IL FUTILE PARAVENTO DELLA “PIATTAFORMA ROUSSEAU” OVVERO DELL’ETERNO RITORNO DELL’UGUALE, di Emilio Ricciardi

IL FUTILE PARAVENTO DELLA “PIATTAFORMA ROUSSEAU” OVVERO DELL’ETERNO RITORNO DELL’UGUALE.

A seguito del suo intervento del 6 settembre 2019 (d’ora innanzi “Intervento”) intitolato “Colpo di extrastato”, in cui Massimo Morigi attribuisce a questo sintagma dignità di categoria teorica atta a cogliere la presunta epocale novità rappresentata dal voto elettronico espresso mediante la Piattaforma Rousseau dagli iscritti (a ciò legittimati) del Movimento 5 Stelle in relazione alla recente formazione dell’attuale governo, lo stesso autore è tornato sulla questione una prima volta il 9 settembre 2019 per approntare una replica (d’ora in poi “Replica”) ad un mio commento (in appresso “Commento”) al suo Intervento e, ancora, il 14 settembre 2019, per operare ulteriori annotazioni, che tuttavia non aggiungono alcunché di sostanziale alla completa esposizione della propria tesi, difatti già compiuta nei suoi primi due testi.

Quindi, seppure non vada trascurato di soffermarsi sui passaggi pertinenti dell’ultimo dei tre testi citati, è prevalentemente sui primi due, ma con attenzione ancor maggiore sulla Replica (di cui ringrazio Morigi per il tempo e la cura ad essa dedicati), che conviene incentrare le presenti mie considerazioni. Anticipo comunque sin d’ora che la Replica (ed a maggior ragione anche l’ultimo scritto) non è stata in grado di convincermi sull’asserita utilità e consistenza concettuale della categoria di “colpo di extrastato”. E ciò per i seguenti motivi.

0. Occorre prendere le mosse dalla constatazione secondo cui Morigi finisce per darmi ragione quando nella Replica afferma che “Il vero punto è […] non tanto la più o meno esibita trasparenza dei partiti” giacché, aggiunge, “se i partiti fossero trasparenti svanirebbero come la neve al sole dalla notte al mattino”.

Difatti, il nucleo fondamentale della critica all’Intervento espressa nel mio Commento era così compendiato: “nell’economia del testo di Morigi, il riferimento alla scarsa trasparenza di procedura ed esito del sondaggio svolto sulla piattaforma telematica dei 5 stelle, appa[re] tutto sommato superfluo, come del resto in buona sostanza sottolineato dallo stesso suo autore. Anche perché, se si continua a rimarcare la scarsa trasparenza di questa operazione, dolendosene, si corre il rischio di accreditare implicitamente l’idea secondo cui finora i processi decisionali interni ai partiti politici (che, è bene ricordarlo, sono semplici associazioni private non riconosciute) si siano svolti all’insegna delle più luminose democrazia ed, appunto, trasparenza. Il che sarebbe, com’è ovvio, balla colossale oltreché offensiva dell’intelligenza quanto meno del lettore abituale di queste pagine”.

Sulla mancanza di “trasparenza” quale fattore ampiamente noto e preesistente nelle teoria e prassi politiche (italiane e straniere, passate ed attuali), dunque, nulla quaestio[1].

  1. La dimensione fortemente problematica della concezione di Morigi, piuttosto, comincia a far esplicitamente capolino nella Replica allorché in questa si soggiunge: “Il vero punto è, come rileva anche Ricciardi ma come stranamente Ricciardi sembra non attribuirmi una piena consapevolezza in merito, […] che questi partiti, un tempo tanto importanti e la cui esistenza veniva espressamente citata anche in Costituzione, oggi non sono più lo snodo principale del conflitto strategico che si svolge all’interno delle élite politiche nazionali impegnate nella lotta per la conquista del potere”.

Senonché, basta leggere il mio Commento per avvedersi che nemmeno mi pongo il quesito in merito alla piena consapevolezza o meno di Morigi circa la pretesa novità rappresentata dalla sopraggiunta perdita d’importanza dei partiti politici.

E non me lo pongo perché già Morigi nel suo Intervento aveva in buona sostanza negato che questa fosse una novità, sostenendo ciò che ha poi confermato nella Replica (come segnalato sopra al paragrafo 0), ossia che “il punto importante per dare corpo alla categoria ‘colpo di extrastato’ non è tanto il fatto che la piattaforma Rousseau è tutto tranne che trasparente (in passato la <democrazia> dei partiti era nascostamente pesantemente guidata, quando questa etero direzione non era addirittura teorizzata, vedi centralismo democratico del vecchio PCI; e le lobby che da sempre manovrano le decisioni dei parlamenti delle moderne democrazie sono forse il fenomeno più studiato dall’attuale scienza politica, fino ad arrivare alla <postdemocrazia> teorizzata da Colin Crouch)”.

È indubbio, difatti, che sostenere che “in passato la <democrazia> dei partiti era nascostamente pesantemente guidata” e dunque assoggettata ad una “etero direzione”, equivalga a sostenere che i partiti non sono mai stati, non solo oggi ma anche in passato, “lo snodo principale del conflitto strategico”.

Di conseguenza, perché nel mio Commento avrei dovuto anche solo evocare o lambire la questione del se Morigi fosse pienamente consapevole o meno della sopraggiunta perdita d’importanza dei partiti, quando egli stesso nel suo Intervento ha mostrato di ritenere che pure nel passato i partiti erano etero diretti e che, quindi, nulla, sul punto, è davvero sopraggiunto?[2]

  1. Semmai, rilevo in Morigi una contraddizione (non la prima, per vero, e comunque generatrice di un’impasse che egli ha tentato di eludere in un modo che esaminerò nel successivo intero paragrafo 4) tra, da un lato, il riconoscimento della etero direzione e nulla trasparenza caratterizzanti da sempre i partiti politici e, dall’altro lato, l’asserzione circa la novità costituita dalla totale intrinseca mancanza di trasparenza nel Movimento 5 Stelle.

Peraltro, mentre tale asserzione è contenuta, per lo meno esplicitamente (spiegherò i motivi di questa puntualizzazione nel successivo sottoparagrafo 3.1.), nella sola Replica, quel riconoscimento è stato operato sin da subito nell’Intervento (e di poi ribadito nella Replica).

Il fulcro dell’Intervento, in effetti, voleva essere esplicitamente altro rispetto all’opinione inerente la mancanza di trasparenza della piattaforma Rousseau: “il punto fondamentale è un altro, ed è cioè che tutti, dalla pubblica opinione, alle massime cariche istituzionali, per dare vita ad un governo hanno aspettato senza fiatare una esplicita e chiara decisione di un corpo, ma un corpo che non è previsto né in Costituzione né in alcuna prassi politica sviluppatasi sotto il mantello costituzionale”.

Quest’ultima proposizione è poi ripresa, onde ribadirne la correttezza, nel testo del 14 settembre 2019, laddove si ripete essere la Piattaforma Rousseau un corpo politico-decisionale del tutto estraneo e prevalente al testo e alla prassi costituzionali”.

Senonché, una volta riconosciute, come si è visto aver fatto Morigi, la mancanza di trasparenza ed anzi la totale etero direzione caratterizzanti l’azione (anche) dei vecchi partiti politici, deriva necessariamente che anche tale azione si ponga contro ed al di fuori della Costituzione, atteso che l’art. 49 di questa esige il “metodo democratico” di essa azione (laddove mancanza di trasparenza ed etero direzione risultano invece evidentemente incompatibili con detto metodo).

E deriva altresì’ necessariamente che è contraddittorio affermare che un’azione politica di tal fatta si sia sviluppata “sotto il mantello costituzionale”, perché una prassi politica priva di trasparenza ed etero diretta e quindi lesiva del “metodo democratico” dettato dalla Costituzione non può, per definizione, trovare legittimazione (ossia “copertura”, quale ”mantello giuridico”) in questa stessa Costituzione.

Pertanto, se si sostiene che la Piattaforma Rousseau (recte: l’insieme degli iscritti al Movimento 5 Stelle legittimati al voto elettronico mediante utilizzo di questo dispositivo telematico) è “corpo che non è previsto né in Costituzione né in alcuna prassi politica sviluppatasi sotto il mantello costituzionale”, ed insomma “del tutto estraneo e prevalente al testo e alla prassi costituzionali”, allora si deve pure logicamente concludere che anche i vecchi partiti politici partecipano delle medesime caratteristiche che dunque non potrebbero non definirsi eversive.

Ciononostante, in costanza dell’esistenza dei vecchi partiti sia la “pubblica opinione, [sia] le massime cariche istituzionali, per dare vita ad un governo” aspettavano normalmente “senza fiatare una esplicita e chiara decisione” di organi decisionali di partiti che pure, per quanto rilevato, agivano in sostanziale spregio di quel “metodo democratico” prescritto dall’art. 49 della Costituzione.

Di conseguenza, la disamina svolta sino a questo punto delle considerazioni di Morigi sembra consentire di affermare che con la Piattaforma Rousseau non si è attuato alcun “colpo di extrastato”, in quanto asserita nuova forma della prassi politica rispetto a quella invalsa nella precedente fase storica.

Occorre ora, giunti a questo tratto del discorso che si sta conducendo, soffermarsi sull’ultimo argomento addotto da Morigi a favore della propria tesi.

  1. Prima devo tuttavia rendere una spiegazione, che mi consente anche di affrontare alcune affermazioni svolte da Morigi nel già menzionato suo testo del 14 settembre 2019.

In particolare, più sopra ho accennato alla circostanza per cui soltanto nella Replica viene sottolineata e stigmatizzata espressamente la mancanza di trasparenza del processo decisionale elettronico del Movimento 5 Stelle. Mi riferisco, precisamente, al seguente passaggio: “è la prima volta che si riconosce […] come fondamentale e fondante per la decisione politica […] una sorta di accrocchio tecnologico informatico dove la <trasparenza> non è che venga conculcata come nei vecchi partiti classici (ma ricordiamoci l’adagio <l’ipocrisia è il tributo che il vizio paga alla virtù>) ma è un concetto totalmente alieno proprio per il processo tecnologico e verificabile solo da esperti informatici nell’emissione dei suoi responsi”.

Ebbene, a parte il fatto che, sul piano degli effetti, sfugge la reale e sostanziale differenza tra conculcamento della trasparenza nei vecchi partiti politici ed eliminazione di essa già sul piano concettuale a causa dell’applicazione delle tecnologie informatiche al procedimento elettorale interno al partito de quo.

Ma soprattutto, ciò che preme rimarcare è che anche il procedimento elettorale incentrato sulla segretezza del voto cartolare risulta intrinsecamente privo di trasparenza, se per questa si intenda, come devesi e pur semplificando, l’insieme degli accorgimenti che garantiscono la certezza, per i votanti, dell’autenticità del voto espresso e del suo conteggio fino alla pubblicazione dei risultati. Difatti, è difficile negare che, se è vero che l’elettore che esprime un voto segreto conosce il dato (il suo voto) che così è immesso nel meccanismo ed il dato (aggregato) che ne è emesso, ossia il risultato elettorale, non ha invece modo di verificare l’iter che ha compiuto quel dato dal momento della sua immissione fino alla sua confluenza nel dato complessivo, o quantomeno non può avere la certezza di quale sia stato tale iter. Proprio perché nessuno potrà mai dargli la garanzia assoluta, nemmeno assistendo allo scrutinio, che nella fase di quest’ultimo il documento su cui ha apposto il suo voto sia davvero oggetto di conteggio, e di un conteggio corretto.

A ciò si aggiunga la difficile se non impossibile verificabilità della correttezza delle operazioni di conteggio del voto cartolare, e ciò a causa dell’effetto combinato dell’elevato numero di votanti (come sovente accade nelle elezioni politiche nazionali della stragrande maggioranza dei paesi a democrazia rappresentativa) e dell’esistenza di particolari regole costituzionali che devolvono la giurisdizione esclusiva inerente la contestazioni elettorali ai medesimi organi elettivi, con la conseguente assai ridotta capacità operativa di procedere ad un controllo di decine di milioni di schede elettorali in tempi fisiologici e ragionevoli, ossia tali da scongiurare un’eccessivamente prolungata incertezza riguardo la reale legittimazione popolare degli eletti[3].

Insomma, se trasparenza non c’è nel voto elettronico, con la connessa difficoltosa verificabilità della genuinità della relativa procedura, lo stesso deve dirsi per il voto cartaceo.

3.1.   Quest’ultima sottolineatura ben introduce la disamina della seguente affermazione contenuta nel testo di Morigi del 14 settembre 2019, in quanto anch’essa incentrata, come mostrerò più oltre, e sebbene Morigi non lo dichiari in modo esplicito, sul concetto di trasparenza (e con ciò giustifico l’individuazione, dianzi operata, di un legame fra essa affermazione e la critica, già analizzata, alla mancanza di trasparenza della Piattaforma Rousseau svolta nella Replica): una “procedura di voto elettronica, corretta o truffaldina che sia, designa chiaramente una costituzione materiale dello Stato che non ha assolutamente nulla a che fare con la precedente dove la scelta e selezione dei decisori alfa-strategici da parte dei decisori omega-strategici avveniva  – almeno a livello politico –  attraverso una procedura non elettronica ma semplicemente cartacea (con tutti i brogli che questa comportava, ma almeno per quanto riguarda il punto 2 questo è un elemento del tutto secondario)”.

Qui Morigi non motiva espressamente l’implicito favore che sembra accordare al voto cartaceo rispetto a quello elettronico. Ed insomma non si perita di precisare in che modo e perché la procedura elettorale elettronica determinerebbe addirittura uno stravolgimento radicale della costituzione materiale dello Stato rispetto a quella vigente in costanza dell’omologa cartacea. Nondimeno, sembra di poter capire che, secondo Morigi, la presenza di schede elettorali cartacee, pur non eliminando il rischio di brogli elettorali, consentirebbe comunque di verificarne la perpetrazione, ciò che, invece, il voto elettronico non permetterebbe di fare. In altri e più concisi termini: per Morigi sarebbe la trasparenza, sub specie verificabilità di eventuali brogli elettorali, il tratto che differenzia il voto cartaceo da quello elettronico (dunque non trasparente, come quello della Piattaforma Rousseau, secondo quanto asserito, esplicitamente, nella Replica).

Tuttavia, così in thesi argomentando, Morigi trascura che, come illustrato più sopra, anche la procedura elettorale cartacea con voto segreto, soprattutto nella fase dello scrutinio (ma anche in quella della trasmissione centralizzata) dei voti, e quando si attua in paesi con decine di milioni di votanti, non può mai né garantire al votante certezza circa la correttezza delle operazioni né rendere possibile un controllo completo dell’intera procedura medesima, tanto meno in tempi tali da essere compatibili con l’esigenza dell’opinione pubblica di avere risposte celeri in merito all’esistenza o meno di una legittimazione democratica degli eletti.

