La svolta realistica dell’ecologia politica, di Pierre Charbonnier

Proseguiamo con la pubblicazione di questo terzo articolo, il primo e il secondo hanno trattato delle posizioni politiche di Trump e Biden, il dibattito sui nuovi temi e sui nuovi oggetti di scontro nel confronto geopolitico. Il tema dell’ambientalismo è e sarà sempre più uno dei fili di conduzione che disegneranno gli scenari prossimi venturi. Già il Forum Economico Mondiale di tre anni fa e quello del 2019 hanno iniziato a porre ed imporre il tema. Abbiamo visto la loro versione dozzinale, popolare e manipolatoria nel fenomeno Greta Turnberg e quella culturale divulgativa, ma di basso livello espressa da autori, tali Hariri e Schwab. Il Forum e la musa ispiratrice di questo lancio, tale George Soros, non sono però che due degli attori e agenti di influenza e nemmeno i più importanti. L’articolo qui sotto lo dice chiaramente: l’ambientalismo è diventato un tema, uno strumento e una linea di ispirazione di centri decisionali strategici e di stati nazionali. L’impostazione offerta però da Charbonnier pecca, a mio avviso, su diversi punti. Il confronto geopolitico non può essere ridotto ad uno scontro tra capitalismo fossile, rappresentato dagli Stati Uniti e centro decisionale politico-statale rappresentato dalla Cina. Primo perché la forma capitalistica americana non ha più prevalentemente questo aspetto e ne sta pagando pesantemente le conseguenze in termini di coesione sociale della propria formazione sociale e di vulnerabilità geopolitica, semplicemente perché Ha trasferito all’estero, soprattutto beffardamente in Cina queste attività; né la Cina potrà facilmente sganciarsi dal sistema di predazione ed estrazione intensiva di materie prime e minerali che sostengono la sua economia, parte integrante queste ultime dei problemi ecologico-ambientali. Del resto la questione è mal posta se i contendenti da una parte risultano essere un centro politico-statuale, la Cina e dall’altro un centro di potere capitalistico, gli Stati Uniti. Questo solo perché si tende a rimuovere, si fatica a riconoscere nella Cina l’esistenza di un modo di produzione prettamente capitalistico, anche se dalle caratteristiche diverse plasmate dal regime politico, dalla particolare formazione sociale e dal passato sociopolitico dalle cui ceneri è sorto. Ma anche perché si tende troppo ad assimilare ed indentificare pedissequamente l’appartenenza e la condotta dei centri decisionali strategici politici statunitensi con il business se non addirittura con la sola finanza; questi ultimi in realtà sono solo parte dei primi e non è detto che siano il più delle volte componente determinante. Secondo perché è ancora tutta da dimostrare l’incapacità del rapporto sociale di produzione capitalistico di adattarsi agli imput ambientali, se non addirittura l’improbabilità a farne occasione di business sistematico attraverso anche lo sviluppo tecnologico. Del resto l’umanità ha vissuto altre fasi di crisi ambientale e la fase capitalistica ne ha vissute già almeno tre nella sua breve vita. Chi si ricorda della letteratura legata al famoso “fumo di Londra”? Sono temi che ci troveremo ad affrontare ed imposti nel prossimo futuro. Una dinamica che ci dice che la forma capitalistica è tutt’altro che morta, che i centri decisionali strategici si sono già posti il problema di assumere una postura positiva e creativa nel proporre ed imporre i propri punti di vista e su questi ci si dovrà confrontare in futuro. Giusto l’appello dell’autore, quindi, a superare l’atteggiamento ecumenico ed accomodante del movimento ambientalista sinistrorso. Non vedo proprio come nelle attuali condizioni possa assumere una postura alternativa e, forse nelle aspirazioni dell’autore, antisistemica; tanto più che il livello di confronto e scontro tra movimenti è diverso da quello tra stati e centri decisionali strategici. La netta impressione è che, volenti o nolenti, i primi siano al momento parte integrante ed integrata delle dinamiche tra i secondi. Non solo! Allo stato rischiano di cadere nell’infatuazione globalista funzionale alla creazione di un nuovo mondo unipolare o più realisticamente ad egemonia prevalente, magari con cambio della guardia annesso. Si tratta comunque di una dinamica di confronto da osservare con estrema attenzione; una dinamica che non a caso sta interessando oltre alla Cina, gli Stati Uniti, la Francia, la Germania e la Gran Bretagna dando ad essa un titolo ben più impegnativo: il Grande Reset_Buona lettura, Giuseppe Germinario

La svolta realistica dell’ecologia politica

Perché gli ambientalisti devono imparare a parlare la lingua della geopolitica.

Il 22 settembre, il presidente della Repubblica popolare cinese Xi Jinping ha annunciato un piano per ridurre le emissioni di gas a effetto serra mirato a raggiungere la neutralità del carbonio entro il 2060. Questo paese a volte è considerato il “camino del mondo”, il primo emettitore di CO 2 , la prima potenza industriale planetaria, sembra dunque intraprendere un percorso di sviluppo fino ad ora sconosciuto. Perché è davvero una scelta di sviluppo, e in nessun caso di rinuncia; e anche se si tratta davvero di attuare gli impegni presi nell’Accordo di Parigi del 2015, essi assumono un significato politico inaspettato nel contesto attuale.

In un testo pubblicato pochi giorni dopo, lo storico Adam Tooze ha spiegato i diversi significati geopolitici di questo annuncio, che considera un punto di svolta importante nell’ordine internazionale. Il peso economico, ecologico e strategico di questo Paese è infatti sufficiente a fare di questo annuncio – anche indipendentemente dalla sua successiva attuazione – una leva archimedea che dovrebbe provocare un profondo riallineamento delle politiche industriali e commerciali contemporanee.

In Europa, e ancor di più in Francia, questi annunci sono stati accolti con la massima cautela, anche in un certo silenzio. Solo il tempo dirà se si tratta davvero di un clima di Pearl Harbor o di un annuncio incompiuto, ma quando si parla di Cina e clima, ci buttiamo subito nelle questioni. di gigantesca grandezza, che sarebbe sbagliato ignorare. Vorrei qui cercare di andare oltre la riluttanza a vedere tutta la portata di questi annunci, per considerare come possono trasformare il rapporto tra ecologia e potere, così come è stato concepito finora nelle nostre province occidentali. .

Solo il tempo dirà se si tratta davvero di un clima di Pearl Harbor o di un annuncio incompiuto, ma quando si parla di Cina e clima, ci buttiamo subito nelle questioni. di gigantesca grandezza, che sarebbe sbagliato ignorare.

PIETRA DI CARBONE

Il primo punto che va sottolineato, e che è solo implicitamente esposto da Adam Tooze, è il monumentale paradosso storico che consiste nel portare avanti nel 2020 una dimostrazione di potere politico intraprendendo un programma di disarmo fossile. Dall’avvento delle società industriali, e ancor più dall’era post-seconda guerra mondiale, la capacità di mobilitare risorse , e ancor più risorse energetiche, è stata identificata quasi perfettamente con l’influenza sulla scena politica globale. Carbone e petrolio non sono solo i primi motori di una capacità produttiva che deve generare alti livelli di consumo e una relativa pacificazione dei rapporti di classe, ma anche le sfide delle proiezioni transfrontaliere di potenza destinate a garantire una fornitura continua a prezzi bassi. L’ordine politico derivante dalla seconda guerra mondiale, totalmente ossessionato dalla ricerca di stabilità (in assenza di vera pace) dopo l’episodio del fascismo, ha trovato nello schieramento delle forze produttive uno strumento di ineguagliabile potere che consente sia di calmare le tensioni interne nelle società industriali, sia di mantenere lo status quo tra queste nazioni e i nuovi attori derivanti dalla decolonizzazione.

È questa dinamica storica che spiega la riluttanza a seguire il percorso di una rivoluzione ecologica. Se l’imperativo climatico è stato esposto in dettaglio dalle scienze del sistema Terra, l’inerzia del paradigma evoluzionista e il suo effetto macchia sulle relazioni internazionali così come sulle relazioni di classe hanno a lungo paralizzato la biforcazione verde. Ci si chiede come si possa salvaguardare il “modello sociale”, francese o no, se ci si priva di un motore essenziale di crescita, e dall’altra parte del mondo ci si chiede come potranno essere capaci le richieste di sviluppo di accontentarsi di un pianeta che mostra i suoi limiti.

Di fronte alla stagnazione degli Stati Uniti in una crisi democratica, davanti alle ambiguità del piano europeo di ripresa ecologica, la Cina prende l’iniziativa e apre una breccia segnalando che ora è possibile, anzi necessario, perseguire una politica di potere senza il supporto di combustibili fossili.

PIETRA DI CARBONE

L’annuncio del presidente cinese rompe questa logica, ed è per questo che riveste un’importanza storica: di fronte alla stagnazione degli Stati Uniti in una crisi democratica, di fronte alle ambiguità del piano di ripresa ecologica europea, la Cina prende l’iniziativa e apre una breccia segnalando che ora è possibile, anzi necessario, perseguire una politica energetica senza il supporto dei combustibili fossili. In questo contesto ovviamente il piano per finanziare un’infrastruttura produttiva a basse emissioni di carbonio non significa che la Cina stia abbandonando il suo sogno di sviluppo e influenza geostrategica. Sta semplicemente annunciando che ora baserà il suo potere – sia il suo motore economico che la sua base strategica – su altre possibilità materiali. Questi sono ancora poco conosciuti e ovviamente lasceranno gran parte al nucleare1, ma contengono i semi di un cambiamento nelle relazioni di potere tra la Cina e il mondo.

La Cina sta così facendo un doppio colpo. Risponde prima alla scienza e immagina un futuro in cui il riscaldamento globale è limitato, e allo stesso tempo consolida la sua legittimità interna ed esterna apparendo come un attore responsabile, in linea con gli obiettivi annunciati durante l’Accordo di Parigi. . Adam Tooze, storico delle economie di guerra, ha perfettamente gettato luce sul carattere sia realistico che morale di questo annuncio: non possiamo accontentarci di un dibattito che si opponga a intenzioni egoistiche orientate al guadagno di potere e altro puro, finalizzato a un bene comune globale. Entrambe le dimensioni sono presenti nell’annuncio della Cina e dobbiamo prepararci affinché siano costantemente intrecciate l’una con l’altra negli anni a venire.

Ma ha anche senso in termini di filosofia politica, ed è senza dubbio quello che ci è mancato in Europa. Se, come ho suggerito in Abbondanza e libertà, la composizione degli interessi umani nella sfera politica è sempre sostenuta da possibilità materiali, allora dobbiamo ammettere che stiamo attraversando un cambiamento fondamentale in questi assemblaggi geo-ecologici. Mentre da tempo ci siamo posti la questione della perpetuazione di un potere politico legittimo, vale a dire di una democratizzazione del capitalismo, nel contesto di un cambiamento energetico ed ecologico percepito come necessario senza sapere esattamente come attuarlo, dobbiamo ora accettare l’idea che questi cambiamenti alimenteranno piuttosto processi di relegittimazione e consolidamento del potere. Questo rovesciamento assolutamente cruciale della materialità delle politiche moderne si sta verificando davanti ai nostri occhi: dare forma a politiche post-carbonio non è un approdo pacifico nel mondo degli interessi condivisi., ma uno spazio di rivalità organizzato attorno a nuove infrastrutture, nuovi assemblaggi tra potere politico e mobilitazione della Terra. Se l’escalation delle politiche di produttività basate sui combustibili fossili, soprattutto tra Stati Uniti e Cina, potesse essere paragonata a una guerra latente, anche il processo di disarmo e smantellamento di questa infrastruttura sarà profondamente conflittuale.

La formazione di politiche post-carbonio non è un approdo pacifico nel mondo di interessi condivisi, ma uno spazio di rivalità organizzato attorno a nuove infrastrutture, nuovi assemblaggi tra potere politico e mobilitazione della Terra.

PIERRE CHARBONNIER

Il secondo punto da sottolineare riguarda più direttamente il movimento per il clima e l’ecologia, l’universo rosso-verde o rosa-verde, così come esiste in Europa e negli Stati Uniti. Negli ultimi anni si è assistito al riavvicinamento tra l’immaginario politico della sinistra sociale classica, erede del movimento operaio, e quello dell’ecologia politica, spinto dal potere crescente dell’imperativo climatico. Se il compromesso intellettuale tra questi due mondi rimane piuttosto fragile, visto che si può discutere l’allineamento tra lo sfruttamento dell’uomo e la natura, sta prendendo forma un patto strategico attorno alla riattivazione dell’interventismo economico, in una serie di riferimenti al dopoguerra. Il Green New Deal, nelle sue versioni americana ed europea, è oggetto di significative variazioni, terreno comune delle sinistre occidentali.

Ma la forza del Green New Deal è anche la sua debolezza. Questo piano di ricostruzione economica e sociale intende superare l’ostacolo che la questione occupazionale costituiva subordinando la transizione energetica a un’esigenza di ridistribuzione, controllo dei canali di investimento e perfino garanzia di occupazione. Così definito, questo progetto corre il rischio di perpetuare le disuguaglianze strutturali tra Nord e Sud, poiché i paesi cosiddetti “in via di sviluppo” saranno probabilmente privati ​​dei mezzi per finanziare tali piani, quando i loro partner del Nord potranno reinvestire il loro capitale tecnologico e scientifico in una ristrutturazione che aumenterà il loro “vantaggio” e la loro sicurezza. Questo è un paradosso, peraltro, sottolineato di recente da Tooze,

Almeno dagli anni ’90, l’ambientalismo occidentale è stato oggetto di aspre critiche, in particolare dall’India. Ramachandra Guha, ad esempio, ha svelato le radici razziste e coloniali dell’immaginazione Wilderness ., che ha permesso ai nordamericani di lavare via la loro cattiva coscienza urbana e industriale nei parchi naturali creati dallo sgombero delle comunità indigene. Questo tumulto coloniale, che accompagna le politiche ambientali dei ricchi, continua in un modo con il paradosso del Green New Deal. Per molto tempo c’è stata una falsità tra il discorso morale e universalista dell’ecologia, anche quando è associato alla questione sociale, e la realtà più oscura delle disuguaglianze materiali strutturali che si sforza di superare e compensare. Sappiamo quindi che la superiorità morale dell’ecologia dipende da poco e che è da costruire piuttosto che da postulare, perché molto spesso si tratta di idee pacifiche forgiate in un mondo violento.

Per molto tempo c’è stata una falsità tra il discorso morale e universalista dell’ecologia, anche quando è associato alla questione sociale, e la realtà più oscura delle disuguaglianze materiali strutturali che si sforza di superare. compensare.

PIERRE CHARBONNIER

E anche qui la decisione cinese capovolge il gioco. Infatti, il piano di uscita dai combustibili fossili annunciato da Xi Jinping non si basa su un argomento morale riguardante i depredamenti ambientali causati dal regime estrattivo e industriale, né una risposta alle manifestazioni della società civile o il desiderio di inquadrare o abolire il regime di sfruttamento del capitalismo. Cerca solo di modificare la base materiale, in una prospettiva che si potrebbe dire eco-modernista, non contraddittoria con il mantenimento delle ambizioni di potere. Risulta, a causa del peso dell’economia cinese su scala globale, che questo piano deciso verticalmente avrebbe conseguenze benefiche per il clima globale, e quindi per tutta l’umanità (questo è ciò che la differenzia da un piano simile che verrebbe deciso, ad esempio, in Francia), ma è una conseguenza laterale delle decisioni prese a Pechino con cui il presidente e i cinesi possono giocare. È solo per il suo peso materiale che la Cina tiene voce a ciò che si potrebbe dire universale – più universale della superiorità morale dell’ambientalismo euro-americano. In altre parole, mentre la Cina è desiderosa di presentarsi nelle arene internazionali nel campo dei paesi “in via di sviluppo”, e quindi legittimata a rivendicare un recupero economico rispetto al Nord, è davvero in una posizione di leader mondiale quale è quando assume posture attraverso questi annunci; in realtà è una conseguenza laterale delle decisioni prese a Pechino con le quali il presidente cinese sa giocare. È solo per il suo peso materiale che la Cina tiene voce a ciò che si potrebbe dire universale, più universale della superiorità morale dell’ambientalismo euroamericano.

