Il mondo sta diventando più uguale, di Branko Milanovic

In calce un articolo particolarmente interessante del sociologo Branko Milanovic tratto dalla rivista americana Foreign Affairs. Il saggio tratta l’argomento della condizione dei ceti medi. In poche parole ci rivela che, se è vero che la condizione dei ceti medi dei paesi del Nord-America e dell’Europa Occidentale tende a peggiorare e ad avvicinarsi alle fasce basse di popolazione, la tendenza globale è opposta grazie all’apporto dei paesi emergenti specie quelli demograficamente rilevanti, in particolare la Cina, successivamente l’India e potenzialmente in futuro i paesi africani. Sottolinea che queste due dinamiche sono legate strettamente alla globalizzazione, al processo di apertura dei mercati e delle società. Una inversione di questo processo rallenterebbe altresì la dinamica di degrado nei paesi occidentali a scapito però della sua velocità di progressione su scala globale.

L’utilizzo esclusivo della capacità di reddito come criterio di determinazione  della stratificazione sociale e nella fattispecie dei cosiddetti ceti medi può essere tuttavia un indice approssimativo, indiretto e spesso fuorviante della condizione in un dato momento e della sua dinamica. Il perimetro dei vari ceti intermedi può essere definito molto più proficuamente se lo si traccia sulla base delle competenze professionali richieste, sul ruolo di comando e di controllo intermedi assegnati per determinazione politica o per le “inerzie” nelle relazioni sociali. Ne consegue che i fattori principali e diretti da analizzare dovrebbero essere soprattutto lo sviluppo, l’applicazione e la padronanza delle tecnologie; i modelli di gestione, di controllo e di comando adottati; l’assetto istituzionale e amministrativo e le dinamiche di conflitto sociale interno e geopolitico esterno agli stati e alle formazioni sociali. In ultima istanza dipende dalla ambizione e dalla capacità di centri decisionali e classi dirigenti di garantire potenza, dinamismo e coesione agli stati e alle formazioni sociali. L’attenzione e i desiderata si dovrebbero quindi spostare più che sulla positiva (relativa) apertura della globalizzazione e sulla nefasta (relativa) chiusura protezionistica, sulla capacità delle formazioni politico-sociali, degli stati che le conformano, dei centri decisionali che le indirizzano nell’individuare e influenzare le dinamiche di conflitto e competizione e i conseguenti processi di trasformazione sociale e innovazione tecnologica che queste innescano in maniera sempre più sistematica in un quadro di sviluppo complessivo ed equilibrato delle singole formazioni sociali. Una strada seguita brillantemente dagli Stati Uniti sino a quaranta anni fa. Una attenzione dovuta tanto più che gli attori principali e determinanti sono in entrambi i casi gli Stati. Va sottolineato che sia le fasi di apertura delle globalizzazioni, corrispondenti per lo più ad una fase tendenzialmente imperiale, che di relativa chiusura protezionistica hanno visto emergere e decadere stati, formazioni sociali e relativi ceti intermedi. Nella prima condizione abbiamo visto gli Stati, la Germania e il Giappone di fine ‘800, i paesi del Sud-Est Asiatico, la Corea e il Giappone nel secondo dopoguerra, la Cina e l’India alla caduta del blocco sovietico. Nelle fasi protezionistiche, in particolare negli anni ’30, abbiamo visto emergere gli Stati Uniti, il Giappone, la Germania nazista. In entrambe le fasi in realtà hanno saputo affermarsi quegli stati e quei centri decisionali che hanno saputo dosare al meglio contemporaneamente modalità di “apertura” e modalità di “chiusura” secondo contesto e necessità. Chi è stato vittima di un approccio dogmatico in un senso o nell’altro nel migliore dei casi ne ha tratto un beneficio immediato ma precario; nel medio-lungo periodo ne ha ricavato una sconfitta strategica e con essa la caduta, il degrado pesante e spesso l’oppressione dei ceti intermedi. Buona parte dei paesi africani e del Sud-America sono caduti nella prima trappola, i paesi socialisti del blocco sovietico, non i soli però, nella seconda.

Una chiosa a parte meriterebbe un altro segmento spesso inserito tra i ceti medi. La componente proprietaria, in particolare di immobili e di redditi da rendite di media entità. Una componente importante dal punto di vista dello status e della coesione, molto meno dal punto di vista della funzione; particolarmente vulnerabile e volubile quindi, ma meno decisiva. Si tratta comunque di un ambito di ricerca impantanato ormai da almeno trenta anni, probabilmente paralizzato da una visione dualistica ed economicistica del conflitto e delle dinamiche sociali, come quella marxista o da un procedimento prevalentemente quantitativo e statistico della analisi sociologica. Una questione non solo teorica e accademica; un nodo che numerosi regimi e intere classi dirigenti non hanno saputo sciogliere e nel quale sono rimasti intrappolati. Buona lettura, Giuseppe Germinario

https://www.foreignaffairs.com/articles/world/2020-08-28/world-economic-inequality

Un operaio in una fabbrica alla periferia di Nuova Delhi, India, novembre 2014
Anindito Mukherjee / Reuters

Gli oppositori della globalizzazione economica spesso indicano i modi in cui ha ampliato la disuguaglianza all’interno delle nazioni negli ultimi decenni. Negli Stati Uniti, ad esempio, i salari sono rimasti piuttosto stagnanti dal 1980, mentre gli americani più ricchi si sono portati a casa una quota sempre maggiore di reddito. Ma la globalizzazione ha avuto un altro effetto importante: ha ridotto la disuguaglianza globale globale. Centinaia di milioni di persone sono uscite dalla povertà negli ultimi decenni. Il mondo è diventato più equo tra la fine della guerra fredda e la crisi finanziaria globale del 2008, un periodo spesso definito “alta globalizzazione”.

L’economista Christoph Lakner e io abbiamo riassunto questa tendenza in un diagramma pubblicato nel 2013. Il diagramma mostrava i tassi di crescita del reddito pro capite tra il 1988 e il 2008 nella distribuzione globale del reddito. (L’asse orizzontale ha le persone più povere a sinistra e le più ricche a destra.) Il grafico ha attirato molta attenzione perché riassumeva le caratteristiche di base degli ultimi decenni di globalizzazione e si è guadagnato il soprannome di “il grafico dell’elefante” perché è la forma sembrava quella di un elefante con la proboscide rialzata.

Le persone al centro della distribuzione del reddito globale, i cui redditi sono cresciuti notevolmente (più che raddoppiando o triplicando in molti casi), vivevano in modo schiacciante in Asia, molte delle quali in Cina. Le persone più a destra, più ricche degli asiatici ma con tassi di crescita del reddito molto più bassi, vivevano principalmente nelle economie avanzate del Giappone, degli Stati Uniti e dei paesi dell’Europa occidentale. Infine, le persone all’estremità destra del grafico, l’uno per cento più ricco (composto principalmente da cittadini di paesi industrializzati), hanno goduto di tassi di crescita del reddito molto elevati, molto simili a quelli al centro della distribuzione del reddito globale.

I risultati hanno evidenziato due importanti divisioni: una tra la classe media asiatica e la classe media occidentale e una tra la classe media occidentale ei loro compatrioti più ricchi. In entrambi i confronti, la classe media occidentale stava perdendo. Gli occidentali della classe media hanno registrato una crescita del reddito inferiore rispetto agli asiatici (relativamente più poveri), fornendo un’ulteriore prova di una delle dinamiche determinanti della globalizzazione: negli ultimi 40 anni, molti posti di lavoro in Europa e Nord America sono stati esternalizzati in Asia o eliminati di conseguenza di concorrenza con le industrie cinesi. Questa è stata la prima tensione della globalizzazione: la crescita asiatica sembra avvenire sulle spalle della classe media occidentale.

Un altro baratro si è aperto tra gli occidentali della classe media ei loro ricchi compatrioti. Anche qui la classe media ha perso terreno. Sembrava che le persone più ricche dei paesi ricchi e quasi tutti in Asia beneficiassero della globalizzazione, mentre solo la classe media del mondo ricco ne aveva perse in termini relativi. Questi fatti hanno supportato l’idea che l’ascesa di partiti politici e leader “populisti” in Occidente derivasse dal disincanto della classe media. Il nostro grafico è diventato emblematico non solo degli effetti economici della globalizzazione ma anche delle sue conseguenze politiche.

NUOVI SVILUPPI, VECCHIE TENDENZE

In un nuovo articolo, Torno su questa domanda e chiedo se gli sviluppi identici o simili siano continuati tra il 2008 e il 2013-2014, anni per i quali sono disponibili gli ultimi dati globali della Banca mondiale, lo studio sul reddito del Lussemburgo e altre fonti. Sono dati più raffinati di quelli a cui abbiamo potuto accedere in passato. Comprendono più di 130 paesi con informazioni dettagliate sui redditi a livello familiare. I risultati nel grafico sottostante mostrano infatti la continuazione di quella che ho chiamato la prima tensione della globalizzazione: la crescita del reddito della classe media non occidentale supera di gran lunga quella della classe media occidentale. In effetti, il divario di crescita tra i due gruppi è effettivamente aumentato. Ad esempio, il reddito medio degli Stati Uniti nel 2013 era solo del 4% superiore a quello del 2008; nel frattempo, i redditi mediani cinesi e vietnamiti sono più che raddoppiati, mentre il reddito mediano della Thailandia è aumentato dell’85% e quello dell’India del 60%. Questa disparità mostra come la crisi finanziaria globale, in particolare lo shock iniziale che si rivela in questi dati, abbia colpito l’Occidente in modo molto più grave di quanto abbia fatto in Asia.

Ma la seconda tensione – il crescente divario tra le élite e le classi medie nei paesi occidentali – è molto meno evidente in questo periodo più recente. La crisi finanziaria ha ridotto il tasso di crescita dei redditi (e in alcuni casi ha ridotto i redditi) dei ricchi nei paesi occidentali che costituiscono la maggior parte dell’uno per cento più ricco del mondo. Questo rallentamento si riflette anche nel fatto che la disparità di reddito all’interno di molti paesi ricchi non è aumentata. Ma se la recessione ha interrotto la crescita del reddito dei ricchi, potrebbe non averlo fatto a lungo. Dati globali dettagliati più recenti non sono ancora disponibili, ma alcune stime preliminari indicano che negli anni successivi al nostro periodo di studio, l’1% più ricco ha ripreso il suo precedente modello di crescita.

Con l’eccezione del rallentamento post-2008 della crescita del reddito tra i ricchi, la globalizzazione in questo nuovo periodo ha continuato a produrre molti degli stessi risultati di prima, inclusa la riduzione della disuguaglianza globale. Come misurato dal coefficiente di Gini, che va da zero (una situazione ipotetica in cui ogni persona ha lo stesso reddito) a uno (una situazione ipotetica in cui una persona riceve tutto il reddito), la disuguaglianza globale è scesa da 0,70 nel 1988 a 0,67 nel 2008 e poi ulteriormente a 0,62 nel 2013. Probabilmente non c’è mai stato un singolo paese con un coefficiente di Gini alto come 0,70, mentre un coefficiente di Gini di circa 0,62 è simile ai livelli di disuguaglianza che si trovano oggi in Honduras, Namibia e Sud Africa . (In parole povere, il Sud Africa rappresenta il miglior proxy per la disuguaglianza del mondo intero.)

Ma se la disuguaglianza globale ha continuato a diminuire durante il nuovo periodo di studio, i dati rivelano che lo ha fatto per una nuova serie di ragioni. La Cina, dall’inizio delle sue riforme di mercato alla fine degli anni ’70, ha svolto un ruolo enorme nel ridurre la disuguaglianza globale. La crescita economica della sua popolazione di 1,4 miliardi di persone ha rimodellato la distribuzione della ricchezza nel mondo. Ma ora la Cina è diventata sufficientemente ricca che la sua continua crescita non gioca più un ruolo così importante nell’abbassare la disuguaglianza globale. Nel 2008, il reddito medio cinese era solo leggermente superiore al reddito medio mondiale; cinque anni dopo, il reddito medio della Cina era del 50 per cento superiore a quello mondiale, e probabilmente è anche più alto ora. L’elevata crescita in Cina, in termini globali, smette di essere una forza di equalizzazione. Presto, contribuirà all’aumento della disuguaglianza globale. Ma l’India, con una popolazione che potrebbe prestosupera la Cina ed è ancora relativamente povera, ora svolge un ruolo importante nel rendere il mondo più equo. Negli ultimi 20 anni, Cina e India hanno guidato la riduzione della disuguaglianza globale. D’ora in poi, solo la crescita indiana svolgerà la stessa funzione. L’Africa, che vanta i tassi di crescita demografica più elevati al mondo, diventerà sempre più importante. Ma se i più grandi paesi africani continuano a seguire i giganti asiatici, la disuguaglianza globale aumenterà.

DISUGUAGLIANZA NEL TEMPO DEL COVID-19

La pandemia COVID-19 finora non ha interrotto queste tendenze e di fatto potrebbe portare alla loro intensificazione. La notevole decelerazione della crescita globale derivante dal nuovo coronavirus non sarà uniforme. La crescita economica cinese, sebbene molto più bassa oggi rispetto a qualsiasi altro anno dagli anni ’80, supererà ancora la crescita economica in Occidente. Ciò accelererà la chiusura del divario di reddito tra l’Asia e il mondo occidentale. Se la crescita della Cina continua a superare la crescita dei paesi occidentali di due o tre punti percentuali all’anno, entro il prossimo decennio molti cinesi della classe media diventeranno più ricchi delle loro controparti della classe media in Occidente. Per la prima volta in due secoli, gli occidentali con redditi mediocri all’interno delle proprie nazioni non faranno più parte dell’élite globale, vale a dire nel quintile più alto (20%) dei redditi globali. Questo sarà uno sviluppo davvero notevole. Dagli anni venti dell’Ottocento in poi, quando furono raccolti per la prima volta dati economici nazionali di questo tipo, l’Occidente è stato costantemente più ricco di qualsiasi altra parte del mondo. Entro la metà del diciannovesimo secolo, anche i membri della classe operaia in Occidente erano benestanti in termini globali. Quel periodo sta ora volgendo al termine.

Gli Stati Uniti rimangono un paese molto più ricco della Cina. Nel 2013, il divario tra il reddito medio di un americano e di un cinese era di 4,7 a 1 (e di 3,4 a 1 se confrontato con il reddito medio di un residente urbano cinese). Questo divario si è leggermente ridotto dal 2013 e diminuirà ulteriormente sulla scia della crisi COVID-19, ma ci vorrà del tempo per ridurlo. Se la Cina continua a sovraperformare gli Stati Uniti di circa due o tre punti percentuali di crescita del reddito pro capite ogni anno, il divario di reddito medio tra i due paesi richiederà ancora circa due generazioni per colmare.

Pendolari nel centro di Shanghai, Cina, luglio 2009
Pendolari nel centro di Shanghai, Cina, luglio 2009
Nir Elias / Reuters

A lungo termine, lo scenario più ottimistico vedrebbe tassi di crescita elevati continui in Asia e un’accelerazione della crescita economica in Africa, insieme a una riduzione delle differenze di reddito nei paesi ricchi e poveri attraverso politiche sociali più attiviste (tasse più alte sui ricchi , una migliore istruzione pubblica e una maggiore parità di opportunità). Alcuni economisti, da Adam Smith in poi, speravano che questo roseo scenario di crescente uguaglianza globale sarebbe derivato dalla diffusione uniforme del progresso tecnologico in tutto il mondo e dall’attuazione sempre più razionale delle politiche interne.

Sfortunatamente, previsioni molto più cupe sembrano più plausibili. La guerra commerciale e tecnologica tra Cina e Stati Uniti, sebbene forse comprensibile da un ristretto punto di vista strategico statunitense, è fondamentalmente pernicioso dal punto di vista globale. Impedirà la diffusione della tecnologia e ostacolerà il miglioramento degli standard di vita in vaste aree del mondo. Il rallentamento della crescita renderà più difficile sradicare la povertà e probabilmente preserverà gli attuali livelli di disuguaglianza globale. In altre parole, potrebbe verificarsi qualcosa di simile all’opposto della dinamica iniziale della globalizzazione: il divario tra le classi medie americane e cinesi può essere preservato, ma a costo della crescita del reddito più lenta (o negativa) sia negli Stati Uniti che Cina. I miglioramenti del reddito reale sarebbero sacrificati per congelare l’ordine gerarchico della distribuzione globale del reddito. Il guadagno netto del reddito reale per tutti gli interessati sarebbe zero.

  • BRANKO MILANOVIC è Senior Scholar presso lo Stone Center on Socio-Economic Inequality presso il CUNY Graduate Centre e Centennial Professor presso la London School of Economics.

 

Intervista a Thomas Gomart – Russia, Cina, Stati Uniti: chi è di troppo?

Intervista a Thomas Gomart – Russia, Cina, Stati Uniti: chi è di troppo?

Direttore IFRI, il principale centro studi francese per le relazioni internazionali fondato da Thierry de Montbrial, Thomas Gomart riceve Hadrien Desuin di Conflits nel suo ufficio per discutere della Russia e delle sue relazioni con gli Stati Uniti e la Cina. Thomas Gomart ha appena pubblicato The Return of Geopolitical Risk, The Strategic Triangle Russia, China, United States , Paris, Institut de l’Entreprise, 2016, 56 p., Prefazione di Patrick Pouyanné.

Conflitti: vedete che la globalizzazione del commercio si scontra con il ritorno della geopolitica.

Il “commercio gentile” di Montesquieu è ormai vissuto. Il commercio ha iniziato a ristagnare nel 2009-2010 mentre lo scambio di informazioni continua a crescere in modo esponenziale. La globalizzazione sta accelerando in termini tecnologici ma si sta restringendo in termini politici e istituzionali. È un ritorno alla logica del potere. La comunità imprenditoriale ha visto mercati emergenti, non potenze emergenti, una sfortunata assenza.

 

Conflitti: il triangolo tra Russia, Cina e Stati Uniti ha continuato a strutturare il mondo dal 1971, ma oggi non è di troppo la Russia in questo trio? 

Il 1971 vede il viaggio di Nixon in Cina. Il segmento debole del triangolo è quindi la Cina. E Nixon ci va proprio per indebolire l’URSS. 45 anni dopo, il segmento debole è la Russia, che sta lottando per rimanere nel trio. Tuttavia, la Cina continuerà a crescere, gli Stati Uniti sono in un declino molto relativo e la Russia continua a ripiegare. Cina e Stati Uniti: 35% della ricchezza mondiale, Russia meno del 3%. Nel 1991, le economie cinese e sovietica erano comparabili. Oggi l’economia russa rappresenta il 20% dell’economia cinese. La Russia sta cercando di tenere il passo con Washington e Pechino con risorse paragonabili a quelle di Francia e Regno Unito. “Povero potere”, è in una fortissima distorsione tra le sue ambizioni e i suoi mezzi.

 

Da leggere anche:  Cina, Stati Uniti, UE: chi vincerà la guerra?

Conflitti: la Russia aveva annunciato un perno per l’Asia che le sanzioni europee potrebbero accelerare.

Gli occidentali non sono riusciti ad ancorare la Russia nella loro struttura euro-atlantica alla fine della guerra fredda. Grazie a legami storici, culturali e umani di ogni tipo, l’Unione Europea è il principale partner commerciale della Russia con il 50% del suo commercio estero. Fondamentalmente è la porta della Russia verso la globalizzazione. Le sanzioni chiudono questa porta, ma le élite russe ragionano molto di più delle nostre in termini geopolitici. Per loro, la Russia è anche una potenza del Pacifico che deve partecipare al perno mondiale verso l’Asia.

 

Dopo l’annessione della Crimea, la Russia vuole dimostrare di essere una grande nazione che sta costruendo una partnership con la Cina, in particolare nel campo energetico. Ma l’asimmetria tra i due paesi è enorme! Inoltre, l’ultimo conflitto militare russo-cinese risale al 1969, è ancora nella memoria. Il perno della Russia verso il Pacifico deve quindi essere qualificato e inteso anche come una narrazione o “discorso” geopolitico.

Conflitti: c’è lo stesso una complementarità energetica russo-asiatica che pesa molto …

Certamente con la Cina ma anche con il Giappone e la Corea. Putin ritiene che il principale successo della sua politica estera sia il trattato sul confine sino-russo del 2005. Presso l’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai, russi e cinesi cooperano per la stabilizzazione dell’Asia centrale, fino al Iran. Ma l’80% della popolazione russa vive in territorio europeo e continua a guardare ad ovest anche se cerca alternative. Ci riuscirà? Non ne sono sicuro.

 

Conflitti: ”  Ho preso la Russia come il generale de Gaulle ha preso la Francia  ” ha dichiarato una volta Vladimir Poutine. In che misura la sovranità di Putin è una versione russa del gollismo? 

Non siamo riusciti ad andare oltre la visione di un Putin gollista o cechista. Per i circoli diplomatici e intellettuali, Putin è un cechista che non riuscirà a uscire dalla sua matrice. Per gli ambienti economici e militari, è un gollista che ha restaurato la grandezza del suo paese. Non puoi confrontare. Fondamentalmente, la Russia non ha alleanze, cosa che la Francia gollista non aveva.

Leggi anche:  Nient’altro che la Terra: la geopolitica gaulliana prima di de Gaulle

 

In effetti, abbiamo un problema geopolitico con la Russia e la Russia ha un problema geoeconomico con noi. La gestione della crisi ucraina è stata delegata alla Commissione Europea, quando l’Unione Europea non è un attore geopolitico. Inoltre, Bruxelles ha incoraggiato l’integrazione regionale in tutto il mondo, ad eccezione dello spazio post-sovietico.

Queste sono due contraddizioni molto forti che hanno reso improbabile una partnership con la Russia. Inoltre, l’Europa è molto a disagio con potenze come Russia e Turchia.

Quanto a Putin, prova una grande condiscendenza nei confronti del progetto europeo in cui non crede. La Brexit non può che ancorarlo a questa convinzione.

Conflitti: anche i paesi dell’Europa centrale hanno spinto per il confronto …

Abbiamo un’Europa composita, tutti usano l’Unione europea per promuovere i propri interessi. Questi piccoli paesi hanno un peso che non avrebbero mai potuto avere al di fuori dell’Unione. Il partenariato orientale è influenzato, ad esempio, dall’influenza polacco-svedese. Questa questione del vicinato europeo ha forti risonanze storiche con due parole non dette: Turchia e Russia.

Conflitti: energia, militare e digitale sono tre grandi potenze che strutturano il mondo secondo te, perché hai scelto il digitale? Stiamo parlando di una “bomba digitale”, non stiamo fantasticando sulla guerra digitale?

