LA FINANZA, UNO STRUMENTO DI LOTTA TRA LE NAZIONI EUROPEE SOTTOPOSTE ALLE STRATEGIE USA 4a parte (a cura di) Luigi Longo

LA FINANZA, UNO STRUMENTO DI LOTTA TRA LE NAZIONI EUROPEE SOTTOPOSTE ALLE STRATEGIE USA

(a cura di) Luigi Longo

 

 

Propongo la lettura di quattro scritti di cui il primo sull’euro, sullo spread e sul rapporto tra l’Italia e la Germania; il secondo sul non rispetto delle regole europee da parte della Bundesbank nell’emissione dei titoli del debito pubblico; il terzo sul debito pubblico; il quarto sulla necessità di un principe che con dura energia sappia rialzare la Nazione da uno stato di degrado economico, politico e sociale.

I due scritti di Domenico de Simone, un economista “radical”, sono apparsi sul sito www.domenicods.wordpress.com, rispettivamente in data 27/5/2018 e 18/2/2014, con i seguenti titoli: 1) italiani scrocconi e fannulloni? tedeschi truffatori e falsari!; 2) Con la scusa del debito.

Lo scritto di Domenico De Leo, economista, è apparso sul sito www.economiaepolitica.it in data 7/12/2011, con il seguente titolo: L’eccezione tedesca nel collocamento dei titoli di stato.

Per ultimo propongo lo stralcio dello scritto di G.W.F. Hegel dal titolo: Il “Principe” di Macchiavelli e l’Italia che è stato pubblicato in Niccolò Macchiavelli, Il Principe, a cura di Ugo Dotti, Feltrinelli, Milano, 2011, pp. 246-248.

L’idea di questa proposta è scaturita seguendo con grande fatica la crisi politica e istituzionale che si è innescata a partire dalle elezioni politiche del 4 marzo scorso: è irritante fare analisi politiche di grandi questioni (sic) a partire dalle elezioni politiche che sono teatrini indecenti con maschere penose e tristi, così come tristi sono le relazioni di potere!

Si parla in questi giorni di questioni come la difesa dell’euro, il debito pubblico, il pareggio di bilancio, lo spread, l’Unione Europea, la Costituzione violata, eccetera, velando i veri problemi che sono quelli dati dalla mancanza di sovranità nazionale (indipendenza, autonomia e autodeterminazione) e da una Europa che non esiste come soggetto politico (non è mai esistita storicamente): questa Unione europea, economica e finanziaria è figlia delle strategie egemoniche mondiali statunitensi.

L’Europa è una espressione geografica storicamente data a servizio degli Stati Uniti dove i sub-dominanti vogliono tutelare i propri interessi nazionali, svolgere le proprie funzioni per accrescere il loro potere sotto l’ala protettiva e allo stesso tempo minacciosa degli Stati Uniti (egemonia nelle istituzioni internazionali e nella Nato) a scapito degli interessi della maggioranza delle popolazioni nazionali ed europee (gli scritti di Domenico de Simone e di Domenico De Leo chiariscono molto bene il ruolo di potere degli agenti strategici che usano gli strumenti della finanza nel conflitto per la difesa del posto di vassallo europeo da parte tedesca).

La crisi dell’Italia (crisi di una idea di sviluppo e di una comunità nazionale inserite in una crisi d’epoca mondiale) va vista nel ruolo che l’Italia svolge nelle strategie statunitensi: sul territorio italiano ci sono fondamentali infrastrutture (immobili e mobili) militari a servizio degli Usa, nel Mediterraneo, nel Medio Oriente e in Oriente. Gli Usa-Nato stanno cambiando le città e i territori, stanno distruggendo le industrie di base, stanno rimodellando le economie dei territori; il Pentagono decide gli investimenti e le infrastrutture necessari; in definitiva hanno compromesso le basi per lo sviluppo di una discreta potenza del Paese: ci restano solo il cosiddetto made in Italy e il piccolo, medio è bello (sic). Il segretario di Stato USA, Mike Pompeo, facendo gli auguri al popolo italiano per la festa della Repubblica, ha detto che “La nostra continua cooperazione economica, politica e sulla sicurezza è vitale (corsivo mio) per affrontare le sfide comuni, tra cui il rafforzamento della sicurezza transatlantica e la lotta al terrorismo in tutto il mondo”.

Lo sbandamento dei sub-decisori italiani non è dovuto alla ricerca di un percorso di sovranità nazionale, da cercare con altre nazioni europee, per ripensare un’Europa come soggetto politico autonomo ( le cui forme istituzionali sono da inventare); ma esso è dovuto al conflitto interno agli USA dove si scontrano le visioni diverse dell’utilizzo dello spazio Europa in funzione delle proprie strategie egemoniche mondiali: 1) una Europa sotto il coordinamento del vassallo tedesco e del valvassore francese con la costruzione di uno Stato europeo?; 2) una Europa delle Nazioni singole?; 3) una Europa ridisegnata con la creazione di regioni?; 4) una Europa riorganizzata in aree << secondo le linee che marcano lo sviluppo storico>>?

La nuova sintesi dei dominanti statunitensi basata su un’idea di sviluppo con una diversa organizzazione sociale ( se mai ci sarà, considerato l’atroce conflitto in atto che indica l’inizio del declino dell’impero) dirà quale Europa sarà funzionale al rilancio egemonico mondiale.

E’ bastato che alcune forze politiche sistemiche proponessero ( non a livello di azione, che presuppone ben altre analisi e ben altri processi) aggiustamenti tecnici, maggiore equità, una ri-sistemazione sistemica delle gerarchie consolidate, una maggiore difesa dei propri interessi nazionali in funzione di una migliore Europa atlantica, che la reazione del potere sub-dominante europeo (soprattutto tedesco) fosse violenta, scomposta e rozza.

Il ruolo di garante di questa Europa legata ai dominanti statunitensi, che si configurano nel blocco democratico – neocon – repubblicano ( di questo blocco sono da capire meglio gli intrecci dei decisori della sfera politica), che vogliono una Europa coordinata dal vassallo tedesco, è rappresentato, in Italia, dal Presidente della Repubblica (oggi Sergio Mattarella, ieri Giorgio Napolitano). Il gioco istituzionale di Sergio Mattarella è da inquadrare in questa logica, altrimenti non si capiscono bene le contraddizioni, i paradossi, le sbandate e le ipocrisie di tutta la sfera politica. Attardarsi sul rispetto della Costituzione da parte del Presidente della Repubblica è un non sense perché la Costituzione è una espressione dei decisori e non del popolo. Le regole, le norme, i principi che regolano i rapporti sociali di una Comunità nazionale sono in mano a pochi e non a molti. Come insegna la cultura antica, soprattutto greca, quando le regole del legame sociale non sono decise dalla maggioranza non c’è nè democrazia nè libertà.

Occorre riflettere sulla tragica situazione in cui si trova l’Italia in particolare, e più in generale l’Europa, per trovare una strada che non sia solo elettorale, che non sia solo tecnica-finanziaria, che non veda la finanza come un dominio ma come uno strumento di potere in mano agli agenti strategici sub-dominanti europei e pre-dominati statunitensi. << Oggi si parla tanto della finanziarizzazione del capitale e del suo strapotere. Magari vedendo in questo processo l’avvicinarsi di una crisi catastrofica. Ma la finanza è solo un fattore fra altri, non isolabile, dello scontro per la supremazia fra i gruppi dominanti. Il capitale finanziario insomma rappresenta i conflitti in atto tra diverse forze e strategie politiche, combattuti con l’arma del denaro. Se vogliamo allora comprendere gli squilibri e le crisi che caratterizzano il capitalismo contemporaneo dovremmo addentrarci in un complesso intreccio tra funzioni finanziarie e politiche e nelle contraddizioni tra la razionalità strategica che prefigura assetti di potere e la razionalità strumentale che mira ai vantaggi immediati dell’economia. Al fondo vi è sempre lo scontro tra gruppi dominanti.>> (Gianfranco La Grassa, Finanza e poteri, Manifestolibri, Roma, 2008).

Per questo il rito delle elezioni è diventato sempre più inutile (l’esempio greco, e non solo, è significativo!) e mano a mano che si entrerà sempre di più nella fase multicentrica si renderà sempre più palese l’ideologia della partecipazione popolare alle decisioni del Paese tramite il voto elettorale, alla faccia della Costituzione!

La fase multicentrica impone una ri-considerazione sul ruolo della sovranità nazionale per ri-costruire una Europa delle nazioni sovrane che chiarisca il suo rapporto con gli USA e guardi ad Oriente.

 

Per comodità di lettura gli scritti proposti sono stati divisi e pubblicati in quattro parti, ciascuna preceduta dalla mia introduzione.

 

 

QUARTA PARTE

 

 

Il “Principe” di Macchiavelli e l’Italia*

di G.W.F. Hegel

 

 

[…] Non passò molto tempo da quando le singole parti d’Italia ebbero dissolto lo stato prima esistente e furono ascese all’indipendenza, che esse stimolarono l’avidità di conquista delle potenze più grandi e diventarono il teatro delle guerre delle potenze straniere. I piccoli stati che si contrapposero, sul piano della potenza, ad una potenza mille e più volte maggiore, ebbero a subire il loro necessario destino, la rovina: e accanto al rimpianto si prova il sentimento della necessità e della colpa imputabile a pigmei che, ponendosi accanto a colossi, ne vengono calpestati. Anche l’esistenza dei maggiori stati italiani, che si erano formati assorbendo una quantità di stati minori, continuò a vegetare senza forza e senza vera indipendenza, come una pedina nei piani delle potenze straniere; si conservarono un po’ più a lungo per la loro abilità  nell’umiliarsi avvedutamente al momento giusto, e di tener lontano, con continue mezze sottomissioni, quell’assoggettamento totale che da ultimo non poté mancare. […] In questo periodo di sventura, quando l’Italia correva incontro alla sua miseria ed era il campo di battaglia delle guerre che i principi stranieri conducevano per impadronirsi dei suoi territori, ed essa forniva i mezzi per le guerre e ne era il prezzo; quando essa affidava la propria difesa all’assassinio, al veleno, al tradimento, o a schiere di gentaglia forestiera sempre costose e rovinose per chi le assoldava, e più spesso anche temibili e pericolose – alcuni dei capi di essi ascesero al rango principesco -; quando tedeschi, spagnoli, francesi e svizzeri la mettevano a sacco ed erano i gabinetti stranieri a decidere la sorte della nazione, ci fu un uomo di stato italiano che, nel pieno sentimento di questa condizione di miseria universale, di odio, di dissoluzione e di cecità, concepì, con freddo giudizio, la necessaria idea che per salvare l’Italia bisognasse unificarla in uno stato. Con rigorosa consequenzialità egli tracciò la via che era necessaria, sia in vista della salvezza sia tenendo conto della corruttela  e del cieco delirio del suo tempo, ed invitò il suo principe a prendere per sé il nobile compito di salvare l’Italia, e la gloria di porre fine alla sua sventura […]

E’ facile rendersi conto che un uomo il quale parla con un tono di verità che scaturisce dalla sua serietà non poteva avere bassezza nel cuore, né capricci nella mente. A proposito della bassezza, nella opinione comune già il nome di Macchiavelli è segnato dalla riprovazione: princìpi machiavellici e princìpi riprovevoli sono, per lei, la stessa cosa. Il cieco vociare di una cosiddetta libertà ha tanto soffocato l’idea di uno stato che un popolo si impegni a costituire, che forse non bastano né tutta la miseria abbattutasi sulla Germania nella Guerra dei sette anni, e in quest’ultima guerra contro la Francia, né tutti i progressi della ragione e l’esperienza delle convulsioni della libertà francese per innalzare a fede dei popoli o a principio della scienza politica questa verità: che la libertà è possibile solo là dove un popolo si è unito, sotto l’egida delle leggi, in uno stato.

Già il fine che Macchiavelli si prefisse, di innalzare l’Italia ad uno stato, viene frainteso dalla cecità, la quale vede nell’opera di Macchiavelli nient’altro che una fondazione di tirannia, uno specchio dorato presentato ad un ambizioso oppressore. Ma se anche si riconosce quel fine, i mezzi – si dice – sono ripugnanti: e qui la morte ha tutto l’agio di mettere in mostra le sue trivialità, che il fine non giustifica i mezzi, ecc. Ma qui non ha senso discutere sulla scelta dei mezzi, le membra cancrenose non possono essere curate con l’acqua di lavanda. Una condizione nella quale veleno ed assassinio sono diventate armi abituali non ammette interventi correttivi troppo delicati. Una vita prossima alla putrefazione può essere riorganizzata solo con la più dura energia.

 

 

*Lo scritto di Hegel sulla situazione italiana e Macchiavelli, che qui presentiamo (il titolo è redazionale), è tratto dal nono capitolo della Costituzione della Germania ( La formazione degli stati nel resto d’Europa). E’ dato nella traduzione italiana di C. Cesa, in G.W.F. Hegel, Scritti politici, Torino, Einaudi, 1972, pp. 101-108. Si ringraziano traduttore ed editore per la gentile concessione.

 

 

INTRODUZIONE ALLA “POLITICA COME DESTINO”_2A PARTE, di Teodoro Klitsche de la Grange

http://italiaeilmondo.com/2018/07/02/introduzione-alla-politica-come-destino_1a-parte-di-teodoro-klitsche-de-la-grange/

Qui sotto la seconda parte del saggio di TKdlG. Continuiamo per tanto con la pubblicazione di testi alquanto interessanti riguardanti l’approccio al “politico” del pensiero liberale “forte” in contrapposizione e critica al pensiero liberale “debole” ancora nettamente predominante, se pure in crisi nella sua capacità persuasiva. Il discrimine tra le due varianti riguarda appunto l’atteggiamento verso e l’analisi della funzione del politico, inteso nella sua essenza e nella sua relazione con i diversi ambiti dell’agire umano. Il peso ancora minoritario della componente realista di questa corrente di pensiero è evidenziato dal misconoscimento dell’importanza, in particolare in Italia, di pensatori come Julien Freund e dalla demonizzazione e travisamento di altri come Carl Schmitt. Essa, la sua componente “realista” appunto, al contrario rientra a pieno titolo nell’alveo del dibattito sul conflitto strategico tra centri decisionali ripreso ed elaborato ultimamente in Italia da Gianfranco La  Grassa. E’ il nuovo punto di incontro e di confronto decisivo di varie correnti del pensiero politico cresciuto ed affermatosi nel ‘800 e nel ‘900 e ormai giunto ad una drammatica crisi delle proprie chiavi di interpretazione. Teodoro Klitsche de la Grange continua ad offrire da par suo il proprio contributo e ad alimentare il dibattito intrapreso pure da questa redazione, in particolare da Massimo Morigi e Luigi Longo. Buona lettura_Germinario Giuseppe

Sotto un altro profilo la concezione di Schmitt, corroborata dalle regolamentazioni normative che cita[1], è in linea con il “fattuale”. La regolamentazione/previsione dei poteri eccezionali è aderente alla realtà e alla necessità: se le costituzioni possono scegliere, disporre e regolare o meno i poteri eccezionali (cioè abolirli o non istituirli) non possono abolire le situazioni eccezionali. Solo l’Onnipotente può evitare guerre, calamità naturali, crisi economiche. Così un liberalismo realistico non può non prescrivere la normativa necessaria in siffatte emergenze; ed in effetti in quasi tutte le costituzioni lo dispone. Dove non è prescritta vale la regola di Jhering, e più ancora di Santi Romano: che “la necessità fa legge” ossia che è sicuro che nella situazione d’emergenza la costituzione sarà violata. E, se non violata, probabilmente sarà distrutta l’istituzione politica. Cosa che il liberalismo “ideale” – o almeno parte di esso – non considera, contrariamente a Schmitt, la cui critica è quindi confortata dalla storia.

  1. Sempre il liberalismo esangue (e post-moderno, ma non solo) ha, se non abolito, messo tra parentesi il nemico (e la guerra); senza considerare sia la possibilità concreta che l’ostilità degeneri in guerra, sia soprattutto che gli interessi contrapposti, non possano essere conciliati con procedure giuridiche (trattati, mediazioni, Tribunali internazionali). Già da prima Constant e Spencer ritenevano le società orientate ad attività economiche tendenzialmente pacifiche; e Schmitt critica Constant perché considerava le società orientata al commercio (e al benessere economico) meno guerrafondaie delle comunità tradizionali.

Il tempo si è incaricato se non di contraddire, almeno di ridimensionare questa concezione. La diffusione nel periodo dell’imperialismo (classico) e cioè nel XIX secolo (ed oltre) di guerre dettate da motivi economici, d’altra parte tutt’altro che sconosciute prima (e dopo), ne è la prova[2].

Nella successiva “fase” tardo-moderna (e post-moderna) si è creduto di trasferire dall’economico e addossare al diritto il fardello di poter eliminare e/o ridurre (e decidere) i conflitti non solo all’interno – che è più naturale – ma anche all’esterno della sintesi politica. Ma se all’interno c’è comunque il soccorso della sintesi politica “totale e decisiva” col monopolio della violenza legittima e della decisione in ultima istanza, cioè sovrana e (spesso apparentemente) “neutra”, all’esterno mancano l’uno e l’altra.

Il che ha condotto a derogare, nel corso del XX secolo al principio internazionalistico che “par in parem non habet jurisdictionem”, attivando istituzioni e Tribunali internazionali, sia per la soluzione di controversie con (e tra) Stati e tra privati e Stati, sia per giudicare, specialmente dopo le guerre, i vinti da parte dei vincitori[3]. Il tutto in nome di un “diritto” universale che, al di là delle buone intenzioni, ha perso di vista come il diritto abbia anche, necessariamente, un momento (e apparati) d’applicazione. La fase successiva è stata di promuovere guerre – non denominate tali – in nome dei “diritti umani” che per lo più, al di là delle buone intenzioni – sempre presenti – hanno dimostrato che è solo la proporzione delle forze a determinare se, in quei Tribunali si è giudicati (e prima ancora, se il “reo” è debellabile senza (o con pochi rischi); onde, successivamente, i capi dell’unità politica “pacificata”, sono giudicati dalle apposite Corti (internazionali o meno). Perché un’operazione di peacekeeping contro una potenza, anche media, ancorché notoriamente vi si pratichi la violazione dei diritti umani, non si è finora vista. Spedizioni punitive del genere (e successivi giudizi dinanzi a Corti internazionali) sono state promosse in conflitti (prevalentemente) etnici, relativamente a entità statali minori e gruppi politici non consolidati, privi di strumenti militari decisivi, ed hanno visto sfilare come imputati generali e politici balcanici o dell’Africa nera.

