniva in un contesto in cui vi era sempre accrescimento della ricchezza, in misura – per lo più – superiore (nella peggiore delle ipotesi pari) a quello degli Stati più simili per caratteri politici, economici e culturali (e geografici).

Se invece andiamo a vedere le statistiche del PIL a partire da metà degli anni ’90 ad oggi l’andamento è il contrario. Limitando l’esame ad alcuni grandi Stati europei occidentali (i più simili, secondo il criterio appena ricordato) il risultato è il seguente (periodo 1995-2014)

Incremento PIL

Svezia 41,7%

Francia 20,7%

Germania 28,7%

Spagna 23,9%

Grecia 13,5%

Portogallo 19,1%

Italia 1,9%[8]

Anche altri dati concordano al medesimo (sconfortante) andamento: la pressione fiscale nel 1990 era pari al 38,2% del reddito nazionale, nel 2014 al 44,2%. In tutti gli anni dal 1992 al 2014 (e dopo) si è mantenuta al di sopra del 40%.

Tanto per fare un confronto con la prima Repubblica, nel 1980 la pressione fiscale era pari al 31,8% del reddito nazionale. In tutti gli anni fino al 1991 è stata inferiore al 40%, mediamente si aggirava intorno al 30% o poco più. Quindi tra “prima” e “seconda” repubblica l’aumento medio della pressione fiscale è cresciuto di circa il 40% (dal 30-32% al 42-44%). Negli anni ’51-63 (il boom economico) il PIL italiano crebbe da circa 14.000 miliardi di lire a 31.261 con incremento annuale medio del 5,9% (quello della Francia era il 4,4%); i consumi italiani quasi raddoppiati; gli investimenti triplicati[9]. È penoso confrontarli con i dati corrispondenti della seconda repubblica.

Anche se la “prima repubblica” è stata liquidata come se fosse stata l’agostiniano governo di una banda di briganti (latrocinium), bisogna prendere atto che ha prodotto molti più benefici e molti meno danni della seconda.

Risultati così deludenti, protratti per un lungo lasso di tempo (oltre vent’anni) possono costituire criterio di distinzione tra assetto predatorio e parassitario. In effetti mentre in quest’ultimo l’aumento dello sfruttamento si accompagna ad un aumento della ricchezza a disposizione dei governati, nel primo si riduce: prendendo come base i dati citati per l’Italia ad un aumento del reddito nazionale di 1,9% in vent’anni corrisponde un incremento della pressione fiscale di circa 6 punti percentuali[10].

Dato che l’aumento della ricchezza è stato dell’1,9% e la pressione fiscale del 6%, ne consegue che la ricchezza dei governati è diminuita di circa 4 punti di PIL. Se poi si considera che l’aumento medio dei paesi simili è stato di circa il 25%, si ha dimensione di un arretramento relativo (rispetto al resto dell’Europa e ancor più del mondo) assai peggiore con un pesante effetto sia sulle aspettative dei cittadini che sulle pretese della comunità nazionale, come confermato da vicende non solo nazionali, né esclusivamente economiche.

Nella realtà attuale è dubbio se in cuor loro, i governanti non si interroghino sulla durata di un sistema che ha tenuto l’Italia in recessione (o stasi) economica, ferma per un periodo ventennale, ma con un carico fiscale crescente.

A continuare così la fine – nel lungo periodo – è sicura. Per cui a seguire tale criterio saremmo transitati (da vent’anni) dal “parassitario” al “predatorio”.

  1. Ma del pari anche la difesa giuridica, sulla carta garantita dalla Costituzione e dalla legislazione meno recente si è ridotta e va riducendosi ancora di più. Certo una difesa giuridica c’è, ma sempre più difficile, inefficace e costosa. Norme sostanziali e processuali sono state emanate per attenuarla; quelle a favore dei governati sono disapplicate o poco applicate da una burocrazia che, come scriveva Marx, tende a confondere l’interesse pubblico col proprio interesse di casta; le prestazioni dello Stato (i pagamenti ai creditori soprattutto) sono sottoposti a intralci, sospensioni, rinvii ex lege di ogni tipo, mentre quelli degli apparati pubblici se non facilitati, almeno sono esonerati dai vincoli imposti ai privati[11].
  2. Alla configurazione dell’assetto predatorio hanno concorso e concorrono altre circostanze. In primo luogo l’estensione dei poteri pubblici. È inutile ripetere tutte le argomentazioni portate in tal senso, perché è evidente l’aumento dei compiti, del personale e delle funzioni pubbliche nel c.d. Welfare State. Ciò sposta il limite tra pubblico e privato (a favore del primo e a detrimento del secondo). Come scriveva Gaetano Mosca, l’efficacia della difesa giuridica dei governati è legata a condizioni fattuali – prima che normative – tra le quali la diffusione della ricchezza e soprattutto la non concentrazione della “direzione della produzione economica, la distribuzione di essa ed il potere politico” nelle stesse persone[12]

Anche se la concentrazione di potere economico e politico ha come caso estremo il comunismo del XX secolo (e i precedenti storici, anche se non così conseguenziali, nelle “società idrauliche” studiate da Wittfogel), uno Stato che preleva il 50% del reddito nazionale ha un potere e una capacità di clientelizzazione della società superiore a un altro che ne preleva il 20%. Ancor più se, con mezzi diretti o indiretti cerca di rendere più difficoltoso e al limite inutile l’esercizio di pretese giuridiche contro gli apparati pubblici, riducendo gli ambiti di libertà, già quantitativamente ridimensionati dall’incremento dei compiti pubblici.

Il secondo elemento qualitativo che aumenta il potere pubblico è che questo è indissolubilmente legato all’esercizio di potestà coercitive. Ad adottare la terminologia di Miglio, se si estende l’ambito dell’obbligazione politica, in pari misura si contrae quella dell’obbligazione-contratto. Malgrado la diffusione in Italia di “contrattualizzazioni” di funzioni e servizi pubblici, con l’adozione di strumenti privatistici in settori della pubblica amministrazione, resta il fatto che la decisione su cosa debba essere pubblico e, soprattutto, su come approvvigionare le risorse per compiti “contrattualizzati” (a tacer d’altro) sono decisioni pubbliche, imposte autoritativamente e così riconducibili al rapporto di comando/obbedienza (presupposto del politico). Per ridurre un’obbligazione politica ad obbligazione-contratto occorre rimetterne costituzione, modificazione, estinzione alla volontà paritaria dei “contraenti”; quando le funzioni contrattualizzate, “privatizzate” (e così via) saranno finanziate con collette, (o con rendite patrimoniali pubbliche) e non con le tasse, solo allora non vi sarà più obbligazione politica (e relativamente a queste).

Il che a ben vedere, è estremamente difficile, in uno Stato moderno in cui comunque l’aumento di compiti e funzioni rispetto alle meno voraci sintesi politiche del medioevo è enorme, anche senza arrivare allo Stato “totale” del XX secolo.

  1. Piuttosto, al fine di ridurre l’appropriazione politica – e con ciò la possibilità di predazione – occorre riflettere su un dato ovvio.

Quasi tutti i manuali di diritto pubblico iniziano indicando come criterio distintivo di quello dal diritto privato, la posizione di non eguaglianza tra le parti, diversamente dal diritto privato dove sono in posizione di parità.

Un acuto giurista come Hauriou riconduceva i due diritti (e le due giustizie che ne derivano, almeno nel diritto continentale) a due aspetti dell’esistenza e della natura umana: il primo, al diritto dell’istituzione, ovvero alla regolarità per cui l’uomo è zoon politikon e “appartiene” ad un gruppo politico e sociale (droit disciplinaire)[13].

Tale diritto e la relativa giustizia (Themis) è connotato dall’ineguaglianza tra i soggetti governanti e governati. L’altro, fondato sulla naturale socievolezza umana, è basato sull’eguaglianza tra soggetti e genera una giustizia paritaria (dike)[14].

A conferma del carattere decisivo dell’eguaglianza o meno, se si va ad analizzare le modificazioni normative (alcune prima citate in nota 10) che portano alla “provvedimentalizzazione” ed alla “gerarchizzazione” dell’ordinamento, queste sono tutte volte ad accentuare il carattere non egualitario delle parti nelle obbligazioni relative.

La non-eguaglianza (tra parti pubbliche e private) nel diritto pubblico non si limita al carattere principale del costituire precetti validi in base a decisioni unilaterali – mentre nel diritto comune sono di norma, contrattate e bilaterali – ma, perfino in rapporti teoricamente egualitari, nell’assicurare privilegi o deroghe a favore della parte pubblica e a detrimento di quelle private. Il caso più diffuso e ricorrente sono le sanzioni tributarie: il contribuente che ritarda od omette il pagamento delle imposte è soggetto a sanzioni, sovrattasse, indennità di mora: l’ufficio che non rimborsa o ritarda il rimborso d’imposte indebitamente o erroneamente percette, no (al massimo rischia – ma è azione giudiziaria difficile) di pagare dei danni. Danni che, a differenza delle sanzioni tributarie, il cui presupposto è il mancato o ritardato adempimento, vanno provati (non basta cioè aver commesso il fatto illecito, occorre dimostrare che abbia depauperato il patrimonio del creditore). In altri settori leggi, come la c.d. Legge-Pinto (con le modificazioni apportatevi nel 2012) sanzionano il cittadino che abbia proposto un’azione giudiziaria infondata contro lo Stato: ma nessuna norma sanziona specificamente gli uffici statali se perdono la relativa vertenza. Altre leggi prescrivono sanzioni spropositate: ad esempio nelle imposte di bollo e registro la sanzione va fino al triplo dell’imposta di registro e fino al decuplo per quella di bollo (v. D.P.R. 634/72 e 642/72). Ma se succede il contrario i pubblici poteri possono contare sulla sollecitudine amorevole del legislatore: se questi commettono illeciti, l’esborso dell’erario non è pari al danno provocato, ma ad una frazione del medesimo[15].

Quindi se non del tutto predatorio, l’attuale situazione vi s’incammina ed è a buon tratto.

Quali rimedi? Ve ne sono tanti. Ma due vogliamo ricordarne. Il primo del tutto economicistico, che indicava Maffeo Pantaleoni “Quando si dimostra che l’impiego della forza nella spogliazione predatoria o parassitaria può essere così costoso da rendere più utile il contratto … che rimarrà della superiorità di forze, quando il suo esercizio sarà sottoposto alla condizione di comportare un tale costo da rendere ogni altro sistema più remunerativo? Il costo, che è connesso con l’esercizio di mezzi violenti di aggressione o di dominazione, va, evidentemente, messo tra i mezzi di difesa del gruppo più debole, e può renderlo altrettanto forte quanto il gruppo che sarebbe più potente, nell’ipotesi in cui l’impiego della sua forza costasse meno, o nulla”.

Similmente ragionava Puviani (all’inverso, per il rapporto tributario) parlando di spinta e controspinta contributiva a seconda che la soddisfazione data dal pagamento dell’imposta fosse superiore o meno al vantaggio atteso dal contribuente[16].

In modo analogo occorre che la spinta appropriativa dei poteri pubblici venga compensata da una controspinta ottenuta con sistemi sia giuridici che politici. L’altro è ridurre l’ambito delle disuguaglianze nel diritto, facendo operare, per quanto possibile, le parti su un piede di parità. Incrementare così l’ambito del droit commun (dike) a spese del droit disciplinaire (thémis). Il che non significa “contrattualizzare”, costituire “agenzie” e altri espedienti con cui si cerca spesso solo di mettere in maschera la non parità tra soggetti pubblici e privati.

Ad essere più precisi le distinzioni tra diritto pubblico e privato sono varie, come sa qualsiasi studente di giurisprudenza, e spesso complementari. Quella relativa alla non parità delle parti è tra le più frequentate: va da Hegel ai siti presenti su internet. Spesso è definitita (dal lato attivo) potestà d’impero (Balladore Palieri, Ranelletti), attributo necessario dello Stato[17].

Il che significa di far costare di più l’esercizio del potere (impositivo, in particolare) eliminandone o riducendone i privilegi. E rammentando che il costo per i governanti non è solo economico: mandarli a casa e sostituirli con un’altra classe dirigente, significa sottrargli le pecore che mungono.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

 

[1] Le definizioni e criteri indicati nel testo li sintetizzano, scontando una “percentuale” d’approssimazione. S’indicano comunque alcuni degli autori che se ne sono occupati: M. Pantaleoni Tentativo di analisi del concetto di forte e debole in economia, Firenze 1904; C. Cosciani Istituzioni di Scienza delle Finanze, 1953, p. I, cap. I; F. Forte Manuale di scienza delle finanze, Milano 2007, p. 32 ss., in internet v. G. Dallera La scuola italiana di scienza delle finanze; P. Vagliasindi Questioni generali di finanza pubblica.

[2] Fonte Adnkronos “rapporto Taxation Trends in the European Union 21017 della Commissione europea”.

[3] Fonte Sole 24 Ore.

[4] V. Salviano di Marsiglia De Gubernatione Dei, V, 5, 22. V. anche gli storici citati da S. Mazzarino ne La fine del mondo antico, Milano 1988, da Orosio a Prisco.

[5] E ancor più la “Dittatura sovrana”, v. Carl Schmitt Die Diktatur trad. it. di A. Caracciolo p. 165 ss, Roma 2006.

[6] V. Giorgio Agamben Stato d’eccezione, Torino, 2003.

[7] Si impiega il termine usato da Miglio per definire l’apparato di collaborazione all’esercizio del comando del vertice politico v. G. Miglio Lezioni di politica, Vol. II, Bologna 2011, pp. 362 ss.

[8] Fonte: Termometro politico

[9] Fonte Treccani: Il miracolo economico italiano di A. Villa.

[10] Occorre precisare che per gli anni ’92-’94 il considerevole aumento della pressione fiscale è stato dovuto, in larga parte, alle misure del governo Amato, di “transizione” tra repubbliche, per cui a voler attribuire alla fase precedente l’aumento relativo, la pressione fiscale è aumentata di soli 2 punti. Ma una simile interpretazione, a parte il dubbio, toglie poco al giudizio complessivo.

[11] Ricordiamo alcuni degli interventi legislativi e delle prassi benevole verso gli apparati pubblici e proprio per questo lesive della parità tra cittadini e apparati pubblici, ricordando che sono solo una parte di quanto disposto nello stesso senso. Con l’art. 11 della legge 19 marzo 1993, n. 68 concernente “disposizioni urgenti in materia di finanza derivata e di contabilità pubblica”, si integrava l’art. 24 della L. 720/84 del comma 4 bis. In particolare si precisava che non sono ammessi atti di sequestro o di pignoramento presso soggetti diversi dal Tesoriere dell’Ente. Con una norma siffatta il sistema per non pagare il creditore è semplice: basta far andare in “rosso” il conto presso il Tesoriere e dirottare su altre disponibilità le liquidità dell’Ente. La limitazione del soggetto “terzo pignorato”, ha, di fatto, come conseguenza di rendere impignorabili le somme liquide e disponibili. Ma i trucchi non finiscono qui. L’art. 1 del D.L. 8/1/93 n. 9, convertito con L. 18/3/93 n. 67, dispone: “le somme dovute a qualsiasi titolo dalle unità sanitarie locali e dagli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico non sono sottoposte ad esecuzione forzata  nei limiti degli importi corrispondenti agli stipendi e alle competenze comunque spettanti al personale dipendente o convenzionato, nonché nella misura dei fondi a destinazione vincolata essenziali ai fini dell’irrogazione dei servizi sanitari”; ma anche tale norma pareva non bastare. Con l’art. 113 del D.L. 25/2/95 n. 77, si disponeva nuovamente: “1) Non sono ammesse procedure di esecuzione e di espropriazione forzata nei confronti degli enti locali di cui all’art. 1, comma 2, presso soggetti diversi dai rispettivi tesorieri. Gli atti esecutivi eventualmente intrapresi non determinano vincoli sui beni oggetto della procedura espropriativa …” Ciò che accomuna tutti questi espedienti, che hanno contribuito ad “abbattere i flussi di cassa”, è di aver agito sui diritti (processuali) dei creditori e sui poteri (processuali) del Giudice vanificando con limitazioni varie i diritti (sostanziali) delle parti. La Corte costituzionale con sprazzi di tutela ha annullato ogni tanto norme come quelle citate (v. sent. 29/6/95 n. 285; Corte Cost., 26-03-2010 n. 123; Corte cost., 29-06-1995, n. 285;); ma altri precetti simili alle disposizioni annullate sono state emanate prontamente. Il tutto era (ed è) aggravato da atti amministrativi (anche a contenuto normativo) quindi emanati dal complesso governo/amministrazione (come il D.M. 1/9/98 n. 352, annullato dal Consiglio di Stato), che limitano ulteriormente i diritti di categorie di creditori. Oltretutto negli ultimi dieci anni è invalsa la prassi che, nelle liti tra Pubbliche amministrazioni e parti private, se soccombono le prime, molto raramente si vedono accollate le spese di giudizio, dovute per legge (possono essere motivatamente ed eccezionalmente compensate, ma nei fatti, lo sono quasi sempre, sicchè l’eccezione è divenuta regola); mentre se a soccombere sono i cittadini quasi sempre sono condannati al pagamento delle stesse. Inoltre in una situazione in cui il principale debitore è lo Stato italiano (il debito pubblico è pari ad oltre il 130% del prodotto interno lordo) non solo s’intralcia con leggi ad hoc il pagamento dei debiti ma si agevola lo Stato debitore fissando (con decreto ministeriale) tassi d’interesse praticamente inesistenti (attualmente è lo 0,10%), incentivando così il mantenimento dell’ (abnorme) debito pubblico a costo (praticamente) zero relativamente a certe classi di creditori (cui è imposto il tasso), ma praticando tassi più vantaggiosi per altre classi che prestano a condizioni di mercato (soprattutto banche, fondi d’investimento, assicurazioni). Combinando saggi d’interesse inesistenti con la moltiplicazione d’intralci alla realizzazione dei crediti (e con l’abituale lentezza della giustizia italiana) dei crediti si ha una moratoria (a tempo indeterminato) dei debiti pubblici verso alcune classi di creditori (quasi tutte). Il tutto presuppone l’esercizio del potere coercitivo: al creditore sgradito che non si vuole soddisfare si applicano disposizioni di legge, regolamentari, atti amministrativi, circolari. A quello  favorito si paga subito e con interessi di mercato.