Certo, nel voto elettronico la verificabilità dei brogli è più difficoltosa di quanto lo sia con il voto cartaceo, ma si tratta di una differenza di ordine quantitativo, ossia attinente al maggior rischio di brogli (perché minore è la possibilità di verificarli) che il primo esibisce, non già di una differenza di ordine qualitativo, idonea cioè, come invece sostiene Morigi, ad incidere addirittura, sfigurandola irreversibilmente, sulla “costituzione materiale dello Stato”.

3.2.   Eppure anche in altro passaggio del suo testo del 14 settembre 2019, Morigi esprime il convincimento che “è del tutto assurdo dire che una costituzione materiale e una forma di Stato che ha avuto la sua nascita in una  passata epoca tecnologica è la stessa costituzione materiale e forma di Stato dei tempi di Internet”, e lo fa in base all’assunto, introdotto immediatamente prima, “che nelle vicende sociali e politiche i cambiamenti ed i mutamenti non appartenenti stricto sensu all’ambito politico e sociale agiscono su quest’ambito non solo additivamente ma anche qualitativamente”.

Senonché, il nesso causale che con tale assunto viene delineato su un piano generale risulta da una petizione di principio, enunciato e non dimostrato, ed allo stesso modo anche il nesso causale specifico, quello in virtù del quale la scoperta ed uso di internet non può non avere determinato un cambiamento della “costituzione materiale e forma di Stato”, risulta meccanico e proclamato in modo apodittico. Al punto da giungersi financo ad una concezione feticistica dell’innovazione tecnologica, quale potenza che plasma e trasforma la struttura e l’essenza dei rapporti poltico e sociali, a loro volta puri elementi passivi, inerti e direi neutri, che subiscono l’azione demonica ed incandescente della prima.

Per contro, non è affatto scontato che un elemento nuovo, nato in un ambito diverso dalle dimensioni politica e sociale in senso stretto, una volta trasmigrato in quest’ultime in virtù dell’uso che di esso elemento è fatto, debba divenire il fattore che trasforma la conformazione essenziale delle predette dimensioni qual era stata sino a quel momento. Insomma, può ammettersi perfettamente l’ipotesi che l’elemento sia immesso nel sistema esterno (a quello della sua genesi) e da esso assorbito senza subire, il sistema recettore, alcuna trasformazione o comunque modificazione rilevante.

  1. Terminata così la digressione resasi però necessaria per discutere le due soprariferite affermazioni contenute nel testo di Morigi del 14 settembre 2019. è possibile finalmente affrontare, come già avevo anticipato, l’ultimo argomento, stavolta svolto nella Replica del 9 settembre 2019.

In particolare, in quest’ultima viene introdotto ex novo un tema che non era stato oggetto del benché minimo accenno, nemmeno implicito, nell’Intervento: l’importanza dell’illusione.

Così al riguardo si afferma: “Ma il vero snodo, lo ripeto, della categoria di <colpo di extrastato>, non è tanto la trasparenza o l’opacità dei processi decisionali è che nella pubblica opinione, nella pubblicistica politica per finire con la scienza politica la caduta da parte di tutti dell’illusione della trasparenza nei processi decisionali non viene segnalata”.

Ebbene, qui si ha l’impressione che Morigi sia stato costretto a ricorrere all’ulteriore argomento basato sull’assunto circa la passata esistenza dell’illusione della trasparenza dell’azione dei partiti politici, al fine di aggirare la difficoltà logica di continuare a sostenere il carattere di novità epocale della Piattaforma Rousseau in quanto enigmatica ed impersonale entità telematica non controllabile se non “da esperti informatici[4], ed allo stesso tempo nondimeno riconoscere che anche nei vecchi partiti politici la trasparenza era completamente assente.

Nella Replica si sostiene, difatti, che non già la mancanza di trasparenza dei e nei partiti politici segna la novità della presente epoca del presunto “colpo di extrastato” rispetto all’epoca precedente, bensì la caduta dell’illusione della trasparenza, in passato invece esistente.

È necessario, quindi, indagare motivi e legittimità dell’asserzione che attribuisce decisiva rilevanza a questa illusione.

4.1.   Al riguardo, nella Replica si indicano due esempi per tentare di dimostrare l’importanza delle illusioni nutrite circa l’esistenza della trasparenza dei processi decisionali dei partiti politici.

Il primo esempio attinge al rapporto tra la Chiesa cattolica e la Democrazia Cristiana, affermandosi che “la Chiesa esplicitamente non ha mai fatto trapelare una esplicita e pubblica decisione a favore di questo o quel governo ma si limitava, in ottemperanza del suo alto magistero religioso e morale, a vietare ai cattolici, pena l’inferno, di votare per quei partiti che erano a suo giudizio l’espressione politica del cancro dell’ateismo e dell’irreligiosità”.

Vero; ma in questo caso non vedo dove e come avrebbe agito l’illusione sull’esistenza della trasparenza nelle decisioni della Democrazia Cristiana, atteso che all’epoca per qualsiasi osservatore ed elettore minimamente attrezzati era chiaro e palese il penetrante condizionamento vero e reale esercitato costantemente dalla Chiesa cattolica sulla prima.

Il secondo esempio riguarda più nello specifico la trasparenza dei partiti ed anche su questo punto il ragionamento fa leva sull’importanza delle false rappresentazioni, o meglio la concreta modalità di come queste possono essere rappresentate. Nei vecchi partiti per arrivare ad un decisione e/o prevalere nello scontro politico venivano messe in atto le più ignobili manovre ma se queste manovre non avevano in concreto nulla di democratico e trasparente avevano un grande pregio. Queste manovre erano condotte da uomini in carne ed ossa e chi avesse voluto vedere un po’ più a fondo avendone la formazione e l’intelligenza riusciva a mettere a fuoco, molto chiaramente e con tanto di nomi e cognomi, i volti di questi manovratori”.

Ma è proprio il contenuto del testé riportato secondo esempio a dirci in maniera inequivocabile come anche in questo caso non siano all’opera “false rappresentazioni” in ordine alla trasparenza. Difatti, posto che era nelle manovre oscure interne ai partiti che si sostanziava la mancanza di democrazia e trasparenza; e posto che, nonostante il carattere nascosto e letteralmente osceno di tali manovre, si “riusciva a mettere a fuoco, molto chiaramente e con tanto di nomi e cognomi, i volti di questi manovratori”; allora ne consegue che era possibile vedere chiaramente la vera realtà delle lotta politica interna ai partiti, senza farsi irretire, appunto, da alcuna illusione.

Peraltro, l’affermazione secondo cui sarebbero state sufficienti volontà e capacità intellettuali per lacerare il velo dell’apparenza ed identificare addirittura gli oscuri “manovratori” delle decisioni dei partiti politici, mi pare pecchi di ottimismo se non di una sorta di onnipotenza del pensiero. Si considerino, difatti, a confutazione e comunque forte ridimensionamento della portata della soprarichiamata affermazione, tutti quegl’importanti e gravi accadimenti della nostra vita politica nazionale i quali, seppure ascritti (in tutto o in parte) alle decisioni manifeste dei partiti politici, non è stato possibile ricondurre ai responsabili ultimi “con tanto di nomi e cognomi”. Laddove, in quei pochi casi in cui ciò si è verificato, lo è stato comunque a distanza di decenni, ed il più delle volte a seguito dell’emersione di circostanze e documenti, avvenuta di rado casualmente, più spesso deliberatamente, in vista del perseguimento, in quest’ultima evenienza, di scopi ulteriori poiché funzionali a nuove strategie, naturalmente ignote alla generalità della popolazione nel momento del loro dipanarsi in atto.

In definitiva, i due esempi riportati nella Replica non mi paiono così calzanti e persuasivi.

4.2.   Però nel contesto dell’esposizione del primo esempio è operato un fugace accenno al ruolo delle illusioni in generale, il quale sembra poter fornire qualche indizio utile per capire la funzione che gioca questo elemento nell’impianto argomentativo di Morigi.

Precisamente, si afferma che “in politica, come nel resto di tutte le altre faccende della vita, le illusioni contano e quando queste cadono non si può far finta di nulla pensando che siccome si trattava di illusioni la loro scomparsa conta meno di nulla e non vale nemmeno la pena di segnalarle e di cercare di elaborare un pensiero non banale a proposito”.

Ora, affermare che “le illusioni contano”, in questo contesto discorsivo, sembra voler significare che le illusioni non sono nulla, e che producono effetti reali. Se questa mia interpretazione è corretta, allora deve dirsi che tali effetti saranno pure reali, ma i pensieri e le azioni inclusi nella cerchia di tali effetti saranno irrimediabilmente inficiati dall’esser derivati da una percezione errata (qual è appunto l’illusione) della realtà vera, e dunque, in definitiva, da erroneità e falsità.

Se poi si traslano queste considerazioni generali nell’ambito del discorso che si stava conducendo, ne viene che l’asserito diffuso convincimento, presente nella precedente epoca storico-politica, circa la trasparenza delle decisioni dei partiti politici era un’illusione e, in quanto tale, un falso convincimento.

Libero, quindi, Morigi, naturalmente, di elaborare “un pensiero non banale” sulla suddetta illusione (e sulla sua presunta caduta). Ma mi permetto di osservare che se il pensiero vuole conoscere la realtà e le determinazioni vere di una presunta nuova era politica e le sue differenze rispetto alla precedente (e non v’è dubbio che Morigi voglia applicarsi alla produzione di un pensiero di tal fatta), non può accontentarsi fermandosi alla considerazione delle false rappresentazioni che sulle corrispondenti epoche storiche si sono formate, assumendole quali dati di realtà di ultima istanza. E non può perché in questo modo non sarebbe in grado di nemmeno tentare di conseguire quello scopo prefissosi (ossia l’acquisizione della conoscenza delle vere determinazioni di una nuova epoca politica).

Di conseguenza, e per tornare specificamente al discorso centrale di questo scritto, può affermarsi ciò: posto che la totale mancanza di trasparenza dei processi decisionali dei partiti politici e dunque la loro etero direzione sono dati caratterizzanti sia la precedente sia l’attuale fase storica, ne discende che l’utilizzo della piattaforma Rousseau non integra alcuna novità inerente i predetti processi, con il corollario per cui il ricorso alla nozione di “colpo di extrastato”, per qualificare tale utilizzo ed evidenziare così tale presunta novità, non pare rivestire utilità teorica. Anzi, ribadisco che, a mio avviso, il convogliamento delle energie intellettuali individuali e collettive nell’elaborazione di tale nozione può essere financo dannoso poiché rischia di distogliere l’attenzione dal tentativo di cogliere le vere configurazioni dei processi politici reali.

  1. Vergo, infine, due ordine di notazioni inerenti il seguente, in parte già riportato, passaggio: “nella pubblica opinione, nella pubblicistica politica per finire con la scienza politica la caduta da parte di tutti dell’illusione della trasparenza nei processi decisionali non viene segnalata e non segnalando la caduta di quest’illusione non si riesce a vedere un fatto di primaria importanza: e cioè che si riconosce piena titolarità politica e decisionale a corpi del tutto inediti ed extracostituzionali”.

Il primo ordine di notazioni si risolve in un unico rilievo di natura logica. In particolare, se si assume essere intervenuta “la caduta da parte di tutti dell’illusione della trasparenza nei processi decisionali”, vuol dire che questi “tutti”, ossia i soggetti portatori di tale illusione, sono consapevoli della caduta di questa, del suo venir meno. Difatti, una volta svanita una determinata illusione, i soggetti di essa si avvedono di ciò che era stata, proprio perché, essa svanendo, non ne sono più irretiti e la possono riconoscere in quanto tale. Di conseguenza, non può porsi un problema di mancata evidenziazione da parte delle “pubblica opinione”, “pubblicistica politica” e “scienza politica” della caduta, del dileguarsi di questa illusione, proprio perché il suo svanire ha segnalato ciò che essa stessa era ai soggetti che ne risultavano avvolti.

Il secondo ordine di notazioni è di natura fattuale. Contrariamente a quanto si sostiene nella Replica, esponenti di quelle istanze e discipline dianzi menzionate, ossia la pubblica opinione nonché la pubblicistica e la scienza politiche, hanno, in occasione della nota recente consultazione telematica, levato dolenti e pensosi ammonimenti di fronte al presunto nuovo ed esiziale pericolo generato dall’asserita inaudita anomalia extracostituzionale della piattaforma Rousseau[5].

D’altronde, questi ammaestramenti vanno ad alimentare una serqua di allarmi rivolti ormai da tempo sullo stesso tema da molte voci della stampa[6]. Cosicché la Piattaforma Rousseau finisce per essere ormai largamente additata, segnalata e riconosciuta all’opinione pubblica come la scatola nera che inghiotte le velleità di democrazia diretta sbandierate dai suoi fautori. È dunque la mancanza di trasparenza che si rivela in modo trasparente. O, riprendendo il titolo di questo scritto, l’innocuo paravento che tenta senza esito di mascherare l’ampiamente consolidata realtà di forze che agiscono dietro le formazioni politiche operanti sulla scena.

Peraltro, gli argomenti adoperati dai menzionati critici della recente votazione elettronica in questione esibiscono tutti quale sfondo comune la salda fede nella democrazia rappresentativa, architrave della legalità costituzionale ed anzi eterna garanzia di trasparenza messa a repentaglio da quell’inedita procedura decisionale telematica.

Ecco, il tenore di tali argomenti, ma anche la biografia pubblica dei personaggi che se ne sono resi fautori, mi pare comprovino ampiamente la fondatezza di quanto da me paventato nel Commento riguardo al rischio (che investe anzitutto il piano culturale e della consapevolezza) generato dalla concentrazione dell’analisi politica sulla ritenuta novità rappresentata dal carattere malefico ed oscuramente extracostituzionale della piattaforma Rousseau: si finisce per accreditare l’idea che questo dispositivo abbia infranto il preesistente paradiso terrestre della trasparente democrazia rappresentativa incentrata armonicamente sui partiti politici in quanto operanti con “metodo democratico”.

Idea falsa e risibile, naturalmente[7].

Ma su ciò Morigi suppongo convenga senza riserve.