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In Europa siamo abituati a pensare, ed è così anche per me, che la questione ecologica stia subentrando a un movimento di emancipazione senza fiato. In altre parole, ritradurrebbe le richieste sociali di uguaglianza e libertà inserendole in un nuovo sistema di produzione e consumo che offrirebbe minori opportunità di sfruttamento economico e anomia individualista. Si tratta, insomma, di favorire l’emergere di una nuova tipologia sociale, rompendo con quella che ha accompagnato il periodo di rapida crescita, e affidandosi ad essa per riattivare un processo di democratizzazione e inclusione sociale ormai impantanato. Questo progetto può essere utilizzato per squalificare gli annunci cinesi, sostenendo che non sono all’altezza del lavoro, o che risolvono il problema con mezzi autoritari. Forse. Ma adottando questa strategia (e credo che sia la mentalità dominante in questi ambiti), rischiamo di non comprendere appieno in quali acque geopolitiche e ideologiche stiamo navigando, che lo vogliamo o no, e quindi non riescono a cogliere il significato storico del nostro progetto.

Sarebbe infatti riduttivo immaginare che il conflitto in cui siamo presi si opponga da un lato a un capitalismo sfruttatore, alienante ed estrattivo, e dall’altro a un’ecologia politica di riconciliazione tra umani e tra umani e non umani. . Questa sarebbe la conseguenza della fusione del lessico controculturale dell’ambientalismo e del lessico della critica sociale nell’universo rosso-verde: un’alternativa semplicistica tra ecologia e barbarie. Piuttosto, ora ci troviamo in una situazione in cui coesiste un capitalismo fossile che invecchia, impigliato nelle sue contraddizioni sociali e materiali, un capitalismo di stato nel processo di decarbonizzazione accelerata e, forse, un percorso più impegnativo e radicale, che sarebbe la reinvenzione del senso di progresso e del valore sociale della produzione. Se accettiamo di descrivere la situazione in questi termini, ovviamente ancora molto rudimentali, la sinistra rossoverde europea assume un altro significato. Perché non è più intrappolato in un confronto binario con il capitalismo (reputato immancabilmente fossile), un confronto all’interno del quale incarnerebbe il fronte del progresso, investito di una missione universale. Il modello cinese in fase di sviluppo costituisce un terzo termine, un terzo modello di sviluppo, entrambi compatibili con gli obiettivi climatici globali definiti nel 2015 a Parigi e quindi con l’interesse universale dell’umanità, ma un modello che è anche in tensione con l’ideale di democrazia verde difeso dal movimento socio-ecologico.

L’ecologia politica perde il proprio statuto di contro-modello unico; perde la capacità di imporsi nel dibattito come forma politica antiegemonica. Le conseguenze sono di due ordini. Perché non è più preso in un confronto binario con il capitalismo (reputato immancabilmente fossile), un confronto in cui incarnerebbe il fronte del progresso, investito di una missione universale. Il modello cinese in fase di sviluppo costituisce un terzo termine, un terzo modello di sviluppo, entrambi compatibili con gli obiettivi climatici globali definiti nel 2015 a Parigi e quindi con l’interesse universale dell’umanità, ma un modello che è anche in tensione con l’ideale di democrazia verde difeso dal movimento socio-ecologico, investito di una missione universale.

L’ecologia politica perde il suo status di contro-modello unico: perde la capacità di imporsi nei dibattiti come forma politica antiegemonica.

PIERRE CHARBONNIER

In altre parole, l’ecologia politica perde il suo status di contro-modello unico: perde la capacità di imporsi nei dibattiti come forma politica antiegemonica. E le conseguenze sono duplici. Innanzitutto, che tipo di alleanza stringerà con il modello cinese per salvaguardare almeno l’essenziale sul rigoroso livello climatico – a rischio di non avere più “mani pulite”? E simmetricamente, come farà sentire la sua specificità rispetto a questo nuovo paradigma?

Per la sinistra socio-ecologica europea la posta in gioco è sapere se gli annunci cinesi hanno in qualche modo “rubato la scena”, incarnando ormai la via centrale per uscire dalla situazione di stallo climatico, o se per gioco a tre bande più complesse e che impegna anche il rapporto di Trump con gli Stati Uniti, aprono una breccia in cui bisogna precipitarsi senza indugio. Questa rottura è semplicemente il definitivo indebolimento sulla scena economica e politica globale del capitalismo fossile, dello stile di vita americano, che risulta essere l’attore più fragile tra i tre sopra descritti, e quindi l’apertura di un dibattito più diretto tra Cina e noi. Per dirla più semplicemente: quali forme politiche sostenere contro la biforcazione ecologica? Perché se teniamo presente il carattere autoritario e verticale del percorso di decarbonizzazione cinese, dunque che il suo focus per il momento esclusivamente sulla dimensione climatica dei temi a scapito delle altre dimensioni dell’imperativo ecologico globale (biodiversità, salute, inquinamento dell’acqua e del suolo), resta aperto un ampio spazio politico. L’integrazione delle rivendicazioni democratiche nella biforcazione ecologica e la volontà di imporre una frenata d’emergenza sull’illimitatezza economica possono essere i due supporti di un’escalation che lungi dall’essere moralizzante, sarà pienamente politica.

L’ecologia europea deve fare la sua svolta realistica. Deve abbandonare l’abitudine dannosa di esprimersi in termini consensuali e pacificatori, per accettare di giocare su una scena politica complessa.

PIERRE CHARBONNIER

L’ecologia europea deve quindi fare la sua svolta realistica. Ciò non significa che debba entrare in un dibattito aggressivo e marziale con altri attori geopolitici, ma che debba abbandonare l’abitudine dannosa di esprimersi in termini consensuali e pacificatori, per accettare di giocare su un scena politica complessa.

Dopo tutto, questa dimensione è sempre esistita nella storia della questione sociale. Anche se queste sono cose che non sempre ci piace ricordare, la costruzione di sistemi di protezione è iniziata in Prussia – e in un certo senso Xi Jinping è una sorta di Bismarck dell’ecologia: non non era così ansioso di ascoltare e sostenere le richieste di giustizia ambientale per metterle a tacere. Dopo la guerra, i progressi del diritto sociale in Europa sono incomprensibili se non parte del gioco geopolitico che combina lo spettro del fascismo, la guerra da estinguere, la possibilità bolscevica e l’influenza americana. Come disse un rappresentante laburista britannico nel 1952, il servizio sanitario nazionale è un sottoprodotto del Blitz2. Insomma, l’emancipazione non si conquista sempre, e nemmeno principalmente, con espressioni di generosità morale: è anche questione di potere. La figura di Lenin sembra in questi anni essere oggetto di un ritorno nel pensiero critico, forse proprio perché l’ecologia non ha ancora trovato il suo Lenin.

In un certo senso Xi Jinping è un po ‘il Bismarck dell’ecologia: non desiderava tanto ascoltare le richieste di giustizia ambientale, perché le mettesse a tacere.

PIERRE CHARBONNIER

L’ecologia può quindi accettare abbastanza di parlare di strategia, conflitto, sicurezza, può presentarsi come una dinamica di costruzione di una forma politica che assume l’idea di potere, senza ricadere sulle sue esigenze democratiche e sociali e senza perdere di vista il suo ideale di limitazione della sfera economica – al di là dello stretto problema delle emissioni di gas serra. Al contrario: è probabile che queste richieste vengano realizzate solo se investite in riflessioni e pratiche specificamente politiche. Ma affinché ciò sia possibile, dobbiamo lasciarci alle spalle la tendenza a invocare valori più elevati, perché non abbiamo il monopolio sulla critica del paradigma dello sviluppo fossile, né abbiamo la massa economica critica che ci consente di affermarci come attori di portata universale. Si sta formando una nuova arena in cui non abbiamo altra scelta che entrare.

grazie Boris, di Giuseppe Masala

Accordo sulla Brexit fatto. Ora bisogna certamente lasciare il tempo di far leggere agli esperti le oltre 2000 pagine ma qualche considerazione preliminare può essere fatta sulla base di quanto letto sul Financial Times che è certamente un quotidiano britannico, ma altrettanto certamente era schierato con gli eurofili britannici.
Il punto dirimente per come la vedo io è che Londra ottiene una corte apposita che arbitri le controversie che si verificheranno in futuro. La Corte di Giustizia europea è tagliata fuori. Dunque la Gran Bretagna esce nettamente dal giogo europeo.
L’Europa si accontenta dell’uovo oggi lasciando perdere la gallina domani: niente dazi e contingentamento di merci, dunque non perde il ricco mercato britannico.
Dunque, uno a uno? Direi di no, la Eu ha accettato questo compromesso perchè nelle more del disastro economico in corso la perdita del mercato britannico sarebbe stato un danno devastante, in alcuni stati in particolare; Francia che ha uno dei suoi pochi segni positivi sulla bilancia commerciale proprio con la Gran Bretagna, Irlanda, che se perdesse il mercato inglese o muore di fame o osce dalla Ue, ma anche Italia e ovviamente Germania hanno molto da perdere, la Germania certo poteva resistere il colpo, ma all’Italia mancava solo questo per completare un disastro a livelli che è impossible anche immaginare la profondità. Bruxelles tutto sommato limita i danni immediati. Ma perde la speranza di tenere Londra come una sorta di protettorato a sovranità limitata.
In compenso i danni a lungo termine per la UE sono devastanti. Perde il primo esercito, la prima diplomazia, il primo mercato finanziario, la seconda economia della UE. Lascia inoltre a Londra la possibilità di maramaldeggiare diplomaticamente. E soprattutto è indicata la strada per l’uscita agli scontenti. Ora tutti sanno che si può e che la UE non è così forte da poter infliggere danni irreparabili né diplomatici, né economici. Grazie Boris!

piani a confronto…da recovery, di Giuseppe Germinario

I Next Generation EU (recovery fund), in via di presentazione ed elaborazione da parte dei vari paesi aderenti alla UE, sono una straordinaria occasione per tentare di comprendere il punto di vista delle diverse classi dirigenti europee, riguardo al tipo di rappresentazione della crisi in corso, alle scelte strategiche per affrontare i mutamenti ed i riposizionamenti, alla consapevolezza dell’adeguatezza degli strumenti operativi necessari e disponibili rispetto agli obbiettivi.

Una occasione straordinaria, appunto, ma a condizione di non cadere nella trappola della fiera delle mirabilie nella quale ci stanno trascinando quelle classi dirigenti e quei ceti politici nazionali europei, in prima fila pateticamente gli italiani, i quali stanno puntando tutto ed univocamente su un intervento europeo dal carattere salvifico.

L’entità reale delle cifre non è ancora affatto scontata. La loro ripartizione tra indebitamento e sussidio ai beneficiari è ancora tutta da consolidare. Lo stesso vale per la effettiva composizione del carnet secondo la ripartizione dei fondi accumulati derivanti dall’inedita imposizione diretta degli organismi amministrativi comunitari, dall’emissione di titoli di indebitamento comuni e dalla contribuzione diretta degli stati nazionali. Per non parlare di una tempistica e di una diluizione degli interventi agli antipodi di un efficace intervento anticiclico. La consueta piega che sta prendendo l’istruzione della pratica NGEU, destinato a seguire pedissequamente il canovaccio delle collaudate procedure decisionali comunitarie, lascia presagire l’introduzione di condizionalità variabili in corso d’opera in funzione del grado di dipendenza da NGEU degli interventi nazionali. Se infatti per l’Italia il peso relativo di NGEU, unito ad altri importi residuali, si avvicina nella spesa di investimento pericolosamente al 100% dell’intervento complessivo, per la Germania ad esempio non arriva, secondo stime attendibili, nemmeno al 30%. Gli stessi fondi NGEU tra l’altro potranno assorbire e sostituire investimenti già in corso. Tutte dinamiche ed inerzie in grado di acuire come si vedrà il divario tra ambizioni dichiarate e risultati effettivi; per meglio dire in grado di mettere a nudo i reali obbiettivi strategici di fondo.

Paradossalmente tutte incognite, inerzie, logiche che fungono da ulteriore cartina di tornasole nel valutare la qualità dei ceti politici e delle classi dirigenti italici ed europei.

I piani esaminati sono quelli tedesco, francese ed italiano. Al momento quello tedesco è il più scarno ed essenziale negli indirizzi, anche se il giudizio è fondato sulla lettura di una mera sintesi della quale si offre uno schema predisposto da un collaboratore del sito:

IL PIANO TEDESCO

130 Miliardi totale

  1. 80 Miliardi nel breve termine, 50 miliardi investimenti a medio-lungo termine

  2. 35 miliardi sono dedicati alla voce greem automotive, H2

  3. riduzione IVA del 3% per sostenere il potere d’acquisto

  4. riduzione del costo dell’energia elettrica alle famiglie PMI

  5. introduzione della tassa sulla CO2

  6. niente bonus alle auto con motori a combustione interna

  7. sviluppo delle stazioni stradali di e.e. e filiera delle batterie per auto

  8. aumento di capitale delle ferrovie statali

  9. pochi soldi sul risparmio energetico negli edifici

  10. pochi soldi, quasi nulla per le politiche attive del lavoro

In breve importi non disdicevoli, ma largamente sottodimensionati rispetto alle potenzialità dell’economia tedesca; investimenti diretti indirizzati prevalentemente nel settore dei trasporti ferroviari e soprattutto delle infrastrutture stradali e industriali legate alla trazione elettrica, in un paese che a dispetto degli attivi commerciali stratosferici, ha lasciato languire malinconicamente il livello di efficienza delle infrastrutture. Per il resto si cade nella più tradizionale e generica politica di sostegno della domanda attraverso riduzioni fiscali e di tributi, tassazione mirata sulle emissioni ed incentivi agli acquisti e alla ricerca nel più tradizionale e più importante dei settori, dal punto di vista delle dimensioni economiche e delle implicazioni sociali, quello automobilistico. Si direbbe un classico esempio di perfetta ed anonima efficienza tedesca. E tuttavia il piano, preso a se stante, assume dimensioni ingannevoli in due sensi. Le dimensioni dell’intervento diretto del Governo Centrale tedesco e dei suoi laender vanno ben oltre quelle legate all’intervento europeo e soprattutto sfuggono in gran parte ai criteri di controllo ed applicazione europei. Il sistema neocorporativo che lega i destini e le strategie dello Stato, in particolare dei laender, dell’industria manifatturiera, del sistema bancario-finanziario e delle associazioni garantisce un indirizzo e pilotaggio delle risorse massiccio e capillare. Tutto bene quando si tratta di proseguire nello statu quo, sia pure dorato, attraverso il controllo sempre più stretto e ferreo delle catene di valore e di produzione, degli stessi standard di esecuzione resi possibili dai processi di digitalizzazione di secondo e terzo livello e da una intermediazione bancaria e finanziaria resa sempre più accessibile a tutto il settore grazie soprattutto alle garanzie offerte dalle aziende capofila del prodotto finale e alle coperture politiche-economiche ad esse garantite.

Una prospettiva, nelle more, che lascia entusiasti i giornalisti e scribacchini benpensanti del Corriere della Sera, i quali al pari della quasi totalità del ceto politico e della classe dirigente nazionali ritengono del tutto irrilevante ed ininfluente il livello di autonomia decisionale e di controllo gestionale delle aziende rispetto alla sovranità e alla coltivazione degli interessi nazionali. Irrilevante ed ininfluente, tranne che nella forma puerile e cialtrona di una tifoseria calcistica alla quale spesso ci hanno abituato ed indotti le classi dirigenti sorte dall’Unità Nazionale.

L’altro senso rappresenta il vero lato oscuro di un paese, la Germania che non ostante e proprio grazie alla sua potenza economica rischia di essere sempre più la zavorra in grado di annichilire le volontà e le velleità di indipendenza politica di un continente. Una conformazione e una dinamica di esercizio di potere interni in una collocazione geopolitica e geoeconomica che inibisce ogni seria ambizione di sviluppo nei settori strategici del controllo e gestione del digitale di primo livello, dell’aerospaziale, delle biotecnologie. Il poco che si riesce o si tenterebbe di fare (il progetto Gaya nel digitale, il progetto Galileo nel controllo dei posizionamenti, il Consorzio Airbus nell’aereonautica) nasce monco soprattutto nella sua parte militare, nasce spesso con ritardi incolmabili, sono frutto di fatto della esclusiva gestione cooperativa e conflittuale franco-tedesca, sono oggetto di mercimonio con la potenza egemone occidentale. In realtà la potenza tedesca continua ad essere un tramite di controllo geopolitico e di drenaggio di risorse, specie finanziarie, costretta a pagare pesantemente i propri radi sussulti di potenza di seconda se non di terza categoria. Lo si vedrà con la strisciante e possibilmente controllata distruzione di capitale legata alla crisi di Deutsch Bank e Commerzbank; lo si è visto nella trappola in cui è caduta il colosso della Bayer con l’acquisizione della americana Monsanto sino alla batosta nel settore automobilistico. Una propensione che si conferma e si accompagna ad un atteggiamento ottuso sul problema ambientale che accompagna il processo di decarbonizzazione a quello di denuclearizzazione. Una trappola ben conosciuta nell’Italia degli anni ‘80/’90, ma che evidentemente riesce a trovare nuovi emuli.