È ricorrente poi il divieto di compensazione tra crediti e debiti della P.P.A.A. verso i privati. Qualche anno orsono un Presidente del consiglio si proclamava sdegnato verso le proposte di estendere la compensazione tra debiti e crediti verso lo Stato.

Tanto sdegno, invece che verso qualche uomo o partito politico, avrebbe dovuto essere indirizzato verso Giustiniano, il quale con una propria costituzione del 531 d.C., l’aveva resa di portata generale “compensatio ex omnibus actionibus ipso jure fieri sancimus …” (C, IIII,31,14) per cui (al più tardi) da quasi quindici secoli è diritto comune.

Un principio elementare, ispirato a razionalità e giustizia, fondato sulla parità delle parti ed assai ostico a sopportare da un apparato pubblico che si mantiene grazie ai denari dei governati.

Dato lo squilibrio tra creditori e debitore realizzato normalmente (per lo più) con eccezione, deroghe al diritto e il vantaggio che procura alla classe dirigente questa non ha alcun interesse a contenere il debito pubblico, perché mentre con i creditori sfavoriti ci si muove con poteri pubblicistici, cioè non paritari (comandi) con gli altri, preferiti, si negozia nell’ambito del diritto privato (contratti).

[12] V. Elementi di Scienza politica, lib. I°, cap. V, Torino 1923, p.131

[13] Si noti che Hauriou dall’ appartenenza ad un’istituzione notava che esiste anche un droit statutaire, concernente posizioni, facoltà e pretese degli appartenenti al gruppo.

[14] Come scriveva il giurista francese il primo era diritto interno all’istituzione (infraistituzionale), il secondo era tra gruppi sociali (e relative istituzioni) quindi intergroupale, V. Précis de droit constitutionnel, Paris 1929 pp. 88 e 98

[15] Ad esempio l’art. 3 L. 662/93 dispone che nel caso di occupazioni illegittime di terreni, l’importo del risarcimento è aumentato del 10% (del valore del bene sottratto). Il quale, essendo l’indennizzo pari al 50% del valore, significa che anche a commettere l’illecito i poteri pubblici ci guadagnano, pagando sempre una frazione anche se lievemente maggiorata, del valore del bene incentivo a violare la legge col minimo rischio. Ovviamente – secondo i principi generali – il cittadino per tutelare i propri diritti deve agire in giudizio, sobbarcandosi le spese dell’avvocato e quelle imposte dallo Stato (enormemente aumentate dalla fine del secolo scorso) e, ancor più, attendendo i tempi lunghissimi della giustizia italiana, mentre i pubblici uffici, fabbricano in ufficio i provvedimenti d’accertamento delle violazioni e di innovazione delle sanzioni senza l’incomodo di dover cambiare scrivania. Provvedimenti peraltro esecutori anche se impugnati nel (breve) termine previsto della legislazione, mentre gli “analoghi” chiesti dai privati lo sono solo se il Giudice li dichiari tali. Tutto è orientato a rapidità e prontezza, se i poteri pubblici sono parte attiva; a complessità e lentezza, nelle situazioni inverse.

[16] V. L’illusione finanziaria, Milano, rist. 1976, pp. 7-8.

[17] Si riportano alcuni passi di Balladore Palieri sul punto “ quando si parla della potestà d’impero come di uno degli elementi essenziali dello Stato, si intende dire che l’ordinamento giuridico, affinchè gli spetti la qualifica di statale, deve prevedere e porre delle autorità che esercitino un imperium. Se non possiede anche questo carattere, oltre a quelli innanzi ricordati, l’ordinamento in questione, qualunque altra cosa sia, non è un ordinamento statale … L’ordinamento giuridico cioè deve istituire un apposito apparato onde realizzare le finalità per le quali è stato creato, e questo apparato deve essere provvisto di autorità, di impero sui consociati. È questa una conseguenza della stessa struttura dell’ordinamento” V. Dottrina dello Stato, Padova 1958, p. 250-251

 

DA MASSIMO MORIGI A TEODORO KLITSCHE DE LA GRANGE_A PROPOSITO DEL REALISMO POLITICO, di Massimo Morigi

RECENSIONE CUMULATIVA A “SOVRANISMO E LIBERTÁ POLITICA” (http://italiaeilmondo.com/?s=sovranismo+e+libert%C3%A0+politica  E http://www.webcitation.org/6yPG6YC86), “STATO RAPPRESENTATIVO E VINCOLO DI MANDATO” (http://italiaeilmondo.com/?s=STATO+RAPPRESENTATIVO+E+VINCOLO+DI+MANDATO E http://www.webcitation.org/6yPGTH6Wo), “NOTE SU DIPENDENZA DEGLI STATI E GLOBALIZZAZIONE” (http://italiaeilmondo.com/?s=NOTE+SU+DIPENDENZA+DEGLI+STATI E http://www.webcitation.org/6yPGjFeLj) E “SENTIMENTO OSTILE, ZENTRALGEBIET E CRITERIO DEL POLITICO” ( http://italiaeilmondo.com/?s=sentimento+ostile E http://www.webcitation.org/6yPGwg0i6 O https://www.rivoluzione-liberale.it/wp-content/uploads/2017/03/SENTIMENTO-OSTILE-ZENTRALGEBIET-E-CRITERIO-DEL-POLITICO.pdf E http://www.webcitation.org/6yPIFo21y) DI TEODORO KLITSCHE DE LA GRANGE

 

Di Massimo Morigi

 

Nell’appena passato mese di marzo sulle pagine elettroniche dell’ “Italia e il mondo” sono stati ospitati quattro interventi di Teodoro Klitsche de la Grange, sui cui relativi titoli, URL di riferimento e “congelamenti” su WebCite si è già data indicazione bibliografica nel titolo del presente commento. Esaurita questa premessa diciamo tecnica (ma che in sè contiene già una valutazione estremamente positiva di questi interventi, visto che si è ritenuto doveroso preservarli a futura memoria dal rischio della decadenza degli URL originari), veniamo ora di sviluppare una valutazione complessiva in merito agli stessi, valutazione globale non solo estremamente positiva (e questo s’è appena detto ma repetita anche se stufant iuvant) ma anche di facilissima formulazione perché in questi interventi Teodoro Klitsche de la Grange – come del resto in tutti i suoi precedenti lavori – si è dimostrato come uno dei più interessanti interpreti e rinnovatori presenti sull’italica – e, purtroppo, assai derelitta da questo punto di vista –  piazza del pensiero politico realista. Quindi, i suoi punti di riferimento sono quegli autori, Tucidide, Niccolò Machiavelli, Carl von Clausewitz, e per giungere ai contemporanei  Julien Freund, che costituiscono le fonti basilari del pensiero realista e naturalmente – e, applicandola al Nostro mai come in questo caso l’icastica formuletta inglese è stata appropriata – last but not the least Carl Schmitt. Del quale grande giuspubblicista Teodoro Klitsche de la Grange si dimostra non solo profondo conoscitore – e “sviluppatore” del suo pensiero – dal punto di vista strettamente politologico e filosofico-politico ma anche dal punto di vista della teoresi giuridica, caratteristica questa di La Grange non solo estremamente preziosa in sede di trattazione dello Schmitt (preziosa, ovviamente, qualora questa maestria nelle scienze giuridiche molto importante nell’affrontare lo Schmitt sia accompagnata da altrettanta conoscenza politologica come nel suo caso) ma anche per l’affermazione di una autentica cultura realista, il cui costante rischio, specialmente ma non solo a livello di vulgata popolare, è quello di sprofondare in una sorta di nascosto naturalismo e/o criptopositivismo, in ultima analisi, quindi, in una negazione del vero realismo, il cui nucleo generatore è mettere sempre al primo posto le teleologie dei vari attori singoli od associati che siano;  teleologie in cui il primo stadio di manifestazione e cristallizzazione consiste appunto nella dimensione giuridica. Che del resto la riflessione sulla dimensione teleologica del diritto sia centrale in La Grange, e lo sia lungo la fecondissima direttrice già a suo tempo tracciata da Schmitt, ben risalta dalla seguente citazione dalla nota n. 9 di Sovranismo e libertà politica, dove sulla scorta della schmittiana Politische Theologie viene smontata la concezione Kelseniana del diritto e del ‘politico’ puramente procedurale, concezione che a livello di teoria giuridica non è altro che l’espressione della contraddizione dell’ attuale ideologia democratica, formalmente basata sulla decisione del popolo ma che questa dimensione decisionistica della politica alla fine nullifica perché, in ultima istanza, questa decisione deve essere sempre e comunque conforme ad astratti principi universalistici e che trovano questi principi garanzia della loro realizzazione non tanto attraverso un rispetto sostanziale  della decisione ma attraverso un procedimento formale di creazione giuridica in cui alla fine poco importa se questo realizzi o meno l’autentica teleologia della decisione stessa: «riportiamo [scrive La Grange] i passi salienti delle critiche di Schmitt: “Kelsen risolve il problema del concetto di sovranità semplicemente negandolo. La conclusione delle sue deduzioni è «Il concetto di sovranità dev’essere radicalmente eliminato». Di fatto si tratta ancora dell’antica negazione liberale dello Stato nei confronti del diritto e dell’ignoranza del problema autonomo della realizzazione del diritto. Questa concezione ha trovato un rappresentante significativo in H. Krabbe, la cui dottrina della sovranità del diritto riposa sulla tesi che ad essere sovrano non è lo Stato, bensì il diritto. Kelsen sembra scorgere in lui solo un precursore della sua dottrina dell’identità di Stato ed ordinamento giuridico. In verità la teoria di Krabbe ha una radice ideologica comune con il risultato di Kelsen”; secondo Krabbe “Lo Stato ha solo il compito di «costruire» il diritto: cioè di fissare il valore giuridico degli interessi … Lo Stato viene ridotto esclusivamente alla produzione del diritto”  in Poltische Theologie I, trad. it. in Le categorie del politico, Bologna 1972, p. 56.» Comunque, se quanto appena citato ci permette di definire il La Grange come un ortodosso – ed anche assai attrezzato dal punto dell’acribia sulle fonti – esponente del pensiero realista nonché conoscitore del pensiero di Schmitt, la cui caratteristica è seguire l’autentico sviluppo, di natura tutta teleologica, del momento giuridico nella dimensione del ‘politico”, e La Grange coglie in pieno questa evoluzione che si sviluppa senza soluzione di continuità, è giunto a questo punto il momento di dare piena giustificazione alla nostra affermazione iniziale che La Grange non è solo un profondo conoscitore e cultore del pensiero realista ma ne è soprattutto un rinnovatore. Se consideriamo le vicende umane (politiche, economiche, culturali ma anche semplicemente esistenziali sul piano privato) da un punto di vista realista e quindi teologico, per tutte queste vicende esiste un “punto di caduta”, un momento di risoluzione sia simbolico che di indicazione delle linee di azione e di comprensione della azione e/o della situazione, che ci permette non solo di definire queste vicende ma anche di indicarci la direzione per un nostro attivo intervento sulle stesse. Ora, a mio giudizio il “punto di caduta” dei quattro articoli che  Teodoro Klitsche de la Grange ha gentilmente concesso ai lettori dell’ “Italia e il mondo” ed anche la prova della dimensione autenticamente rinnovatrice e creatrice del suo realismo, può essere colto a pieno dalle seguenti parole che cito dalla chiusa di Nota su dipendenza degli stati e globalizzazione: «Che «forza» e «legge» siano modi di combattere, come scrive Machiavelli, ossia d’imporre la propria volontà, è spesso dimenticato; così del pari, è – anche se in misura minore – trascurato che forza e legge sono anche modi di governare, non (totalmente) alternativi, ma piuttosto complementari. La «legge» senza forza è inutile: la forza senza legge è arbitrio violento. Nella realtà occorrono entrambi. Se la combinazione di forza e regola è la normalità del governo dei gruppi umani, così come il potere responsabile è l’ordinatore ideale, quello che si profila nel mondo globalizzato appare tra i meno preferibili. Perché si risolve nell’affidare prevalentemente alla forza e all’astuzia (del potere esistente) il massimo della potenza disponibile senza la prospettiva che possa riuscire a creare un ordine che sia veramente tale.» Oltre alla totale demolizione del mito di una globalizzazione che si vorrebbe pacifica mentre in realtà è il suo esatto contrario perché questa vuole inesorabilmente eliminare ogni potere teleologicamente responsabile per sostituirlo con gli imperscrutabili meccanismi sociali ed economici della globalizzazione stessa (libera, o meglio anarchica, circolazione di capitali, merci ed uomini con conseguente annientamento di ogni peculiarità politica, economica e culturale degli stati nazione e delle diverse etnie), le parole appena citate rendono ampia dimostrazione di un pensiero realista veramente innovatore e che compie un’hegeliana Aufhebung del magistero schmittiano perché ha compreso «che forza e legge sono anche modi di governare, non (totalmente) alternativi, ma piuttosto complementari». Dal punto di vista del Repubblicanesimo Geopolitico questa complementarietà non è solo necessaria dal punto di vista della creazione e conduzione di una vitale e reale Res Publica ma, ancor più, costituisce un inscindibile binomio dialettico: che per comodità espositiva e di descrizione delle varie situazioni possiamo di volta in volta definire legge o forza; le quali però, nella sostanza, non sono che due espressioni e manifestazioni basilari ed originarie di quel conflitto-azione strategica da cui origina la società e tutta la dinamica storica (ed anche tutta la dinamica creatrice  del mondo fisico-naturale, ma questa non è la sede per dilungarci sull’argomento, per il quale si rimanda volentieri a quanto precedentemente già detto, in particolare nel Dialectvs Nvncivs ma anche in altri luoghi). Resta da vedere quanto Teodoro Klitsche de la Grange possa concordare dal punto di vista della teoresi a tutta questa  peculiare direzione dialettica e originata da una interpretazione in chiave di filosofia della prassi del magistero marxiano ed in particolare delle sue Glosse a  Feuerbach (e quindi quanto sia disposto ad inserire nel suo Pantheon realista autori come Antonio Gramsci e il György Lukács di Storia e coscienza di classe: intanto, dalla lettura di Sentimento ostile, Zentralgebeit e criterio del politico, l’ultimo dei quattro articoli gentilmente concessi all’attenzione dei lettori dell’  “Italia e il mondo”, abbiamo con piacere potuto notare che non esiste alcuna preclusione verso il grande disconosciuto della cultura italiana del Novecento, e cioè verso Giovanni Gentile la cui interpretazione della filosofia di Marx in chiave attualista come filosofo della prassi non solo costituisce un “rimettere coi piedi per terra” l’impostazione filosofica in chiave antipositivista del pensatore di Treviri ma costituì anche la base per il successivo sviluppo della filosofia della prassi in Antonio Gramsci, così come ci viene restituita e sviluppata nei suoi Quaderni del Carcere), ma questo costituisce non dico un problema trascurabile o da relegare solamente ad un dibattito fra specialisti (non bisogna mai peccare di falsa condiscendenza) ma certamente è un aspetto secondario nel giudicare l’importanza dell’impostazione del realismo politico fornitaci da Teodoro Klitsche de la Grange e questo perché tutto l’argomentare di questo valente studioso va veramente nella direzione della creazione e disvelamento di quell’ ‘epifania strategica’ che, a meno che il pensiero realista non si voglia chiudere in sé stesso, deve costituire il momento generatore ed obiettivo del pensare il ‘politico’. Ed è soprattutto per questa intima teleologia, unita alle sue non comuni capacità critiche,  che  dobbiamo ringraziare Teodoro Klitsche de la Grange.