Nessuno dei quali aveva il potere d’opporsi realmente all’operazione benintenzionata come avrebbero potuto fare tanti altri, perciò al riparo da interventi umanitari. Il che conferma il detto di Hegel che non c’è Pretore tra gli Stati[4]; perché fondandosi ciò su volontà particolari sovrane, avrebbe carattere “accidentale”. Più che altro mentre a fondamento della giustizia statale c’è un istituzione, di per sé generale, superiore, decisiva e durevole, a base di quella internazionale vi sono soltanto uffici (chiamarli organi è forse eccessivo), la cui esistenza è frutto di accordi e trattati particolari e pertanto carente (del carattere) di “istituzionalizzazione”, politica in specie.

Anche in tal caso la critica di Schmitt coglie nel segno: non appare realistico né confermato dalla storia che possano eliminarsi o ridursi drasticamente i conflitti e quindi l’inimicizia politica che ne deriva, né per l’orientamento sociale all’attività ed al benessere economico, né per decisione dei Tribunali[5].

Come la costituzione è l’assetto e l’organizzazione della comunità politica, in base all’insopprimibile (Freund) presupposto del politico  del comando/obbedienza; così non è possibile eliminare dal mondo la lotta e il nemico, altro presupposto del politico.

A base di tali illusioni c’è la credenza che sia possibile trovare, tra esseri razionali, un punto d’incontro, malgrado diverse visioni del mondo. Max Weber assicurava che si arriva comunque a valori non negoziabili e non vi è modo di conciliarli[6]. Un acuto studioso argentino come Bandieri, ha qualificato una delle correnti riconducibili a un (vago) liberalismo esangue, e cioè il c.d. “neocostituzionalismo”, come positivismo di valori, che distingue da quello di Kelsen (ed epigoni) che è positivismo di norme.

Nei casi estremi (quelli che più contano), tra comunità riconoscentesi in “tavole di valori” inconciliabili una decisione giuridificata o meglio (e soprattutto) giurisdizionalizzata, è pertanto impossibile.

Valitutti sostiene che “secondo Schmitt, l’unità politica è sempre unità decisiva, sovrana e totale. Egli scrive, e noi lo abbiamo già riferito, che è totale perché l’uomo viene afferrato tutto alle radici stesse del suo essere dalla partecipazione politica alla quale egli si da. Aggiunge incisivamente che la politica è destino… Il destino è il fatum in senso greco-latino, cioè una necessità superiore e ineluttabile. Per Schmitt il totalitarismo politico è il destino in questo significato”.

Conseguenza di ciò è che “il nostro è un tempo nel quale la distinzione schmittiana tra amicus e hostis, come distinzione totale e totalizzante, fornisce il criterio interpretativo di porzioni e manifestazioni cospicue della nostra realtà politica e sociale”[7]. Secondo il liberale italiano questo iperpoliticismo è viziato: “Il vizio, se così possiamo chiamarlo, attraverso il quale passa nella realtà effettuale il totalitarismo politico, è quello stesso attraverso il quale passa l’unilateralità dell’apoliticismo, cioè la reductio ad unum della multiforme vita spirituale dell’uomo”. L’apoliticismo è frutto non tanto del primato del Bourgeois sul citoyen ma dell’essere in corso “una grande rivoluzione utilitaristico-edonistica, che ha le sue armi nella scienza e nella tecnica e che è liberatrice di ingenti forze già compresse, ma che intanto produce uno squilibrio della vita spirituale”[8]. Nella vita spirituale del (tardo) XX secolo (ma anche oggi) è sovrana la praxis[9]. Così si crea uno squilibrio, riduttivo della comune umanità[10].

Il tutto presuppone, scrive Valitutti, la priorità della figura dell’hostis anche su quella dell’amicus[11].

  1. A considerare la critica di Valitutti a Schmitt, ancorché le censure del primo al secondo siano centrate, occorre valutarle nel contesto del pensiero di Schmitt, oggigiorno maggiormente noto al lettore italiano per la traduzione quasi integrale dell’opera del giurista di Pletteberg e per i contributi che ha suscitato.

Valitutti rimprovera a Schmitt l’ “iperpoliticismo” e, ad esso strettamente collegata, una concezione per così dire “settoriale” dell’uomo. Tuttavia l’intero pensiero di Schmitt è orientato allo stato d’eccezione. Come scrive nella Politische theologie nella situazione d’emergenza “L’esistenza dello Stato dimostra qui un’indubbia superiorità sulla validità della norma giuridica”[12]. Quindi l’eccezione, e la guerra, che dello stato d’eccezione è l’aspetto più rilevante, non nega la normalità, ma ne ridimensiona l’importanza e la stessa capacità di comprendere interamente il diritto, pubblico in particolare. Il diritto è norma ed eccezione: è ordinamento della vita della comunità e questa è fatta sia di situazioni normali che di eccezionali.

La critica al costituzionalismo liberale esangue consiste così proprio nel fatto che non considera l’unità e la completezza dell’ordinamento e che questa ricomprende sia norme che ordinamento, sia comando che obbedienza, legittimità oltre che legalità, forza e norma, principi di forma politica e principi dello Stato borghese. E dimentica che in tante occasioni, come nella seconda guerra mondiale, l’esistenza politica delle democrazie liberali è stata difesa anche con bombardamenti indiscriminati (atomici e non), non proprio da considerare mezzi umanitari. Alla fine le teorie da Schmitt criticate sono più che errate, parziali: coperte strette che non coprono e non spiegano l’intero e tantomeno come, proprio nello stato d’eccezione, la parte “politica” prevalga su quella “normativa”. Così avviene anche per gli altri aspetti.

Come l’antropologia di Schmitt: se è vero, come scrive Valitutti, che Schmitt non considera l’uomo “tutto intero” ma enfatizzandone l’aspetto politico, è pure vero che, nel caso di guerra il cittadino (il componente della comunità) ha il dovere di difendere la comunità e così il rischio di morire. Cosa che generalmente non succede nel discutere una teoria scientifica o filosofica.

Quindi è nell’emergenza (e in vista di quella) che lo “squilibrio”  notato da Valitutti, si realizza a causa del montare di quello che Clausewitz chiamava il “sentimento politico”, elemento fondamentale – ancorché non esclusivo – del triedro della guerra[13].

Anche in questo caso il prevalere della politica è ridimensionato proprio dallo (e in vista) dello stato d’eccezione, d’altronde, come scrive Agamben, istituto tipico degli ordinamenti costituzionali moderni.

Piuttosto quanto sostiene Valitutti è spiegabile con il periodo in cui è scritto: in pieno sessantottismo e post-sessantottismo dove  si consumavano le ultime battute del comunismo (prossimo all’implosione), con slogans che ne enfatizzavano il potenziale liberatorio e di conformazione di una nuova società umana, per realizzare la quale nessuno sforzo (e mezzo) doveva essere risparmiato (terrorismo compreso). In quel contesto il personale (era) politico: espressione che coniuga iperpoliticismo con un sotteso edonismo (cioè con la maior pars dell’a-politicismo).

Valitutti fa carico a Schmitt di sottovalutare l’attività spirituale e teorica dell’uomo. Anche qui pare piuttosto che Schmitt segua quanto scrive de Maistre “L’uomo, per il fatto di essere contemporaneamente morale e corrotto, giusto nell’intelligenza e perverso nella volontà, deve necessariamente essere governato”[14]. E, in connessione con la sua antropologia, la perversità della volontà umana, è indipendente dalla (razionalità) e giustizia della sua intelligenza (e, spesso su quest’ultima prevalente).

Va da se che in tale contesto realistico è una nobile quanto illusoria aspirazione pensare che una decisione si possa raggiungere attraverso l’accordo tra uomini razionali, ispirati da imperativi categorici[15].

Quando poi Valitutti stigmatizza come “fantoccio polemico” il liberalismo criticato da Schmitt, la censura è largamente condivisibile. A un liberale italiano, peraltro di formazione  idealistica come Valitutti, non possono che apparire (almeno) parziali e riduttivi gli appunti, pur spesso centrati, di Schmitt al “liberalismo”. Per un liberale italiano il liberalismo è soprattutto “religione della libertà” e, scriveva Croce, come tutte le religioni, crea guerre di religione. Così furono in Italia le guerre civili del 1799 e del 1860 (senza aggiungere quella del 1806) in particolare nel Mezzogiorno. Lo Stato nazionale non fu costruito da congressi, accordi, trattati, sentenze ma da tre guerre interstatali e da una guerra civile (il c.d. brigantaggio). Altro che agreements tra esseri razionali. E di ciò è consapevole ogni liberale che abbia senso storico-politico. Diceva V.E. Orlando che “nulla per noi è più intollerabile della contrapposizione; Libertà e Patria”.

Lo Stato nazionale fu costituito – diversamente che in altri paesi europei – non dalle monarchie assolute, ma dalla collaborazione tra monarchia sabauda e movimento nazionale, di cui i liberali erano  la maior pars e cui era evidente che lo Stato era “nel fatto sorto da un procedimento rivoluzionario”[16].

Il principio politico (la monarchia mista con elementi di democrazia) era coniugato ai principi del Bürgerliche Rechtstaat in uno Stato “rappresentativo”. Il che vaccinava (per lo più) i liberali italiani da certe concezioni riduttive del liberalismo, come quelle criticate dal giurista renano. Lo stesso termine con cui giuristi e scienziati politici del periodo liberale dello Stato nazionale lo qualificavano prevalentemente come rappresentativo[17] è indice sia della consapevolezza del processo di costruzione nazionale (e radicamento) che dell’unione dei principi di forma politica con quelli dello Stato borghese.

C’è un altro aspetto, meno “esclusivo”, ma comunque importante, nel pensiero liberale italiano[18]: è la concezione realistica dell’uomo, l’antropologia (moderatamente) negativa. Questa, tuttavia, è comune a ogni pensiero liberale “forte”.

Già gli autori del Federalista fondavano su quella sia la necessità dello Stato sia quella del costituzionalismo (liberale)[19]. La stessa antropologia realistica è presupposta nelle concezioni di Croce, di Fortunato, Einaudi, Puviani e tanti altri. Soprattutto nel pensiero di Mosca e Pareto l’uomo non è considerato  (solo) essere razionale e soprattutto capace di seguire una condotta  razionale, ma anche dotato di volontà, istinti, pregiudizi in grado di determinare le azioni assai più della razionalità.

Proprio Pareto con la sua teoria dei  residui  (non razionali, corrispondenti ad interessi e istinti  ) e delle derivazioni (apparentemente razionali) ne ha fatto una trattazione analitica “preceduta” dall’ancora più rilevante tra azioni logiche  e azione non logiche: le une e le altre soprattutto in relazione allo                      iato tra scopo perseguito e risultato conseguito.

Anche Mosca giudicava che la grande maggioranza degli esseri umani non agisce in base a convinzioni razionali (scientifiche) ma a illusioni diffuse[20].

Ciò non era carattere “proprio” ed esclusivo del pensiero italiano: ma è, in questo, almeno nel periodo suddetto, particolarmente sviluppato (ed autorevole).

  1. In particolare il fantoccio polemico, che Valitutti critica in Schmitt è ciò che il giurista tedesco vede nei pensatori dallo stesso criticati, ma che non è né il liberalismo storico “classico” – in particolare italiano – né quello che emerge da un’analisi fattuale ma anche giuridico-normativa, sia dei comportamenti che degli ordinamenti dello Stato borghese. È piuttosto quel che risulta da condivisibili aspirazioni che hanno il limite di non considerare o di sottovalutare le costanti ossia, le regolarità della politica (Miglio), con la conseguenza di non spiegare la conformazione dello stesso Stato democratico (o borghese a seguire Schmitt).

In questo senso l’analisi di Valitutti fatta all’inizio della “rinascita” in Italia dell’interesse per il pensiero del giurista renano[21] e in tempi in cui era demonizzato (e misconosciuto) molto più di oggi, è espressione di un coraggio intellettuale e di una pregevole indipendenza e chiarezza di giudizio.

Teodoro Klitsche de la Grange

[1] V. Verfassungslehere, trad. it. cit. p. 154 ss, v. anche pp. 46,56, 236.

[2] D’altra parte Schmitt ha avanzato anche la spiegazione, assai interessante, che ciò dipendeva dalla centralità nello spirito europeo del XIX secolo dell’economia e del conseguente criterio del raggruppamento (principale) di amicus/hostis. Per cui il raggruppamento decisivo è quello borghese/proletario, come evidente in particolare nei bolscevichi e nel concetto di guerra civile mondiale. V. ne Le categorie del politico, Bologna 1972, p. 167 ss.

[3] Anche se la normativa internazionale più recente ha evitato (almeno) che nel ruolo dei giudici vi fossero i vincitori e in quella dei giudicati, i vinti, precostituendo dei giudici non coinvolti.

[4] Hegel spiegava che la rappresentazione kantiana di una pace perpetua, presuppone la concordia tra gli Stati. Considera che questa si baserebbe su fondamentali morali, religiosi ed altri; ma avrebbe “pur sempre per base delle volontà sovrane particolari”, e perciò rimarrebbe affetta da accidentalità. Grundlinien des Philosophie des Recht, trad. it. di V. Cicero, Milano 1995, §333 p. 555

[5] Anzi è l’esistenza e lo svilupparsi del conflitto che rende necessario (per arrivare ad una soluzione dello stesso) ad “internazionalizzare” il diritto derogando a quello normale “interno”, come scriveva Santi Romano, nel caso delle guerre civili (amnistie, scambi di prigionieri, accordi), v. Corso di diritto internazionale, Padova, p. 73. Il processo di cui scrive il giurista è proprio l’inverso di quello criticato e la cui ratio è di applicare per risolverlo istituti di diritto interno. Infatti come nota Santi Romano “Così, in caso d’insurrezione o di guerra civile, le norme di diritto internazionale, specialmente attinenti alla guerra e alla neutralità, vengono spesso riferite agli insorti … Ciò può accadere per diverse ragioni, che però si riducono ad una sola: l’impotenza dello Stato nel quale scoppia l’insurrezione a dominare col suo ordinamento gli autori di essa, per cui lo stesso Stato sente il bisogno, per mitigare la lotta, di condurla secondo le norme internazionali, purchè anche gli insorti adottino uguale comportamento” (il corsivo è mio).

[6] “Tra i valori, cioè, si tratta in ultima analisi, ovunque e sempre, non già di semplici alternative, ma di una lotta mortale senza possibilità di conciliazione, come tra «dio» e il «demonio». Tra di loro non è possibile nessuna relativizzazione e nessun compromesso. V. ora trad. it.. di P. Rossi ne Il metodo delle scienze storico-sociali, Milano 1980, p. 332. Tuttavia prosegue: “Beninteso, non è possibile secondo il loro senso. Poiché, come ognuno ha provato nella vita, ve ne sono sempre di fatto, e quindi secondo l’apparenza esterna, ad ogni passo”. Il che significa che il compromesso è spesso praticabile ma non sempre e non in tutti i casi.

[7] Ed aggiunge “Oggi si sta moltiplicando il purus politicus, l’uomo per cui non esiste che la politica. Poiché la politica è lotta, il purus politicus è un uomo lottante … non poche antitesi si trasformano e si esasperano in antitesi politiche nel senso chiarito da Schmitt, cioè in antitesi tra amici e hostes.

[8] E prosegue “perciò si arrugginiscono, quando non si atrofizzano, quelle altre attitudini che permettono all’uomo di abbracciare tutta la realtà e di nutrirsene, e in particolare le attitudini conoscitive”

[9] “La scienza e la tecnica sono baconianamente ricercate e utilizzate per il cangiamento e il miglioramento delle condizioni di vita. La praxis è sovrana e assorbente e distoglie dalla teoria. È l’impeto della vitalità che ostruisce ad un tempo quelle che il filosofo ha chiamato le fonti della cratività morale e le vie della ricerca della verità”.

[10] Scrive Valitutti che ciò comincia da Marx e dalla celebre 11ª postilla a Feuerbach, per cui compete ai filosofi (futuri) cambiare il mondo più che interpretarlo “Oggi si tende a possedere la realtà solo praticamente e perciò solo utilitaristicamente”. La ragione è “neutralizzata; perde il rapporto con il contenuto oggettivo perché è usato per soli fini utilitari, e non per conoscere la verità”. Da un lato c’è l’apoliticismo la cui conseguenza è che “scarseggiano i fattori unificanti e aumentano quelli dirompenti. Gli uomini si accomunano e concentrano nel godimento del benessere che è intrinsecamente isolante”. E l’altra faccia di questo Giano è il “raggrupparsi politico, in cui il cemento è l’ostilità contro l’hostis, cioè contro il raggruppamento nemico. Tra apoliticismo e panpoliticismo c’è passaggio pur se il secondo si manifesta talvolta con il volto tragico del vendicatore che vuole colpire la tirannia dell’edonismo”

[11] “Concezione che ritiene erronea e “cattiva”; ma cattive teorie possono originare cattive coscienze: “come la cattiva coscienza si insinua nella cattiva teoria e le fornisce impulsi e stimoli, così la cattiva teoria fornisce un sostegno alla cattiva coscienza”.

[12] V. trad. it. di P. Schiera ne “Le categorie del politico” Bologna 1972 p. 39, e aggiunge “Il caso d’eccezione rende palese nel modo più chiaro l’essenza dell’autorità statale. Qui la decisione si distingue nella norma giuridica e (per formulare un paradosso) l’autorità dimostra di non aver bisogno di diritto per creare diritto. Per la dottrina dello Stato di diritto di Locke e per il razionalistico XVIII secolo, lo stato d’eccezione era qualcosa di incommensurabile. La diffusa consapevolezza del significato del caso d’eccezione che domina il diritto naturale del XVII secolo, va presto perduta nel corso del secolo seguente, allorché viene instaurato un ordine relativamente durevole … Solo una filosofia della vita concreta non può ritrarsi davanti  all’eccezione e al caso estremo, anzi deve interessarsi ad esso al più alto grado. Per essa l’eccezione può essere più importante della regola, e non in base ad una ironia romantica per il paradosso, ma con tutta la serietà di un punto di vista che va più a fondo delle palesi generalizzazioni di ciò che comunemente si ripete. L’eccezione è più interessante del caso normale. Quest’ultimo non prova nulla, l’eccezione prova tutto; non solo essa conferma la regola: la regola stessa vive solo dell’eccezione. Nell’eccezione, la forza della vita reale rompe la crosta di una meccanica irrigidita nella ripetizione” e conclude il passo “Abitualmente non ci si accorge della difficoltà poiché si pensa al generale non con passione ma con tranquilla superficialità. L’eccezione al contrario pensa il generale con energica passionalità”

[13] Si noti che il generale prussiano il quale distingue, tra l’altro, guerra assoluta e guerra “normale”, anche nella concezione generale del fenomeno bellico ritiene che “la guerra si presenta inoltre nel suo aspetto generale, sotto il rapporto delle tendenze che regnano in essa, come uno strano triedro composto:

  1. della violenza originale del suo elemento, l’odio e l’inimicizia, da considerarsi come un cieco istinto;
  2. il giuoco delle probabilità e del caso, che le imprimono il carattere di una libera attività dell’anima;
  3. della sua natura subordinata di strumento politico, ciò che la riconduce alla pura e semplice ragione.