Sul digitale, gli Stati Uniti dispongono dei principali attori. Per parafrasare John Connally e la sua formula del dollaro , potresti dire ”  Internet è il nostro sistema, ma è un tuo problema  “. Internet è il centro nevralgico del sistema mondiale. Chi domina Internet domina il centro nevralgico e quindi domina il mondo. Internet è anche il mezzo principale per mantenere il controllo sui suoi principali alleati giapponesi ed europei.

https://www.revueconflits.com/entretien-russie-chine-etats-unis-qui-est-de-trop-hadrien-desuin/

ITALEXIT, di Andrea Zhok

ITALEXIT

In questo periodo nell’area politica che frequento maggiormente c’è grande fermento, volano stracci e qualche coltellata.
Il grande tema è dato dalla comparsa sul terreno di un’aspirante forza politica, guidata dall’ex direttore della Padania e vicedirettore di Libero, sen. Gianluigi Paragone.

Il manifesto politico è scritto da mani capaci, e, per quanto semplicistico, tocca tutti i punti giusti nell’area di riferimento. Tuttavia più del manifesto, il cuore della proposta sta in ciò che viene comunicato dalla scelta stessa del nome: ITALEXIT, l’uscita dell’Italia dall’UE.

La fibrillazione nell’area politica di riferimento (oscillante tra ‘sinistra euroscettica’ e ‘destra sociale’) è manifesta. Il senso politico dell’operazione è piuttosto chiaro: esiste una fascia di elettorato rimasto politicamente orfano dopo che nella Lega l’europeismo di Giorgetti ha messo all’angolo l’area Borghi-Bagnai, e dopo che l’esperienza di governo ha mitigato l’euroscetticismo del M5S.
Il progetto di ITALEXIT sta nel chiamare a raccolta quest’area di malcontento in uscita da Lega e M5S, con numeri sufficienti da superare le soglie di sbarramento alle prossime elezioni politiche, portando qualcuno (a partire dal sen. Paragone) in Parlamento.

L’operazione è politicamente legittima e può avere successo.
Intorno a questa operazione, al suo retroterra e ai suoi concreti sbocchi si è acceso un rovente dibattito. Conformemente al modo di porsi del nuovo partito, la discussione si è immediatamente fatta incandescente intorno al tema dell’Italexit, con un ritorno in grande stile delle accuse di “altroeuropeismo”.

Per chi non sia addentro al linguaggio iniziatico di quest’area, per “altroeuropeismo” si intende l’atteggiamento, frequente soprattutto nella sinistra radicale, in cui da un lato si ammettono i difetti dell’Unione Europea, ma dall’altro si professa illimitata fiducia nella capacità dell’UE di autocorreggersi. “Altroeuropeismo” è un termine stigmatizzante in quanto l’Altroeuropeista finge di non vedere le colossali difficoltà, tecniche e politiche, che si frappongono ad una riforma radicale (ad esempio in senso keynesiano) dell’impianto normativo dell’UE, distintamente neoliberale.

L’Altroeuropeista esemplare è un parlamentare europeo che da decenni si atteggia a furente critico dell’Europa, salvo però rimanere attaccato al suo scranno e promettendo che le cose andranno meglio in seguito. L’Altroeuropeista non spende mai una parola che non sia generica intorno a ‘come’ le cose dovrebbero cambiare, salta a piedi pari la realtà dei rapporti di forza e dei vincoli, e si limita a ‘gettare il cuore oltre l’ostacolo’, proclamando la propria fede (e ciò magari gli fa guadagnare una cadrega).

Ora, mentre l’accusa di ‘Altroeuropeismo’ ha un’identità semantica ben chiara, per chi si appella all’Italexit, forse può essere interessante mettere alla prova un rovesciamento delle posizioni, per vedere se l’identità semantica del fautore dell’Italexit è parimenti chiara.

Qualcuno infatti potrebbe notare curiose quanto paradossali affinità formali tra i due estremi.

Dopo tutto chi pone l’Italexit come punto centrale e primario, proprio come l’Altroeuropeista, finge di non vedere le colossali difficoltà, tecniche e politiche presenti (qui rispetto all’uscita unilaterale dell’Italia dai trattati europei), come l’Altroeuropeista non spende mai una parola che non sia generica intorno a ‘come’ l’uscita dovrebbe avvenire, e come l’Altroeuropeista salta a piedi pari la realtà dei rapporti di forza e dei vincoli, limitandosi a ‘gettare il cuore oltre l’ostacolo’ e a proclamare la propria fiducia. (E chissà che così facendo non riesca pure lui a guadagnare una cadrega.)

A difesa di questa affinità formale si potrebbe dire che, dopo tutto, in entrambi i casi si tratta di posizioni critiche dello status quo, che per necessità devono appellarsi all’ottimismo della volontà, perché se aspettano il conforto della ragione potrebbero aspettare a lungo.

Questa è una possibilità, e se nel dibattito corrente non si fossero alzati i toni in maniera indecente, con accuse di tradimento come se piovesse, non mi sentirei di aggiungere altro.

Ma le accuse di ‘tradimento’ nei confronti di chi ha esaminato e denunciato reiteratamente il carattere neoliberale dell’UE, sono state davvero uno spettacolo po’ eccessivo anche per persone tolleranti.

Dunque, di fronte a questa chiamata alle armi nel nome dell’Italexit (e di ITALEXIT) forse qualche pacato ragionamento è doveroso.

Sulla cattiva coscienza degli Altroeuropeisti mi sono soffermato spesso, spendiamo dunque oggi un paio di parole sull’immaginario da Italexit.

Nell’agitare la parola d’ordine dell’Italexit ci sono, a mio avviso, tre livelli motivazionali possibili.

1) Il primo è il più semplice e diretto, ed evoca l’idea di qualcosa come strappare un cerotto: tieni il fiato, un momento di dolore, e poi stai bene. Qui stanno quelli che “mettiamo in moto la zecca di stato il venerdì sera, a borse chiuse, e zac, lunedì siamo di nuovo in possesso del nostro destino.”
Ora, è doloroso ricordarlo, perché sembra sporcare la bellezza della fede con la volgarità della realtà, però l’appartenenza dell’Italia all’UE consta di un intrico di scambi, contratti e leggi sedimentati in mezzo secolo, rispetto a cui è pia illusione pensare che l’unico problema da risolvere sia poter stampare moneta con valore legale. Che questo sia un punto strategico è certo, ma è solo un tassello in un ampio quadro complessivo. È ovvio che tutti i nostri rapporti reali, finanziari, di import-export, tutti i patti di collaborazione, la normativa sulla sicurezza transfrontaliera, gli accordi industriali, tutta la normativa sulle forme di scambio, sulla concorrenza, ecc. ecc. rimangono in vigore finché non vengono sostituite, una ad una.

Si tratta di un cambiamento storico che richiede non solo il supporto massivo delle forze politiche parlamentari, ma risorse tecnocratiche e la collaborazione di gran parte dei ceti dirigenti. Si tratta di un atto che avrebbe bisogno di un’unità d’intenti a livello nazionale come nella storia d’Italia non si è mai vista. Una volta ottenuta tale unità d’intenti saremmo di fronte ad un processo di medio periodo, in cui tutti gli accordi nuovi che vengono stipulati verranno stipulati sulla base dei reali rapporti di forza tra i contraenti, e saranno questi rapporti di forza a definirli come più o meno vantaggiosi rispetto agli accordi vigenti.
Più che strappare un cerotto, direi che siamo piuttosto dalle parti di tre anni di chemioterapia.

2) Il secondo tipo di argomento è di carattere tattico, ed agita l’Italexit più che come prospettiva rivoluzionaria come fattore di trattativa. In effetti un paese che ha tra le sue opzioni quella di abbandonare il tavolo ha un’arma in più nelle trattative, e in questo senso prendere in considerazione l’Italexit può rappresentare un modo per aumentare il proprio potere contrattuale in Europa.
Per molto tempo, quando in Italia era in vigore un irriflesso unanimismo sui ‘grandi ideali europei’, questa prospettiva tattica ha avuto grandi meriti, e anche ora, quando l’euroscetticismo è oramai sdoganato, rimane un buon argomento. Impostare il discorso in questi termini ha permesso di togliere molti veli e di vedere finalmente i rapporti intraeuropei per quello che sono: accordi tra stati nell’interesse degli stati.

I limiti di questa posizione sono, naturalmente, che una minaccia per conferire reale forza contrattuale dev’essere credibile. E aver maturato la consapevolezza che l’Europa non è il Paese dei Balocchi e che dobbiamo fare, come tutti, i nostri interessi, aumenta solo un po’ la nostra credibilità nel minacciare di andarsene. Il resto della plausibilità dipende da calcoli costi-benefici che hanno a disposizione anche gli interlocutori con cui si tratta e su cui non si può bluffare.

3) Il terzo tipo di argomento è quello del collasso endogeno. In questo caso parlare di Italexit può essere improprio, giacché la prospettiva effettiva è che venga meno per cedimento strutturale interno la casa da cui vorremmo uscire. Dunque non ce ne andremmo sbattendo la porta, perché non ci sarebbero più né la porta né le mura. Questa è l’opzione concretamente più probabile, ma è anche quella rispetto a cui le iniziative italiane giocano un ruolo irrisorio. Possiamo ‘prepararci mentalmente’. Possiamo preparare ‘piani B’. Ma in definitiva il boccino in mano ce l’hanno i paesi che l’UE la guidano, ed in particolare la Germania. Se la Germania decide che l’UE non è più un proprio interesse primario, si mette in moto un processo di disgregazione dei trattati in vigore, e di ridefinizione di altri trattati. Qui l’unico partito efficace per l’Italexit dovrebbe farsi eleggere al Bundestag.

Rispetto sia alle prospettive (3) che (2) qualunque rimodulazione tedesca delle regole europee (come quelle avvenute con il ruolo di supporto ascritto alla BCE, e anche con il Recovery Fund) modifica le carte in tavole e le opzioni disponibili. Condizioni più gravose rendono la minaccia di Italexit più plausibile e il collasso endogeno del sistema più probabile. Al contrario, condizioni di allentamento dei vincoli e di mutualità riducono la plausibilità sia di (2) che di (3).

Visto in quest’ottica, il quadro appare come alquanto meno rigidamente ideologico di quanto ci si potrebbe aspettare, e alquanto più pragmatico. E in effetti non c’è molto da stupirsi, perché, caso mai ce ne fossimo scordati, l’Italexit non è un fine ma un mezzo. Ed essendo un mezzo e non un fine, le sue forme, la sua plausibilità e l’intensità delle sue pretese possono variare a seconda di come varia il contesto storico e politico.

Dunque, se l’Italexit è un mezzo e non un fine, la vera domanda da porsi è: un mezzo per cosa?

La mia risposta è di ispirazione socialista ed è semplice: l’Italexit, se un senso ce l’ha, ce l’ha in quanto mezzo per riacquisire una sovranità democratica capace di porre in essere politiche nell’interesse del lavoro e di ridurre il potere di ricatto del capitale. Sovranità democratica e centralità del lavoro sono inscritte nel primo articolo della nostra Costituzione, e sono il lascito di un’epoca socialmente più avanzata di quella attuale.

La costruzione dei trattati europei, in particolare dal Trattato di Maastricht, ha imposto una svolta in senso dichiaratamente neoliberale, con la concorrenza posta come ideale normativo e la tutela della stabilità della moneta anteposta all’occupazione e ai salari. Dunque la catena logica va dalla tutela del lavoro, alla sovranità democratica, al rigetto della normativa europea.

Quest’ordine logico ha alcune implicazioni fondamentali. Non ogni modo di respingere le normative europee vale uguale.

Brandire l’Italexit per consegnare i lavoratori italiani a un settore industriale sussidiato dallo Stato non sarebbe un passo avanti, ma due indietro. Che la normativa europea vieti aiuti di stato all’industria privata (sia pure con svariate eccezioni) potrebbe rendere un rigetto della normativa europea accettabile per diversi settori industriali, ma di per sé potrebbe essere una condizione peggiorativa per il lavoro.

Brandire l’Italexit per svincolare le industrie italiane dai vincoli ambientali imposti a livello europeo può suonare liberatorio per molta piccola e media industria (e talvolta, visti gli inghippi burocratici, lo è senz’altro), ma non garantisce affatto un futuro migliore per il paese.

Brandire l’Italexit per ricollocarsi con più forza di prima sotto l’ombrello americano e atlantico non è, di nuovo, il viatico ad un paese migliore per i lavoratori italiani. Incidentalmente, l’Italia ha sofferto di pesanti limitazioni della sovranità almeno dal 1945, e ha perso di peso e ruolo industriale in quegli anni sotto la pressione USA (Mattei, Olivetti). Di fatto per parecchi anni la prospettiva europea è stata vissuta, sia a destra che a sinistra, come un modo per sottrarsi al giogo americano. Che per sfuggire al giogo americano si sia commesso l’errore di infilarsi nella trappola ordoliberale tedesca non significa che sfuggire oggi alla trappola ordoliberale tedesca per rifluire in quella neoliberista austro-americana sia un colpo di genio.

Ora, in conclusione, mi pare ci siano solo tre prospettive di massima sul tema Italexit.

La prima è pragmatica, e guarda all’appello all’Italexit come ad uno strumento politico accanto ad altri, uno strumento che sotto certe condizioni può essere utile coltivare, ma che non ha nessun valore intrinseco: esso conta se e quando è una carta giocabile per ottenere un miglioramento diffuso delle condizioni di vita nazionali. Ma non è un fine, non è un punto d’arrivo, non è una meta agognata, non è niente cui si deve giurare fedeltà. Date certe condizioni contingenti può essere uno scopo intermedio parziale.

La seconda prospettiva è ideologica e, appunto, pone il mezzo come fine: si pone l’Italexit come se fosse un ideale a sé stante, e dopo aver redatto un libro (o pamphlet) dei sogni si spiega al pubblico plaudente che ‘prima si deve riacquisire la sovranità’ e solo poi si potrà agire nel tessuto del paese secondo i precetti del libro.
Questa prospettiva, naturalmente, si garantisce a priori di non dover mai arrivare alla prova dei fatti; figuriamoci infatti se un’impresa letteralmente rivoluzionaria – e potenzialmente cruenta – come l’Italexit può essere affidata dal popolo a qualcuno sulla fiducia, solo perché ha redatto due buoni propositi sul web o ha ‘bucato il video’ con un meme. Si tratta ovviamente di un bellicoso pour parler destinato ad essere inconseguente rispetto alle promesse.

La terza prospettiva è opportunistica e personalistica. Essa non crede neanche per un minuto che la parola d’ordine dell’Italexit indichi una qualche sostanza politica percorribile. La sua funzione effettiva è di intercettare l’attenzione pubblica intorno a qualche slogan impetuoso e tranchant, in modo da ottenere una massa elettorale bastevole a portare qualcuno in parlamento. Questa prospettiva è possibile, ma al netto del gioco di specchi per i gonzi, la sua legittimità sta tutta nella credibilità personale di chi viene mandato in parlamento. Il voto viene in effetti chiesto sulla fiducia, e qui tutto dipende da questa fiducia.

Se da chi ti chiede il voto non compreresti un motorino usato, puoi impiegare gli atti di fede in direzioni più proficue.

Lo strano caso Italia, a cura di Teodoro Klitsche de la Grange

Luciano Barra Caracciolo, Lo strano caso Italia, Eclettica Edizioni, pp. 233, € 18,00

Escono da qualche anno sempre più libri che non “cantano in coro” e sottolineano, anzi, come la globalizzazione e l’euro siano stati, per l’Italia (soprattutto) un cattivo affare.

Questo saggio si distingue già dal titolo e dal sottotitolo. Quanto al primo l’aggettivo strano avrebbe dovuto essere scritto tra virgolette: perché – tanto strano il caso Italia non è (e il libro lo conferma), ma anzi era voluto e prevedibile.

Per il sottotitolo questo è “Breviario di politiche economiche nella crisi del globalismo istituzionale aggiornato all’emergenza coronavirus”; e il libro è – in gran parte – la dimostrazione che le politiche di austerità hanno provocato – o almeno aggravato decisamente – la crisi in atto (almeno) dal 2008, precipitata ulteriormente con la pandemia.  E così il breviario serve a riportare sulla “retta via”, ben nota agli economisti (non di regime), e a ritrovare le condizioni di compatibilità tra il modello economico-sociale delineato dalla Costituzione e quello emergente dai trattati europei.

L’autore rileva che a seguito dell’adesione all’euro “derivante da trattati e fonti di diritto internazionale (privatizzato) -, e avendo subito la conseguente ristrutturazione del proprio modello industriale e sociale derivante dalla correzione Monti (in poi), l’Italia registra una crescita zero”; questo perché “Le regole pattizie sovranazionali che impongono la globalizzazione, poi, sono regole di liberoscambio, cioè di affermazione del dominio del mercati sulle società umane, i cui bisogni, – l’occupazione, la dignità del lavoro, la solidarietà sociale espressa nella cura pubblica dell’istruzione, della previdenza e della sanità – divengono recessivi e subordinati alla scarsità di risorse… La globalizzazione è quindi un sistema di regolazione sovranazionale mirato a rafforzare le mire dei paesi (Stati nazionali) che la propugnano, da posizioni iniziali di forza politica ed economica, nel conquistare i mercati esteri”. E questo già lo scriveva Friedrich List quasi due secoli fa. E proprio per questo l’economista tedesco, che aveva assai presente funzione, carattere (e primato) del politico, sosteneva che la differenza essenziale tra quanto da lui sostenuto e il pensiero di Adam Smith era che la sua economia era politica cioè in vista dell’interesse, volontà e potenza delle comunità (organizzata – per lo più – in Stati), mentre quella dello scozzese era cosmopolitica (avendo come criterio-base l’interesse individuale).

Una delle conseguenze dell’economia cosmopolitica – nella versione contemporanea di Eurolandia – è di essere, per l’appunto, come sostiene l’autore in contrasto col modello delineato dalla Costituzione “più bella del mondo”.

Scrive Barra Caracciolo “a voler essere benevoli, a partire dal trattato di Maastricht, il modello costituzionale non sia stato rispettato; per espressa previsione delle norme inviolabili, e non soggette a revisione, della nostra Costituzione (artt, 1, 4, 36, 38, 32, 33… quantomeno), l’economia italiana segue il modello keynesiano… sicché esso non tollererebbe (cioè, non contemplerebbe come costituzionalmente legittime) politiche che, sempre per attenersi alle classificazioni e schematizzazioni di questi ultimi, implichino apertamente”, il di esso costante sacrificio. Accompagnato da salmi di giubilo alle regole europee degli eurodipendenti.

La venticinquennale stagnazione italiana è, in senso economico, determinata dalla crisi strutturale della globalizzazione da un lato, e dall’altro dall’impedimento di quelle politiche di sviluppo, dettate dalla nostra Costituzione, ma rifiutate dall’U.E.. Anche se, a quanto pare, dalle trattative sul recovery fund correzioni delle politiche d’austerità (sostanzialmente dannose per l’Italia), è in corso. Ma non si sa quanto efficaci, almeno nel medio periodo, per il nostro paese.

In questo saggio c’è molto, onde non è facile sintetizzarlo. I profili più evidenti ne sono: a) il contrasto tra quanto si sostiene – dagli euro dipendenti – che da un lato si atteggiano a numi tutelari della Costituzione “più bella del mondo”, dall’altra nelle politiche euroasservite ne tradiscono il modello economico sociale, nei suoi caratteri fondamentali, a cominciare dalla tutela del lavoro, che è, secondo l’art. 1 il fondamento (reale prima che normativo) della Repubblica.

Ma questo si comprende bene: élite in decadenza si affidano all’astuzia più che alla forza (Pareto). Come scriveva il segretario fiorentino, il principe deve badare a parere più che ad essere. E il metodo più seguito per farlo è predicare in modo opposto al praticare. La sconnessione tra detto e fatto, tra intenzioni esternate e risultati conseguiti è voluta e tutt’altro che casuale.

La seconda – connessa alla precedente – è la sostanziale assenza (od oscuramento) del dibattito su crisi, cause e responsabilità della stessa. Silenzio assordante fino a qualche anno orsono, un po’ meno dopo che i successi  elettorali dei partiti sovranpopulidentitari hanno certificato che la consapevolezza popolare di cause e responsabilità della crisi, malgrado tutto, determina crisi politiche di livello globale, con sempre più Stati retti e condizionati da maggioranze (o quasi-maggioranze) elettorali sovran-populiste. Economisti di regime, giuristi di palazzo, mass media asserviti l’hanno solo ritardata. Come scrive Barra Caracciolo “tutta la problematica (della crisi)… è completamente assente dalle dichiarazioni programmatiche e dal dibattito politico attuale… Si ha come l’impressione di essere in una realtà parallela, fatta di miopi polemiche di parte e di slogan ripetuti senza comprenderne appieno il significato… E l’Italia non può permettersi di essere raccontata e guidata ignorando la sua natura, la sua vocazione, ben collocata in questa terra, interconnessa con i problemi di una globalizzazione che è stata concepita dai progettisti di Elysium, da spietati Malthusiani, e che ora, nella sua fase discendente, rischia di trascinarsi nel suo “cupio dissolvi”… Parliamone: non lasciamo che discorsi “lunari”, ipostatizzati su un pensiero unico e irresponsabile verso il popolo sovrano, ci facciano suonare, come comprimari, nell’orchestra del Titanic…”. E questo libro è un’ottima occasione per cambiare musica (e orchestra).

Teodoro Klitsche de la Grange

Terre rare, la green tech è solo un’illusione di Giuseppe Gagliano

Un breve articolo che riesce a ricondurre e richiamare in termini realistici tematiche tanto in voga come quelle dell’ecologismo e dell’economia circolare che rischiano spesso e volentieri di cadere in schematismi semplicistici e dal sapore messianico_Giuseppe Germinario

L’errore grossolano che viene commesso quando ci si approccia alla green tech è quello di pensare che la transizione energetica digitale sia indipendente dal suolo e cioè dei metalli rari. L’analisi di Giuseppe Gagliano

 

Secondo una delle migliori indagini giornalistiche sul ruolo dei metalli rari nel contesto della politica attuale condotte dal giornalista francese Guillaume Pitron — collaboratore di Le Monde Diplomatic e del National Geographic — nel saggio edito in italiano con il titolo La Guerra dei metalli rari (Luiss, 2020), contrariamente all’opinione comune la tecnologia informatica richiede lo sfruttamento di rilevanti quantità di metalli. Pensiamo per esempio che ogni anno l’industria elettronica consuma qualcosa come 320 t di oro e 7500 t di argento oltre al 22% di mercurio e fino al 2,5% di piombo.