 

Massimo Morigi – 5 aprile 2018

 

 

 

 

 

 

IL CONFLITTO PERMANENTE COME CULLA DEL NUOVO MONDO MULTIPOLARE, di Pier Luigi Fagan

Una visione realistica del carattere multipolare delle odierne dinamiche geopolitiche. Una chiave di interpretazione che mette in guardia da analogismi troppo scontati con fasi precedenti e da una visione troppo edulcorata delle dinamiche conflittuali. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Testo tratto da https://pierluigifagan.wordpress.com/

IL CONFLITTO PERMANENTE COME CULLA DEL NUOVO MONDO MULTIPOLARE.

Le scienze sociali che usano come unità metodologica lo stato, ovvero le Relazioni Internazionali e la Geopolitica, non potendo fare esperimenti di verificazione delle teorie, si accontentano di sostenere la loro “scientificità” verificando quanto una teoria si adatti ad eventi storici pregressi. La “Storia” è l’unico dato empirico di validazione delle interpretazioni, fatto già di per sé bizzarro visto che: a) la storia è sempre una narrazione stesa su eventi ben più complessi; b) l’interpretazione ovvero la teoria è, a sua volta, un riduzione della narrazione storica.

Oltre a queste due sospensive ce ne è una ancora più determinante. Se accettiamo come quadro di riferimento macro-storico, ovvero di lunga durata,  il fatto di trovarci in una transizione epocale che ci sta portando dall’epoca moderna ad un’altra che ancora non ha nome sebbene cominci a mostrare una sostanza chiaramente complessa, questo ricorso al passato rischia di basarsi sulle pericolose “false analogie”.  Il ricorso al conforto di come si sono comportati gli stati nel passato al presentarsi di schemi di ordine di tipo multipolare è naturale vanga fatto, ma da quei confronti dovremmo trarre indicazioni molto relative, deboli, indiziali, poco probanti. Non siamo nella linea di uno sviluppo continuo della stessa traiettoria, siamo nella frattura profonda di un modo con un altro e quindi siamo in terra incognita dove la passata esperienza ha valore marginale.

Il che ci porta a dover trattare daccapo il concetto di “multipolare”, prima  in astratto, poi in concreto e nel concreto distinguendo i casi in cui applicarlo al passato o allo stato presente/futuro. Il fine è quello di trarne una interpretazione contemporanea ed una luce che tenta di fendere le nebbiosità dell’immediato futuro.

In astratto, il concetto di “multipolare” dice che in un dato spazio-tempo, si presenta una configurazione d’ordine con più di due attori statali potenti (poli), legati  tra loro da molteplici relazioni di potenziale offesa-difesa o equilibrio, equilibrio che va inteso sempre in modo dinamico. Il concetto s’inscrive nelle premesse del tipico contesto realista ovvero un mondo ritenuto anarchico (non “disordinato”, ma privo di legge superiore ed entità in grado di applicarla, anche con la forza, a tutti), competizione a somma zero (se un polo assume più potenza, qualche altro la perde), gli stati si comportano in maniera razionale, le potenze tendono a massimizzare il loro potere (fino ad oggi non si son presentate potenze che s’accontentano), nessuno stato può esser certo delle intenzioni di un concorrente, la potenza -in ultima istanza- s’intende in senso militare ed infine, il fondo “tragico” cioè la constatazione che la guerra è un modo della politica ed è storicamente una costante.

La teoria realista in Relazioni Internazionali (la dottrina liberale non la pendiamo neanche in considerazione poiché a nostro giudizio infondata e con una componente eccessivamente ideologico-normativa) ha opinioni di giudizio diverse sul sistema multipolare astratto. Per Hans Morghentau (realismo della natura umana) i sistemi multipolari tendono ad auto-stabilizzarsi e sono l’ideale per raggiungere l’equilibrio di potenza. In più, la dinamica di compensazione per la quale se un polo tende ad emergere un po’ troppo o manifesta comportamenti non equilibrati tutti gli altri si alleano per compensarlo, renderebbe questo ordine complesso ma sostanzialmente stabile o forse stabile proprio perché complesso e dinamico. Questo bilanciamento è detto “equilibrio di potenza” e se manca, porta disordine in via automatica, cioè date le premesse realiste. Kenneth Waltz (realismo difensivo) contestava decisamente questa fiducia di Morghentau, sostenendo che l’unico ordine stabile e stabilizzante è il bipolare e quello multipolare è prima o poi soggetto a rottura di simmetria, quindi catastrofe. Infine, John Mearshemeir (realismo offensivo), concorda in pratica con Waltz e poi fa una classificazione con il bipolare più stabile del multipolare ma questo poi distinto in equilibrato che è migliore della peggiore configurazione possibile ovvero il multipolare con uno o più poli superiori a gli altri, il multipolare sbilanciato. L’intera classificazione andrebbe poi dinamicizzata tra ascendenti e discendenti perché se un ordine sembra multipolare in statica ma uno dei poli era l’egemone e uno degli sfidanti sta crescendo velocemente in potenza, le cose certo cambiano. Così cambiano se si dà un occhio alle future prospettive di medio periodo. L’ordine più stabile tipo “pace perpetua” è quello unipolare dove c’è un solo polo detto “egemone”, ma è del tutto teorico in quanto non si è mai presentato nella storia del mondo con tassi demografici inferiori, figuriamoci oggi o domani con 7,5 o 10 miliardi di individui e più di 200 stati con tendenza ad aumentare. L’impero-mondo è più un fantasma metafisico, cosa che la nostra mente può pensare ma che non per questo può essere davvero.

I dolori più intensi e seri per il concetto di multipolare, arrivano però quando si passa dall’analitico al sintetico, quando si va ad applicare la teoria alla realtà empirica. Tra i casi di multipolare rinvenuti più spesso nel registro storico, compaiono l’Italia rinascimentale del centro-nord e l’Europa del XIX secolo a 5 – 7 poli (Russia, Austro-Ungheria, Francia, Inghilterra, Impero ottomano e poi Prussia/Germania ed Italia) ma si sarebbe potuto anche considerare il periodo degli Stati combattenti nella Cina del V-III secolo a.C.  o la Grecia Antica da cui invece alcuni traggono il concetto bipolare della “trappola di Tucidide” per dar lustro con tono colto ai commenti sulla competizione odierna USA (potenza di acqua quindi Atene)  vs Cina (potenza di terra quindi Sparta). Il riferimento all’Antica Grecia è oltretutto doppiamente sbagliato perché per altri versi Atene e Sparta non erano sole e quindi non era un semplice ordine bipolare ma tanto quando si prende di così gran carriera la strada dell’analogia a tutti ci costi, i costi di semplificazione si pagano in imprecisione.

Cosa c’è di così scandalosamente impreciso in questo ricorso al registro storico? La mancanza delle variabili co-essenziali per ogni ricostruzione di fase storica, il contesto e la eterogeneità degli attori.

Quanto all’eterogeneità, l’ordine multipolare diventa una costruzione strutturalista nella scuola realista americana che (si tenga conto  che tutti i pensatori e le idee che animano la disciplina delle RI, sono sempre e solo americani), come dice Mearsheimer, tratta gli stati o potenze come palle da biliardo, al limite più o meno grosse a seconda della potenza. Mearsheimer e tutti i realisti hanno buone ragioni per far diventare gli stati scatole nere di cui c’importa solo l’imput e l’output, ed è il rifiuto di seguire i liberali nelle loro assurde perorazioni sul fatto che le forme di governo interne a gli stati (democrazie vs varie configurazioni di autoritarismo) farebbero la differenza. Ma se i liberali rendono un po’ assurde le considerazioni sulla struttura a grana fine che distingue gli stati tra loro (struttura che si dovrebbe invece dettagliare per: grandi o piccoli? di terra o di mare? con che tipo di demografia, economia, mentalità e tradizioni, collocazione geografica, tradizione filosofico-religiosa e scientifica? a quale punto del loro ciclo storico? etc.), nondimeno queste strutture a grana fine vanno analizzate per capire la natura degli attori prima di portarli dentro le analogie. Gli stati non sono gli atomi della fisica realista, sono entità intenzionali ed autocoscienti.

La mancanza decisiva è però il non considerare il contesto. Tanto per dire una sola, unica e principale, questione che differenzia l’ordine multipolare del mondo di oggi rispetto a qualsivoglia porzione del mondo di ieri, è che quelle di ieri erano appunto “porzioni”, quello di oggi è un “tutto” che non ha un fuori. Non c’è un altro mondo in cui far sfogare le contraddizioni dell’attuale mondo multipolare mentre l’Italia rinascimentale era solo un ritaglio di un frame più grande in cui c’erano la Francia, la Spagna, lo Stato Pontificio, il Sacro Romano Impero ed il Mediterraneo, mentre nell’Europa del XIX secolo c’era la corsa alle colonie ed a gli imperi fuori d’Europa. Entrambe erano situazioni occorse in ambiente omogeneo (italiano o europeo) mentre oggi abbiamo attori molto più eterogenei e distanti nello spazio (tra Cina ed USA c’è un oceano, ad esempio, nonché più di due secoli e mezzo di differente longevità). Entrambe le situazioni erano a bassa interdipendenza tra gli attori mentre oggi l’interdipendenza è alta. Entrambe le situazioni erano a bassa o media demografia mentre oggi il mondo è al sua massimo storico di densità, così l’economia che con la demografia fornisce le coordinate del potere potenziale ma non ancora effettivo, ha oggi peso e dinamiche non parametrabili a ieri. E sul potere effettivo, quello delle armi, che differenza fa un multipolare atomico che ha almeno due poli legati tra loro dalla fatidica Mutual Assured Distruction (MAD) ma con un generico “rischio atomico” anche più ampio e diffuso? O anche solo la potenza annichilente dell’armamento “convenzionale” attuale rispetto a gli esempi pregressi? O come agisce il fattore reputazionale in epoca di opinioni pubbliche che fan da spettatori, prima che attori, dei giochi politici inter-nazionali ma i cui giudizi condizionano l’azione dei governi?

Insomma, siamo come detto in terra incognita, lì dove il ricorso all’esperienza precedente non è vietata ma va usata con un molto ampio beneficio d’inventario perché nell’inventario ci sono variabili che rendono falsa l’analogia.

Dirigiamoci quindi con prudenza ad esaminare la nuova versione di sistema multipolare mondiale a cui stiamo tendendo. C’è un’unica super potenza, gli USA e due potenze asimmetriche, una militare -la Russia-, l’altra economica -la Cina-. Chi usa i meccanismi tipici delle tradizioni di pensiero di RI o GP, a questo punto prevede che i poteri potenziali della demografia e della economia cinese, questione di tempo, verranno presto trasformati in potenza militare. Ma c’è qualcosa che potrebbe ostacolare questa predizione, almeno nella sua forma lineare.

Primo, memore della lezioni data dalla guerra fredda, la Cina starà ben attenta a non farsi trascinare nell’over-spending militare a scapito del reinvestimento nello sviluppo e nella ridistribuzione. Solo un analista da think tank americano può sottovalutare il problema delle eccessive diseguaglianze in un sistema di 1,4 mld di persone, errore che nessun cinese che conosca la storia cinese, farà mai.

Secondariamente, la Cina starà ben attenta a non eccitare l’altrui “dilemma della sicurezza”, ovvero quella situazione di incertezza per la quale ogni stato sa che se eccede nella crescita delle dotazioni militari, fossero anche per difesa, non essendo escludibile in alcun modo che ciò che oggi si crea per difesa domani possa esser usato per offesa, altro non fa che sollecitare pari riarmo nei vicini. Oltretutto, la Cina ha bisogno a prescindere di pace ed armonia nel suo quadrante strategico perché la sua principale linea strategica è sviluppare  reti commerciali. Inoltre è suo fine specifico proporsi come “potenza amica” in modalità “cooperazione e reciprocità” ad esempio nei confronti dell’Africa, evitando rozze intenzioni coloniali, aggressive o eccessivamente egoiste. Preoccupazione che poi andrebbe anche allargata poiché la Cina tende ad attrarre “clienti” prima nella sfera occidentale e quindi deve dare qualcosa in più o di meglio. Le dichiarazioni pubbliche di come la Cina vede le interrelazioni estere sono oggi -più o meno-  le stesse dalla Conferenza di Bandung del 1955 e per molti versi sembrano credibili, non per superiorità etica ma per intelligenza strategica di cui i cinesi sono dotati da un paio di millenni prima di von Clausewitz.

Infine, stante che la Cina non è attaccabile via mare dagli USA (potere frenante del mare) e dal Giappone, ha stretto un sostanziale accordo di cooperazione a largo raggio con la Russia (nel passato l’unico vero nemico potenziale dal punto di vista geografico e qualche volta storico) e sembra intenzionata ad avere relazioni amicali-sospettose ma in sostanziale equilibrio con l’India, la sua dotazione di potenza effettiva può limitarsi a rinforzare la marina, la presenza nello spazio, l’elettronica ed il digitale, porre qualche avamposto discreto in giro per il mondo, senza mettersi a sfornare carri armati e missili a nastro. Si tenga poi conto che la Cina è molto grande e popolosa e credo che l’ultimo desiderio dei suoi governanti sia quello di annettere altri territori e popolazioni, ingigantendo un problema già difficile di gestione della sua propria massa. Se la terra manca, meglio comprarla come stanno facendo in Africa o favorire una discreta diaspora come in Siberia orientale.

Gli altri due attori in che traiettoria stanno? La Russia, potenza di mezzo dell’Eurasia, posizione al contempo comoda e  scomoda strategicamente, è da ormai settanta anni oggetto di pressione da parte USA per rimanere avviluppata nella escalation di potenza militare che per lei si trasforma in un “a scapito” del progresso economico. Salvata dalla dotazione di energie e molte materie prime e sovrana alimentarmente, la Russia segue questa escalation per via dell’ovvio riflesso di sicurezza. Ma anche per via dell’interesse ad approfittare degli eventuali cedimenti delle vicine ex repubbliche già interne all’URSS che ha interesse a riportare sotto la sua sfera di influenza, per via del far virtù della necessità di produrre armi poiché sono anche beni per l’export (export che poi lega a sé eventuali partner), per via dell’importanza che storicamente ha all’interno del suo sistema di potere la burocrazia militare ed infine, per via della necessità di supportare alla bisogna alleati periferici a loro volta messi sotto pressione dagli americani. Fintanto che gli europei rimangono dentro il sistema occidental-atlantico, la Russia difficilmente si svincolerà da questa traiettoria. In prospettiva, in Russia si libererà molta terra (per via del riscaldamento globale), il che, in un mondo sempre più denso ed affollato e stante che la Russia è uno dei paesi a più bassa densità abitativa del mondo (nonché in assoluto il più grande), non è una cattiva prospettiva fatti salvi gli ovvi problemi di gestione, logistica ed integrazione di eventuali migrazioni. Per la stessa ragione, la regione polare prospiciente la costa settentrionale, diventa nuovo quadrante “caldo”.

Gli USA sono in una posizione di potenza effettiva, cioè militare, molto lontana dal poter esser insidiata da alcuno. Di contro, la loro pur ragguardevole demografia, è ben superata sia dalla Cina che dall’India, ma in prospettiva, insidiata  anche dalle crescite dei più periferici ovvero l’Indonesia, il Brasile, la Nigeria. Una volta che questi paesi, come sta succedendo con Cina ed India, si metteranno a convertire demografia in crescita economica, anche questo secondo aspetto che l’ha vista a lungo leader senza competitor, diventerà relativo. Si tenga poi conto di alcune altre variabili.

Una è la “rendita di cittadinanza” ovvero il contributo del più ampio sistema di cui si è polo, del sistema occidentale complessivo nella storia pregressa, del sistema asiatico e del sistema africano oggi ed in prospettiva. Il “centro del mondo” si sta già velocemente spostando verso oriente e questo tenderà a limitare le condizioni di possibilità per gli USA, a prescindere da quanto questi saranno in grado di puntellare i loro punti di forza e minimizzare quelli di debolezza.

