Tragedie, lieto fine, moralisti e sciacalli_a cura di Giuseppe Germinario

Qui sotto alcune sensate considerazioni, scovate da Antonio de Martini, riguardanti la vicenda a lieto fine del bimbo ritrovato fortunosamente in una scarpata e qualche aneddoto personale.

Ho passato la mia infanzia in Puglia, in caselli ferroviari lontani chilometri da paesi, centri urbani o un pur qualche assembramento di abitazioni. Ricordo benissimo la mia prima fuga da casa, a nemmeno tre anni, mentre mia madre strigliava i panni all’aperto su un lavatoio in pietra (laturu in dialetto). Si accorse della fuga quando ero ad oltre un chilometro, lungolinea, accanto ad una locomotiva in sosta a fare il pieno di acqua. Ricordo ancora l’imponenza del mostro meccanico che sbuffava con la mia testa che non arrivava nemmeno al mozzo della ruota motrice. Mi richiamò gesticolando e prese a correre per raggiungermi. Io reagii scarpinando sino a raggiungere il casello vicino. L’avventura si concluse con mia madre che profittò dell’occasione per fare due chiacchiere con i “vicini di casa” raggiunti poco dopo mentre questi, compresa la situazione, mi intrattenevano. Da allora ho continuato a girare e cambiare dimora per una vita. Mia sorella invece, terzogenita, era invece specializzata sino ai quattro anni a giocare in mezzo ai binari o alla strada prospiciente. In assenza dei genitori, impegnati a lavoro o per incombenze nel paese più vicino a sei chilometri, avevo l’incarico di vigilare, ma senza particolare diligenza. Mi ricordo di una littorina ferma in un paio di occasioni a una decina di metri, con il conduttore che scendeva per spostare la bimba dalle rotaie; in un’altra occasione di una colonna di quattro/cinque automobili bloccate dalla spensieratezza dell’infanta. Cose che capitavano, ma che oggi paiono assurde in un mondo congestionato e ossessionato, dove i bimbi il più delle volte non conoscono la libertà e l’autonomia, ma l’abbandono e il controllo ossessivo. Altri pericoli, altra vita.

PS 1_ I mezzi a noi disponibili all’epoca per cinque persone (non eravamo benestanti, ma nemmeno poveri), erano una Vespa 125, un quadriciclo su rotaia e i treni che rallentavano a passo d’uomo al cenno di mio padre per farci salire in corsa, visto che era proibito fermarsi fuori dalle stazioni ferroviarie._Buona lettura_Giuseppe Germinario

PS 2_A scanso di equivoci e di interventi improvvidi di qualche solerte funzionario dal protagonismo patologico, i responsabili sono purtroppo deceduti da tempo

La posizione più intelligente che io abbia letto fino ad ora sulla vicenda del piccolo Nicola, l’unica lucidità che a parer mio dovremmo mantenere al momento, è quella della giornalista Deborah Dirani.
Ve la incollo qui:
“Nicola è tornato a casa, evviva!
Non è finito in un pozzo come Alfredino 40 anni fa, non è sparito nel nulla come Denise nel 2004. Nessuno lo ha rapito e non lo hanno sbranato i cinghiali.
Ha le ginocchia sbucciate e vuole solo le coccole della sua mamma.
Quando sarà più grande, magari, racconterà alla ragazza su cui vuole fare colpo, portandola a scarpinare tra gli alberi, di quella volta che era uscito di casa e si era perso ma non si era spaventato e poi lo aveva trovato un giornalista della Rai che passava di lì.
Possiamo applaudire tutti, ma tutti, per una volta? Possiamo evitare di insinuare dubbi su tre gocce di sangue e un paio di sandalini che “quando mai un bambino di 21 mesi si mette i sandali da solo? E quando mai la mamma lo mette a letto coi sandali? E quando mai un bambino di manco 2 anni si fa tre chilometri a piedi da solo?”
E quanto si può essere cattivi a sbattere sotto il naso del padre di questo bambino un microfono e chiedergli, col sussiego di una signorina Rottenmeier, “come si spiega che un bambino di 2 anni si sia allontanato da solo? Voi dove eravate?”. Che è una domanda così tanto giudicante e inquisitoria da parte di un cronista (visto che si sapeva già dove erano i genitori: a 10 metri da casa a lavorare, non al Billionaire a ballare sui tavoli sciabolando champagne) che viene pagato per raccontare, non per insinuare, che verrebbe davvero da rispondergli (al cronista) “ero a tromba’ la maiala della tu sorella”.
Perché il punto è che, ancora una volta, i protagonisti (loro malgrado) sono due ragazzi non conformi all’immagine che la società ha stabilito come conveniente per due genitori che possano definirsi “buoni genitori”. Pina e Leonardo hanno scelto di vivere in un modo, in realtà, molto più conforme alla natura dell’essere umano di quanto facciamo noi (me per prima) che ci schiantiamo gli occhi e la schiena per possedere cose di cui non abbiamo bisogno ma alle quali non sappiamo più rinunciare (pena il giudizio sociale che ci fa sentire sfigati), paghiamo rate di macchine sempre più grosse e più inquinanti, più adatte a guadare un fiume che a fare la fila in tangenziale, cacciamo centinaia di euro di mutui trentennali per case in cui ci rinchiudiamo come sardine inscatolate.
Se ci danno un tronco di legno, al massimo, lo buttiamo nel camino: Pina e Leonardo ci costruiscono qualcosa. Se vediamo un’ape fuggiamo terrorizzati: Pina e Leonardo ci fanno il miele.
Un’indagine recente ha dimostrato come molti bambini pensino che l’insalata esista solo in busta e se vedono caspo di lattuga non hanno idea di cosa si trovino davanti al naso.
Pina e Leonardo non hanno fatto male a nessuno, hanno scelto di vivere la loro vita in modo decisamente più etico e sostenibile di tre quarti dell’umanità, me compresa che ho più scarpe di quante ragionevolmente possa indossarne in una vita intera (e, nonostante ne sia più che consapevole ne ho appena puntato un paio nuovo che ha un prezzo che è uno schiaffo alla miseria e che, comunque, mi comprerò).
Pina e Leonardo non sono due genitori incoscienti perché mettono a letto un bambino coi sandalini ai piedi ed escono a lavorare, mangiano e poi si accorgono che quel bambino non è più dove lo avevano lasciato. Non sono due sconsiderati hippye (ammesso che gli hippyes lo fossero) che chissà come crescono i loro “poveri bambini e poi vedi cosa succede”.
Perché non esistono genitori infallibili, a prescindere da quanto siano patinati e consumisti. E quello che è successo a questi due ragazzi che hanno la fortuna di vivere in un posto dove non serve avere paura dell’uomo nero e i bambini, anche per questo, sono più autonomi e indipendenti, poteva capitare a chiunque. Perché basta un attimo perché succeda una tragedia.
Ma questa volta non è successa e, dunque, proviamo solo a essere felici per Pina, Leonardo e Nicola che da grande racconterà ai suoi amici di quella notte nel bosco quando lo hanno cercato anche coi droni e a trovarlo è stato uno che aveva un attacco di panico.”
// La pagina di Deborah Dirani:

MORTE E LIBERTA’_DI Pierluigi Fagan

MORTE E LIBERTA’. Mi si è presentata ieri, plasticamente, la radicalmente differente forma delle società tra quella cinese e quella occidentale. La cosa di per sé non farebbe notizia, ma per un aspetto induce a riflessione. Ieri infatti abbiamo qui da noi contato 993 morti per Covid in un solo giorno, che si sono sommati a gli altri 57.000 cumulati nei nove mesi precedenti. Solo ieri 3000 negli USA per più di 280.000 in totale. Ormai siamo assuefatti a questo monotona contabilità, la diamo per “naturale”, un accidente del destino che tocca sopportare.
Ma la mattina di ieri, mi ero anche letto un reportage dalla Cina dell’inviato di Repubblica F. Santelli, che è anche l’inviato stabile della testata nel Paese di Mezzo. Mi spiace citare un “articolo a pagamento”, ma proverò ad accennarne il contenuto perché dà da pensare. Il giornalista racconta del suo recente rientro in Cina dall’Italia. Tamponato prima di partire, pluritamponato al suo arrivo e comunque obbligato come chiunque entri in Cina ormai da mesi, a 14 giorni di reclusione in un Covid hotel per ultima sicurezza. Purtroppo, però, lì giunge l’esito dei tamponi fatti all’aeroporto: positivo. Fortunatamente asintomatico, si farà 40 giorni di reclusione in 18 mq (foto allegata) in un’altra struttura dedicata, senza luce naturale ed alcun contatto umano (si comunica via smartphone coi medici) in attesa dell’allineamento in negativo di tre tamponi (nasale, faringeo, anale), ripetuti due volte. A quel punto, si torna al Covid hotel e si torna liberi solo dopo altri 14 giorni e tamponi negativi finali, 54 giorni, quasi due mesi e solo perché positivo.
Naturalmente, il reportage fa senso se lo si legge, se si leggono i particolari della fredda reclusione ed i “modi” cinesi, senz’altro efficienti ma decisamente poco caldi e simpatetici. Ma lo stesso giornalista, immaginando un ipotetico dialogo con una autorità cinese, osserva che tutto questo sta da una parte con 4.634 morti su 1,4 miliardi di persone mentre dall’altra, la plurima salvaguardia delle nostre libertà sociali ed individuali (la cui limitazione ci fa per altro molto infuriare), presenta un conto di 58 mila morti su 60 milioni. Altresì, noi viviamo in emergenza permanente, salvo un po’ di allentamento estivo, ormai da mesi, mentre i cinesi dopo più di due mesi di blocco ferreo, ora sono tornati ad un vita normale. Diversi quindi distribuzione, peso e durata dei sacrifici, da una parte a salvare dalla morte, dall’altra a salvare la libertà.
Detto ciò occorre aggiungere due considerazioni. La prima è che le cifre riportate vanno prese a grana grossa. C’è chi obietterà che il computo dei morti da noi è viziato e chi invece sa che le morti sono sottostimate, così come altri, poco inclini alla riflessione, diranno che le morti cinesi sono ampiamente sottostimate. Saranno sicuramente sottostimate ma non cedo di molto per semplici ragioni logico-logistiche-statistiche sulle quali però eviterei un inutile dibattito. Mi spiace aver perso la fede nel dialogo ma dopo mesi di estenuanti discussioni con contatti che pure ritenevo razionali se non intellettualmente coltivati, mi sono reso conto non solo che ad alcuni mancano nozioni basiche ad esempio di statistica e logica elementare, ma ciò che è peggio non hanno nessuna intenzione di acquisirle sebbene uno spenda anche tempo per condividerle per comune spirito di ricerca. Alla fine la sproporzione evidente c’è comunque ed i due diversi “modi” si stagliano con sufficiente chiarezza e contorni precisi.