Ad esempio la fabbricazione dei computer così come dei telefoni cellulari implica l’uso del 19% della produzione di metalli rari come il palladio e il 23% del cobalto senza naturalmente trascurare la quarantina di altri metalli contenuti di solito nei telefoni cellulari.

In altri termini la fabbricazione di un microchip da due grammi implica di per sé la creazione di 2 kg circa di materiale di scarto.

Per quanto riguarda l’impatto ambientale di Internet è necessario pensare che le nostre azioni digitali hanno un costo: una mail con un allegato utilizza elettricità di una lampadina a basso consumo di forte potenza per un’ora.

Ogni ora vengono scambiati nel mondo qualcosa come 10 miliardi di e-mail a e cioè 50 gigawatt/ora, cioè l’equivalente della produzione elettrica di 15 centrali nucleari in un’ora.

Per quanto riguarda poi la gestione dei dati in transito e il funzionamento dei sistemi di raffreddamento, un solo data center consuma ogni giorno altrettante energia di una città di 30.000 abitanti. Insomma il settore delle tecnologie dell’informazione e delle comunicazioni consumo il 10% dell’elettricità mondiale e produce ogni anno circa il 50% in più di gas a effetto serra rispetto per esempio al trasporto aereo.

L’errore grossolano che viene commesso quando ci si approccia alla green tech è insomma quello di pensare che la transizione energetica digitale sia indipendente dal suolo e cioè dei metalli rari.

Anche se il petrolio venisse sostituito per intero la civiltà si troverà ad affrontare una nuova assuefazione e cioè quella dei metalli rari.

https://www.startmag.it/energia/terre-rare-la-green-tech-e-solo-unillusione/?fbclid=IwAR3AiodM6xlojq3C6ewmPk9vIhyVvL53VAOeJpECqY1VGMxvDNyDv-HmrnE

Sovranisti e globalisti: la battaglia tra due ideologie perdenti, di Andrea Muratore e Marco Giaconi

Una interessante intervista a Marco Giaconi tratta dal sito Osservatorio Globalizzazione su un tema più che mai attuale

Sovranisti e globalisti: la battaglia tra due ideologie perdenti

Oggi col professor Marco Giaconi, che torna ospite delle nostre colonne e che ringraziamo per la grande disponibilità, dialoghiamo delle culture politiche dell’era contemporanea. Quanto è reale la polarizzazione tra “sovranisti” e “globalisti”?

Professor Giaconi, una forte narrazione mediatica e politica, soprattutto in Europa, immagina l’attuale dialettica politica come uno scontro tra sovranisti, fautori della sovranità nazionale, e “globalisti”, aperti alle ricadute ideologiche, politiche ed economiche dei trasferimenti di sovranità. Parliamo di una contrapposizione reale o strumentale?

Le contrapposizioni semplici, adatte al basso livello attuale dei mass-media, sono sempre strumentali e spesso inesatte. L’Italia è sempre stata divisa tra una pressione strategica dal Nord Europa, che data almeno dall’inizio della Prima Guerra Mondiale, alla quale l’Italia partecipa repentinamente e un anno dopo, ma alla fine in funzione anti-tedesca, e una pressione strategica mediterranea, che riguarda anche i detentori attuali dell’egemonia nel Mare Nostrum, Usa e Gran Bretagna, ancora loro.

  Certo, con qualche new entry e con la Francia che non demorde affatto. Fino a che l’Italia, quindi, non si doterà di una Strategia Globale all’altezza dei tempi e della “realtà effettuale della cosa”, come diceva Machiavelli, questa polarizzazione rimarrà e produrrà la morte cerebrale e strategica dell’Italia, forse ormai anche quella economica, e la polarizzazione para-politica a cui Lei, nella Sua domanda, accenna. Mi ricordo che in Banca d’Italia, negli anni di Antonio Fazio governatore, c’era chi diceva che bisognava deindustrializzare “di brutto” l’Italia, fare cassa, come si era fatto con la svendita determinata dall’operazione “mani pulite” e successivamente ridurla a grande area turistica. La destrutturazione del nostro Paese è uno sport al quale, da molto tempo, si sono addestrati in molti, alcuni dei quali a livello professionistico e olimpionico. Ecco, i due quasi-schieramenti che Lei cita sono entrambi portatori di formule molto abborracciate e spesso contraddittorie.

 Sia il centro-destra “sovranista” (al quale non si può più  aggregare Forza Italia, partito molto legato al PPE, che lo finanzia visto che Silvio Berlusconi lo usa poco per i suoi affari, che tratta direttamente con i Capi di Stato EU) fa anche riferimento all’ultra-liberismo di matrice thatcheriana, con proposte come la flat tax o anche con la simpatia per le idee di Steve Bannon, già consigliere della comunicazione di Trump, quindi questo destra dovrebbe essere per conseguenza, chi ti paga comanda, filo-britannico e quindi inevitabilmente antitedesco; ma poi il medesimo schieramento si rifà allo statalismo di marca post-bellica e, detto senza polemica, fascista. Ricordo poi qui che la Thatcher fu disarcionata dal suo stesso partito proprio per aver proposto la poll tax, nel 1990,comunale a un solo scaglione. Il vecchio testatico medievale. Ci fu anche un affaruccio del suo oppositore, Heseltine, con degli elicotteri, ma questo è un altro discorso. Delle due l’una: o si è liberisti, o si è filo-fascisti. Sempre detto senza polemica alcuna. Poi, la simpatia della Lega per i siloviki (“uomini della forza”) di Vladimir Putin, allora, non dovrebbe mai trovare posto in una forza confusamente liberista e filo-americana, gli Usa hanno da sempre una memoria di ferro e una vendetta inevitabile, che gustano sempre freddissima.

O stai con l’amico o con il nemico. Con la tua faccia. Allora sei sempre rispettato, e da entrambi, come accade quando la X MAS di Junio Valerio Borghese si arrese alle forze Usa con l’onore delle armi. Poi Borghese, con la divisa da colonnello della US Army Forces, arrivò a casa sua, a Roma, accompagnato dal futuro Capo dell’Ufficio Affari Riservati del Viminale. Delle vendette Usa, ne sa qualcosa anche Silvio Berlusconi. Un ingenuo quanti mai ce ne furono a Palazzo Chigi. Vedremo questo attuale, ma siamo sulla stessa linea dell’infanzia. Chi non sa scegliere non sa governare. Ma lo stesso discorso vale anche per la vasta area “globalista” tra il Centro e la Sinistra. C’è lo statalismo pasticcione, da Totò onorevole, dei Cinque Stelle, che tornano alla sinistra dalla quale sono in gran parte nati, e sembrano, nella loro propaganda, equiparare gli imprenditori a dei distributori di mazzette, con gli effetti che è facile immaginare. C’è poi il Partito Democratico, che si è attaccato all’Europa in modo irriflessivo, come i vecchi comunisti che, quando c’era la partita Italia-Urss, facevano il tifo per Mosca. Aspettano unicamente un aiuto, propagandistico e magari anche finanziario, ma al loro Partito, dall’Europa, come peraltro le altre forze politiche della destra, che aspettano di essere sostenute dai russi, dagli americani, o da qualche altro, magari gratis. Perché sono belli? Ma lo sanno come si ragiona, da sempre, nelle cancellerie UE o non UE? Si può facilmente immaginare cosa accadrà.Le altre forze del centro-sinistra sono partiti personali (Italia Viva di Matteo Renzi, le aree alla sinistra del PD, il gruppo di Carlo Calenda) ma comunque tutto l’arco parlamentare italiano si sta frazionando in gruppi personali e “cordate”, come accade anche nella fin troppo famosa, e comunque hegeliana, società civile. Nella somma impotenza e incompetenza di quasi tutta la nostra classe dirigente, oggi la politica è quasi ovunque, come diceva Frank Zappa, “il dipartimento spettacoli del complesso militare-industriale”. La politica, ma questo vale anche per gli altri Paesi occidentali, è ormai regolata secondo i canoni della pubblicità e deve fare poco o nulla, salvo che dividersi le tifoserie e portarle, talvolta, al calor bianco.

Entrambi i modelli sembrano avere una chiara connotazione anglo-sassone e americana. I sovranisti riprendono diversi temi tipici del neoconservatorismo americano e dell’ideologia trumpiana “America First”, mentre il cosiddetto “globalismo” appare funzionale all’interesse delle èlite liberal di Oltre Atlantico. Parliamo di un successo ideologico statunitense?

Come Le dicevo per rispondere alla Sua prima domanda, i due modelli hanno certo, entrambi, tratti dell’ideologia attuale e recente Usa, e probabilmente la diplomazia coperta, che è gran parte della politica estera dei due schieramenti nordamericani, opera molto in questo campo. Certi viaggi di politici italiani della “Prima Repubblica” erano sostenuti dalla diplomazia talvolta dei Repubblicani (Piccoli, per esempio) o dagli apparati centrali (Napolitano, che poi ne farà buon uso) o dai democratici (i socialisti, soprattutto).

L’Italia è il Paese, ancor oggi, più filoamericano della UE, malgrado certi rigurgiti di nazionalismo che, senza militari autonomi e finanze ugualmente autonome, fanno solo ridere. O fai la tua Force de Frappe autonoma, e ti levi dai santissimi del Comitato Politico Ristretto della NATO, al quale, comunque, Parigi si è sempre seduta, in via privata. Oppure fai gli interessi degli altri, e allora sono cavoli tuoi.  Gli Usa, comunque, non abbandoneranno mai l’Italia, sia per la loro profondità strategica nel Mediterraneo, che si rafforzerà ulteriormente, sia perché vogliono un contrappeso all’area tedesca e la marginalizzazione strategica della Francia. Certo, cambiando solo un poco il discordo, la cultura anglosassone è penetrata, ma è spesso la peggiore, comunque in gran forza in Italia, anche nelle accademie e nella ormai residua università. E’ semplice, è piena di slogan che passano come risultati scientifici, è oggi perfetta per la massificazione ulteriore delle università e della mass culture. C’è oggi, al Sant’Anna di Pisa, scuola molto prestigiosa, chi insegna che la filosofia è “maschilista” e bisogna “femminilizarla”. Roba da ridere, certo, ma si tratta pur sempre di una vittoria del paradigma culturale americano, dove ci sono docenti ad Harvard che affermano che “bisogna farla finita con la cultura dell’uomo bianco”. Un impero che sta cadendo, gli Usa, si riafferma all’estremo con le sue cazzate etniciste. Sperando di sedurre l’Africa, dove ormai laCina la fa da padrona da oltre 14 anni, e la Russia sta entrando in forze. Auguri. Parafrasando Freud, dove prima c’era Marx oggi c’è la cultura liberal-radical Usa. Anche il ’68 fu sostanzialmente una operazione Usa-Cina per destabilizzare i partiti comunisti, ma l’operazione è riuscita e comunque il paziente è morto.  Per il collante del sovranismo, c’è oggi il cattolicesimo popolare dei Family Day, ma per il centro-sinistra c’è l’immigrazionismo, anch’esso irriflessivo, che però lo rimette in collegamento con la Chiesa di Papa Francesco. Staremo freschi, tra questi due fessi matricolati, ovvero destra e sinistra.

A proposito di letture “religiose”, figure come Steve Bannon tentano di ammantare di spirito apocalittico la battaglia sovranista, presentata come quesitone di vita o morte per la civiltà “giudaico-cristiana” contro il nemico di turno. Che può essere, di volta in volta, l’Islam, la Cina, il Vaticano. Quanto influiscono in questa lettura le fondamenta calviniste ed evangeliche degli Stati Uniti?

Steve Bannon, comunque, viene dai ceti popolari di origine irlandese e cattolica, ma questo, in una America in cui la cultura, anche quella non di massa (e lo fa ormai anche qui in Italia) è solo uno strumento primario di segmentazione per gruppi della popolazione, quindi sempre una forma di controllo sociale, vuole pure dire qualcosa. La sua biografia politica lo definisce, senza dubbio alcuno, ma per un tecnico, un vero e proprio “agente di influenza”. Con la sua struttura in Europa, finanzia oggi tutti i movimenti di destra o di centro-destra, anche quelli più distanti tra di loro. Teorizza una rivolta mondiale dei popoli contro le élite, rivolta che sarebbe già in corso. Facile capire quindi cosa vuole davvero: adeguare alla politica estera Usa, anche a quella che verrà dopo Trump, tutta l’area filo-tedesca della UE, e poi sovvenzionare, ma sempre fuori dal controllo russo, i movimenti come il Rassemblement National della Le Pen e la Lega di Matteo Salvini. Giocare due parti in commedia, per permettere a Washington ampia libertà di manovra. L’Europa crede, Dio la perdoni, di essere sfuggita alle regole, scritte e non, che sono state definite dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, ma la caduta del Muro di Berlino è stata appunto solo un episodio di quegli accordi, non la loro scenografica rottura. Il “partito americano”, in Italia, lo ricordo qui, andava da una parte del PCI fino al MSI tutto intero, passando per i cattolici, riferimento primario di Washington fin dai tempi dello special envoy Myron Taylor con Papa Pacelli. Pio XII fu un costante riferimento degli Usa durante il fascismo e la guerra, ma poi Mons. Montini fu successivamente un vero “amico” per gli americani.

Il modello politico e culturale di Bannon, tornando all’oggi, ovvero il popolo contro le èlite, è divenuto un refrain di tutti i populisti, ma è tecnicamente sbagliato. Un paretiano come me risponderebbe che ogni settore della società secerne naturalmente delle élite, anche i rapinatori di banche, i gelatai o i geometri. Sempre che non si confondano tra di loro. Non è mai esistita una società senza classi dirigenti, debitamente separate, et pour cause, dal resto della popolazione. Tulle le società sono gerarchiche, ma si tratta solo di vedere quanto c’è di merito personale, nell’ascesa, e quanto di eredità (non ereditarietà) tra i figli di papà. Lo dico sempre ai mei amici comunisti, le rivoluzioni non servono, aspettate una o due generazioni che il famoso “capitalista” si distrugge da solo. Studi drogatissimi in America, vita spericolata, e poi l’ovvio fallimento. I venditori di utopie sono comunque come i venditori di almanacchi, e io sono un fan, come direbbero proprio gli americani, di Giacomo Leopardi. Soltanto che la destra italiana crede di essere “popolo”, o il suo megafono, cosa che peraltro Mussolini non fece mai, aggregando i nazionalisti prima, nel 1923, e qui c’erano Giovanni Verga, D’Annunzio, Alfredo Rocco e molti altri. Dopo, Mussolini farà perfino la coda ai grandi “commessi di Stato”, tra cui Raffaele Mattioli della Banca Commerciale e poi Alberto Beneduce, 33° della massoneria scozzese antica e accettata, Primo Sorvegliante del GOi, amico e “fratello” di Ernesto Nathan, primo sindaco ebreo e massone di Roma e, inoltre, parlo di Beneduce, militante socialista riformista. Sua figlia, Idea Nuova Socialista Beneduce, si sposerà con Enrico Cuccia. La classe politica è quindi una parte irrinunciabile della élite, come tutte le classi politiche, e questo vale per i populisti della destra, mentre invece il centro-sinistra crede di essere quasi automaticamente èlite, ma è spesso proprio “popolo”, perché non conta niente, proprio come molti dei suoi dirimpettai del centro-destra. Nella irrilevanza, le due tifoserie si assomigliano, ma è tutto politica-spettacolo.

Il sovranismo pare la retorica ideale per coprire posizioni politiche che non riescono a gestire appieno la sovranità, stato di fatto che è problematico ridurre a un’ideologia: molto spesso, anzi, esso si risolve in uno sciovinismo pseudo-nazionalista. Quali sono i vulnus principali dei cosiddetti sovranisti?

Certo, il ritorno alle sovranità nazionali è oggi impervio e, talvolta, ridicolo, viste le dipendenze della nostra economia del Nord, e non solo, dalle Catene del Valore che arrivano in Germania e poi vanno oltre. Quando, lo ricordo, perfino un caro amico di Cossiga, Helmut Kohl, era convinto di far entrare l’Italia solo al secondo turno dell’Euro, ci fu una telefonata notturna, piuttosto dura, del capo della Confindustria tedesca, che fece fischiare le orecchie al Presidente tedesco. Credo che una simile telefonata sia arrivata, di recente, anche ad Angela Merkel, e con gli stessi toni, proprio quella allieva di Kohl che però, quando la vedova di Helmut si è avvicinata per salutarla, alle esequie del marito, nel 2017, si è ritratta e le ha detto: “manteniamo le distanze”. Gli aneddoti, di cui era ghiottissimo Churchill, erano invece odiati da Hitler, vegetariano, analcoolico, ma pieno di droghe e di farmaci omeopatici, la famosa “medicina tedesca”. Chi ha vinto? Certo, c’è da ricostruire una dignità nazionale italiana, e questo è il vero problema, in politica estera e di difesa, ma questo è un altro e ben più complesso discorso. È questo, il concetto strategico ben declinato, il vero biglietto da visita che viene valutato nei veri consessi internazionali. È come nel Fight Club: prima regola,non parlate mai del Fight Club, quarta regola, quando qualcuno dice basta, fine del combattimento. La civiltà giudaico-cristiana da difendere? Mah! È un modo per unificare le politiche estere di EU e Israele, che però ha la sua e non sente certo altre ragioni. Anzi, l’Ue è, per i dirigenti di Israele, compresi i Servizi, una sentina di antisemiti e filo-arabi, per i loro grassi investimenti in UE e per il loro petrolio. Israele ha, della politica estera UE, una opinione perfino peggiore della mia.  È per questo che c’è ancora. L’Europa è ormai, comunque, antisemita.

A quanto ammontano, Professore, i numeri dell’antisemitismo in Italia?

In Italia, secondo l’Osservatorio Solomon, e sono dati del gennaio 2020, il 14% pensa che Israele sia l’autore del “genocidio palestinese”, l’11,6% pensa che gli Ebrei abbiano un potere economico eccessivo, che, per il 10,7% gli Ebrei non si occupino della società in cui vivono, ma solo della loro comunità, per l’8,4% l’italiano medio crede che si sentano superiori agli altri e, in ogni caso, il 6,3% si è dichiarato apertamente antisemita. La vedo male, quindi, con la questione della civiltà giudeo-cristiana. I negazionisti della Shoah sono, sempre in Italia, ancora pochi, l’1,3% ma certamente non diminuiranno in futuro.

E sul fronte del rapporto tra Europa e Islam, molto spesso visto come fumo negli occhi dai sovranisti, qual è la sua posizione?

L’Islam è in Europa da moltissimo tempo. Al Andalus, l’Andalusia, fu rivendicata come territorio dell’Islam nel 2002 da Osama Bin Laden. Anzi, l’Europa identitaria nasce dalle sconfitte dell’Islam sui Pirenei e nel Sud dell’Italia, dopo, peraltro, lunghe convivenze pacifiche. Il Sultano di Istanbul, dopo la cacciata dei Mori dalla Spagna, ma anche e soprattutto degli Ebrei, dal 1609 al 1614, pochissimi anni dopo la scoperta dell’America da parte di un esploratore genovese ingaggiato da Isabella di Castiglia, affermò pubblicamente che ringraziava il Re di Spagna Filippo III per la gran quantità di studiosi, mercanti, medici, sapienti, artigiani, banchieri che erano arrivati nel suo Regno grazie alla cacciata dei “mori”. Insomma, la questione è più complessa, come al solito. Ma non bisogna nemmeno dimenticare che, tra pressione demografica interna e esterna, la radicalizzazione del jihad della spada, che sta all’Islam tradizionale come il post-moderno plastificato sta a Kant, oltre all’espansione del mondo arabo, è sempre e scientemente un atto di guerra contro gli infedeli, come ha anche detto l’Emiro del Qatar, Tamim, nel 2007, tramite la rete Al Jazeera in mano alla Fratellanza Musulmana, e operante dal Qatar, ed ecco il testo dell’Amir, il “comandante dei credenti” nel Qatar:  “la Conquista di Roma si farà con la guerra? Non, non è necessario. La conquista dell’Italia e dell’Europa significa che l’Islam tornerà in Europa ancora una volta, ma c’è oggi una conquista pacifica e prevedo che l’Islam tornerà in Europa senza la spada, la conquista si farà attraverso la predicazione e le idee”. E gli affari, aggiungo. E proprio in un albergo di proprietà dell’Emiro di Doha, ma non a Roma, si riunisce sempre con i suoi referenti internazionali un ex-primo ministro italiano, che proprio niente sa, lo dico per esperienza, di queste questioni. Quindi, l’UE avrebbe certo bisogno di un Israele che le desse una mano in Medio Oriente, dove si decidono molti dei suoi destini, e parlo solo della UE, per evitare la seduzione affaristica e ideologica islamista. Gerusalemme farà comunque da sola, ovviamente, credo che ritengano l’UE un caso di malattia mentale e strategica senza medicine possibili. I Paesi europei, soprattutto dopo la pandemia da Covid-19, saranno per lungo tempo alla canna del gas. Qui non c’è da parlare di  una teoria un po’ farlocca del rapporto tra ebraismo e cristianesimo, c’è invece l’urgenza della strategia.

Ironia della sorte che i nemici dichiarati dei sovranisti siano, molto spesso, leader e Paesi che dell’indipendenza e dell’autonomia di scelta fanno, nel bene o nel male, la loro stella polare. Pensiamo all’Iran, alla Cina di Xi Jinping, ma anche allo stesso Papa Francesco, tra i più severi critici dell’ideologia neoliberista mai messa veramente in discussione dai sovranisti. Segno di una necessaria biforcazione tra retorica sovranista e sovranità?

Noi, in Italia, abbiamo realmente abdicato a una vasta quota di sovranità che era comunque necessaria. Non perché è arrivata la sola UE, ma perché abbiamo seduto, nei consessi della UE, parteggiando ingenuamente per quello o quell’altro, senza una chiara e applicabile visione dell’interesse nazionale che è, come diceva Benedetto Croce del liberalismo, “né statalista né liberista, ma sceglie tra le varie medicine quella che serve al momento”. Rileggere la “Storia d’Italia dal 1871 al 1915” di Don Benedetto, al più presto. E a Casa Spaventa, dove Croce crebbe dopo aver perso i genitori e la sorella nel terremoto di Casamicciola del 1883, egli si avvicinò al marxismo di Labriola, che conosceva molto bene i sacri testi. Magari li rileggessero con lo stesso criterio, oggi. Strano a dirsi, ma un discendente diretto degli Spaventa fu anche il capo di Gladio-Stay Behind a Milano e in Lombardia, era il mio amico e maestro Francesco Gironda. La Cina ha un rapporto debito/Pil è del 25%, oggi dopo o durante il coronavirus, mentre il debito non estero delle imprese cinesi non finanziarie è sul 155%. Il debito pubblico russo è oggi al 15% circa del Pil. Il sesto più basso al mondo. Ecco la soluzione, chiaramente affermata da Vladimir Putin al Summit di Monaco del 2017. “Se non ho molti debiti, sono libero dai condizionamenti esteri”. Semplice, ma è proprio così che funziona, da sempre.