Un’altra variabile da tener d’occhio sono  le soglie critiche, invisibili punti nei quali i sistemi che si stanno espandendo o contraendo, subiscono una accelerazione non lineare del moto tendenziale. Gli USA possono senz’altro assorbire una riduzione del loro peso di Pil sul totale mondiale ma ci sono appunto soglie oltre le quali gli effetti di contrazione non sono lineari, si pensi, ad esempio, al ruolo mondiale del dollaro ed a gli effetti a cascata che avrebbe anche solo una sua relativa limitazione.  Su questa resilienza nella contrazione, agisce poi in forma problematica, la strana configurazione della scala sociale statunitense che ha una élite assolutamente fuori norma e quindi idiosincratica ad ogni decrescita.

Poi c’è il disordine in cui chi è abituato a competere entro quadri legali e normativi, di norme visibili o invisibili ed in ambienti che per quanto anarchici hanno comunque infrastrutture ed istituzioni multilaterali, potrebbe faticare ad orizzontarsi in un ambiente molto meno regolato e supportato. Poiché -in macro- stiamo transitando da un mondo relativamente più semplice ad uno relativamente più complesso, la complessità diventa essa stessa un problema per chi intende garantirsi un potere così sproporzionato come quello a cui sono abituati gli americani. Di contro, si può anche ipotizzare un interesse ad accompagnare ed anzi, alimentare un certo disordine globale per alzare la domanda di “protezione”. Ma in questo caso, è molto dubbio il poter riuscire a prevedere e quindi governare tutte le dinamiche disordinanti che intenzionalmente si vorrebbero promuovere.

Infine, la vera palla al piede della potenza americana ovvero l’Europa, una Europa testardamente frazionata, bizantina, anziana,  viziata, sospesa in una bolla che riflette la sua eccezionale storia specifica ma la isola da un mondo del tutto nuovo che gli europei sembrano non comprendere realisticamente del tutto. A partire dall’ovvia constatazione che in un ordine multipolare così dinamico, l’Europa non è una potenza e non è neanche un soggetto in termini di politica estera oltreché essere economicamente e demograficamente frazionata, non esser cioè un “totale più della somma delle parti”. Condizione quest’ultima a cui si ritiene di poter far fronte con il vuoto slogan degli “Stati Uniti d’Europa” che non ha la minima condizione di possibilità di veder mai luce e sopratutto funzionare. Questo far fronte al grande problema adattivo di questa parte di mondo usando slogan che non vanno da nessuna parte, rinforza la diagnosi di disadattamento degli europei ai tempi che vengono.

Il mondo multipolare che si sta affermando, ha anche molte medie potenze, potenze regionali e qualche significativa piccola potenza locale in grado di ostacolare giochi che una volta i geografi imperiali britannici progettavano al calduccio dei protetti salotti londinesi sorseggiando il loro tè rituale. Per segnare le cartine del mondo, oggi servono cose un po’ più complesse che non le matite. Più in generale, questo mondo tende alla convergenza degli indici economici (veniamo dalla grande divergenza ma andiamo verso la grande convergenza tra grandi aree), crea reti regionali più dense delle reti genericamente globali, tende al pluralismo dei grandi enti internazionali (banche, investimenti, culture, tradizioni, ambiti di cooperazione, piazze finanziarie, forum diplomatici), offre alternative a quello che prima era un monopolio, pone le economie che si emancipano da posizioni primitive in grande vantaggio dinamico rispetto alle economie mature, oltre a tutte le varie e preoccupanti articolazioni del problema ambientale, semplice da citare ma molto complesso da descrivere. Infine, le grandi cornici ideologiche che legavano élite e popoli nazionali intenti nell’opera di “civilizzazione” del colonialismo e dell’ imperialismo europei, l’afflato repubblicano dei napoleonici, il fascismo, il nazismo, il comunismo ed il liberalismo con i loro antagonisti simmetrici che animarono il ‘900, sono assai depotenziate e non si vede chi altro potrebbe prenderne il posto a parte qualche gruppo di islamisti suicidi finanziati dall’Arabia Saudita. Si può come senz’altro si sta facendo con la Russia, nazificare il nemico dirigendo le fila del concerto mediatico, ma da qui a poterci far perno per convincere le opinioni pubbliche dell’inevitabilità di una guerra diretta ce ne corre.

A quale tipo di ordine multipolare ci avviamo, quindi? E come si comporterà, almeno all’inizio, il sistema multipolare in un mondo denso ed intrecciato, un sistema che per la prima volta è multi-atomico e quindi soggetto a più vincoli di “reciproca, distruzione assicurata” (sempre che si voglia continuare a sottostimare il potenziale bellico convenzionale che per molti aspetti non gli è secondo)? Il quadro prima disegnato ha sintesi nella definizione di “multipolare sbilanciato” in cui la superpotenza americana non può certo sperare di aumentare raggio ed intensità del proprio potere, non può accontentarsi di uno status quo perché comunque trascinata in basso dalla dinamica tra le parti del sistema mondiale e deve quindi resistere il più possibile nel mantenere i propri ancora significativi vantaggi, nel mentre tenta di rallentare l’ascesa degli sfidanti. Deve farlo nel quadro problematico dello stato del mondo prima accennato e con una gran proliferare di attori medi e piccoli che seguono ognuno una propria traiettoria. Ancora con una leadership solida nel potere effettivo (militare), il problema americano risiede nel potere potenziale, nel rapporto tra il suo essere meno del 5% della popolazione mondiale con un potere economico che ancora domina il 25% dell’economia mondiale anche sulla scorta di un ancor più ampio potere finanziario.

Il vincolo della reciproca distruzione assicurata, per gli USA, vale non solo verso i russi ma anche i cinesi poiché è chiaro che questi due, al di là della loro reciproca competizione per altri versi naturale essendo vicini, avendo punti di forza complementari, hanno ben chiaro il comune interesse, loro e di molti altri, a che si stabilisca un vero quadro multipolare bilanciato. La crescita della loro attuale cooperazione è di fatto un’alleanza difensiva non detta. Cina, India, Sud Est asiatico, Pakistan, le due Coree, l’Africa e il Sud America hanno tutti interesse a non imbracciare le armi nel mentre crescono economicamente e socialmente. Anche la Russia, se potesse,  avrebbe urgenza di dedicarsi di più al suo sviluppo piuttosto che dissanguarsi nella rincorsa di potenza col gigante americano. Da questo corso, non sarebbero in teoria distanti, se fossero liberi da condizionamenti di altro tipo, neanche i giapponesi e gli europei. Gli unici che davvero hanno interesse a far pesare nel quadro la super potenza di cui sono ancora proprietari sono gli Stati Uniti d’America e qualche potenza locale in Medio Oriente.  Si potrebbe leggere l’intero quadro come un film della transizione tra un assetto sbilanciato ad uno più bilanciato e quindi segnato dalla sfida economica degli ascendenti verso il discendente americano che resisterà in tutti modi. Ma come, se in ultima istanza il conflitto diretto è sconsigliato dal vincolo atomico?

Quello nel quale siamo già immersi è un sistema multipolare sbilanciato con conflitto permanente. Potremmo dar nome a questa interpretazione come nuovo “realismo complesso”, un realismo che reinterpreta le costanti storiche all’attualità del mondo di oggi profondamente diverso da quello di ieri. “Conflitto” prende qui un nuovo significato che include varie forme di confronto armato ma non è riducibile solo a quello, prende il posto della guerra tradizionale dilatando però il fronte ed il tempo della tenzone. Oggi le potenze si muovono in uno scenario multidimensionale.

Il fattore demografico, la stazza, la massa di un attore, fattore sempre importante, oggi può diventare decisivo e non solo più per alimentare la propria potenza effettiva cioè armata, ma anche per il corrispettivo di crescita economica. Diventa anche un’arma nel caso di procurate migrazioni da paesi terzi verso coloro che si vogliono mettere in difficoltà. Queste migrazioni indotte si creano facilmente con le guerre per procura che oltretutto sono un vivace mercato per la sovrapproduzione dell’industria militare di cui è dotata ogni potenza. Ogni produzione ha un mercato e se la prima è maggiore del secondo, il secondo va sollecitato ad ampliarsi e/o intensificarsi. Questo gioco periferico che non riguarda il confronto diretto tra potenze, ha poi il vantaggio di tenere occupato il nemico dietro gli alleati che combattono i nostri amici in quel specifico teatro e quindi rinforza i legami di amicizia e dipendenza interni al polo. Il mondo è pieno di minoranze, popoli senza stati, confini precari disegnati dai francesi o dagli inglesi nel periodo coloniale, il catalogo delle occasioni di conflitto potenziale è molto ampio. I popoli sono molti di più degli stati e quindi il gioco delle nazioni in cerca di sovranità è facile da attivare.  L’ideologia islamista è un potente alleato di questa strategia per chi ha lo stomaco di usarla mentre sbraita nel simularne il contenimento. Incidenti in acqua o in aria possono sempre accendere l’attenzione su qualche quadrante di mondo e mandare messaggi che sfruttano la naturale paranoia da sicurezza di qualsiasi stato, specie se potenza emergente o alleato debole del polo nemico. Gli incidenti procurati possono essere ottime scuse per elevare sdegno morale propedeutico a più prosaiche sanzioni, dazi commerciali, blocchi navali, interdizioni dello spazio aereo. Molto conflitto non è pubblico ma si avvale delle consuete reti spionistiche e contro-spionistiche ed oggi c’è tutto un campo nuovo in cui giocare a rubarsi segreti e dati, la rete di tutte le reti. C’è poi lo spazio, nuova frontiera per novelli capitani Kirk, satelliti che scrutano, lanciano raggi accecanti o distruttori, coordinano l’ingegneria e l’elettronica dei nuovi sistemi militari soprattutto missilistici e navali. Conflitto è anche mostrare nuove armi che solleticano i generali della parte avversa che chiedono fondi ulteriori per pareggiare i conti disegnando sciagure e tragedie certe ed altrimenti inevitabili, anche perché potranno far leva politica sull’opinione pubblica in stato perenne di sovreccitata paura. Anche solo nell’accezione puramente armata del “conflitto”, evitando il confronto diretto, ci sono molte occasioni in modalità indiretta. Se la linea strategica obbligata è frenare il ribilanciamento tra potenze, cosa meglio di un attrito distribuito ovunque?

Poiché però il conflitto è “multidimensionale” ecco anche la sua versione  economica e produttiva ma anche politica e di opinione. I tentativi di monopolio energetico o di materie prime tutte essenziali, anche e soprattutto quelle per lo sviluppo del digitale che ha il fronte commerciale ma anche quello militare ed aerospaziale. Seppellita la globalizzazione semplice 1.0, si va ad una rete di contrattazioni, aperture-chiusure, formazione di blocchi in un sistema dotato di vari sottosistemi, quindi più complesso. Poi c’è il conflitto finanziario, società di rating, grandi fondi in grado di scuotere il mercato a bacchetta, l’altalena dei cambi valutari, i ricatti su i debiti sovrani.

Poi c’è l’egemonia culturale, mostrarsi i migliori, i più attraenti, i più benevoli quindi far di tutto per mostrare che il nemico è tra i peggiori, fa moralmente ribrezzo, è repellente e malevolo, infingardo, non ha legittimità. Ci sono i boicottaggi, il rinserrare le fila delle proprie istituzioni multilateriali,  i propri fondi monetari, le banche per lo sviluppo, i progetti di cooperazione da cui ostracizzare il nemico ed i suoi amici. Poi c’è da far uscire scandali a ripetizione, fondi neri, paradisi fiscali improvvisamente sotto i riflettori per una settimana, uso di armi proibite, leader nemici dai dubbi gusti sessuali, storie di droghe, perversioni, bugie dette, inaffidabilità degli altrui standard, sgarbi diplomatici, fake newsper avvelenare la credibilità generale di tutti indistintamente in modo da paralizzare il discorso pubblico. C’è il controllo digitale e il ricatto (quello pubblico ma molti altri di cui neanche abbiamo notizia), il divide et impera, il bait and bleed (falli scannare tra loro), il dissanguamento economico del nemico stressato in decine di micro-conflitti, il più composto bilanciamento di potenza e lo scaricabarile in cui si lascia la nemico l’ònere e l’onore di districare matasse che si sono ben aggrovigliate con le proprie mani e che si disordinano mentre l’altro tenta di metterle in ordine. Poi c’è l’arte di mettere zizzania dentro gli equilibri del nemico, militari contro politici, imprenditori contro militari, società civile contro élite, varie élite contro altre élite, eccitare i nazionalismi dormienti e poi far chiasso per ogni ingiusta repressione delle minoranze, far confliggere le diverse osservanze religiose. Sovreccitare i vicini del nemico, mettere in dubbio i legami di alleanza dentro un polo, isolarlo, stringergli le condizioni di possibilità, acuirne le contraddizioni.

Infine, per palati forti,  c’è l’angolo si dice ma non ci si crede del Dark Word, innesti uomo-macchina, psicobiologia, manipolazione del clima, agenti tossici selettivi, avvelenamenti alimentari ed epidemie progettate in laboratorio, piani segreti, oscure congreghe, centri di interesse invaginati in centri di interesse, bio-chimica aggressiva e molto molto altro che noi, pur mediamente informati, neanche immaginiamo. Prima di dubitare a priori all’entrata di questo Dark World come se il mondo fosse proprio quello proiettato sullo schermo del cinematografo che scambiamo per realtà,  collegatevi a quella vostra porzione di cervello che è inorridita a leggere il sadismo medioevale o la scientifica atrocità dei nazisti o dei khmer cambogiani, i vari stermini dei nativi, storie di schiavi, stupri, impalamenti, sqartamenti, profanazioni, eccidi, massacri, olocausti e tutta la scienza e tecnica che si è spremuta per giungere a quel risultato. L’uomo è sublime e malvagio da sempre, non c’è motivo di escludere a priori l’esistenza di una costante preparazione al conflitto anche nei dungeon del mondo degli inferi. Oltretutto, questa ricerca silenziosa del primato che darebbe qualche vantaggio non calcolato dal nemico, dà poi una cascata di benefici secondi di invenzioni sfruttabili civilmente.

lnsomma il conflitto è da intendere in forma multidimensionale e diventa permanente poiché non si apre-chiude con una guerra tradizionale, diventa la cifra stessa di un sistema multipolare che alcuni vorranno riportare a bipolare o quantomeno mantenere sbilanciato mentre altri vorranno portarlo a bilanciato per poi farsi venire l’appetito di esser loro la nuova super-potenza che lo sbilancia dandosi un vantaggio di potenza. Il vincolo atomico non porta la pace perpetua ma il conflitto permanente e diffuso a medio-alta intensità. Questa è la condizione di un pianeta a prossimi 10 miliardi di abitanti in lotta, chi per la sopravvivenza e chi per il primato gerarchico, chi per l’essere e chi per l’avere.

= 0 =

Questo è il mondo multipolare a cui dovremmo adattarci, in cui ci piaccia o meno, tutte le nostre preoccupazioni ed interessi, personali e collettivi, politici ed economici, ideali e pragmatici, i nostri sogni e le paure, le speranze e le delusioni, saranno tutte per vie che molti non vedono con chiarezza e molti non vedono per niente, determinate da questo che è il gioco di tutti i giochi. Noi tutti, dentro i nostri stati, siamo le pedine. Siamo più in modalità, lunga e continua sofferenza e crescente disordine dall’esito imperscrutabile, che morte rapida e violenta da “terza guerra mondiale”. Questo è il conflitto permanente che segnerà il gioco di tutti i giochi di questa prima fase del nuovo mondo multipolare e con questo dovremmo fare realisticamente i conti scegliendo il nostro modo di stare al mondo prima che sia il mondo strattonato dai giochi di potenza, a deciderlo per noi.

Bibliografia minima:

H. Morghentau, Politica tra le nazioni, Il Mulino 1997 (introvabile)

K. Waltz, Teoria della politica internazionale, il Mulino 1987

J. Mearsheimer, La logica di potenza, UBE 2003-8

B. Milanovic, Ingiustizia globale, Luiss 2017

G. Arrighi, Caos e governo del mondo, Bruno Mondadori 2006

C. Kupchan, Nessuno controlla il mondo, il Saggiatore 2013

H. Kissinger, Ordine mondiale, Mondadori 2015

L’ORDINE MONDIALE LIBERALE_R.I.P., a cura di Gianfranco Campa

Pubblichiamo qui sotto, tradotto in italiano, un articolo apparso sul sito del CFR (Council on Foreign Relations) il 21 marzo scorso. Il testo, accompagnato da alcune note di Gianfranco Campa, è particolarmente importante più che per i contenuti, per la banalità e la rozzezza degli argomenti, soprattutto per l’atteggiamento psicologico, rivelatore di uno stato d’animo. Seguirà un articolo più ampio sull’argomento. Buona lettura_ Germinario Giuseppe

 

L’ORDINE MONDIALE LIBERALE-R.I.P.