 

 

[1]   Semmai sollevo un rilievo, anche se non essenziale e quindi da collocarsi non nel testo ma appunto in questa nota, il quale mira ad evidenziare una perplessità riguardo il “consiglio” di Morigi di non “avventurarsi a cuor leggero in merito alla natura più o meno privata dei partiti, i quali nella nostra Costituzione vengono citati anche se poi riguardo al loro <dover essere> ci si limita ad una vacua retorica democratica che dice tutto e il contrario di tutto”. Difatti, quale che possa essere stato lo spirito con cui nel Commento mi sono accostato (non già avventurato) a siffatto tema, e dunque se con colpevole spensieratezza (come pare ritenere Morigi) oppure con animo gravido di timore e tremore, il dato certo ed incontestabile è che la natura giuridica dei partiti politici nell’ordinamento italiano è, come segnalavo, quella di “semplici associazioni private non riconosciute”. Ed è dato la cui solidità non viene scalfita di un ette dall’accenno ai partiti che opera la Costituzione, rientrando, tale accenno, nel novero delle tanto belle quanto vacue dichiarazioni di principio o programmatiche di cui è infarcita la Carta, secondo quanto, del resto, riconosce lo stesso Morigi. Ma allora poco si comprende la congruenza di uno schema argomentativo che contempla, in un primo momento, a ritenuto sostegno della propria tesi, il richiamo alla rilevanza di un elemento che io avrei omesso di considerare (e cioè il riferimento costituzionale ai partiti politici) e, subito dopo, la radicale squalificazione dell’elemento medesimo. Non è la prima volta, peraltro, che Morigi indulge ad una simile modalità argomentativa di stampo palinodico.

[2]   Tant’è che di questo, del fatto cioè che nell’Intervento la c.d. assenza di trasparenza nei partiti non è presentata in realtà come una novità e quindi non fa problema, ho dato puntualmente atto nel mio Commento: “nell’economia del testo di Morigi, il riferimento alla scarsa trasparenza di procedura ed esito del sondaggio svolto sulla piattaforma telematica dei 5 stelle, appa[re] tutto sommato superfluo, come del resto in buona sostanza sottolineato dallo stesso suo autore.

[3]   A questo proposito, la vicenda delle elezioni politiche nazionali italiane del 2006 è paradigmatica. Esse videro la vittoria della coalizione di centrosinistra, ma con un esiguo scarto di voti alla Camera dei Deputati. La coalizione avversaria chiese allora inizialmente di procedere al riconteggio di tutte le schede elettorali, per poi accettare, a seguito di un accordo politico, di contare solo le schede del 10% dei seggi (https://www.repubblica.it/2006/12/sezioni/politica/polemica-schede/riconteggio-totale/riconteggio-totale.html). La Giunta per le elezioni, tuttavia  unico organo munito di giurisdizione al riguardo ai sensi dell’art. 66 della Costituzione, riuscì a ricontare soltanto le schede relative a 180 seggi, di contro ai programmati 6000 seggi, ossia l’equivalente del suddetto 10%, e calcolò che per ricontare il totale ci sarebbero voluti due mandati addizionali di 5 anni (traggo questi dati da http://paduaresearch.cab.unipd.it/6293/1/carlotto_paolo_tesi.pdf).

[4]   D’altronde, va pure di molto stemperata l’enfasi sulla presunta natura “malefica” di questa “sorta di accrocchio tecnologico informatico” dispensatore di “responsi” ordalici. Difatti, in base allo statuto del Movimento 5 Stelle, la devoluzione alla “consultazione in Rete degli iscritti” dell’assunzione della generalità delle decisioni politiche del Movimento stesso, tra cui è rientrata infatti anche quella riguardante la costituzione del nuovo attuale governo, non è affatto obbligatoria, ma è rimessa alla scelta totalmente discrezionale del suo “Capo Politico ovvero, in sua assenza od inerzia, d[e]l Garante” [v. art. 4, lettere a), comma 2°, ultimo alinea e b), comma 1°, dello Statuto, visionabile qui: https://s3-eu-west-1.amazonaws.com/associazionerousseau/documenti/statuto_MoVimento_2017.pdf]. Pertanto, se pure si volesse dare rilevanza all’apparenza (o illusione) della trasparenza, e dunque in definitiva sapere – per riprendere le parole usate nella Replica – “con chi dobbiamo prendercela”, la responsabilità della decisione di costituire il nuovo governo, ove per responsabilità si intende la causa prima che ha consentito agli iscritti di esprimersi, sarebbe ascrivibile formalmente e sostanzialmente a Luigi Di Maio quale “Capo Politico” ed a Giuseppe Piero Grillo quale Garante del Movimento 5 Stelle (come del resto rilevato dalla stampa: https://www.ilpost.it/2019/09/03/piattaforma-rousseau-voto-oggi).

[5]   Di seguito, riporto una breve silloge di alcune delle opinioni espresse al riguardo, tutte da me tratte dall’articolo https://www.ilfoglio.it/politica/2019/09/09/news/la-soffitta-dei-simboli-inutili-272931/. Ferruccio de Bortoli: “<#Rousseau, uno dei giorni più bui della nostra democrazia rappresentativa>”; Francesco Storace: “<La democrazia italiana nelle mani della piattaforma #Rousseau. Decide #Casaleggio senza alcuna trasparenza se il governo deve partire o no. Ora #Mattarella potrà nominare i ministri>”; Mara Carfagna:<Ah, quindi il Conte-bis non sarà legittimato dalle Camere, ma dalla piattaforma #Rousseau? Eppure non mi pare che i Padri Costituenti, nella loro saggezza e nel ruolo di rappresentanti del popolo italiano, avessero previsto di inserire la Casaleggio Associati in Costituzione>”; il presidente emerito della Corte Costituzionale Giovanni Maria Flick: “<non è incostituzionale in sé, ma mi sembra contro lo spirito della Carta far diventare la piattaforma Rousseau, o un’altra simile, uno strumento per l’esercizio della sovranità>”, Cesare Mirabelli: “<Il presidente incaricato, sulla base del voto di un numero ristretto di persone, sia pure iscritte al partito M5s, si ritira e restituisce il mandato nelle mani del presidente della Repubblica? Non è quanto stabilisce la Costituzione>”.

[6]   Tra gli innumerevoli interventi giornalistici, cfr. https://www.ilsole24ore.com/art/il-lato-oscuro-rousseau-hacker-bilanci-e-votazioni-non-certificate-ACDjgeg.

[7]   È significativo, al riguardo, che già nel 1966 un intellettuale come Lelio Basso, convinto assertore dell’imprescindibile funzione storica dei partiti e certamente distante da un estremismo antiparlamentare, dopo aver negato “che il parlamento sia veramente o possa essere la sede effettiva del potere e che tutti i problemi possano risolversi con la semplice azione parlamentare”, evidenziava il compimento di un “processo di progressivo svuotamento di un’autonoma funzione del parlamento a beneficio dell’esecutivo e dei partiti”, che riconosceva contestualmente essersi “rivelati strumenti politici più adeguati, anche se largamente insufficienti, alla democrazia di massa”, avendo cura però di soggiungere immediatamente che i reali beneficiari di tale processo di progressivo svuotamento erano “dietro di essi [ossia “dell’esecutivo e dei partiti”], [la] burocrazia, [i] gruppi di pressione e [le] forze economico-sociali” (http://leliobasso.it/documento.aspx?id=5b7a6827d18ca804ef8249e24302aaed).

COLPO DI EXSTRASTATO III, Di Massimo Morigi

COLPO DI EXSTRASTATO III (CON FRANCHISE DI ISAAC ASIMOV PIÙ UN RITORNO AL PASSATO CON UN RITORNO AL FUTURO DALL’ITALIA E IL MONDO)

Di Massimo Morigi

 

«The door opened, snapping him to open-eyed attention. For a moment, his stomach constricted. Not more questions! But Paulson was smiling. “That will be all, Mr. Muller.” “No more questions, sir?” “None needed. Everything was quite clearcut. You will be escorted back to your home and then you will be a private citizen once more. Or as much so as the public will allow.” “Thank you. Thank you.” Norman flushed and said, “I wonder  – Who was elected?” Paulson shook his head. “That will have to wait for the official announcement. The rules are quite strict. We can’t even tell you. You understand.”  “Of course. Yes.” Norman felt embarrassed. “Secret Service will have the necessary papers for you to sign.”  “Yes.” Suddenly, Norman Muller felt proud. It was on him now in full strength. He was proud. In this imperfect world, the sovereign citizens of the first and greatest Electronic Democracy had, through Norman Muller (through him!) exercised once again its free, untrammeled franchise.»: Isaac Asimov, “Francise”,  in “if. Worlds of Science Fiction”, agosto 1955, p. 15 (consultabile su Internet Archive agli URL https://archive.org/details/1955-08_IFhttps://ia801300.us.archive.org/25/items/1955-08_IF/1955-08_IF.pdf ed anche all’URL http://www.astro.sunysb.edu/fwalter/HON301/franchise.pdf; congelamento URL e documento  presso WayBack Machine: https://web.archive.org/web/20190911153029/http://www.astro.sunysb.edu/fwalter/HON301/franchise.pdf). Il testo appena citato è la chiusa del racconto breve di Isaac Asimov “Francise”, pubblicato in Italia col titolo Diritto di voto, che io ebbi modo di leggere in una lontana estate di metà anni Settanta in una raccolta di racconti, La terra è abbastanza grande, dedicata  al più grande maestro mai esistito della fantascienza (Isaac Asimov, “Diritto di voto”, in  “La terra è abbastanza grande”, Milano, Editrice Nord, 1975, pp. 91-112). Ma non è per indugiare con la memoria alle mie estive letture giovanili che nel presente finale di estate ho tirato in ballo il “Diritto di voto” di Asimov, ma, come forse qualcuno avrà già intuito,  è  per tornare sulla questione del voto elettronico sulla piattaforma Rousseau associando alla critica su questo racconto del più grande maestro della fantascienza le osservazioni che sono state mosse riguardo a “Colpo di extrastato” e a “Colpo di extrastato II”. La fantascienza, quando è fantascienza di qualità, si dice. e io condivido in pieno questa opinione, riesce a fornirci spunti letterari, filosofici  e politici che vanno ben al di là della banale descrizione di un meraviglioso (o pauroso) mondo tecnologico (o, nel peggiore dei casi, della rappresentazione delle terribili e truculente invasioni aliene). A questo punto chi abbia avuto la pazienza di seguirmi si aspetterà che io affermi: «Ecco, gente di poca fede quello che io sostengo nei due colpi extrastato era già stato intravvisto dal maestro della fantascienza in “Diritto di voto” e per arrivare a questa elementare verità sarebbe bastato annoiarsi come lo scrivente in lunghe letture estive.» (Magari con  “Azzurro” di sottofondo alla lettura, cantato da una volta tanto sublime Celentano  e musica scritta dal sempre ineffabile Paolo Conte: ogni allusione all’attuale primo inquilino di Palazzo Chigi è veramente puramente casuale.). Invece, quello che io sostengo è esattamente il contrario ed è cioè che quello che  la chiusa di  “Diritto di voto” ci restituisce non è una premonizione sulla nostra società attuale ma, in un certo senso, un suo profondo fraintendimento. Certo Norman Muller, l’antiroe del racconto scelto da un’ imperscrutabile tecnocrazia perché le sue pulsioni e manchevolezze di mediocre uomo della strada possano essere vagliate da un formidabile calcolatore elettronico per designare, attraverso l’ analisi di queste caratteristiche rappresentative di tutta la popolazione, il vincitore alla corsa alla presidenza degli Stati uniti, passa da un comprensibile stato di depressione per la responsabilità che la sua debole persona e personalità rappresenti mediamente quella di tutta la popolazione degli Stati uniti (e possa quindi, attraverso il processo algoritmico del calcolatore, essere la sola in grado di partorire una così grande scelta) ad una sorta di euforia : «”Yes.” Suddenly, Norman Muller felt proud. It was on him now in full strength. He was proud. In this imperfect world, the sovereign citizens of the first and greatest Electronic Democracy had, through Norman Muller (through him!) exercised once again its free, untrammeled franchise.»,  e questo a significare un profondo pessimismo verso un uomo-massa dominato dalle macchine e dai loro sacerdoti tecnocrati ma quello che la chiusa del racconto non ci dice è 1) la possibilità che tutta la faccenda della scelta mediata attraverso il calcolatore Multivac (e riguardo a questo punto,  poco importa se questo calcolatore emetta il vaticinio processando un solo soggetto passivo o una più vasta comunità composta da simili uomini-massa) sia una truffa e 2)   – e ancor più importante – non accenna minimente al fatto che questa veramente singolare procedura di voto elettronica, corretta o truffaldina che sia, designa chiaramente una costituzione materiale dello Stato che non ha assolutamente nulla a che fare con la precedente dove la scelta e selezione dei decisori alfa-strategici da parte dei decisori omega-strategici avveniva  – almeno a livello politico –  attraverso una procedura non elettronica ma semplicemente cartacea (con tutti i brogli che questa comportava, ma almeno per quanto riguarda il punto 2 questo è un elemento del tutto secondario). Ma non è stato per ridimensionare  la capacità della buona fantascienza di offrirci euristicamente interessanti e premonitori scenari politici e filosofici utili anche per le nostre attuali condizioni né tantomeno per indicare che in questo caso il buon Asimov dormicchiava che ho deciso di segnalare queste intime debolezze del racconto “Diritto di voto” in relazione alla votazione sulla piattaforma Rousseau. Al contrario, lo scopo è stato quello di segnalare che nelle vicende sociali e politiche (come anche in quelle che continuiamo  a definire fisiche e/o biologiche, così distinguendole da quelle storico-culturali e per la cancellazione di queste ridicole suddivisioni si rinvia, per brevità senza bibliografia, a tutto quanto in questi anni è stato scritto in merito al modello dialettico-espressivo-strategico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico) i cambiamenti ed i mutamenti non appartenenti stricto sensu all’ambito politico e sociale agiscono su quest’ambito non solo additivamente ma anche qualitativamente, talché è del tutto assurdo dire che una costituzione materiale e una forma di Stato che ha avuto la sua nascita in una  passata epoca tecnologica è la stessa costituzione materiale e forma di Stato dei tempi di Internet. E purtroppo (cioè in senso profondamente negativo) questo vale a maggior ragione per la presente situazione italiana, dove accanto ad una costituzione materiale sempre più palcoscenico di una politica privata ormai di qualsiasi valenza di scontro strategico (Parlamento e partiti animati dai lugubri fantocci burkiani le cui interióra non sono altro che segatura e stracci e le cui gesta, quando non sprofondano nella più abissale assurdità, ci richiamano ad un surreale spettacolo di burattini con tanto di pupari dietro le quinte) ed uno Stato in cui le sue varie articolazioni sono sempre più in preda ad una sindrome di disturbo dissociativo dell’identità (in quale altro modo inquadrare la persistente ignoranza da parte di questi corpi che il loro telos  primario dovrebbe essere il mantenimento dello Stato stesso e della popolazione che ne costituisce le fondamenta materiale e spirituale e non la tutela di ipostatici diritti universali?), anche il paperinesco voto sulla piattaforma Rousseau costituisce una novità (negativa) di grandissima portata. Concludo, come da titolo, con un recente ritorno al passato dall’ “Italia e il mondo” che prefigurava un ritorno al futuro che penso abbia mantenuto ancora oggi un qualche valore. Si tratta del “Per un recupero delle prerogative dello stato nazionale italiano, per la salvaguardia della integrità del Paese, verso una posizione di neutralità vigile” di Giuseppe Germinario (pubblicato sull’ “Italia e il mondo” il 2 febbraio 2018 ma il documento è di quattro anni più vecchio) e della mia risposta allo stesso. Vista l’importanza del testo di Germinario (col quale lo scrivente concordava allora pienamente, come concorda, se possibile, ancor più pienamente oggi, tempi  di apoptopici rousseauiani colpi di extrastato) e, modestamente, della mia risposta sempre sul blog allo stesso, ho pensato di congelare questi due testi in un’unica pagina copiaincollata caricata su Internet Archive agli URL https://archive.org/details/perunrecuperodelleprerogative.dellostatonazionaleitalianoarticologerminariorispostamorigipdf e https://ia601501.us.archive.org/10/items/perunrecuperodelleprerogative.dellostatonazionaleitalianoarticologerminariorispostamorigipdf/PER%20UN%20RECUPERO%20DELLE%20PREROGATIVE.%20%20DELLO%20STATO%20NAZIONALE%20ITALIANO%20ARTICOLO%20GERMINARIO%20RISPOSTA%20MORIGIpdf.pdf (ovviamente, è anche possibile avere diretta visione di questi testi attraverso l’URL originario del blog http://italiaeilmondo.com/2018/02/02/per-un-recupero-delle-prerogative-dello-stato-nazionale-italiano-per-la-salvaguardia-della-integrita-del-paese-verso-una-posizione-di-neutralita-vigile/#disqus_thread ma chi ha avuto modo di seguirmi in questo blog non ha difficoltà a comprendere le ragioni di questa procedura archivistica dei tempi di Internet). Nella mia concorde replica all’intervento di Germinario, che prendendo le mosse da uno schema schmittiano («Allora sotto questo punto di vista deve costituire un fondamentale contributo il ragionamento sviluppato da Carl Schmitt nelle “Categorie del politico” e ripreso nell’incipit di questo commento: vale a dire che la forza politica che vorrà farsi carico del programma di Germinario dovrà, prima di tutto, prendere una decisa e cristallina posizione contro la retoriche democraticistiche, dei diritti umani e di una politica internazionale “pro umanità” lungo la direttiva espressa da Schmitt nelle “Categorie del politico”», lo sviluppava, però, lungo una prospettiva non classicamente “realpoliticistica” ma “culturalistica” (sotto qualche aspetto simile al costruttivismo wendtiano ma di ben altra consapevolezza e profondità storico-filosofica), che è l’apporto dialettico e del tutto innovativo che il Repubblicanesimo Geopolitico dà alla tradizione del realismo politico moderno, riallacciandosi in questo modo in via diretta all’antica tradizione umanistica della filosofia dell’azione e/o della prassi (che si dipana lungo un filo rosso che lega Aristotele, Machiavelli, Hegel, Marx per finire col più grande esponente novecentesco della filosofia della prassi, cioè Antonio Gramsci): «Ma non ci si dovrà fermare a questa “pars destruens”. La “pars construens” cui questa formazione politica dovrà ispirare la sua parte propositiva, dovrà porre sul piedistallo degli idoli infranti democraticistici e dirittoumanistici (che da sempre sono la principale arma di dominio agli agenti alfa-strategici) il concetto di Kultur, il che significa che il primo (se non l’unico) obiettivo di una nuova consapevole politica per la rinascita dell’Italia è l’ adamantina consapevolezza che l’Italia ha una cultura (intendendo per cultura quell’inestricabile intreccio dialettico fra cultura, arte, storia, economia, religione) che va ben oltre gli ultimi disgraziati settant’anni della sua storia “democratica”. In altre parole, questa forza politica deve essere consapevole che questa Kultur deve ritrovare un suo rinnovato Lebensraum che gli dia spazio e che la faccia rinascere.». Il più fatale errore che si può compiere ragionando (ed anche agendo) di e nella politica è pensare che cultura e politica siano due cose distinte mentre come ci insegna (anche se rozzamente) Marx ed in maniera invece impareggiabile Antonio Gramsci (e, immodestamente in una definitiva sistemazione dialettico-espressivo-strategica il Repubblicanesimo Geopolitico) non si tratta altro che di due facce della stessa medaglia. Il concetto di colpo di extrastato, pur con tutte le criticità segnalate dai gentili lettori dell’ “Italia e il mondo” ha a mio giudizio un innegabile pregio, e cioè che unisce in un solida sintesi dialettica la critica alla profondissima crisi istituzionale e politica italiana che in questa fase riesce a produrre anche un corpo politico-decisionale del tutto estraneo e prevalente al testo e alla prassi costituzionali (la piattaforma Rousseau) alla critica ad un’altrettanto degradante crisi culturale: cosa c’è di più idiota nel ritenere che una consultazione perché mediata da un apparato tecnologico-informatico sia migliore e più democratica di una tenuta attraverso un tradizionale sistema cartaceo? (questa credenza ha davvero  molte cupe analogie  con la pratica – diciamolo chiaramente: disperata e disperante – degli amoreggiamenti virtuali e davanti ad una Webcam: e, almeno da questo punto di vista, il racconto asimoviano con la sua realistica descrizione del timido e recalcitrante uomo-massa Norman Muller ci fornisce assai interessanti spunti). Concludevo il mio intervento in appoggio all’articolo di Germinario: «Quello che, tuttavia, dovremmo essere ben fermi nei nostri propositi, deve essere la consapevolezza (e quindi la decisione) che è giunto il momento di porre pubblicamente a chi dovrebbe esserne interessato questa problematica teorica. Dalle risposte (e anche dalla nostra decisione nel porre le domande), potrebbe nascere evoluzioni molto interessanti (molto interessanti perché rivoluzionarie) del ad oggi “stagnante” e maleodorante “caso italiano”». Ecco, allora come oggi, si è invocato «sia a livello di prassi che di teoria politica [di] un colpo altrettanto extra» ( chiusa di  “Colpo di extrastato”). E questo con buona pace delle vestali della retorica democraticistica diritto-universalistica, degli amoreggiatori politico-virtuali della piattaforma Rousseau ed anche di tutti i più o meno padani Tecoppa che non hanno capito che per rovesciare  il quadro dei rapporti di forza geopolitici sviluppatisi in seguito alla sconfitta nel secondo conflitto mondiale non basta proprio fare accordi con la misera controfigura di Segretario politico del partito triste ed indegno erede del grande (e a suo modo tragico) partito del gigante realista politico Palmiro Togliatti né essere politico più navigato – ci vuole ben poco! – del vispo ma politicamente stracciato scugnizzo capopentastellato. Ci vuole, appunto, un colpo “estra” (magari sapendo anche far tesoro e sviluppandole insieme dialetticamente la pur timida, anche se interessantissima, distopia asimoviana di “Francise” e gli ammaestramenti di Giuseppe Maranini, per i quali un buon punto di partenza può anche essere costituito dalla voce ‘Colpo di Stato’ da lui scritta per l’Enciclopedia Italiana e da noi citata all’inizio di questo trittico sul ‘Colpo di extrastato’…)…