Veniamo al mondo liberal/globalista ora. Esso ha pensato, molto spesso, che accettare ogni fattispecie della globalizzazione fosse una scelta inevitabile in un contesto di crescente interconnessione politica, economica e sociale del mondo. Quanto ha influito l’ascesa di leader liberal di sinistra nell’accelerazione, forse impropriamente cavalcata, della globalizzazione e dei suoi problemi negli Anni Novanta?

Devo essere, almeno inizialmente, brutale. Con la globalizzazione inizia la applicazione dei modelli della pubblicità dei prodotti di largo consumo alla politica e, soprattutto, ai processi elettorali, che già prima la loffia Political Theory anglosassone, la Rational Choice, aveva santificato, dicendo che l’elettore fa quasi sempre una scelta ottima tra i programmi contrastanti. Bravi! Bischerata somma, come tutti possono osservare, ma che è servita come tappeto rosso per la globalizzazione. I russi ridotti alla fame dalla folle scelta di Yeltsin, la Voucher Privatization del 1992-1994, fu una distribuzione dei sistemi produttivi post-sovietici alla mafia, già all’opera con Stalin, peraltro, e anche alla nomenklatura del Partito, che era ormai quasi la stessa cosa.

In un suo vecchio libro, Kissinger racconta che un ministro dell’URSS gli raccontò, con dovizia di particolari, che la grande raffineria di petrolio che era sulla carta del CC del PCUS non esisteva, ma i finanziamenti da Mosca venivano divisi tra tutti coloro che l’avevano “creata” dal nulla. 15.000 aziende furono privatizzate con i voucher, la mafia e il “partito” comprarono i voucher dei poveri per il classico e spesso realistico tozzo di pane, mentre la Federazione Russa stata passando la maggior crisi economica del dopoguerra, comparabile solo al disastro agricolo del 1930-’31 in Crimea e Ucraina. Putin, uomo pratico come tutti quelli che escono dai Servizi, ma dal KGB si usciva davvero solo con i piedi davanti, seleziona la parte dei nuovi ricchi che si accorda con lui e il suo gruppo degli “oligarchi”, poi manda al macero tutti gli altri. Quando viene assassinato Litvinenko a Londra, che è in rapporto con un oligarca che non si è messo d’accordo con Putin, Boris Berezkovsky, il FSB faceva addestrare al tiro i suoi operativi con sagome che erano ricalcate sull’immagine di Litvinenko. I liberal di sinistra sono quelli che giocano su questa nuova e immaginaria cornucopia, che farà arrivare al Welfare europeo quei soldi che nascono dalla espansione globalizzatrice. Staremo ben freschi.  I soldi della spoliazione russa, ed era per questo che i dirigenti cinesi del PCC ridevano quando arrivò, nelle more della rivolta di Piazza Tien An Mien, nel 1989, Gorbaciov a Pechino. “Bravo-immagino dissero i dirigenti di Deng Xiaoping-vuoi tenere in mano il tuo Paese immaginando che arrivino i capitalisti “buoni” e che non ci saranno rivolte sociali come quella che stiamo fronteggiando?”.

Insomma, il mondo globalista, come lo ha chiamato giustamente Lei, è una accolita di ingenui che hanno operato con tecniche economiche e finanziarie sbagliate, e spesso dannosissime, pagando quasi unicamente i loro politicanti di riferimento, scelti sempre con criteri da testimonial pubblicitario, e poi facendo operazioni economiche e finanziarie semplici e sempre più a breve. “Mordi e fuggi” finanziario, giocando sulle valute, sui futures artificiali per i prezzi delle materie prime, sulla ingenuità delle popolazioni che avrebbero seguito il loro pifferaio magico o leader politico fino in fondo. Sbagliato. Il cosiddetto Terzo Mondo è molto più evoluto, politicamente, del contadino dello Iowa, che comunque piace molto a Xi Jinping. Una riedizione, quindi, dello spaccio di carta commerciale spesso di serie B o C, come fecero gli Usa in Francia poco prima che De Gaulle si rompesse le palle e ordinasse il pagamento delle partite bilaterali con franchi svizzeri, oro o sterline-oro, nel 1966.

De Gaulle, l’unico statista europeo degno di questo nome, altro che i “sovranisti” tutti chiacchiere e distintivo, credeva che il progetto di alleanza franco-tedesca non fosse solo contro l’URSS, ma potesse toglierci dai santissimi anche gli Usa. Peccato di ingenuità? Non credo. Comunque, il primato della politica è inevitabile, l’economia e, soprattutto, la finanza, fanno tutto con operazioni organizzate, in frazioni di secondo, con i loro computer quantici e ben dotati di algoritmi aggiornati. Poi, il gioco degli asset contro altri Paesi, se ne vanno a far danni altrove. E sul momento. L’unica politica che può adattarsi a questa economia, quasi del tutto finanziarizzata, è l’”olio lenitivo” che Nietzsche, già “pazzoide”, ma non troppo, che egli vede scendere sui futuri “cinesini” addetti alla produzione. Ora, i veri cinesini sono nella gig economy, nella “economia dei lavoretti”, nel terziario straccione (non voglio certo offendere questi lavoratori, ovviamente) e nelle classi politiche, come per esempio in Italia, che non favoriscono l’emigrazione delle imprese, salvo che per un fisco demente, ma vogliono “buscar el levante per l’occidente”, come diceva Cristoforo Colombo. Ovvero vogliono adattare l’industria che è rimasta in Patria alla concorrenza sul costo del lavoro e tutto il resto messa in atto dal Terzo Mondo, che incamera ancora aziende come se piovesse.

Una scelta, a dir poco, autolesionista…

Non faremo mai concorrenza a questi Paesi, è impossibile. Ma, certo, possiamo ridurre la nostra classe operaia al nulla salariale, e gli imprenditori non ritorneranno lo stesso, anche se c’è, per l’alto di gamma, una quota di ritorni. Le imprese italiane delocalizzate, tra il 2009 e il 2015, sono aumentate del 12,7%, fonte Teleborsa, con un totale, ma qui le statistiche sono molto difficili, di 36.000 imprese almeno che se ne vanno stabilmente. E qui si tratta di PMI di successo, mica di patacche piemontesi con la erre moscia, salvate almeno quattro volte (e sulla quinta ci sarebbe molto da discutere) dal contribuente italiano. La concorrenza globale sui costi del lavoro e sulla sua precarizzazione è andata oltre ogni limite, in Italia. Per fare cassa nel pagamento, quando occorra, dei titoli di Stato e per sostenere la spesa pubblica, ormai incomprimibile. Dobbiamo quindi inventare una formula produttiva del tutto nuova, fatta di nuovi prodotti, di adattamento rapido ai mercati, di prodotti globalizzati bene, come fecero, a loro modo, i manager di Stato che, dal Codice di Camaldoli del 1943, poco prima che il Gran Consiglio del Fascismo sciogliesse il fascismo, si costruirono una loro autonomia strategica di area cattolica, spesso garantita bene dai Servizi, altro che “deviazioni” dei miei stivali, nel nostro mercato naturale. Ovvero, il Mediterraneo. Moro, Fanfani, Piccoli, poi Craxi, capirono, in modo diverso ma parallelo a De Gaulle, che nella lotta tra i Due Imperi c’era molto spazio anche per noi. E, allora, lo sfruttammo molto bene.

Insomma, Professore, oltre la retorica sovranismo/globalismo la via è ben segnata: serve tornare a coltivare e pensare l’interesse nazionale, mettendo l’azione davanti a ogni retorica.

Ecco, una politica nazionale attenta ai suoi interessi strategici ed economici, un governo che è un po’ liberale, nel senso che non rompe troppo i santissimi alle imprese, ma che le indirizza in modo sensato e talvolta protetto verso i loro “mercati naturali”. Che sarebbero tantissimi, se solo li si volesse studiare bene. Oggi, la SACE-SIMEST è ancora una buona struttura, ma avrebbe bisogno di una bella rinnovata. Gli strumenti quindi li abbiamo, la dottrina del nostro interesse nazionale ancora no. Che non è sempre opposto agli altri, anzi, talvolta, accade il contrario. È  qui il luogo naturale, per dirla con Aristotele, dove dovrebbe cadere la nostra politica estera, fuori dalla chiacchiere neo-nazionaliste o anche globaliste da Inno alla Gioia di Schiller-Beethoven. Come se i nostri concorrenti UE ci dovessero togliere tutte le castagne dal fuoco. Sarà da ridere. E, comunque, il musicista lo modificò non poco, l’Inno. Penso a un ritorno delle strategie nazionali o anche di area, ma senza stupidi nazionalismi, dopo che le tensioni dell’Islam e del jihad della spada saranno regionalizzate o sedate. Si ritornerà a pensare in grande, finalmente.

http://osservatorioglobalizzazione.it/interviste/sovranisti-globalisti-giaconi/?fbclid=IwAR14b9IIQdE8uSfC0fb93TM6pjHnuewW84ll_ULM0VBobCmW9RDdWj78oHc

La nuova storia europea di Putin e la riabilitazione di Stalin Di: George Friedman

Continua il dibattito aperto dal saggio di Putin apparso sulla rivista americana National Interest. http://italiaeilmondo.com/2020/06/19/vladimir-putin-le-vere-lezioni-del-75-anniversario-della-seconda-guerra-mondiale/Ogni ricostruzione storica, specie se avallata e e sostenuta da un politico, per altro di una tale levatura, sottende un punto di vista particolare, una visione e diverse finalità politiche. Uno sguardo al passato, insomma, che serve a posizionarsi nel presente e nel futuro. Non solo. Ogni leader di levatura, ogni classe dirigente deve fondare la propria legittimazione ed autorevolezza nel passato del proprio paese. Su questo Friedman, al netto delle sue tesi, discutibili proprio perché ignorano e glissano senza alcun accenno critico, sulle strategie, sugli interessi e sulle nefandezze delle classi dirigenti europee ed americane di quel periodo, coglie pienamente nel segno. La stessa furia iconoclasta che sta muovendo l’attuale contestazione nelle città americane, con le loro stupide parodie in Europa, apertamente foraggiata ed alimentata dai settori del vecchio establishment non sono altro che il negativo di una stessa fotografia. Grandi sconvolgimenti si profilano all’orizzonte e gli Stati Uniti si avviano ad esserne l’epicentro con la grande sorpresa del cieco e conformista ceto intellettuale europeo. Che abbiano i nostri quantomeno la correttezza di unirsi a Putin nel sollecitare l’apertura degli archivi. Si eviterebbe almeno qualche strumentalizzazione dozzinale di troppo. Buona lettura_Giuseppe Germinario

La nuova storia europea di Putin e la riabilitazione di Stalin

Di: George Friedman

Al presidente russo Vladimir Putin piace sostenere la tesi secondo la quale la seconda guerra mondiale, e gran parte delle sofferenze da essa causate, sia stata responsabilità non solo della Germania nazista, ma dei governi che vi si opponevano. Ha già discusso questo argomento, ma la versione più recente pubblicata durante la celebrazione annuale del Giorno della Vittoria in Russia è stata la più completa di sempre. Ha spostato la responsabilità delle invasioni e delle atrocità della Germania verso altri paesi e la ha usata per minimizzare la responsabilità dell’Unione Sovietica per la guerra.

In precedenza, Putin aveva messo sotto accusa l’accordo franco-britannico di Monaco di Baviera per l’occupazione tedesca di parte della Cecoslovacchia, ponendo le basi per la seconda guerra mondiale, che il commercio degli Stati Uniti con la Germania prima della guerra rafforzò la Germania e che il governo polacco causò il massacro di massa in Polonia fuggendo dopo la sua occupazione. Tutto ciò è impiantato per minimizzare l’importanza del patto Hitler-Stalin e dell’invasione sovietica della Polonia. È nel suo racconto non più consequenziale di molti altri eventi.

Ad essere polemico per un momento, lasciatemi prendere in carico una cosa alla volta. Il governo fuggì dalla Polonia così come i governi di altri paesi dopo l’occupazione tedesca. Cercare di creare un governo in esilio era ciò che molti hanno fatto. L’idea che lasciando il Paese fossero responsabili di ciò che è accaduto è assurda. La Polonia fu occupata dalle truppe tedesche e sovietiche. I tedeschi iniziarono rapidamente a radunare e ad annichilire ogni possibile resistenza e i sovietici posero in atto l’omicidio di migliaia di ufficiali dell’esercito polacco catturati. L’idea che la presenza di funzionari del governo polacco nel paese avrebbe fermato Hitler e Stalin sui loro propositi è evidentemente sbagliata.

L’accusa contro inglesi e francesi ha un certo peso. Nessuno dei due era pronto per la guerra, militarmente o politicamente. Speravano di evitarlo o almeno di ritardarlo. Fallirono e l’Europa ne pagò il prezzo. Ma c’è una differenza fondamentale con il patto Hitler-Stalin. Stalin raggiunse un trattato con Hitler sulla Polonia. Ma a differenza degli inglesi e dei francesi, i sovietici conquistarono (e tuttora occupano) gran parte della Polonia. L’accordo di Monaco non includeva una clausola per l’invasione cooperativa e l’occupazione della Cecoslovacchia. L’accordo tedesco-russo lo ha fatto.

Gli Stati Uniti hanno ovviamente commerciato con la Germania. La sua politica era di evitare la guerra. Col senno di poi questo è un peccato, ma al momento non c’erano segni dell’intenzione dell’occupazione tedesca dell’Europa né indicazioni di omicidi di massa. Se gli Stati Uniti avessero intrapreso una guerra convenzionale contro l’Unione Sovietica durante la Guerra Fredda, Washington avrebbe potuto essere accusata di vendere precedentemente grano ai sovietici, limitando il pericolo della carestia. Il commercio americano fu condannato da alcuni in quel momento, ma la quantità di commercio fece poca differenza nel corso della guerra.

Ciò che contava erano le massicce spedizioni da parte dei sovietici di minerali vitali dopo l’invasione congiunta della Polonia e al momento in cui i tedeschi invasero la Russia, quando si dice che un treno sovietico di contenuti vitali si spostò a ovest attraverso il confine, proprio come si muovevano le truppe tedesche est attraverso di esso. Il trattato tra sovietici e tedeschi prevedeva un massiccio accordo commerciale, al quale Stalin obbedì meticolosamente, sperando di pacificare i tedeschi.

Per andare oltre la polemica, dobbiamo capire la strategia tedesca e sovietica. Durante entrambe le guerre mondiali, la Germania era piena di appetito e apprensione. Temeva un attacco simultaneo da Francia e Russia, sapendo che non poteva sopravvivere a una guerra su due fronti. Durante la prima guerra mondiale, attaccò la Francia mentre stava organizzando un’azione di detenzione a est. La Germania non riuscì a sconfiggere la Francia e la guerra lì crollò in una guerra statica che dissanguò la Germania.

I tedeschi stavano progettando di utilizzare la stessa strategia nella seconda guerra mondiale, questa volta sconfiggendo rapidamente la Francia. La loro offerta di un trattato ai sovietici per sacrificare la Polonia aveva lo scopo di garantire che il fronte orientale rimanesse pacifico mentre la Francia veniva sconfitta, anche se la sconfitta impiegava più tempo del previsto.

Dal punto di vista di Stalin, l’aspettativa tedesca di una forza franco-britannica era un’illusione. Il pensiero militare di Stalin derivava dalla prima guerra mondiale e dalla guerra civile russa, nessuna delle quali era meccanizzata. Non capiva la potenziale velocità della guerra corazzata e il grado in cui rendeva impraticabile la guerra di trincea. Quindi si aspettava che i tedeschi si immergessero nella guerra da attrito protratta per anni. Si aspettava non solo una parte della Polonia dall’accordo, ma il dono del tempo per ricostruire le sue forze militari, nonché una reale opportunità per cacciare la Polonia a ovest e prendere la Germania, mentre i tedeschi venivano impantanati in Francia.

Il piano di Stalin andò male perché la guerra di carri armati fiancheggiava la linea Maginot mal pensata, e perché la Francia era sfinita da una guerra condotta appena 20 anni prima e che aveva profondamente demoralizzato la nazione e i suoi alti gradi militari. Si aspettavano di perdere e hanno perso. E la brillante mossa di Stalin divenne un incubo mentre la Germania spostava le sue forze ad est a una velocità incredibile e, un anno dopo la sconfitta della Francia, scese su una Russia impreparata.

Per comprendere la seconda guerra mondiale in Europa, è necessario comprendere l’incompetenza di Stalin. Non riuscì a cogliere la rivoluzione militare e come si spostò il rischio. Non riuscì a capire che la Francia non era in grado di resistere. E non riuscì a capire che Hitler voleva il trattato per attaccare l’Unione Sovietica prima che avesse il tempo di prepararsi alla guerra. Ma poi Hitler non capì che la Russia, nonostante Stalin, e nonostante il prezzo che avrebbe pagato, avrebbe schiacciato i tedeschi. Indipendentemente dai fallimenti di Stalin, la storia si è giocata da sola.

In tutte le sue affermazioni, sembra che Putin stia cercando di condividere la responsabilità morale. Quello che sta davvero cercando di fare, penso, è riabilitare Stalin. Stalin gettò le basi per il piano di guerra di Hitler. Era ignaro della realtà militare. Quando guardiamo Stalin e se pensiamo che un uomo sia responsabile della storia, allora Stalin si mostrò incompetente oltre ogni immaginazione. Ma se spostiamo la discussione dai calcoli sbagliati di Stalin alle fantasie sulla Polonia, equivalenze morali con Monaco o il commercio prebellico degli Stati Uniti con la Germania, allora Stalin non è peggiore di nessun altro e i suoi fallimenti possono essere nascosti.

A mio avviso, la Russia è nei guai. La sua economia si muove con il prezzo del petrolio e le sue politiche interne ed estere vanno di pari passo. La Russia non è riuscita a modernizzare la sua economia dopo 30 anni di quasi liberalismo legati a uno pseudo libero mercato. Nel 1980, Yuri Andropov, allora capo del KGB, riconobbe che l’esperimento sovietico stava fallendo. Sotto Mikhail Gorbachev, alla fine lo ha fatto. All’epoca Putin era un ufficiale del KGB. Ha imparato che il liberalismo non era la cura per la Russia ma una pillola di veleno. Ha preso il controllo della Russia, costantemente consapevole dell’esperienza del KGB che l’ha plasmato. Mentre osserva i fallimenti dell’economia russa, la perdita dei suoi stati tampone occidentali e la vulnerabilità della Russia, deve essere preoccupato quanto Andropov.

Ma non ha fiducia nella liberalizzazione, quindi pone l’attenzione all’altra estremità dello spettro: lo stalinismo. Visto in questo modo, Putin vuole fare una scommessa senza copertura, e sa che la scommessa deve essere fatta mentre è ancora vivo, dal momento che non è chiaro chi o cosa lo segua. Ci sono molti russi che vedono Stalin come un eroe e altri che lo vedono come un imbecille imbranato e un assassino di massa. I commenti del presidente sono probabilmente rivolti a una generazione più giovane di russi le cui opinioni non sono ancora del tutto formate. Putin potrebbe convivere con il ricordo di un assassino, ma con il ricordo di un incompetente è contrario a tutto.

I più grandi errori di Stalin vennero prima della battaglia di Mosca. Quindi ciò che è accaduto prima deve essere rifuso. Nel riscrivere la storia di Stalin, Putin pone le basi per una trasformazione russa. Non è necessario che il racconto sia coerente, poiché l’argomentazione centrale che esporrà non dipende da questo. Deve dire tre cose. L’Occidente ha causato la seconda guerra mondiale. La Polonia è responsabile del massacro di Katyn e la Russia ha trionfato di fronte all’incompetenza, alla brutalità e alla mendacia degli altri. E Stalin si alzò e salvò l’Unione Sovietica, non a dispetto della sua incompetenza, ma della duplicità del resto del mondo.

GLI “STATI GENERALI” DI CONTE, di Teodoro Klitsche de la Grange

GLI “STATI GENERALI” DI CONTE

È impegnativa l’espressione con cui il prof. Conte ha designato il convegno programmato per la settimana in corso. “Stati generali”, che rimanda a quelli convocati (l’ultima volta) nel 1789, per risanare le finanze francesi e il cui risultato – come spesso accade – non fu quello preventivato, ma l’altro di cambiare in toto la forma politica, e ancor più, il mondo moderno; passando per rivoluzioni, terrore, guerre (civili e internazionali). Pare comunque da escludere che il convegno – a onta del nome – possa avere esiti così epocali; proprio perciò occorre fare qualche considerazione, per non confondere con le parole quel che è distinto nei fatti.

In primo luogo quali differenze hanno gli Stati generali di Conte da quelli convocati da Luigi XVI, e a cosa di attinente alla rivoluzione invece somigliano? È diverso, in primo luogo il ruolo (e la posizione) costituzionale: l’assemblea francese era un organo dell’Ancien régime, quello del prof. Conte è un’iniziativa che non ha funzione, rilievo, effetti istituzionali. E ciò fa gioco alla maggioranza parlamentare, perché qualunque cosa decida (??) il convegno, non può comandare e soprattutto mandarli a casa, né ora, né nel futuro.

Secondariamente, altro pregio del convegno, i partecipanti sono degli invitati di Conte e non dei delegati o rappresentanti di qualcuno (nazione, popolo, ceti, terzo stato, ecc. ecc.), quindi non possono parlar quali “rappresentanti” e a nome di qualcuno né esprimerne la volontà. I componenti degli Stati generali erano stati eletti dalle assemblee di “ceto”, ne riportavano volontà e aspirazioni esposte nei Cahiers des doléances, erano vincolati al mandato ricevuto; la funzione che avevano – anche se istituzionale – era consultiva. Ma erano scelti con procedimenti pubblici; nel regolamento (per l’elezione degli Stati generali) del 24 gennaio 1789 si leggeva che “il Re… ha voluto che i suoi sudditi venissero tutti chiamati a concorrere alle elezioni dei deputati che dovranno formare questa grande e solenne assemblea”. Così attraverso il procedimento elettorale si saldava la delega tra mandanti e mandatari. Comunque ben diversi dagli invitati del prof. Conte.