GLI ALTRI DUE PIANI IN PARALLELO

Si passa, quindi e ci si dilunga sui due piani esaminati dettagliatamente francese e italiano, senza entrare però troppo in particolari tecnici del tutto ridondanti rispetto alle finalità dello scritto.

Tutti i piani devono seguire obbligatoriamente due parametri stabiliti dalla Commissione Europea (CE) secondo un piano decennale di sviluppo; l’utilizzo di almeno un terzo delle risorse per la riconversione verde dell’economia e un’altra quota significativa nell’investimento massiccio nella digitalizzazione dei consumi, dei servizi e dei processi produttivi. Indirizzi i quali a loro volta rientrano pienamente nel filone del Grande Reset, inaugurato tre anni fa a Davos e ripreso in pompa magna in queste settimane anche in risposta all’emergere dei cosiddetti movimenti “nazionalisti e populisti”.

LA GREEN ECONOMY

L’investimento nell’economia verde è legata all’ideologia del catastrofismo ambientale che induce al contrasto ai cambiamenti climatici determinati dall’antropomorfizzazione del pianeta.

Una enfasi che comporta tre implicazioni importanti di natura regressiva e velleitaria:

  • i cambiamenti climatici, in realtà determinati nella più gran parte da forze ed elementi superiori alle attuali possibilità di controllo dell’uomo, vanno contrastati piuttosto che di essi bisogna prendere atto per adeguare l’intervento umano sul territorio

  • il problema del cambiamento climatico, spesso e volentieri ridotto ad un problema di riscaldamento e quello dell’inquinamento, spesso e volentieri semplicisticamente e meccanicamente connesso al primo, sono visti come un problema generalista ed universale, piuttosto che come una serie di problemi locali, per quanto sempre più estesi, da affrontare pragmaticamente secondo le condizioni regionali

  • le massicce dosi durgenza e di allarmismo iniettate nell’opinione pubblica impediscono di vedere l’impegno di riconversione delle attività come un lungo processo di transizione dai risultati spesso sperimentali e tutt’altro che certi e definitivi. Le conseguenze cominciano a manifestarsi nella loro gravità e contraddittorietà: il problema ancora insoluto dell’intermittenza della produzione di energia elettrica verde ha generato in California, terra di elezione dell’ambientalismo radicale, estesi e prolungati black out; la soppressione improvvisa e senza alternative dell’utilizzo di alcuni fitofarmaci nella produzione di soia e cereali in Francia ha generato in pochi anni un crollo della produzione di quei prodotti, una diffusione delle malattie in quelle specie e la perdita repentina della sovranità alimentare.

Anche l’approccio più dogmatico deve però in qualche maniera fare i conti con la dura realtà. Tutti e tre i documenti tentano questo bagno di realismo introducendo il concetto di “economia circolare” inteso nel migliore dei casi ancora poco rigorosamente come sistema di recupero e riutilizzo di rifiuti, scarti e prodotti usurati e/o alternativamente come creazioni di economie territoriali tendenzialmente più autosufficienti; nel peggiore dei casi come una scatola vuota dal carattere apertamente reazionario.

Questa l’impostazione di fondo comune che accomuna i due piani, cementata dalla prospettiva di creazione di una tecnologia dei carburanti, l’idrogeno, più promettente e tecnologicamente e industrialmente praticabile nel giro di un paio di decenni.

Una impostazione comune che nasconde una serietà di approccio, una intenzione, se non una capacità operativa e di programmazione del tutto divergente.

In Francia nel piano è evidente il tentativo almeno dichiarato di recupero di territori depressi e periferici attraverso la creazione di una nuova rete di trasporto pubblico, il risanamento e la valorizzazione di territori attraverso la manutenzione resa accessibile e sensata nei costi dal ripopolamento e dalla costruzione di economie pluricolturali fondate su turismo, agricoltura di nicchia, artigianato e piccola industria. In esse, la tecnologia dell’idrogeno assume dichiaratamente un ruolo fondamentale nella costruzione di una rete di trasporti meno inquinanti.

Il piano italiano utilizza gli stessi termini di green economy e di economia circolare per coprire l’estemporaneità degli interventi dagli effetti di qualche utilità nella funzione di moltiplicatore keynesiano immediato, ma del tutto controproducente dal punto di vista della coesione della formazione sociale e delle possibilità di sviluppo serio e duraturo del paese.

Il potenziamento della rete fisica di comunicazione si riduce sostanzialmente alla conferma di tre reti di alta velocità, due delle quali al sud e con esclusione integrale della Sardegna, in un contesto in cui scompare totalmente un ruolo europeo e nazionale dei quattro porti principali del Meridione d’Italia e non si accenna minimamente ad una proiezione del paese e di questi verso le economie del Mediterraneo. È assodato, ma non evidentemente per i nostri, che le reti di comunicazione possono rivelarsi fattori di sviluppo ma anche di regresso e polarizzazione economica se non accompagnate da altre politiche. Grecia docet.

La ricostruzione dei territori degradati e abbandonati si risolve in una serie di manutenzioni e ricostruzione di opere destinate a degradarsi nuovamente in tempi rapidi se non accompagnati da un ripopolamento ed una valorizzazione diversificata di quei territori. Eppure in Italia, anche se pochi, esempi riusciti di salvaguardia e valorizzazione da cui attingere esistono, in particolare in Trentino, in Alto Adige, ma anche in Toscana e in Piemonte. Tutto in realtà sembra risolversi nel potere magico di parole come turismo, cultura, agricoltura quasi che da sole e singolarmente riescano ad assumere una funzione salvifica a prescindere tra l’altro dalla capacità stessa delle realtà economiche nazionali e territoriali di quei settori, in verità sempre più deficitaria di incentivare, attirare e controllare con politiche proprie i flussi.

Un approccio del tutto acritico pervade anche i propositi di ulteriore sviluppo degli impianti di produzione di energia verde, in gran parte intermittente. Nessuna riflessione sulla tempistica e sul sistema dissennato di incentivazione al consumo che ha impedito e nemmeno considerato nei tempi d’oro di inizio millennio l’eventualità di creazione di una industria nazionale dei pannelli e di sistemi di produzione diversificati e di un artigianato locale preparato professionalmente, venuto fuori quest’ultimo a fatica solo a tempi di esecuzione inoltrati dei programmi. Il segno di uno scollamento dalle realtà economiche ed imprenditoriali e di una strutturale incapacità politica di assumere nelle decisioni tutti gli aspetti dei cicli operativi. L’idrogeno è diventata la nuova terra promessa già bella e impacchettata per tutte le occasioni: per le auto, per i treni e le navi, ma anche per salvare e riconvertire la produzione di acciaio dell’Ilva di Taranto. La parola che di per sé si materializza in fatto concreto e tangibile. La tecnologia è in effetti promettente, ma ancora in gran parte da realizzare e da rendere industrialmente praticabile. Soffre soprattutto di un handicap pesante, la conferma che non esistono tecnologie e interventi umani che non abbiano comunque un costo ambientale: i pesanti fabbisogni e costi energetici elettrici necessari a garantire attraverso l’elettrolisi la produzione di batterie ad idrogeno. Fabbisogni dai costi praticabili solo con la presenza di centrali nucleari.

Quali sono i paesi in grado di garantire questi costi e quantità praticabili? La Francia e, in caso di improbabile rinsavimento, la Germania.

Quale è il paese che ha ceduto totalmente il controllo delle tecnologie delle batterie, in pratica del tanto sbandierato e agognato futuro verde dell’economia, quanto meno dei trasporti? L’Italia, ovvero la nostra lungimirante classe dirigente e il nostro preveggente ceto politico, abbagliati dal loro stesso eurolirismo ed ecolirismo e così sempiternamente ossequioso verso una famiglia ormai di predoni, colti ormai con le dita nella marmellata in episodi sempre più meschini, più che imprenditoriale alla quale non si è eccepito nulla riguardo la vendita della Magneti Marelli e di gran parte del patrimonio tecnologico costruito e finanziato pubblicamente in settant’anni. Una condizione ormai ricorrente di un paese disposto a sobbarcarsi entro certi limiti i costi e le incertezze della ricerca ma alla quale manca sempre più di offrire le piattaforme industriali necessarie alla valorizzazione economica e alla tutela delle proprie competenze. Una posizione che le impedisce di entrare a pieno titolo nei processi decisionali e di creazione di nuove realtà industriali e imprenditoriali almeno di livello europeo. Processi per nulla spontanei e per niente determinati da astratti principi di mercato.

Una condizione che risalta ancora più drammaticamente nelle parti dei due documenti che trattano di digitalizzazione, ricerca, applicazioni industriali.

SCIENZA, RICERCA, DIGITALIZZAZIONE, PIATTAFORME INDUSTRIALI

Il documento francese sull’argomento offre tre linee guida e un principio chiari:

  • la concentrazione e il coordinamento dell’attività di ricerca in sei grandi poli già in fase avanzata di sviluppo

  • il recupero della tradizione di un paese di ingegneri, matematici e tecnici di alto livello costruita nei tempi d’oro del gaullismo e smarrita drammaticamente negli ultimi due decenni

  • la creazione di sinergie che consentano la traduzione delle attività di ricerca in applicazioni, sperimentazione e in piattaforme industriali. Sinergie da mettere in pratica con la interazione e la collaborazione a vari livelli tra centri di ricerca, agenzie ibride militari-civili, sistema finanziario, pubblica amministrazione e complessi industriali che guidino le varie fasi ed in particolare quella delle applicazioni industriali attraverso la creazione di start-up e della resa economica attraverso l’offerta di piattaforme industriali adatte a garantire la resa economica su larga scala

  • il recupero della sovranità nel settore agroalimentare, della produzione di quello sanitario e dei settori strategici ad alta tecnologia laddove il controllo nazionale delle imprese e delle loro strategie assume un aspetto cruciale

Il documento italiano rappresenta l’apoteosi dell’estemporaneità e della schizofrenia, in pratica un collage di auspici e denunce sterili:

  • nessun accenno alla organizzazione e riorganizzazione dei pochi centri di ricerca e delle università come pure nessuna indicazione concreta sul punto cruciale della trasformazione della ricerca in applicazioni industriali sperimentali attraverso la promozione di start-up e soprattutto della creazione, con l’impegno diretto delle imprese di piattaforme industriali in grado di garantire la resa economica su larga scala dei risultati della ricerca. Il documento, denunciando la scarsità di investimenti, affronta il problema con delle tautologie pure e semplici: segnala la scarsa attrazione esercitata sui ricercatori e propone un incremento delle retribuzioni e dei corrispettivi economici senza alcun accenno alla carenza di attrezzature e materiali e soprattutto alla riorganizzazione dei centri di ricerca; segnala la crescente carenza, rispetto alla media europea e ancora più impietosa rispetto ai diversi paesi emergenti ed emersi, di personale tecnico-scientifico altamente qualificato, stigmatizza che il sistema economico italiano non è in grado di assorbire in buona parte quello stesso personale e alla fine si limita ad auspicare una maggiore qualificazione e corrispondenza alle esigenze delle università e delle scuole superiori. Un approccio classico del progressismo democratico che riesce a garantire sì spesso processi di emancipazione individuale, ma che riesce a far diventare le già scarse risorse destinate alla formazione e alla ricerca dei meri costi per la società di fatto sempre meno sostenibili e di fatto giustificabili

  • se si vuole, ancora più enfasi viene dedicata ai processi di digitalizzazione. Qui l’approfondimento va suddiviso in due parti. Il documento registra a ragione una grande difficoltà nell’implementazione dei processi di digitalizzazione nelle attività produttive, in particolare quelle industriali. Una remora già ampiamente segnalata dall’ex-ministro Calenda, fautore del programma “industria 4.0”. Attribuisce alla insufficiente dimensione e alla scarsa preparazione manageriale delle imprese la scarsa capacità di assimilazione delle nuove tecnologie. Ma anche in questo caso lo sforzo di elaborazione e propositivo si ferma qui o poco oltre. Glissa vergognosamente sulla vera e propria abdicazione della grandissima parte delle famiglie imprenditoriali medio-grandi italiane. In una condizione di pur oggettiva maggiore difficoltà di esercizio delle attività rispetto agli altri paesi e in una situazione nella quale la gestione scellerata delle privatizzazioni e dismissioni ha incentivato le più importanti di esse (Benetton, Agnelli, Pirelli, ………..) a trasformarsi in percettori di rendite da concessioni o in cavalieri di ventura per conto terzi, per lo più stranieri, si assiste ad un vero e proprio esodo biblico, per altro lucroso e ben ricompensato, dalle attività prettamente imprenditoriali a favore di soggetti esteri senza che nessun componente della classe dirigente e del ceto politico abbia e continui ad avere nulla da obbiettare e a maggior ragione senza che gli stessi fossero disposti ad utilizzare gli strumenti legislativi, normativi e finanziari, per altro in buona parte disponibili, tesi a compartecipare e condizionare le scelte delle imprese impegnate in questa fase di transizione. La conferma dei limiti e della grettezza di un ceto, sempre latente a partire dall’unità d’Italia e pronta ad emergere alla luce del sole nei momenti critici come negli anni ‘30, negli anni ‘50/’60, negli anni ‘90 e in maniera ormai endemica in questo ventennio. A questa generale abdicazione e complicità non corrisponde nessun tentativo adeguato di prendere atto della situazione, di conoscerne i meccanismi allo scopo di implementare al meglio i processi di digitalizzazione. La rete di aziende medie e piccole assume certamente queste caratteristiche, buone a garantire flessibilità ma poco adatte a sostenere i costi e le competenze necessari alla digitalizzazione e alla automazione, tanto più che buona parte delle competenze professionali e delle capacità innovative sono legate alla creatività e al patrimonio professionale personale degli operai e tecnici in buona parte fuori dal controllo e dalla standardizzazione manageriale. È altrettanto vero, però, che queste imprese per operare ed aggiornarsi devono disporre di una rete esterna di professionisti ineguagliata nella qualità e soprattutto nella quantità rispetto agli altri paesi europei. Questa rete, in qualche maniera organizzata, probabilmente potrebbe essere uno dei veicoli trainanti di promozione e gestione dei processi. Lo stesso dicasi per lo strumento dei distretti aziendali e per la funzione delle aziende capofila, non a caso nel mirino delle acquisizioni estere, altrimenti poco spiegabili dal punto di vista della redditività delle operazioni. Quanto più però la rete imprenditoriale è frammentata, tanto più occorre una gestione ed un indirizzo politico e strategico saldo e pervasivo, in pratica l’esistenza di un ceto politico e di una classe dirigente ancora più determinata e lungimirante. Una determinazione ed una lungimiranza ancora più incisiva quando deve necessariamente essere applicata all’estero sia nelle sedi istituzionali europee e nei rapporti bilaterali che decidono delle norme di regolazione, dei progetti di collaborazione nei settori, dei programmi ci compenetrazione e compartecipazione delle aziende sia in egual misura nei meandri amministrativi della UE, dove la fa da padrona l’attività lobbistica di imprese e gruppi di pressione, senza nemmeno la relativa trasparenza garantita dalla legislazione americana. Qualità e intraprendenza politiche tanto più necessarie quanto devono sopperire allo scarso peso lobbistico delle aziende e dei gruppi di pressioni italiani.