La prima di queste tre facce corrisponde più specialmente al popolo, la seconda al condottiero ed al suo esercito, la terza al governo” Vom Kriege trad. it. Milano 1970, vol. I, p. 40. Quindi anche nella guerra sono presenti elementi razionali, che contribuiscono a ridimensionarla ed umanizzarla.

[14] V. Du Pape, trad. it. Milano 1995, p. 155.

[15] Che è poi uno dei presupposti di un liberalismo esangue, ispirato al pensiero di Kant (ma sottovalutando il “legno storto”). Ma che tale condivisibile aspirazione possa costituire una base – sempre e ovunque valida – non è credibile, per cui si trasforma in una sicura illusione, che seleziona della natura umana il connotato più gestibile: la ragione. E, al tempo, sminuisce quello che lo è meno, la volontà (istinti, interessi, pregiudizi e così via).

[16] V. V.E. Orlando Principii di diritto costituzionale p. 51.

[17] Ricordiamo tra gli altri: G. Mosca, Appunti di diritto costituzionale, Milano 1912 (il quale scrive anche di governo rappresentativo, di regime rappresentativo).

[18] D’altra parte condiviso anche con gran parte dai pensatori liberali non italiani.

[19] “Ma cos’è il governo se non la poderosa analisi dell’umana natura? Se gli uomini fossero angeli non occorrerebbe alcun governo. Se fossero gli angeli a governare gli uomini, ogni controllo esterno o interno sul governo diverrebbe superfluo.

Ma nell’organizzare un governo di uomini che dovranno reggere altri uomini, qui sorge la grande difficoltà: prima si dovrà mettere il governo in grado di controllare i propri governanti, e quindi abituarsi ad autocontrollarsi”. V. Il federalista, trad. it. di Bianca M. Tedeschini Lalli, Bologna 1980, p. 396. (Il corsivo è mio).

[20] “La scienza e tutti quei brani di verità… sono sempre stati l’opera di un numero molto scarso d’individui… Le masse finora non hanno mai vissuto della scienza e per la scienza, ma di grandi illusioni collettive, che trovano la loro base non nel raziocinio, ma nel sentimento umano” v. Partiti e sindacati nella crisi del regime parlamentare, Bari 1949, p. 85 (il corsivo è mio).. D’altra parte considerazioni simili si trovano in altre opere di Mosca.

[21] Che ha preceduto la “rinascita” dell’interesse in altri paesi. Günther Maschke, in un  saggio dedicato all’impatto del pensiero di Schmitt (scritto poco dopo la morte del giurista) giudicava che l’Italia di quella rinascita costituiva la parte più cospicua, v. trad. francese (col titolo Carl Schmitt «Fossoyeur de la République» «Kronjurist» ou «Dernier classique»? in Nouvelle École n. 44, 1987, p. 53 ss.

SCHEDA DEL LIBRO OGGETTO DI CRITICA

SCHEDA de “LA POLITICA COME DESTINO”

Originariamente pubblicato nella rivista “Nuovi studi politici” nel 1976 e quindi in un volume contenente anche uno scritto di Karl Lowith nel 1978, La politica come destino di Salvatore Valitutti torna oggi nuovamente nelle librerie italiane per i tipi della Liberilibri.

Valitutti, pur da liberale e con atteggiamento critico, accanto alle ragioni di dissenso riuscì ad intuire l’incisività e la validità di alcune intuizioni di Carl Schmitt.

Pubblichiamo pertanto per la gentile concessione della Società Liberilibri e dell’autore, il saggio introduttivo di Teodoro Klitsche de la Grange al libro di Salvatore Valitutti.

A trenta chilometri da Macerata, di Roberto Buffagni

I nostri lettori, per lo meno alcuni di essi, si chiederanno il motivo dell’ostinazione con la quale la redazione di Italia e il Mondo si stia concentrando sui fatti di Macerata e dintorni a partire dall’assassinio atroce di Pamela Mastropietro. Un accanimento proprio di un giornale di inchiesta piuttosto che di un gruppo sparuto impegnato con scarsi mezzi e ancor meno tempo nell’analisi politica e geopolitica.

Tranquilli!

Non si tratta di un cedimento alla attenzione morbosa e ossessiva al gossip più macabro; nemmeno di uno snaturamento della natura e delle intenzioni che stanno sorreggendo l’impegno della redazione. Tutt’altro!

Alberga la sensazione sempre più netta che i fatti di Macerata, se messi a nudo nella loro integrità e nella loro profondità, possano contribuire a smascherare in maniera decisiva la grettezza, la pochezza, l’ignoranza, la complicità, l’accondiscendenza, la perversione della gran parte di una classe dirigente che ha preso in mano, per la precisione si è vista consegnare le redini del paese da trenta anni, a partire da Tangentopoli. Una classe dirigente in evidente crisi di credibilità, che sta perdendo il controllo di alcune leve, ma che detiene ancora saldamente, anche se in maniera sempre più disarticolata, il resto delle funzioni di controllo e di comando, il reticolo di strutture e apparati in grado di conformare una comunità e una nazione.

Quello che i fatti di Macerata rischia di evidenziare è:

  • il pressapochismo e l’ignoranza con la quale si è affrontato il problema dell’immigrazione consentendo la formazione di enclaves e comunità chiuse spesso in territori sui quali lo Stato, alcuni settori di essi, fatica a detenere anche storicamente il controllo e nei quali spesso e volentieri scende a patti, si fa permeare e convive con le forze più retrive e dissolutrici
  • il peso crescente e abnorme che il cosiddetto “terzo settore” ha assunto progressivamente nella formazione di risorse economiche, di una classe dirigente e di un ceto politico; un processo non a caso concomitante con la politica di dismissione e spoliazione della grande industria privata e soprattutto pubblica e di disarticolazione di alcuni apparati centrali dello stato. Tutti ambiti dai quali si formavano gli esponenti più lungimiranti e capaci di strategie politiche di una qualche consistenza apparsi sino agli anni ’80. Non si vuole certo sminuire l’importanza del settore e la buona fede e l’impegno di gran parte degli operatori. Va sottolineato piuttosto il peso abnorme rispetto al resto delle attività di una formazione sociale e l’inerzia che innesca la creazione di apparati burocratici di tali dimensioni specie negli ambiti assistenziali
  • la progressiva e supina remissività e subordinazione, senza alcun sussulto e capacità di trattativa, a strategie politiche esterne al paese e contrarie e ostili agli interessi della parte preponderante della nazione e del paese sino ad arrivare ai mercimoni più miserabili. Gli accordi europei passati, riguardanti i punti di approdo marittimo, sono certamente uno di questi

I fatti di Macerata, probabilmente, non sono nemmeno l’epicentro di fenomeni che stanno attraversando il paese. Sono, piuttosto, la punta di un iceberg che si estende in altre parti ben più importanti del territorio. Sono emersi lì, perché si tratta di un territorio ancora non del tutto compromesso e dove l’assassinio di una ragazza può emergere ancora come un fatto di cronaca rilevante capace di porre interrogativi esistenziali.

Le pressioni per mantenere sotto traccia o addirittura rimuovere l’episodio devono essere enormi e il comportamento oscillante degli organi inquirenti sono l’indizio probabilmente del loro peso.

Una situazione che altrimenti, sfuggita di mano, rischia di assestare un colpo definitivo alla credibilità residua di una classe dirigente, affetta com’è dalle tare del cosmopolitismo, del pensiero liberale debole, dell’umanitarismo compassionevole. Tutte categorie in crisi evidente, ormai incapaci di offrire adeguate chiavi di interpretazioni, tanto meno di politiche adeguate. L’ascesa di Trump ha offerto l’occasione per scatenare queste dinamiche. Categorie alle quali sembrano ancora abbarbicate i superstiti di questa classe dirigente e che rischiano di essere la causa ultima del loro declino e dell’erosione del loro potere_Buona lettura, Germinario Giuseppe

A trenta chilometri da Macerata

 

Nel marzo del 2018, a 29,7 chilometri da Macerata, a 11,3 chilometri dal Colle dell’Infinito leopardiano, sono stati ritrovati una cinquantina di resti umani[1] sotterrati nei pressi dell’ Hotel House, “grattacielo multietnico” di Porto Recanati.

Due giorni fa, esami di laboratorio eseguiti sulla polpa di un dente hanno accertato che tra i resti ci sono anche quelli di Camey Mossamet, quindicenne bengalese scomparsa nel 2010[2]. Camey abitava a Tavernelle, all’Hotel House aveva un fidanzatino. E’ nei pressi dell’Hotel House che è stata vista per l’ultima volta.[3]

Il 29 maggio 2010 l’incantevole ragazzina uscì di casa per andare a scuola, ad Ancona, e sparì nel nulla. Nel nulla finirono anche le indagini. L’avvocato Luca Sartini dell’ Associazione Penelope, che assiste i familiari di persone scomparse, all’epoca seguì le indagini[4]. L’Associazione voleva incaricare delle ricerche un investigatore, e chiese alla Procura di vedere il fascicolo delle indagini, per non sprecare tempo cercando dove la polizia già avesse fatto sopralluoghi. La Procura negò l’accesso al fascicolo perché Sartini non aveva indicato gli atti precisi da visionare. Cosa tutt’altro che facile: l’Avv. Sartini non è chiaroveggente, e non poteva sapere quali indagini avessero condotto gli inquirenti. Secondo l’Avv. Sartini, gli inquirenti s’erano formata la convinzione che all’interno della famiglia ci fosse omertà, e che insomma Camey, una ragazzina che voleva vivere all’occidentale e amava giocare a calcio, fosse stata riportata in Bangladesh contro la sua volontà: tant’è vero che si fecero indagini anche colà, naturalmente senza risultati. Per smentire questa ipotesi investigativa, Sartini accompagnò la madre e il fratello di Camey a un colloquio con il Procuratore. Non è servito, a quanto pare. Tuttora non si sa dove abbiano svolto ricerche gli inquirenti. Non si può che convenire con l’Avv. Sartini, quando dichiara che “non dovessero aver cercato lì, a pochi metri dall’Hotel House, dove è stata vista per l’ultima volta, sarebbe scandaloso.” Aggiunge Sartini che gli è capitato di seguire diversi casi, e “senza polemiche, ci sono indagini di serie A e di serie B.”[5]

Non c’è dubbio: senza polemiche, ci sono indagini di serie A e di serie B. Da che cosa sia dipesa l’iscrizione dell’indagine su Camey nel campionato minore, non è facile capire. Può essere la ragione più vecchia del mondo: socialmente, la famiglia di Camey conta zero, e per chi conta zero gli inquirenti, salvo eccezioni, tendono a impegnarsi meno. Oppure: se l’ipotesi degli inquirenti era “Camey riportata contro la sua volontà in Bangladesh a scopo matrimonio forzato”, l’argomento era delicato perché si presta a polemiche contro i mussulmani, l’integrazione degli immigrati, le magnifiche sorti della società multietnica e progressiva, etc. O anche: il “grattacielo multietnico” Hotel House, dove vivono e convivono, male, duemila e passa persone, quasi tutte immigrati di varie etnie e religioni, già nel 2010 era un focolaio di crimini[6] e malvivenza che le autorità non riuscivano a controllare e tanto meno a sanare. Ma sino a quel momento, si parlava di spaccio di droga, furti, prepotenze: reati odiosi, ma non atrocità terrificanti. Alla microcriminalità endemica le popolazioni possono, tristemente, abituarsi e rassegnarsi. Abituarsi e rassegnarsi all’orrore senza nome è meno facile, in tempo di pace (almeno nominale). Possibile che il timore di scoprirsi in precario equilibrio sull’orlo di un “pozzo degli orrori”, come anni dopo i giornalisti avrebbero chiamato la fossa comune con i resti di Camey e di altre vittime sinora ignote, abbia infuso negli inquirenti una semiconsapevole propensione a quieta non movere?

Non so. Non so neanche se il ritrovamento dei resti umani a due passi dell’Hotel House possa essere collegato all’assassinio e allo smembramento di Pamela Mastropietro, per il quale sulle prime qualcuno (tra i quali anch’ io) parlò di omicidio rituale.

Un letterato del IV secolo, Onorato, nei suoi Commentarii in Vergilii Aeneidos libros VIII scrive: “…in omnibus sacris feminei generis plus valent victimae”, in ogni tipo di rito le vittime migliori sono di genere femminile. Ma sono passati millesettecento anni, e da quei tempi bui tutto è cambiato. O no?

[1] https://www.cronachemaceratesi.it/2018/03/29/pozzo-dellorrore-trovati-oltre-50-reperti-il-sindaco-la-citta-e-sicura/1084978/

[2] https://www.cronachemaceratesi.it/2018/06/29/pozzo-dellorrore-le-ossa-sono-di-Cameyi/1121347/

[3] https://www.cronachemaceratesi.it/2018/03/29/unamica-di-Cameyi-non-so-se-siano-i-suoi-resti-ma-lascio-un-fiore/1084906/

[4] https://www.cronachemaceratesi.it/2018/04/01/il-legale-che-segui-il-caso-Cameyi-volevamo-cercarla-con-un-detective-ci-fu-negato-di-vedere-il-fascicolo/1085465/

[5] Ibidem

[6] https://www.cronachemaceratesi.it/2018/06/14/hotel-house-al-setaccio-in-sei-mesi-di-controlli-12-arresti-e-177-denunce/1114776/ ; https://www.cronachemaceratesi.it/2018/04/24/al-setaccio-hotel-house-e-river-perquisite-diverse-case-foto/1094802/ ; https://www.cronachemaceratesi.it/2018/04/24/blitz-in-21-appartamenti-due-denunce-per-spaccio-sette-persone-saranno-espulse/1094640/ ; https://www.cronachemaceratesi.it/2018/06/21/forze-dellordine-allhotel-house-necessario-un-presidio-permanente/1118049/ ; https://www.cronachemaceratesi.it/2018/03/31/hotel-house-sfuggito-di-mano-problema-piu-grande-delle-nostre-forze/1085595/ ; https://www.cronachemaceratesi.it/2018/04/18/hotel-house-lira-dellopposizione-cittadini-umiliati-il-sindaco-agisca/1092037/ eccetera, eccetera.

INTRODUZIONE ALLA “POLITICA COME  DESTINO”_1A PARTE, di Teodoro Klitsche de la Grange

Continuiamo con la pubblicazione di testi alquanto interessanti riguardanti l’approccio al “politico” del pensiero liberale “forte” in contrapposizione e critica al pensiero liberale “debole” ancora nettamente predominante, se pure in crisi nella sua capacità persuasiva. Il discrimine tra le due varianti riguarda appunto l’atteggiamento verso e l’analisi della funzione del politico, inteso nella sua essenza e nella sua relazione con i diversi ambiti dell’agire umano. Il peso ancora minoritario della componente realista di questa corrente di pensiero è evidenziato dal misconoscimento dell’importanza, in particolare in Italia, di pensatori come Julien Freund e dalla demonizzazione e travisamento di altri come Carl Schmitt. Essa, la sua componente “realista” appunto, al contrario rientra a pieno titolo nell’alveo del dibattito sul conflitto strategico tra centri decisionali ripreso ed elaborato ultimamente in Italia da Gianfranco La  Grassa. E’ il nuovo punto di incontro e di confronto decisivo di varie correnti del pensiero politico cresciuto ed affermatosi nel ‘800 e nel ‘900 e ormai giunto ad una drammatica crisi delle proprie chiavi di interpretazione. Teodoro Klitsche de la Grange continua ad offrire da par suo il proprio contributo e ad alimentare il dibattito intrapreso pure da questa redazione, in particolare da Massimo Morigi e Luigi Longo. Buona lettura_Germinario Giuseppe

INTRODUZIONE ALLA “POLITICA COME  DESTINO”

  1. Quando un liberale italiano come Salvatore Valitutti si confronta con il pensiero di Carl Schmitt è inevitabile che accanto a ragioni di dissenso ve ne siano di apprezzamento, spesso critico, e non demonizzazione aprioristica.

E’ quanto capita in questo saggio, pubblicato prima su “Nuovi studi politici” nel 1976 e poi in libro insieme a un saggio di Karl Lövith su Schmitt (del 1935).

I punti principali della critica di Valitutti a Carl Schmitt, da un punto di vista liberale, sono tre.

Il primo è che la distinzione propria del “politico”, ovvero quella tra Amicus ed Hostis, la quale è come quelle di “buono e cattivo nel settore morale, di bello e brutto nell’estetico e di utile e dannoso nell’economico”, indipendente dalle altre e ad esse irriducibile. Cioè, come avrebbe sostenuto Freund, la politica è un’ “essenza”  (come l’etica, l’economia, l’estetica).

“La distinzione tra amicus ed hostis, di amico e nemico, (è) la estrema intensità di un legame o di una separazione…Amicus  è un gruppo di individui tenuto stretto e compatto dalla reciproca solidarietà determinata dal bisogno di difendersi, per sopravvivere, dall’Hostis. L’hostis  è hostis in quanto si contrappone al gruppo che gli è ostile, ma in se stesso è amicus.  La politica è perciò ostilità che divide e contrappone due gruppi ciascuno dei quali è amicus in se stesso, e cioè reso compatto contrapponendosi all’altro”, scrive Valitutti. I due gruppi hanno un senso dato dall’ostilità, che implica la possibilità di lotta armata. Da qui il rapporto necessario tra politica e guerra per cui se “Clausevitz scrisse che la guerra non è altro che una continuazione delle relazioni politiche con l’intervento di altri mezzi. Schmitt rovesciando la formula avrebbe potuto dire che la pace è la continuazione della guerra con l’intervento di altri mezzi”.

Schmitt, continua Valitutti, sente il bisogno di difendersi dell’accusa di una visione “guerrafondaia”. Lo fa realisticamente, spiegando che ciò consegue dall’ostilità (naturale in un pluriverso) “perché questa è la negazione essenziale di un altro essere”, affermazione che ricorda da vicino quella di Hegel sul nemico come differenza etica (in Schmitt esistenziale)[1]. Centrale, nel pensiero di Schmitt è, secondo Valitutti, il concetto di unità politica “soggetto della politica è il gruppo ma solo alla condizione che il gruppo realizzi una perfetta unità politica. L’essenza dell’unità politica consiste nell’esclusione del contrasto politico all’interno dell’unità stessa”. Ne consegue che “la teoria politica di Schmitt è una teoria monistica perché si basa sulla compattezza dell’unità politica”: una teoria pluralista diviene facilmente strumento di dissoluzione. Tuttavia se all’interno la concezione di Schmitt è monistica, all’esterno è pluralista[2].

Il secondo punto è il pessimismo antropologico.