Semmai qualche tratto di maggiore somiglianza la convention di Conte ce l’ha con l’altra assemblea consultiva convocata nel 1787 da Calonne: l’Assemblea dei notabili, la quale, a differenza dei deputati – mandatari degli Stati generali, era composta da nominati dal monarca e quindi, malgrado fossero non del tutto proni alla volontà del governo non avevano alcuna intenzione di fare una rivoluzione, tantomeno quella che ne venne fuori. Anche perché come pensavano (e pensano) i rispettivi governi è improbabile che nominati dal re provvedano a tagliargli (e tagliarsi) la testa. E infatti non assentirono alle richieste del governo, ma se ne tornarono a casa buoni buoni (seguiti, subito dopo, da Calonne).

L’altra somiglianza è nella situazione critica, anche se priva del carattere epocale e del lavorio preventivo della talpa (illuminista) della storia.

Allora furono il deficit e i cattivi raccolti il contesto, e l’occasio che fece brillare la scintilla rivoluzionaria; oggi il Coronavirus, la più che ventennale stasi economica italiana e la crisi, non ancora esaurita, del 2008-2011.

Se è vero che la “talpa” non ha lavorato come quella del XVIII secolo, ha comunque scavato qualche tunnel: la scarsa considerazione in cui le élite globaliste sono considerate dai governati ne è il risultato. Misurata anche dal consenso crescente ai partiti sovran-popul-dentitari.

E la stessa convocazione dell’ (innocua) convention di Conte lo conferma.

I mandatari del 1789 avevano i Cahiers des doléances elaborati dalle assemblee dei mandanti e così un qualcosa di concreto e reale da esporre al monarca: gli invitati di Conte, non hanno né quelli, né un mandato, né – alle spalle – una procedura di scelta da parte dei mandanti. Sono dei partecipanti a un convegno: sicuramente innocui e probabilmente inutili.

Chi ha la rappresentanza nella versione forte, tipica della dottrina moderna dello Stato, e formulata da Sieyès per trasformare proprio gli Stati generali in assemblea costituente, è il Parlamento: e non ha neanche bisogno del genio di un abate rivoluzionario, perché è già presente ed enunciata nella costituzione (v. art. 67), come tale ogni parlamentare è un rappresentante e organo rappresentativo è il Parlamento: al contrario dell’ancien régime, un organo rappresentativo che discuta e decida, già c’è. E quindi non deve far altro che il proprio mestiere: eletto dal popolo deve decidere in favore del popolo, e soprattutto, in una repubblica parlamentare, dando (o revocando) la fiducia al governo. Proprio quella che il governo giallo-fucsia teme. E per questo preferisce una convention di invitati.

Teodoro Klitsche de la Grange

Le prospettive del sovranismo. Una conversazione tra Vincenzo Costa, Andrea Zhok e Roberto Buffagni

Conversazione sulle prospettive del “sovranismo”

Pubblichiamo una lunga conversazione sulle prospettive del “sovranismo” tra Vincenzo Costa (Università del Molise), Andrea Zhok (Università Statale di Milano), e il nostro collaboratore Roberto Buffagni. La conversazione si è sviluppata in questi giorni sulla pagina Facebook di Vincenzo Costa. Sono intervenuti molti altri interlocutori, che spesso hanno dato un contributo importante al dialogo. Non pubblichiamo tutti gli interventi per ragioni di ordine e brevità. Invitiamo i lettori interessati a leggere l’intero scambio di opinioni sulla pagina del prof. Costa.

 

Il post di Vincenzo Costa che ha dato inizio alla discussione è questo:

Vincenzo Costa

La fine del sovranismo e l’orizzonte della sinistra a venire

Con le decisioni di ieri della UE si chiude una fase. Il crollo della UE non ci sarà. La UE ha molte criticità ma non tali da portare al suo crollo. Consegnerebbe i paesi europei a potenze estranee, e questo nessuno lo vuole, non lo vuole il popolo e non lo vogliono le élites.

Finisce l’epoca del sovranismo, di destra e di sinistra. Epoca che ha consumato energie e forze intellettuali, senza produrre niente se non strabismo e cecità rispetto alle trasformazioni reali e ai bisogni effettivi del paese.

L’orizzonte della sinistra a venire è un altro: le diseguaglianze crescenti, le lacerazioni del tessuto sociale, una cultura di sinistra arretrata e attardata su un liberalismo da anni ‘80, la riduzione di democrazia e di sovranità popolare, che va distinta dalla sovranità nazionale.

Rimarranno piccole sacche unificate dall’antieuropeismo, dall’odio contro i crucchi, etc., sempre più espressione di nazionalismo che di aderenza alle esigenze popolari e del paese. Estranee alla tradizione socialista e con la faccia rivolta all’indietro invece che verso il futuro

Viene l’ora di una sinistra socialista, riformista, positiva, che non aspetti né l’apocalisse né la rigenerazione. E che traduca esigenze reali in idee, invece di fossilizzarsi attorno a idee astratte che poco interessano le persone reali.

Non nascerà domani, sarà un lungo cammino, ma bisogna iniziarne uno nella direzione giusta. Quello sovranista si è rivelato essere solo un vicolo cieco.

A volte piccoli segni marcano cambiamenti profondi, che bisogna sapere cogliere.

Ps. Questo non è un post polemico. Anzi.

Andrea Zhok

Senza polemica, a mio personale e fallibilissimo giudizio, credo che non sia una buona analisi, Vincenzo, qualunque sia il senso che diamo a un termine scivoloso come “sovranismo”.

Se “sovranismo” vuole intendere quella sorta di neoliberismo nazionalista brandeggiato da Salvini (e da parecchi altri in Europa) non credo affatto che sia morto, tutt’altro. E’ e resta quasi ovunque forza dominante, perché la profondità e multifattorialità del fallimento della sinistra non si cancella in un giorno e questi vivono del discredito della sinistra.

Se “sovranismo” vuole intendere “antieuropeismo”, dubito molto che la manovra annunciata di millemila miliardi arriverà ad essere ciò che pretende di essere. Di fatto i veti incrociati ci sono e continuano ad essere robusti. Inoltre non siamo affatto in presenza né di una mutualizzazione del debito, né di una corresponsabilità fiscale, neanche lontanamente. Infine le cifre coinvolte, visto che si continua ad operare senza monetizzazione del debito ma in forma di offerta di titoli sul mercato dei capitali, saranno alla fine piuttosto modeste. Un calcolo di ieri sul Corriere (fonte entusiasticamente europeista) diceva che potremmo avere a che fare con un 0,7% del Pil per anno, per 6 anni, a fronte di una perdita di oltre il 9% solo quest’anno. Diciamo che vedervi un’operazione epocale è mero wishful thinking. E tacciamo la questione delle condizionalità legate all’erogazione del credito, condizionalità ancora molto vaghe, ma che finora hanno sempre rappresentato il punto dirimente. Qui non si è superato ancora nessun problema, ma proprio neanche mezzo.
In tutto questo quadro l’unica cosa ad essere cambiata è che la Germania ha accettato il principio di poter operare una redistribuzione interna all’UE. Il principio è significativo e idealmente potrebbe essere il segno di una riforma dell’UE a venire. Ma dopo 12 anni di fallimento profondissimo mi sa che i tempi per un ribaltamento della direzione non ci siano più. Diciamo quanto meno che siamo molto lontani dal poter dire che l’antieuropeismo sarebbe morto perché l’Unione Europea avrebbe dimostrato di essere madre e non matrigna. Francamente prematuro.

Se “sovranismo” è un altro modo dire “ritorno alla centralità dello Stato nazione”, credo che a fronte degli esiti catastrofici della pandemia sugli ordinamenti dell’iperglobalizzazione contemporanea, questo ritorno in auge è appena agli inizi e proseguirà per lungo tempo. Le catene di produzione del valore iperestese si sono dimostrate fragili e il ruolo difensivo degli Stati nazionali si è dimostrato cruciale. Lo Stato nazione è destinato a ritornare durevolmente al centro della scacchiera (che in verità aveva lasciato solo sul piano propagandistico e ideologico.)

Non so se ci sono altre accezioni di “sovranismo” di cui dare conto. A me queste paiono le principali, e nessuna di queste parla di un ‘de profundis’ del “sovranismo” (anche se magari la parola potrebbe andare fuori moda.)

Vincenzo Costa

Caro Andrea grazie del tuo commento, che come sempre sopra porta un contribuito di riflessione importante. E mi offre la possibilità di precisare. Certo, è probabile che le nostre analisi divergano profondamente, e di conseguenza anche la direzione dell’agire politico. E probabilmente ci troveremo a fare scelte politiche diverse. Ma spero che la discussione tra noi rimanga aperta, perché rappresenta per me uno stimolo importante. le posizioni sono appunto divergenti.

Io credo che il sovranismo socialista o di sinistra sia finito. Per sovranismo di sinistra intendo l’idea secondo cui l’obbiettivo principale è uscire dalla UE, e che questa è una precondizione per porre sul tavolo le esigenze del lavoro e dei diritti delle classi meno abbienti, per non dire che è la precondizione per parlare di riforme in senso socialista democratico (nei commenti al post molti lo hanno osservato esplicitamente).

Questo sovranismo è defunto, e non per gli accordi di ieri, ma perché è sterile. Non vi sarà alcuna implosione della UE, né alcuna uscita dall’Euro. Almeno, allo stato attuale sembra molto improbabile. Quindi è un’idea sterile, senza prospettiva politica, che si è dimostrata incapace di sviluppare egemonia nelle classi lavoratrici. Al massimo trova accoglienza presso qualche intellettuale.

Nel caso in cui avvenisse sarebbe gestita da una classe dirigente pessima, e sarebbe pagata interamente dalle classi popolari. Ne abbiamo già parlato: uscire dall’euro significa un 30% di svalutazione, un’inflazione di circa 7-8%. Quindi la ricchezza privata nazionale, di cui tanto si parla, sarebbe erosa. Praticamente si farebbe una patrimoniale pazzesca. Facciamo prima a fare un patrimoniale del 2% e siamo a posto, ci costa meno.

Questa svalutazione e inflazione sarebbero pagate interamente dalle classi popolari, dato che i grandi capitali si sposterebbe molto prima (come hanno fatto già durante questa estate e come fanno ogni volta che 4tira aria cattiva). Pietro Ingrao, tempo fa, dichiarava lo stato nazione troppo ristretto per tutelarsi contro il capitale internazionale. Io non starò certo a cercare di convincerti, ma vi fu e vi è tutta una letteratura per cui gli stati nazionali erano vasi di argilla tra vasi di ferro. Se vuoi farti un’idea del dibattito nella sinistra dell’epoca prova a guardare Dockès, L’internazionale del capitale e Michalet, Il capitalismo mondiale, come anche Crisi e terza via di Ingrao. Tutti editori riuniti. Non che si debba sottoscrivere quelle tesi, datate, ma solo per dire che la narrazione sulla Banca d’ Italia e il divorzio col Tesoro, e la svendita di un paese magnifico è una semplificazione bestiale, e sta producendo, secondo me, accecamento. Fanatismo. Le cose stavano diversamente e stanno diversamente. Un piccolo stato come il nostro sarebbe divorato dai ricatti di multinazionali e altri grandi stati. Dalle grinfie dell’odiata Germania alle grinfie di chi? Questo bisogna dirlo.

Ma insomma, così ho detto troppo, e non sono cose da FB, a meno che non si voglia volgerle in chiave propagandistica o fare la sfida all’OK corrall, cosa di cui non ho molta voglia. Il punto è che l’uscita dalla UE è un salto nel buio, che se si andasse a votare non avrebbe alcun seguito (secondo me), non appena le persone capiscono che dei loro risparmi in banca perderebbero il 30%. Dal punto di vista macroeconomico una follia, una distruzione di ricchezza nazionale. Tutto opinabile, per carità, ma non credo sia opinabile che il sovranismo, nel modo che ho specificato prima, si è rivelato sterile. Ha portato solo un poco di acqua e di argomenti alle destre. Questi i fatti.

La UE può venire meno solo perché implode per le sue contraddizioni interne. Questo non è escluso, ma è improbabile. La sua dissoluzione consegnerebbe i paesi europei alla forza di altri, e questo non conviene a nessuno. Il punto non è allora uscire dalla UE ma avere una classe dirigente che, come legittimamente fanno gli altri, sappia fare gli interessi del paese. Si può fare un altro percorso.

L’idea di un debito comune non è praticabile, e fossimo noi tedeschi ci guarderemmo dall’accettarla. Tu fai debiti e io me li accollo? Dai. Quello che si sta facendo non è moltissimo, ma non è niente. Sono passi avanti importanti, che non vanno enfatizzati come fanno i governativi ma neanche minimizzati. Sono cose importanti.

In ogni caso, per come la vedo io si tratta di concentrarsi su questioni concrete: la rivoluzione tecnologica e la ristrutturazione del mondo del lavoro, la disoccupazione, la mobilità sociale etc. Un intero orizzonte di problemi che bisogna giocarsi stando DENTRO la UE, perché a questo ci consegna la storia. La UE è diventata il drappo rosso che fa infuriare il toro e lo inganna, distogliendolo dai veri problemi. Almeno io la vedo così. Alla fine, il post non aveva un tono o un fine polemico. Voleva solo dire che secondo me una fase si chiude perché mi sembra che non porti a niente, e che vale piuttosto la pena seguire altre strade, sia dal punto di vista teorico che pratico. Come dire, era una sorta di confessione pubblica, poi ognuno segue quello che crede vero e giusto.

Infine, lo stato-nazione tornerà, sta tornando, ma non sarà quello di prima. Tornasse quello di prima sarebbe lo zimbello di grandi imperi finanziari e industriali. Oppure vuoi mettere i dazi alle frontiere e fare una bella politica mercantilista? Magari prendiamo Fichte e lo stato commerciale chiuso a modello? Credo che siamo entrambi d’accordo che non possono essere quelle le soluzioni.

Grazie della discussione, Andrea.

 

Andrea Zhok

Sono d’accordo con un paio di cose (lo sono sempre stato, peraltro). Primo, non credo che porre in testa all’agenda politica l’Italexit sia produttivo. L’Italexit è un mezzo, non un fine, e bisogna tener fermo il fine, e renderlo plausibile (e molto si può fare senza puntare senz’altro sull’Italexit, in termini di proposte politiche socialiste). In effetti sono uscito da una forza politica che proponeva l’Italexit come tema primario e preliminare proprio per un disaccordo su questo punto.

In secondo luogo è vero che un’uscita unilaterale sarebbe un’operazione di grande complessità, che dovrebbe essere gestita dalla stessa classe dirigente che finora non è riuscita a fare cose ben più semplici, come riprendere in mano un po’ di industria strategica in mano statale.

Detto questo sono invece in netto disaccordo con quasi tutte le altre analisi particolari.

La tua analisi degli effetti dell’inflazione è a mio avviso, perdonami, proprio sbagliata. Dove si abbatte l’inflazione dipende da decisioni politiche molto semplici da gestire (se non lo si vuole gestire è una scelta politica, ma certo non è qualcosa da ascrivere ad un problema tecnico intrinseco all’inflazione. Inoltre un’inflazione moderata in un contesto come quello italiano sarebbe una benedizione, perché costringerebbe gli ingenti capitali immobili a rimettersi in circolazione, ad investirsi, e simultaneamente abbatterebbe il debito pubblico reale. Un’inflazione moderata per qualche anno per un paese come l’Italia, se gestita decentemente (un’indicizzazione parziale dei salari?) sarebbe una benedizione, non un problema.

La questione dell’isolamento fuori dall’UE è a mio avviso mal posta. L’UE è una struttura definita da certi trattati. Al posto di quei trattati si possono stipulare trattati diversi, magari tra paesi con maggiore omogeneità di interessi. Al momento l’UE è un sistema votato alla paralisi (lo ha dimostrato costantemente per anni), e che dunque non è d’aiuto per nessuno. Poi, come dico sempre, se vogliamo credere ai miracoli, per me va bene: se domattina con accordo unanime si chiama “Unione Europea” un sistema di collaborazione istituzionale su basi keynesiane, bene, mi farò piacere il vecchio nome per un nuovo oggetto. Ma al momento è solo una pastoia neoliberale.

La questione del “debito comune” poi è, temo, di nuovo mal posta. Se hai una moneta comune e una politica economica comune, definite dai trattati, allora mantenere competizione fiscale illimitata e responsabilità separata dei debiti è una follia suicida. Non può funzionare, perché non è né carne né pesce. Questo arrangiamento istituzionale era stato proposto come passo intermedio verso gli “Stati Uniti d’Europa”, dunque verso un orizzonte di unificazione della legislazione fiscale e del debito pubblico. Oggi moltissimi hanno enormi dubbi rispetto a questa prospettiva, ma è almeno una prospettiva internamente coerente. Se però non si va avanti bisogna andare indietro.
(Per inciso, i sovranisti duri e puri non vogliono affatto la mutualizzazione del debito, perché essa sarebbe un passo ulteriore verso un’unificazione europea. Però l’argomento che guarda alla mutualizzazione del debito come se fosse un dettaglio indipendente, e non fosse correlato con la comunanza della moneta, del mercato e della fiscalità, è semplicemente un errore: un europeista deve volere la mutualizzazione anche del debito, un sovranista deve volere la separazione anche della moneta, ma volere la moneta comune + robe come l’Olanda che gioca al paradiso fiscale e senza mutualizzazione del debito, beh, questo può volerlo solo un masochista.).

Molto altro sarebbe da dire, ma un’altra volta.

 

Roberto Buffagni

Nel loro dialogo, a mio avviso, Vincenzo Costa e Andrea Zhok prendono in considerazione i due versanti della questione “sovranismo”/europeismo”, e per così dire procedono in parallelo con le loro argomentazioni. Provo a integrare. Dice Vincenzo Costa che “il sovranismo è sconfitto” (personalmente concordo). Dice Andrea Zhok che no, perché a) il “sovranismo realmente esistente”, cioè “quella sorta di neoliberismo nazionalista brandeggiato da Salvini (e da parecchi altri in Europa)” è tutt’altro che sconfitto”, perché “E’ e resta quasi ovunque forza dominante, perché la profondità e multifattorialità del fallimento della sinistra non si cancella in un giorno e questi vivono del discredito della sinistra.” b) i problemi e le contraddizioni della UE, questo ferro di legno, sono tutt’altro che risolti o in via di soluzione (concordo anche su questo). Concordo con entrambi i dialoganti, che pur dissentono tra loro, per i seguenti motivi.

1) Il “sovranismo realmente esistente”, cioè “quella sorta di nazionalismo neoliberista brandeggiato da Salvini” (Zhok) è l’unico realmente esistente, in tutta Europa e per il vero in tutto l’Occidente, perché il vasto e articolato benché confuso e confusionario movimento che s’usa etichettare sotto il nome “sovranismo” (che è poi parola che a scopo cosmetico sostituisce la più corretta “nazionalismo”) è una reazione al “globalismo” o “mondialismo”, ed essendo una vera e propria reazione, è il negativo fotografico del suo nemico. Chi sono le forze politiche che hanno costruito e governano la UE? Sono le classi dirigenti europee (e statunitensi): liberals, cattolici, socialdemocratici; gli eredi legittimi delle classi dirigenti antifasciste che hanno vinto, sul campo di battaglia o nelle urne elettorali, la Seconda Guerra Mondiale e il dopoguerra. Dalla grande alleanza antifascista mancano solo i comunisti sovietici, ma sono rappresentati dai loro eredi: eredi legittimi anche loro, anche se dopo l’estinzione del ramo principale è un ramo cadetto (i maligni dicono, un ramo bastardo) a portare il titolo.
Dopo la grande vittoria comune di settant’anni fa, queste grandi Case si sono aspramente combattute per decenni. Oggi governano insieme il Consiglio della Corona del (falso) Re e la Camera dei Lord dell’Unione Europea. Come hanno fatto ad accordarsi? Per il potere, si dirà. Certo, per il potere: ma questa risposta, che è sempre vera, non spiega tutto, e anzi forse non spiega niente. Qual è il minimo comun denominatore che ha consentito alle grandi Case, un tempo in lotta per il potere, di trovare un durevole accordo, e così porre la corona sul capo del falso Re?
Il minimo comun denominatore delle grandi Casate americane ed europee che sostengono il falso Re (l’Unione Europea) è l’universalismo politico. L’universalismo è una cosa sul piano delle idee, dei valori, della spiritualità (nella cristianità europea, l’istituzione delegata a incarnarlo era la Chiesa, il primo “sole” del De Monarchia dantesco). Se tradotto sul piano politico, però, l’universalismo non può che incarnarsi in forze inevitabilmente particolaristiche: perché esistono solo quelle, nella realtà effettuale.
Volendo, chiunque se ne senta all’altezza può parlare in nome dell’universale umanità; ma non può agire politicamente in nome dell’universale umanità senza incorrere in una contraddizione insolubile, perché l’azione politica implica sempre il conflitto con un nemico/avversario.
Senza conflitto, senza nemico/avversario non c’è alcun bisogno di politica, basta l’amministrazione: “la casalinga” può dirigere lo Stato, come Lenin diceva sarebbe accaduto nell’utopia comunista. A questa contraddizione insolubile si può (credere di) sfuggire solo postulando come certo e autoevidente l’accordo universale, se non presente almeno futuro, di tutta l’umanità: “Su, lottiamo! l’ideale/ nostro alfine sarà/l’Internazionale/ futura umanità!” (il “governo mondiale” è un surrogato o avatar della “futura umanità” dell’inno comunista).
Lenin, e in generale il movimento comunista (o anarchico) rivoluzionario, vuole risolvere la contraddizione con la forza. Nella classificazione machiavelliana, Lenin è un “leone”.
L’universalismo politico delle grandi Casate nobiliari nordamericane ed europee che sostengono l’UE non è meno radicato di quello leniniano, perché discende dalla stessa radice illuminista. Esse però vogliono/devono risolvere la contraddizione con l’astuzia; Machiavelli le definirebbe “volpi”. Scrivo “devono”, perché a prescindere dalle intenzioni soggettive, le grandi Case non potrebbero essere altro che “volpi”: entrambi i “federatori a metà”, USA e Germania, non possono portare a compimento con la forza la loro opera.
Come l’URSS comunista, anche l’UE postula l’accordo universale, se non presente almeno futuro: accordo anzitutto in merito a se medesima, e in secondo luogo in merito al governo mondiale legittimato dall’umanità universale, che ne costituisce lo sviluppo logico, e giustifica eticamente sin d’ora l’obbligo di accogliere un numero indeterminato di stranieri, da dovunque provenienti, sul suolo europeo. Per questa ragione è impossibile definire una volta per tutte i confini territoriali dell’Unione Europea, che qualcuno, ai tempi dell’entusiasmo europeista, pretendeva di estendere alla Turchia, e persino a Israele: perché ha diritto di far parte dell’UE chi ne condivide i valori universali (cioè virtualmente tutti, dal Samoiedo al Gurkha al Masai), non chi ne condivide i confini storici e geografici.
Il passaggio tra il momento t1 in cui l’accordo universale è soltanto virtuale, e il momento t2 in cui l’accordo universale sarà effettuale, non avviene con il ferro e il fuoco della “volontà rivoluzionaria”. Le volpi oligarchiche UE introducono invece nel corpo degli Stati europei, il più possibile surrettiziamente, dispositivi economici e amministrativi – anzitutto la moneta unica – che funzionano, secondo la celebre definizione di Mario Draghi, come “piloti automatici”. Questi piloti automatici provocano crisi politiche e sociali, previste e premeditate, all’interno degli Stati e delle nazioni, ai quali impongono o di insorgere in aperto conflitto contro la Corona, o di addivenire a un accordo universale in merito al “sogno europeo”: per il bene degli europei e dell’umanità, naturalmente, come per il bene dei russi e dell’umanità Lenin ricorreva al terrore di Stato, alle condanne degli oppositori per via amministrativa, etc.
A quest’opera va associata, inevitabilmente, una manipolazione pedagogica minuziosa e su vasta scala, in altri termini una lunghissima campagna di guerra psicologica. La dirigenza UE conduce questa campagna di guerra psicologica da una posizione di ipocrisia strutturale formalmente identica a quella della dirigenza sovietica, perché non è bene e vero quel che è bene e vero, è bene e vero quel che serve alla UE o alla rivoluzione comunista: in quanto Bene e Verità = accordo dell’intera umanità, fine dei conflitti, pace e concordia universali. Le élites, necessariamente ristrette, di “pneumatici” e di “psichici” che conoscono questo arcano della Storia, hanno il diritto e anzi il dovere morale di ingannare e manipolare, per il loro bene, le masse di “ilici” che invece lo ignorano.
Il leone Lenin accetta solo provvisoriamente il conflitto politico, e anzi lo spinge a terrificanti estremi di violenza, in vista dell’accordo universale futuro: dopo la “fine della preistoria”, quando diventerà reale il “sogno di una cosa” comunista e ogni conflitto cesserà nella concordia, prima in URSS poi nel mondo intero. Le volpi UE celano l’esistenza effettuale del conflitto (in linguaggio lacaniano lo forcludono), e da parte loro lo conducono, solo provvisoriamente, con mezzi il più possibile clandestini, in vista dell’accordo universale futuro, quando diventerà reale il “sogno europeo” e ogni conflitto cesserà nella concordia, prima in Europa poi nel mondo intero.
In questo grande affresco romantico proposto alla nostra ammirazione con la colonna sonora dell’Inno alla Gioia (forse non è un caso che il Beethoven delle grandi sinfonie fosse anche il compositore preferito di Lenin) c’è solo una scrostatura: che nella realtà, l’accordo universale di tutta l’umanità non si dà effettualmente mai. Ripeto e sottolineo due volte: mai, never, jamais, niemals, jamàs, etc.