  • Le occasioni e gli esempi in corso vanno ancora una volta in controtendenza rispetto alle necessità e alle opportunità e a conferma di un ceto politico e dirigente italico passivo e in perenne attesa, complice. I processi di digitalizzazione della determinazione e regolazione dei flussi nella rete dei trasposti nazionale ed europea avrebbero potuto diventare l’occasione per mettere lo zampino o almeno l’occhio nella gestione dei flussi commerciali a cominciare dai fulcri dei porti di Amburgo, Anversa e Rotterdam, forti della posizione geografica dell’Italia e delle potenzialità dei porti di Trieste, Genova e Taranto. Ancora una volta i nostri non trovano di meglio che cedere, in cambio della digitalizzazione e della capacità gestionale, in condominio e probabilmente di fatto spesso in esclusiva la creazione e gestione digitale dei flussi. È già accaduto a Taranto con i turco-cinesi, pur nella incertezza delle dinamiche geopolitiche, sta accadendo a Trieste e a Genova. Ancora più sconcertante e deprimente l’esclusione e di fatto la rinuncia alla partecipazione ai progetti franco-tedeschi nell’aerospaziale e nel progetto Gaya di controllo, elaborazione e gestione di primo livello dei dati e comandi digitali in grado di mettere al sicuro il sistema di controllo e comando di industria 4.0. Progetti ancora allo stato intenzionale, dall’esito incerto e alquanto improbabile perché destinato a scontrarsi con gli interessi geopolitici strategici degli Stati Uniti e a subire l’indifferenza della potenza emergente cinese. In questo ambito l’Italia è stata semplicemente ignorata, pur potendo contribuire in maniera significativa con il proprio patrimonio di competenze. L’intenzione dei nostri è quella di subentrare a giochi fatti ma solo con l’apporto dei sistemi di sicurezza e gestione dei dati costruito nel processo di digitalizzazione della Pubblica Amministrazione (PA). Un proposito allo stesso tempo riduttivo e a ben pensare inquietante

  • e infatti l’unico obbiettivo realistico e a portata di mano, realmente impegnativo nell’ambito della digitalizzazione è proclamato a chiare lettere nella PA. Anche qui, però, il progetto soffre di una rigida impostazione deterministica. Il presupposto di questo programma è che l’informatizzazione, l’integrazione e la digitalizzazione dei servizi presuppongano meccanicamente un unico modello organizzativo. Chi conosce anche genericamente questi processi sa benissimo che non è così e che la determinazione di un modello organizzativo, quello più adatto ai sistemi digitali e più compatibile con un funzionamento ordinato delle istituzioni e delle amministrazioni. Un approccio fideistico non farà che creare conflitti, sovrapposizioni e intoppi che porteranno a conflitti di sistema, ridondanze e aggiornamenti tali da prolungare indefinitamente la fase di transizione. Una dinamica già conosciuta nella riorganizzazione di specifici settori come quelli delle Poste e destinata ad espandersi esponenzialmente in un progetto ben più complesso e articolato

LA RIFORMA DELLA GIUSTIZIA E IL DISORDINE ISTITUZIONALE E AMMINISTRATIVO

Un tema a parte ed originale riguarda la riforma e la riorganizzazione della gestione della giustizia italiana. Un capitolo dai contenuti accettabili sempre che il Governo presente e futuro abbia la forza di mettere mano alle modalità di funzionamento dell’ordinamento giudiziario e saper gestire le dinamiche ormai perverse e destabilizzanti dei gruppi di potere interno ad esso.

Rimane completamente rimosso il problema del disordine istituzionale e della pletora dei modelli organizzativi di gestione delle pubbliche amministrazione alimentati in particolare dal processo di regionalizzazione avviato al finire degli anni ‘90. Un problema la cui soluzione è in realtà propedeutica ad ogni altro provvedimento di riorganizzazione delle strutture statali e il cui procrastinarsi lascia spazio al lento processo di liquefazione delle strutture statali e alla invasività dell’Unione Europea nella sua continua ricerca di rapporto diretto con le strutture periferiche e decentrate, in particolare le regioni e i comuni, dello Stato Italiano. Una invasività strisciante nei vari paesi dell’Unione, che trova notevoli resistenze e paletti in alcuni Stati politicamente centrali e in quelli dell’Europa centro-orientale e autostrade aperte nell’area mediterranea, specie in Italia e Grecia

CONCLUSIONI

A questo punto della comparazione, il confronto potrebbe apparire assolutamente impietoso rispetto ad una classe dirigente e un ceto politico italici talmente remissivi ed approssimativi, perennemente in attesa di indicazioni esterne, concentrati ad assecondare un processo di trasferimento all’estero e di recupero per conto terzi di risorse politiche, di controllo ed economiche, a cominciare dal risparmio nazionale. È artefice e vittima di dinamiche ed inerzie che probabilmente faranno scivolare il programma NGEU italiano nella routine delle spese e degli investimenti ordinari, dalla resa immediata, dalla efficacia tuttalpiù immediata ed effimera dei moltiplicatori keynesiani, sempre che siano ormai in grado di individuarli vista la gestione disastrosa degli incentivi energetici e della pletora di bonus fiorita nell’emergenza pandemica. Non è un caso che questa classe dirigente individui nell’edilizia il moltiplicatore di sviluppo e di benessere. Con questa lungimiranza non farà che adattare surrettiziamente i programmi di investimento alle capacità tecnico-amministratice e agli interessi delle amministrazioni e dei centri di potere e di spesa residui sopravvissuti nel paese, in particolare i comuni e le regioni.

In realtà la situazione non presenta, purtroppo, nemmeno aspetti così marcati e distinti rispetto ai due paesi europei sotto esame ed in particolare la Francia.

Che dire di un ceto politico impersonato dalle ultime tre presidenze francesi ed in particolare da Macron che da ministro dell’economia ha consentito la cessione all’americana GE dell’intero settore strategico delle turbine, intimamente legato alla difesa e al settore nucleare salvo vedersi vaporizzare da Presidente a pochi anni di distanza il relativo intero centro di ricerche da 900 dipendenti nei pressi di Parigi; che dire della sua reazione a tempo quasi scaduto al mercimonio intentato dai tedeschi ai danni del consorzio Airbus e a favore della Boeing in cambio probabilmente della trappola ai propri danni dell’acquisizione di Monsanto da parte di Bayer; che dire del suo accorato sostegno alle tesi del catastrofismo ambientale alla Greta Tunberg a principale giustificazione del programma di espansione dell’economia circolare, in un contesto geoeconomico, in particolare quello architettato dalla Germania e dalla UE, sostenuto pesantemente dagli Stati Uniti, nell’ambito delle importazioni di prodotti agricoli dal Maghreb, dall’America Latina e dall’Asia, in grado di renderlo velleitario pur con ben altre e più fondate motivazioni e proprio quando l’onda verde delle recenti elezioni municipali ha già messo a nudo il dogmatismo e la dabbenaggine di questo nuovo ceto politico emergente. Che dire di tutte queste posizioni e della schizofrenia connessa ai proclami di recupero di sovranità e ai propositi più o meno dichiarati e sottintesi nel documento francese?

Non si tratta della schizofrenia di un ceto politico prevalente, in Francia, in realtà molto più affine culturalmente e politicamente a quello assolutamente predominante in Italia e pervasivo anche in Germania.

È il contesto politico interno al paese che fa la differenza: è la drammatica situazione delle énclaves identitarie e comunitariste ormai quasi completamente fuori controllo nel paese; è la presenza di movimenti ostinati come quelli dei gilet gialli e degli epigoni prossimi venturi; è la presenza di una tradizione politica, amministrativa e di potere gaullista residua ma culturalmente ancora ben preparata ed ancora ben allignata nei centri decisionali a costringere a questa schizofrenia. Non è un caso che a parziale supporto e a sostegno su impostazioni più radicali del documento siano emerse due ben ponderose monografie di settimanali, in particolare del settimanale Marianne.

È una situazione ancora fluida ma che in assenza dell’emergere un terzo solido interlocutore europeo, l’Italia capace non dico di imporsi ma di trattare seriamente e con pari dignità lascia presagire il ritorno effimero ed illusorio allo statu quo, specie con l’affermazione di Biden, ma con il sacrificio definitivo di un paese, l’Italia dalla classe dirigente e dal ceto politico incapace di strategia, di volontà propria e di forza contrattuale oggettivamente disponibile in un contesto così mobile. Una remissività che probabilmente più che procrastrinare una tregua incerta interna al continente, non farà che accentuarne contemporaneamente il carattere ostile e conflittuale interno tra gli stati e la remissività e la subordinazione geopolitica al gigante americano, pur con le pesanti riserve legate alla instabilità di quella formazione politica.

Dieci anni fa Xi Jin Ping proclamo che avrebbe trasformato la Cina da opificio in laboratorio; pare ci stia riuscendo. La nostra classe dirigente e soprattutto il nostro miserabile ceto politico paiono impegnati, nel migliore dei casi, nel garantire il percorso opposto.

La posta in palio per il nostro paese è enorme: ha già perso progressivamente autorevolezza e forza politica in Europa e nel Mediterraneo; rischia di essere definitivamente spolpato del proprio risparmio nazionale e della propria capacità produttiva, in particolare quella più interconnessa e in posizione subordinata a quella francese e soprattutto tedesca a favore della collusione franco-tedesca proprio perché i propri amici-coltelli transalpini e teutonici potrebbero trovare più comodo ripiegare sul nutrimento garantito da un corpo amorfo disponibile ad accettare qualsiasi cosa piuttosto che puntare contro una bestia troppo grossa e per di più distante un oceano ma ben presente e attenta a preservare il dominio sulle lande europee.

https://www.economie.gouv.fr/files/files/directions_services/plan-de-relance/annexe-fiche-mesures.pdf

https://www.corriere.it/economia/tasse/20_dicembre_07/pnrrbozzapercdm7dic2020-7908fa02-3898-11eb-a3d9-f53ec54e3a0b.shtml

https://www.prosud.it/wp-content/uploads/2020/12/linee-guida-pnrr-2020.pdf

https://www.marianne.net/economie/le-nouvel-imperatif-industriel-les-solutions-pour-redresser-la-france-le-hors-serie-de-marianne-est-en-kiosque

Imperialisti buoni, imperialisti cattivi_a cura di Giuseppe Germinario

La crisi pandemica, oltre ad essere uno dei maggiori fattori scatenanti e soprattutto di accelerazione di dinamiche profonde di cambiamento dei rapporti sociali di produzione, delle catene di produzione e degli equilibri economici e geoeconomici, dei rapporti sociali stessi, sarà di per sé un arma, uno strumento di regolazione dei rapporti di potere interni ai paesi e delle relazioni geopolitiche. Non scommettiamo sulla piena attendibilità delle informazioni offerte dall’articolo; sta di fatto che sin dall’inizio il gruppo dirigente cinese ha cercato di attribuire l’origine della pandemia a svariati paesi oltre a quelli già citati dall’articolo. Uno strattagemma per sfuggire alle responsabilità politiche, ai danni di immagine, alle richieste possibili di risarcimento; soprattutto, un modo per scacciare il sospetto denso di implicazioni di una crisi originata da una manipolazione incontrollata di un virus. Considerazioni che devono spingere ad una riflessione di fondo! Quanto più avanza il multipolarismo, quanto più si avvicina una fase di policentrismo tanto meno sarà proficua una suddivisione manichea tra paesi “buoni” e paesi “cattivi”, soprattutto per quei paesi e quelle classi dirigenti con qualche ambizione di indipendenza ed autonomia, ma con forze strettamente misurate_Giuseppe Germinario

 

Dal New York Post

China suggests Italy may be the birthplace of COVID-19 pandemic

La Cina è all’opera su di un nuovo studio sulla diffusione precoce e nascosta del coronavirus in Italia per mettere in dubbio la ferma convinzione che la nazione asiatica sia stata il luogo di origine della pandemia, stando ai rapporti.

Funzionari di Pechino stanno spingendo su di un nuovo studio che suggerisce che il contagio potrebbe essersi diffuso nella nazione europea già a settembre, tre mesi prima che fosse confermato che si stava diffondendo nel presunto epicentro della città cinese di Wuhan, come il Times of London ha sottolineato .

La nazione asiatica ha anche in precedenza  ipotizzato la Spagna alle origini della pandemia, così come anche l’esercito americano, sresponsabile di aver portato il virus a Wuhan nell’ottobre dello scorso anno durante i Giochi mondiali militari; così afferma il rapporto.

Secondo il quotidiano britannico, i media statali cinesi stanno ora sostenendo con forza l’idea che il nuovo studio del National Cancer Institute dimostri che il contagio probabilmente è iniziato in Italia, non in Cina.

“Questo dimostra ancora una volta che rintracciare la fonte del virus è una complessa questione scientifica che dovrebbe essere lasciata agli scienziati”, ha detto il portavoce del ministero degli Esteri cinese Zhao Lijian, secondo il Times britannico. “[È] un processo in via di sviluppo che può coinvolgere più paesi.”

Zhao Lijian
Zhao LijianGetty Images

L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha ammesso che è possibile che il virus “circolasse silenziosamente altrove” prima di essere rilevato a Wuhan.

Tuttavia, molti scienziati sono scettici sulla ipotesi italiana dello studio e altri osservano che non ciò esclude che il coronavirus sia originario della Cina.

“Sappiamo che la Cina ha ritardato l’annuncio del suo focolaio, quindi non si sa quando è iniziato lì; la Cina del resto ha legami commerciali molto forti con il nord Italia”, ha detto allo UK Times Giovanni Apolone del National Cancer Institute di Milano.

https://nypost.com/2020/11/20/china-suggests-italy-may-be-the-birthplace-of-covid-19-pandemic/?utm_medium=SocialFlow&utm_campaign=SocialFlow&utm_source=NYPTwitter

L’ESSENZA DEL POTERE NON STA NEL POPOLO, di Antonio de Martini

L’ESSENZA DEL POTERE NON STA NEL POPOLO
Il primo assaggio di democrazia gli italiani lo ebbero con il referendum tra Monarchia e Repubblica nel 1946.
I numeri erano incompleti e incerti, dato che non erano rientrati in patria oltre un milione e mezzo di prigionieri di guerra e deportati e i voti espressi erano piu o meno equivalenti.
Fu dichiarata la Repubblica e la magistratura si adeguò con una presa d’atto piu che con una sentenza.
La monarchia sabauda, dopo aver usato con analoga disinvoltura i referendum per annettersi mezza Italia, non ebbe le carte in regola per protestare credibilmente.
Anni dopo, in una recente tornata elettorale, l’’onorevole Fassino, dichiarò vincitore delle elezioni il PD nel perdurare dell’incertezza sui numeri.
Ognuno di questi episodi – e mille piccoli altri avvenuti qui e altrove – ha contribuito a togliere credibilità al sistema escogitato per determinare senza spargimenti di sangue gli assetti di potere e l’orientamento politico di un paese.
L’omicidio politico nacque come esasperazione democratica per reazione allo strapotere.
Nel XIX secolo si definiva la Russia “ una monarchia assoluta temperata dal tirannicidio”.
In questa era moderna, singoli momenti ribellistici affiorano qua e la con mini spargimenti di sangue presentati come fatti patologici o di fanatismo religioso, ma – a mio avviso- andrebbero analizzati per quello che sono: stanchi di narrative fasulle, singoli si ribellano e mettono mano alle armi.
I pazzi e i poeti, si sa, anticipano i fenomeni sociali.
Questi isolati nemici del sistema , se esaminati attentamente, riveleranno di essere stati prima illusi dalle promesse della società, poi indignati per l’indifferenza e indotti alla reazione violenta dal desiderio di richiamare il mondo alla realtà del rapporto di forza reale.
I più deboli con reazioni isolate e personali, i piu muniti intellettualmente, istigando terzi elementi.
Il “sistema” si difende disinformando e attribuendo questi fenomeni a fattori psichici o di fanatismo religioso che con questi spesso confina.
Tra tutti questi fenomeni, troneggiava intatto il mito della democrazia statunitense.
L’America era il posto in cui queste brutture potevano accadere in una elezione municipale, ma non al vertice.
Trump era la prova che chiunque poteva giungere senza ostruzionismi al vertice di un paese democratico e governarlo.
Trump ha distrutto questa illusione.
Puoi essere eletto, ma non governare.
Twitter che censura il capo dello stato è il tirannicidio moderno. Mostra che il re è nudo e il potere politico democratico è una vuota forma.
Torna a prevalere l’articolo quinto ( chi c’ha i soldi in mano ha vinto).
Servirà qualche tempo per metabolizzare il tutto, ma l’insegnamento giungerà fino a noi.