Si fonda sulla concezione pessimistica dell’uomo, che è la medesima su cui si fonda la scriminante etica (buono, cattivo) e la possibilità di scegliere, cioè la libertà. Ma, scrive Valitutti “Schmitt nell’individuare nella malvagità dell’uomo la molla che fa scattare la politica come distinzione fra amico e nemico, non si avvede che giunge a mettere in crisi proprio   quella autonomia della politica, intesa come indipendenza dalle altre distinzioni esistenti, operanti nella vita umana…giungendo, come giunge, al presupposto  della malvagità umana   come condizione da cui scaturirebbe la necessità della politica, intesa come distinzione fra amico e nemico , egli riconduce la politica stessa proprio ad uno dei termini della coppia degli opposti che è la coppia della vita morale”.

Da ciò consegue la centralità dell’unità politica per comprenderne l’anti-liberalismo di Schmitt[3]. Questo è la “bestia nera” di Schmitt, secondo il quale ha dominato il secolo XIX. Il liberalismo combattuto da Schmitt è tuttavia un fantoccio polemico: “In questo fantoccio figurano lineamenti che appartengono al liberalismo storico ma che sono scissi da altri lineamenti essenziali dello stesso corpus di dottrine e di esperienze e che perciò appaiono deformati”[4]. Schmitt riconosce tuttavia che il liberalismo, come realtà storica, non è sfuggito né all’identificazione/designazione del nemico, né all’abolizione della guerra (perché impossibile)[5]. E Valitutti rileva che “Nella sua polemica contro il liberalismo Schmitt, credendo di incolparlo in realtà gli rende omaggio e comunque è nel vero anche quando sottolinea il rispetto del valore dell’autonomia delle varie forme dell’attività umana come un carattere distintivo del liberalismo” (il corsivo è mio)[6]. Peraltro Schmitt, partendo dal postulato dell’unità politica ha come obiettivo della di esso critica soprattutto il liberalismo sociale e associativo, che garantisce la società come “pluralità di legami sociali”. Ma così configura uno Stato che realizza continuamente “la sua unità come sintesi dialettica di differenti e congiunti centri di iniziativa. L’unità politica, secondo Schmitt, la quale ha la sua più perfetta espressione nello Stato, è viceversa un’unità monistica, immediata e immota”[7].

La distinzione amicus/hostis relativizza tutte le altre in quanto giunge a definire la distinzione politica come quella totale e totalizzante; “per cui Schmitt praticamente vanifica tutte le altre distinzioni. È l’unità politica che decide quello che è buono, bello e utile, e, in contrapposizione, quello che è cattivo, brutto e dannoso”. Il vizio di tale concezione è evidente: nel momento in cui la distinzione politica prevale sulle altre questa è non solo indipendente da quelle, ma superiore[8].

Nota poi Valitutti che tra le tante opposizioni il giurista di Plettemberg non ricorda mai quella di vero/falso[9]

Ovviamente, scrive Valitutti, in questa concezione la “volontà politica è regina assoluta”; onde è legittimo chiedersi “se egli si sia installato con tanta sicurezza e facilità nella sua teoria proprio in quanto è partito dalla preliminare negazione della realtà e del valore del pensiero teoretico”.

Valitutti prende in esame il saggio di Löwith su Schmitt pubblicato insieme al suo nel libro (da cui è tratto il saggio di Valitutti), scrivendo che Löwith attribuisce a Schmitt di credere “solo al valore della decisione per la decisione, cioè alla decisione come fine a se stessa”. Secondo Valitutti è più importante collocare storicamente la teoria di Schmitt tra “quegli atteggiamenti volontaristici e attivistici posti in essere nell’età post-hegeliana in contrapposizione alla tradizione del primato del pensiero teoretico, alcuni dei quali hanno rasentato o investito la stessa ragione deteriorandola o distruggendola”.

  1. Il saggio di Valitutti appare condizionato (v. la nota bibliografica pubblicata nello stesso volume e redatta dall’autore) dal riferirsi, praticamente nella totalità delle opere di Schmitt che cita, a quelle tradotte in italiano fin verso la metà degli anni ’70 del secolo scorso, ed ai saggi su Schmitt pubblicati in Italia nello stesso periodo. Questo fa si che le note critiche dell’autore a Schmitt non tengono conto né delle opere tradotte successivamente (la stragrande maggioranza di quanto scritto dal giurista di Plettemberg) né dei successivi interventi intorno al pensiero del medesimo. Il che non significa che Valitutti abbia travisato la teoria del pensatore renano; ma che la conoscenza di queste ne avrebbe permesso di “centrare meglio” contenuto, obiettivi e senso.

In primo luogo: è vero che il liberalismo considerato da Schmitt è un “fantoccio polemico”; ma lo è per due ragioni.

La prima, ancora diffusa, nelle sue declinazioni “post-moderne”, nell’Italia degli anni a cavallo dei due secoli, e anche attualmente (che è quella prevalente, anche nell’ambiente politico e culturale non italiano) secondo la quale, sintetizzandola al massimo, il liberalismo è quell’ideologia che: a) tutela i diritti fondamentali b) prescrive la distinzione dei poteri (alla Montesquieu) c) discute ogni proposta e soluzione nelle assemblee rappresentative e (soprattutto) nell’opinione pubblica d) tutela i diritti (prevalentemente) attraverso il potere giudiziario e) ritiene la decisione dei conflitti più opportuna se disposta da organi giudiziari.

Non tutti questi aspetti godono di un consenso unanime da parte dei (spesso sedicenti) liberali, ma buona parte si.

Ciò che rende particolarmente ficcante la critica di Schmitt a tale/i concezione/i è che da un lato vi manca un qualcosa che costituisca l’unità politica; dall’altro che il liberalismo è, a intenderlo in senso ideale, non un modo di costituire il potere, ma quello di limitarlo. Onde aspettarsi di costituire una sintesi politica senza un principio politico costitutivo è vano. Come scrive Schmitt citando Mazzini “sulla libertà non si costituisce nulla”.

Ne consegue, come scrive Schmitt nella Verfassungslehre[10], che “I principi della libertà borghese possono ben modificare e temperare uno Stato, ma da soli non fondano una forma politica… Da ciò segue che in ogni costituzione con l’elemento dello Stato di diritto è connesso e misto un secondo elemento di principi politico-formali[11].

Il liberalismo può modificare qualsiasi forma di Stato, facendolo diventare una monarchia o una democrazia liberale, ma non può eliminare il principio di forma politica su cui necessariamente lo Stato si basa. La costituzione dello Stato liberale è così necessariamente mista “nel senso che l’elemento in se autonomo e concluso dello Stato di diritto si unisce con elementi politico-formali”.

L’errore di credere che possa esistere una costituzione liberale “pura” senza politica, né soprattutto elementi di forma politica era già espresso nell’art. 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789: “Toute société dans laquelle la garantie des droits n’est pas assurée, ni la séparation des pouvoirs déterminée, n’a point de constitution”. Fu stigmatizzato già da de Bonald, che lo riprendeva dalle (entusiastiche) parole di adesione di M.me De Staël.

Scriveva de Bonald che chiedersi se uno Stato esistente ed esistente da secoli come la Francia, non avesse una Costituzione, è come domandare ad un arzillo ottuagenario se è costituito per vivere. Ciò perché, come avrebbero affermato circa un secolo dopo altri eminenti giuristi come Santi Romano, uno Stato esistente non ha, ma è una costituzione[12]. E lo stesso faceva Schmitt nel distinguere il concetto assoluto di costituzione come “concreto modo di esistere che è dato spontaneamente con ogni unità politica esistente[13] e la cui forma “indica qualcosa di conforme all’essere uno status e non qualcosa di conforme ad un principio giuridico o di normativamente dovuto”[14]. Tuttavia “per motivi politici è spesso indicata come «vera» o «pura» costituzione solo ciò che corrisponde ad un determinato ideale di costituzione”[15]. Ma ritiene il giurista di Plettemberg “Una costituzione che non contenesse altro che queste garanzie dello Stato borghese di diritto, sarebbe impensabile; giacché lo Stato stesso, l’unità politica, ossia ciò che è da controllare, deve pur esistere ovvero al tempo stesso essere organizzato”[16].

I due elementi, quello politico e quello dei principi dello Stato di diritto, sono sempre congiunti e presenti[17].

Dove si constata la “prevalenza” dell’elemento politico su quello dello Stato borghese di diritto è nella disciplina dello Stato di eccezione con la sospensione, deroga, rottura della normativa costituzionale[18] … “In questi casi si mostra assai chiaramente che il moderno Stato costituzionale nella sua struttura è composto di due diversi elementi: di una serie di intralci al potere statale propri dello Stato borghese di diritto e di un sistema – sia esso monarchico o democratico – di attività politica”[19].

Nelle emergenze l’elemento politico (il potere costituito) sospende la normativa del bürgerliche rechtstaat, così come Jhering sosteneva che, nelle crisi gravi la forza “sacrificherà il diritto per salvare la vita”[20].

Ciò che distingue la disciplina dello “stato d’eccezione” dello Stato borghese da quello di altre sintesi politiche è l’accurata distinzione tra situazione normale  ed eccezionale, che in altri regimi è assente o sfumata. Laddove la sovranità è attribuita al vertice politico (al principe) vale il principio ulpianeo quod principi placuit legis habet vigorem applicabile ad ogni situazione contingente (quindi anche dell’emergenza); nello Stato liberal-democratico (o borghese secondo la terminologia preferita da Schmitt) i presupposti, (in parte) la normativa relativa all’eccezione, e le sanzioni per l’inosservanza sono regolate dalla Costituzione. Una norma, regolarmente votata dal Parlamento in uno Stato liberale democratico a forma di governo parlamentare che violasse la Costituzione, sarebbe annullata dal Giudice costituzionale (generalmente) istituito in tali forme di Stato. In una monarchia assoluta o in una dittatura sovrana, no. Come sostenuto da Agamben al riguardo “In ogni caso è importante non dimenticare che lo stato di eccezione moderno è una creazione della tradizione democratico-rivoluzionaria e non di quella assolutista”[21].

[1] Per una esposizione più articolata e diffusa v. Hegel Sistem der sittlichkeit ora in “ Il dominio della politica” trad. it. di  N.Merker, Roma 1980 p. 174 ss.

[2] “Il monismo all’interno presuppone il pluralismo all’esterno. Il mondo politico – afferma Schmitt – è un pluriversum, non un universum, L’unità politica presuppone la reale possibilità  del nemico, e quindi almeno un’altra unità politica coesistente. Il mondo politico è perciò il coesistere e il competere di differenti e contrapposte unità politiche”.

Sviluppando poi il primo aspetto, Valitutti rileva “Il carattere mistico dell’unità politica nel pensiero di Schmitt è comprovato dall’assoluta negazione del suo carattere associativo”; non c’è alcuna società, ma solo comunità politica. Anche quando alla nascita un’unità politica ha carattere associativo (come nella federazione), diviene subito esclusiva e totalizzante.

 

[3] “La prima e più consistente ragione del tenace e veemente antiliberalismo di Schmitt è da ricercare e da ravvisare nel posto che occupa nel suo pensiero il concetto di unità politica. Quanto meno è in questo concetto che si annodano e si saldano tutti i motivi del suo antiliberalismo”

[4] Sostiene Valitutti che i suoi padri (secondo Schmitt) sono soprattutto Spencer e Constant “Per Schmitt il liberalismo è puro individualismo, in quanto avrebbe solo e sempre presente come principio e fine del suo processo logico l’individuo”. Il fatto che, secondo il giurista di Plettenberg il liberalismo si muove tra le polarità dell’etica e dell’economia “non gli fa sorgere il dubbio che un pensiero politico che affonda sia pure in parte le sue radici nel concetto del primato dell’etica non possa rimanere relegato nel mero individualismo”

[5] Il problema consiste che, nella sua dimensione/aspirazione ideale “il liberalismo concepisce la realtà come gara e lotta, gara che sul piano spirituale si svolge come discussione, cioè come lotta tra idee, e sul piano economico come concorrenza, lotta e concorrenza eterne che non debbano mai diventare sanguinose, cioè degenerare in ostilità”.

[6] Aggiunge che Schmitt “individua esattamente quello che è il maggiore sforzo logico in cui si travaglia quella concezione della realtà a cui si ricollega il liberalismo politico nel secolo XIX, cioè lo sforzo inteso a distinguere le varie forme dell’attività spirituale e della vita umana per fondarne e salvaguardarne l’autonomia e insieme la connessione

[7] Per cui Schmitt concepisce l’unità politica come “decisiva, sovrana e totale”.

Questa unità, che storicamente, nella modernità si costituisce in Stato, considera tutto, potenzialmente, come politico “il decidere se una faccenda o un genere di cose sia apolitico è una decisione specificatamente politica, Perciò non c’è nulla che per virtù propria sia distinto dalla politica. Anche il non politico è una qualificazione attribuibile dalla decisione politica”.

[8] Tuttavia a leggere Der hüter der Verfassung, trad it. di A. Caracciolo Il Custode della costituzione, Milano 1981 p. 115 ss, si ridimensiona tale giudizio di Valitutti. Scrive Schmitt quanto alla situazione costituzionale del XIX secolo e la diversa nella Repubblica di Weimar che in quella la sua struttura “fondamentale è stata riassunta dalla grande  dottrina tedesca dello Stato di questo periodo in una formula chiara ed utile: la distinzione fra Stato e società” onde “ Esso era abbastanza forte per confrontarsi autonomamente con le restanti forme sociali e quindi per determinare da sé il raggruppamento, cosicchè tutte le numerose differenze all’interno della società … erano relativizzate e non impedivano la comune considerazione in seno alla «società». Ma per altro verso esso si manteneva in una posizione di ampia neutralità e di non-intervento nei confronti della religione e dell’economia e “ripettava in notevole misura l’autonomia di questi ambiti di vita e di interessi; cioè, esso non era assoluto e non così forte nel senso che avrebbe reso privo di importanza tutto il non-statuale” mentre con Weimar “adesso lo Stato diventa l’ «auto-organizzazione della società». Perciò cade, come menzionato, la distinzione finora sempre presupposta di Stato e società” e così “la società che si organizza da sé in Stato passa dallo Stato neutrale del liberale secolo XIX ad uno Stato potenzialmente totale. La potente svolta può essere interpretata come parte di uno sviluppo dialettico, che si svolge in tre stadi: dallo Stato assoluto del XVII e XVIII secolo attraverso lo Stato neutrale del liberale secolo XIX allo Stato totale dell’identità di Stato e società”.

[9] “Se Schmitt avesse salvaguardata la coppia di vero e falso avrebbe dovuto ammettere la distinzione tra la teoria e pratica e proprio questa distinzione gli avrebbe creato non superabili difficoltà nella teorizzazione della totalità politica. Egli è potuto giungere al suo mostruoso concetto della totalità politica sul presupposto della negazione dell’attività teoretica come attività distinta e autonoma dello spirito umano”.

[10] V. trad. it. dr. A. Caracciolo La dottrina della Costituzione, Giuffrè Editore, Milano 1984.

[11] Op. ult. cit., p. 265 (il corsivo è mio).

[12] Nel criticare l’opinione che Stati costituzionali siano solo quelli rappresentativi (cioè a “regime libero”) scrive “Ogni Stato è per definizione, come si vedrà meglio in seguito, un ordinamento giuridico, e non si può immaginare, quindi, in nessuna sua forma fuori del diritto… Uno Stato «non costituito» in un modo o in un altro, bene o male, non può avere neppure un principio di esistenza, come non esiste un individuo senza almeno le parti principali del suo corpo” Principi di diritto costituzionale generale, Milano 1947, p. 3.

[13] Op. ult. cit., p. 16.

[14] Op. ult. cit., p. 17 e prosegue “Anche qui sarebbe più esatto dire che lo Stato è una costituzione; è una monarchia, un’aristocrazia, una democrazia, una repubblica dei Soviet, e non ha soltanto una costituzione monarchica, ecc. La costituzione è qui la «forma delle forme», forma formarum”.

[15] Op. ult. cit., p. 58 e poche pagine dopo scrive “Nello sviluppo storico della costituzione moderna si è affermato un particolare concetto ideale con tale successo che dal XVIII sec. Sono indicate come costituzioni solo quelle costituzioni che corrispondono alle richieste della libertà borghese e contengono determinate garanzie di questa libertà” p. 60, per cui la Costituzione è un “sistema di garanzia della libertà borghese” onde come “costituzioni liberali, che meritino il nome di «costituzione», sono considerate solo quelle costituzioni che contengono alcune garanzie della libertà borghese” (p. 61).

[16] Op. ult. cit., p. 64 e aggiunge “Le costituzioni degli attuali Stati borghesi sono perciò composte sempre di due elementi: da un lato i principi dello Stato di diritto posti a difesa della libertà borghese contro lo Stato, dall’altro l’elemento politico, dal quale si deve dedurre la vera forma di Stato (monarchia, aristocrazia, democrazia o «status mixtus»). Nel collegamento di questi due elementi si trova la caratteristica delle odierne costituzioni dello Stato borghese di diritto”.

[17] È da considerare nei rapporti tra democrazia e liberalismo il giudizio di M. Alessio che “Schmitt insomma distingue troppo rigidamente democrazia e liberalismo, senza pensare che quest’ultimo può attecchire solo su di un terreno già preparato politicamente. Il liberalismo contemporaneo è una derivazione della democrazia moderna, ed è dunque su di essa che bisognerebbe puntare dapprima l’attenzione”. Democrazia e liberalismo (lo status mixtus) sono uniti nella modernità in concreto da un ethos comune, v. Carl Schmitt Democrazia e liberalismo, Milano 2001, p. 8 (introduzione di M. Alessio).

[18] La costituzione in senso proprio, scrive Schmitt “cioè le decisioni politiche fondamentali sulla forma di esistenza di un popolo, ovviamente non può essere temporaneamente abrogata, ma – proprio nell’interesse del mantenimento di queste decisioni… possono esserlo la normative legislative costituzionali generali emanate per la sua attuazione. In particolare, ci sono le normative tipiche dello Stato di diritto poste a protezione della libertà borghese, che sono soggette ad una sospensione temporanea…Nei turbamenti della sicurezza e dell’ordine pubblico, in tempi di pericolo come una guerra e durante una rivolta, sono sospese le limitazioni legislative costituzionali. Op. cit., p. 154.

[19] Op. loc. cit..