 

Massimo Morigi – 14 settembre 2019

 

 

 

COLPO DI EXTRASTATO  II, Di Massimo Morigi

COLPO DI EXTRASTATO  II di Massimo Morigi

Osserva in primo luogo Emilio Ricciardi nel commentare il mio “Colpo di extrastato”: «Però anche con la formazione del governo Monti nel 2011 si andò molto vicini alla fenomenologia efficacemente descritta da Massimo Morigi nel suo breve intervento. La variante, certo importante, è che nella presente occasione, il cui completo dispiegamento è ancora in corso, la conduzione eteronoma si è resa molto più visibile, direi scontata ed anzi auspicata espressamente da spezzoni rilevanti dell’opinione pubblica e dei ceti (pseudo)dirigenti. Ecco, azzarderei a sostenere, con una punta iperbolica, che il colpo di mano è stato compiuto all’insegna di una sorta di rassegnata e fatale trasparenza. Ma a proposito di quest’ultimo lemma, e segnatamente della sciagurata trasformazione semantica che esso ha subito nell’ultimo quarto di secolo ad opera del diritto pubblico e della stessa pratica istituzionale, diventando addirittura (ed a mio avviso abusivamente) una categoria ontologica della politica, mi permetto di rilevare come, nell’economia del testo di Morigi, il riferimento alla scarsa trasparenza di procedura ed esito del sondaggio svolto sulla piattaforma telematica dei 5 stelle, appaia tutto sommato superfluo, come del resto in buona sostanza sottolineato dallo stesso suo autore. Anche perché, se si continua a rimarcare la scarsa trasparenza di questa operazione, dolendosene, si corre il rischio di accreditare implicitamente l’idea secondo cui finora i processi decisionali interni ai partiti politici (che, è bene ricordarlo, sono semplici associazioni private non riconosciute) si siano svolti all’insegna delle più luminose democrazia ed, appunto, trasparenza. Il che sarebbe, com’è ovvio, balla colossale oltreché offensiva dell’intelligenza quanto meno del lettore abituale di queste pagine. Quindi, propongo di abbandonare risolutamente, nell’analisi politica, l’uso della categoria della trasparenza e, in genere, di non fare proprie similari (pseudo)categorie in quanto appaiono di dubbia utilità teorica, quando non foriere di (per quanto non volute) diversioni rispetto ai nuclei cruciali delle questioni in esame.» In merito a questa prima osservazione, consiglio a nessuno di  avventurarsi a cuor leggero in merito alla natura più o meno privata dei partiti, i quali nella nostra Costituzione vengono citati anche se poi riguardo al loro “dover essere” ci si limita ad una vacua retorica democratica che dice tutto e il contrario di tutto (“Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”: Art. 49 Cost.), tanto è vero è che se si avesse voluto consentire la vita solo a quei partiti in cui la loro vita “democratica”  era regolata (formalmente ed unicamente formalmente, per carità)  solo alla luce dei principi liberaldemocratici a cui si richiama il suddetto Art. 49, il PCI avrebbe dovuto essere messo al bando per via del suo centralismo democratico. Il vero punto è, come rileva anche Ricciardi ma come stranamente Ricciardi sembra non attribuirmi una piena consapevolezza in merito, non tanto la più o meno esibita trasparenza dei partiti (se i partiti fossero trasparenti svanirebbero come la neve al sole dalla notte al mattino) ma il fatto che questi partiti, un tempo tanto importanti e la cui esistenza veniva espressamente citata anche in Costituzione, oggi non sono più lo snodo principale del conflitto strategico  che si svolge all’interno delle élite politiche nazionali impegnate nella lotta per la conquista del potere. Certo, questo processo di depotenziamento dei partiti (preceduto storicamente in tutte le “democrazie” occidentali dal depotenziamento del Parlamento) non è iniziato con Rousseau (piattaforma); come ho banalmente rilevato in “Colpo di extrastato” lobby e gruppi particolari, in Italia come all’estero, hanno sempre manovrato più o meno occultamente per traslare il potere e dai parlamenti e dai partiti e lasciare a queste formazioni storiche solo il ruolo di velo di Maia buono per gabbare gli ingenui. Il punto è che con la piattaforma Rousseau è la prima volta è che si riconosce, sia a livello di commentatori politici che nella pubblica opinione, come fondamentale e fondante per la decisione politica non tanto una dialettica più o meno trasparente all’interno degli attori riconosciuti, o per lettera costituzionale o per prassi costituzionale, e quindi pubblicamente accreditati ad elaborare la decisione ma un soggetto del tutto alieno a questi soggetti, una sorta di accrocchio tecnologico informatico dove la “trasparenza” non è che venga conculcata come nei vecchi partiti classici  (ma ricordiamoci l’adagio “l’ipocrisia è il tributo che il vizio paga alla virtù”) ma è un concetto totalmente alieno proprio per il processo tecnologico e verificabile solo da esperti informatici nell’emissione dei suoi responsi. Insomma per segnalare la numinosa novità di Rousseau richiamo qui due situazioni fictae. La prima è questa. Durante i primi cinquant’anni di vita repubblicana c’era un partito, la Democrazia cristiana, fortemente condizionato dalla Chiesa cattolica; e certamente la Chiesa cattolica non solo si è servita di quel partito per cercare d’imporre nella società italiana i suoi valori ed ha anche manovrato più nel dettaglio e per far nascere una particolare alleanza politica all’interno del perimetro anticomunista e, addirittura, più nello specifico per imporre un ministro a dispetto di un altro meno vicino alle gerarchie ecclesiastiche. Ma nemmeno al tempo delle delle Madonne pellegrine del ’48 e dei governi centristi degli anni ’50 dominati dalla Democrazia cristiana la Chiesa esplicitamente non ha mai fatto trapelare una esplicita e pubblica decisione a favore di questo o quel governo ma si limitava, in ottemperanza del suo alto magistero religioso e morale, a vietare ai cattolici, pena l’inferno, di votare per quei partiti che erano a suo giudizio l’espressione politica del cancro dell’ateismo e dell’irreligiosità. Poi, lo sappiamo, la Chiesa manovrava anche a favore di esplicite e ben definite alleanze partitiche  magari altre da quelle che erano sorte sotto il paravento politico della Democrazia cristiana (vedi, per esempio l’operazione Sturzo) ma questo è un altro discorso e richiamo  ancora il  precedente cinico motto per sottolineare che in politica, come nel resto di tutte le altre faccende della vita, le illusioni contano e quando queste cadono non si può far finta di nulla pensando che siccome si trattava di illusioni la loro scomparsa conta meno di nulla e non vale nemmeno la pena di segnalarle e di cercare di elaborare un pensiero non banale a proposito. Il secondo esempio riguarda più nello specifico la trasparenza dei partiti ed anche su questo punto il ragionamento fa leva sull’importanza delle false rappresentazioni, o meglio  la concreta modalità di come queste possono essere rappresentate. Nei vecchi partiti per arrivare ad un decisione e/o prevalere nello scontro politico venivano messe in atto le più ignobili manovre ma se queste manovre non avevano in concreto nulla di democratico e trasparente avevano un grandi pregio. Queste manovre erano condotte da uomini in carne ed ossa e chi avesse voluto vedere un po’ più a fondo avendone la formazione e l’intelligenza riusciva a mettere a fuoco, molto chiaramente e con tanto di nomi e cognomi, i volti di questi manovratori. Nel caso di Rousseau con chi dobbiamo prendercela ? (o se d’accordo con il suo ultimo governativo vaticinio, chi dobbiamo ringraziare?). L’ottimo Casaleggio figlio, le poche migliaia di illuminati che hanno creato (?) questa decisione, qualche benevolo o malevolo, a seconda dei gusti, algoritmo informatico, oppure deprecare (o lodare, sempre a seconda dei gusti), i soliti poteri forti? Ma il vero snodo, lo ripeto, della categoria di “colpo di extrastato”, non è tanto la trasparenza o l’opacità dei processi decisionali è che nella pubblica opinione, nella pubblicistica politica per finire con la scienza politica la caduta da parte di tutti dell’illusione della trasparenza nei processi decisionali non viene segnalata e non segnalando la caduta di quest’illusione non si riesce a vedere un fatto di primaria importanza: e cioè che si riconosce piena titolarità politica e decisionale a corpi del tutto inediti ed extracostituzionali i quali non solo si presentano come nuovi ed antagonisti centri di potere rispetto a quelli della vecchia tradizione politica ma che, in prospettiva, aprono la via  al pubblico riconoscimento a centri di decisione politica la cui natura malefica (malefica dal punto di vista di chi pensa che l’attività politica sia la più nobile delle attività umane, per chi non ha questa  aristotelica ed arendtiana visione antropologica dello ζῷον πολιτικόν questa natura può essere completamente benefica: Fukuyma docet) sta a quella della piattaforma Rousseu come un T. Rex sta alla rana Kermit (ci stiamo, del resto, avvicinando al pieno riconoscimento di questi T. Rex: oggi qualsiasi decisione politica viene vagliata e giudicata ex post alla luce delle reazioni dei mercati; nell’evoluzione politica prossima ventura di cui Rousseau non è che un piccolo e in fondo modesto Giovanni Battista non ci vuole molta fantasia a prefigurare una costituzione materiale dove prima di prendere la decisione politica si ausculteranno ex ante ed obbligatoriamente le reazioni di questo o quel potentato o gruppo economico).