La seconda considerazione è l’evitare comparazioni con giudizio. Intendo il fatto che “società cinese” o “società occidentale” sono due interi da prender complessivamente e tra loro incommensurabili, il come si è trattata la pandemia dipende da un gran numero di fattori, anche storici, culturali, antropologici oltreché politici ed economici. Quindi, anche ogni “giudizio” su quale dei due modi sia migliore è improprio. Probabilmente un occidentale inorridirebbe sul dispotismo del modo cinese ed un cinese inorridirebbe sull’egoismo individualista occidentale. Marziani non coinvolti in senso valoriale a fare da terzi, non ne abbiamo.
Ad un cinese coinvolto nella “lotta di popolo contro il nemico virale” in cui ognuno si sacrifica per un bene superiore di tipo collettivo, come dice il Ceccarelli, una società in cui migliaia di famiglie ancora dopo nove mesi piangeranno i loro morti addirittura sotto Natale nel mentre altri insorgono perché non liberi di farsi la meritata sciata a Courmayeur o Cortina, sembrerà una società di animali pazzi. Così ad un occidentale, il ferreo e spersonalizzato, kafkiano per certi versi, controllo panoptico delle invisibili autorità cinesi che per salvare la normalità sociale non si fanno scrupolo di sacrificare la normalità individuale.
Poco peso hanno in termini di differenza le considerazioni sul benessere del sistema economico. E’ stata ed è una preoccupazione simile per le autorità dei due sistemi culturali anche se alla riprova dei fatti, il modo cinese che inizialmente qui sembrava scriteriato, si è poi rivelato il più logico dal punto di vista di tecniche gestionali epidemiche. La terapia d’urto che praticamente elimina il virus dalla circolazione nelle reti sociali salvo chiusura ermetica o molto controllata dei confini, si è rivelata la più logica ed efficace rispetto a quella della gestione con convivenza controllata nel lungo periodo, anche dal punto di vista del bilancio economico.
Se dunque ci siamo vietati l’inutile “Barabba o Gesù?” facendo della retorica comunitaria che sogna una società social-confuciana piuttosto che della retorica libertar-individualista che accetta di pagare i suoi prezzi in nome di diverso paradigma, perché scrivere un post? Ce lo dice il giornalista di Repubblica con cui concordo: “ La pandemia è un evento unico, un groviglio di fattori biologici, statistici, sociali, economici, politici e culturali. Sfida le nostre categorie e il nostro senso comune. Poteva essere l’occasione di fare un passo in avanti nella comprensione della complessità, invece mi sembra che, ancora più di prima, abbiamo urgenza di risposte semplici, ricette assolute, responsabili da accusare, immunizzazioni veloci.”
Ecco, questo sì. Penso che alla fine anno, il prezzo complessivo dell’evento che si conta in morti, debilitati di medio-lungo periodo, disoccupati, nuovi poveri, imprese fallite o seriamente compromesse, vari problemi psichici ed un lungo disagio personale e collettivo diffuso, andrà pesato e valutato se invitabile o diversamente gestibile. Ma tale riflessione abbisognerà di una mentalità in grado di tenere assieme quel “groviglio di fattori” perché sprecheremmo il prezzo pagato se continuassimo ora ad evidenziare un punto, ora l’altro in un infinito girotondo delle opinioni, alcune anche immotivatamente urlate in stato di evidente disagio psico-cognitivo. Se è vero che “ciò che non ti uccide, ti rende più forte”, se cioè l’esperienza, spesso soprattutto quella negativa, è severa maestra di cose che ignoravamo, occorrerà una posata riflessione, prima ancora che sul cosa abbiamo fatto e come l’abbiamo fatto, sulla nostra capacità di assumere quel “groviglio di fattori” che compongono ogni problema complesso.
Converrà farlo perché la nostra era sarà connotata da un gran numero di problemi fatti di “grovigli di fattori” e se di tali problemi vogliamo darci comune condivisione per poi dibatterli e deciderne le possibili soluzioni, sarà il caso di porci prima il problema di “adeguamento delle nostra mentalità alle cose”. Se le cose sono complesse, la nostra mentalità ha parecchio lavoro da fare.