[20] R. Von Jhering Der Zweck im Recht trad it. Di M. G. Losano, Torino 1972 p. 184 ss.. È interessante ricordare per sommi capi, la concezione di Jhering “Il diritto non è quanto di più elevato vi sia al mondo, non è fine a se stesso, ma è soltanto un mezzo diretto ad un fine, ed il suo fine ultimo è l’esistenza della società. Se si riscontra che, nella situazione giuridica attuale, la società non è in grado di esistere, se il diritto non è in grado di venirle in aiuto, interviene la forza a compiere ciò che è necessario: nella vita dei popoli e degli stati prende così forma lo stato di emergenza. Nello stato di emergenza, il diritto vien meno tanto nella vita dell’individuo quanto anche nella vita dei popoli e degli stati” e poiché “al di sopra del diritto è la vita; e se ls asituazione concreta è quella da noi ipotizzata – cioè una situazione di emergenza politica riducibile all’alternativa; o il diritto o la vita – non vi possono essere dubbi sulla decisione da prendere: la forza sacrificherà il diritto per salvare la vita” e prosegue “ Abbiamo così individuato il punto in cui il diritto sfocia nella politica e nella storia: qui il giudizio del politico, dell’uomo di stato e dello storico deve sostituirsi a quello del giurista, che giudica soltanto alla stregua del diritto positivo” … “Se non ci si fanno scrupoli nell’usare il termie “diritto” in questo senso, potremmo qui parlare di un diritto eccezionale della storia, che in linea di principio rende praticamente possibile l’esistenza del diritto e, sporadicamente, il raffiorare della forza della sua missione e funzione storica originaria, cioè come fondatrice dell’ordinamento e creatrice del diritto” op. cit. p. 185 ss.

[21] G. Agamben, Stato d’eccezione Torino 2003, p. 14; e l’affermazione è ripetuta “Lo stato di eccezione si presenta anzi in questa prospettiva come una soglia di indeterminazione fra democrazia e assolutismo” idem p. 11.

SCHEDA DEL LIBRO OGGETTO DI CRITICA

SCHEDA de “LA POLITICA COME DESTINO”

Originariamente pubblicato nella rivista “Nuovi studi politici” nel 1976 e quindi in un volume contenente anche uno scritto di Karl Lowith nel 1978, La politica come destino di Salvatore Valitutti torna oggi nuovamente nelle librerie italiane per i tipi della Liberilibri.

Valitutti, pur da liberale e con atteggiamento critico, accanto alle ragioni di dissenso riuscì ad intuire l’incisività e la validità di alcune intuizioni di Carl Schmitt.

Pubblichiamo pertanto per la gentile concessione della Società Liberilibri e dell’autore, il saggio introduttivo di Teodoro Klitsche de la Grange al libro di Salvatore Valitutti.

BISOGNA CAMBIARE IL MONDO REALE, a cura di Luigi Longo

BISOGNA CAMBIARE IL MONDO REALE.

a cura di Luigi Longo

 

 

Suggerisco la lettura dello scritto di Paul Craig Roberts, L’intero mondo occidentale vive in una dissonanza cognitiva apparso su www.megachip.globalist.it il 23 giugno 2018, come riflessione per capire la potenza dell’ideologia sia per nascondere (accezione negativa) il mondo reale sia per aderire (accezione positiva) al modello di legame sociale proposto dalla potenza mondiale egemone degli USA. Per capire perché gli statunitensi vedono le brutture che commettono solo quando succedono in casa propria e non quando le consumano nelle case degli altri sparse in tutto il mondo bisogna andare alla storia del Destino manifesto. L’espansionismo americano e l’Impero del Bene che è il titolo del bel libro dello storico Anders Stephanson pubblicato dalla Feltrinelli (2004). Riproduco alcuni passi tratti dal Prologo dell’autore (pp.11-15).

<< […] Tuttavia, è proprio a John O’Sullivan che siamo debitori dell’espressione “destino manifesto”: la coniò nel 1845 per definire la missione degli Stati Uniti di “espandersi nel continente assegnato dalla provvidenza al libero sviluppo delle crescenti moltitudini  del nostro popolo”. In tutto il Nord America era in corso una gigantesca espansione in nome della libertà, una libertà spessa definita anche di carattere “anglosassone” in termini culturali o razziali […] Essa divenne, così, lo slogan dell’idea di un diritto provvidenzialmente o storicamente fondato all’espansionismo continentale. Da questo punto di vista, non si trattava affatto di una novità, dal momento che già nel 1616, rivolgendosi al pubblico inglese, un agente della campagna di colonizzazione aveva pomposamente concluso la sua presentazione delle meraviglie delle verdi distese americane con queste parole: “Quale timore allora dovrebbe trattenerci dal partire immediatamente , essendo noi un popolo speciale indicato ed eletto dal dito di Dio a prendere possesso di quella terra?”.

In questo libro, “destino manifesto” verrà utilizzato anche in un’accezione più ampia, vicina a quella adoperata da Woodrow Wilson per sottolineare il ruolo assegnato dalla provvidenza agli Stati Uniti di guidare il mondo verso un futuro nuovo e migliore. Per Wilson, ciò che definiva l’”America” era proprio questa particolare vocazione o missione. La nazione, alla quale era stata concessa di vedere la luce, era destinata a mostrare il cammino ai paesi storicamente retrogradi, poiché aveva il compito di svilupparsi ed espandersi in tutta la sua potenzialità grazie al dono divino della più alta perfezione morale inimmaginabile. Questa idea è stata un elemento costante della storia americana, ma, storicamente, ha prodotto due atteggiamenti molto diversi nei confronti del mondo esterno. Il primo mirava a fare degli Stati Uniti un modello esemplare, separato dal mondo corrotto e perverso, lasciando che le altre nazioni lo imitassero come meglio potevano. Il secondo, corrispondente alla visione di Wilson, consisteva nel far progredire il mondo, intervenendo per rigenerarlo. Tra i due atteggiamenti quello di distacco, tuttavia, è stato quello generalmente dominante.

Gli Stati Uniti non sono stati l’unico paese ad attribuire un carattere esemplare alla propria identità nazionale. Ogni stato-nazione sostiene in qualche modo la propria unicità e, nel corso della storia, alcune nazioni e alcuni imperi si sono considerati consacrati da un’autorità superiore a centro del mondo o della storia universale. Tuttavia, per fare un esempio, il “mandato” dinastico sul quale si fondava la legittimazione del potere in Cina confuciana non contemplò mai che una radicale trasformazione del mondo a propria immagine e somiglianza potesse condurre a una “fine” trascendente della storia (corsivo mio). La “Cina” era un’idea aristocratica di civiltà superiore. Per prendere un esempio a noi più vicino, il Sacro romano impero, se anche può avere sposato l’idea di una trasformazione celeste del mondo terreno, si accontentava, nell’attesa della fine stabilita, di sospendere il progetto messianico (corsivo mio) per dedicarsi alla costruzione delle istituzioni politiche >>.

 

Non basta, come sostiene Paul Craig Roberts, << far uscire le persone dal mondo propagandistico e farla entrare in quello reale >>, bisogna cambiare il mondo reale.

 

Per motivi di chiarezza ho evidenziato le tre maggiori notizie correnti utilizzate dall’autore per illustrare la sconnessione mentale mondiale.

 

 

L’intero mondo occidentale vive in una dissonanza cognitiva

 

 

di Paul Craig Roberts

 

[Traduzione per Megachip di Piotr]

 

 

In questo editoriale mi accingo a utilizzare tre delle maggiori notizie correnti per illustrare la sconnessione che alligna ovunque nella mente occidentale.

Iniziamo con la questione della separazione delle famiglie.

 

La separazione dei bambini dai genitori immigrati o rifugiati o richiedenti asilo ha suscitato così tante proteste che il Presidente Trump ha indietreggiato e firmato un ordine esecutivo per far finire la separazione delle famiglie.
L’orrore dei bambini rinchiusi in magazzini gestiti da privati che si arricchiscono coi soldi dei contribuenti, mentre i genitori sono perseguiti per ingresso illegale, ha risvegliato dal loro torpore persino gli Americani autocompiaciuti di essere “eccezionali e indispensabili” [fa riferimento alla nota affermazione dei presidenti statunitensi che gli USA sono una nazione eccezionale e l’unica indispensabile nel mondo (sic!) – NdT].
Rimane un mistero perché il regime di Trump abbia scelto di gettare discredito sulla sua politica di rafforzamento delle frontiere separando le famiglie.
Forse la politica era quella di scoraggiare l’immigrazione illegale lanciando il messaggio che se venite in America i vostri bambini vi saranno strappati.
La domanda è: come mai gli Americani riescono a vedere e rifiutare l’inumana politica di controllo delle frontiere e non vedono e rifiutano l’inumanità della distruzione delle famiglie che è stato il costante risultato della distruzione da parte di Washington in tutto o in parte di sette o otto Paesi nel XXI secolo?
Milioni di persone sono state separate dalla famiglia dalla morte inflitta da Washington e per quasi due decenni non ci sono state praticamente proteste. Nessun grido di protesta ha fermato George W. Bush, Obama e Trump dal perpetrare atti chiaramente e senza possibilità di smentita illegali, definiti dalla legge internazionale stabilita dagli USA stessi, come crimini di guerra contro, gli abitanti dell’Afghanistan, dell’Iraq, della Libia, della Siria, dello Yemen e della Somalia. Possiamo aggiungere un ottavo esempio: gli attacchi militari dello stato fantoccio ucraino neo-nazista e armato e finanziato dagli USA contro le province russe separatiste.
Le morti in massa, la distruzione delle città, dei paesi, delle infrastrutture, le menomazioni, fisiche e mentali, lo sradicamento che ha inviato milioni di rifugiati i fuga dalle guerre di Washington a invadere l’Europa, dove i governi sono fatti da una collezione di lacchè idioti che hanno sostenuto gli enormi crimini di guerra di Washington in Medio Oriente e Nord Africa, non hanno prodotto nessun grido di dolore paragonabile a quello contro la politica di Trump sull’immigrazione.
Stiamo vivendo una forma psicotica di massa di dissonanza cognitiva?

Spostiamoci adesso sul secondo esempio: il ritiro di Washington dal Consiglio dell’ONU per i Diritti Umani.

Il 2 di novembre del 2017 (1917, mia correzione del refuso tecnico), due decenni prima dell’olocausto imputato alla Germania nazionalsocialista, il ministro degli Esteri britannico, James Balfour, scrisse a Lord Rothschild che la Gran Bretagna favoriva la trasformazione della Palestina in un focolare nazionale ebraico. In altre parole, il corrotto Balfour mandò al diavolo i diritti e le vite di milioni di Palestinesi che stavano in Palestina da duemila e più anni. Che era sta gente a confronto col denaro dei Rothschild? Non erano niente per il ministro degli Esteri britannico.
L’atteggiamento di Balfour verso i legittimi abitanti della Palestina è il medesimo atteggiamento britannico verso i popoli di ogni colonia o territorio su cui la forza britannica aveva prevalso. Washington ha imparato questo modo di fare e lo ha coerentemente ripetuto.
Proprio l’altro giorno l’ambasciatrice all’ONU di Trump, Nikki Haley, la cagnolina pazza furiosa di Israele, ha annunciato che Washington si ritirava dal Consiglio per i Diritti Umani perché è “una fogna di pregiudizi politici” contro Israele.
Cosa aveva mai fatto il Consiglio per guadagnarsi questo rimprovero dall’agente israeliano Nikki Haley? Il Consiglio aveva denunciato la politica israeliana di assassinio dei Palestinesi: medici, bambini, madri, anziane e anziani, padri, adolescenti.
Criticare Israele, non importa quanto grande ed evidente sia il suo crimine, significa essere antisemiti e un negazionista dell’olocausto. Per Nikki Haley e Israele, ciò relega il Consiglio per i Diritti Umani nei ranghi dei nazisti fanatici di Hitler.
L’assurdità di ciò è evidente, ma pochi, se non nessuno, riescono a rilevarla. Certo, il resto del mondo, con l’eccezione d’Israele, ha denunciato la decisione di Washington, non solo i nemici e i Palestinesi, ma anche i burattini e i vassalli di Washington.
Per vedere la sconnessione è necessario fare attenzione alle parole delle denunce della decisione.
Un portavoce dell’Unione Europea ha detto che il ritiro di Washington dal Consiglio per i Diritti Umani “rischia di minare il ruolo degli USA come campioni e sostenitori della democrazia nel teatro mondiale”. Si può immaginare un’affermazione più idiota?
Washington è nota come sostenitrice di tutte le dittature che aderiscono alla sua volontà. Washington è nota per aver distrutto ogni democrazia in America Latina che abbia eletto un presidente rappresentante degli interessi del popolo di quella nazione e non degli interessi delle banche di New York, di quelli commerciali statunitensi e della politica estera statunitense.
Fate il nome di un posto dove Washington abbia sostenuto la democrazia. Solo per parlare degli ultimi anni, il regime di Obama ha rovesciato il governo democraticamente eletto dell’Honduras e ha imposto il suo burattino. Il regime di Obama ha rovesciato il governo democraticamente eletto dell’Ucraina e imposto un regime neo-nazista. Washington ha rovesciato i governi dell’Argentina e del Basile, sta cercando di rovesciare quello del Venezuela e ha nel suo mirino la Bolivia così come la Russia e l’Iran.
Margot Wallstrom, la ministra degli Esteri svedese, ha dichiarato: “Mi rattrista che gli USA abbiano deciso di ritirarsi dal Consiglio per i Diritti Umani. Arriva in un momento in cui il mondo ha bisogno di più diritti umani e di un ONU più forte, non l’opposto”. Perché diamine Wallstrom pensa che la presenza di Washington, un noto distruttore di diritti umani, (basta chiedere ai milioni di rifugiati dai crimini di guerra di Washington che si riversano in Europa e in Svezia), pensa che questa presenza nel Consiglio per i Diritti Umani rafforzerebbe il Consiglio invece che minarlo. La disconnessione della Wallstrom è fantastica. E’ talmente estrema da essere incredibile.
Il Primo Ministro australiano, Julie Bishop, ha parlato per il più adulatore dei vassalli di Washington quando ha detto che era preoccupata per i “pregiudizi antisraeliani” del Consiglio. Avete qui una persona che ha subito un lavaggio del cervello talmente totale da essere impossibilitata di mettersi in connessione con una qualsiasi cosa che sia reale.

Il terzo esempio è la “guerra commerciale” che Trump ha lanciato contro la Cina.

 

La tesi del regime di Trump è che a causa di pratiche sleali la Cina ha un surplus con gli USA di quasi 400 miliardi di dollari. Questa grande cifra è si suppone che sia dovuta, appunto, a “pratiche sleali” da parte cinese. Nella realtà il deficit commerciale con la Cina è dovuto alla Apple, alla Nike, la Levi e a un gran numero di corporation americane che producono offshore in Cina i prodotti che poi vendono agli Americani. Quando le produzioni delocalizzate delle corporation statunitensi entrano negli USA, sono contate come importazioni.
Ho detto e ripetuto questo da molti anni a partire della mia testimonianza davanti alla Commissione per la Cina del Congresso USA. Ho scritto numerosi articoli pubblicati quasi ovunque. Sono sintetizzati nel mio libro The Failure of Laissez Faire Capitalism del 2013.
La presstitute dei media economici, i lobbisti delle corporation, che include molti “nomi” accademici, e gli sfigati politici americani il cui intelletto in pratica non esiste, non riescono a riconoscere che l’enorme deficit commerciale USA è il risultato delle delocalizzazioni. Questo è il livello di completa stupidità che governa l’America.
In The Failure of Laissez Faire Capitalism ho discusso il madornale errore fatto da Matthew J. Slaughter, un membro del Consiglio Economico di George W. Bush, che ha affermato in modo incompetente che per ogni posto di lavoro delocalizzato si creavano due posti di lavoro negli USA. Ho anche denunciato come una truffa lo “studio” del professore di Harvard, Michael Porter, per il cosiddetto Consiglio per la Competitività (una lobby per le delocalizzazioni), che ha fatto la straordinaria affermazione che la forza-lavoro statunitense traeva beneficio dalla delocalizzazione dei loro lavori a più alto valore aggiunto e a più alta produttività.
Gli idioti economisti americani, gli idioti media finanziari americani, e gli idioti politici americani non riescono a capire nemmeno adesso che la delocalizzazione ha distrutto le prospettive dell’economia americana e ha sospinto la Cina più avanti di 45 anni delle aspettative americane.

Per concludere.

 

La mente occidentale e le menti degli “integrazionisti atlanticisti” russi [i fautori di un’integrazione della Russia nel circuito economico, finanziario, politico e militare occidentale, persone che spesso occupano posti di grande responsabilità anche nei governi di Putin, NdT] e della gioventù cinese pro-americana, sono così piene di assurdità propagandistiche che non hanno connessione con la realtà.
C’è il mondo reale e c’è il mondo costruito dalla propaganda che nasconde il mondo reale e serve interessi specifici. Il mio compito è far uscire le persone dal mondo propagandistico e farla entrare in quello reale. Sostenetemi in questo sforzo.

 

 

MACHIAVELLI, di Teodoro Klitsche de la Grange

MACHIAVELLI

Non è stata dedicata soverchia attenzione alla ricorrenza del 500° anniversario del “Principe”. A dispetto del fatto che – a quanto sembra – sia l’opera italiana più tradotta al mondo e che da quando fu scritta, nessuno, che si sia occupato di politica (filosofia, scienza della politica, storia), abbia potuto fare a meno di confrontarvisi, si assiste a un anniversario celebrato con poca pompa e qualche nascosto imbarazzo.

Scrive Di Lello che “non si tratta di un dettaglio, ma di un sintomo (certo uno dei tantissimi, pur sempre un sintomo) di caduta culturale ed ideale”[1].

Che il pensiero di Machiavelli dia fastidio, e lo dia all’establishement culturale e politico italiano, in particolare  di sinistra, è evidente. Tutta la melassa delle buone intenzioni e dei buoni sentimenti, sintetizzata nel “buonismo” è proprio l’antitesi delle concezioni di Machiavelli. A servirsi di quelle di un suo epigono moderno, come Pareto, l’unica cosa che certe zuccherose e commoventi prediche attestano è lo stato di decadenza delle élites che le tengono e del popolo che le sta ad ascoltare. Il Segretario fiorentino ha, nei confronti di quelle, la funzione attribuitagli da Foscolo, in sintesi: mostrare che il re è nudo. Dietro buoni propositi e discorsi edificanti c’è la ricerca e soprattutto la conservazione di un potere, ormai senescente e anche (e soprattutto) perciò buonista. Realismo politico significa demistificare il nucleo essenziale dell’apparato egemonico costruito dal secondo dopoguerra in poi e specialmente negli ultimi vent’anni. Il pensiero di Machiavelli è infatti quanto di più politicamente scorretto si possa immaginare. A cominciare dal nucleo: “perché ogni uomo che voglia fare in tutte le parte professione di buono, conviene ruini intra tanti che non sono buoni”; da qui, dalla concezione “problematica” della natura umana, l’esigenza del realismo in politica e la ricerca della “verità effettuale della cosa” (cioè dell’approccio concreto). Le conseguenze del quale non si riflettono solo sulla politica (prassi e teoria) ma anche sul pensiero giuridico-istituzionale. Come esiste una condotta ispirata al Segretario fiorentino, c’è una concezione dello Stato e della costituzione fondata sui medesimi presupposti: pessimismo  antropologico (almeno relativo), realismo politico, ricerca della “verità effettuale delle cose”[2]. E del pari, Machiavelli si occupa più volte  – anche se spesso implicitamente – del rapporto tra politico e diritto.