IN BOLIVIA TRIONFA LA SINISTRA INDIGENISTA, di Giuseppe Angiuli

IN BOLIVIA TRIONFA LA SINISTRA INDIGENISTA

DOPO UN PERIODO DI CRISI E DESTABILIZZAZIONE

 

A sinistra Luis Arce, nuovo Presidente della Bolivia e già ministro dell’Economia nei Governi a guida di Evo Morales

A destra nella foto, il nuovo vice-Presidente David Choquehuanca

 

Le elezioni presidenziali tenutesi in Bolivia domenica 18 ottobre 2020 hanno visto la chiara vittoria senza contestazioni di Luis Arce Catacora, candidato del M.A.S. – I.P.S.P. (Movimiento al Socialismo – Instrumento Político por la Soberanía de los Pueblos), ministro di lungo corso nei governi diretti dell’ex Presidente Evo Morales.

Luis Arce, economista di solida formazione teorica, guiderà il Paese per i prossimi cinque anni e sarà affiancato dal suo vice David Choquehuanca, storico lìder dei movimenti contadini indigeni del Paese e già ministro degli Esteri con Evo Morales.

Queste ultime elezioni si sono celebrate in un clima di forte polarizzazione nel Paese andino e sono giunte al termine di un periodo di circa un anno contraddistinto da grande incertezza ed instabilità politica, dopo che l’ex Presidente Evo Morales (rimasto saldamente alla guida della Bolivia dal 2006 fino al 2019) era stato costretto a dimettersi a novembre dello scorso anno, appena dopo avere apparentemente vinto per la quarta volta consecutiva le elezioni presidenziali e quando le aspre contestazioni di piazza, unitamente alle pressioni dei vertici di Polizia e dell’esercito, lo avevano costretto alla fuga all’estero.

A partire dalla prima vittoria elettorale alla fine del 2005 di Evo Morales – soprannominato el indio, storico sindacalista dei contadini che abitano i vasti altipiani del Paese e primo Presidente indigeno (di etnia haymara) ad ascendere ai vertici di una nazione sud-americana – la Bolivia aveva imboccato un percorso politico di netta inversione di marcia rispetto al suo lungo passato di dominio coloniale ed aveva fornito un suo contributo decisivo al processo politico di integrazione continentale con gli altri Paesi del cono sur delle Americhe.

La Bolivia ha inscritta nel suo stesso nome tale propensione verso l’ideale dell’unità politica del sub-continente indio-latino e non per caso, circa due secoli fa, la nazione per un breve periodo era stata battezzata República de Bolívar, con un espresso riferimento alla figura mitica del libertador Sìmon Bolívar.

Anche in virtù del solido rapporto di amicizia che lo legava al compianto lìder venezuelano Hugo Chavez, Evo Morales non aveva avuto dubbi nel condurre la Bolivia all’interno del blocco dei Paesi latino-americani contraddistinti dal più enfatico radicalismo anti-U.S.A. e riuniti nell’ALBA (Alianza Bolivariana para los Pueblos de Nuestra América).

Da tale percorso politico, la Bolivia aveva tratto una forte spinta all’emancipazione dalla storica piaga del sottosviluppo e aveva saputo intraprendere con efficacia un programma di massiccia redistribuzione dei proventi delle sue copiose ricchezze naturali e minerarie, consentendo forse per la prima volta dopo secoli, alle componenti più povere della sua società, di riscattarsi socialmente e di recuperare un diffuso spirito di fierezza e dignità.

Alla base dell’azione politica di Evo Morales e del Movimiento al Socialismo (un movimento politico da lui stesso fondato nel 1997) vi è sempre stata una miscela ideologica sincretica data dalla fusione di alcuni principi del marxismo classico con gli storici ideali del nazionalismo indigeno latino-americano: nella comunicazione politica del M.A.S., assume da sempre una consueta centralità il richiamo alla necessità di recuperare una piena sovranità del popolo boliviano rispetto alle entità straniere che storicamente lo hanno sottomesso e umiliato, depredandolo delle sue risorse umane e materiali.

L’avvento di Morales alla Presidenza aveva dunque segnato un complessivo rovesciamento del paradigma di rappresentanza degli interessi interni al Paese, avendo egli messo al centro del suo programma per la prima volta i diritti delle popolazioni rurali di origine dell’altopiano andino – in particolare le rivendicazioni dei piccoli poveri contadini cocaleros, ossia i coltivatori di coca, una pianta tipica della cultura andina – e non più gli interessi delle componenti elitarie di etnia bianca indo-europea, da lungo tempo assolute dominatrici nella conduzione della politica e del modello economico  estrattivista del Paese.

Erano state proprio queste elites bianche di origine europea, molto presenti soprattutto nell’area industrializzata della città di Santa Cruz de la Sierra e da sempre assai legate agli U.S.A., a non digerire fin dal primo istante l’ascesa di Morales alla più alta carica governativa del Paese nel 2006: fin da quel momento, le classi dirigenti di quella ricca regione dell’est della Bolivia avevano pertanto dato vita ad una forte conflittualità e ad una radicale delegittimazione delle scelte del Governo centrale di La Paz, non mancando di alimentare anche delle pericolose spinte secessioniste.

Evo Morales, Presidente della Bolivia dal 2006 al 2019

 

Il primo evento di grande impatto simbolico che aveva suggellato l’avvio del nuovo corso della Bolivia era stato senz’altro l’avvento della nuova carta costituzionale nel 2009, allorquando il Paese aveva assunto per la prima volta la denominazione di Stato plurinazionale di Bolivia, a testimonianza della composizione pluri-etnica e del carattere multi-culturale della sua popolazione[1].

Con lo storico passaggio a tale nuova dominazione ufficiale dello Stato e con l’approvazione della nuova Costituzione indigenista (che presenta non pochi punti di contatto con le coeve nuove carte costituzionali adottate da Venezuela ed Ecuador), la nuova Bolivia di Morales aveva dunque segnato il riconoscimento della sua natura di Stato di diritto unitario, plurinazionale e comunitario fondato sul pluralismo politico, economico, giuridico, culturale e linguistico.

 

Non per caso, fin dai suoi primi articoli la nuova carta costituzionale del 2009 menziona espressamente le nazioni e i popoli indigeni quali originari abitanti della Bolivia pre-coloniale e sancisce il diritto di tali componenti autoctone alla conservazione di alcune sfere intangibili di autonomia politico-amministrativa, al mantenimento della loro cultura originaria e ad esercitare delle forme di autogoverno tramite il riconoscimento di istituzioni proprie e tramite il consolidamento di entità territoriali autonome pur nel quadro di una pacifica convivenza all’interno dell’unità statale.

In altri passaggi della stessa magna carta, non manca una espressa consacrazione del diritto inalienabile delle comunità autoctone alla proprietà collettiva sulle terre ancestrali.

Come è tristemente noto, i percorsi rivoluzionari ispirati da una forte spinta ideologica di stampo egualitario  partono quasi sempre con degli ottimi propositi ma molto spesso – non soltanto alle latitudini latino-americane –  non riescono a raggiungere gli auspicati risultati in termini di benessere e sviluppo economico.

Anche in tempi recenti, altre esperienze di Governo delle sinistre in America Latina – tra tutte il Venezuela e il Brasile – a dispetto dei proclami enfatici di marca anti-imperialista, non sono state in grado di promuovere la nascita di nuovi modelli di sviluppo efficienti e dalle gambe solide.

Viceversa, nel caso della Bolivia di quest’ultimo quindicennio, pur senza volere indulgere verso qualsiasi atteggiamento di faziosità ideologica, è lecito senz’altro affermare che l’esperienza dei Governi a guida socialista non aveva oggettivamente deluso le attese anche sul terreno socio-economico, facendo conseguire al Paese degli indici di sviluppo e di crescita economica – pari a circa il 5% annuo in media – davvero invidiabili e che trovano difficilmente un riscontro all’interno di analoghi contesti nazionali dei Paesi latino-americani di questo XXI° secolo.

Nello stesso periodo, secondo i dati generalmente accettati dalla comunità internazionale e dalle principali testate giornalistiche del globo, i governi a guida del M.A.S. erano riusciti a mantenere sotto controllo sia l’inflazione che il tasso di disoccupazione e inoltre erano stati in grado di ottenere una drastica riduzione dell’indice di povertà interno al Paese: sotto quest’aspetto, è significativo ricordare che nel giugno del 2015, in occasione della 39^ Conferenza Generale della F.A.O. (organismo delle Nazioni Unite che si occupa di elaborare programmi per l’alimentazione e per lo sviluppo dell’agricoltura), il Governo boliviano era stato insignito del riconoscimento ufficiale per avere saputo ridurre di più della metà il dato percentuale della popolazione sotto-alimentata, che era passato dal 34% al 15% prendendo in esame un periodo compreso tra il 1990 ed il 2015.

Il celebre incontro tra Evo Morales e Papa Bergoglio nel 2015

 

Altrettanto significativo e per certi versi clamoroso era stato il riconoscimento pervenuto in tempi non sospetti ai governi socialisti a guida di Morales – che avevano visto proprio nell’attuale neo-Presidente Arce lo stratega della crescita economica nella sua qualità di ministro per l’Economia – perfino dalle colonne del Wall Street Journal, che nel 2014 aveva definito Luis Arce «il principale architetto del risorgimento economico del Paese»[2].

Tra le più significative misure di marca anti-liberista adottate negli anni di Governo a guida di Evo Morales va senz’altro segnalata la nazionalizzazione non solo dei giacimenti di gas naturale e di idrocarburi ma anche delle riserve di preziosi minerali e metalli strategici come litio, stagno e cobalto, oltre alla completa ri-pubblicizzazione delle risorse idriche del Paese, che prima dell’avvento dei governi di marca socialista erano finite anch’esse nel mirino delle società multinazionali, dando vita ad un forte rincaro dei costi di accesso all’acqua e così scatenando la protesta di ampie fasce del popolo boliviano.

L’immenso deserto di sale Salar de Uyuni in Bolivia, la più grande riserva di litio al mondo

 

Nel 2016, Evo Morales aveva provato a fare approvare con referendum consultivo una modifica alla Costituzione con l’obiettivo di consentire a se stesso di lanciarsi in una quarta ricandidatura consecutiva alle elezioni presidenziali (non permessa dalla magna carta da lui stesso promossa).

In quell’occasione, il popolo boliviano, votando a maggioranza per il NO al referendum costituzionale, aveva inviato al lìder un chiaro messaggio di presa di distanza dalla deriva auto-referenziale del suo potere personale.

Nell’occasione, si era registrato l’errore politico più evidente di Evo Morales, forse dettato da un suo eccesso di sicurezza e di spavalderia: il Presidente indio, anziché accettare di buon grado il responso dell’elettorato, aveva inaspettatamente forzato la mano, rivolgendosi alla Corte Suprema della Bolivia, dinanzi alla quale era riuscito a fare affermare il discutibile principio per cui il diniego alla sua possibilità di ri-presentarsi ancora una volta alle elezioni presidenziali avrebbe costituito una presunta «violazione dei suoi diritti umani» (sic).

Questa inaccettabile forzatura costituzionale aveva costituito la più imperdonabile delle sviste per Evo Morales ed aveva messo a rischio il funzionamento dei meccanismi di partecipazione democratica nel Paese, facendolo scivolare verso forme di caudillismo nella sua accezione deteriore (una strada già tristemente seguita dall’attuale Venezuela di Maduro).

Un vero peccato per il Presidente indigeno il quale, pure avendo bene governato per circa un quindicennio, non aveva saputo resistere alle tentazioni personalistiche e col suo comportamento aveva purtroppo creato un primo serio vulnus nel rapporto di fiducia fino ad allora sapientemente instaurato con la maggioranza della popolazione boliviana.

Morales in compagnia di Hugo Chavez e Rafael Correa

 

 

Alle elezioni presidenziali del 20 ottobre 2019, Morales si era dunque ri-presentato agli elettori provando ad essere ri-eletto per la quarta volta consecutiva.

Al termine del processo di conta dei voti, che aveva subito un andamento anomalo per via di alcuni poco facilmente spiegabili rallentamenti, secondo i dati diffusi dal C.N.E. (Consiglio Nazionale Elettorale) il Presidente uscente avrebbe conseguito il 47,08% dei voti contro il 36,51% del suo principale rivale e con tale scarto di voti, superiore al 10% dei votanti, non ci sarebbe stato bisogno di celebrare un secondo turno di ballottaggio ma Morales sarebbe stato rieletto Presidente al primo turno per la quarta volta consecutiva.

A quel punto, la sua controversa quarta proclamazione come Presidente dello Stato plurinazionale della Bolivia non era stata riconosciuta dalle opposizioni che, forti del sostegno esterno di Luis Almagro e della Organizzazione degli Stati Americani (O.S.A.) da lui presieduta, avevano presto incitato alla rivolta di piazza, da cui era scaturito un clima di forte polarizzazione dello scontro politico, con scontri violenti nelle principali città del Paese andino che in pochi giorni avevano provocato almeno alcuni morti e diverse centinaia di feriti.

In seguito, in un clima di aspra contestazione del risultato che non accennava a placarsi, a convincere Evo Morales ad annunciare il 10 novembre 2019 le sue dimissioni dalla carica presidenziale, aveva assunto una valenza decisiva la pressione esercitata su di lui dai vertici delle Forze Armate e della Polizia, che avevano disconosciuto la validità della sua rielezione, mettendo così in atto, in forme analoghe a quanto già avvenuto nella storia più recente dei Paesi dell’America Latina, una sorta di Golpe morbido istituzionale.

Al momento di lasciare il suo Paese per rifugiarsi momentaneamente in Messico e per poi stabilirsi in Argentina, Evo Morales aveva denunciato al mondo di essere stato costretto a rinunciare alla sua carica a causa di un «colpo di Stato».

 

Un’immagine delle proteste di piazza in Bolivia dopo la deposizione di Evo Morales nel novembre 2019

 

 

La defenestrazione repentina di Evo Morales – come detto, senza dubbio favorita da un suo evidente errore politico – si era inserita in un vasto disegno di destabilizzazione dell’arco dei Governi progressisti dell’America Latina messa in agenda in questi ultimi anni dal Dipartimento di Stato U.S.A., con l’obiettivo di disarticolare quel processo di integrazione politica su base continentale che aveva preso vita nel primo decennio di questo secolo sotto il decisivo impulso del compianto Presidente venezuelano Hugo Chavez.

Nel corso del mandato presidenziale di Donald Trump alla Casa Bianca, l’amministrazione in carica a Washington, quantunque abbia sposato in molti casi un approccio più soft alla sua politica estera in aree lontane come il medio oriente e la Corea del Nord, ha palesato la consapevolezza sulla necessità di riassumere al più presto possibile il pieno controllo politico di quell’ampia area compresa tra il fiume Río Bravo e la Patagonia e che già 2 secoli fa veniva ufficialmente considerata dall’establishment U.S.A. come il proprio «backyard» («il cortile di casa»), secondo una celebre definizione data dal Presidente James Monroe nel 1823.

James Monroe, Presidente degli Stati Uniti d’America tra il 1817 e il 1825

 

Se tale esigenza di asservimento geopolitico dell’intera America Latina ha costituito da sempre un punto irrinunciabile per la proiezione imperiale degli U.S.A., tanto più la riassunzione di un pieno controllo sul subcontinente latino-americano ha necessitato di essere ribadita con forza in questi ultimi tempi, quando i consiglieri più in sintonia con Trump – sul punto in dissenso con i vertici del Pentagono – si sono convinti della insostenibilità per gli Stati Uniti della compresenza di troppi fronti di guerra in giro per il globo e sulla conseguente inevitabilità di un parziale e progressivo rientro a casa delle forze armate regolari già dislocate in alcune aree-chiave del pianeta (Siria e Afghanistan su tutte).

Sta di fatto che la netta vittoria popolare alle elezioni in Bolivia del 20 ottobre 2020 del nuovo Presidente socialista Luis Arce, successore espressamente designato da Evo Morales (oggi ancora in esilio in Argentina), sta a dimostrare che per gli U.S.A. forse è ormai davvero finito il tempo in cui in una qualsiasi nazione dell’America Latina bastava registrare una qualche sintonia di intenti tra i vertici dell’esercito e una ristretta elite indo-europea per sequestrare la volontà di un intero popolo, ancorchè questo fosse desideroso di voltare pagina: in questo senso, gli esempi di Governi filo-U.S.A. impostisi in America Latina nel secolo scorso per il semplice volere di falchi come Henry Kissinger sono innumerevoli, a cominciare dalla triste dittatura militare nel Cile di Augusto Pinochet.