Dunque, la “reazione sovranista” non poteva che venire da una cultura politica di destra, perché solo nella cultura politica di destra esistono elementi, già prefabbricati, in grado di contrapporsi all’universalismo politico: nazione, popolo, comunità e (Deus avertat) razza.

2) Ma la “reazione sovranista al mondialismo” incontra necessariamente, sulla sua strada, un’altra per così dire Entità che non è una forza politica bensì una vera e propria forza di sistema impersonale, un criterio, una logica, ed è, per dirla con de Benoist, la Forma Capitale, la quale è ordinata alla logica più universalista di tutte. La incontra necessariamente per il banale ma non trascurabile motivo che se il “sovranismo” non interpreta e rappresenta gli interessi del Lavoro, perde. E’ in effetti lo stesso identico problema che si trovarono ad affrontare i fascismi negli anni entre deux guerres del Novecento, e anche stavolta la soluzione è estremamente difficile. La soluzione sarebbe, in linea teorica, quella del superamento della contrapposizione destra/sinistra, e dell’alleanza strategica tra nazionalismo e socialismo. Le condizioni oggettive ci sarebbero tutte. Mancano le condizioni soggettive, vale a dire: a) sul piano teorico, manca una articolazione sufficiente dell’universalismo. E’ possibile un universalismo che integri in sé non solo la possibilità, ma la legittimità permanente delle differenze? Differenze tra popoli, culture, regimi politici, etc.? Sì che è possibile. Ne offrirebbe una, anzi ne offrirebbe diverse il pensiero del realismo politico cristiano, se ci fosse ancora, come forza culturalmente e politicamente attiva, il realismo politico cristiano (non c’è più) b) mancando una cultura politica e non solo politica abbastanza coerente da integrare universalismo e particolarismo delle differenze, manca anche il punto di contatto tra cultura politica “di sinistra” (che non può non essere universalista) e cultura politica “di destra” (che non può non essere particolarista). Dunque i tentativi di alleanza “al di là della destra e della sinistra”, che pur sono stati esperiti, e anche con una certa buonafede, in Francia e (con meno buonafede) in Italia, sono falliti. Falliti per ragioni contingenti (infinite) ma falliti anche per questa ragione, non contingente ma essenziale o strutturale, che costituisce un colossale ostacolo alla formazione di un soggetto politico in grado di contrapporsi alle forze mondialiste ed europeiste in modo davvero efficace, il che significa “contrapporsi alle forze europeiste e mondialiste integrando la parte decisiva delle loro ragioni“. La parte decisiva delle ragioni delle forze mondialiste e europeiste è l’universalismo spirituale, cioè a dire il concetto filosofico e religioso di “umanità”, di partecipazione di tutti gli uomini a un medesimo Logos.

Se non viene integrata questa ragione del mondialismo, e ricompresa con una articolata e coerente legittimazione delle differenze all’interno della comune umanità, si abbandona tout court la radice della civiltà europea e letteralmente si regredisce alla barbarie identitaria, tribale o, peggio (Deus avertat, di nuovo) razziale/razzista.

3) Quindi, per quanto ho esposto sopra, che cosa è successo? E’ successo che il “sovranismo realmente esistente”, nato da una cultura politica di destra, fallita l’alleanza con le culture politiche (minoritarie) di sinistra che si contrappongono a mondialismo ed europeismo, è regredito. Non è regredito alla barbarie, per fortuna, ma è regredito alla Guerra Fredda. Ha tirato fuori dal baule del nonno tutti i vecchi stilemi e riflessi condizionati della guerra fredda: americanismo perinde ac cadaver, tirannide comunista con la Cina al posto dell’URSS, statalismo e sindacalismo egualitarista come Babau, liberismo da poveracci con la partita IVA martire dei comunisti e Briatore come modello di vita, e come ciliegina sul gelato, la gestione imbecille della pandemia in corso, con il “virus comunista” e il suo corteggio di allucinanti scemenze complottiste e di mascherina totalitaria (ciò, si noti bene, quando era facile per una opposizione decente fornire il massimo appoggio al governo per l’emergenza sanitaria, e fare la massima opposizione alla gestione dell’emergenza economica).

Ora, siccome la Guerra Fredda non c’è più e il nemico non è il comunismo, va da sé che il “sovranismo realmente esistente” è condannato a perdere, anche se sicuramente resterà una forza politica molto rilevante e potrà anche andare al governo, in Italia e altrove.

4) Che fa intanto il nemico, vale a dire le forze mondialiste/europeiste? Il nemico si dimostra più bravo, più capace di imparare dai propri errori, di integrare le ragioni dell’avversario e di prendere l’iniziativa. In Francia, con l’esperimento Macron, ha dimostrato di sapere, lui sì, stringere un’alleanza strategica fra destra e sinistra: ha infatti alleato le borghesie (termine improprio, facciamo per capirci) di destra e di sinistra contro populismo e sovranismo, in una riedizione aggiornata del compromesso louis-philippard del 1830; e ora, con il Recovery Fund, il quale sul piano empirico sarà sicuramente una fregatura per i paesi mediterranei, ma sul piano qualitativo è una svolta che può rivelarsi decisiva, ha forse saputo dare inizio a una vera e propria integrazione economica europea.

5) Per riassumere. Penso che abbia ragione Andrea Zhok quando espone le mille ragioni oggettive, strutturali, della precarietà e contraddittorietà della UE; e del fatto che essa non può che essere un nemico dei popoli e dei lavoratori europei. Esse ci sono, ci sono eccome, e per il solo fatto di esserci attestano che la partita NON è chiusa, e che si spalancano intere autostrade a venti corsie per una opposizione efficace. Penso che abbia ragione Vincenzo Costa quando dice che “il sovranismo è sconfitto”, perché è sconfitto il “sovranismo realmente esistente”, il quale si è in buona sostanza sconfitto da sé, per le gravi insufficienze soggettive delle quali ho tratteggiato un abbozzo ai punti precedenti.

Insomma, la partita non è chiusa perché non sono chiuse le contraddizioni e i conflitti reali; ma il primo tempo è finito con la sconfitta dell’opposizione all’europeismo e al mondialismo, perché non basta che le contraddizioni e i conflitti vi siano: bisogna anche sapervisi inserire nel modo opportuno.

Vincenzo Costa

Grazie del contributo. Un’analisi accurata che da molto da pensare.

Andrea Zhok

Roberto Buffagni. Analisi molto bella e articolata, di cui ti ringrazio.
La trovo convincente sul piano dell’analisi della parabola del “sovranismo realmente esistente” identificato con la Lega e i suoi cespugli.
La trovo affascinante, ma meno convincente per quanto riguarda la macroanalisi storica.

Nello specifico la categoria storica decisiva, quella di ‘universalismo’, è a mio avviso troppo indeterminata per esaminare la storia successiva alla Rivoluzione francese.

La vera lotta degli ultimi due secoli è stata solo in piccola parte lotta tra universalismo e particolarismo, ma molto più spesso è stata lotta tra tipi radicalmente diversi di universalismo. Nel movimento comunista e socialista, accanto ad un universalismo scientista e livellatore, positivista ed imperialista, è sempre esistito (in considerevole confusione concettuale, va detto) un universalismo che dichiarava diritto dell’intera umanità l’autogoverno e la sovranità dei popoli, la loro autodeterminazione, cioè un universalismo che riconosceva e legittimava le nazioni, le culture, le diversità territoriali. Questo non è particolarismo, è universalismo, ma non del tipo astratto formulato dal primo illuminismo. (Incidentalmente, avendone il tempo potrei mostrare come solo questo universalismo è concretamente sostenibile).

La seconda questione, correlata alla prima, su cui (in un altro momento) vorrei approfondire il discorso è legata al nesso tra universalismo e capitalismo. Nel quadro che proponi si giunge alla conclusione paradossale che imperialismo, comunismo, illuminismo, capitalismo ed europeismo sono solo aspetti di un medesimo Moloch concettuale, l’universalismo. Però capisci bene che trattare Lenin come alleato del capitalismo – e qui si arriva – opera una semplificazione concettuale davvero troppo ardua da metabolizzare.

Arrivato qui il dovere mi chiama, ma ti rimando – secondo l’indecente costume accademico – al mio libro sulla ragione liberale, dove cerco di mettere a fuoco proprio al differenza tra l’universalismo liberale, legato alll’evoluzione del capitalismo, ed un universalismo democratico (talvolta socialista) che diverge dal primo molto precocemente, e che non è senz’altro assimilabile alla ‘destra’ (l’eredità dell’Ancien Regime).

Roberto Buffagni

Grazie a te. In effetti dire che il comunismo leninista è un alleato segreto del capitalismo è un po’ forte, non ci sarebbero arrivati neanche i geni dell’Ufficio Falsi Politico-Letterari dell’Okhrana, quelli del “Protocollo dei Savi di Sion”. Il tuo libro lo leggerò volentieri. Come sai la mia cultura politica è di destra e non sono né storico né filosofo di professione, quindi, in mancanza di dovere d’informazione esaustiva professionale, tra le mie letture di dilettante ci sono più opere “di destra” che opere “di sinistra”; però conosco anche io, anche se non abbastanza bene, che è effettivamente esistito un “universalismo democratico, talvolta socialista” che fa ampio spazio alle differenze, pur senza rinunciare all’universalismo, anzi. Basta fare il nome di Giuseppe Mazzini, l’Apostolo le cui severe sembianze riprodotte in busti di marmo o bronzo tuttora costellano i giardinetti italiani, per la gioia dei piccioni (ci scherzo un po’ ma lo rispetto molto, eh?). Io sono persuaso che sia certamente possibile, anche oggi, una articolazione dell’universalismo che comprenda e legittimi la permanenza delle differenze particolari, e delle gerarchie di valori che ne conseguono. Non mi risulta che essa via sia in misura sufficiente e sufficientemente egemonica, da un canto; e dall’altro, ho l’impressione (è solo un’impressione ma è molto forte) che ad essere in questione nell’arena politica e filosofica, oggi, siano questioni antropologiche di fondo che rinviano alla radice del problema; e la radice del problema è vecchia se non antica, vale a dire l’illuminismo e la rivoluzione francese, e probabilmente anche le guerre di religione intracristiane. L’impressione si fonda anzitutto sul fatto (perché questo mi pare un fatto) che, per farla cortissima: il segreto o il trucco liberalcapitalistico di fondo è: far sì che la gerarchia e il comando, indispensabili per la sussistenza di ogni società, siano quanto più possibile depurati dal comando dell’uomo sull’uomo. Comando impersonale sulle cose e sulle procedure, e comando impersonale delle cose e delle procedure sugli uomini. Ora, se tu vuoi limitare il capitalismo liberale, e restringerlo nel recinto dell’Economico, dovrai di nuovo giustificare e legittimare il comando dell’uomo sull’uomo; e come fai, se non giustifichi e legittimi una gerarchia che NON risponda al criterio democratico del denaro? Ci sono i voti, un altro criterio quantitativo e democratico. Bastano? Non lo so (sul serio non lo so, e mi fermo qui perché non so proseguire).

TUTTO TRANNE LO STATO, di  Fabrizio Tribuzio-Bugatti

Un saggio particolarmente pregnante sulla falsariga proposta da numerosi collaboratori e redattori del sito. Ci dice anche, tra i tanti spunti offerti, che la dinamica della decisione, componente costitutiva dell’agire politico, quando viene in qualche maniera ignorata, distorta, rimossa, celata non fa che trasferirsi in particolari centri strategici piuttosto che in altri con la conseguenza che risulti più facile il passaggio a quelle stesse condizioni di tirannide alle quali il pensiero liberale ha posto in altri tempi argini fondamentali  _Giuseppe Germinario

TUTTO TRANNE LO STATO

traduzione di Roberto Buffagni

Pubblicato 20 aprile 2020 Di Fabrizio Tribuzio-Bugatti

”  È di moda opporsi allo stato “, Ha affermato Jean-Pierre Chevènement nel suo discorso ai prefetti dell’8 luglio 1998, ma la sottomissione ai poteri del Denaro che lui ha sottolineato è solo una delle conseguenze. Il motivo per cui l’opposizione cresce contro lo stato è dovuto in particolare alla riluttanza dei politici stessi. Situazione paradossale quella in cui gli statisti ripudiano lo stato, al punto da rifiutarsi in certe occasioni di pronunciare il suo nome, come un tabù che risveglierebbe cose vecchie ma terrificanti sepolte a lungo nel subconscio nazionale. Questo rifiuto dello Stato porta naturalmente a un modo singolare di esercitare il potere, dal momento che si tratta sia di incarnarlo volontariamente che involontariamente, organizzando la sua impotenza con la sua limitazione. Questa prospettiva è tanto più curiosa in Francia, dove la Quinta Repubblica è venuta al mondo nel mezzo di un’insurrezione algerina, sotto l’egida di un uomo provvidenziale un po’ scettico sulla democrazia. Nata con la missione di porre fine al conflitto permanente tra il governo e il Parlamento che quest’ ultimo finiva sempre per vincere sotto la Terza e la Quarta Repubblica, ma anche il loro legalismo sfrenato, la Quinta Repubblica ha sia razionalizzato le relazioni tra il potere deliberativo e l’esecutivo, sia limitato le aree della legislazione del Parlamento nella sua Costituzione, sotto la supervisione del Consiglio costituzionale, poi pensato come una pistola puntata contro il suddetto Parlamento. Da quel momento, le citazioni che spesso prendiamo a prestito da Girardin o Machiavelli, i quali sostengono rispettivamente che “governare è prevedere” e “governare, è far credere “si sono tuttavia distaccate dalla realtà, poiché oggi” governare non è decidere “; ma cosa resta del governo se quest’ultimo non ha più prerogative decisionali? Certo, c’è sempre una decisione alla radice di tutto nella pratica del potere, anche se si tratta di decidere di non prendere alcuna decisione, che si tratti solo di determinate aree come l’economia, o di accantonare la decisione di tutto su tutti gli argomenti in generale a beneficio di una pura e semplice gestione dei vincoli previsti, come un semplice reparto risorse umane.  Non ci stancheremo mai di citare Serge Latouche su questo argomento: Se non possiamo più fare altro che gestire i vincoli, il governo degli uomini viene sostituito dall’amministrazione delle cose; il cittadino non ha più motivo di esistere. ” [1] Da un punto di vista giuridico, questa tendenza prende forma nello sviluppo dello stato di diritto, formula percepita e talvolta erroneamente considerata come un concetto monolitico, quando invece contiene due concetti distinti l’uno dall’altro, i quali sono anche autonomi a seconda delle circostanze. Tende anche a far dimenticare alle persone che la legge è soprattutto una convenzione, che si evolve o scompare a seconda dei regimi politici, dal momento che il legislatore non è altro che un’emanazione della politica e il potere di promulgare le leggi è spesso condiviso. Carl Schmitt aveva chiaramente identificato questo problema: “Lo “stato di diritto”, per usare l’espressione consacrata, è prima di tutto uno stato legislativo […] che non può semplicemente rinunciare alle leggi, queste leggi che cambiano ogni volta in base alle funzioni che deve realizzare. ” [2] Lo stato di diritto, in quanto finzione liberale, da un canto vede la legge come un mezzi per porre limiti allo Stato; le sue derive liberali-libertarie lo interpretano come” lo Stato in cui abbiamo il diritto di avere diritti ”, non senza motivo, poiché, d’altro canto, la legge non ha più alcuna funzione se non il riconoscimento legale degli interessi. Da un punto di vista normativo, è in definitiva lo Stato del diritto, il che comporta paradossi clamorosi. Il politico, che finisce per ripudiare anzitutto il proprio statuto, si ritrova comunque costretto a legiferare, per mezzo del potere deliberativo o esecutivo, con il secondo che spesso diventa un ramo del primo. La fine della classica opposizione tra il deliberativo e l’esecutivo in fin dei conti non si concluderà con  la forma dittatoriale prevista dalla tradizione repubblicana, nella quale il dittatore può deliberare da sé e per sé,al fine di eseguire le proprie decisioni senza possibilità di ricorso, mentre viene rimossa la questione del giusto e dell’ingiusto. È probabilmente una forma di tirannia, dal momento che il dittatore, nella teoria giuridica, non può né fare nuove leggi, né tanto meno disporre della Repubblica; al contrario mettere in opera una volontà di impotenza ha esattamente l’effetto opposto, cioè una legislazione dedicata all’indebolimento strutturale e politico della Repubblica. La liquidazione dello Stato avviene in due forme principali: il graduale ma inevitabile smantellamento delle sue parti, in particolare economico o amministrativo; il rifiuto di ricorrere ad esso quando le circostanze lo richiedono, in particolare in caso di crisi. L’intera questione è come, al contrario, ciò che può apparire contraddittorio sia logicamente risolto dallo stato di diritto come traduzione di una volontà di impotenza.