2.0 Contrariamente a quanto ritenuto da molti nostri contemporanei, nel segretario  fiorentino la politica è decisiva e il diritto segue; il rapporto è acutamente inquadrato da Machiavelli nel primato della politica (e del politico).

Nel XVIII capitolo del principe scrive “sono dua generazione di combattere: l’uno con le leggi, l’altro, con la forza: quel primo è proprio dello uomo, quel secondo delle bestie”. Tale espressione è stata in genere connessa allo specifico argomento lì trattato (quomodo fides a principibus sit servanda), in particolare sul rapporto tra astuzia (golpe) e forza (lione). Tuttavia l’espressione può essere interpretata anche in un altro senso; che è quello chiarito da Machiavelli subito dopo: che il Principe, soprattutto il Principe  nuovo è “spesso necessitato, per mantenere lo Stato, operare contro alla fede, contro alla carità, contro alle comunità, contro alla religione”. Enumera cose che per un uomo del suo, e anche del nostro tempo, sono più care e sacre del diritto, onde si può immaginare se il Principe non possa anzi debba operare contro questo. Anche se nel pensiero nostro contemporaneo è il diritto a non poter essere mai violato (con le conseguenze più bizzarre e, peggio ancora, dannose). Perché, prosegue Machiavelli “nelle azioni di tutti li uomini, e massime de’ principi, dove non è iudizio da reclamare, si guarda al fine. Facci dunque uno principe di vincere e mantenere lo stato: e’ mezzi saranno sempre iudicati onorevoli, e da ciascuno laudati”. In diverse parole qui come in altri passi del Principe e dei Discorsi , Machiavelli (fonda e) rivendica l’autonomia del politico, che non deriva da altra “essenza”, come scrive Freund. Non c’è giudice del principe, e l’unico criterio di giudizio è se ha attinto il fine di conservare lo Stato: il che significa non solo il (di esso) potere, ma anche l’esistenza (e la “buona” esistenza) dei sudditi[3].

Il rapporto tra politico e diritto  (legge, ordine, organizzazione istituzionale) è confermato dal XXXIV capitolo del I° libro dei Discorsi, dove Machiavelli tesse l’elogio della dittatura romana: nei frangenti eccezionali, il dittatore conserva lo Stato infrangendo il diritto e gli ordini (cioè l’ordinamento costituzionale – o, meglio, parte di esso) “perché senza uno simile ordine le cittadi con difficultà  usciranno degli accidenti istraordinari. Perché gli ordini consueti nelle repubbliche hanno il moto tardo non potendo alcuno consiglio né alcuno magistrato per se stesso operare ogni cosa, ma avendo in molte cose bisogno l’uno dell’altro … E perciò le repubbliche debbano intra loro ordini avere uno simile modo” e subito dopo “Perché quando in una repubblica manca uno simile modo, è necessario o servando gli ordini rovinare, o per non rovinare rompergli” E’ l’ordinamento stesso che deve prevedere organi straordinari, dotati anche della facoltà di sospendere, derogare, modificare il diritto vigente: “Talchè mai fia perfetta una repubblica se con le leggi sue non ha provisto a tutto, e ad ogni accidente posto il rimedio e dato il modo a governarlo”.

La Costituzione italiana è bellissima (come dice un noto attore) e quel che è peggio, è considerata così perfetta da non poter essere cambiata, onde è chiaro che il pensiero di Machiavelli è in contrasto con tali affermazioni, perché la stessa non prevede né competenza né misure per lo stato d’eccezione ed è quindi, date le affermazioni del Segretario fiorentino, imperfetta, e da cambiare (di corsa).

Più in generale nella concezione di un certo costituzionalismo contemporaneo (e più in generale di teoria generale del diritto) s’inverte il rapporto tra diritto e politica. In Machiavelli la politica è autonoma, mentre il diritto è eteronomo, perché al di esso fondamento v’è la decisione politica. E’ il sovrano che decide se conservare, modificare, sospendere il diritto. E’ il pouvoir , a servirsi dei concetti (e dei termini) di Hauriou, a garantire l’ordre (anche) attraverso il droit. L’altro “punto” di eteronomia del diritto, ovvero rispetto alla morale, è talvolta anch’esso completamente omesso, talvolta travisato (o depotenziato).

Tanto per farne un esempio (tra tanti) particolarmente rilevante della lontananza tra il pensiero di Machiavelli e quello di taluni nostri contemporanei: anche chi ammette un certo “tasso” di morale nel diritto v’include quasi esclusivamente ciò che rileva per lo stato sociale contemporaneo, ovvero in particolare, la distribuzione del reddito a favore delle classi e dei cittadini più disagiati.

Non capita invece di leggere della connessione esistente tra diritti e doveri nelle costituzioni e negli Stati, anche contemporanei, né tra alcuni specifici doveri. Per essere chiari: il diritto di esercitare funzioni pubbliche (art. 51 Cost. italiana vigente) cioè di partecipare a decidere il destino della comunità è strettamente correlato e quello di pagare le imposte (art. 53), ma ancor più a quello di difendere la Patria (art. 52). Anche per un lettore distratto di Machiavelli, è chiara l’importanza che questi da all’ “arme proprie” (v. per il solo Principe, i capp. XII-XIV)[4]. Ammoniva che “chi dice impero, regno, principato, repubblica, chi dice uomini che comandano, cominciandosi dal primo grado e discendendo infine al padrone d’un brigantino, dice giustizia e armi”[5]; senza queste è impossibile preservare la libertà, e ovviamente, l’esistenza politica. Per cui il rapporto tra morale (meglio sittlichkeit nel senso di Hegel) e diritto è essenzialmente (anche se non esclusivamente) quello segnato dall’adempimento dei doveri legati alle funzioni pubbliche esercitate o rivestite. Anche la concezione machiavelliana  della virtù si muove nello stesso solco: al Principe è necessaria virtù per sapere fronteggiare gli eventi, come per poterne approfittare.

Quindi di “morale” si può parlare prendendo atto che si tratta di una morale che ha poco a che fare con quella che per ciò s’intende; il contributo di quest’ultima al diritto c’è, ma accanto a quello dell’ “altra” morale (quella, per così dire, “pubblica” e non “privata”).

3.0 Scrive Machiavelli nel Proemio dei Discorsi che, contrariamente a quanto accade per il diritto (le “leggi civili”), per la medicina, per le arti “nell’ordinare le republiche, nel mantenere li stati, nel governare e’ regni, nello ordinare la milizia ed amministrare la guerra,  nel iudicare e’ sudditi, nello accrescere l’imperio, non si trova principe nè republica  che agli esempi degli antiqui ricorra”; e continua scrivendo che, a suo giudizio ciò dipende dalla mancanza di comprensione (“non avere vera cognizione delle storie per non trarne leggendole quel senso … che le hanno in se”). E si meraviglia perché “infiniti che le leggono, pigliono piacere di udire quella varietà degli accidenti che in esse si contengono, senza pensare altrimenti di imitarle, iudicando la imitazione non solo difficile ma impossibile; come se il cielo, il sole, li elementi, li uomini, fussino variati di moto, di ordine e di potenza da quello che gli erano antiquamente”. In altri termini Machiavelli sostiene che, essendo la natura umana sempre la stessa, e di conseguenza, si direbbe oggi, le regolarità del politico, i problemi da risolvere sono sempre i medesimi e quindi assai simili i rimedi. “Come dimostrano tutti coloro che ragionano del vivere civile, e come ne è piena di esempi ogni istoria, è necessario a chi dispone una repubblica ed ordina leggi in quella, presupporre tutti gli uomini rei, e che li abbiano sempre a usare la malignità dello animo loro qualunque volta ne abbiano libera occasione”.[6] Per cui, chi ordinasse uno Stato presupponendo i cittadini tutti virtuosi, i popoli (e i governi) vicini tutti benevoli, realizzerebbe un pessimo prodotto (peraltro di durata breve).

Ma cos’è oggi quella “immaginazione della cosa” che il Segretario fiorentino addita come la via maestra per ordinare male gli Stati?

L’immaginazione è feconda d’illusioni, e delle più varie; proviamo a ricordarne alcune, le principali.

La prima è quella, direttamente opposta alla concezione delle “regolarità” sopra ricordate (e che Aron chiamava “principio di perennità”) e cioè che si può trovare la formula per cambiare la natura umana o quanto meno correggerla ed eliminare o ridurre l’incidenza di alcune “regolarità”. Ne abbiamo avuto un esempio nel secolo scorso col comunismo, il cui nucleo consisteva nel credere che mutando i rapporti di produzione sarebbe mutata anche la natura umana. Un tipo di sostituzione del politico con l’economico. Abbiamo visto com’è finito. Ma l’aspirazione a sostituire la politica (e il politico) con altro, che s’intravede già in un noto passo biblico del deutero – Isaia, continua – anche se meno rumorosamente, in altre forme, provando con altri tipi di attività umane. Soprattutto col diritto: sono già manifeste aspirazioni di ciò nel testo (ma soprattutto nelle carenze del testo) costituzionale (ad esempio la mancata previsione e disciplina dello stato d’eccezione); ma che comunque sono poca cosa rispetto a quanto circola a livello di opinione pubblica, e in non poche concezioni degli “addetti ai lavori”. Ad esempio tra gli idola tribus il più frequentato è quello che fare politica equivale a legiferare; e che i problemi si risolvono con le leggi. Dimenticando che buona parte dell’attività dello Stato è politica “pura” non riconducibile a norme (e ancor più a un contenuto normativo applicabile). E’ una legge (in senso formale) una dichiarazione di guerra? o l’approvazione di un trattato? O l’applicazione del diritto, che è distinta dalla legiferazione, ma che incide in modo decisivo sul diritto effettivamente osservato?

Una tale aspirazione ha portato, inversamente, a promulgare delle leggi essenzialmente per il loro carattere (e il relativo benefico ritorno) propagandistico; ben sapendo che sarebbero state poco o punto applicate. Anche la dottrina costituzionalista ha risentito di tale illusione che Freund chiama dell’ “imperialismo giuridico”: discute quasi sempre di “norme” e di “principi” (con variazioni sui valori) e assai poco di “organizzazione”, di “poteri” e di “principi (di forma politica)”; sembra peraltro si sia dimenticato che, nella costituzione la cosa più importante è chi la possa abolire, abrogare, sospendere. Cioè il potere costituente. Poco frequentata è anche la sovranità da quando (nella Germania di Weimar) ha cominciato a diffondersi l’idea della costituzione senza Sovrano (che a Machiavelli sarebbe sembrata una boutade).

L’altra fallacia ricorrente e quella della Costituzione per sempre, come le tavole mosaiche (scriveva Miglio con ironia). Nel duplice senso della perennità e dell’immodificabilità. Che è proprio l’inverso della storicità degli ordinamenti (e delle costituzioni) e della necessità di conformarsi alle situazioni concrete. E che oltre che col pensiero di Machiavelli è proprio all’opposto del dato storico. Machiavelli lo ripete spesso, non solo nel passo (sopra citato) dei Discorsi sulla dittatura romana; ed è poi conseguenza logica del principio di corruzione – e dei “cicli politici” – di ogni regime[7]. La corruzione fa si che “se un ordinatore di repubblica ordina in una città uno di quelli tre stati, ve lo ordina per poco tempo, perché nessuno rimedio può farvi a fare che non sdruccioli nel suo contrario”. Per cui dalla monarchia si passa all’aristocrazia e poi alla democrazia: ogni passaggio è preceduto dalla conversione dello Stato nella forma degenere (da monarchia a tirannide e così via)[8]. “E questo è il cerchio nel quale girando tutte le repubbliche si sono governate e si governano: ma rade volte ritornano ne’ governi medesimi, perché quasi nessuna republica può essere di tanta vita che possa passare molte volte per queste mutazioni e rimanere in piede”: perché per lo più viene assoggettata.

Tutte tali forme di governo sono di breve durata: “sarebbe atta una republica a rigirarsi infinito tempo in questi governi. Dico adunque che tutti i detti modi sono pestiferi, per la brevità della vita che è ne’ tre buoni e per la malignità che è ne’ tre rei”. A Roma il tutto fu risolto “sendo in una medesima città il Principato, gli Ottimati e il governo Popolare”. D’altra parte, scrive Machiavelli, “sendo tutte le cose degli uomini in moto, e non potendo stare salde, conviene che le salghino o che le scendino, e a molte cose che la ragione non t’induce, t’induce la necessità; talmente che avendo ordinata una republica atta a mantenersi non ampliando, e la necessità la conducesse ad ampliare, si verrebbe a tor via i fondamenti suoi ed a farla rovinare più tosto”. È la (necessità dell’) esistenza politica (cioè le situazioni concrete) a determinare l’ordinamento costituzionale e non viceversa.

Quindi l’aspirazione – pretesa a costruire un “ordine” valido per sempre è contraria alla concezione di Machiavelli. Il segretario fiorentino, contrariamente a quanto spesso oggi opinato, dava della Costituzione un giudizio storico-oggettivo, mentre oggigiorno prevale uno ideologico-soggettivo. Ossia, secondo il pensatore fiorentino, una costituzione è valida quando consente la durevole conservazione e l’accrescimento dello Stato, e non se è conforme a impostazioni ideologiche e conseguenti norme e/o principi (ancor più se è “bella” o, più spesso, “buona”). La costituzione romana, il “compromesso” costituzionale dei tre principi (monarchico, aristocratico e democratico) è ammirato dal fiorentino perché ha consentito a Roma di espandersi e dominare il mondo mediterraneo per diversi secoli, e ancor più se si considera la successiva costituzione imperiale. Valori, principi, norme-manifesto, disposizioni programmatiche e altro sono estranei al pensiero di Machiavelli (o secondari); d’altra parte non si capisce a che titolo un ordinamento costituzionale costruito con tante buone intenzioni ma durato qualche decennio e magari finito in catastrofe, possa essere apprezzato perché “bello”.

Altro carattere decisivo della costituzione (dell’ordinamento) secondo Machiavelli è che occorre ordinare la comunità, di guisa da coinvolgere e così “integrare”, in particolare nelle repubbliche, quanti più cittadini possibile. Parimenti l’elogio che fa dei tribuni della plebe è perché gli stessi costituiscono una magistratura di mediazione (e quindi d’integrazione) tra patriziato e plebe[9].

Nel “Discorso sopra il riformare lo Stato di Firenze a instanza di Papa Leone” delinea una nuova costituzione per Firenze, che assicuri il potere al Papa Medici. Riteneva che “La cagione perché Firenze ha sempre variato spesso nei suoi governi è stata perché in quella non è stato mai né republica né principato che abbi avute le debite qualità sue; perché non si può chiamar quel principato stabile, dove le cose si fanno secondo che  vuole uno e si deliberano con il consenso di molti: né si può credere quella republica esser per durare, dove non si satisfà a quelli umori a’ quali non si satisfacendo le republiche rovinano” e delinea un nuovo assetto costituzionale che, conservando l’essenza del potere a casa Medici, distribuisse poteri, cariche e competenze dando un ruolo nel governo della città “a tre diverse qualità di uomini che sono in tutte le città; cioè i primi, i mezzani e gli ultimi”; ordinandoli in tre collegi, con differenti poteri e competenze perché “senza satisfare all’universale, non si fece mai alcuna republica stabile”, il tutto mantenendo ai Medici “tanta autorità… quanto ha tutto il popolo di Firenze”.

Distribuendo potere e competenze, il Segretario fiorentino delinea un modello costituzionale fondato sull’integrazione di forze reali, rendendone partecipi gli uomini più in vista delle relative “classi” sociali. Machiavelli integra col (e nel) potere e non (o preferibilmente che) con le norme.

Il che fa del Segretario fiorentino anche uno dei “precursori” del concetto di costituzione materiale[10]; ma è parimenti vero che Machiavelli comprenda lo Stato come realtà vitale e la costituzione “come un ordine vitale, che cerca di realizzare un’immagine determinata di una realtà e di una totalità di vita politiche”[11]. A servirsi della terminologia e dei concetti di Smend la concezione di Machiavelli è, come quella del giurista tedesco, basata sullo Stato come unione di volontà e questa si realizza attraverso l’integrazione “Lo Stato esiste solo perché e in quanto si integra continuamente, si costruisce nei e a partire dai singoli – e in questo processo continuo consiste la sua essenza di realtà sociale spirituale”[12] e come scrive Smend “L’effetto di integrazione esercitato dagli organi può derivare dalla loro esistenza, dal loro processo di formazione e dal loro funzionamento” e prosegue “L’effetto di integrazione degli organi deriva dalla loro esistenza – cioè in prima istanza dall’esistenza di organi politici in senso stretto”[13].

Peraltro diversamente da molti costituzionalisti contemporanei i quali pensano che la costituzione sia il testo scritto e solo quello, il pensiero di Machiavelli presuppone quello che sarà secoli dopo enunciato apertis verbis da De Maistre, che nella costituzione “ciò che è più fondamentale ed essenzialmente costituzionale non potrebbe (ne saurait) esserci scritto”[14]. In particolare il precetto fondamentale salus rei publicae suprema lex (con la conseguente necessità e legittimazione delle “rotture” della legalità anche costituzionale) non è scritto in nessuna delle costituzioni: ciò non toglie che, almeno finché una sintesi politica voglia esistere, lo si debba osservare. Santi Romano perciò riteneva la necessità fonte di diritto, superiore alla legge[15]: anche in questo si manifesta la “discendenza” da Machiavelli, che proprio dalla necessità, legittima “rotture” e deroghe al diritto, alla costituzione, alla religione. A proposito della quale, è noto, oltre alla concezione di questa come strumento della politica, ma soprattutto come la consideri il fondamento della città ben ordinata: “dove manca il timore di Dio, conviene o che quel regno rovini o che sia sostenuto dal timore d’uno principe che sopperisca ai di ferri della religione nel disinteresse rispetto al rapporto tra religione (teologia) e politica, è emerso anche qualche curioso tentativo che vorrebbe fondarne un surrogato prescindendo da “sacro” e da “Dio”, e sostituendoli con un misto di morale privata e imperativi categorici. Una concezione strabica verso il privato e, proprio perciò inadatta a fondare (e mantenere) una società pubblica[16].

  1. Quanto sopra ricordato è solo parte di ciò che di costituzionalistico si può ricavare dagli scritti di Machiavelli.

Le idee generali che li caratterizzano sono quelle del realismo (giuridico) il quale individua nella realtà – e nelle leggi, anche sociali – un dato non modificabile dell’uomo; e nell’esistenza della comunità e dell’istituzione  lo scopo (finale), che relativizza norme, principi, valori, interessi particolari. Secondariamente della coerenza e congruità (anche interna) dell’istituzione: non si può costituire una forma politica durevole che non abbia coerenza e congruità sia nella forma che rispetto alla “materia” cioè alla situazione concreta, sociologica e geopolitica in primo luogo (senza qui considerare altro).