Dopo una parabola di quasi mille anni, il filosofo e scrittore francese Voltaire scherzando afferma che il Sacro Romano Impero in declino non era né santo, né romano, né un impero. Oggi, a distanza di due secoli e mezzo, il problema, parafrasando Voltaire, è che l’ordine mondiale liberale, non è né liberale, né mondiale, né ordinato.

Gli Stati Uniti, lavorando a stretto contatto con il Regno Unito e altri paesi, istituirono l’ordine mondiale liberale sulla scia della seconda guerra mondiale. L’obiettivo era quello di garantire che le condizioni che avevano portato a due guerre mondiali in 30 anni non si sarebbero mai più verificate.

A tal fine i paesi democratici si sono impegnati a creare un sistema internazionale che fosse liberale, nel senso che doveva essere basato sullo stato di diritto e sul rispetto della sovranità e dell’integrità territoriale dei paesi. I diritti umani dovevano essere tutelati. Tutto questo avrebbe dovuto essere applicato su scala planetaria e contestualmente la partecipazione sarebbe fondata su base volontaria e aperta a tutti. Molte istituzioni furono costruite per promuovere la pace (le Nazioni Unite), lo sviluppo economico (la Banca mondiale) e il commercio e gli investimenti (il Fondo Monetario Internazionale e l’Organizzazione Mondiale del Commercio).

Tutto questo era sostenuto dalla potenza economica e militare degli Stati Uniti, da una rete di alleanze tra Europa e Asia e dalle armi nucleari necessarie a scoraggiare l’aggressione. L’ordine mondiale liberale si basava quindi non solo su ideali democratici, ma anche sulla minaccia dell’uso di forza bruta. Tutto ciò sopravvisse ad una Unione Sovietica decisamente illiberale, dalla nozione fondamentalmente diversa da ciò che costituiva l’ordine in Europa e nel mondo.

L’ordine mondiale liberale sembrava essere più robusto che mai con la fine della Guerra Fredda e il crollo dell’Unione Sovietica. Ma oggi, un quarto di secolo dopo, il suo futuro è in dubbio. Le sue tre componenti – il liberalismo, l’universalità e la preservazione dell’ordine stesso – vengono messe a dura prova come non era mai successo prima nel corso dei suoi 70 anni di storia.

Il liberalismo è in ritirata. Le democrazie sentono gli effetti del crescente populismo. I partiti dalle estreme ideologie hanno guadagnato terreno in Europa. Il voto nel Regno Unito a favore dell’uscita dall’UE ha attestato la perdita di influenza da parte dell’élite dominante. Persino gli Stati Uniti stanno subendo attacchi senza precedenti ad opera del proprio stesso Presidente, impegnato a colpire direttamente le istituzioni dei mass-media, della giustizia, delle forze dell’ordine e di intelligence; i capisaldi del paese. I governi autoritari, tra i quali Cina, Russia e Turchia, sono diventati ancora più chiusi su se stessi. Paesi come l’Ungheria e la Polonia sembrano non interessarsi al destino delle loro giovani democrazie.

È sempre più difficile parlare del mondo come se fosse un tutt’uno . Stiamo assistendo all’emergere di ordini regionali,  ognuno con le proprie caratteristiche. I tentativi di costruire una intelaiatura globale sta fallendo. Il protezionismo è in aumento; l’ultimo turno di negoziati sul commercio globale non è stato completato. Ci sono ancora poche regole che governano l’uso del cyberspace.

Allo stesso tempo, sta tornando la tensione e la rivalità fra varie potenze. La Russia ha violato la norma più basilare delle relazioni internazionali quando ha usato la forza armata per cambiare i confini in Europa e ha violato la sovranità degli Stati Uniti attraverso i suoi sforzi per influenzare le elezioni del 2016. La Corea del Nord ha ignorato il forte consenso internazionale contrario alla proliferazione delle armi nucleari. Il mondo è rimasto a guardare mentre gli abusi umanitari erano incorso in Siria e nello Yemen, senza nessuna iniziativa né dell’ONU, né di altre entità in risposta all’utilizzo di armi chimiche da parte del governo siriano. Il Venezuela è uno paese ormai fallito. Oggi una persona su cento al mondo è rifugiata o sfollata.

Ci sono diversi motivi per cui tutto questo sta accadendo e perché proprio ora. L’ascesa del populismo è in parte una risposta ai redditi stagnanti e alla perdita di posti di lavoro, dovuta principalmente alle nuove tecnologie, ma ampiamente attribuita alle importazioni e agli immigrati. Il nazionalismo è uno strumento sempre più utilizzato dai leader per rafforzare la propria autorità, specialmente in condizioni economiche e politiche difficili. Le istituzioni globali non sono riuscite ad adeguarsi ai nuovi equilibri di potere e alle tecnologie.

Ma l’indebolimento dell’ordine mondiale liberale è dovuto, più di ogni altra cosa, al mutato atteggiamento degli Stati Uniti. Sotto la presidenza di Donald Trump, gli Stati Uniti hanno deciso di non aderire al partenariato transpacifico e di ritirarsi dall’accordo sul clima di Parigi. Trump ha anche minacciato di abbandonare l’accordo di libero scambio nordamericano e l’accordo sul nucleare iraniano. Ha introdotto unilateralmente tariffe sull’ acciaio e l’alluminio, basandosi su una giustificazione (sicurezza nazionale) che anche altri paesi potrebbero usare; un processo che potrebbe innescare una guerra commerciale. Ha posto dubbi sul suo impegno nei confronti della NATO e di altre forme di alleanza. E parla raramente di democrazia o diritti umani. L’America Prima sembrano incompatibili con l’ordine mondiale liberale.

Il mio punto non è quello di concentrare sugli Stati Uniti tutte le critiche. Altre importanti potenze, tra cui l’UE, la Russia, la Cina, l’India e il Giappone, potrebbero essere criticate per quello che stanno facendo o non facendo. Ma gli Stati Uniti non sono come altri paesi. Gli Stati Uniti erano non solo il principale artefice dell’ordine mondiale liberale ma anche il suo principale sostenitore e beneficiario. La decisione dell’America di abbandonare il ruolo che ha svolto per più di sette decenni segna così un punto di svolta. L’ordine mondiale liberale non può sopravvivere da solo, perché gli altri non hanno né l’interesse né i mezzi per sostenerlo. Il risultato sarà un mondo meno libero, meno prospero e meno pacifico, sia per gli americani che per gli altri.

https://www.cfr.org/article/liberal-world-order-rip?utm_medium=social_share&utm_source=fb

 

IL COMMENTO DI GIANFRANCO CAMPA

Questo senso di scoramento da parte delle élites è iniziato e precipitato dopo le elezioni di Trump. Il pessimismo li rende diabolicamente esposti e totalmente spogliati delle loro certezze. E’ ormai da tempo che circolano analisi sul tramonto dello stato globale; questa non è una notizia nuova. Quello che piuttosto colpisce non è solo la pubblicazione dell’articolo da parte del CFR (Council on Foreign Relations), uno dei maggiori e più importanti think tanks che supportano il cosiddetto globalismo e il nuovo ordine mondiale. Non è nemmeno l’unico articolo che il CFR ha dedicato al tramonto del nuovo ordine mondiale. Colpisce soprattutto la banalità dell’articolo, la leggerezza della analisi, piena di frasi fatte quasi a denotare il senso di disperazione e impotenza di questi potenti individui. Segno che la situazione sta realmente sfuggendo loro di mano. Tra l’altro l’articolo parla di un ordine mondiale in cui le sovranità nazionali sono rispettate. L’autore a questo punto può solo essere tacciato di disonestà oppure di ignoranza. Chi di spada ferisce di spada perisce.

Quando parla di sovranità non menziona che, soprattutto in Europa, la perdita di sovranità nazionale, giuridica, legale, militare, monetaria in paesi come l’Italia, la Grecia, la Spagna, ha influenzato negativamente l’opinione pubblica sulla necessità di un mondo globale. Le politiche di austerità hanno fatto il resto. L’autore denuncia il fatto che una persona su cento oggi come oggi sono rifugiati o sfollati ma si dimentica di analizzare l’impatto negativo che l’immigrazione di massa incontrollabile ha avuto sull’opinione pubblica. Parla di un mondo di pace globale che ha scongiurato una nuova guerra mondiale, ma si dimentica di ricordare i danni e il caos che guerre e bombardamenti negli ultimi anni hanno creato, destabilizzando intere aree geografiche; tutto nel nome di questo nuovo ordine mondiale. Come dimenticare il bombardamento della Serbia, la Guerra in Afghanistan, in Iraq (due volte), in Libia, in Siria, ect. Il peggior nemico di questi signori globalisti elitisti sono loro stessi, non Trump. Trump è il sintomo di una malattia più grande e profonda che loro hanno contribuito a creare.  La vera novità è che ormai queste organizzazioni globaliste non solo hanno paura e quindi denunciano apertamente l’erosione evidente nel loro piano di ordine mondiale, ma sono ormai entrati nella fase successiva; la disperazione di chi sa di aver perso per sempre il controllo della situazione. Questo spiega ora anche l’approssimazione delle loro analisi.

Per chi non lo sapesse il CFR è stato storicamente uno dei maggiori architetti di questo nuovo ordine mondiale.

Qualche nota, giusto per fare un veloce riassunto di cosa sia il Council On Foreign Relations. Uno dei fondatori del CFR è stato David Rockefeller. L’obiettivo del CFR era la formazione di un governo mondiale incrementalmente più forte. L’Ammiraglio Chester Ward, ex Giudice Avvocato della Marina degli Stati Uniti, è stato membro del CFR per 16 anni prima di dimettersi disgustato. Ha dichiarato: “Lo scopo principale del Council on Foreign Relations è promuovere il disarmo della sovranità degli Stati Uniti e l’indipendenza nazionale, la sommersione in un governo monopolistico onnipotente“.

Dopo la seconda guerra mondiale, nacquero le Nazioni Unite, il successore della Lega delle Nazioni. Contrariamente a ciò che viene comunemente detto al pubblico, l’ONU non è stata fondata da nazioni esauste della guerra. L’ONU è stata concepita da un gruppo di membri del CFR nel Dipartimento di Stato che si autodefinirono il Gruppo di Agenda informale. Hanno redatto la proposta originale per le Nazioni Unite e ottenuto l’approvazione del presidente Roosevelt il quale ha poi fatto stabilire all’ONU la sua più alta priorità politica postbellica. Quando l’ONU tenne la sua riunione di fondazione a San Francisco nel 1945, 47 delegati americani erano membri del CFR. Sebbene inizialmente l’ONU non fosse stata istituita come un governo mondiale, l’intento era che si sarebbe trasformata nel tempo in governo mondiale. John Foster Dulles (CFR), un delegato americano alla riunione di fondazione delle Nazioni Unite che in seguito divenne Segretario di Stato sotto Eisenhower, lo ha riconosciuto nel suo libro Guerra o Pace: “Le Nazioni Unite non rappresentano una fase finale nello sviluppo dell’ordine mondiale, ma solo uno stadio primitivo. Pertanto il suo compito principale è creare le condizioni che renderanno possibile un’organizzazione più altamente sviluppata.

Altre due istituzioni postbelliche, la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, sono state create tecnicamente alla Conferenza di Bretton Woods del 1944. Ma la pianificazione iniziale è stata fatta dal gruppo economico e finanziario del CFR, parte del loro programma bellico di guerra e di studi sulla guerra. La Banca Mondiale e il FMI agiscono come un sistema di garanzia dei prestiti per le banche multinazionali. Quando un prestito in un paese straniero va male, la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale entrano in azione con il denaro dei contribuenti, garantendo che le banche private continuino a ricevere i pagamenti di interessi. Inoltre, la Banca Mondiale e il FMI dettano le condizioni ai paesi che ricevono salvataggi, dando così ai banchieri una misura di controllo politico sulle nazioni indebitate.

LE INGERENZE: STRUMENTI FONDANTI DELLA LOTTA TRA LE POTENZE MONDIALI. (a cura di) Luigi Longo

LE INGERENZE: STRUMENTI FONDANTI DELLA LOTTA TRA LE POTENZE MONDIALI.

(a cura di) Luigi Longo

 

E’ opportuno amplificare la pubblicazione del breve articolo di Ulson Gunnar (L’ingerenza politica USA: una tradizione consolidata, apparso sul blog www.controinformazione.info il 31 marzo 2018) perché evidenzia con chiarezza il fatto che parlare di ingerenza delle potenze mondiali è un non sense in quanto le relazioni ( chiamate superficialmente ingerenze) tra nazioni e tra nazioni e potenze mondiali, che è bene ricordarlo sono relazioni di potere e di dominio, sono parti fondanti del conflitto per l’egemonia mondiale; tutti gli strumenti del conflitto, come per esempio le comunicazioni a partire dal 1844 ( anno in cui fu inaugurata la prima linea telegrafica al mondo che univa, per dirla con il geografo Peter J. Hugill, la semplicità d’uso alla libertà di accesso per il pubblico), sono utili per la conquista del dominio mondiale.

Gli USA, bisogna riconoscerlo, sono maestri nelle relazioni di potere e di dominio e non a caso sono la potenza mondiale egemone, sia pure in fase di pericoloso declino.

 

 

L’INGERENZA POLITICA USA :UNA TRADIZIONE CONSOLIDATA

Impero usa finanza e armi

Usa l’ingerenza politica è molto reale e globale

di Ulson Gunnar (*)

Gli Stati Uniti hanno dedicato più di un anno alle accuse contro la Federazione Russa in merito a presunte interferenze politiche durante le elezioni americane del 2016 .

Mentre le accuse spaziano da tutto, comprese le “notizie false” diffuse su Internet per dirigere i legami con l’amministrazione del presidente degli Stati Uniti Donald Trump avrebbe utilizzato per assumere il potere, nessuna prova deve ancora emergere per dimostrare che la Russia si è intromessa negli affari politici interni dell’America .

E mentre la Russia certamente possiede una presenza ampia e crescente attraverso i media internazionali, gli attacchi concertati contro questa presenza derivano maggiormente dal fatto che i decenni di controllo incontrastato sull’opinione pubblica globale da parte dei media degli Stati Uniti e dell’Europa si stanno ora spostando verso un equilibrio multipolare del potere spazio dell’informazione .

In netto contrasto con i sussurri e le ombre citati dagli Stati Uniti e dall’Europa in merito alla Russia, per iniziare a comprendere la portata delle interferenze politiche statunitensi all’estero, basta visitare il Dipartimento di Stato americano e il sito Web National Endowment for Democracy’s (NED) finanziato dalle grandi società private.

 

Ingerenza su scala industriale

 

L’intromissione degli Stati Uniti è così ampia che NED è suddiviso in più filiali (National Democratic Institute (NDI), International Republican Institute (IRI) e Freedom House) che a loro volta sono affiancate da organizzazioni parallele come l’Open Society Foundation di George Soros, USAID, il DFID del Regno Unito e molti altri.

Il sito Web NED è suddiviso in diverse regioni, tra cui:

Africa;
Asia;
Europa centrale e orientale;
Eurasia;
Globale;
America Latina e Caraibi e;
Medio Oriente e Africa settentrionale.

All’interno di ogni regione, NED elenca i suoi ampi finanziamenti per organizzazioni e fronti in oltre 100 diverse nazioni in tutto il mondo.

All’interno di ogni nazione, ci sono fondi NED destinati a un gruppo costituito da decine di organizzazioni che si presentano come società legali, piattaforme mediatiche, fondazioni, gruppi ambientalisti e ONG per la difesa dei diritti umani. Tutte queste creano collettivamente le componenti di una macchina politica usata per far pressione sui governi in carica, per prestare attenzione agli interessi degli Stati Uniti, o per il cambio di regime se questi falliscono.

 

NED ONG made in USA

 

Poiché il NED e i destinatari dei suoi finanziamenti sono sempre più esposti come una forma di sovversione politica, la NED ha deciso di elencare i suoi finanziamenti in alcune nazioni in termini molto generali, senza mai rivelare le organizzazioni o gli individui che ricevono denaro dagli Stati Uniti.

Molte organizzazioni in nazioni bersaglio rifiutano di rivelare i loro finanziamenti al pubblico. Molti hanno persino il coraggio di sollecitare donazioni pubbliche nonostante abbiano ricevuto (e nascosto) ampi finanziamenti dal governo degli Stati Uniti.

 

Medio Oriente

 

È un dato di fatto, ammesso da importanti piattaforme mediatiche statunitensi come il New York Times , che l’intera primavera araba del 2011 sia stata il risultato di vasti preparativi diretti dal NED, dai suoi partner e dalle sue filiali.