 

Il popolo boliviano – che ha dovuto attendere quasi un anno per poter tornare ad esprimersi nelle urne, dopo che le elezioni già fissate al 3 maggio 2020 erano poi state rinviate per l’emergenza sanitaria da Covid –  avendo tributato dei generosi consensi pari al 52% a favore di Luis Arce, con circa 20 punti di distacco dal principale sfidante di destra, ha senza dubbio inteso esprimere un forte desiderio di continuità con le politiche anti-liberiste e di segno integrazionista che avevano contraddistinto quasi un quindicennio di azione politica di Evo Morales.

Vista la profonda sintonia di vedute tra il neo-Governo progressista boliviano e quelli dello stesso orientamento politico già al potere in Argentina e in Messico, adesso il quesito che resta da sciogliere è quale futuro attende il continente latino-americano, alla luce di un quadro politico alquanto variegato e composito, che ad oggi contraddistingue l’intera regione a sud del Rìo Bravo.

 

 

Giuseppe Angiuli

[1] All’articolo 8 della nuova Costituzione dello Stato plurinazionale di Bolivia, si legge: «Lo Stato si fonda sui valori di unità, uguaglianza, inclusione, dignità, libertà, solidarietà, reciprocità, rispetto, complementarità, armonia, trasparenza, equilibrio, pari opportunità, uguaglianza sociale e di genere nella partecipazione,
benessere comune, responsabilità, giustizia sociale, distribuzione e ridistribuzione dei
prodotti e beni sociali, per vivere bene
».

[2] Cfr.  l’articolo a firma di John Otis, «Luis Alberto Arce, l’uomo dietro il successo di Evo Morales», The Wall Street Journal, 9 ottobre 2014.

 

Non c’è Sovranismo con il tabù della parola Patria, di Max Bonelli

Non c’è Sovranismo con il tabù della parola Patria

 

La manifestazione  del 10 ottobre a Roma ha sicuramente dato una luce di speranza nel frastornato mondo Sovranista.

C’erano alcune migliaia di attivisti in piazza e non poche centinaia come Repubblica ed il Corriere hanno scritto, mentendo sapendo di mentire, come Francesco Toscano di Vox Italia ha recitato, giustamente, in un passaggio del suo discorso.

Non era scontata la presenza di una avanguardia di coraggiosi, il potere aveva fatto di tutto per scoraggiare la partecipazione; li ha definiti “negazionisti” quando nessuno in quella piazza negava il Covid-19, bensì si opponeva ad una politica di terrore e privazione delle libertà individuali non confortata dai dati scientifici.

Aveva usato la carta della diffamazione contro l’organizzatore Pasquinelli e contro gli ispiratori teoretici come Fusaro e Borgognone sui social.

Nemmeno le minacce sono bastate a tener lontano la gente da quelle piazze, minacciando l’intervento della polizia; i questori hanno paventato il manganello della repressione, le cariche, ma nonostante questo la gente era lì; non folla oceanica ma tanta gente anzi tantissima per un Italia ormai addormentata ed impaurita.

Il compito degli organizzatori non era facile; unire i rivoli del frammentato mondo sovranista.

Portare sullo stesso palco D’Andrea, Toscano, Amodeo, Mori, Cunial per citarne alcuni non era scontato e già questo è stato un successo che di per sé terrorizzava il potere dei palazzi politici.

Vox Italia e Fronte Sovranista Italiano si sono presentati separati alle ultime elezioni e non è andata bene; forse proprio grazie  alla constatazione che essere disuniti non aiuta che li abbiamo visti insieme a Roma.

Nella piazza di San Giovanni non si è visto solo questo, ma una organizzazione finalmente all’opera sotto la  bandiera Sovranista.

C’era Byoblu di Messora che ha coperto mediaticamente l’evento ed ha infranto con prepotenza il muro della censura.

Grazie alla Tv internet di Byoblu abbiamo apprezzato gli interventi di leader politici e pensatori liberi come Fabio Frati  e Fulvio Grimaldi, autori degli interventi a mio parere più completi ed entusiasmanti; voglio anzi definirli coraggiosi, cosa che nella nazione dove i coraggiosi spesso vengono eliminati è il massimo degli onori.

Frati è stato concreto, l’unico a parlare della migrazione, sostituzione etnica mirata alla formazione di sfruttati necessari a calmierare il mercato del lavoro, “l’esercito salariale di riserva”.

Grimaldi ha parlato di Sovranità ma soprattutto di Patria ed identità, citando Dante con dovizia e disinvoltura; il discorso che avrei voluto sentire pronunciare da uno dei due leader dei due partiti sovranisti.

Beninteso non voglio negare il buono dei loro discorsi :

Toscano è stato accattivante, incisivo, a tratti ironico ma la parola Patria, patriottismo non ha trovato spazio nei suoi 5 minuti.

D’Andrea è stato metodico nella descrizione della struttura di un partito sovranista e mostrato la sua qualità migliore: razionale organizzatore, ma anche lui  dimentico di quelle due parole che in un Italia occupata dal 1945 sono di per sé rivoluzionarie.

Entrambi hanno citato elementi socialisti nel loro discorso.

Non parlo di Amodeo che di rivoluzionario nel suo discorso aveva solo il colletto della camicia in stile rivoluzione francese.

Per lui l’Italia ha perso Sovranità dal 1992. Mi dispiace egregio, il nostro paese soffre di una occupazione dal 1945, cioè da quando i “liberatori” si sono trasformati in occupanti.

Mori è stato perfetto ed esaustivo nei suoi 5 minuti; pedagogico nella difesa della costituzione del 1948 ma anche lui dimentico dell’aspetto identitario accessibile anche a chi ha bisogno di un messaggio semplificato.

Pasquinelli ha avuto in un passaggio dei suoi 5 minuti un riferimento identitario patriottico ed anche in questo si vede una certa lungimiranza che unite alle sue capacità organizzative lascia un seme di speranza; come pure il discorso del rappresentante del mondo artigianale Marino Poerio: concreto ed incisivo.

Un altro buon auspicio si prospetta nell’iniziativa pubblicizzata da Tiziana Alterio di creare una squadra di giuristi a difesa della costituzione del 1948 contro le iniziative liberticide di questo governo; sembra il compito ideale per Marco Mori e tanti altri.

Tirando le somme molte luci e qualche ombra; la gente è disperata e questa è una opportunità nella disperazione, nella lotta tra la vita e la morte ci sono i semi della rinascita. Da qui l’appello a chi ha messo su organizzazioni politiche nel mondo sovranista.

Coraggio, non impastarsi la bocca quando si deve pronunciare quella parola; Patria e patriottismo li dovete citare in egual modo di quando e come pronunciate la parola socialismo. Sono concetti che vanno di pari passo e che uniti si rafforzano, non si ostacolano.

Certo ci attireremo le attenzioni dell’occupante, qualche ricco borghese ci negherà l’appoggio ma tanti piccoli borghesi proletarizzati dal neoliberismo ce lo daranno; idem per i proletari sottoproletarizzati.

Orsù avanti con coraggio! Qui si libera l’Italia o si muore.

 

Max Bonelli

 

 

 

Sconforto, di Andrea Zhok

Il nostro giudizio sul M5S è ed è stato molto più drastico, sin dagli albori del movimento. La considerazione finale di Andrea Zhok appare del tutto condivisibile, ma con una chiosa: “ciò che si muove fuori è anche peggio”, ma semplicemente perché sono le schegge ed il derivato di ciò che è dentro. Il richiamo, sia pure ormai meramente semantico al passato, non aiuta a guardare queste fibrillazioni con giudizi definitivi che meritano_Giuseppe Germinario
In questi giorni, dopo gli esiti abbastanza catastrofici delle elezioni regionali in molti danno il M5S per spacciato.
Ci sono gli ennesimi segni di fronda interna, critiche feroci alla leadership, minacce di scissione.
Spira inoltre un vento nefasto, per cui molti, semplici elettori o personaggi prominenti, che avevano dato fiducia al movimento ad inizio legislatura, ora fanno a gara per sparargli addosso.
A ciò si aggiunge il giudizio perennemente liquidatorio da parte dei grandi giornali (con una nota eccezione) e dell’intero sistema di potere consolidato. Per quanto ora, nel nome della ‘stabilità’ garantita dall’alleanza col PD, il tasso di stroncature appare lievemente moderato, è sin troppo chiaro che il M5S continua ad essere percepito come un corpo estraneo, da espellere.
Ecco, viste queste condizioni, mi sento obbligato a fare un elogio del M5S.
Che il Movimento avesse problemi profondi e strutturali era chiaro dall’inizio a chiunque non fosse cieco.
Che mancasse di un ceto dirigente solido ed esperto, che avesse problemi nelle strategie di reclutamento, che avesse adottato una tattica ‘populista’ di raccolta a strascico del malcontento senza coerentizzarlo, che avesse fatto convivere senza risolverle contraddizioni tra posizioni stataliste e libertarie, ambientaliste e antiscientifiche, sovraniste e autorazziste, ecc. era evidente a chiunque avesse gli occhi per vedere.
E tuttavia, ora, arrivati a questo punto, non posso che chiedermi: il panorama politico italiano sarebbe migliore se il M5S scomparisse?
E la risposta che non posso che darmi (lo so, contro molti amici di lunga data) è che sarebbe una disgrazia.
Con tutte le sue inadeguatezze il M5S è l’unica realtà politica degli ultimi decenni che ha smosso problemi incancreniti, riportato a galla aspirazioni sociali rimosse, che ha almeno provato a dar voce a istanze che erano scomparse dal panorama italiano (come quelle ecologiste). E lo ha fatto cercando di trovare una posizione autonoma, irriducibile alla stantia, sclerotizzata dicotomia tra destra e sinistra.
Francamente non so se il M5S sopravviverà a questa legislatura, perché gli errori fatti sono molti e le risorse per rimediarvi sono scarse. Non lo so, ma le lo auguro di cuore, perché – anche con la complicità dell’improvvida riforma costituzionale promossa dal movimento stesso – lo scenario prossimo che si presenterebbe a fronte di un collasso del movimento è quello di un deserto politico, bloccato su forze e dinamiche degli anni ’90.
Come molti altri, personalmente avevo sperato che emergessero forze politiche capaci di approfondire, coerentizzare, chiarire e consolidare le istanze migliori del movimento.
L’ho sperato, ma al momento palesemente queste condizioni non ci sono, e ciò che si muove fuori dal Parlamento con realistiche ambizioni di entrarvi, è peggio di ciò che in parlamento c’è già.

https://www.facebook.com/andrea.zhok.5

Il Sovranismo dei vorrei ma non posso, di Max Bonelli

Il Sovranismo dei vorrei ma non posso

 

Ho sempre visto delle affinità tra l’idea Sovranista ed il Risorgimento italiano entrambi hanno trovato terreno fertile in una avanguardia-minoranza piccolo, medio borghese che si sentiva  e si sente soffocata

da una entità occupante e pervasiva. Allora era l’impero Austriaco oggi

è il “Giano Bifronte” USA-UE che ad una analisi superficiale possono apparire due entità distinte e talvolta in contrapposizione apparente, ma che in realtà sono due facce della stessa moneta.

Oggi come allora all’inizio del processo costitutivo, questa avanguardia minoritaria interpreta la diffusa e confusa richiesta nella società italiana

di un cambiamento. Allora nel senso di una unificazione della penisola, oggi nella applicazione dell’art.1 della costituzione “La sovranità appartiene al popolo”.

 

Questa prerogativa del popolo italiano è largamente disattesa e posso dimostrarlo rapidamente facendo una carrellata dei soprusi del mostro bifronte nei confronti della sopraddetta “Sovranità del popolo italiano”.

L’occupazione militare statunitense, “i liberatori”, ha prodotto negli ultimi 50 anni una serie di stragi senza colpevoli condannati che va dalle funivie abbattute da cowboy in divisa alla guida di aerei da guerra per passare ai carghi porta armi che causano la strage del traghetto Moby Prince per arrivare ai voli di linea abbattuti per errore, Ustica docet, e la conseguente strage di Bologna intesa a disinnescare l’attenzione dell’opinione pubblica.

L’attività dell’altra faccia dell’occupante è meno scoppiettante ma non meno assassina. Pensiamo al problema dei migranti, benedetto e incoraggiato dalla UE a conduzione tedesca a spese del Bel Paese e della sua cittadinanza.

L’arrembaggio alle nostre coste di una marea di uomini e donne spesso relativamente facoltosi (nei loro paesi) da avere in tasca i 3000 dollari per pagarsi un viaggio irto di pericoli per andare a formare l’esercito salariale di riserva concorrente con le fasce più esposte della nostra società. Naufragi, delitti comuni, scontri culturali sono all’ordine del giorno e per la prima volta l’italiano sente sulla propria pelle la mancanza di uno stato sovrano che sa far rispettare i propri confini.

 

L’avanguardia sovranista, quella militante, sente l’opportunità storica di poter trasmettere la sua intuizione politica alla maggioranza del paese.

Come accade spesso nei giorni più tragici della Storia dei grandi paesi,

l’Italia ha anche alcuni giovani intellettuali di talento impegnati a perorare le ragioni alla base dell’art.1 della costituzione, tra questi Diego Fusaro, Paolo Borgognone oppure uomini dal talento giornalistico ed imprenditoriale come Paolo Messora fondatore del polo multimediale ByoBlu.

 

Si formano movimenti politici, tanti, anche troppi, caratterizzati da una base militante di veri patrioti e da vertici molto egocentrici più interessati a prepararsi una carriera politica personale magari in parlamento a 10.000 euro al mese che a diffondere il verbo contro l’occupante.

 

Alle ultime elezioni amministrative abbiamo avuto una triste conferma di questa tesi. Possiamo rapidamente analizzare il voto delle Marche dove Vox Italia, il partito condotto dal giornalista Francesco Toscano e dall’avvocato Giuseppe Sottile, primeggia con uno 0,5% della loro lista

rispetto all’altra lista sovranista di Riconquistare l’Italia (FSI) fermo allo 0,1% a cui fa capo il professore Stefano D’Andrea.

La somma di entrambi è ampiamente sotto l’1% e parliamo dell’unica regione strappata al PD in questa tornata da un candidato di Fratelli D’Italia. Un partito che nell’ambito dell’arco costituzionale è sicuramente quello spostato più verso idee sovraniste.

Mi viene da domandarmi, come militante e patriota, a cosa è dovuto l’insuccesso politico e quindi mi accingo ad analizzarne le ragioni.

 

Siamo alle elezioni delle Marche, regione caratterizzata da un manifatturiero di qualità laddove l’esportazione verso la Russia, soprattutto nel settore calzaturiero, è stata colpita dalle infinite sanzioni che dal 2014 ad oggi vengono imposte dal nostro occupante americano.

Se guardiamo le pagine internet di questi due piccoli partiti espressione del “Sovranismo estremo” per cercare qualche attacco alle sanzioni imposte

al settore, rimaniamo delusi.

Non si menziona nemmeno il problema e tanto meno nella piccola ed agguerrita Vox Italia tv di Toscano, molto attenta alle guerre politiche tra democratici e repubblicani negli USA, ma  assente su questi problemi commerciali come dire ..casalinghi. Ad onor del vero anche FdI hanno posizioni elusive sull’argomento ma hanno scelto di giocare la loro carta sovranista sul piano identitario piuttosto che pestare i piedi al padrone.

 

La carta identitaria FdI l’ha giocata sul problema dell’immigrazione trovando un terreno fertile nella regione dove è stata uccisa e smembrata Pamela Mastropietro da tre “nuove risorse” nigeriane dedite allo spaccio e commerci simili.

Su questo argomento FdI è molto chiaro con la proposta del blocco navale e tocca la sensibilità dell’opinione pubblica che ha avvertito la censura nemmeno troppo velata dei media di regime su questo ed altri fatti di cronaca.

Sul tema immigrazione dal punto di vista teorico Vox Italia avrebbe anche un buon punto di partenza mutuando il pensiero di Diego Fusaro e la teoria

migranti=esercito salariale di riserva dei poteri finanziari.

Belle parole ma che rimangono tali se non accompagnate da una messa in evidenza costante e continua delle contraddizioni della politica migratoria a guida PD sui social e sull’immancabile Vox Italia TV che su questo argomento risulta “non pervenuta”.