Conclude Ricciardi: «Aggiungo, infine, un’osservazione che, pur non essenziale, mi preme tuttavia depositare. Certo, le scorribande balneari di Salvini possono infastidire per la dimensione di sguaiatezza istituzionale che indubbiamente evocano, e non occorre certo citare Buffon per evidenziare quanto anche un certo decoro e stile costituiscano sostanza rivelatrice dell’uomo. E tuttavia non crederà, Morigi, che la decisione sulla crisi di governo sia stata assunta in preda ad orge bacchiche e con cuffie acustiche alle orecchie. Anche qui: inviterei a non introiettare criteri di giudizio, in particolare stilemi ed idiosincrasie etico-estetiche (ed insomma i canoni del “buon gusto”), sciorinati dai ceti dominanti perbene, quali parametri di valutazione di una determinata azione politica.» A ciò – amichevolmente – replico. L’hubris e il non dominio della pulsioni esistono, non sono un’invenzione da fairy tale ed ammetterle nella spiegazione di una vicenda umana, più o meno storica che sia, non vuol dire credere nella fata turchina. Sono talmente presenti nella storia  umana che mi rifiuto in questa sede di addurre esempi di vicende storiche dove problemi caratteriali e comportameli hanno prodotto decisioni irrazionali e disastrose (mi limito solo a segnalare che la grande tradizione filosofica greca, se non teniamo conto della problematica dell’ “uomo virtuoso”, in primis sviluppata da Platone ed Aristotele, perde molto significato per noi moderni se la si riduce ad un accozzaglia di opinioni interessanti ma, in fondo, scientificamente ingenue intorno alla natura fisica del mondo). Non so, ovviamente – e se lo so, lo so solo a livello di euristico esempio paradossale: Papete, discinte cubiste, libagioni alcoliche etc; via non mi si faccia citare gli annibaleschi  ozi di Capua: io non c’ero e sfido qualunque storico ad averne un’opinione precisa – se le caratteristiche della personalità dell’ex ministro dell’interno lo abbiano indotto alla totale coglioneria di innescare la crisi di governo che ha portato alla nascita del governo giallo-rosso. Sono però del tutto convinto che la mancanza di cultura politica (cultura politica che non significa solo avere letto i libri giusti ma significa , soprattutto, aver ben presente che Tecoppa è un personaggio patetico, la cui immagine rovesciata ed assolutamente non patetica a cui ci si dovrebbe ispirare  è quella del Principe machiavelliano-gramsciano) dello stesso lo ha cacciato in un guaio in cui, al momento, né è uscito gravemente ammaccato.

E concludendo, penso che le categorie vecchie e nuove che siano, sono utili in quanto strumenti per segnalare problemi concreti ed in formazione; diversamente non importa di quanto (presunto) realismo e cinismo possano far sfoggio sono del tutto inutili (la vicenda di Marx, nonostante la grandezza di questo pensatore, e delle sue interpretazioni, molto meno grandi, qualcosa dovrebbe pur insegnarci). Come penso, immodestamente, di grande utilità sia la categoria di ‘colpo di extrastato”, ovviamente non argomentando ulteriormente questa opinione  bastante  , spero, quanto finora  –   anche se non esaustivamente –  detto.

 

P.S. Concordando con Buffagni…

 

Massimo Morigi – 7 settembre 2019

noterella d’autore su un autore, di Massimo Morigi

 

In “Navigazione a vista” Roberto Buffagni dà mostra (o, meglio, dà una delle sue migliori conferme) di due importanti qualità. La prima è quella di acuto osservatore politico che però, proprio per una sorta di  intimo autorispetto alla sua profonda intelligenza, non afferma di avere la verità rivelata in merito a vicende di cui  è osservatore e non protagonista diretto (sul perché delle mosse di Salvini nel mettere in crisi il governo avanza infatti due scenari alternativi e contrapposti).

Questa “modestia” nel porsi è dote quasi unica nel panorama degli italici commentatori, i quali in ragione di qualche misteriosa grazia divina a loro accordata pretendono di sapere tutto (e pretendere quindi di spiegare tutto)  della politica e delle sue vicende ad un popolo che suppongono in estatica attesa dei loro vaticini, mentre in realtà così ridicolmente profetando e/o (anti)vedendo dimostrano non solo di non capire nulla della politica ma anche della vita di ogni giorno (un po’ come coloro che vogliono giudicare la vita di un’altra famiglia basandosi solo sui racconti dei coniugi, mentre non bisogna essere psicologi laureati ma semplicemente essere dotati di semplice buonsenso  per sapere che il non detto conta più del detto e questo non detto, in politica come nella vita familiare, può essere, almeno in parte, solo conosciuto da chi è dentro una specifica vicenda).

La seconda qualità è la davvero formidabile capacità di fornire uno sguardo prospettico di natura culturale all’attuale polarizzazione della politica italiana (progressisti-mondialisti vs antiprogressisti-nazionalisti), sguardo prospettico che, al contrario del doveroso suo riserbo di natura personale prima ancora che teorico nel giudicare le mosse tattiche dei protagonisti della politica (Buffagni prima ancora che fine teorico della politica è fine filosofo a trecentosessanta gradi e quindi è assolutamente intransigente  in merito alla sua divisa di “modestia” tipica di colui che sa di non sapere), abbandona, e con pieno diritto, la prudenza che dovrebbe sempre connotare chi giudica la ratio delle altrui motivazioni ma produce con assoluto ed  inconfondibile   nitore la chiara ed inequivocabile rappresentazione di quello che è (al di là delle ridicole ed inadeguate figure di coloro che dovrebbero mettere in campo questa guerra )  lo scontro strategico (politico, culturale ed economico) in atto oggigiorno non solo in Italia ma anche in tutto il resto del mondo  globalizzato post caduta del muro di Berlino.

Buffagni fa professione di “modestia” dove tutto il resto degli altri commentatori (leggi pennivendoli di grido) tonitruano  ad usum delle masse e fa mostra – assolutamente giustificato! – del massimo orgoglio filosofico-politico  per indicare che il re è del tutto nudo. Insomma tutto il contrario degli attuali commentatori pennivendolari orgogliosi dove dovrebbero essere modesti e mestatori e/o fumosi e, comunque, mai coraggiosamente espliciti quando si tratta di affrontare argomenti che necessitano una globale (e quindi) nitida visione d’insieme (al massimo si rifugiano, e questo lo fanno con notevole protervia, nella solita propaganda democraticistica e ricadono quindi nello schema già detto dell’arroganza ma con ancora maggior ridicolo nei loro confronti: se infatti si può pensare che un osservatore sia più addentro a certe oscure manovre ma non lo dice per non bruciare le sue fonti e/o non sputtanarsi nel suo ruolo di osservare “neutrale”, per giustificare la loro ridicola propaganda e le loro affermazioni apodittiche altro non rimane che invocare l’intervento di qualche oscura potenza plutonica o celeste).

Insomma, per farla breve, l’unione delle due sopraddette caratteristiche fa di Roberto Buffagni un commentatore  davvero unico nell’attuale (misero) panorama italiano, una sorta di “occhio d’aquila” che vede benissimo laddove viene investito dalla luce ma che sa affidarsi anche ad altri sensi, cioè alla aristotelica phronesis, laddove quest’occhio non possa operare, dando così mostra di una prassi teorica –  anche se non di una teoria della prassi perché su quest’ultimo punto io da lui amichevolmente dissento – che dimostra di aver benissimo appreso – e di sviluppare con impareggiabile e clausewitziana maestria  – i capisaldi del conflitto espressivo-dialettico-strategico del Repubblicanesimo Geopolitico.

Grazie ancora Roberto.

Massimo Morigi

http://italiaeilmondo.com/2019/08/13/navigazione-a-vista-di-roberto-buffagni/

http://italiaeilmondo.com/category/dossier/autori-dossier/roberto-buffagni/

DANTE CESARE TELESFORO VACCHI. IL PORTOGALLO DELL’ESTADO NOVO E L’ITALIA.REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO_di Massimo Morigi

Lo scritto è composto per un terzo dal saggio e per il resto da note e richiami

Si tratta di un lavoro originariamente commissionato dallo Studio portoghese e “girato” poi anche in senso filosofico-politico; il senso, cioè, del Repubblicanesimo Geopolitico. Comunque, dal punto di vista storico, si parla del fascista ed ex repubblichino Dante Cesare Telesforo Vacchi, un italiano (e romagnolo) che agli inizi degli anni Sessanta creò dal nulla i commandos portoghesi per combattere la guerriglia nelle colonie africane (e per questo motivo “strategico” viene ampiamente elogiato: i portoghesi non sono stati molto contenti che ad un fascista sia stato riservato un così sentito apprezzamento ma la motivazione “strategica” dell’elogio e non dell’apologia del fascismo ha, alla fine, fatto passare tutto in cavalleria); mentre, dal punto di vista meramente tecnico, attraverso questo documento viene attuato un “congelamento” tramite WebCite ed Internet Archive, dei documenti presenti in Rete relativi a questo oscuro e molto importante personaggio (vedi seconda parte del documento; la ratio tecnica e filosofico-politica di questo “congelamento” viene comunque ben spiegata nella prima parte del documento). Strictu sensu non è l’articolo sull’ “oblio dello strategico” ma è, come recita il titolo un “atto di riparazione strategica” in favore di Dante Cesare Vacchi perché questo personaggio non venga dimenticato. Si tratta anche di un atto concreto contro “l’oblio dello strategico”: quindi, concretamente parlando, è un’applicazione concreta attraverso un concreto case study della strategia del Repubblicanesimo Geopolitico volta a combattere (e a far riaffiorare) il momento strategico. Ovviamente il prossimo contributo per “L’Italia e il mondo” partendo da Dante Cesare Telesforo Vacchi, parlerà proprio dell’oblio dello strategico, costituendo questo documento una sorta di premessa applicativa storico-politica. Giuseppe Germinario

I rapporti fra il Portogallo dell’Estado Novo e l’Italia fascista e del secondo dopoguerra in relazione al problema coloniale africano. Atto di riparazione strategica n°1: Primo inventario e “congelamento” tramite WebCite ed Internet Archive delle fonti Internet   riferentisi a Dante Cesare Vacchi, il creatore dei commandos portoghesi in occasione della guerra coloniale portoghese. Fonti primarie e secondarie presenti in Internet per una storia dei commandos portoghesi nella guerra coloniale del Portogallo in Africa, dei rapporti fra il Portogallo dell’Estado Novo ed Italia fascista e del secondo dopoguerra riguardo al problema coloniale africano e per un’applicazione su uno specifico case study, il fascista ed ex repubblichino  Dante Cesare Vacchi che crea i commandos portoghesi, della teoria politologica e filosofico-politica  del Repubblicanesimo   Geopolitico.   MASSIMO MORIGI

 

Full fadom five thy father lies;

Of his bones are coral made;

Those are pearls that were his eyes;

Nothing of him that doth fade,

But doth suffer a sea change

Into something rich and strange.

Sea-nymphs hourly ring his knell:

(Burthen: Ding-dong.)

 

William Shakespeare,  Ariel’s Song (The Tempest, Act 1, Scene 2)

 

Si dice che ci fosse un automa costruito in modo tale da rispondere, ad ogni mossa di un giocatore di scacchi, con una contromossa che gli assicurava la vittoria. Un fantoccio in veste da turco, con una pipa in bocca, sedeva di fronte alla scacchiera, poggiata su un’ampia tavola. Un sistema di specchi suscitava l’illusione che questa tavola fosse trasparente da tutte le parti. In realtà c’era accoccolato un nano gobbo, che era un asso nel gioco degli scacchi e che guidava per mezzo di fili la mano del burattino. Qualcosa di simile a questo apparecchio si può immaginare nella filosofia. Vincere deve sempre il fantoccio chiamato “materialismo storico”. Esso può farcela senz’altro con chiunque se prende al suo servizio la teologia, che oggi, com’è noto, è piccola e brutta, e che non deve farsi scorgere da nessuno.

Walter Benjamin, I Tesi di filosofia della storia

 

       Dante Cesare Telesforo Vacchi è uno di quei personaggi che la storia sembra ci abbia consegnato per sfidare (e quindi per sfidarci) tutti coloro che – sulla scia più o meno riconosciuta di Francis Fukuyama – vorrebbero  mettere la parola fine sul Secolo breve. Intanto perché pur partendo dal lato “sbagliato” del problema – Dante Vacchi durante la Repubblica Sociale Italiana aveva operato alle dirette dipendenze dei tedeschi in una formazione di controguerriglia, “La banda delle ombre” –, non accettò mai quello che di sicuramente c’era (e c’è) di terribilmente oscuro nella soluzione del problema stesso, la fine della storia, ed infatti dopo la RSI e dopo aver scontati alcuni anni di condanna per questo suo collaborazionismo, Vacchi, probabilmente, secondo quanto affermano – alcune in forma dubitativa altre con sicurezza ma senza esibire una decisiva documentazione – le poche fonti a disposizione, vorrà continuare la sua storia personale di uomo d’arme prima nella Legione straniera combattendo, forse, nelle guerre coloniali francesi d’Indocina e di  Algeria, e poi, e questo è invece chiaramente acclarato anche se non con abbondanza di fonti documentato, aiutando agli inizi degli anni Sessanta il morente impero coloniale portoghese dando un contributo fondamentale alla  creazione,  di sua personale iniziativa e attraverso il suo diretto impegno nella zona dove si svolgevano le operazioni di controguerriglia, dei costituendi primi nuclei di commandos portoghesi, che ebbero il loro primo battesimo del fuoco in Angola.