Dopo aver contribuito a creare i conflitti che attualmente consumano il Medio Oriente, la NED finanzia ora una serie di attività in nazioni come la Siria per contribuire a prolungare i conflitti. Questo viene fatto aiutando e favorendo i miliziani jihadisti che combattono il governo di Damasco con il pretesto di fornire aiuti umanitari. Include anche l’assistenza nell’amministrazione del territorio sequestrato dai miliziani dal controllo di Damasco.

La nazione iraniana, ancora da sobillare con le stesse violenze che attraversano la Siria, lo Yemen, la Libia e l’Iraq, ospita reti di gruppi finanziati dal NED e dalla CIA che vanno dai presunti attivisti, ai gruppi di miliziani (terroristi) diretti al rovesciamento violento del governo di Teheran.

 

 

 

 

 

 

 

Europa orientale

 

Fu nell’Europa dell’Est che la NED perfezionò quella che oggi viene chiamata la “rivoluzione dei colori”. È ora ammesso che il NED statunitense e altre agenzie statunitensi giocarono un ruolo fondamentale nel rovesciare i governi di Georgia, Ucraina e Serbia. È stato infatti il rovesciamento del governo serbo sostenuto dagli Stati Uniti nel 2000 che il Kem Sokha della Cambogia ha citato come modello da replicare nel sud-est asiatico con l’assistenza degli Stati Uniti.

Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, le rivoluzioni colorate del NED spazzarono l’Europa orientale come una piaga, consumando la sovranità nazionale e piegando i territori ex sovietici a nuovi padroni a Washington, Londra e Bruxelles.

Più recentemente, mentre la Russia ha iniziato a riaffermarsi e a prendere decisioni in tribunale sia nell’Europa orientale che in quella occidentale, la NED si è nuovamente impegnata a rovesciare i leader che rifiutano di ridurre o eliminare i legami economici, militari e diplomatici con la Russia per volere di Washington.

Un primo esempio di questo include le proteste dell’Euromaiden 2013-2014 in Ucraina. Durante il periodo 2013-2014, i senatori statunitensi, incluso John McCain, avrebbero letteralmente preso parte alle fasi di protesta a Kiev per offrire un sostegno politico diretto ai disordini guidati dai circoli politici neo-nazisti.

US President Donald Trump (C-L) and Saudi Arabia’s King Salman bin Abdulaziz al-Saud

 

Russia

 

Sorprendentemente, mentre Washington accusa la Russia di ingerenza politica all’interno degli Stati Uniti, il NED elenca apertamente quasi 100 attività sovversive o organizzazioni che stanno finanziando all’interno della stessa Russia .

Oltre a ciò che è elencato sul sito Web di NED, gli Stati Uniti e l’Europa stanno fornendo figure di opposizione impopolari come Alexei Navalny, l’ormai defunto Boris Nemtsov, Yevgeniya Chirikova (Strategia 31 finanziata dal NED), Lev Ponomarev (Mosca, Helsinki, gruppo finanziato dal NED), Liliya Shibanova (GOLOS finanziato dal NED) e molti altri che sono stati ripetutamente arrestati per aver cospirato con diplomatici e finanzieri americani che sostengono le loro attività sovversive.

Se esistessero prove per dimostrare che la Russia ha fatto una delle forme di ingerenza sopra elencate, incluso il mantenimento di intere scuderie di personaggi dell’opposizione che filtrano regolarmente dentro e fuori dall’Ambasciata russa in una nazione bersaglio, questa azione sarebbe categoricamente condannata da Washington. Eppure Washington si impegna palesemente in sovversione politica palese, non solo in Russia, ma in (almeno) altre 100 nazioni in tutto il mondo, incluse le nazioni che gli Stati Uniti stanno attualmente occupando militarmente in modo aperto.

Per l’impero, ciò che è più temibile è la competizione. L’Impero anglo-USA cerca di essere l’unico potere egemone con tutto quello che ne consegue. Gli Stati Uniti non si oppongono all’intromissione politica negli affari di una nazione sovrana, si oppongono all’ostruzione della propria ingerenza mondiale e cercano di eliminare altri che offrono alternative migliori alla sottomissione coercitiva di Washington, quindi si agitano perché hanno individuato nazioni come la Russia, la Cina e altre che hanno sempre più successo nel fare proprio questo.

Per quei paesi tentati di unirsi al carrozzone nel condannare le nazioni come la Russia e la Cina per intromissione politica, in primo luogo quelle stesse nazioni devono riconoscere e rendere conto del livello industriale con cui gli Stati Uniti interferiscono con i propri partner europei.

Per coloro che stanno portando denaro ella NED in tutto il mondo nella convinzione che stiano facendo avanzare in qualche modo un’agenda progressista liberale, in particolare di “democrazia”, questi devono chiedersi come giudicare di una nazione straniera che fa interferenza negli affari politici della propria nazione e se questo sia “democratico” o se sia costruito in modo favorevole ai principi di auto-determinazione della democrazia.

Non si può onestamente concludere che il denaro del NED sia destinato a sostenere la capacità di una nazione di determinare il proprio destino quando risulta chiaramente che Washington sta investendo queste enormi quantità di denaro per determinare in base ai propri interessi l’assetto politico di quella nazione.

 

* Ulson Gunnar, analista geopolitico e scrittore di New York, in particolare per la rivista online ” New Eastern Outlook ”

Riguardo a   “La complessità di un mondo multipolare – Videointervista a Pierluigi Fagan”, di Massimo Morigi

Riflettendo in queste pagine dell’ “Italia e il mondo” sul   “ “Che fare” di Carl Schmitt. Europa, nuovi stati, Nomos del mondo” di Pierluigi Fagan (sempre pubblicato in questo blog) riassumevo nei seguenti termini il mio pensiero in merito all’odierno stato della scienza politica ritenendo che, pur nella differenza di impostazione nell’affrontare la storia del pensiero politico  fra lo scrivente e Fagan (a mio giudizio un eccesso di schematismo classificatorio in Fagan che lo porta a trascurare la presenza o meno della componente conflittuale-strategica dei singoli pensatori: «Ci sono pensatori politici di due tipi, quelli che rimangono teorici e quelli che bordeggiando contingenze pratiche, finiscono con l’addomesticare la propria teoria alla contingenza», scriveva in quell’intervento Fagan riferendosi a Carl Schmitt, accusando quindi il suo pensiero di strumentalismo e trascurandone perciò la drammatica ed euristicamente fondamentale  dialettica del confronto della teoria con la prassi politica), Pierluigi Fagan fosse pienamente convergente con me  nel cogliere il terribile deficit di pensiero che caratterizza le odierne classi dirigenti politico-intellettuali delle cosiddette democrazie rappresentative: «Conclusione che non conclude ma che (dovrebbe) aprire il cantiere del rapporto fra prassi e teoria politica: c’è indubbiamente diffusa una rinnovata consapevolezza che le vecchie mitologie politiche liberali e democraticistiche non stanno più letteralmente in piedi; ma c’è in tutti noi indubbiamente il bisogno di un rinnovato ed approfondito sforzo teorico-pratico per rimpiazzare queste consunte mitologie politiche. E l’odierno contributo di Pierluigi Fagan senza dubbio si inserisce validamente in quest’alveo.» Ora riguardo a “La complessità di un mondo multipolare – Videointervista a Pierluigi Fagan” pubblicata in tre parti in questo blog (caricata anche su YouTube e sulla quale piattaforma viene pubblicata nelle sue tre parti anche sul seguente unico URL  https://www.youtube.com/watch?v=MBVEzL4hsL0), non posso che confermare – e rafforzare – il mio giudizio totalmente positivo su questo studioso, giudizio positivo ulteriormente confermato in ragione non solo del fatto che nell’intervista Fagan ribadisce e argomenta ulteriormente l’attuale crisi che attraversa la teoresi politica ma fornisce anche indizi per fornire un contesto storico alla stessa. Per Fagan questa crisi di pensiero risale principalmente al periodo fra il primo ed il secondo dopoguerra (cita come esempio e della debolezza intrinseca di questo pensiero ed anche della scarsa produttività dello stesso il progetto della Paneuropa di Richard Nikolaus von Coudenhove-Kalergi e il Manifesto federalista di Ventotene di Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni, risibili non solo per la – dirigistica ed autoritaria –  utopicità di voler federare un’Europa che al massimo presa nel suo insieme, nell’insieme cioè delle sue immense differenze, potrebbe aspirare ad una confederazione ma anche ridicoli nel senso che sono state le uniche nuove proposte di un Vecchio continente in crisi che, invece, sul piano culturale ed artistico si era contraddistinto come l’iperproduttiva fucina della modernità); mentre, a mio giudizio, la crisi del pensiero politico moderno (e la crisi del Vecchio continente tout court, le quale due cose, come è di tutta evidenza, sono strettissimamente correlate) va piuttosto collegata col trauma della seconda guerra mondiale, conflitto che ha significato accanto alla giusta e sacrosanta damnatio memoriae del totalitarismo nazista e fascista anche la damnatio memoriae di un qualsiasi pensiero  non  di stretta osservanza universalista, liberale e/o comunista-internazionalista che fosse. Ma queste sono non dico questioni di dettaglio (non lo sono di dettaglio sia perché anche l’universalismo politico e filosofico possiede una sua dialetticità storica, e a seconda o no che si concordi sulla realtà di  questa dialetticità si è o reazionari –  absit iniuria verbis! – o appartenenti ad una tradizione realista-strategica ed intrinsecamente dialettica (Machiavelli, Mazzini, Marx, Gramsci, il György Lukács di Storia e coscienza di classe) ma certamente problemi che però non riescono ad occultare il fatto principale – e puntualmente rilevato da Fagan – che la crisi del pensiero politico occidentale – e della sua filosofia – non deriva dal fatto che la teoria ha giocato tutte le sue carte ma dal semplice dato di fatto che la crisi geopolitica dell’Europa, che ha avuto il suo acme nel Secolo breve, non poteva non produrre anche una contemporanea crisi di pensiero: non grande importanza, allora stabilire l’esatto terminus a quo, l’importante è avere ben presente il processo. Al giorno d’oggi la vera nobilitate di un pensiero e di un pensatore è sulla consapevolezza di questo inestricabile e dialettico nesso fra dato geopolitico e/o storico e dato teorico che si misura. Da questo punto di vista il pensiero di Fagan veramente molto attento, come ama concepirlo Fagan, al dato della “complessità” del mondo contro ogni ideologico tecnicismo ed invadente ed autoritaria tecnocrazia (ma noi, preferiamo dire: estremamente sensibile alla storicità e dialetticità dell’agire umano) si colloca veramente con grande autorità nell’alveo storicista di una filosofia della prassi che ha compreso che non esiste una evoluzione della teoresi politica qualora questa si consideri separata dalla “bassa” pratica del cambiamento del “politico”. E di questa non piccola consapevolezza dobbiamo continuare a ringraziare Pierluigi Fagan.

 

 

Massimo Morigi, 31 marzo 2018

 

 

 

 

 

 

 

La complessità di un mondo multipolare. Videointervista a Pierluigi Fagan_3a parte

Qui sotto il link della terza ed ultima parte dell’intervista. Pierluigi Fagan ha svolto per oltre venti anni la professione di imprenditore e manager. Da oltre tredici si è dedicato intensamente allo studio in vari campi, privilegiando in particolare l’ambito filosofico e teorico-politico. Nel 2016 ha pubblicato un libro edito da Fazi dal titolo: VERSO UN MONDO MULTIPOLARE, il gioco di tutti i gioche nell’era Trump. Buon ascolto

La complessità di un mondo multipolare. Videointervista a Pierluigi Fagan_2a parte

Qui sotto il link della seconda delle tre parti dell’intervista. Pierluigi Fagan ha svolto per oltre venti anni la professione di imprenditore e manager. Da oltre tredici si è dedicato intensamente allo studio in vari campi, privilegiando in particolare l’ambito filosofico e teorico-politico. Nel 2016 ha pubblicato un libro edito da Fazi dal titolo: VERSO UN MONDO MULTIPOLARE, il gioco di tutti i gioche nell’era Trump. Buon ascolto

SENTIMENTO OSTILE, ZENTRALGEBIET E CRITERIO DEL POLITICO, di Teodoro Klitsche de la Grange

SENTIMENTO OSTILE, ZENTRALGEBIET E CRITERIO DEL POLITICO

Scrive Clausewitz, nelle prime pagine del Vom Kriege, che la guerra, sotto l’aspetto delle di essa tendenze principali si presenta come un triedro composto: “1. Della violenza originale del suo elemento, l’odio e l’inimicizia, da considerarsi come un cieco istinto;

  1. del giuoco delle probabilità e del caso, che le imprimono il carattere di una libera attività dell’anima;
  2. della sua natura subordinata di strumento politico, ciò che la riconduce alla pura e semplice ragione.

La prima di queste tre facce corrisponde più specialmente al popolo, la seconda al condottiero ed al suo esercito, la terza al governo. Le passioni che nella guerra saranno messe in giuoco debbono già esistere nelle nazioni”[1].

E poco prima sostiene che “Quanto più grandiosi e forti sono i motivi della guerra, quanto maggiormente essi abbracciano gli interessi vitali dei popoli, quanto maggiore è la tensione che precede la guerra, tanto più questa si avvicina alla sua forma astratta, tanto maggiore diviene la collimazione fra lo scopo politico e quello militare”[2].

Da questi e da altri passi del Vom Kriege emerge che il “sentimento ostile” e la violenza originale dell’odio e dell’inimicizia è del “triedro” l’elemento che più contribuisce all’intensità e alla determinazione dello sforzo bellico.

2.0 Secondo Carl Schmitt “I concetti di amico e nemico devono essere presi nel loro significato concreto, esistenziale, non come metafore o simboli; essi non devono essere mescolati e affievoliti da concezioni economiche, morali e di altro tipo, e meno che mai vanno intesi in senso individualistico-privato”[3], perché “Nemico è solo un insieme di uomini che combatte almeno virtualmente, cioè in base ad una possibilità reale, e che si contrappone ad un altro raggruppamento umano dello stesso genere”. Il nemico è solo pubblico come già era scritto nel Digesto. La contrapposizione politica è la più intensa ed estrema[4]; non è limitata all’esterno dell’unità politica, anche se all’interno è relativizzata ossia è lotta e non guerra; se diviene questa mette in forse l’unità politica[5]. La guerra è in se un mezzo politico e non può che essere tale “sarebbe del tutto insensata una guerra condotta per motivi «puramente» religiosi, «puramente» morali, «puramente» giuridici o «puramente» economici”[6].

Tuttavia “contrasti religiosi, morali e di altro tipo si trasformano in contrasti politici e possono originare il raggruppamento di lotta decisivo in base alla distinzione amico-nemico. Ma se si giunge a ciò, allora il contrasto decisivo non è più quello religioso, morale od economico, bensì quello politico”[7]; e prosegue “Ogni contrasto religioso, morale, economico, etnico o di altro tipo si trasforma in un contrasto politico, se è abbastanza forte da raggruppare effettivamente gli uomini in amici e nemici”.

Nello scritto L’epoca delle neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni[8] Schmitt sostiene (e ciò presenta interesse anche per il “contenuto” del politico) che l’Europa ha cambiato dal XVI secolo più volte il proprio centro di riferimento[9]; il quale è passato dal teologico al metafisico, da questo al morale-umanitario e poi all’economico.

Il centro di riferimento determina di volta in volta il significato dei concetti specifici. Ciò che più rileva “Una volta che un settore diviene il centro di riferimento, i problemi degli altri settori vengono risolti dal suo punto di vista e valgono ormai solo come problemi di secondo rango la cui soluzione appare da sé non appena siano stati risolti i problemi del settore centrale”[10]. Così anche per lo Stato e per i raggruppamenti amico-nemico: “lo Stato acquista la sua realtà e la sua forza dal centro di riferimento delle diverse epoche, poiché i temi polemici decisivi dei raggruppamenti amico-nemico si determinano proprio in base al settore concreto decisivo. Finché al centro si trovò il dato teologico-religioso, la massima cujus regio ejus religio ebbe un significato politico”[11].

Mutato il centro di riferimento, cambia la concezione dello Stato e il contenuto o la discriminante del politico, che assume altro significato e criterio e può determinare un diverso raggruppamento amico-nemico e così: “Quello che fino allora era il centro di riferimento viene dunque neutralizzato nel senso che cessa di essere il centro e si spera di trovare, sul terreno del nuovo centro di riferimento, quel minimo di accordo e di premesse comuni che permettano sicurezza, evidenza, comprensione e pace. In tal modo si afferma la tendenza verso la neutralizzazione e la minimalizzazione”[12].