LA TECNICA DEL POTERE

Alcuni potrebbero trovare strana l’idea di una tecnica di potere, come se ci fosse una sorta di manuale per il buon leader, ma in realtà questo argomento è sempre stato oggetto di una letteratura abbondante i cui autori più famosi sono senza dubbio Jean Bodin, Machiavelli e Carl Schmitt. La tecnica del potere non è il potere confuso con il tipo di regime politico, come nelle ben note tipologie di Aristotele e Polibio, ma in effetti il ​​modo in cui viene esercitato, abilmente o goffamente, in quanto dominio del principe in particolare. Anche Hippolyte Taine ne offre una buona visione d’insieme nelle sue Origini della Francia contemporanea : “ Ciò che viene chiamato un governo è un concerto di poteri, che, ciascuno in un ufficio separato, lavora collettivamente per un’opera finale e totale. Che il governo faccia questo lavoro, ecco tutto il suo merito; una macchina vale solo per il suo effetto. Ciò che conta non è che sia ben disegnato sulla carta, ma che funzioni bene sul campo. ” [3] La tecnica del potere è tuttavia discussa anche nella storia giuridica, come dimostra il lavoro svolto da Carl Schmitt nel suo libro Dittatura; qui egli ricorda un concetto fondamentale che anche noi tendiamo a trascurare, considerandolo acquisito, e quindi accidentale, sulla summa divisio tra diritto pubblico e privato. Ricorda Schmitt che l’esercizio del potere risponde bene a una certa tecnica, che è arcana. È una conoscenza esoterica, che solo una minoranza conosce e deve essere autorizzata a conoscere, come il fuoco greco dei bizantini nel campo della guerra. È proprio la natura arcana di questa tecnica che consente una lettura seria del Principe di Machiavelli, al di fuori della leggenda nera che gli fu affibbiata. Scritto in lingua volgare, Il Principe è un manuale che mira all’istruzione di un uomo provvidenziale in grado di unificare la penisola italiana, come evidenziato dall’ultimo capitolo; è quindi una strategia difensiva da parte di Machiavelli.  Ha anche parlato a lungo di un preciso equilibrio che il Principe deve cercare tra abilità e ferocia. Perché ”  Possiamo combattere in due modi: o con le leggi o con la forza. Il primo è specifico dell’uomo, il secondo è proprio degli animali; ma come spesso il primo non è sufficiente, uno è obbligato a ricorrere all’altro  ” [4]. Le circostanze determinano le scelte da fare e soprattutto il modo di farle. Ecco perché  “il principe, quindi, dovendo comportarsi come una bestia, cercherà di essere sia volpe che leone: poiché, se è solo un leone, non percepirà le sottigliezze; se è solo una volpe, non si difenderà dai lupi; e deve anche essere una volpe per conoscere le trappole e un leone per spaventare i lupi. Coloro che si limitano a essere leoni sono molto maldestri. ” [5]La sua vera innovazione non si deve alle considerazioni sull’uomo in generale, contrariamente a ciò che una lettura riduttiva ha cercato di imporre come interpretazione del suo pensiero, ma nell’approccio scientifico allo studio del potere: è quindi il politico che interessa Machiavelli, e la sua relazione con il potere, a seconda che sia governante o governato. La sua corrispondenza, inoltre, non consente più alcuna ambiguità su questo lungo argomento spinoso, ma che continua ad essere oggetto di dibattito oggi:

Ora arrivo all’ultima parte del mio compito: quello in cui insegno ai principi crudeltà e metodi di dominio assoluto. Se qualcuno legge il mio libro con imparzialità e indulgenza, sarà facile vedere che la mia intenzione non è quella di dare un esempio al mondo in questo modo di governare o in questi stessi uomini di cui sto parlando, ancor meno l’ insegnare agli uomini un modo per schiacciare gli uomini virtuosi e tutto ciò che è sacro e venerabile su questa terra: leggi, religione, probità, ecc. Se sono stato un po’ troppo preciso nel descrivere questi mostri in tutti i loro aspetti e comportamenti, è con la speranza che l’umanità, conoscendoli, li respingerà, essendo il mio lavoro sia una satira contro di loro che una vera descrizione. ”
—Nicolò Machiavelli, in” Lettera ad un amico ” [6] –

La tecnica del potere è quindi una tecnica nella quale Machiavelli aveva cercato di istruire il Principe che avrebbe unificato l’Italia. Il suo lavoro dipinge un affresco naturalistico, come tutti i suoi scritti in generale, sia che si tratti delle relazioni delle sue missioni diplomatiche o dei suoi Discorsi sulla prima deca di Tito Livio . La storia e le idee sono un supporto grazie al quale Machiavelli impara a identificare la migliore tecnica di potere possibile, di cui l’astuzia fa ovviamente parte. Ciò illustra la natura arcana del potere, ma anche l’obiettivo della politica in Machiavelli: “che un principe si proponga dunque come obiettivo di conquistare e mantenere lo Stato: i mezzi saranno sempre considerati onorevoli e lodati da tutti  ” [7]. La legge è una funzione di questo obiettivo, nel pensiero machiavellico. Il Discorso si basa quindi esclusivamente sul diritto pubblico, le considerazioni privatistiche ​​non soltanto non vi hanno spazio, ma Machiavelli mette in guardia da possibili incursioni del diritto privato nel diritto pubblico. Poiché l’istituzione delle leggi illustra la virtù del costruttore di una città e del Principe, devono solo servire a migliorare l’uomo ” e quando una cosa produce buoni effetti da sola senza la legge, la legge non è necessaria. ” [8]La sua preferenza per la costituzione mista, di cui prende come esempio la Repubblica Romana, conferma l’idea di Machiavelli secondo cui le leggi e le riforme di un regime dovrebbero essere attuate solo in caso di necessità, o anche di estrema necessità. Il concetto di Stato di diritto è inesistente in Machiavelli perché questa associazione non ha posto; il diritto cioè deve derivare dallo stato per servirlo, e non esserne l’eguale, il che rivela un’altra originalità del suo pensiero, cioè la dittatura. Machiavelli riprende la distinzione aristotelica tra deliberare ed eseguire, dimostrando che il dittatore, lungi dall’esserne affrancato, al contrario concentra in sé questi due poteri, poiché può deliberare da sé per eseguire da sé le proprie decisioni, senza alcuno ricorso possibile, ma con una garanzia costituzionale di rilievo: non può né promulgare nuove leggi, secondo Machiavelli, né disporre della Repubblica, secondo Bodin. Questo è senza dubbio ciò che alimenterà in parte la teoria della decisione di Carl Schmitt, quando considera che il padrone dello stato è colui che decide ciò che rientra nell’eccezione; la situazione eccezionale viene tradotta, secondo lui, dalla decisione libera da qualsiasi vincolo legale, in breve dallo Stato a scapito della legge. Dopotutto, questo non può essere paragonato alla pratica del potere da parte di un certo Charles de Gaulle? Se circostanze eccezionali gli permisero di raggiungere due volte la carica di capo dello stato, fu sia per mezzo dell’astuzia – nel 1958 – sia per mezzo della forza; sia durante la seconda guerra mondiale che durante l’insurrezione algerina, durante la quale la posizione gaullista nei confronti dei comitati di salute pubblica fu ambigua. E, come disse il generale in un discorso del 1953, grazie alla paura, un impulso potente, il  che va oltre il semplice pericolo per le istituzioni. La nozione di salus publica appare più chiaramente, in queste situazioni eccezionali.

Il diritto pubblico è quindi una parte integrante del potere e viceversa, poiché entrambi riguardano lo Stato e ancor di più il suo corretto funzionamento e la sua conservazione. Da questo punto di vista, il diritto pubblico è al servizio dello stato e non è il diritto del pubblico. Al contrario, questa deriva ha segnato la sua evoluzione fino ai giorni nostri, caratterizzata dall’egemonia del diritto privato che permeava il diritto pubblico con le sue logiche al punto da deviarlo dalla sua vocazione primaria che è lo Stato. Tuttavia, come pensava Carl Schmitt, ”  applicare  considerazioni che prevalgono nel diritto privato, come æquitas e justitia al diritto pubblico, nel quale a dominare è invece la salus publica, sembra un’ingenuità tagliata fuori dalla realtà. [9] La nascita dello stato di diritto rappresentava la fine della salus publica come unico fine del diritto pubblico, prima di rimuoverlo completamente.

STATO DI DIRITTO O STATO DEL DIRITTO?

Dobbiamo tenere presente che stato e legge sono due concetti distinti, come abbiamo detto, ecco perché pensatori come Machiavelli non si sono soffermati sullo stato di diritto, mentre il blocco concettuale o “lo stato di diritto” generato da questa espressione deriva senza dubbio dalla letteratura dei monarcomachi. Quest’ultima, logica reazione alle guerre di religione, si basa sulla legge come garante dell’ordine pubblico e sull’integrità fisica dei soggetti della corona, ma sebbene vi si possa scorgere l’idea di salus publica, i monarcomachi volevano soprattutto garantire per mezzo della legge la tolleranza dei culti contro l’arbitrio reale, poiché sotto l’Ancien Régime la corona si confondeva con lo Stato, e l’arbitrio con esso. È senza dubbio già un’introduzione privatistica nel diritto pubblico, se si considera che la salus publica in questo caso non riguarda più solo lo Stato, ma fa della legge il garante dell’integrità fisica del popolo, ed è probabilmente per questo che, a differenza di Machiavelli o di Jean Bodin, i monarcomachi non affrontano  la questione della dittatura che, normalmente, è per eccellenza l’istituzione ordinata alla risoluzione delle crisi. La legge comincia ad essere considerata un baluardo difensivo contro lo Stato, e certo un esempio di dittatura come quella di Silla non li seduceva, in quell’epoca travagliata. Ciò che è tipico del liberalismo classico – vale a dire l’emancipazione dall’arbitrario o dal divino – rese tuttavia possibile, attraverso l’associazione di queste distinte nozioni di stato e legge, generare un concetto unico, che al giorno d’oggi sembra quasi assumere l’aspetto del pleonasmo nell’espressione  “stato di diritto”. Assunto come nozione giuridica, nella quale sarebbero integrati in blocco i partiti, alla fine dei conti arriveremmo a ritenere che l’unica funzione dello Stato sarebbe produrre diritto, e reciprocamente che il diritto diverrebbe la finalità logica dello Stato, quando in realtà è la salus publica,  la vera ragione del diritto pubblico.

Tuttavia, se la fine di uno stato è la produzione di norme, ciò ne altera inevitabilmente lo scopo originale, poiché per natura non c’è alcun bisogno di  legiferare sulla conservazione dello stato; le sole misure costituzionali sono necessarie, poiché appartengono al dominio della chiaroveggenza: secondo la citazione di Girardin, “governare è prevedere”, come perfettamente illustrato dal ricorso alla dittatura che si traduce, nella Quinta Repubblica, nell’articolo 16 della Costituzione. Inoltre, lo stato di diritto giunge logicamente a limitare la tecnica del potere, poiché la legge obbliga i leader politici a sottomettervisi. La decisione viene quindi ostacolata in quanto condizionata dal sistema giuridico, di cui il parlamento è parte come legislatore per eccellenza, anche se il potere legislativo è condiviso con l’esecutivo in determinate aree. Che cosa divien allora del diritto pubblico, in un sistema di stato di diritto? Carl Schmitt è stato probabilmente colui che ha risposto meglio: Il significato ultimo, il significato proprio del “principio di legalità”, che è alla base di tutte le attività statali, è che in ultima analisi, non vi è né comando né sottomissione, perché vengono implementate solo norme impersonali. Un simile apparato statale trova la sua giustificazione solo nella legalità generale di qualsiasi esercizio di potere pubblico. ” [10] In buona sostanza, il diritto amministrativo illustra perfettamente la prevaricazione del paradigma privatistico, dal momento che si tratta solo di risolvere le controversie che sorgono tra lo stato e i cittadini, che saranno definiti amministrati, mentre lo Stato è solo una parte tra le parti, e dunque non si differenzia più dal sistema giudiziario. Il giudice amministrativo funge anche da legislatore, poiché è la giurisprudenza che ha un valore normativo in materia. La legalità prevale di nascosto sulla legittimità, rafforzando lo stato di diritto inteso non solo come concetto, ma come realtà effettiva. Il legalismo è solo la logica conseguenza della consacrazione dello stato di diritto e dimostra una volta per tutte la natura eminentemente liberale di questo concetto che rende la legge un mezzo per limitare lo Stato. Il processo è molto semplice: l’unica funzione della legge è il riconoscimento legale degli interessi, su cui il parlamento legifera e di cui la giurisprudenza specifica le modalità, e a volte il contenuto. In uno stato che ha una costituzione, una legislazione, la giurisprudenza dei tribunali non è diversa dalla legge. La parola giurisprudenza deve essere cancellata dalla nostra lingua ” [11] . La produzione normativa, nel campo del diritto, della regolamentazione o persino della giurisprudenza, mira solo a completare l’uno o l’altro secondo detti interessi, per soddisfarli al meglio. Il diritto pubblico deve solo gestire i possibili vincoli quando lo Stato è parte tra le parti, una personalità giuridica tra le altre, e le tergiversazioni della giurisprudenza in merito alla responsabilità non colposa non cambiano gran cosa. Non ha più un reale predominio, vale a dire, è espropriato della sua maestà. Lo stesso liberalismo dello Stato di diritto va ancora oltre, poiché lo stato minimo è il risultato di questa legislazione a tutto campo; l’unica decisione che i leader finiscono per prendere è quella di decidere che non decideranno più.

In primo luogo nelle aree relative all’economia, rendendo lo Stato almeno un attore economico come un altro, un massimo un attore passivo, come dimostrano i fatti da diversi decenni, contraddicendo en passant la tesi sviluppata da Maurice Duverger nel suo saggio La monarchia repubblicana, secondo la quale il rafforzamento dello Stato sarebbe un meccanismo irrinunciabile, perché la modernizzazione degli scambi – in particolare commerciali o finanziari, ma anche della società in generale – lo richiederebbe. Durante la crisi causata dalla pandemia di Covid19 nella primavera del 2020, il Primo Ministro aveva in fin dei conti dichiarato che l’unica responsabilità che lo Stato sarebbe in grado di assumersi in questioni economiche sarebbe una responsabilità ” come azionista  ”, oltre al manifesto rifiuto, da parte dell’inquilino di Matignon, di pronunciare la parola “Stato”,  un rifiuto tanto ostinato da imporre il rispetto. Questa affermazione, dalla bocca di una personalità che appare stranamente, suo malgrado, uno statista , suggerisce che lo stato non ha più le vere prerogative del potere pubblico, che deve sottomettersi ai meccanismi legali che ha prodotto. In realtà, ”  Colui che esercita il potere e il dominio agisce” in applicazione di una legge “o” in nome della legge “.  Non fa altro che affermare uno standard valido nel campo di competenza che è il suo assegnato ” [12] .Ciò è in contrasto con la dichiarazione di Jean-Pierre Chevènement sll’epoca in cui, da ministro dell’Interno, affermò che ”  Difendere le prerogative dello stato repubblicano e difendere la democrazia è una sola cosa: non c’è, oggi, legittimità in aziende internazionali, o anche a Bruxelles, Lussemburgo o Francoforte. Neppure ne esiste una nelle più potente tra le nostre comunità locali, che possa essere paragonata ala legittimità  di un’amministrazione responsabile nei confronti del governo, a sua volta responsabile nei confronti del Parlamento, delegato dal popolo sovrano, crogiolo della volontà generale. ” [13]Opponendo i prefetti alle autorità locali, l’ex ministro ha anche fatto una drastica distinzione tra legittimità e legalità, il che implica in gran parte che dette comunità sono un’emanazione puramente legalistica, poiché la sovranità, fonte di legittimità nel quadro repubblicano, è esercitato dal solo cittadino attraverso i suoi rappresentanti, sebbene questi abbiano il dovere di essere rappresentativi, se la teoria vuole conformarsi alla pratica. Solo, le riforme dei poteri dei prefetti come custodi   repubblicani sono diminuite da questo discorso, e finiscono per rinunciare di fatto al controllo della legalità che dovrebbero comunque esercitare sulle collettività, a favore di semplici notifiche a posteriori Ancora una volta, è lo Stato che si trova limitato dalla legge, dal momento che il diritto pubblico come salus publica è qui sostituito da una visione privatistica in cui il consenso e la composizione amichevole delle controversie sono favoriti dal legislatore. Il cittadino impegnato – un’espressione che sfortunatamente non è più pleonastica come potrebbe esserlo in teoria – si ritrova costretto ad assumere il controllo sulla legalità dell’azione del suo consiglio comunale, almeno sul campo permesso dalla sentenza Casanova [14], che di fatto obbliga il più delle volte a rivolgersi al  tribunale amministrativo competente, a scapito dell’autorità prefettizia che rigetta sistematicamente il suo ruolo di autorità decentrata dello Stato. Poiché i suddetti tribunali sono in gran parte congestionati a causa della loro scarsa capacità di smaltire tutte le cause, il giudice amministrativo è tanto meno propenso a invadere ciò che giustamente considera, il campo di competenza del prefetto.

La liquidazione dello Stato riflette quindi una volontà di impotenza, dal momento che è, in nome di una certa “responsabilità”, agire come manager. Come possiamo immaginare, questo porta davvero all’idea che la politica sarebbe diventata qualcosa di fondamentalmente assurdo e che per ben che vada, il dominio politico rileverebbe di una specie di atavico romanticismo. Ora è il momento della gestione, e un intero curioso vocabolario sta fiorendo sulla sua scia, che consiste banalmente nel trasformare la terminologia politica in quella di un dipartimento delle risorse umane, con la semplice modifica delle parole prima, in modo che facciano rima con “intendance”, salmerie, logistica. Quindi ecco l’alternativa sostituita dall’alternanza, il governo dalla governance, e inoltre sulla sempre più frequente invocazione di responsabilità, per facilitare la comprensione del fatto che ogni discorso che tratti qualcosa di diverso dalla quarta fascia fiscale odora d’un’epoca barbara, certo non così remota: ma è sempre un buon trucco, quando mancano gli argomenti. Queste originalità terminologiche in realtà impongono l’idea che esiste un solo modo di dirigere, che non ha nulla a che fare con ciò che Machiavelli potrebbe insegnarci. Abbiamo quindi visto governi successivi in ​​Francia allo stesso tempo espropriare lo Stato delle sue forze vitali in materia economica – poiché il campo economico è l’esempio più comune in questo settore – mediante privatizzazioni, l’apertura alla concorrenza di determinati servizi pubblici o persino l’integrazione del concetto di redditività in altri,  e la naturalmente legislazione per garantire al settore privato una “concorrenza libera e senza distorsioni” accompagna questa liquidazione, al punto che le aziende assumono un peso preponderante nella vita economica, ma persino diplomatica, a volte a scapito dei governi stessi. Maurice Duverger ha giustamente notato nel suo Nostalgia dell’impotenza che ”  l’impotenza politica provoca la debolezza dei servizi pubblici, l’impossibilità delle riforme, lo svilimento dello Stato, la sclerosi della nazione, l’assenza di civismo dei cittadini. Nelle relazioni diplomatiche e nelle organizzazioni nazionali, indebolisce il paese, scredita i suoi rappresentanti, paralizza o ritarda le decisioni collettive.  [15]Inoltre, tutta la legislazione economica prodotta dallo stato di diritto in realtà non emana più tanto dallo Stato quanto da organismi sovranazionali come l’Unione Europea, di cui lo Stato non è altro che un traduttore normativo nel suo proprio ordinamento interno. In effetti, potremmo sostenere che lo stato, alla fine, rischia persino di essere completamente espropriato della legge, appena essa non ne ha più bisogno. Non è più solo la tecnica del potere che viene evacuata, è il potere stesso che viene svuotato della sua sostanza; e possiamo quindi renderci conto che la vacuità del potere non significa una vacuità del personale politico, o addirittura un’assenza di leadership, ma la capacità di decidere chi è limitato, se non spazzato via, dalla legge. Lo stato è in qualche modo sospeso in nome della legge, poiché è la legge che governa ora. Con una tremenda inversione di tendenza, siamo tornati al legalismo, ma non quello della Terza e della Quarta Repubblica, dove si potrebbe parlare di sovranità del parlamento, ma di quella della legge come norma impersonale – e per impersonale intendiamo legge sradicata dalla Nazione, quando la legge sarebbe espressione proprio della volontà della nazione -, al limite dell’entelechia. Ciò ha causato, tra le altre conseguenze, l’ennesimo sconvolgimento nella gerarchia delle norme, poiché d’ora in poi quando un trattato è incostituzionale, è la Costituzione che si trova modificata, come ciò che è stato fatto sotto la Quarta Repubblica dove la Costituzione è stata modificata quando una legge era incostituzionale. Ciò è ovviamente caratteristico del legalismo, tranne che in materia di convenzioni internazionali, ciò che dovrebbe farci interrogare su un’evoluzione del ruolo dei trattati che non si limita più a stabilire relazioni tra Stati, ma a costituire un vero e proprio modo di governo. Il significato della citazione di Serge Latouche assume quindi un’ampiezza terrificante e ci obbliga ad affrontare il fatto che “La scomparsa del politico come istanza autonoma e il suo assorbimento nell’economico fanno riapparire lo stato della natura secondo Hobbes, la guerra di tutti contro tutti; la competizione e la concorrenza, leggi dell’economia liberale, diventano, ispo facto, la legge della politica. ” [16]

LIBERTÀ (S), RISCRIVONO IL TUO NOME

Sarebbe tuttavia errato pensare che, comunque, lo stato di diritto avrebbe almeno il merito di preservare le libertà fondamentali contro l’arbitrio statale, ma soprattutto di prevenire le possibili derive di tale arbitrio. “  Un sistema di legalità chiuso su se stesso quindi basa qualsiasi pretesa di obbedienza e giustifica l’esclusione del diritto alla resistenza. L’aspetto specifico della legge è qui la legge positiva, la giustificazione specifica del vincolo statale è la legalità ” [17], spiega Carl Schmitt. Una volta negato questo diritto alla resistenza, la questione del regime politico non ha importanza e la parola democrazia che gli invocatori permanenti dello stato di diritto credono di associarvi logicamente è affatto sbagliata. Se la democrazia deve governare nell’interesse del maggior numero come pensava Pericle, è ancora necessario distinguere l’interesse generale dalla somma di interessi particolari, perché il primo non è assolutamente il risultato del secondo . Dal momento in cui ciò che è possibile viene ritenuto necessario, ciò offre una traduzione giuridica singolare in materia di libertà fondamentali che rafforza solo la legalità. Poiché si limita esclusivamente al riconoscimento legale degli interessi, lo stato di diritto spinge effettivamente a sottomettere alla legislazione ogni aspetto della vita, allontanandosi definitivamente dal diritto pubblico, o piuttosto assimilandolo al diritto privato. Sarebbe possibile replicare, tuttavia, che è sempre grazie allo Stato che può aver luogo il processo normativo, e la legge si applica, così come è effettivamente allo Stato che i cittadini fanno ricorso, poiché senza di esso la legge non sarebbe possibile; e che quindi ci sarebbe sempre una decisione che ha dato origine a uno stato di diritto, cioè lo Stato. Il favoloso paradosso che ne deriva distrugge l’idea che uno stato forte sarebbe necessariamente uno stato arbitrario e per inciso totalitario, poiché il riconoscimento legale degli interessi è solo la loro infinita soddisfazione, al punto che lo stato diventa totalitario perché è debole, non perché è forte, l’esatto opposto di uno Stato fascista, che cerca di imporre una norma, e non di regolare delle eccezioni.

In entrambi i casi, tuttavia, nessuno si contenta del maggior numero, perché tutti devono essere soggetti a queste norme di legge. Le libertà fondamentali degenerano in libertà di desideri a cui viene naturalmente concessa la libertà di soddisfarli. Lo stato di diritto è ora inteso come “lo stato in cui si ha il diritto di avere diritti”, che sono sempre nuovi e sempre più specifici. In breve, dopo i diritti-debito, ecco i diritti-piacere ” Uno stato di partiti pluralisti non diventa “totale” con la forza e con il potere, ma con la debolezza; interviene in tutti gli ambiti della vita perché deve soddisfare le pretese di tutti gli interessati. ” [18]

Questo atteggiamento compulsivo, che richiede al legislatore di riconoscere la propria singolarità – a volte fantasmagorica – testimonia le solide radici del legalismo nell’individuo stesso. La sua visione della vita stessa è legalistica; questo dà vita a una situazione nebulosa in cui la norma e l’eccezione diventano sempre meno distinte. La posizione assunta il 5 aprile 2020 da Marlène Schiappa, Segretario di Stato, nel mezzo della crisi di Covid19, che in una lettera di missione a Céline Calvez, deputato di Hauts-de-Seine – tra l’altro membro della commissione per gli affari culturali e istruzione – si allarma per la mancanza di voce femminile nei media in tempi di crisi illustra le ansie legalistiche che una società moderna sta vivendo anche nel mezzo di una crisi. Ora, se è sempre l’eccezione che definisce la norma e non il contrario, cosa succede se, da un punto di vista normativo, le norme di legge prodotte essenzialmente per riconoscere legalmente interessi tanto diversi quanto dubbi diventano soprattutto un catalogo di eccezioni? Dov’è allora la norma? Non è forse spazzata via a favore di un paradigma giuridico che allontana le distinzioni tra norma ed eccezione, per rendere quest’ultima la norma stessa, senza che sia possibile determinare se sia un paradosso o un’incongruenza?  “La  legalità è davvero uno strumento di potere, e chiunque riesca a impadronirsi di questo strumento è più forte di qualsiasi cosa si possa opporgli in nome della legittimità. ” [19] L’ascesa della legge sullo stato assume piena dimensione attraverso queste affermazioni legalistiche e poiché la legittimità ormai viene intesa come sinonimo di legalità, non è più possibile contestare alcuna regola de jure dato che un regime rappresentativo come la Quinta Repubblica si basa sul principio del governo del popolo da parte del popolo, rappresentato dal Parlamento che esercita la sovranità nel suo nome. “Ciononostante, uno stato non rinuncerà mai alla sua pretesa di dominio e alla soppressione di ogni diritto di resistenza, purché rimanga uno stato, per quanto debole possa essere  ” [20] Ancora una volta, è proprio la crisi che mette in luce questa prospettiva, nonché le possibili disfunzioni di un sistema, o meglio le loro cause.