 

       Come Dante Cesare Vacchi sia non solo riuscito ad unirsi all’esercito portoghese che combatteva in Africa ma anche a diventarne una sorta di fondatore in un aspetto così importante (non solo allora in quella guerra coloniale perduta dal Portogallo ma ancor più oggi dove le forze speciali negli eserciti di tutto il mondo hanno assunto un ruolo sempre più importante e decisivo) non abbiamo, allo stato, alcun elemento affidabile per ricostruirlo: devono ancora essere, in primo luogo, indagati  i verosimili legami di Vacchi con la PIDE; gli – eventuali – contatti con l’OAS, l’Organisation de l’armée secrète  – i suoi commilitoni in Africa ritengono che Vacchi avesse appartenuto alla Legione straniera e che in questa veste avesse precedentemente combattuto contro il movimento di liberazione algerino, ma sono notizie solo di relato –,  poi, infine, con l’Aginter Press di Guerin Serac – che sebbene fondata nel 1966, ben prima dell’impegno di Vacchi in Angola, non nacque dal nulla ma sorse su un precedente terreno di fascismo internazionale debitamente coltivato dall’Estado Novo portoghese; ma tutti questi legami, cioè l’appartenenza organica di Vacchi all’ “internazionale nera” e le concrete modalità attraverso le quali questa appartenenza si estrinsecò, sono ovviamente, vista l’oscurità del personaggio,  ancora tutti da verificare. (Per i rapporti della PIDE con il fascismo italiano, sul ruolo della PIDE nella guerra coloniale del Portogallo in Africa e su come in questo contesto s’inserì l’operato dell’Aginter  Press di Yves Guérin-Sérac (vero nome: Yves Guillou) cfr. José Manuel Duarte De Jesus (com a  colaboração redaccional de  Inês De Carvalho Narciso), A guerra secreta de Salazar em Àfrica. Aginter Press: Uma rede internacional de contra-subversão e espionagem sediada em Lisboa, Dom Quixote, 2012, che però non fa menzione di Vacchi; e non menzionano Vacchi neppure Fabrizio Calvi, Frédéric Laurent,  Piazza Fontana: la verità su una strage, Milano,  Mondadori, 1997, che pur ottimo nel far affiorare i legami dell’Aginger Press con la strategia della tensione in Italia non nomina Vacchi; i fondamentali  Giuseppe De Lutiis, Storia dei servizi segreti in Italia, Roma, Editori Riuniti, 1984, Id., La strage. L’atto d’accusa dei giudici di Bologna, Roma, Editori Riuniti, 1986 e Id., I servizi segreti in Italia. Dal fascismo all’intelligence del XXI secolo (nuova ed. aggiornata), Milano,  Sperling & Kupfer, 2010; l’utile per un primo approfondimento della problematica, ma corrivo, Andrea Sceresini, Internazionale nera. La vera storia della più misteriosa organizzazione terroristica europea, Milano, Chiarelettere, 2017 e l’assai più scientifico, ma ugualmente taciturno su Dante Vacchi, Eduardo González Calleja, Le reti di protezione del terrorismo di destra in Europa e il ruolo di Stefano Delle Chiaie e Yves Guérin-Sérac, in Carlo Fumian, Angelo Ventrone (a cura di)  Il terrorismo di destra e di sinistra in Italia e in Europa: storici e magistrati a confronto, Padova, Padova University Press, 2018; mentre solo per un’allusione in merito ai contatti di Dante Vacchi con l’OAS cfr. Fernando Cavaleiro Ângelo (pref. Óscar Cardoso), Os Flechas: A Tropa Secreta da PIDE/DGS na Guerra de Angola (1967-1974), 1a ed. Alfragide, Casa das Letras, 2017: «Durante a estada da OAS em Portugal, Óscar  Cardoso desconhece que os seus agentes tenham ministrado cursos de guerrilha às nossas  forças   armadas. Existiu, contudo, um Italiano, Dante Vacchi, que deu instruçao aos Comandos do […]». Citazione interrotta ed anche numero di pagina da noi non determinabile – citazione da noi riportata anche al congelamento n° 31 del presente repertorio – perché non si è avuta visione diretta del documento ma solo tramite il motore di ricerca di Google libri che, in questo caso, non mostra né la frase intera né il numero della pagina in cui si colloca la frase monca in questione: ovviamente sarà nostra cura, nel prosieguo della ricerca, verificare la forma cartacea di tutti quelle  fonti primarie e secondarie esistenti nella doppia versione cartacea ed “internettiana”. Per ultimo, e mai come in questo caso vale il detto last but not the least, sul ruolo svolto dall’Aginter Press per animare il terrorismo di destra internazionale e per contrastare i movimenti di liberazione in Africa cfr. – anche se quest’ultima fonte secondaria non nomina  Vacchi – il Grundtext di tutta la letteratura scientifica sull’argomento ‘internazionale nera’: Frédéric Laurent (avec la colaboration de Nina Sutton), L’Orchestre noir, Stock, 1978 (ultima edizione: L’Orchestre noir. Enquête sur les réseaux néo-fascistes, Paris, Nouveau  Monde éditions, 2013). E lo citiamo anche con un certo orgoglio, non foss’altro che un orgoglio di semplici (internettiani) archivisti,  perchè questo documento, che abbiamo appurato tramite ricerca effettuata con l’OPAC SBN – Catalogo del Servizio Bibliotecario Nazionale – essere assente dalle biblioteche italiane collegate a questo sistema di ricerca telematica,  abbiamo noi accertato essere consultabile in Rete presso l’URL https://www.scribd.com/doc/198445048/L-orchestre-noir-pdf. Anche se questa fonte non nomina Vacchi ma in piena coerenza con la metodologia, esplicitata nel titolo di questo repertorio, di “congelamento” documentario delle fonti storicamente rilevanti presenti in Rete, vista l’importanza di questa fonte secondaria assente dalle biblioteche italiane e la cui consultabilità In Italia era in pratica, prima di questo nostro intervento,  affidata unicamente ad una piattaforma Internet commerciale di preservazione documenti, Scribd,   e che perciò non può dare alcuna garanzia in merito alla preservazione für ewig dei documenti ivi depositati,   abbiamo quindi proceduto a congelare URL e documento presenti in Scribd prima tramite WebCite agli URL  http://www.webcitation.org/75gGFlhra  e http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fwww.scribd.com%2Fdoc%2F198445048%2FL-orchestre-noir-pdf&date=2019-01-24  (congelamento tecnicamente di scarsa qualità), poi a caricare su Internet Archive il documento formato PDF che siamo riusciti a scaricare dall’URL originale di Scribd: agli URL https://archive.org/details/LorchestreNoir e https://ia601500.us.archive.org/25/items/LorchestreNoir/L-orchestre-noir.pdf (operazione invece perfettamente riuscita) e poi a congelare URL e documento stesso generati dal caricamento su Internet Archive ricorrendo nuovamente a WebCite (in questo caso operazione parzialmente riuscita: ottimo risultato con salvataggio  all’URL   http://www.webcitation.org/75gHq68RX e totale fallimento al secondo URL prodotto da WebCite  per l’URL e il docunento in questione generati su Internet Archive  ,      http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia601500.us.archive.org%2F25%2Fitems%2FLorchestreNoir%2FL-orchestre-noir.pdf+&date=2019-01-24: e i “congelamenti” non riusciti del presente inventario saranno sempre segnalati con una apposita nota). Per questa nostra “ridondanza” nel creare nuovi URL, vedi infra, dove vengono più ampiamente spiegati i criteri tecnici –  ma detto brevissimamente: rendere citabili le fonti Internet, altrimenti non citabili per la loro breve aspettativa di vita – che hanno presieduto alla creazione del presente inventario delle fonti Internet su Dante Cesare Vacchi.).

 