Tuttavia neppure l’approdo “neutrale” cui gli europei sono arrivati nel XX secolo e cioè la tecnica può realizzare l’aspirazione all’eliminazione della conflittualità; sia perché “la tecnica è sempre soltanto strumento ed arma e proprio per il fatto che serve a tutti non è neutrale. Dall’immanenza del dato tecnico non deriva nessuna decisione umana e spirituale unica, men che meno quella nel senso della neutralità”[13] sia perché “La speranza che dal ceto degli inventori tecnici possa svilupparsi uno strato politico dominante non è finora giunta a compimento”[14].

  1. La correlazione – anche se non sempre necessaria e inderogabile – tra centro di riferimento e scriminante amico/nemico persuade solo in parte.

Ciò in primo luogo perché occorre coordinarla con ciò che Schmitt ha tanto spesso ripetuto, ossia che a determinare il nemico è la situazione concreta.

Per la quale non vi è solo la coppia degli opposti riferentesi al centro di riferimento, ma vi sono altre contrapposizioni, talvolta più importanti e così decisive (o almeno percepite come tali) che determinano situazioni di lotta e ostilità.

Ad esempio nel secolo breve e in particolare dopo la conclusione della seconda guerra mondiale l’opposizione tra democrazie liberali (con annessi) e stati comunisti ripartiva quasi tutto il mondo sviluppato in due campi l’un contro l’altro armati, organizzati in sistemi d’alleanza (e relative organizzazioni) contrapposte e pronte alla reciproca distruzione; malgrado ciò non impediva né stati d’intensa ostilità fino alla guerra all’interno sia dei “due” campi, sia tra “clienti” degli stessi, per lo più non indotte dalla discriminante amico/nemico principale.

Infatti vi sono state guerre nello stesso “campo”: Cina/Vietnam; Vietnam/Cambogia; Cina/Russia; (gli “incidenti” sull’Ussuri) per quello comunista; Gran Bretagna/Argentina (per le Falklands/Malvine) nonché l’occupazione turca di parte di Cipro con le forti tensioni tra Grecia e Turchia.

Peraltro le guerre arabo-israeliane non avevano affatto il contenuto e la scriminante ideologica dei campi che, in maggiore o minore misura aiutavano l’uno e l’altro dei contendenti, ma il carattere “tradizionale” di contese per il possesso della terra tra popoli diversi.

Anche le guerre civili non sono (sempre) guerre ideologiche (anche se spesso ciò è capitato negli ultimi due secoli).

Come scriveva Montherlant nel prologo del suo dramma “La guerra civile”, dando la parola a questa “Io sono la guerra civile… Io non sono la guerra delle trincee e dei campi di battaglia. Sono la guerra della piazza inferocita, la guerra delle prigioni e delle strade, del vicino contro il vicino, del rivale contro il rivale, dell’amico contro l’amico”. Quell’ “amico contro l’amico” mostra come il drammaturgo vedesse nella dissoluzione del rapporto amicale la causa della guerra civile. Contro questa non vale (sempre) l’aggregazione derivante dalla comunanza di leggi, tradizioni, storia e lingua, che comunque produce coesione; a questa si deve aggiungere la volontà d’esistere insieme e di un futuro comune. Il venir meno della quale induce la fine della sintesi politica, la quale, come scriveva Renan, è un “plebiscito di tutti i giorni”.

Nella realtà politica la costante del dominio e le sue determinanti, in particolare geo-politiche, così ben enunciata da Tucidide nel famoso dialogo tra i Meli e gli ambasciatori ateniesi[15]; le opposizioni tra popoli abituati a combattere e ad affermare la propria identità rispetto ai vicini (come, spesso, nei Balcani – e non solo); gli interessi degli Stati, come la politica di De Gaulle nei confronti del mondo comunista, rendono non decisiva l’opposizione principale (ed epocale)[16].

La decisività dell’opposizione va ricondotta all’influenza sull’esistenza della comunità politica, sia in senso assoluto (la distruzione della comunità o dell’istituzione che le da forma), sia relativa (la modificazione radicale del modo d’esistenza della stessa).

Il conflitto politico è così determinato in primo luogo dall’esigenza d’esistenza della comunità: se è percepito un altro gruppo umano come nemico – nel senso d’essere un pericolo (concreto) per l’esistenza della comunità minacciata – le stesse “differenze” religiose, ideologiche, economiche passano in secondo piano. I “valori” e la correlativa “tavola”, per lo più dichiarata, negli Stati moderni, nelle Costituzioni, passano in second’ordine nel momento in cui è in gioco l’esistenza della comunità. Il tutto avviene sia dal lato interno (la decisione sullo stato d’eccezione) che su quello esterno (la decisione sul nemico), in omaggio alla massima salus rei publicae suprema lex. Il nemico è colui che è tale per la salus dell’istituzione statale (e della comunità). È la concreta situazione ed il pericolo per l’esistenza collettiva e il sentimento ostile che ne consegue più che il contrasto sul modo d’esistenza di un popolo a designare il nemico; così appartiene ad ogni comunità la decisione su chi sia tale, e se l’opposizione epocale sia più o meno importante delle altre opposizioni, che hanno il carattere non solo della concretezza, ma anche della particolarità. Come scriveva Freund            “Cadere in errore sul nemico per stordimento ideologico… è esporsi a mettere, presto o tardi, in pericolo la propria esistenza”[17].

  1. Scriveva Gentile che “è il sentimento politico l’humus in cui affonda le sue radici l’albero dello Stato”[18]; tale affermazione è complementare a quella di Clausewitz sulla tendenza/componente/costante della guerra costituita dal cieco istinto – e con ciò dal sentimento politico – che “corrisponde” al popolo.[19]

Senza sentimento politico non c’è né guerra né Stato vitale. Quella ha così la possibilità di essere condotta e, nel caso, vinta; in questo si risolve nel relativizzare le opposizioni e conflitti, in particolare quello tra governanti e governati nel consenso dei secondi ai primi, in un idem sentire de republica[20].

Il problema della legittimità del consenso e dell’integrazione, che i giuristi contemporanei spesso risolvono nella legalità, senza considerare che questa si fonda sulla convinzione della legittimità di chi esercita il potere, e non viceversa; onde – scriveva Gentile – non c’è polizia che possa provvedervi se l’ordine sociale non è condiviso[21].

  1. Un’analisi fenomenologica del rapporto amico/nemico deve partire dall’osservazione fattuale che il conflitto è in se insopprimibile sia all’interno che all’esterno della sintesi politica. Una società, così armoniosa da non conoscere conflitti interni è frutto d’utopismo, di quella variante cioè del pensiero utopico volto ad immaginare fantasie impossibili perché opposte al dato fattuale.

Quel che, invece fa parte dell’esperienza (ed è costante) storica è che le sintesi politiche esistono come tali fin quando riescono a relativizzare i contrasti interni, ricomponendoli e decidendoli; conflitti relativizzati dal consenso ad un’autorità superiore riconosciuta (dai governati) a prendere le decisioni (inappellabili) per l’ordine che assicura. Ove questo non avvenga il risultato è che quei conflitti passano da relativi ad assoluti: in cui posta in gioco è l’esistenza e, gradatamente, la forma di governo, il regime della sintesi politica e non più dissidi interni. Ne consegue che tra tutti gli innumerevoli conflitti che possano esistere all’interno della sintesi politica depotenziarne uno, sicuramente presente, è presupposto necessario del rapporto amicale: quello tra governanti e governati. Perché consente di ricomporre tutti gli altri.

Autorità, ordinamento e regole hanno come esigenza fondamentale di dirimere e decidere i conflitti, e quindi la lotta che inevitabilmente ne consegue, limitandola e degradandola a competizione agonale.

Ancora di più, la relativizzazione dei dissidi interni si fonda sul ruolo pacificatore del terzo, interno alla sintesi politica, cioè, in linea di massima, il potere sovrano. In linea di massima perché l’attività del terzo (anche interno) può non essere svolta da un organo dello Stato e, il risultato politico (la composizione del dissidio), comunque conseguito. Ma il ruolo del “terzo” può non essere limitato ai conflitti interni e, soprattutto la sua azione, essere rivolta a suscitare dissensi, non a ricomporli.

  1. Si è spesso pensato, nell’era post-atomica e a seguito della debellatio della Germania e del Giappone (il caso dell’Italia è diverso), che la fine della guerra s’identifichi con l’occupazione militare di un paese previamente distrutto dal vincitore, e quindi posto nell’impossibilità materiale di difendersi; i terribili effetti di una guerra nucleare nell’immaginario collettivo hanno fatto il resto.

Nella realtà una guerra finisce quando una delle parti non ha più la volontà di combattere. La guerra è uno scontro di volontà, come scrivevano, tra gli altri, Clausewitz e Gentile. Presuppone quindi che ambo i contendenti abbiano la volontà di farla e proseguirla: se uno dei due si arrende, la guerra cessa.

Giustamente de Maistre notava che una battaglia persa è quella che immaginiamo di avere perso[22].

La guerra assoluta sta alla guerra reale come la pace (perpetua? universale?) della debellatio ad un trattato (o anche “dettato”) di pace reale. È essenziale piegare la volontà di combattere del nemico e quindi il sentimento di (appartenenza comunitaria ed) ostilità. A tale scopo tutti i mezzi sono buoni: sia la prospettiva di castighi e danni superiori sia l’opposta di benefici, vantaggi o clemenze. L’armistizio con cui si concluse (sul piano militare) la prima guerra mondiale, con la Germania ancora padrona di gran parte dell’Europa centrorientale ne è uno dei casi.

Pressioni economiche (gli effetti del blocco), l’armistizio dell’Austria-Ungheria e le prospettive strategiche di questo e dell’aumento dell’intervento americano contribuiscono a depotenziare la volontà di combattere.

Ma anche nel XX secolo, nell’epoca della guerra tecnica e totale, spesso armate partigiane decise e motivate, hanno sopportato e vinto in condizioni di (abissale) inferiorità materiale, a prezzo di perdite enormemente superiori a quelle dei nemici ipertecnologici. Lo squilibrio materiale era compensato dall’intensità del sentimento ostile e così del morale. I nemici non riuscivano a sopportare gli (assai inferiori) sacrifici, per cui preferivano concludere la pace o comunque rinunciare alla guerra[23]. Il sentimento ostile è, per il più debole, il fattore che può consentire di condurre e vincere la guerra, pur connotata da una notevolissima asimmetria materiale.

È proprio la guerra asimmetrica nelle sue diverse forme a connotare i conflitti contemporanei, a partire dal crollo del comunismo e dalla conseguente rottura del condominio bipolare che aveva caratterizzato la seconda metà del XX secolo.

Del pari l’ostilità tra gruppi umani, che condivide la natura camaleontica del suo prodotto più intenso, la guerra (caratterizzata dall’uso della violenza), prende forme intermedie (per lo più mistificate o del tutto occultate). Influenzate da derivazioni (nel senso di Pareto) pacifiste; queste consistono nel negare ad interventi armati il carattere di guerra, in nome d’intenzioni ireniche e soprattutto perché intraprese al fine di mantenere la pace[24].

Ma la panoplia dell’ostilità non si limita alle guerre mascherate.

Altre forme ne sono quelle azioni che tendono allo stesso scopo della guerra – piegare la volontà dell’avversario – con mezzi non militari (blocco economico, attacchi informatici, scorribande finanziarie, fino alle invasioni pacifiche); ovvero condotte da soggetti non aventi lo status di legittimi belligeranti (justi hostes), mezzo ben noto anche ai secoli passati. Il connotato comune di tutti questi tipi di atti ostili è che, avendo lo stesso scopo della guerra “classica” mancano di uno (o più) dei requisiti individuati dalla teologia cristiana perché vi fosse una guerra giusta (justum bellum): qui manca la recta intentio, lì l’auctoritas, altrove una justa causa belli. Onde (forse) non possono essere considerate guerre in senso proprio, ma quasi sempre non possono essere ricondotte al concetto di guerra giusta elaborato dai teologi.

Proprio in tali guerre – non guerre assume un rilievo forse maggiore che in quelle classiche l’esigenza di annichilire la volontà di resistere (e di combattere) del nemico; perché l’avversario sa bene, come scriveva de Gaulle, che la forza risiede nel di esso ordine e che rompendo questo si distrugge quello.

  1. Nelle forme “atipiche” di guerra che connotano il XXI secolo questo è possibile in vari modi e i mezzi devono essere congrui rispetto agli obiettivi. Decisivo appare comunque provocare la perdita della coesione politica del nemico. I gradi dell’azione possono essere differenti: si va, in crescendo, dalla sostituzione del governo ostile all’abolizione del regime politico fino alla distruzione della sintesi politica oggetto dell’intervento ostile[25].

Connotato comune è che il mezzo usato e lo scopo lo rendono più prossimo alla rivoluzione che alla guerra: anche se il fine non è sempre rivoluzionario consiste nella sovversione e il rovesciamento dell’ordine (e così  almeno del governo) ostile. Dato che gli interventi ostili contemporanei hanno – come d’altra parte tante guerre – obiettivi limitati, spesso è sufficiente la sostituzione del governo per realizzarli.

Malgrado il non uso di mezzi militari, ciò lo rende assai più lesivo dei principi del diritto internazionale di quanto lo sia uno justum bellum: suscitare la sovversione (fino alla rivoluzione) negli altri Stati ha, secondo molti costituito un illecito internazionale, spesso vituperato e altrettanto praticato.

  1. Il pensiero politico si è interrogato da millenni su chi sia il nemico, e le risposte al quesito sono state le più varie e neppure escludentesi tra loro. Si è ritenuto che ci fossero nemici per natura[26], o più spesso per divergenze d’interessi, o anche per costumi[27], per religione (fonte di tanti contrasti). Ancor più su chi sia il nemico giusto[28].

Come sostenuto da Schmitt (e non solo) il secolo XX ha visto il riconoscimento dello Stato di nemico giusto anche a soggetti politici altri degli Stati (in particolare movimenti rivoluzionari); così una legittimazione delle guerre giuste prevalentemente in base al criterio della justa causa belli.

Sul piano fenomenologico il tutto ha portato non alla riduzione, ma all’accrescimento del ruolo del sentimento ostile: in particolare l’attività bellica svolta da organizzazioni non statali relativamente (poco) istituzionalizzate[29] ha comportato un aumento del ruolo attivo della popolazione nella guerra, secondo la concezione di Mao-dse-Dong, e così del sentimento politico.

La debole istituzionalizzazione ha reso del pari meno rilevante il ruolo del personale “tecnico” e specialistico. Il comando – e i quadri – dei movimenti partigiani sono solo occasionalmente (e raramente) dei tecnici e dei burocrati militari: per lo più o non posseggono esperienza di guerra o ne hanno poca. Già agli albori del  partigiano moderno, troviamo il cardinale Ruffo, il quale non era un militare, ma un religioso ed amministratore civile. In compenso sapeva benissimo come suscitare ed avvalersi del sentimento ostile antigiacobino delle popolazioni meridionali. Così gran parte dei suoi seguaci, cosa ripetutasi in tutti (o quasi) i movimenti rivoluzionari moderni. Fra Diavolo il capo partigiano faceva il sellaio per poi arruolarsi (qualche tempo) nell’esercito regolare borbonico; Empecinado l’agricoltore.

E, sotto tale profilo, occorre ritornare alla concezione di Schmitt, prima cennata, del ruolo della tecnica e della tecnocrazia, relativamente al sentimento politico, sia che si tratti dell’avversione al nemico che della coesione con l’amico.

La tecnica è in se uno strumento e un mezzo, non un fine.

Anzi il passaggio dalla concezione della tecnica (della prima metà del secolo scorso) di cui scrive Schmitt come “fiducia in una metafisica attivistica, la fede in una potenza e in un dominio sconfinato dell’uomo sulla natura, e quindi anche sulla physis umana, la fede nell’illimitato «superamento degli ostacoli naturali», nelle infinite possibilità di mutamento e di perfezionamento dell’esistenza naturale dell’uomo in questo mondo”,  per cui non può dichiararlo “semplicemente una morta mancanza di anima, senza spirito e meccanicistica” ha rafforzato la nulla (o scarsa) idoneità a suscitare “sentimento politico”.

Se la tecnica all’epoca era concepita in una dimensione (e funzione) prometeica, ora è percepita come soddisfazione di bisogni (per lo più privati) di una società di consumatori pantofolai, i quali comunque hanno abdicato a dare un senso all’esistenza collettiva, che non sia quello di produrre e consumare.

Il quale si coniuga assai bene con la profezia di Tocqueville sul dispotismo mite[30]; mentre secondo il giurista di Plettemberg “Tutte le scosse nuove e poderose, tutte le rivoluzioni e le «riforme», tutte le nuove élites provengono dall’ascesi e da una più o meno volontaria povertà, nel che la povertà significa soprattutto il rifiuto della sicurezza garantita dallo status quo”.