Il che è connesso al carattere “tecnico” del pensiero di Machiavelli. Carl Schmitt scrive al riguardo che il “nocciolo vero” del pensiero di Machiavelli è di essere “dominato da un interesse prevalentemente tecnico”; tale aspetto non è limitato ad attività e risultati più strettamente politici (guerre, alleanze, trattati), ma anche all’ordinamento del potere[17]. Questa “tecnicità” fa si che passino in secondo piano sia “principi” che valori e norme[18]. È la situazione concreta a determinare quale sia la forma di governo più adatta[19] a una sintesi politica in un determinato momento storico. D’altra parte il criterio di validità di una forma politica è dato – come sopra scritto – della durata e dai risultati e non dalla corrispondenza a  norme, valori e principi. Anche questa concezione condivisa nei secoli successivi da tanti[20].

D’altra parte la razionalità del pensiero del Segretario fiorentino, e l’illusorietà di quello di taluni contemporanei è provato da una constatazione: che una costituzione “bellissima” colma di enunciazioni accattivanti di principi e valori condivisi ma inadatta all’azione e all’esistenza politica non serve neppure a conservare quei principi e quei valori che vi sono proclamati (e spesso branditi contro gli avversari politici). Più prima che poi guerre, rivoluzioni, o quelle forme di ostilità “parabelliche” (come gli attacchi della finanza internazionale) costringeranno a eliminarla o riformarla (o a perdere la sintesi politica). Ma se la costituzione è congrua, anche la protezione di quelli è (meglio) assicurata. Bonald sosteneva che la costituzione è il modo di esistenza di un popolo, a conservare il quale (e con esso i relativi rapporti, valori, leggi fondamentali) serve.

L’esistente prevale sul normativo (senza il primo viene meno il secondo: ma non è vero l’inverso): è questa la lezione che Machiavelli (e il realismo) ci da ancora oggi. A non capirlo o a volerlo non capire, anche nell’organizzare le istituzioni si trova “più presto la  ruina che la perservazione sua”.

Teodoro Klitsche de la Grange

[1] Area, maggio 2013

[2] A chiarimento del carattere “problematico” e  “pessimistico relativo” della natura umana, l’uso di queste espressioni è finalizzato a distinguere le concezioni pessimistiche spesso identificate in due pensatori come S. Agostino e S. Tommaso. Più pessimista il primo, meno il secondo, come noto (e dibattuto). L’ascrizione di Machiavelli al pessimismo antropologico “relativo” (o moderato o “tomista”) è, a mio avviso, determinata sia dal richiamo costante (e pieno) al libero arbitrio, (alla virtù che contiene la fortuna) e alla necessaria prudenza che ne consegue che alla non adesione all’autoritarismo conseguente logicamente dal pessimismo agostiniano; così ben testimoniato da Lutero e da Calvino (ma anche da Bossuet) con la dottrina cioè del “diritto divino soprannaturale”, per cui al cristiano non è consentito opporsi (resistere) all’autorità costituita.

[3] Si può desumere anche un altro senso di quella frase, che considera legge, forza e modi di combattere: che ambedue sono finalizzati a creare l’ordine, a creare, mantenere, aumentare il potere (comando/obbedienza) ma il tutto esula dai limiti di questo scritto.

[4] Ma ne tratta anche nel Principe in altri capitoli, nonché in tante opere anche “occasionali”, come i discorsi per l’ordinamento della milizia  fiorentina.

[5] V. Discorso dell’ordinare lo Stato di Firenze alle armi.

[6] Discorsi I, III (i corsivi sono nostri).

[7] v. R. Aron, trad. it. in Machiavellie le tirannie moderne, Roma 1998, p. 104.

[8] v. Discorsi, 1, II.

[9] v. Discorsi 1, III.

[10] Il quale, come noto si deve – nell’epoca moderna – a Lassalle “Gli effettivi rapporti di potere che sussistono in ogni società sono quella forza effettivamente in vigore che determina tutte le leggi e le istituzioni giuridiche di questa società, cosicché queste ultime essenzialmente non possono essere diverse da come sono” v. trad. it. di C. Forte in Behemoth n. 20 p. 6 (da qui l’esigenza di coordinare, organizzare detti rapporti) e a Costantino Mortati che ne coniò il termine “Rimanendo nell’ordine di idee per ultimo esposte di una raffigurazione della costituzione che colleghi strettamente in sé la società e lo stato, è da ribadire quanto si è detto sull’esigenza che la prima sia intesa come entità già in sé dotata di una propria struttura, in quanto ordinata secondo un particolare assetto in cui confluiscano, accanto ad un sistema di rapporti economici, fattori vari di rafforzamento, di indole culturale, religioso ecc., che trova espressione in una particolare visione politica, cioè in un certo modo d’intendere e di avvertire il bene comune e risulti sostenuta da un insieme di forze collettive che siano portatrici della visione stessa e riescano a farla prevalere dando vita a rapporti di sopra e sotto-ordinazione, cioè ad un vero assetto fondamentale” v. Istituzioni di diritto pubblico, Padova 1975 Vol. I° p. 30.

[11] v. Rudolf Smend ora in Costituzione e diritto costituzionale (raccolta di scritti) trad. it. Milano 1988, p. 287.

[12] Op. cit., p. 76.

[13] Op. cit., p. 162.

[14] Des Constitutions politiques, I.

[15] V. “ Talvolta le leggi scritte accordano, in casi di necessità, al potere esecutivo la facoltà di emanare decreti o ordinanze … Ma anche quando tali leggi scritte mancano, o sono inadeguate alla situazione che si è formata, e persino quando espressamente vietano che si faccia uso di poteri eccezionali e straordinari questi potranno essere assunti ed esercitati in forza della necessità. Come la consuetudine, anzi a maggior ragione, data la sua maggiore energia la necessità è fonte autonoma del diritto, superiore alla legge. Essa può implicare la materiale e assoluta impossibilità di applicare, in certe condizioni, le leggi vigenti e, in questo senso, può dirsi che «necessitas non hablet legem». Può anche implicare l’imprescindibile esigenza di agire secondo nuove norme da essa determinate e, in questo senso, come dice un altro comune aforisma, la necessità fa legge. In ogni caso, «salus rei publicae suprema lex» v. Diritto costituzionale generale, Milano 1947 p. 92 (il corsivo non virgolettato è nostro).

[16] Discorsi I, 11.

[17]L’organizzazione politica del potere e la tecnica per conservarlo ed estenderlo differiscono a seconda delle forme statuali, rimangono però sempre qualcosa che può essere prodotto con tecniche pratiche, così come l’artista produce, secondo la concezione razionalistica, l’opera d’arte. Con il variare delle condizioni concrete – posizione geografica, carattere del popolo, concezioni religiose, struttura dei gruppi sociali dominanti, tradizioni – varia anche il metodo e si costruiscono strutture diverse” in “Die Diktatur” trad. it. di A. Caracciolo, Roma 2006, p. 29 (il corsivo è nostro).

[18] “Il Principe dal canto suo non pretende fornire giustificazioni morali o giuridiche, ma semplicemente suggerire la tecnica razionale dell’assolutismo politico” op. cit., p. 30.

[19] “Supponiamo per esempio di avere degli uomini dotati della virtù, che è il principio indispensabile per la costruzione di un ordinamento sociale repubblicano: in questo caso la monarchia non sarebbe neppure tollerata. Il tipo di energia politica che si esterna nella virtù è incompatibile con forme di governo assolutistiche, ma ammette unicamente un regime repubblicano. Il materiale umano con il quale ha da fare i conti il procedimento tecnico dev’essere dunque  diverso a seconda che ci si prefigga di stabilire un principato assoluto o una repubblica; diversamente non si conseguirebbe il risultato voluto” op. cit. p. 30.

[20] Tra cui citiamo Louis de Bonald il quale scrisse, in polemica con un libro di M.me de Staël che “La costituzione di un popolo è il modo della sua esistenza; e chiedersi se un popolo con quattordici secoli di storia, un popolo che esiste, ha una costituzione, è come interrogarsi, quando esiste, se ha il necessario per esistere; è come chiedere ad un arzillo ottuagenario se è costituito per vivere… La nazione era costituita, e così ben costituita, che essa non ha mai chiesto a nessuna nazione vicina la protezione della sua costituzione… proprio perché la Francia aveva una costituzione ed una costituzione solida, si è ingrandita un re dopo l’altro, anche quando questi erano dei deboli, sempre invidiata mai scalfita; spesso turbata mai piegata; uscendo vittoriosa dai rovesci più imprevedibili con i mezzi più insospettati, e non potendo perdersi che per una mancanza di fiducia nella propria fortuna” ed aggiunge “Una costituzione completa e ben congegnata non è quella che si arresta davanti ad ogni difficoltà, che le passioni umane e la varietà degli eventi possono far nascere, ma quella che prevede il mezzo di risolverli quando questi si presentano: come il fisico robusto non è quello che impedisce e previene le malattie, ma quello che da la forza di resistervi, e di ripararne prontamente i danni” v. Louis de Bonald Observation ur l’ouvrage de M.me la Baronne de Stael, trad. it. di Teodoro Katte Klitsche de la Grange, La Costituzione come esistenza, Roma 1985, pp. 35-36.

CHI GESTIRÀ LA FASE DI CHIUSURA DELL’ILVA DI TARANTO?, a cura di Luigi Longo

CHI GESTIRÀ LA FASE DI CHIUSURA DELL’ILVA DI TARANTO?

a cura di Luigi Longo

 

Ho sostenuto qui, qui, qui con una ragionevole ipotesi che l’Ilva di Taranto si avvierà verso la chiusura perché è incompatibile con l’allargamento della base Nato e perché gli USA ritengono Taranto e Foggia spazi fondamentali per le loro strategie nel Mediterraneo, Medio Oriente e Oriente.

L’avvio della chiusura di una impresa di livello mondiale, con il più grande impianto siderurgico d’Europa, strategica per l’economia italiana, significherà avviare l’Italia verso un più accentuato declino economico, sociale e politico; dimostrando così che siamo amministrati da sub-sub-decisori servili e stupidi ( ci vorrebbe un altro Johnathan Swift per aggiornare la follia dei decisori) nel momento in cui svendono una industria strategica ad una multinazionale facendo in modo che siano sempre più i gabinetti stranieri a decidere la sorte della nazione.

Si pone una domanda: la svendita dell’Ilva di Taranto alla Am Investco (joint venture tra AcelorMittal (85%)- multinazionale con sede in Lussemburgo con primo azionista la famiglia indiana Mittal e Marcegaglia (15%), con advisor Jp Morgan) é l’inizio della complessa fase di gestione della chiusura?

L’articolo di Comidad (L’Ilva tra nuvole tossiche e nuvole di astrazione, apparso sul sito www.comidad.org, il 14/6/2018), di seguito riportato, pone delle riflessioni che lasciano intravedere le irrisolvibili problematiche perchè l’Ilva possa continuare a produrre e fanno emergere il conflitto tra i sub-sub-decisori delle varie sfere: militare, politica, economica e ambientale, nella fase di gestione della chiusura dell’Ilva.

 

 

L’ILVA TRA NUVOLE TOSSICHE E NUVOLE DI ASTRAZIONE

di Comidad

 

 

L’ennesimo “governo del cambiamento” si è andato a scontrare con le normali emergenze”. Se il dibattito sull’ILVA di Taranto continua ad assumere gli stessi toni spesso esasperati ed esasperanti, è perché risulta astratto; risente cioè di un’assoluta mancanza di contestualizzazione. Anzitutto bisogna capire quanto ha inciso, e quanto incide tuttora, nella vicenda il fatto che lo stabilimento ILVA confini con strutture militari, tra cui una base NATO. Quale che sia il governo in Italia, la NATO ha fatto capire chiaramente che non intende mollare la presa sul Sud del Mediterraneo.
La presenza dello stabilimento ILVA a Taranto è per “caso” diventata di troppo? Ostacola con la sua presenza l’espansione delle strutture militari?
Circa tre anni fa l’allora Capo di Stato Maggiore della Marina ventilò l’ipotesi di un assorbimento dei lavoratori dell’ILVA nel personale civile della struttura militare dell’Arsenale di Taranto.
Che si tratti di un progetto abbandonato o di un progetto lasciato in sospeso, oppure di una boutade di pubbliche relazioni per far vedere quanto possono essere buoni e utili i militari, ancora non è chiaro.
Un’altra questione non da poco è cercare di stabilire quanto incida la presenza militare nell’inquinamento dell’area. Un’ILVA capro espiatorio? Certo è che nessun perito di tribunale si sentirebbe di rovinarsi l’esistenza chiamando in causa una fonte di inquinamento di origine militare. E poi col segreto militare ci sarebbe poco da fare persino se la magistratura fosse al di sopra di ogni sospetto.
Oltre la vicenda del sito di Taranto, c’è la questione della siderurgia in genere. Può esistere una siderurgia senza le sovvenzioni statali, una siderurgia di “mercato”, oppure rientra nel novero delle fiabe liberiste?
In nome del mercato si delega la produzione della gran parte dell’acciaio alla Cina, dove però i colossi dell’acciaio sono tutti statali e vanno verso una crescente cartellizzazione, sempre all’ombra della mano pubblica.
Non sarebbe molto meno oneroso per la spesa pubblica italiana una siderurgia nazionalizzata piuttosto che foraggiare il rapinatore privato di turno?
In molti settori industriali tenere in piedi la finzione del privato ha un costo esorbitante per il bilancio dello Stato che deve tappare i buchi; ma questi “sprechi” di denaro pubblico possono essere catalogati sia come costi dell’assistenzialismo per ricchi, sia come costi della lotta di classe contro il lavoro.
La fiaba liberista ci narra di governanti spendaccioni che acquistano con la spesa allegra il consenso delle masse. La realtà è l’esatto opposto: lo Stato infatti spende e paga il pedaggio alle multinazionali di turno per poter mantenere i lavoratori dei centri siderurgici sotto la spada di Damocle della perdita del posto di lavoro. La produzione siderurgica comporta infatti la presenza sul territorio di concentrazioni operaie e, per i governi, il problema è di evitare che queste concentrazioni operaie diventino, come in passato, roccaforti e punti di aggregazione dell’opposizione sociale.
Un’altra passeggiata tra le nuvole riguarda le cosiddette “bonifiche ambientali”. Persino nell’ipotesi più ottimistica, cioè che l’inquinamento di Taranto sia esclusivamente di fonte industriale e non militare, ogni bonifica costituisce un’avventura di cui non si possono quantificare costi e tempi. E ciò senza tener conto dei rischi ulteriori che comporta l’andare a smuovere strutture che hanno sedimentato scorie tossiche in stratificazioni storiche. A sentire certi discorsi sembra che il disinquinamento sia come confessarsi e farsi la comunione per ritornare puri come prima. In realtà ogni bonifica è un azzardo e le tecnologie in grado di renderlo meno azzardato non sono del tutto certe e affidabili, anche se, ovviamente, il business ambientale tende a far credere il contrario.
La storia infinita della mancata bonifica del sito di Bagnoli è stata risolta semplicisticamente dalla magistratura nei consueti schemi del caso di corruzione. Ci si propina la solita fiaba moralistica secondo cui sarebbe stato solo l’inquinamento delle anime ad impedire il disinquinamento dell’ambiente.

 

se non una, quattro verità, di Antonio de Martini

LA RETE “PROSPER” E LE GRANDI ESIGENZE DI DISINFORMAZIONE, IN INTELLIGENCE SONO SEMPRE TRIPLE.

Qualche amico mi considera anti-britannico pregiudiziale.
Ammiro gli inglesi sia individualmente che come popolo.

In base a questi stessi princìpi sto dalla parte dell’Italia bestemmiando in silenzio la sorte.
Per farvi capire meglio il modus operandi Inglese che quando fa la guerra, la fa per vincere e non per ” sedersi al tavolo della pace” vi racconterò la storia della rete PROSPER.

È lunga ma molto istruttiva. Buona per una domenica calma.

Durante la guerra, esisteva il SIS ( secret intelligence service) guidato dal colonnello Stewart Menzies e – una creazione di Churchill- il SOE ( special operation executive) comandato dal colonnello, poi generale, Colin Gubbins incaricato dei sabotaggi in Europa ( ” set Europe ablaze ” ordinò Sir Winston).

I due si odiavano e si scontravano regolarmente nel JIC ( joint intelligence committee) di fronte a Churchill.

PER ORGANIZZARE LA DISINFORMAZIONE SULLO SBARCO IN SICILIA, sentite quel che organizzo Menzies, maestro di inganni inarrivabile.

Henri Dericourt, responsabile dei voli segreti con la Francia, in specie la zona di Parigi, veicolava regolarmente e fortunatamente uomini e mezzi da e per la Resistenza e i suoi servigi erano equamente forniti a SIS E SOE all’insaputa del SOE.

Nell’estate 1943 il capo della rete PROSPER (1600 persone) fu chiamato a Londra, ricevuto da Churchill in persona che gli fece capire che qualcosa bolliva in pentola in tempi brevi.

Poi Menzies gli confidò che l’invasione della Francia del nord era imminente.

Forse suggerì un paio di date e invitò alla preparazione.
Hyundai
Il capo rete rientrato in Francia, mise in allarme tutto il ” reseau “e informò i capigruppo.

Furono catturati in 600 e quattrocento passati per le armi previa tortura da una informatissima Abweher.

Dericourt fu messo sotto inchiesta, ma giunsero ordini dall’alto che fermarono tutto.

MORALE:

a) Dericourt era fedele al SIS e mostrava ai tedeschi tutti i documenti del SOE in maniera da ottenere la loro fiducia e far passare, le ben più preziose informazioni del SIS, indenni le linee.

b) la rete PROSPER era stata ” venduta” in una con i capi rete convinti di conoscere la data dell’invasione ( il capo rete si fece uccidere mediante tortura senza parlare, ma uno o due dei sottoposti parlarono prima di morire col colpo alla nuca).

c) l’operazione serviva, nelle intenzioni del SIS, ad attirare i tedeschi nel nord della Francia mentre l’operazione sbarco era prevista in Sicilia.

d) a guerra finita, si scoprì che i tedeschi non avevano abboccato e non spostarono truppe verso nord, nemmeno in misura minima.

e) messo in crisi dalle eccessive perdite, il SOE fu messo in posizione defilata e data al SIS la precedenza nell’uso dei 18 aerei leggeri che eseguivano i voli notturni sulla Francia.

f) Gubbins accusò, in pieno JIC, Menzies di aver venduto ai tedeschi moltissimi agenti SOE. ( il 50% dei voli), ma senza esito. Anzi commise un errore: ammise le pesantissime perdite.

g) Cavendish Bentick che presiedette la riunione del JIC fu così convinto che il SOE si sarebbe vendicato del colpo basso ricevuto, sia in Francia che in Inghilterra, che ordinò a Victor Rothshild
lo scienziato che collaborava coi servizi, che “se fosse morto improvvisamente, si dovesse fare una autopsia”.