Come non pervenuto è sul tema FSI di D’Andrea che si limita ad un fumoso punto programmatico che imita certe discussioni intellettualoidi del PCI degli anni settanta ma che è del tutto assente nel contesto odierno fatto di video virali sulle malefatte di questa politica migratoria.

Risultato, il centrodestra a guida Fratelli d’Italia strappa la vittoria nelle Marche regione storicamente di sinistra mentre i due partiti sovranisti d’ispirazione socialista si beccano un bell’articolo denigratorio sull’Espresso (1).

 

Per la cronaca entrambi questi  due partiti hanno dato il meglio di sé nella campagna referendaria contro il Sì sia sui social che sui loro siti mediatici nonché  nella piccola (e quando vuole )agguerrita Vox Italia TV di Toscano.

L’argomento gli stava molto a cuore; in effetti quando si hanno certi numeri in fase elettorale vedersi alzare la soglia per il parlamento fa male…molto male.

Personalmente penso che se una idea è forte non c’è sbarramento elettorale che la possa fermare; al contrario la mancanza di coraggio e la mediocrità quelli si possono essere sbarramenti insormontabili.

 

 

 

 

 

 

 

 

Un consiglio ai filosofi: attenti alle frequentazioni, si rischia di rimanere infangati per pochi baiocchi, la reputazione dovrebbe costare molto di più.

 

Max Bonelli

 

 

 

 

(1)

https://espresso.repubblica.it/palazzo/2020/09/22/news/partito-diego-fusaro-flop-1.353448?fbclid=IwAR1ef2H-A8e9aY8fGviiAS1hLqBJndGVf0WOTQm5rp-trUgce2I1klIqhZs

 

 

 

 

 

Il mistico Steve Bannon, di Rod Dreher

Qui sotto un interessante articolo che offre una prima analisi dei fondamenti culturali ed ideologici che guidano l’azione di Steve Bannon. Da circa tre anni la figura di Bannon ha suscitato una crescente curiosità in Italia; a questo non ha corrisposto nessun tentativo serio di analizzare il filo conduttore che ha guidato i suoi atti; ci si è affrettati piuttosto ad etichettarlo frettolosamente di volta in volta come ideologo della destra più retriva e razzista, come alter ego di Trump, come suo consigliere ed ideologo, come suo uomo ombra. La tentazione di affibbiare le etichette più estreme, come quelle di “suprematista” rappresenta un comodo rifugio per sopravvalutare movimenti al momento del tutto minoritari ed esorcizzare e demonizzare l’avversario. Etichette che rivelano in realtà la scarsa conoscenza delle dinamiche politiche statunitensi, il provincialismo nostrano e soprattutto la scarsa propensione ad individuare le dinamiche che consentirebbero alla nostra classe dirigente una maggiore autonomia di azione. L’avvento ed il successo di Trump ha risvegliato negli Stati Uniti gli ambienti più diversi ed eterogenei da anni annichiliti dal predominio neocon e democratico globalista; come solitamente accade, alcuni di questi lo hanno sostenuto convintamente, altri ne hanno preso atto, altri ancora ci si sono infilati con obbiettivi opposti e contrari ai propositi presidenziali. In una situazione così confusa e caotica, comune ai due schieramenti politici, Trump ha rivelato una certa sagacia tattica ed una notevole capacità di resistenza; non è stato in grado per evidenti suoi limiti di amalgamare queste realtà ed offrire loro una prospettiva politica sufficientemente coerente. Trump è certamente un leader politico, ma è anche una immagine utilizzata ad uso e consumo di amici e nemici. In questo contesto va inserita la figura ed il ruolo di Bannon. In Italia e in Europa l’abbiamo conosciuto meglio dopo la sua emarginazione dallo staff presidenziale. Prima di rientrare negli Stati Uniti per un paio di anni ha avviato una vera e propria campagna di fondazione politico-culturale in Europa, partendo da Svizzera, Italia e Germania con propaggini in Francia che però, a differenza dei primi, non hanno ricevuto buona accoglienza dalla leader del Front National, attualmente RN. La sua finalità dichiarata è quella di facilitare lo sviluppo e il consolidamento del cosiddetto “sovranismo” nei vari paesi; il suo retroterra culturale  pare più compatibile con una rifondazione di quell’occidentalismo che ha costituito l’amalgama necessario al mantenimento del sistema di alleanze e di dominio del secondo dopoguerra. L’accostamento a Dugin posto dall’intervistato può sembrare avventato; non bisogna però dimenticare che lo stesso Dugin ha trovato ospitalità, accoglienza e terreno fertile negli ambienti dei tea-party in anni non lontani. Ad una contrapposizione geopolitica tra Occidente ed Eurasia, ancora da definire esattamente proprio per il ruolo controverso della Russia nel contesto della contrapposizione Sino-Statunitense, non corrisponde necessariamente una incompatibilità culturale_Giuseppe Germinario

Il mistico Steve Bannon

Foto di JOEL SAGET / AFP tramite Getty Images)

Per la maggior parte delle persone, Steve Bannon è uno stratega politico rauco che (se ti piace) ha aiutato a eleggere Donald Trump e sta lavorando per catalizzare i movimenti nazionalisti, o se non lo fai, è un Svengali di alt-right che apre la strada all’autoritarismo. Ciò che la maggior parte delle persone perde è il profondo interesse di Bannon per il tradizionalismo, chiamato anche perennialismo , una scuola filosofica che insegna che tutte le religioni del mondo insegnano una versione delle stesse verità universali. Per un po ‘di tempo, Benjamin R. Teitelbaum ha studiato il tradizionalismo e le connessioni di Bannon con addetti ai lavori politici tradizionalisti politicamente potenti. Nel suo nuovo libro War For Eternity: Inside Bannon’s Far-Right Circle of Global Power Brokers, Teitelbaum, professore presso l’Università del Colorado – Boulder, si basa su interviste con Bannon e altre figure chiave per illuminare le idee detenute da una sorprendente rete di pensatori e strateghi. Recentemente ho intervistato Teitelbaum sul libro via e-mail.

RD: Prima di iniziare, definiamo i termini. Cos’è il tradizionalismo, con la T maiuscola? Come dovrebbero distinguerlo i laici dal tradizionalismo minuscolo?

BT: Sì, vorrei che le idee insolite di cui ho scritto avessero un nome altrettanto insolito, piuttosto che apparentemente familiare. Ahimè … il Tradizionalismo con la T maiuscola è una scuola filosofica e spirituale eccezionalmente arcana, appena conosciuta, una delle tante varianti di spiritualità alternativa che potresti (potresti!) Trovare sugli scaffali di una libreria New Age. Cerca di scoprire verità sull’universo attraverso lo studio e occasionalmente la conversione alle ali esoteriche di varie religioni, il più delle volte l’Islam sufi e l’induismo. Solo secondariamente, e solo per alcuni dei suoi seguaci, il tradizionalismo è anche un’ideologia politica. E come ideologia politica, la sua agenda è sia vaga che grandiosa: opporsi alla modernità e al modernismo.

Evidenzierò tre caratteristiche del tradizionalismo che modellano il suo rapporto con la politica. Il primo è che i tradizionalisti credono nel tempo ciclico piuttosto che lineare; che invece di progredire da una storia di depravazione verso un futuro di gloria, le società si allontanano costantemente e poi ritornano alla loro gloria eterna.

Il secondo è la convinzione che le società virtuose si formino attorno a una gerarchia di caste indoeuropee con una piccola élite di Sacerdoti in cima a una piramide che discende ai Guerrieri, ai Mercanti e infine a una massa di Schiavi. Quando i tempi sono buoni, la gerarchia è intatta e la spiritualità dei Sacerdoti regna, ma quando i tempi sono cattivi, il materialismo di Schiavi e Mercanti regna e la gerarchia stessa si dissolve quando l’umanità viene livellata in una singola massa.

Il terzo principio che menzionerò è quello chiamato “inversione”, attraverso il quale i tradizionalisti credono che, quando i tempi sono cattivi e l’umanità è ridotta a una massa umile, inizieremo anche a scambiare le cose per il loro opposto: ciò che pensiamo sia buono è in realtà cattivo, qualcuno ufficialmente devoto alle questioni spirituali è schiavo del materialismo, i professori diffondono l’ignoranza piuttosto che la conoscenza, i giornalisti disinformano, gli artisti creano bruttezza, ecc. È una società di false simulazioni. I tradizionalisti affermano che in questo momento stiamo vivendo nella fase avanzata del ciclo temporale, verso la fine di un’età oscura definita dall’omogeneizzazione del materialismo e solo simulazioni di virtù, e che solo più oscurità ci farà avanzare oltre il punto zero del ciclo alla rinascita di un’età dell’oro.

Quindi, se si considera ciò che tutto ciò ha a che fare con il tradizionalismo a T minuscola nel modo in cui usiamo casualmente il termine – con qualcuno a cui piacciono le cose nel modo in cui erano in una determinata ricerca o preoccupazione – potrebbe esserci qualche sovrapposizione accidentale, come un scetticismo generale verso il cambiamento o celebrazione del passato per il suo apparente ordine. Ma le differenze tra questo e il tradizionalismo con la T maiuscola vanno oltre il fatto che quest’ultimo offre una spiegazione elaborata per le sue opinioni: la dottrina del tempo ciclico rende il pessimismo dei tradizionalisti di un tipo completamente diverso da “Back-in-my-day” di Dana Carvey personaggio di Saturday Night Live. Per quanto distruttivo sia il cambiamento agli occhi dei tradizionalisti, potrebbero benissimo accogliere la distruzione in uno spirito di malinconia e masochismo, come segno che il collasso e la rinascita ringiovanente sono vicini. In altre parole, quello che hanno i tradizionalisti, e manca un nonno scontroso, è un’apocalittica latente.

RD: Chi sono le figure storiche più importanti del tradizionalismo? 

BT: Per capire cosa sta succedendo oggi, devi davvero conoscere tre figure: il patriarca del tradizionalismo era un francese di nome René Guénon (1886-1951) che morì musulmano sufi rispondendo al nome di Abd al-Wāḥid Yaḥyá. Quelli di Guénon erano densi trattati filosofici e religiosi, che condannavano l’individualismo e l’omogeneizzazione della società, ma per il resto evitavano la politica.

Sarebbe un suo seguace, Julius Evola (1898-1974), tentato di forgiare la politica dal tradizionalismo. Evola era uno scrittore e teorico che ha infuso nella scuola razzismo, antisemitismo e sessismo espliciti (il processo di declino sociale, nella sua mente, ha comportato la scomparsa degli ariani puri e la perdita dei valori mascolinisti). Ma pensava anche che il declino non fosse il destino, che l’umanità potesse essere in grado di spingersi indietro nel corso del tempo, e questo ha motivato i suoi tentativi di collaborare con Mussolini e Hitler: entrambi sembravano incarnare una modalità militarista più antica, pensò, e se solo potessero essere impregnati di più vitalità spirituale, potrebbero forgiare autentiche teocrazie ariane e viaggiare a ritroso in un’età dell’oro.

Una terza figura le cui visioni siamo meno palesemente sinistre, ma che nondimeno ha creato un culto avvolto nel sospetto e nello scandalo, è stato un pensatore tedesco / svizzero di nome Frithjof Schuon (1907-1998), che ha seguito il suo mentore Guénon nella conversione al sufismo. La sua pratica e scrittura arrivarono a sostenere più sincretismo rispetto ad altri tradizionalisti, tuttavia, fondendo Islam, Induismo, Cristianesimo e persino spiritualità dei nativi americani, così come credenze più idiosincratiche come la nudità sacra e la propiziazione pseudo-erotica delle figure materne in varie tradizioni religiose. Ma Schuon è noto per l’istituzione che ha fondato, una rete di scuole sufi – o tariqas – che durante gli anni ’70 e ’80 erano geograficamente relativamente diffuse, con il centro che era un complesso nella sua casa adottiva fuori Bloomington, nell’Indiana.

RD: Cosa ha a che fare il cristianesimo con il tradizionalismo? Voglio dire, ci sono “cattolici tradizionalisti”, vale a dire, cattolici che favoriscono la messa in latino e che hanno una visione debole del Concilio Vaticano II, ma non è il genere di cose di cui parliamo con il tradizionalismo, giusto?

BT: No, è generalmente sicuro dire che i due non sono molto più vicini del tradizionalismo e del tradizionalismo small-t, tranne per un avvertimento importante. Tra i tradizionalisti che sono cristiani, praticamente tutti sono ortodossi orientali o cattolici. Parte della giustificazione per trattare il cattolicesimo come legittimo sono i suoi elementi che potrebbero essere visti come precedenti e trascendenti Cristo. Il suo paganesimo, la sua gerarchia, il suo investimento sociale e teologico in precedenza e continuità, ecc.

Un argomento simile è fatto a favore del sufismo, che sebbene il sufismo sia islamico, serviva come veicolo per preservare le virtù arcaiche e pre-islamiche nella società islamizzata e quindi poteva essere usato per intravedere ciò che era una volta.

I problemi con il cristianesimo per alcuni tradizionalisti, così come gli ideologi adiacenti nella nuova destra francese, sono caratteristiche che ritengono costituiscano un’antitesi dei valori che difendono: non la gerarchia ma un universalismo livellante e omogeneizzante comunicato nel dogma che il messaggio di Cristo è il verità ultima e ultima per tutte le persone, la sua teleologia e la visione implicita del progresso incline a trascendere un passato di peccato in un futuro di salvezza, e la sua embrionale riluttanza verso la teocrazia e l’approvazione di uno stato secolare contenuto negli editti di “rendere a Cesare”.

Non sono rimasto sorpreso quando Steve Bannon una volta mi ha detto che, sebbene sia cristiano, non gli piace l’evangelizzazione.

RD: Due figure chiave contemporanee nella tua storia sono Aleksandr Dugin e Olavo de Carvalho. La maggior parte degli americani non ne ha mai sentito parlare. Chi sono e perché sono importanti?

BT: Entrambi sono agenti politici che hanno tentato di plasmare leader politici anti-liberali nei rispettivi paesi, ed entrambi hanno legami con il tradizionalismo.

Aleksandr Dugin è un filosofo / giornalista / diplomatico e un agitatore politico in Russia. Uno dei primi a tradurre Evola in russo e autoproclamato devoto di Guénon, vede l’opposizione del Tradizionalismo tra modernità e Tradizione in termini geopolitici, con l’Occidente e gli Stati Uniti in particolare che rappresentano la modernità e l’Eurasia che preserva la Tradizione. Nonostante non abbia mai ricoperto una posizione formale al Cremlino, ha tentato – in modi a volte pateticamente inefficaci, altre volte di impatto – di portare avanti la sua visione per il contenimento del potere occidentale e la riaffermazione dell’influenza russa, cinese e iraniana nella politica globale. Secondo l’intelligence statunitense, ha contribuito a facilitare i colloqui tra Russia e Turchia dopo che i due sono entrati in conflitto in Siria.

Olavo de Carvalho ha guadagnato influenza in politica solo di recente. Nato a San Paolo, era un eccentrico astrologo / filosofo che insegnava corsi universitari ed è stato iniziato nientemeno che nella tariqa Sufi Islam di Frithjof Schuon a Bloomington e gestiva un satellite a San Paolo negli anni ’80. In seguito è emigrato per diventare un cattolico dalla linea dura e ha rinunciato all’organizzazione di Schuon, anche se ha continuato a scrivere e insegnare su Guénon.

Dopo una carriera come giornalista, un curioso trasferimento negli Stati Uniti all’inizio degli anni 2000 e una fiorente esposizione sui social media grazie alle sue offese piene di volgarità contro politici, personaggi dei media e accademici brasiliani, alla fine ha stretto un legame con Rio il populista Jair Bolsonaro. Quando nel 2018 Bolsonaro ha vinto la presidenza brasiliana, Olavo e il suo seguito enorme sui social media sono stati accreditati come un fattore importante. Bolsonaro gli ha offerto e ha rifiutato l’incarico di Ministro della Pubblica Istruzione, sebbene abbia suggerito chi potrebbe ricoprire alcune posizioni di governo (incluso il ministro degli Esteri Ernesto Araujo che considero un apparentemente tradizionalista, e che Olavo considera un “più tradizionalista di se stesso ”). Oggi mantiene un’influenza intangibile ma potente sul presidente brasiliano come consigliere non ufficiale,e insieme a quei ministri da lui promossi, costituisce oggi una fazione del governo assediato di Bolsonaro.