  1. Ciò nonostante dato che ogni scelta, come è anche quella di servirsi della tecnica (o di tecniche), può suscitare una contrapposizione amico-nemico è il caso di vedere se anche questa (e/o quelle) può costituire fondamento aggregante/discriminante.

In primo luogo bisogna ricordare che il rifiuto di certe (soluzioni) tecniche è, il più delle volte, solo il riflesso di una scelta di valori; nel mondo contemporaneo è evidente per le (nuove) tecniche riconducibili a orientamenti bioetici[31]. La dipendenza di queste da quelli le rende irrilevanti o, tutt’al più, secondarie.

In secondo luogo il rifiuto totale (o quasi) della tecnica, quale risultante/componente di una scienza e di una civiltà altra è stato più volte ripetuto nella storia.

In particolare Toynbee lo ritiene uno dei tipi di comportamento tenuti dalle comunità umane non facenti parte della civiltà (del cristianesimo) occidentale di fronte all’espansione planetaria di questa.

Del rifiuto (opposto all’assimilazione/accettazione) riteneva “campioni” (tra gli altri rifiutanti) il Giappone ante-rivoluzione Meiji e l’Abissinia; dell’accettazione (modernizzazione) considerava le più tipiche figure storiche Pietro il Grande, Mehmet Alì e gli statisti giapponesi dell’epoca Meiji[32]. Ma il rifiuto della tecnica e della tecnologia era la conseguenza/risultanza dal rifiuto dell’intera civiltà occidentale, nei suoi valori come nell’organizzazione sociale (diritto compreso), oltre che della tecnologia, e quindi, in parte, coincide con il primo tipo di scelta.

Anche se è ipotizzabile teoricamente un’opposizione sulla tecnica, questa non appare in concreto, quale determinante reale del conflitto, e neppure può costituire, se non in ruolo ancillare[33], un fattore decisivo e legittimante del potere. Ogni situazione conflittuale e non conflittuale, di inimicizia o di amicizia; il dissenso o il consenso di valori od interessi è rimessa alla volontà umana, mentre la scelta tecnica (e la validità di questa) non è preferenza di volontà, ma di congruità ed opportunità.

La situazione contemporanea, a seguito del collasso del comunismo (e delle istituzioni-alleanze che ne determinavano il campo) ha fatto cessare l’opposizione borghese/proletariato che ha connotato (quanto meno) il “secolo breve”. Le recenti affermazioni elettorali di movimenti e candidati non riconducibili al vecchio Zentralgebiet, in Europa innanzitutto, e, come appare dall’elezione di Trump, anche negli USA, fanno emergere una nuova opposizione amico/nemico, ideologicamente meno definita, ma, almeno potenzialmente, virulenta. Appare evidente che tale contrapposizione, come mi è capitato di scrivere di recente, è quella tra nazione (identità nazionale) e globalizzazione[34]; (o internazionalismo “diretto”). Rispetto ai vecchi  “Zentralgebiet”, specialmente quello generante l’opposizione borghesia/proletariato, ha in comune il carattere di essere divisiva sul piano interno non meno che su quello esterno: genera partiti populisti che si contrappongono all’élite interne ed internazionali, rappresentate dai vecchi partiti in decadenza, la cui strategia di sopravvivenza è spesso coerente con l’emergere della nuova opposizione (che rende secondaria e poco rilevante la vecchia): tendono all’arroccamento, al fare blocco tra loro (la vecchia destra e la vecchia sinistra), per impedire la presa del potere alla nuova “coppia” amicus-hostis[35].

Anche se, spesso, più che di arroccamento è il caso di parlare di divergenze parallele. Ma le divergenze parallele sono una delle fonti delle alleanze tra soggetti differenti su tanto o tutto (o tanto) ma uniti dal nemico.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

[1] V. op. cit., trad. it. Milano 1970, p. 40.

[2] Op. cit., p. 38.

[3] Il concetto del politico in Le categorie del politico, Bologna 1972, p. 110.

[4] Op. cit., p. 114 (il corsivo è mio)

[5] V. “L’equivalenza ‘politico’ = ‘politico-di partito’ è possibile allorché l’idea di unità politica (lo «Stato») comprende tutto e in grado di relativizzare tutti i partiti politici al suo interno e le loro conflittualità…Quando all’interno di uno Stato i contrasti fra i partiti politici sono divenuti «i» contrasti politici tout-court, allora viene raggiunto il grado estremo di sviluppo della «politica interna», cioè diventano decisivi per lo scontro armato non più i raggruppamenti amico-nemico di politica estera, bensì quelli interni allo Stato”, op. cit., p. 115.

[6] E prosegue “Da queste contrapposizioni specifiche di questi settori della vita umana non è possibile far discendere il raggruppamento amico-nemico e perciò neppure la guerra. La guerra non ha bisogno di essere né religiosa, né moralmente buona né redditizia”, op. cit., p. 119.

[7] Op. loc. cit., e prosegue “Il problema continua dunque ad essere sempre lo stesso: se cioè un raggruppamento amico-nemico di tal genere esista oppure no come possibilità reale o come realtà, senza che importi quali motivi umani sono forti abbastanza da provocarlo”.

[8] V. in Le categorie del politico, cit. p. 167 ss.

[9] V. “L’umanità europea ha compiuto, dal XVI secolo, parecchi passi da un centro di riferimento all’altro e che tutto ciò che costituisce il contenuto del nostro sviluppo culturale si trova sotto l’influsso di quei passi. Negli ultimi quattro secoli della storia europea la vita spirituale ha avuto quattro centri diversi, e il pensiero dell’élite attiva, che costituiva il gruppo di punta nei diversi momenti, si è mosso, nei diversi secoli, intorno a centri di riferimento diversi”, op. cit., p. 169.

[10] Op. cit., p. 173; e prosegue “Così per un’epoca teologica tutto procede da sé, una volta ordinate le questioni teologiche; su tutto il resto allora gli uomini «saranno d’accordo». Lo stesso per le altre epoche” (il corsivo è mio).

[11] Op. cit., p. 174 (il corsivo è mio).

[12] Op. loc. cit.

[13] Op. cit., p. 178.

[14] Op. cit., p. 179, e prosegue “Le costruzioni di Saint-Simon e di altri sociologhi che aspettavano una società «industriale» sono o non tecniche allo stato puro, bensì mescolate in parte cpon elementi morale-umanitari, in parte con elementi economici, oppure semplicemente fantastiche. Neppure una volta la guida e la direzione dell’economia odierna è stata nelle mani dei tecnici e finora nessuno è ancora riuscito a costruire un ordine sociale guidato da tecnici in modo diverso da come avrebbe costruito una società senza guida e senza direzione”.

[15] “Le nostre opinioni sugli Dei, la nostra sicura scienza degli uomini ci insegnano che da sempre, per invincibile impulso naturale, ove essi, uomini o Dei, sono più forti, dominano, Non siamo noi ad aver stabilito questa legge, non siamo noi che questa legge imposta abbiamo applicata per primi. Era in vigore quando ce l’hanno trasmessa, e per sempre valida la lasceremo noi che la osserviamo con la coscienza che anche voi, come altri, ci imitereste se vi trovaste al nostro grado di potenza” La guerra del Peloponneso, V, 105.

[16] A proposito di de Gaulle l’Europa, dall’Atlantico agli Urali, rivelava chiaramente l’aspirazione a relativizzare l’ostilità tra Nato e Patto di Varsavia e così la scriminante.

[17] Essence di Politique, Paris 1965 p. 496

[18] V. G. Gentile, Genesi e struttura della società, rist. Firenze 1987, p. 125.

[19] Scrive Gentile che lo Stato vivo (cioè vitale) ha necessità del sentimento politico “Questa struttura dev’essere viva; come può essere soltanto se è un sentire: sentimento politico, segreta scaturigine di ogni passione con cui si dispiegherà l’attività politica dell’individuo; inaridita la quale, l’azione politica, priva di sincerità e calore, si vuoterà d’ogni energia costruttiva, e decadrà a semplice velleità dilettantesca” e prosegue “Quanto più vigoroso tale sentire, tanto più potente ed efficace l’azione politica” op. cit. p. 126

[20] Questo appare il significato che al consenso da Gentile “Come il diritto positivo è negato nell’attualità dell’azione etica, così ogni opposizione di Governo e governati cade nel consenso di costoro, senza del quale il Governo non si regge. Questo consenso sarà spontaneo, o sarà coatto. E la moralità dello Stato, in cui il Governo esercita la sua autorità, richiede un massimo di spontaneità ed un minimo di coazione; senza che l’una possa mai star da sé, scompagnata dall’altra…perché nessuno dei due termini può stare senz’altro; e la necessità della loro sintesi deriva dalla profonda natura sintetica dell’atto spirituale” op. cit. p. 60

[21] Scrive Gentile “La pace si determina e definisce in un sistema, che è l’ordine sociale, il cui mantenimento è il primo assunto in ogni Stato; e alla conservazione, a tale essenziale e fondamentale e fondamentale bisogna, nessuno potrà pretendere mai che basti a provvedere la polizia. La quale potrà aiutare a tal fine; ma se l’ordine regni negli animi per virtù del sentimento politico in cui lo Stato s’impianta e da cui soltanto può ricavare le sue linfe vitali. La polizia è una medicina. Ma come non c’è medicina che possa mantenere im vita un organismo minato da un interno principio di disfacimento, non c’è polizia che possa restituire la sanità del corpo dello Stato da cui sia sfuggitala vis medicatrix naturae”op. cit. pp.124-125

[22] In effetti De Maistre scrive che “è l’immaginazione che perde le battaglie”, ma, in certa misura, vale anche per le guerre Soirées de Saint-Petersbourg, trad. it. p. 407, Milano 1970. A tale proposito tale conclusione ne era tratta da Gustave Le Bon il quale sosteneva che spesso “La disfatta non è evidentemente che il risultato di un impressione meramente psicologica e nient’affatto un’ineluttabile necessità” (v. Psicologia politica, Roma 1997, p. 93).

[23] Questa è stata la conclusione di molte guerre di liberazione: da quella vietnamita a quella d’Algeria, alla sovietico-afgana (e molte altre).

[24] Spesso tali esternate intenzioni corrispondono allo scopo reale, ma, almeno altrettante volte, non è così.

[25] Quali esempi nella storia moderna, si possono ricordare, per il primo tipo, la caduta dei governi (e poi dei regimi) di socialismo reale nell’est-europeo; anche se, nel caso, l’intervento dell’antagonista (gli USA e la NATO) è stato poco rilevante e del tutto indiretto. Infatti la causa endogena, ovvero l’impopolarità dei regimi che rendeva problematico il rapporto amicale tra governanti e governati, è stato totalmente (o quasi totalmente) determinante. Ciò conferma tuttavia che il rapporto amicale è decisivo: senza questo, alla lunga, qualsiasi regime politico crolla, anche senza l’intervento di altri soggetti poilitici. Altro caso, dello stesso tipo anche se ottenuto in parte con mezzi militari è la crisi di Cipro nel 1974 e la caduta del governo Joannides; del secondo, la fine del regime è stato il crollo zarista e la presa del potere da parte dei bolscevichi; del terzo la fine della Cecoslovacchia nel 1939 con l’assorbimento nel Reich di Boemia e Moravia e la nascita della repubblica slovacca di mons. Tiso. In tutti questi (ed altri) casi i mezzi militari non sono stati usati per nulla o, se usati, non sono stati decisivi. A esserlo è stata l’attenuazione o la scomparsa del rapporto amicale e del sentimento ostile.

[26] A. Gentili op. cit. p. 78 o anche nel discorso di Cromwell citato da Carl Schmitt “[Perché infatti il vostro grande nemico è lo Spagnolo. Egli è un nemico naturale. Ed è naturalmente così, a causa di quell’inimicizia  che è in lui o contro tutto ciò che è di Dio. Tutto ciò che di Dio è in voi, o potrebbe essere in voi]. Poi egli ribadisce: lo spagnolo è il vostro nemico, la sua «enmity is put into him by God» [inimicizia è posta in lui da Dio], egli è «the natural enemy, the providential enemy» [il nemico naturale, il nemico provvidenziale], che lo ritiene un «accidental enemy» [nemico accidentale] non conosce la Scrittura e le cose di Dio, il quale ha detto: «Io porrò inimicizia  fra il tuo seme e il suo seme» (Genesi, III, 15)” V. C. Schmitt in Der begriff des politischen rad. It. ne Le categorie del politico (cit. p. 154).

[27] Sempre A. Gentili sostiene che “Se esistessero davvero delle cause dipendenti dalla natura, la guerra che ne conseguirebbe sarebbe sicuramente giusta. Ma cause  di questo genere non esistono Gli uomini non sono nemici tra di loro per natura; sono le attività e i costumi che, a seconda della loro compatibilità o incompatibilità, li inducono alla concordia o alla discordia” op. cit. p. 80.

[28] Sulla scorta di due noti frammenti di Digesto è normalmente escluso che possa esserlo chi non è sovrano (e per cause non pubbliche) Dig. L, 16, 118 (Pomponio) e Dig. XXXXVIIII, 15,24 (Ulpiano)

[29] Sul punto v. Santi Romano voce Rivoluzione in Frammenti di un dizionario giuridico, cit. p. 224.

[30] V. La democrazia in America, trad. it. Torino 1968, p. 811 ss.; si può anche ricordare, quale integrazione al giudizio di Tocqueville quanto scrive Schmitt “Grandi masse di popoli industrializzati aderiscono ancora oggi ad una cupa religione del tecnicismo poiché esse, come tutte le masse, cercano la conseguenza radicale e credono di aver trovato qui la spoliticizzazione assoluta che si rincorre da secoli e con la quale cessa la guerra ed inizia la pace universale. Eppure la tecnica non può far nulla quanto a facilitare la pace o la guerra, essa è pronta ad entrambe le soluzioni allo stesso modo e non muta nulla richiamare o scongiurare la pace. Ormai siamo in grado di penetrare la nebbia dei nomi e delle parole con le quali lavora la macchina psicotecnica della suggestione di massa”.

[31] Anche se oggi, come nei secoli passati per lo più contrasto del genere non hanno dato luogo a conflitti tra simbiosi politiche, la contrapposizione nella lotta politica interna anche se minore è sempre riconducibile alla coppia amico-nemico.

[32] “Esempi notevoli di statisti di stampo occidentale nel primo secolo dopo l’inizio della Rivoluzione industriale in Inghilterra sono Ranjit Singh (sul trono dal 1799 al 1839), il fondatore dello stato sikh epigone dell’impero afghano degli Abdali, nel Punjab; Mehmet Alì, viceré del padishah ottomano in Egitto dal 1805 al 1848; il padishah ottomano Mahmud II (che regnò dal 1808 al 1839) il re Mongkut di Thailandia… Questi Stati occidentaleggianti ebbero sulla storia dell’Ecumene conseguenze più importanti di qualunque altro stato loro contemporaneo d’Occidente: avevano contenuto l’egemonia dell’Occidente e avevano realizzato questa impresa proprio attraverso la diffusione, nelle terre non occidentali, del suo moderno sistema di vita”, v. Il racconto dell’uomo, Garzanti 1977, p. 574; e per il rifiuto “Nel 1632 gli Abissini (gli odierni Etiopi) espulsero i Portoghesi e anche i gesuiti di ogni nazionalità, per isolarsi dal resto dell’Ecumene, senza ricorrere ad alcun aiuto straniero. Quasi contemporaneamente, i Giapponesi seguivano l’esempio: Hideyoshi aveva ordinato già dal 1587 l’espulsione dei missionari cristiani, e nel 1614 il governo tokugawa promulgava un editto che metteva al bando in Giappone la pratica del cristianesimo”, op. cit., p. 539

[33] Anche se talvolta la funzione ancillare riveste un ruolo, anche se secondario, comunque rilevante

[34] V. Nazione e globalizzazione in Nova Historica anno 15, n. 56 2016, pp. 39 ss.

[35] Il fatto si è ripetuto con le regionali francesi, ossia con la “desistenza” tra socialisti e gaullisti per impedire che il Front national governasse delle regioni francesi; con lo sbarramento nelle presidenziali austriache ad Hofer, manifestatosi nell’invito dei socialisti e dei popolari a votare Van der Bellen al secondo turno ed anche nella recente elezione di Trump che ha dovuto lottare prima con lo scarso gradimento dei repubblicani, poi con la candidata democratica manifestamente preferita dall’establishment. Anche se in questo caso più che di arroccamento è il caso di parlare di divergenze parallele. Ma le divergenze parallele sono una delle fonti delle alleanze tra soggetti differenti su tutto (o tanto) ma uniti dal nemico.

1 42 43 44 45 46 51