Menzies era intoccabile come Dericourt , anche dopo aver fatto ammazzare , scientemente e inutilmente, quattrocento agenti comandati da un eroico ufficiale. Inglese. Il suo nome era : maggiore FRANCES SUTTIL.

Serviva per sviare i sospetti di manipolazione se le vittime fossero state solo ” stranieri”.
Pare che il primo rifiuto di De Gaulle all’ingresso inglese nella Comunità Economica Europea, sia stato chiamato “il conto di PROSPER”.

Il motivo della intoccabilità di Menzies ? Enigma, il segreto che lo legava a Churchill ed altre pochissime persone e che assicurò la vittoria finale ad Albione.

Come spiegazione ufficiale della disinformazione fatta, si propinò la versione ufficiale del falso cadavere di un ufficiale inglese affiorato sulla costa iberica con in tasca una lettera tra capi militari inglesi che accennava a uno sbarco in Sardegna..

Da questa storiella ( operazione ” Mincemeat”) fu tratto il film “The man Who never was ” ( l’uomo che non è mai esistito) con Clifton Webb, presentato a Cannes nel 1956. L’anno della firma dei trattati di Roma.

Dal punto di vista tattico, le truppe ( aerei, navi) destinate a Sardegna o Sicilia, sarebbero state comunque sul posto della battaglia, ma la gente negli anni 50 era stanca di racconti di guerra e la prese per buona.

Le ottime operazioni di disinformazione – etica a parte- sono sempre triple. Questa era quadrupla perché Dericourt serviva a proteggere la vera fonte dell’Abweher. Ma meglio non dirlo.

Adesso capite perché ci sto tanto attento, seguo e segnalo di continuo le loro azioni, vero?
Buona domenica.

Fatti di Macerata, chiuse le indagini. Chiuse davvero?, di Roberto Buffagni

Fatti di Macerata, chiuse le indagini. Chiuse davvero?

 

Ieri la Procura di Macerata ha chiuso le indagini sull’omicidio di Pamela Mastropietro. Unico indagato, Innocent Oseghale, che dovrà rispondere di omicidio volontario, vilipendio, distruzione e occultamento di cadavere, con l’aggravante di aver ucciso Pamela durante uno stupro dopo averla drogata. Sulla violenza sessuale, c’è discordia con il GIP e il tribunale del Riesame, che ritengono non sufficientemente provata la custodia cautelare per violenza sessuale. L’uomo potrebbe aver ucciso, infatti, perché colto dal panico quando vide Pamela collassare dopo l’iniezione di eroina. Per la Procura, invece, il movente scatenante fu la violenza. Oseghale avrebbe comunque violentato, ucciso e smembrato il cadavere da solo: scagionati da tutte le accuse connesse all’omicidio Lucky Awelima e Desmond Lucky, che restano in carcere per la sola accusa di spaccio. [1]

Giudicando con le informazioni di cui dispongo (i media e basta) le conclusioni delle indagini sembrano gravemente incoerenti con gli elementi disponibili. Ho illustrato un paio di settimane fa perché queste tesi accusatorie non mi persuadono: http://italiaeilmondo.com/2018/05/05/macerata-come-procedono-le-indagini_di-roberto-buffagni/ . Non vedo perché dovrei cambiare idea, a meno che scagionare Lucky Awelima e Desmond Lucky non serva ad avviare una indagine sulla mafia nigeriana, sorvegliandoli con discrezione: se è così, naturalmente mi scuso sin d’ora con gli inquirenti.

Ma se non è così, e temo proprio che non sia così, questo mi pare un esito determinato da un classico condizionamento ambientale. Nessuno dei moventi dell’omicidio, per come risulterebbero ipotizzati dall’accusa, avrebbe il minimo rapporto con la razza e la diversa cultura del colpevole, nessuna delle modalità dell’omicidio alluderebbe a complicità, precedenti o posteriori all’omicidio, della mafia nigeriana. Il modus operandi del colpevole designato, Innocent Oseghale, sempre alla luce del tenore della contestazione formulata dagli indaganti, ci presenterebbe semplicisticamente il ritratto di un balordo dai nervi fragili, un criminale dilettante che si fa prendere dal panico. La vittima ci viene presentata come un prodotto della società, della droga, del crollo dei valori e del disorientamento della gioventù in questo mondo così difficile e sordo alle esigenze, eccetera. L’unica divergenza tra le ipotesi sulla dinamica dell’omicidio riguarda proprio la vittima, e non il suo assassino: per il Procuratore Pamela è stata violentata da Oseghale, per il GIP no. Questo aspetto della vicenda – se il rapporto sessuale tra Pamela e il suo omicida sia stato consenziente o meno – è certo rilevante sul piano giudiziario e importante per i parenti di Pamela, ma non ci aiuta a capire come sono andate davvero le cose: chi l’ha uccisa e perché, chi e perché l’ha smembrata per poi depositarne il corpo fatto a pezzi sul ciglio di un viottolo di campagna.

L’impressione che ne ricavo è che gli inquirenti abbiano seguito un codice informale teso a chiudere il caso il più presto possibile e nel modo più indolore. Ovvio il dubbio e il sospetto che ne consegue: c’è sotto qualcosa di molto grosso e pericoloso, che può coinvolgere persone, enti e istituzioni che vanno comunque tutelati.

Mi sbaglio? Spero di sì, temo di no. E se il Ministero degli Interni inviasse un’ispezione della Criminalpol per dissipare i timori e i sospetti che certo non sono l’unico a nutrire? Timori e sospetti ben insinuati tra i profani, ma anche tra gli addetti ai lavori.

[1]http://www.oggi.it/attualita/notizie/2018/06/14/pamela-mastropietro-chiuse-le-indagini-per-la-procura-e-innocent-oseghale-lunico-assassino-e-stupratore/

LA FINANZA, UNO STRUMENTO DI LOTTA TRA LE NAZIONI EUROPEE SOTTOPOSTE ALLE STRATEGIE USA, 3a parte (a cura di) Luigi Longo

LA FINANZA, UNO STRUMENTO DI LOTTA TRA LE NAZIONI EUROPEE SOTTOPOSTE ALLE STRATEGIE USA

(a cura di) Luigi Longo

 

 

Propongo la lettura di quattro scritti di cui il primo sull’euro, sullo spread e sul rapporto tra l’Italia e la Germania; il secondo sul non rispetto delle regole europee da parte della Bundesbank nell’emissione dei titoli del debito pubblico; il terzo sul debito pubblico; il quarto sulla necessità di un principe che con dura energia sappia rialzare la Nazione da uno stato di degrado economico, politico e sociale.

I due scritti di Domenico de Simone, un economista “radical”, sono apparsi sul sito www.domenicods.wordpress.com, rispettivamente in data 27/5/2018 e 18/2/2014, con i seguenti titoli: 1) italiani scrocconi e fannulloni? tedeschi truffatori e falsari!; 2) Con la scusa del debito.

Lo scritto di Domenico De Leo, economista, è apparso sul sito www.economiaepolitica.it in data 7/12/2011, con il seguente titolo: L’eccezione tedesca nel collocamento dei titoli di stato.

Per ultimo propongo lo stralcio dello scritto di G.W.F. Hegel dal titolo: Il “Principe” di Macchiavelli e l’Italia che è stato pubblicato in Niccolò Macchiavelli, Il Principe, a cura di Ugo Dotti, Feltrinelli, Milano, 2011, pp. 246-248.

L’idea di questa proposta è scaturita seguendo con grande fatica la crisi politica e istituzionale che si è innescata a partire dalle elezioni politiche del 4 marzo scorso: è irritante fare analisi politiche di grandi questioni (sic) a partire dalle elezioni politiche che sono teatrini indecenti con maschere penose e tristi, così come tristi sono le relazioni di potere!

Si parla in questi giorni di questioni come la difesa dell’euro, il debito pubblico, il pareggio di bilancio, lo spread, l’Unione Europea, la Costituzione violata, eccetera, velando i veri problemi che sono quelli dati dalla mancanza di sovranità nazionale (indipendenza, autonomia e autodeterminazione) e da una Europa che non esiste come soggetto politico (non è mai esistita storicamente): questa Unione europea, economica e finanziaria è figlia delle strategie egemoniche mondiali statunitensi.

L’Europa è una espressione geografica storicamente data a servizio degli Stati Uniti dove i sub-dominanti vogliono tutelare i propri interessi nazionali, svolgere le proprie funzioni per accrescere il loro potere sotto l’ala protettiva e allo stesso tempo minacciosa degli Stati Uniti (egemonia nelle istituzioni internazionali e nella Nato) a scapito degli interessi della maggioranza delle popolazioni nazionali ed europee (gli scritti di Domenico de Simone e di Domenico De Leo chiariscono molto bene il ruolo di potere degli agenti strategici che usano gli strumenti della finanza nel conflitto per la difesa del posto di vassallo europeo da parte tedesca).

La crisi dell’Italia (crisi di una idea di sviluppo e di una comunità nazionale inserite in una crisi d’epoca mondiale) va vista nel ruolo che l’Italia svolge nelle strategie statunitensi: sul territorio italiano ci sono fondamentali infrastrutture (immobili e mobili) militari a servizio degli Usa, nel Mediterraneo, nel Medio Oriente e in Oriente. Gli Usa-Nato stanno cambiando le città e i territori, stanno distruggendo le industrie di base, stanno rimodellando le economie dei territori; il Pentagono decide gli investimenti e le infrastrutture necessari; in definitiva hanno compromesso le basi per lo sviluppo di una discreta potenza del Paese: ci restano solo il cosiddetto made in Italy e il piccolo, medio è bello (sic). Il segretario di Stato USA, Mike Pompeo, facendo gli auguri al popolo italiano per la festa della Repubblica, ha detto che “La nostra continua cooperazione economica, politica e sulla sicurezza è vitale (corsivo mio) per affrontare le sfide comuni, tra cui il rafforzamento della sicurezza transatlantica e la lotta al terrorismo in tutto il mondo”.

Lo sbandamento dei sub-decisori italiani non è dovuto alla ricerca di un percorso di sovranità nazionale, da cercare con altre nazioni europee, per ripensare un’Europa come soggetto politico autonomo ( le cui forme istituzionali sono da inventare); ma esso è dovuto al conflitto interno agli USA dove si scontrano le visioni diverse dell’utilizzo dello spazio Europa in funzione delle proprie strategie egemoniche mondiali: 1) una Europa sotto il coordinamento del vassallo tedesco e del valvassore francese con la costruzione di uno Stato europeo?; 2) una Europa delle Nazioni singole?; 3) una Europa ridisegnata con la creazione di regioni?; 4) una Europa riorganizzata in aree << secondo le linee che marcano lo sviluppo storico>>?

La nuova sintesi dei dominanti statunitensi basata su un’idea di sviluppo con una diversa organizzazione sociale ( se mai ci sarà, considerato l’atroce conflitto in atto che indica l’inizio del declino dell’impero) dirà quale Europa sarà funzionale al rilancio egemonico mondiale.

E’ bastato che alcune forze politiche sistemiche proponessero ( non a livello di azione, che presuppone ben altre analisi e ben altri processi) aggiustamenti tecnici, maggiore equità, una ri-sistemazione sistemica delle gerarchie consolidate, una maggiore difesa dei propri interessi nazionali in funzione di una migliore Europa atlantica, che la reazione del potere sub-dominante europeo (soprattutto tedesco) fosse violenta, scomposta e rozza.

Il ruolo di garante di questa Europa legata ai dominanti statunitensi, che si configurano nel blocco democratico – neocon – repubblicano ( di questo blocco sono da capire meglio gli intrecci dei decisori della sfera politica), che vogliono una Europa coordinata dal vassallo tedesco, è rappresentato, in Italia, dal Presidente della Repubblica (oggi Sergio Mattarella, ieri Giorgio Napolitano). Il gioco istituzionale di Sergio Mattarella è da inquadrare in questa logica, altrimenti non si capiscono bene le contraddizioni, i paradossi, le sbandate e le ipocrisie di tutta la sfera politica. Attardarsi sul rispetto della Costituzione da parte del Presidente della Repubblica è un non sense perché la Costituzione è una espressione dei decisori e non del popolo. Le regole, le norme, i principi che regolano i rapporti sociali di una Comunità nazionale sono in mano a pochi e non a molti. Come insegna la cultura antica, soprattutto greca, quando le regole del legame sociale non sono decise dalla maggioranza non c’è nè democrazia nè libertà.

Occorre riflettere sulla tragica situazione in cui si trova l’Italia in particolare, e più in generale l’Europa, per trovare una strada che non sia solo elettorale, che non sia solo tecnica-finanziaria, che non veda la finanza come un dominio ma come uno strumento di potere in mano agli agenti strategici sub-dominanti europei e pre-dominati statunitensi. << Oggi si parla tanto della finanziarizzazione del capitale e del suo strapotere. Magari vedendo in questo processo l’avvicinarsi di una crisi catastrofica. Ma la finanza è solo un fattore fra altri, non isolabile, dello scontro per la supremazia fra i gruppi dominanti. Il capitale finanziario insomma rappresenta i conflitti in atto tra diverse forze e strategie politiche, combattuti con l’arma del denaro. Se vogliamo allora comprendere gli squilibri e le crisi che caratterizzano il capitalismo contemporaneo dovremmo addentrarci in un complesso intreccio tra funzioni finanziarie e politiche e nelle contraddizioni tra la razionalità strategica che prefigura assetti di potere e la razionalità strumentale che mira ai vantaggi immediati dell’economia. Al fondo vi è sempre lo scontro tra gruppi dominanti.>> (Gianfranco La Grassa, Finanza e poteri, Manifestolibri, Roma, 2008).

Per questo il rito delle elezioni è diventato sempre più inutile (l’esempio greco, e non solo, è significativo!) e mano a mano che si entrerà sempre di più nella fase multicentrica si renderà sempre più palese l’ideologia della partecipazione popolare alle decisioni del Paese tramite il voto elettorale, alla faccia della Costituzione!

La fase multicentrica impone una ri-considerazione sul ruolo della sovranità nazionale per ri-costruire una Europa delle nazioni sovrane che chiarisca il suo rapporto con gli USA e guardi ad Oriente.

 

Per comodità di lettura gli scritti proposti sono stati divisi e pubblicati in quattro parti, ciascuna preceduta dalla mia introduzione.

 

 

TERZA PARTE

 

 

CON LA SCUSA DEL DEBITo

di Domenico de Simone

 

 

Un paio di anni fa, un serissimo Istituto di studi economici tedesco, la Fondazione Stiftung Marktwirtschaftche significa Economia di Mercato, condotto dall’economista Bernd Raffelhüschen, molto stimato in Germania e all’estero, ha pubblicato un report a dir poco sconcertante, nel quale si dimostra che l’Italia è sì inguaiata dai debiti, ma in realtà in proiezione futura sta molto meglio di tutti gli altri paesi europei Germana compresa. La sua ricerca è stata ripresa qualche tempo fa dal Neue Zürcher Zeitung (Nzz), il più prestigioso giornale della Svizzera tedesca che nella sua edizione tematica, l’ha ampliata aggiungendo anche la Svizzera all’elenco dei paesi esaminati nella ricerca di Raffelhüschen.

Non molto stranamente, mentre in Germania e in Svizzera la ricerca ha aperto un grande dibattito ed ha avuto l’eco mediatica che meritava, in Italia ne hanno parlato in pochissimi, e nessuno dei grandi giornali che si occupano di economia, o fanno finta di occuparsene. Questo è il link ad un articolo apparso su uno dei pochi periodici on line che hanno commentato la ricerca e questo un altro.

Non è strano affatto se si pensa ai contenuti del report. Nella ricerca si distingue, infatti, tra debito “esplicito” ovvero il debito esistente e conclamato dai titoli di stato in circolazione, e quello “implicito” ovvero il debito che non appare direttamente dai conti, ma che apparirà nel tempo a causa delle politiche economiche e degli oneri effettivi assunti dagli Stati relativamente alla loro spesa pubblica. Se si sommano le due componenti, ci si accorge che l’Italia è il paese in Europa che sta meglio di tutti, poiché ha almeno in chiaro gli oneri che si sommeranno nel prossimo futuro al debito attuale. La somma delle due componenti, infatti, porta il debito complessivo dello Stato al 146% del PIL attuale, mentre per la Germania la somma risulta essere il 192,6% del PIL, poco meno della virtuosa Finlandia che raggiunge il 195,2%. Stanno molto peggio sia la Francia con il 337,5% che l’opulenta Olanda, con il 494,6% , per non parlare della Spagna, con il 548,5% e la Grecia che raggiunge il 1.016,9% del PIL attuale. Gli altri paese europei li vedete nella scheda di questo articolo. Per la cronaca, la Svizzera è buona terza nella classifica in questione, e per la loro ricerca i conti dell’Italia stanno addirittura sotto lo zero, nel senso che a lungo termine il debito italiano sarà assorbito poiché gli impegni presi sono minori delle entrate previste.

Insomma, dire che stiamo bene è tutto relativo, poiché è chiaro che anche noi stiamo messi malissimo, ma gli altri paesi d’Europa stanno messi peggio di noi, molto peggio. Allora, per quale ragione i “mercati” attaccano tanto i bond italiani, anche quelli a medio e lungo termine, mentre considerano così appetibili i titoli di stato tedeschi, francesi e olandesi? Perché i nostri BOT e CCT sono considerati alla stregua dei titoli spazzatura, mentre i bond tedeschi vanno a ruba? Con la conseguenza che noi dobbiamo onerarci di interessi molto alti per piazzare i nostri titoli di Stato mentre la Germani non paga nulla o quasi? Senza considerare che americani, inglesi e giapponesi stanno messi molto peggio di noi e della Germania, eppure i loro titoli, con tutto il QE elargito a piene mani negli ultimi anni, pagano interessi bassissimi.

Orbene la risposta è semplice. Vi farò una domanda: c’è ancora qualcuno che dubita del fatto che le scelte di acquisto degli operatori finanziari si basano su considerazioni politiche piuttosto che finanziarie? Le aste dei titoli di stato sono gestite da un numero molto ristretto di banche: nel mercato primario sono in tutto venti, e in quello secondario sono 120, di cui solo alcune sono autorizzate a fare il prezzo (market makers). C’è ancora qualcuno che ha la faccia tosta di chiamare questo schifo di potere e questa banda di rapinatori “mercato”? E quale prova più evidente di questa del servilismo e della subordinazione dei nostri politici, per non parlare dei principali media del nostro sventurato paese, ai poteri forti della finanza mondiale, e della Germania in Europa? Ancora dubbi su questo?

 

 

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