       Ancor più ovviamente, ça va sans dire, tutta la ricerca internettiana e cartacea di fonti primarie e secondarie che verrà svolta e, soprattutto, archivistica su Dante Vacchi troverà il suo snodo principale e momento di verifica risalendo a ritroso in una  ricerca sui rapporti fra  Italia fascista e Portogallo estadonovista e di come questi rapporti furono influenzati dai rispettivi problemi coloniali in Africa, in uno svolgimento dell’indagine basato sull’ipotesi  di una sorta di continuità di questi rapporti influenzati dal problema coloniale fra l’Estado Novo e l’Italia fascista prima e quella del secondo dopoguerra poi, rapporti, anche dopo la caduta della dittatura politica in Italia, in cui il fascista Vacchi non costituisce un episodio fortuito ma la manifestazione concreta – ed anche il simbolo incarnato attraverso la sua biografia politica – di una loro non  totale soluzione di continuità nonostante la pubblica differenza ideologica fra i due regimi politici e l’assenza da entrambe le parti durante il secondo dopoguerra di una qualsiasi forma di pubblicità di questi rapporti, specialmente per quanto riguarda il problema coloniale. (Durante il fascismo un preoccupato António Ferro intervistò Mussolini in merito ad un eventuale interesse dell’Italia sulle colonie africane portoghesi – cfr. , a questo proposito Stefano Salmi, Le relazioni fra l’Italia e il Portogallo durante il periodo fascista e l’Estado Novo (dissertação de doutoramento, apresentada à Faculdade de Letras da Universidade de Coimbra, sob a orientação do Prof. Doutor Luís Reis Torgal e a co-orientação do Prof. Doutor Alberto De Bernardi), Faculdade de Letras da Universidade de Coimbra, 2012  e, ad ogni buon conto, forniamo ora anche una breve bibliografia dei lavori scientifici – ma ci risulta pressochè completa – sui rapporti fra Italia e Portogallo in rapporto al problema coloniale in epoca fascista: Vittorio Antonio Salvadorini, Italia e Portogallo dalla guerra d’Etiopia al 1943, Palermo-São Paulo, ILA Palma, 2000; E. D. R. Harrison, On Secret Service for the Duce. Umberto Campini in Portuguese East Africa, 1941-1943, “The English Historical Review”, Volune CXXII, Issue 449, 1 December 2007, pp. 1318-1349, https://doi.org/10.1093/ehr/cem347 e Daniele Serapiglia, Una questione d’impero: la stampa dell’Estado Novo di fronte alla guerra d’Etiopia, “Storicamente”, N° 12-2016 (data di pubblicazione: 23/04/2017, DOI:10.12977/stor653), pp. 1-42 ; e in Rete presso l’ URL https://storicamente.org/serapiglia_estado_novo_portogallo_fascismo, che rinvia al formato PDF del documento presso https://storicamente.org/sites/default/images/articles/media/1967/serapiglia_estado_novo_portogallo_fascismo.pdf; URL e documento da noi “congelati” tramite WebCite agli URL http://www.webcitation.org/75XUlBagX e http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fstoricamente.org%2Fsites%2Fdefault%2Fimages%2Farticles%2Fmedia%2F1967%2Fserapiglia_estado_novo_portogallo_fascismo.pdf&date=2019-01-19 e ulteriore “congelamento” del documento presso Intenet Archive agli URL https://archive.org/details/UnaQuestioneDimperoLaStampaDellestadoNovoDiFronteAllaGuerra e https://ia801504.us.archive.org/30/items/UnaQuestioneDimperoLaStampaDellestadoNovoDiFronteAllaGuerra/Serapiglia_estado_novo_portogallo_fascismo2.pdf; documento caricato su Internet Archive a sua volta “congelato” e nell’URL e nel documento stesso sempre presso WebCite agli URL http://www.webcitation.org/75XVjtvid e http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia801504.us.archive.org%2F30%2Fitems%2FUnaQuestioneDimperoLaStampaDellestadoNovoDiFronteAllaGuerra%2FSerapiglia_estado_novo_portogallo_fascismo2.pdf&date=2019-01-19. Infine per quanto riguarda, su un piano più generale,  i rapporti fra Portogallo estadonovista ed Italia fascista, oltre a Stefano Salmi, Le relazioni fra l’Italia e il Portogallo cit.,   segnaliamo altre 5 tesi di laura o di dottorato – reperibili sempre solo in formato cartaceo – depositate presso l’Università degli Studi di Firenze: Pamela Fedeli, Il fascismo e “l’Estado Novo”. Le relazioni tra l’Italia e il Portogallo dal 1930 allo scoppio della Seconda guerra mondiale (relatore Antonio Varsori, corso di laurea: Scienze Politiche), 2000 (per accertarne la consultabilità rivolgersi alla Biblioteca di Scienze Sociali. Collocazione: SPTL2000000000371 depositata presso Biblioteca di Scienze Sociali); Alessandra Cillerai, I rapporti politici tra l’Italia fascista e il Portogallo nelle prime fasi della Seconda guerra mondiale (1938-1941) (relatore Antonio Varsori, corso di laurea: Scienze Politiche), 2001 (per accertarne la consultabilità rivolgersi alla Biblioteca di Scienze sociali. Collocazione: SPTL2001000000159 depositata presso Biblioteca di Scienze Sociali); Davide Daresta, Roma Universa: il fascismo e il consolidamento dell’Estado Novo di Salazar (relatore Bruna Bagnato, corso di laurea: Relazioni Internazionali e Studi Europei), 2013 (per accertarne la consultabilità rivolgersi alla biblioteca di Scienze Sociali. Collocazione: SPTL2013000000055 depositata presso Biblioteca di Scienze Sociali); Marco Francesco Ibba, Rapporti italoportoghesi (1939-1941), Università degli studi di Parma, 2011 e Vincenzo Pepe,  Rapporti italo-portoghesi (1942-1945), Università degli Studi di Parma, 2013; due tesi, ma in formato elettronico e presenti in Rete.  La prima della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Venezia: Alberto Ragogna, Il Portogallo: una sconfitta del progetto espansionistico fascista (Relatore prof.re Rolf Petri, Corso di Laurea in Scienze del Testo Letterario Moderno e Contemporaneo), Anno Accodemico 2008-2009 (agli URL https://www.academia.edu/31173194/Il_Portogallo_-_una_sconfitta_del_progetto_espansionistico_fascista e http://www.academia.edu/attachments/51601069/download_file?st=MTU0NzQ1NjY1NSwxMzcuMjA0LjEzMy4xNTU%3D&s=swp-splash-paper-cover; WebCite: salvataggio URL e documento tecnicamente non possibile; Internet Archive: https://archive.org/details/Il_portogallo_-_una_sconfitta_del_progettoEspansionisticoFascista e https://ia601500.us.archive.org/2/items/Il_portogallo_-_una_sconfitta_del_progettoEspansionisticoFascista/Il_portogallo_-_una_sconfitta_del_proget1.pdf; nuovo “congelamento” del documento di Internet Archive su WebCite: https://ia601500.us.archive.org/2/items/Il_portogallo_-_una_sconfitta_del_progettoEspansionisticoFascista/Il_portogallo_-_una_sconfitta_del_proget1.pdf e http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia601500.us.archive.org%2F2%2Fitems%2FIl_portogallo_-_una_sconfitta_del_progettoEspansionisticoFascista%2FIl_portogallo_-_una_sconfitta_del_proget1.pdf&date=2019-01-21). La seconda della Facoltà di Lettere dell’Università di Porto: Bruno João da Rocha Maia, A entrada da Itália na Segunda Guerra Mundial vista pela diplomacia portuguesa (1939-1940) (sob a orientação do Prof. Doutor Manuel Loff, dissertação de Mestrado em História Contemporânea), 2010 (documento presso l’URL https://repositorio-aberto.up.pt/bitstream/10216/57339/2/tesemestbrunomaia000127777.pdf; WebCite: http://www.webcitation.org/75YzJ4e5d e http://www.webcitation.org/75YzV5elI; Internet Archive: https://archive.org/details/tesemestbrunomaia000127777 e https://ia801508.us.archive.org/14/items/tesemestbrunomaia000127777/tesemestbrunomaia000127777.pdf  e, infine, nuovo “congelamento” del documento di Internet Archive su WebCite: http://www.webcitation.org/75Z0QAhLT e http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia801508.us.archive.org%2F14%2Fitems%2Ftesemestbrunomaia000127777%2Ftesemestbrunomaia000127777.pdf&date=2019-01-20) e, infine, un’altra tesi, sempre in formato elettronico e sempre in Rete, Vera Margarida Coimbra De Matos, Portugal e Itália. Divergências e  convergências em quarenta e  três anos de relações diplomáticas (tese de Doutoramento em Altos Estudos em História, especialidade de Época Contemporânea, orientada pela Professora Doutora Maria Manuela Tavares Ribeiro, apresentada ao Departamento de História, Estudos Europeus, Arqueologia e Artes da Faculdade de Letras da Universidade de Coimbra), setembro 2014, che per l’arco temporale che copre riguardo i rapporti fra il Portogallo dell’Estado Novo prima e “democratico” poi e l’Italia fascista prima e sempre “democratica” poi – dal capitolo 1: “Salazar, Mussolini e a diplomacia luso-italiana” fino all’ultimo cap. 3 : “A Itália e a  negociação da  adesão de Portugal à CEE” – è documento con intenti di ricerca in qualche modo paralleli ai nostri ma che, piuttosto che cercare come nella nostra ricerca che prende le mosse dal case study di Dante Vacchi che fonda i commandos portoghesi le linee di continuità dei rapporti dell’Italia fascista e dopo dell’Italia del secondo dopoguerra col Portogallo dell’Estado Novo, privilegia in questi rapporti le soluzioni di continuità fra l’Italia fascista e “democratica” poi (ovviamente, non viene menzionato Dante Vacchi, ma su questo non è da muovere alcun appunto, perché Vacchi è un illustre sconosciuto che la nostra ricerca intende finalmente mettere sotto i riflettori; più grave, invece, che non venga menzionata l’internazionale nera, in cui fascisti italiani ebbero un peso di rilievo e come viene messo invece in luce in  Stefano Salmi, Le relazioni fra l’Italia e il Portogallo durante il periodo fascista e l’Estado Novo cit., pp. 404-424, dove si analizzano, fra gli altri, i rapporti di Pino Rauti con l’Estado Novo). L’URL originale di questo comunque importante documento è https://estudogeral.sib.uc.pt/bitstream/10316/26785/1/Portugal%20e%20It%C3%A1lia%20%3A%20diverg%C3%AAncias%20e%20converg%C3%AAncias.pdf, successivo nostro “congelamento” presso WebCite agli URL http://www.webcitation.org/75ZTbsQJJ e http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Festudogeral.sib.uc.pt%2Fbitstream%2F10316%2F26785%2F1%2FPortugal%2520e%2520It%25C3%25A1lia%2520%253A%2520diverg%25C3%25AAncias%2520e%2520converg%25C3%25AAncias.pdf&date=2019-01-20 ; presso Internet Archive: https://archive.org/details/PortugalEItlia_DivergnciasEConvergncias e https://ia801507.us.archive.org/28/items/PortugalEItlia_DivergnciasEConvergncias/PortugalEItlia_DivergnciasEConvergncias.pdf  e  infine, more solito,  nuovo “congelamento” del documento di Internet Archive su WebCite: http://www.webcitation.org/75ZUSYyvl e http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia801507.us.archive.org%2F28%2Fitems%2FPortugalEItlia_DivergnciasEConvergncias%2FPortugalEItlia_DivergnciasEConvergncias.pdf&date=2019-01-20. Mentre per quanto riguarda le fonti secondarie che non sono  tesi di laurea o di dottorato ma saggi  di indiscusso alto contenuto scientifico ma diffusi solo attraverso la classica editoria in cartaceo  segnaliamo   Mario Ivani, Il Portogallo di Salazar e l’Italia fascista: una comparazione, “Studi Storici”, 2005, n° 2, pp. 347-406; Id., Esportare il fascismo: collaborazione di polizia e diplomazia culturale tra Italia fascista e Portogallo di Salazar (1928-1945), Bologna, Clueb, 2008; e sempre per quanto riguarda la collaborazione e le affinità culturali tra il Portogallo estadonovista e l’Italia fascista, Goffredo Adinolfi, Ai confini del fascismo: propaganda e consenso nel Portogallo salazarista (1932-1944), Milano,  Franco Angeli Editore, 2007; Id.  L’uomo che costruì il consenso di Salazar. L’itinerario politico di   António Ferro dal futurismo al salazarismo, “Nuova Storia Contemporanea”, 2007, n° 4, pp. 61-75; Jorge Pais de Sousa (prefácio de Luís  Reis Torgal), Uma Biblioteca Fascista em Portugal. Publicações do Periodo Fascista Existentes no Instituto do Estudos Italianos da Facultade de Letras da Universidade de Coimbra, Coimbra, Imprensa da Universidade de Coimbra, 2007. Infine, dopo i documenti presenti in Rete sulle reazioni portoghesi sull’aggressiva politica estera del regime fascista,  Bruno João da Rocha Maia, A entrada da Itália na Segunda Guerra Mundial vista pela diplomacia portuguesa (1939-1940) cit. e Vera Margarida Coimbra De Matos, Portugal e Itália. Divergências e  convergências em quarenta e  três anos de relações diplomáticas cit.,  un’ultima segnalazione di una fonte secondaria in cartaceo  che riguarda la reazione della diplomazia portoghese verso l’ invasione italiana dell’Etiopia e che completa l’elenco dei già menzionati Stefano Salmi, Le relazioni fra l’Italia e il Portogallo durante il periodo fascista e l’Estado Novo cit.,  Vittorio Antonio Salvadorini, Italia e Portogallo dalla guerra d’Etiopia al 1943 cit., E. D. R. Harrison, On Secret Service for the Duce. Umberto Campini in Portuguese East Africa, 1941-1943 cit. e  Daniele Serapiglia, Una questione d’impero: la stampa dell’Estado Novo di fronte alla guerra d’Etiopia cit. : Maria Antonieta Gomes Raposo, A invasão da Etiópia em 1935 vista pela diplomacia portuguesa, Lisboa,  Edições Colibri, 2003, opera comunque utile per un primo approfondimento della problematica.).

       Comunque sia, Dante Cesare Vacchi nel corso di questo sua importantissima e straordinaria vicenda all’interno di un ganglio vitale dell’Estado Novo, l’esercito portoghese, e contro i movimenti di liberazione africani attraverso la creazione di sua mano di un fondamentale settore dell’esercito portoghese (a riprova dell’assoluta necessità di un lavoro da svolgere sulla sua figura, a nostra notizia vi sono solo quattro  saggi  sulla guerra coloniale portoghese che parlano  di Vacchi: il primo è il summenzionato lavoro di Fernando Cavaleiro Ângelo. Os Flechas cit.;  il secondo è John P. Cann,  The Fuzileiros: Portuguese Marines in Africa, 1961–1974, [S. l.], Helion & Company, 2016, dove a p. 24 si citano come fotografi del conflitto Anne Gaüzes, giornalista e probabilmente la donna dell’uomo d’arme italiano, e Dante Vacchi, vedi congelamento n. 26 del repertorio il terzo è Idem, The Flechas: Insurgent Hunting in Eastern Angola, 1965-1974, [S. l.],  Helion & Company,  2013 (di questo lavoro segnaliamo anche la sua versione in portoghese, sulla quale però non è stato possibile verificare, tramite Google libri,  se Vacchi vi sia citato: John P. Cann, Óscar  Cardoso, Os Flechas. Os Caçadores Guerreiros do Leste de Angola 1965-1974, Parede,  Tribuna da História, 2018), dove a pp. 17-18, al capitolo secondo “Learning counterinsurgency” si scrive: «As the war progressed, particurarly  the reoccupation of the north, the urgent need for specially trained troops became clear, that is those troops whose training went well beyond the traditional instruction and even beyond that of the CCEs.  Such troops would be formed into units capable of operating independently for extended periods in the field. This need came to the fore during the employment in early 1962 of an infantry battalion to the vicinity of Nóqui, a frontier port of the Congo River. Accompanying the battalion was an Italian journalist, Cesare Dante Vacchi, who held a wealth of combat experience from both Indocina and Algeria and wrote for Paris Match. He befriended the officers and men of the battalion, and, as he learned their language, began to offer instruction based not only in the technical tradecraft of soldiering but also, and more importantly, in the psychological preparation that enabled the troops to acclimate quickly to the confusion of combat. As the strong results of Vacchi’s coaching became widely apparent, it was felt that this more sophisticated and advanced preparation should be the basis of a specialized body of highly capable troops. Consequently, in late 1962, after extensive briefings of key generals, Colonel José Bettencourt Rodrigues, the Chief of Staff of the Military Region, was given a free hand in establishing the new units and their training centre at Zemba, a site about 80 miles northeast of Luanda. In 1963, the first of these new troops, called commandos, were deployed in small numbers and organized in platoon-sized commando groups (grupos de commandos). In September 1964, the 1st Company of Commandos began operations from Belo Horizonte, the new commando base located in the North of Angola. These commandos also proudly wore the new, distinctive crimson beret.», mentre a p. 7 dello stesso saggio viene riprodotta una foto relativa al confine nord fra Angola e Congo che nella didascalia viene attribuita a Dante Vacchi, vedi congelamento n. 31 del  repertorio; il quarto è José Freire Antunes, A Guerra de África – 1961-1974, Lisboa, Círculo de Leitores, 1995,  dove Dante Vacchi, secondo il motore di ricerca di Google libri, viene citato tre volte, pp. 233, 234 e 464: a p. 233 dove Vacchi viene definito giornalista di “Paris Match”, a p. 234 dove lo stralcio dell’immagine della pagina operata da Google libri non ci consente di dire molto altro tranne che segnalare la citazione ed infine p. 464 dove compare un diretto riferimento alla PIDE ma dove l’immagine restituitaci da Google libri esclude il nome di Vacchi, nonostante il motore di ricerca di Google libri ci abbia indirizzato anche a quella pagina. Per più dettagli in merito al saggio di José Freire Antunes, vedi congelamento n. 34 del presente repertorio delle fonti Internet e, ad ancora maggior ragione,  vale pure qui la necessità della verifica sulla forma cartacea dei documenti esistenti nella doppia versione cartacea ed “internettiana”) si era conquistato  una enorme stima da parte dei suoi compagni portoghesi impegnati in Africa nella guerra contro i movimenti di liberazione ma questo eccezionalmente positivo apprezzamento verso Dante Cesare Vacchi non fu elargito solo dai militari che furono da lui istruiti sul campo nelle operazioni di controguerriglia (vedi video e relative interviste ai suoi commilitoni al “congelamento” documentale della scheda n° 1 del presente inventario) ma anche da parte delle alte sfere del regime estadonovista, visto che già nel 1961, ancor prima del suo impegno nelle operazioni di controguerriglia in Angola, Vacchi aveva potuto intervistare e fare un servizio fotografico su Salazar. («L’intervista fu pubblicata in portoghese sulla rivista «Notícia» del 14 luglio 1961, accompagnata da tre fotografie di Salazar. Il reportage è annunciato con le seguenti parole: «pela primeira vez um jornalista consegue penetrar na intimidade do presidente português». La stessa intervista sarà poi pubblicata in italiano nel n° 60 (anno XIII) di «Epoca», dell’8 aprile del 1962, con il titolo Come ho fatto a fotografare Salazar in casa sua. La singolare avventura di un giornalista a Lisbona (pp. 44-47, 49, 50)»: Giovanni Damele, Dante Vacchi e i Comandos portoghesi. Appunti per una ricerca, p. 3. Questo articolo del Damele, allo stato il primo lavoro con criteri scientifici su Vacchi, è stato da noi reperito in Rete e non siamo riusciti a sapere se prima o contestualmente sia stato pubblicato in cartaceo. Ad ogni buon conto, al punto 2 di questo inventario forniamo l’URL presso il quale è possibile prenderne visione assieme ai “congelamenti” WebCite ed Internet Archive che consentono a questo articolo di diventare una fonte internettiana di sicura e durevole citabilità).