LA CRISI O IL CONFRONTO DEL DIRITTO E DELLO STATO

Mentre la crisi a seguito della pandemia di Covid19 raggiunse il culmine esattamente un anno dopo che Bruno Le Maire, ministro dell’Economia, pubblicò con Gallimard Publishing un modesto saggio intitolato Il nuovo impero, l’Europa nel 21 ° secolo, è chiaro che queste storie dell’impero di millenario non vanno mai come previsto. Le crisi hanno il merito di rivelare i difetti di un sistema consolidato – politico, istituzionale o persino sanitario – ma soprattutto di valorizzare il dilettantismo o la chiaroveggenza delle élite, anche in questo caso quale che sia la loro funzione. Ancora meglio, sono soprattutto i profondi difetti che hanno parzialmente consentito la crisi, che sono evidenziati, e la capacità o l’incapacità del politico di risolverli. Solo, un grosso problema ostacola le soluzioni legali da attuare, poiché nel diritto la crisi non ha assolutamente definizione, contrariamente a quanto una dubbia letteratura pseudo-legale cerca di farci credere quando si presentano.  La definizione più accattivante da conservare potrebbe tuttavia essere quella proposta da Alain de Benoist, che ha saputo coglierne l’essenza affermando che la crisi è ciò che non può essere risolto, né può risolversi da sola. La presa in considerazione dell’incertezza e del rischio è un luogo comune legale molto specifico, ed è stata ampiamente oggetto di dottrina e di norme di legge. La permanenza dello Stato è il pilastro su cui poggiare, poiché la sua stessa essenza è il negativo dell’incertezza; e la formula che esprime meglio questa impossibile vacanza al potere è probabilmente il famoso “Il re è morto, viva il re!” “La modernizzazione dei mezzi di produzione, della società stessa e dei modi di governare svilupperanno tuttavia sempre più le teorie della decisione, vale a dire la determinazione della migliore scelta possibile in determinate condizioni nella corretta applicazione della teoria dei giochi, ed ecco il rischio integrato nella società come una componente quasi inerente al suo funzionamento. Tuttavia, la modernità non è riuscita a rimuovere l’incertezza, ma l’ha anche sofisticata solo quando non ne ha prodotto di nuove, spietati corollari del progresso. Nuove sfide, nuove questioni.

Quando si verifica la crisi, essa non solo compromette il sistema giuridico, ma soprattutto lo stato stesso. Lo stato di diritto riscopre quindi la sua natura chimerica, poiché in ultima analisi non può produrre una norma in una situazione che non si preoccupa dello stato di diritto e non richiede il rilascio né dell’autorizzazione né del riconoscimento legale. La crisi sta spazzando via le incessanti richieste alla legge, in particolare quelle al fine di acquisire nuovi statuti o addirittura di soddisfarne alcuni già concessi. In breve, la crisi ha ricordato al politico che gli onori della sua posizione gli hanno anche chiesto di accettarne le servitù, tra l’altro questa famosa salus publica . La crisi è la situazione eccezionale per eccellenza e, come ricorda Carl Schmitt, “ chi decide nella situazione eccezionale è il sovrano” Se le decisioni richieste da tale situazione non vengono prese abbastanza presto, l’organo decisionale potrebbe essere accusato di agire troppo tardi, mentre a monte potrebbe essere richiesto di giustificarsi quando non sembra sorgere alcun pericolo grave , come nel caso di Roselyne Bachelot durante l’epidemia di influenza H1N1 quando era ministro della sanità. L’intero paradosso giuridico si trova qui, anche se non si avvicina il momento della crisi stessa e l’intera armata legislativa si trova impotente ad affrontare se costringe il processo decisionale a rispettare le procedure, preoccupandosi anzitutto di non disturbare il corretto funzionamento dello stato di diritto. Tuttavia, in caso di crisi, non è mai possibile utilizzare solo i mezzi a disposizione dello stato di diritto. Purtroppo, la crisi difficilmente tollera i balbettii normativi; corre più veloce degli andirivieni delle navette parlamentari,  ed ecco che i nostri leader, che hanno scambiato la politica per l’amministrazione, scoprono lo spaventoso cimitero delle loro buone intenzioni.

La dittatura si è tradizionalmente illustrata come il mezzo repubblicano per eccellenza a cui si ricorre per preservare lo stato, come abbiamo detto. Permette al dittatore, nominato secondo un semplice meccanismo costituzionale o proto-costituzionale, di essere sia il deliberatore che l’esecutore delle proprie decisioni, senza possibilità di ricorso, come avevamo spiegato. Decidendo sulla situazione eccezionale, ha quindi il controllo dello Stato: la decisione viene quindi liberata da tutti i vincoli legali. Il limite fissato al dittatore è tanto semplice quanto inevitabile: non può né promulgare nuove leggi né disporre della Repubblica. Sfruttare la dittatura per usurpare il potere la trasforma dunque in tirannia. Questo è anche il motivo per cui, empiricamente, il dittatore si è dimetteva a missione compiuta, solo di rado alla scadenza del suo mandato. Il fatto che i monarcomachi non la integrassero nel proprio pensiero suggerisce che il loro contributo alla teoria generale del diritto era proprio quello di concettualizzare la legge come baluardo difensivo contro l’arbitrio dello Stato, come detto più sopra.

La crisi è quindi qualcosa di più che la regina dei rischi. Si apre come un abisso vertiginoso, e le sue forme mutano, rispecchiando l’immagine della società e dei tempi. Lo stato di assedio è stata la prima risposta a questo problema nella nostra storia moderna, prevedendo il trasferimento del compito di mantenere l’ordine alle forze armate. Essendo una misura rischiosa quanti i rischi di una crisi, le classi politiche fino alla IV Repubblica hanno testimoniato una diffidenza ormai classica verso tutto ciò che potrebbe in effetti rafforzare lo Stato a scapito della legge, vale a dire del diritto dello stato di preservare se stesso, per così dire. Durante l’insurrezione algerina, la questione dello stato d’assedio provocò un dibattito, e il tentativo di evitarlo ha dato alla luce l’ormai ben noto stato di emergenza,  un compromesso tra la conservazione dello Stato e una ragionevole ritirata del diritto, mentre lo stato d’assedio rischiava di aprire un campo di possibilità forse troppo ampio per il gusto di Pierre Mendés France e Edgar Faure; tuttavia, il ricordo ancora troppo vivido del voto di conferimento dei pieni poteri al maresciallo Pétain non poteva dar loro torto, in circostanze allora piuttosto simili. La legge del 1955 prevedeva quindi logicamente che il Parlamento votasse una legge che dichiarasse lo stato di emergenza, tuttavia con il controllo parlamentare, prima del ritorno alle condizioni regolari con l’ordinanza del 15 aprile 1960. Anche se lo stato di diritto – e soprattutto il legicentrismo – era appena scosso, la Quarta Repubblica fu in grado di compensare l’assenza costituzionale di ricorso alla dittatura, anche se fu inesorabilmente superata dall’instabilità insita nella sua struttura costituzionale. Quando le istituzioni della Repubblica, l’indipendenza della Nazione, l’integrità del suo territorio o l’esecuzione dei suoi impegni internazionali sono minacciati in modo serio e immediato e d è interrotto il regolare funzionamento dei poteri pubblici costituzionali, il Presidente della Repubblica adotta le misure richieste da tali circostanze, previa consultazione ufficiale con il Primo Ministro, i Presidenti delle Assemblee e il Consiglio costituzionale. Proprio come gli articoli 34 e 38 inaugureranno le aree riservate alla legge e ai regolamenti. Da allora, il Parlamento può legiferare solo su ciò che le disposizioni dell’articolo 34 gli consentono, razionalizzando il comportamento del legislatore. Alcune escursioni hanno naturalmente visto la luce del giorno, ma questi incorreggibili avventurieri normativi che sono i parlamentari sono stati rapidamente rimessi in riga dal Consiglio costituzionale. In pieno trionfo della volontà di impotenza, soltanto l’articolo 16 sembra essere un relitto del passato. Se continua ad adornare la costituzione della Quinta Repubblica, il suo uso ci sembra incongruo, perché la raffinatezza della società e la sua relazione con il mondo tendono a farci credere che questo tipo di misura sia diventata superflua .

La creazione dello stato di emergenza sanitaria segna un’evoluzione dello stato di diritto, perché come misura più morbida dello stato di emergenza, riflette principalmente il desiderio di evitare il ricorso a questo articolo 16. Il nuovo dispositivo fa una scelta molto chiara: sospendere lo Stato a favore della legge. Queste nuove regole vincolano ancora di più il processo decisionale, al punto che possiamo chiederci se esistano ancora dei decisori pubblici e senza dubbio la piccola formula di Maurice Duverger: ” ogni  potenza per  prevenire o distruggere, l’impotenza per decidere e costruire ” [21]si presta bene a questa situazione. Quindi qui ci sono statisti che semplicemente rifiutano lo stato stesso per paura che, fornendogli il tempo di darsi i mezzi per risolvere la crisi, si supererebbe un punto fatale di non ritorno per un ordine che non è assolutamente mai quello della salus publica. La crisi rivela tanto il pragmatismo quanto il dilettantismo delle élite, non senza una certa implacabilità. Non tollera mezze misure, lei; le mezze misure che producono molti mezzi uomini, secondo Talleyrand. Sarebbe certo comodo affermare che una in crisi causata da un’epidemia il ricorso all’articolo 16 sarebbe sproporzionato, poiché le istituzioni non sarebbero messe a repentaglio, contrariamente agli esempi storici menzionati fino ad allora, ma questo puntodi vista illustra soprattutto la sua ignoranza di che cosa sia una Repubblica, in particolare il paradigma posto dalla Quinta. La prima delle istituzioni, in una Repubblica, è il cittadino, è anche per questo che essa è un regime vivente. Non è il cittadino che, in caso di epidemia, è fisicamente in pericolo ? Distaccare i cittadini dalle istituzioni in nome di una visione legalistica delle cose attesta non solo la natura chimerica del legalismo in sé, ma soprattutto un curioso ritorno al Vecchio Regime, dove lo Stato potrebbe essere confuso con la Corona. I cittadini non sarebbero quindi nient’altro che i moderni equivalenti dei sudditi del re, e il principio stabilito nell’articolo 2 della nostra Costituzione del ”  governo del popolo, da parte del popolo e per il popolo  ” un frutto dell’immaginazione. Questa interpretazione appare tanto più errata dal momento che se andiamo in fondo alla sua logica, si tratta di distaccare il Parlamento dall’idea di rappresentanza nazionale, mentre l’articolo 3 afferma inequivocabilmente che ” La sovranità nazionale appartiene alle persone che la esercitano attraverso i loro rappresentanti e attraverso il referendum. Nel caso di una crisi come quella provocata da Covid19, questa lettura è tanto più grave in quanto abbandona i cittadini al proprio destino di fronte alla malattia e alla morte. Se volessimo un altro esempio delle conseguenze dell’egemonia privatista sul diritto pubblico, eccone sicuramente un eccellente che ci permette di capire cos’è salus publica , in particolare in una Repubblica, e perché la dittatura è così importante come rimedio. Questo desiderio di impotenza in definitiva consiste dichiarare guerra a un virus senza approntare le nazionalizzazioni e le pianificazioni necessarie – al punto che le aziende del settore privato, stupite che lo Stato non prenda il comando, si dispongono da sé a ubbidirgli – avrebbe senz’altro acuito l’esasperazione del summenzionato Taine quando affermava, non senza ragione, che “In primo luogo, le autorità pubbliche devono essere d’accordo: altrimenti si annulleranno a vicenda”. In secondo luogo, le autorità pubbliche devono essere rispettate: altrimenti sono nulle. ” [22]

La comunicazione del governo durante la crisi di Covid19 nasconde anche alcuni tesori. Le sue precauzioni lessicali e le sue circonlocuzioni prudenti testimoniano una vera sfiducia nei confronti dello Stato. Se la crisi sta minando lo stato di diritto, la decisione di scegliere tra stato e legge sembra inciampare da parte dell’esecutivo a due teste in un modo molto strano. Da un canto Emmanuel Macron, presidente della Repubblica, sembrava toccare con la punta delle dita la natura “Jupiterienne” che gli veniva così attribuita,  dichiarando con enfasi, il 16 marzo 2020, che ” Lo Stato pagherà ” come esorcizzando ” Lo Stato non non può tutto ” di Lionel Jospin, ex primo ministro, dall’altro il suo primo ministro ha usato un linguaggio molto più sfumato. Il discorso di Matignon,  integrando il discorso presidenziale con le sue implementazioni pratiche, brillava per la sua palese ostinazione nel rifiuto di pronunciare la parola “Stato”, che tuttavia era prevista dopo il discorso dell’Eliseo. Secondo Édouard Philippe, primo ministro, la massima responsabilità che sarebbe assunta se la situazione lo richiedesse, sarebbe una responsabilità “come azionista», e l’annuncio del nuovo regime legale ideato per la risoluzione della crisi, lo stato di emergenza sanitaria. Come non vedere in esso il segno di questo famoso desiderio di impotenza che, non contento di aver ridotto lo Stato a un banale soggetto di diritto quasi privo di prerogative del potere pubblico in materia economica, non sembra nemmeno ritenerlo degno d’essere chiamato per nome? Il chiaro abuso della parola “guerra” è stato seguito dalla altrettanto distinta assenza di un’economia di guerra. Nessuna pianificazione delle forze di produzione al fine di fornire alla nazione i mezzi per combattere contro questo nemico invisibile che è il coronavirus, ma un’attestazione che il cittadino deve rivolgersi a se stesso per consentire a se stesso di uscire secondo i casi previsti con decreto del 23 marzo 2020.

Dov’è l’accordo tra i poteri, e ancor prima l’obbedienza che riscuotono, quando la comunicazione tra i membri del governo interferisce nel processo normativo? La semplice esistenza dell’autocertificazione solleva già questo dubbio, visto che il è cittadino stesso ad autorizzarsi a derogare dalla regola del confinamento durante l’epidemia di Covid19. L’eccezione definisce la regola, ma qui qual è l’eccezione? Certificazione o contenimento? In totale assenza di un’economia di guerra, vale a dire la pianificazione della produzione e il razionamento dei prodotti alimentari, ciò lascia seri dubbi, soprattutto perché mancano le varietà di imprese autorizzate a rimanere aperte, oltre alle banali gite che sono previste dal decreto del 23 marzo 2020. La disobbedienza derivante da questa vaghezza normativa fiorisce in modo abbastanza logico, infatti, poiché i divieti non sono né chiari né realmente coerenti rispetto al numero di possibili deroghe. Ciò non ha mancato di mettere alla prova i nostri concittadini, specialmente quando la polizia ha ritenuto opportuno concedersi poteri di giudice senza che lo stato di diritto ve li abbia autorizzati, incluso il famoso decreto del 23 marzo 2020. Che la polizia o i gendarmi si siano improvvisamente messi a controllare le spese dei consumatori, quando il loro ruolo deve essere limitato al controllo formale delle gite effettuate in coerenza con il certificato, avrebbe dovuto suscitare interrogativi in coloro che sono abituati a invocare lo stato di diritto a ogni piè sospinto. Infine, è la stessa comunicazione del governo che ora sembra assumere un valore normativo. Quando semplici “tweet” dei ministeri dello sport e degli interni completano il famoso decreto sul possibile perimetro di uscita, i metodi di controllo della polizia, ecc., prendono un valore decretale effettivo. La gerarchia delle norme teorizzata dal povero Kelsen potrebbe quindi far parte dell’atavismo legale. Già malmenata dai fatti al momento della sua apparizione, a quanto pare nulla le sarà risparmiato. Tuttavia, se la parola di un politico come un ministro integra il processo normativo – che si tratti di valore decretale o infra-decretato è in definitiva onanismo – le conseguenze vanno oltre i colpi di scalpello cui è stata sottoposta la Costituzione della Quinta Repubblica dalle varie riforme che l’hanno modificata. Ciò non è previsto né nella Costituzione né nel nostro ordinamento giuridico. Non bastando il tentativo di rimodellarla sulla Quarta Repubblica,  ora il suo aspetto distorto richiama una strana dimensione della Terza Repubblica. La Costituzione della Quinta Repubblica è senza dubbio la camicia di forza del diritto, che lo limita per lasciare un margine di manovra alla decisione, anche se le molteplici operazioni chirurgiche che ha subito ne hanno ridotto la libertà decisionale. Senza una gerarchia di norme e senza una costituzione, l’allegro caos di un processo normativo che conferirebbe un valore uguale a un decreto come a una dichiarazione pubblica finirebbe per liberare la legge dal vincolo decisionale. In un’assurda utopia normativa, tutto sarebbe probabilmente diventato uno stato di diritto e parlare di inflazione legislativa sarebbe un eufemismo all’interno di questo carnevale di norme turbinanti che non ci impedirebbe di perdere la testa. Ciò è tanto più flagrante in quanto da parte dei nostri governanti indica una nuova disobbedienza nei confronti dell’Unione Europea di cui sono comunque stati sempre zelanti collaboratori. Ciò che era irresponsabile, persino la follia, divenne improvvisamente d’una sconcertante facilità quando, ad esempio, si impose “temporaneamente” un orario di lavoro settimanale di sessanta ore invece delle quarantotto ore previste secondo le regole europee. L’equilibrio dell’esercizio del potere tra astuzia e forza secondo Machiavelli è quindi sconvolto da un evidente squilibrio verso la forza, anche se  “quelli che si limitano a essere leoni sono molto goffi ” [23] ; ma sorprendentemente, è la legge che ha assunto le sembianze della ferocia.

 

APPUNTI:

  1. Serge Latouche, in “La Mégamachine – ragione tecnoscientifica, ragione economica e mito del progresso”, capitolo I “tecnica, cultura e società, 1 La Mégamachine e la distruzione del potere sociale, éd. La Découverte / Revue du MAUSS, p.45
  2. Carl Schmitt, in “Tele-democrazia – L’aggressività del progresso”, Legalità e legittimità (1970), in “Machiavelli – Clausewitz – Legge e politica che affrontano le sfide della storia”, trad. di Michel Lhomme, p.249-250, ed. Krisis
  3. Hippolyte Taine, “Le origini della Francia contemporanea – La rivoluzione: la conquista giacobina”, Hachette, 1878, p. 276
  4. Nicolas Machiavelli, in “Il principe”, cap. XVIII Come i principi devono mantenere la parola, p.74, edizioni Charpentier, Libraire-éditeur (Parigi, 1855), traduzione di Jean-Vincent Périès  (1825)
  5. Ibidem, p.75
  6. Citato da James Burnham, in “L’era degli organizzatori”, p.1, edizioni Calmann-Lévy, collezione Freedom of the mind.
  7. Nicolas Machiavelli, in “Il Principe”, cap. XVIII “Come i principi devono mantenere la loro fede”, p. 126-127, ed. The Pocket Book (1963)
  8. Nicolas Machiavel, in “Discorso sul primo decennio di Tite-Live”, Libro I, capitolo 4, p.68, ed. Gallimard, collezione NRF / La Bibliothèque de philosophie (2004)
  9. Carl Schmitt, in “La dittatura”, 1. La dittatura del commissario e la teoria dello Stato, a) La teoria della tecnica statale e la teoria dello stato di diritto, p.82, Edizioni Seuil, collezione Punti.
  10. Carl Schmitt, in “Legalità e legittimità”, Introduzione, p. 38-39, ed. Le macchine da stampa dell’Università di Montreal, trad. di Christian Roy e Augustin Simard
  11. Maximilien de Robespierre, Sessione del 18 novembre 1790, Archivi parlamentari, 1a serie, Tomo XX, pag. 516.
  12. Carl Schmitt, in “Legalità e legittimità”, Introduzione, p. 38-39, ed. Le macchine da stampa dell’Università di Montreal, trad. di Christian Roy e Augustin Simard
  13. Jean-Pierre Chevènement, in “Lo stato e la democrazia – Discorso ai prefetti (Parigi, 2 luglio 1998)”, in “La Repubblica contro il pensiero positivo”, p. 121, ed. Plon (1999).
  14. Sentenza del Consiglio di Stato del 21 marzo 1901, relativa alla ricevibilità del ricorso di un contribuente contro una deliberazione del consiglio comunale in materia di finanze del comune.
  15. Maurice Duverger, in “Nostalgia per l’impotenza”, II. Le due Europa – L’Europa dell’impotenza, p.116, edizioni Albin Michel (1988)
  16. Serge Latouche, in “I pericoli del mercato planetario”, cap. I, “Globalizzazione dell’economia o” economizzazione “del mondo”, p.31, ed. Science Po Press
  17. Carl Schmitt, in “Legalità e legittimità”, Introduzione, p. 38-39, ed. Le macchine da stampa dell’Università di Montreal, trad. di Christian Roy e Augustin Simard
  18. Ibidem, conclusione, p.133-134
  19. Carl Schmitt, in “Tele-democrazia – L’aggressività del progresso”, Legalità e legittimità (1970), in “Machiavelli – Clausewitz – Legge e politica che affrontano le sfide della storia”, trad. di Michel Lhomme, p. 250, ed. Krisis
  20. Carl Schmitt, in “Legittimità e legittimità”, Conclusione, p.133-134, ed. Le macchine da stampa dell’Università di Montreal, trad. di Christian Roy e Augustin Simard
  21. Maurice Duverger, in “La nostalgia dell’impotenza”, Introduzione – La sconfitta dei vincitori, p.14, edizioni Albin Michel (1988)
  22. Hippolyte Taine, “Le origini della Francia contemporanea – La rivoluzione: la conquista giacobina”, p.276, edizioni Hachette (1878)
  23. Nicolas Machiavelli, in “Il principe”, cap. XVIII Come i principi devono mantenere la parola, p.74, edizioni Charpentier, Libraire-éditeur (Parigi, 1855), traduzione di Jean-Vincent Périès  (1825)

https://patriotesdisparus.com/2020/05/08/petit-precis-de-la-dictature/

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