RD: Come entra in scena Steve Bannon? 

BT: Per quanto ne so, Steve Bannon ha incontrato per la prima volta Aleksandr Dugin nel novembre 2018 e Olavo de Carvalho nel gennaio 2019. Come loro ha avuto un’influenza a volte formale, a volte informale sul suo leader anti-liberale locale, e come loro lui affiliato al tradizionalismo. Non ho mai capito esattamente come Bannon abbia scoperto il tradizionalismo (curiosamente, come Dugin e Olavo, il suo percorso verso la scuola è passato attraverso o vicino a persone legate al mistico armeno George Gurdjieff).

È cresciuto e continua a identificarsi come cattolico, ovviamente, ma sembra che abbia avuto il bisogno di guardare oltre il cattolicesimo standard e in spiritualità alternative sin dalla giovane età: quando aveva vent’anni in Marina, conosceva la strada per la maggior parte delle librerie metafisiche nelle città portuali dove attraccava il suo cacciatorpediniere. Il pensiero religioso che mi ha presentato nelle nostre interviste mi ha colpito come molto più sconcertante ed eccentrico di quello della maggior parte dei cristiani, e così è stato il profilo politico che avrebbe sviluppato in seguito sulla base della sua lettura di Evola e Guénon.

Nel mio libro ripercorro la sua versione del Tradizionalismo, una in cui afferma di aver abbandonato l’investimento di Evola nella razza e nel mascolinismo, mantiene l’ostilità al materialismo e alla modernità e afferma che l’obiettivo finale della sua politica è consentire agli altri di completare un processo di progresso spirituale – come individui e come nazione. Segue ancora la dottrina del ciclo temporale e mi ha persino fatto notare come questa credenza divergesse dal cristianesimo per come la intendeva. Ha tentato di allineare il tradizionalismo con le narrazioni americane dell’auto-fatto-uomo e della mobilità sociale, ma il prodotto e le sue fonti provengono ancora da un mondo che probabilmente sconcerterebbe, forse respingerà o spaventerebbe il tuo repubblicano americano medio.

RD: Una cosa che spicca davvero nel tuo libro è come Bannon abbia davvero tentato di far funzionare un’Internazionale tradizionalista, ma ha fallito. È uscito dalla Casa Bianca e da allora non ha più trovato la sua posizione. Che cosa è andato storto?

BT: Il tradizionalismo in realtà non è una dottrina politica – non delinea un’agenda politica con molta specificità, e una delle conseguenze di ciò è che gli attori politici che affermano di essere affiliati alla scuola divergeranno nella loro comprensione di ciò che dovrebbero difendere . In effetti, le figure più importanti oggi hanno concezioni abbastanza diverse di cosa significhi lottare per la Tradizione e contro la modernità liberale, come ciò dovrebbe manifestarsi nella politica e nella geopolitica, e in particolare come dovrebbero essere intese Cina, Russia e Stati Uniti.

Rivelo nel libro come Bannon incontrò segretamente Dugin sperando di persuaderlo – su basi tradizionaliste – a iniziare ad agitarsi in Russia per una nuova politica estera filo-occidentale e anti-cinese. Dugin era e rimane resistente all’idea. E niente di tutto questo arriva alla questione più profonda, che il tradizionalismo non crede davvero nell’attivismo, nella popolarità e nella vittoria di una competizione politica moderna. Nella misura in cui uno come Bannon cerca di costruire una simpatia di massa per un programma politico sufficiente a conquistare il potere in una democrazia, sta rompendo la dottrina che lo legherebbe a qualcuno come Dugin. Quindi le prospettive sembrano negative all’inizio, anche se si potrebbe dire che questo rende il tentativo ancora più audace e volatile.

RD: Nel quadro tradizionalista, almeno come interpretato da Bannon e Olavo, la virtù risiede nella gente comune, quella esclusa dai circoli e dalle istituzioni d’élite. Dovrebbero essere i depositari dei veri valori spirituali. Quanto è realistico questo, però, anche in termini tradizionalisti? Negli Stati Uniti, la classe operaia è meno religiosamente rispettosa della classe media. Comprendo le critiche trad-populiste alla corruzione spirituale delle élite e ne condivido molte, ma non vedo un terreno solido per questa valorizzazione del Popolo. Mi sembra più un’astrazione ideologica, il modo in cui i bolscevichi strumentalizzarono le “masse” e i nazisti usarono “das Volk”.

BT: Sì, in questi ultimi casi si vede una visione descrittiva o prescrittiva per trattare una parte di una popolazione come definitiva del tutto. Queste popolazioni sono state tipicamente astrazioni e immaginazioni: l’accusa contro i nazionalisti romantici, per non parlare dei nazisti, era che avevano inventato il “popolo” integrale della campagna che popolava le loro storie, i dipinti e le canzoni, proprio come i marxisti si erano allontanati. trovare un proletariato quando una popolazione così ben definita raramente esisteva. La maggior parte dei tradizionalisti originali vedeva invece nell’élite sacerdotale i “creatori di cultura” della società, quelli che dovrebbero plasmare le masse secondo i propri ideali.

Nella versione capovolta di Bannon e Olavo vediamo qualcosa che assomiglia più al nazionalismo romantico standard à la Herder, dove un settore della società ritenuto più isolato dalla corruzione della modernità (spesso rurale, istruzione meno formale, stazionario) era visto come una nave per il senza tempo valori e identità. E la domanda per quei romantici sarebbe la stessa per Bannon, ed è la domanda che poni: su quali basi parli di quelle persone nel loro insieme, e come sei sicuro che possiedono le qualità che pensi che abbiano?

Non cercherò di rispondere a questa domanda per loro, ma dirò che Bannon in particolare probabilmente rifiuterebbe i metodi che usiamo per valutare chi è e chi non è “osservante religioso”. Sostenuto in parte dalle sue letture del Tradizionalismo (il concetto di inversione che ho citato prima), ed esposto nei suoi confronti con la Chiesa cattolica, è pronto a considerare le istituzioni religiose come invalide in questi giorni, come simulazioni di ciò che dovrebbero essere. Non credo che sarebbe molto difficile anticiparlo pensando che i veri “preti” sono nascosti alla religione istituzionalizzata e ai sondaggisti.

RD: Che ruolo giocano i confini nella metafisica tradizionalista di Bannon?

BT: Bannon, come Dugin, pensa ai confini in modo più espansivo della maggior parte delle persone. Sostiene il rafforzamento dei confini nazionali, sì, ma nella sua mente sono assediati confini di ogni genere: confini tra civiltà e identità, nonché confini all’interno delle società che governano il modo in cui le persone si comportano l’una verso l’altra e organizzano le loro vite.

L’assenza di confini è un segno distintivo della modernità, che si riflette, secondo i primi tradizionalisti, nella disintegrazione della gerarchia e nella sua sostituzione con una società di massa e senza confini priva di qualsiasi collettività tra l’individuo e la totalità. Far rivivere i confini di tutti i tipi è un comportamento antimoderno. Significa introdurre l’ordine laddove esisteva in precedenza il caos e segmentare e stabilizzare il mondo. Questo è il filo conduttore che motiva il conservatorismo sociale di Bannon, il suo nazionalismo culturale (alcuni direbbero etno-), il suo non-interventismo, il protezionismo economico e l’opposizione all’immigrazione.

RD: Mi è capitato di leggere il tuo libro contemporaneamente alla storia del modernismo di Modris Eksteins del 1986, Rites of Spring .Eksteins dice che appena prima della prima guerra mondiale, la Germania si considerava la paladina dei veri valori spirituali e la Gran Bretagna (così come la Francia) come esponenti di una civiltà che poneva il primato sul fare soldi e sul materialismo. Sappiamo anche cosa fecero i nazisti con lo stesso concetto generale. Ci sono davvero solidi motivi storici per preoccuparsi di una recrudescenza. Detto questo, la critica che il Team Bannon fa del vuoto della società commerciale e della capacità della modernità di dissolvere le particolarità nazionali e culturali è solida e accattivante. Riuscite a immaginare un modo in cui gli attori politici potrebbero promuovere la parte migliore del tradizionalismo – difendendo le culture locali e nazionali dall’assorbimento nella massa globalista – senza soccombere alle parti malvagie?

BT: Qui mi chiedi di parlare per me stesso piuttosto che per le persone che ho studiato, ma cercherò di lavorare con la domanda: penso che le persone abbiano le migliori possibilità di derivare qualcosa di buono dal tradizionalismo quando lo trattano, non come una guida per l’azione, ma invece come una narrazione per ispirare nuove analisi della società, che in seguito potrebbero funzionare come base per l’azione.

In particolare, mi chiedo se non ci sia posto per riflettere su una catena di corrispondenze che la scuola propone, vale a dire che la comunanza più significativa detenuta dalla sinistra e dalla destra politiche moderne è la loro particolare attenzione all’economia; che il relativo disinteresse per gli aspetti immateriali della vita sociale potrebbe essere alla radice della nostra tacita avversione a consentire alle persone e alle comunità di essere significativamente diverse l’una dall’altra; che l’insistenza nel costruire una comunità basata su visioni di un futuro condiviso piuttosto che su un passato condiviso – che ha così tante virtù ovvie e che è quasi una necessità in paesi come gli Stati Uniti – sottovaluta l’importanza che le narrazioni di una storia comune giocano nel forgiare solidarietà sociale.

Penso che la “malvagità” del tradizionalismo derivi non solo dal contenuto delle gerarchie che a volte propone (razza, genere, ecc.), E non solo dal modo in cui potrebbe incoraggiarci a ignorare o assaporare le difficoltà contemporanee, ma anche perché di ciò che non dice – il fatto che la sua grande narrazione della storia umana e la battaglia del bene e del male lascia così tanto non specificato. Quegli spazi vuoti possono e sono stati riempiti di demagogia. Un modo per evitarlo è non aderire al tradizionalismo come religione, ovviamente, ma consentire alle sue intuizioni occasionali e qualificate di vivere in un più ampio complesso di valori e programmi, compresi quelli che diffama.

RD: Sono stato in corrispondenza con un giornalista nazionale che sta cercando di capire perché alcuni conservatori americani (come me) sono attratti dall’ungherese Viktor Orban. Questo giornalista è un liberale e può vedere Orban solo come un cattivo. Ho cercato di spiegare che le persone come me di certo non approvano tutto ciò che fa Orban, ma vediamo in lui una figura di resistenza a George Soros e ciò che Soros rappresenta. Cioè, Soros è l’epitome di un ricco e influente globalista che crede che le istituzioni e le narrazioni localiste e nazionaliste siano problemi da risolvere. Non mi aspetterei che un liberale occidentale appoggi un politico come Orban, ma dimmi, perché è così difficile per i liberali occidentali capire che politici come Orban fanno appello a profondi desideri nelle persone – perché, come dici tu, “comunità, diversità, [e] sovranità,”Che non può essere ridotto a” razzismo “?

BT: Penso che sia comune temere rappresentazioni complesse di persone che ti minacciano, e la sinistra liberale ha certamente paura di Orban (come lo sono in una certa misura, devo ammettere): la sua trasformazione dei processi elettorali, il suo trattamento dei media , e la sua autoproclamata opposizione alla democrazia liberale, ecc. Non sto dicendo niente di nuovo a te o ai tuoi lettori nel notare come quell’ultimo pezzo in particolare – l’opposizione di Orban alla democrazia liberale – stia squalificando molti commentatori occidentali.

Ma la caratteristica aggiunta qui è che personifica una causa che può apparire in ascesa nella politica globale. Ciò spinge alcuni commentatori a passare dalla semplice critica alla guerra, e quindi al regno del pensiero noi-contro-loro, del bianco e nero, del dire alla gente che sono parte della soluzione o parte del problema. Infangate quelle acque con discorsi di qualifiche, imprevisti e interpretazioni parallele, e – il ragionamento sembra andare – potete anche essere un apologeta del nemico. E quando ti trovi di fronte a un racconto inaspettato o strano di qualcuno come Orban – uno, diciamo, che lo inquadra come una forza di destra per il localismo e la comunità piuttosto che per l’individualismo libertario – e saresti fortunato a essere definito “politicamente incoerente” come Thomas Lo ha detto recentemente Chatterton Williams.Più probabilmente l’istinto sarà quello di accusarti di aver modellato una facciata per oscurare ciò che, presumibilmente, conta di più.

Una parte di me lo considera una strategia politica. In teoria capisco perché qualcuno direbbe che la posta in gioco politica è così alta in questi giorni che potrebbe essere necessaria una tattica di linea per mobilitarsi. Quello che voglio come minimo, tuttavia, è che le persone siano oneste con se stesse se scelgono questa strada. Voglio che riconoscano che dividere il mondo in termini di tutto o niente, adottando e mantenendo strenuamente definizioni uniformi l’una dell’altra e coltivando paura e disprezzo per l’inconsistenza e il non ortodosso costituisce ignoranza autoimposta; una subordinazione dell’indagine e della conoscenza nell’interesse dell’opportunità politica.

RD: Il tradizionalismo ha un futuro politico? Trump è stato inutile nel portare avanti i suoi obiettivi. A mio avviso, per lui non è stato altro che un kitsch performativo. Cosa succederà ai Trad se Trump vincerà un secondo mandato? Se perde?

BT: Penso che le narrazioni tradizionaliste di Trump potrebbero assumere una serie di forme a seconda di ciò che accade. Il valore potenziale di Trump per questi attori risiede nella sua capacità di ribaltare lo status quo; se vince e arriva a rappresentare un nuovo status quo, allora potrebbe presto apparire come un avatar della decadenza modernista che detestano. L’enigma dei tradizionalisti assomiglia a quello del populista anti-establishment standard in questo senso. Ma se perde a novembre, i tradizionalisti potrebbero vedere retrospettivamente la sua ascesa come nient’altro che una pausa momentanea (e profetizzata) nel ciclo del declino, proprio come Mussolini apparve a Julius Evola dopo la seconda guerra mondiale.

Ma come puoi vedere, si tratta principalmente di narrazioni piuttosto che di politiche. Una delle sfide che ho dovuto affrontare nello scrivere il libro è distinguere quando il tradizionalismo funziona come un programma d’azione e quando funziona come una lente per l’interpretazione.

Il suo fatalismo – la sua convinzione che la storia stia seguendo un programma e che ci troviamo a vivere verso la fine di un’età oscura e vicino all’alba di un collasso e di una rinascita – non ha bisogno di stimolare molta azione oltre ad adottare un atteggiamento celebrativo o indifferente di fronte a distruzione e apparente caos. Questo non vuol dire che questi pensatori non possano identificare politiche particolari che incarnano i loro valori più di altri: il rafforzamento dei confini e il restringimento delle sfere politiche è un esempio di tale causa, e le sue prospettive in una battaglia contro tutte le forze di la globalizzazione sembra povera.

Ma i tradizionalisti trovano incoraggiamento anche in posti che non ci aspetteremmo. Bannon era piuttosto eccitato dalla breve candidatura di Marianne Williamson, una candidata alla presidenza democratica spiritualista che ha parlato della necessità di affrontare “forze psichiche oscure”. Sembrava rappresentare una politica dell’immateriale, e se avesse affrontato Trump, non sono sicuro che Bannon si sarebbe preoccupato del risultato, perché avrebbe potuto vedere una vittoria più ampia nell’intero spettro politico essendosi allontanato dal materialismo. .

Ma la tua domanda non riguardava solo i tradizionalisti, ma anche il tradizionalismo. E mi chiedo ancora cosa dica sul nostro presente e futuro. Non sto intrattenendo l’idea che i cicli temporali cosmici e cose simili siano effettivamente in gioco, ma piuttosto che l’ascesa di Bannon, Dugin e Olavo testimonia una più ampia spinta sociale ad allontanarsi dallo status quo sociopolitico. Per ragioni del tutto mondane, le comunità sembrano cercare un cambiamento radicale e questo può mantenere vivo il tradizionalismo come una delle molteplici alternative.

[Il libro di Benjamin Teitelbaum è War For Eternity: Inside Bannon’s Far-Right Circle of Global Power Brokers (Dey Street Books)]

https://www.theamericanconservative.com/dreher/traditionalism-steve-bannon-benjamin-teitelbaum/?fbclid=IwAR2RND-hMgGq4_MeNxM-V0aUzr7U1b3DmzfZ6jhcXTKmewvXfTJlQ7CLESw

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