       Non è questa la sede per ricostruire la biografia di Cesare Dante Vacchi («Dante Cesare Telesforo Vacchi [era] nato a Conselice il 21 maggio del 1925 da Giuseppe e Anita Gentilini [e] Morirà a Cervia il 5 maggio del 1994.»: Ivi, pp. 4 e 8) anche perché – anzi soprattutto perché – attualmente la documentazione disponibile è veramente scarsa (per esempio, per quanto  riguarda il suo ruolo svolto nella formazione dei commandos portoghesi, al momento, a parte le fonti primarie e secondarie in Rete qui inventariate e “congelate”, siamo venuti a conoscenza, anche se non ancora nella nostra disponiblità nella forma cartacea, solo dei summenzionati quattro saggi a stampa che menzionano – e tre, a quanto pare, anche piuttosto di sfuggita – Dante Vacchi); basti dire che a parte le sue non numerossime iniziative pubblicistiche e giornalistiche (Dante vacchi era anche giornalista, o perlomeno amava presentarsi come tale), non sappiamo veramente molto altro, a parte il già accennato impegno come consigliere militare, di Dante Cesare Vacchi e quindi per cominciare a tracciare un profilo di questo personaggio la ricerca dovrà esaminare, oltre alle fonti archivistiche e testimoniali portoghesi, oltre i  summenzionati saggi  (le citazioni che abbiamo tratto da questi non derivano da una visione diretta dei  documenti  in questione ma sono state fatte tramite motore di ricerca all’interno della pagina Google libri, ricerca che potrebbe avere omesso, visto che in Google libri alcune pagine non vengono pubblicate, altri luoghi dove viene citato Vacchi; e tanto per sottolineare la necessità di andare oltre questa prima forma di approfondimento tramite Internet sui saggi sulla guerra coloniale portoghese, di John P. Cann segnaliamo anche Counterinsurgency in Africa: The Portuguese Way of War, 1961-1974,  [S. l.], Praeger,1997, saggio sul quale il motore di ricerca non ha fornito alcun riscontro su Vacchi ma che, per le suddette ragioni, non è proprio detto che Vacchi non vi compaia in qualche modo) e oltre anche tutti i lavori dei diversi autori che si sono occupati della guerra coloniale portoghese (ma che in relazione alla ricerca Google non hanno dato alcuna segnalazione positiva su Dante Vacchi), anche le opere a stampa di Dante Vacchi, che  riguardano – ma non solo  – l’Angola, sulle quali finora non è stato compiuto alcun lavoro scientifico e delle quali forniamo ora un elenco che – presumibilmente –  dovrebbe essere completo (il presente inventario riguarda le fonti Internet  e dei lavori giornalistici di Vacchi, in cui pur sappiamo dalle fonti Internet fin qui consultate che Vacchi pur vi si cimentò – per es. l’intervista a Salazar – in Internet praticamente non v’è rimasta alcuna traccia né per quanto riguarda una immisione in Rete del testo di questi articoli né, tantomeno, anche per la sola citazione di essi e questa situazione è analoga anche per i libri che in vita pubblicò, di cui siamo venuti a conoscenza solo tramite il sistema OPAC e nessuno dei quali è stato immesso in Rete: libri e articoli di Vacchi dovranno quindi necessariamente subire un esame in cui la ricerca internettiana è quasi interamente fuori gioco): Anne Gaüzes, Dante Vacchi, Angola 1961-1963, Lisboa, Bertrand, 1963, libro sugli inizi della guerra in Angola, da noi non ancora esaminato. Scrive di questo libro Giovanni Damele, Dante Vacchi e i Comandos portoghesi cit., pp. 2-3: «Una prima ricostruzione basata su materiali reperibili in Portogallo, e compiuta in gran parte dal già citato tenente colonnello Neves, consente di datare al 1961 l’arrivo in Angola di Dante Vacchi, il quale si identifica come fotoreporter di «Paris Match», con il compito ufficiale (evidentemente autorizzato dallo stato maggiore portoghese) di realizzare un reportage sul contrasto della guerriglia indipendentista. Il reportage darà in seguito origine al volume Angola 1961-1963, scritto in coautoria con Anne Gaüzes.»; Dante Vacchi, Penteados de Angola [S.l., s.n., ma Lisbona, Litografia Portugal ], 1965, libro fotografico contenente 53 foto sulle acconciature delle donne angolane, da noi non ancora esaminato ma che dalle fonti Internet da noi consultate, vedi congelamenti n. 8,  9 e 14, appare come un testo con evidenti intenti di documentazione etnografica; Dante Vacchi, Anne Gaüzes, Porto, Seixal, Mundet & C., 1965 (il libro è stato pubblicato anche in Italia, con lo stesso titolo, probabilmente in italiano, a Milano, sempre nel 1965 presso l’editore Alfieri & Lacroix; entrambe le edizioni, portoghese ed italiana, da noi non ancora esaminate. Vacchi volle presentare personalmente questo libro a Salazar e per questo scrisse una lettera al dittatore portoghese chiedendo di essere ricevuto, cfr. Giovanni Damele, Dante Vacchi e i Comandos portoghesi cit., p. 3); Anne Gauzes, Dante Vacchi, Raffaello: la Stufetta del cardinale Bibbiena, Lugo di Ravenna,  Bruno Contarini, 1976, libro da noi non ancora esaminato; Dante Vacchi, La mano monca di Dio: cinque anime in striptease, una serie di malattie a puntate, un esercito alla formalina, donne rurali in video regionale, femmine pappagalle mal scopate, un uomo ex pugnetta con carta da visita, Ravenna [S. n., s.d., ma probabilmente EB, 1979], libro da noi non ancora esaminato; Dante Vacchi, Il padrino verde,  Ravenna, Brigantino, 1983, libro da noi non ancora esaminato; Dante Vacchi, Anne Vuylsteke (il vero nome di Anne  Gaüzes), Les jésuites en liberté, Paris, Filipacchi, 1990, libro da non non ancora esaminato, vedi recensione al congelamento n. 14.

        E parliano ora un po’ più a fondo, dopo i precedenti brevi cenni,  della ratio tecnica di questo documento, questo Primo inventario delle fonti Internet riferentisi a Cesare Dante Vacchi,  la cui compilazione è propedeutica ad una ricerca (su Dante Vacchi che fonda i commandos portoghesi) volta all’applicazione e alla verifica della  teoria politologica e filosofico-politica del Repubblicanesimo Geopolitico. Quasi tutto quello che allo stato ci è dato sapere su Dante Vacchi proviene da fonti internettiane ma questo tipo di fonti scontano un terribile peccato originale, sono volatili ed è stato calcolato che la  loro durata prima di svanire nel nulla sia in media quattro-cinque anni (quando va bene). Se si vuole quindi  iniziare a costruire un percorso di ricerca su Dante Cesare Vacchi, è prima di tutto necessario “congelare” e gli URL originali  attraverso i quali possiamo risalire a questa prima documentazione su Dante Vacchi e i documenti stessi che attraverso questi URL possono essere consultati. Dopo i download da Internet, siamo quindi ricorsi agli upload sia verso WebCite sia verso Internet Archive e le pagine e gli indirizzi salvati con questa procedura sono 34 (fra i quali è compreso anche il salvataggio ma solo su Internet Archive, tecnicamente l’unica opzione possibile, di tre video sui commandos portoghesi originariamente postati su YouTube: due menzionano il Vacchi, uno no – si tratta di un documento filmato che sottolinea il ruolo della PIDE nella guerra coloniale portoghese – e  quest’ultimo l’abbiamo incluso in questo inventario perché contiene materiale filmato  comune con uno dei due che menziona Vacchi, e ciò ci fa capire quanto la memoria su Vacchi fondatore dei commandos portoghesi sia a tutt’oggi un campo di scontro e divisivo).

       Anche se per tutte le pagine oggetto di download si è provveduto al doppio congelamento WebCite ed Internet Archive (ed inoltre le pagine caricate su Internet Archive sono state a loro volta congelate tramite WebCite, in modo da far svolgere ad  Internet Archive anche il ruolo di una sorta di sito originale di secondo livello: come già sottolineato, per noi la ridondanza è un valore assoluto) non sempre questo doppio “congelamento” ha dato esiti positivi, nel senso che è capitato che non sempre una delle due piattaforme abbia accettato i documenti che venivano caricati. Ma anche nel caso di questi fallimenti siamo comunque riusciti con questa procedura del doppio “congelamento” – e variando il formato originario del documento che si voleva “congelare”: tutti i documenti in HTML sono stati convertiti in Word ed in PDF  – a salvare ogni documento rendendone possibile la citabilità, e proprio perché si sta svolgendo un lavoro scientifico che anche nell’onesto rendiconto meramente tecnico del suo procedere deve trovare uno dei suoi capisaldi, questi fallimenti non sono  stati cancellati dall’inventario e il lettore potrà benissimo personalmente avvedersene cliccando sull’URL che non ha prodotto un felice risultato (ed anche leggendo l’apposita nota che indica il fallimento).

       Un ultimo breve accenno sull’impostazione del presente inventario. Come abbiamo già detto, l’inventario contiene il “congelamento” a scopo di citabilità scientifica di 34 documenti scaricati da Internet. Nei “congelamenti” effettuati su Internet Archive, nella pagina offerta da questa piattaforma per illustrare i documenti ivi caricati, abbiamo ritenuto di inserire, oltre il “congelamento” dell’URL  su WebCite e l’URL originario del documento stesso, anche  i  salvataggi su WebCite ed Internet Archive di tutti i rimanenti documenti dell’inventario, in modo che, attraverso anche un solo documento “congelato” su Internet Archive, sia possibile avere a disposizione tutto l’inventario e quindi risalire a tutti i documenti dell’inventario stesso.

       Insomma questa introduzione, a cui seguono immediatamente i 34 documenti “congelati” sia nell’URL che nel testo e debitamente numerati progressivamente nell’inventario (la sequenza di questa numerazione è unicamente quella dell’ordine cronologico con cui i documenti sono giunti alla nostra conoscenza), è posta alla fine della presentazione di ogni pagina salvata su Internet Archive e, prima ancora del presente inventario completo, è messa nella pagina di presentazione di Internet Archive anche quella parte dell’inventario stesso, ovviamente debitamente contrassegnato dal numero ordinale, relativo al documento in questione.

       Inoltre, nel completamento di questo inedito – e sotto molto aspetti autenticamente rivoluzionario – lavoro archivistico internettiano teso a rendere citabile tutta una serie di fonti presenti in Rete indispensabili per scrivere una storia dei rapporti fra il Portogallo estadonovista e l’Italia fascista e del secondo dopoguerra con particolare riguardo al problema coloniale, questo stesso inventario – con questa sua nota introduttiva – ha avuto il suo debito “congelamento” tramite la piattaforma Internet Archive (per ovvie ragioni non è stato possibile il congelamento primario dell’URL e del documento su WebCite perché si tratta di un documento originale  che non è stato scaricato da Internet ma, comunque, sempre in omaggio al principio di ridondanza –  e come si è fatto, quando possibile, per tutti i documenti dell’inventario – , l’URL e il relativo documento generati da Internet Archive sono congelati su WebCite).

       Per finire, una veloce spiegazione della inedita locuzione che s’incontra all’inizio del sottotitolo dell’inventario ‘atto di riparazione strategica’. Come enuncia il resto del sottotitolo, il percorso di ricerca che prende inizio dall’indagine  sulla figura di Dante Vacchi è (e sarà) ispirato dall’impostazione politologica e filosofico-politica del Repubblicanesimo Geopolitico, il quale trova il suo caposaldo, in radicale antitesi all’ideologia universalistica di derivazione giusnaturalistica ed illuministica,  nel momento geopolitico, il quale però abbia definitivamente perso ogni automatismo meccanicistico di origine positivista e/o neopositivista che segnava negativamente, anche se non ne annullava il profondissimo valore euristico e dialettico,  la vecchia geopolitica novecentesca (in Friedrich Ratzel, il fondatore della geopolitica e il creatore del termine ‘Lebensraum’, il termine ‘spazio vitale’ di suo conio trovava il suo ambiguo significato fra uno stretto determinismo di stampo positivistico e un sottofondo vitalistico più aperto ad una sua espressività dialettica; Rudolf  Kjellén, il creatore del termine ‘geopolitica’, nel  suo Staten som lifsform del 1916[1]Lo Stato come forma di vita – era parimenti pencolante fra un’interpretazione deterministica di questa forma di vita ed una più dinamica e dialettica) e abbia, al contrario, positivamente ed integralmente accolto, fino a depurarla al suo massimo grado e quindi consentendone la sua più piena entelechia, la filosofia della prassi di matrice idealistico-hegelo-marxiana.

       Ed è appunto attraverso  questa rinnovata filosofia della prassi (i  cui capostipiti sono il Niccolò Machiavelli del Principe e  dei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio e il Giambattista Vico della Scienza Nuova  e della De antiquissima Italorum sapientiaverum  et ipsum factum  e verum et factum convertertur –  e i massimi esponenti nel Novecento sono l’Antonio Gramsci dei Quaderni del Carcere con la folgorante creazione del mito di machiavelliano conio  del moderno Principe,  il György Lukács di Storia e coscienza di classe, il Karl Korsch di Marxismo e filosofia, l’Adorno de L’idea della storia naturale, il Walter Benjamin di Tesi di filosofia della storia ed, infine,  il Giovanni Gentile de La filosofia della prassi (1899), la cui lettura, sulla scorta di una rivoluzionaria ed idealistica interpretazione delle marxiane Tesi su Feuerbach, della filosofia del filosofo e rivoluzionario di Treviri come filosofia della prassi  non è  solo l’incunabolo dell’attualismo ma anche gestalticamente il Grundtext dialettico, prassistico ed antipositivistico non solo dei  precedenti cinque pensatori novecenteschi ma anche di tutto  quel marxismo occidentale che sempre si oppose alla  falsa vulgata staliniana del marxismo e della dialettica che va sotto il nome di Diamat – acronimo in cirillico ‘диамат’, ovvero per esteso ‘Диалектический материализм’, cioè ‘dialektičeskij materializm’ traslitteraterando la locuzione in alfabeto latino) che trova un decisivo e rivoluzionario allargamento semantico la parola ‘strategia’, ora intesa dal Repubblicanesimo Geopolitico non solo come un atteggiamento e una serie di mosse finalizzate a prevalere sull’avversario, sull’ambiente naturale, culturale e/o storico, ma come il momento iniziale ed ontogenetico dell’espressione e creazione della realtà attraverso il rapporto dinamico e dialettico del soggetto con l’oggetto[2].

       Per chi voglia documenentarsi sul Repubblicanesimo Geopolitico non è questa la sede  per perdersi in approfondite discussioni, a questo scopo abbondante materiale può essere reperito in Rete (però, qualche indicazione è giusto fornirla: la discussione sul Repubblicanesimo Geopolitico si è sviluppata prima sulle pagine del blog di geopolitica “Il Corriere della Collera” – URL di riferimento https://corrieredellacollera.com/ –; ha registrato qualche intevento sulla rivista on line di studi neomarxisti “Conflitti e Strategie” – URL di riferimento http://www.conflittiestrategie.it/ –, particolarmente significativa su questa rivista la videointervista sul Repubblicanesimo Geopolitico Repubblicanesimo geopolitico. Intervista al prof. Massimo Morigi – presso la pagina di “Conflitti e Strategie” all’URL  http://www.conflittiestrategie.it/repubblicanesimo-geopolitico-intervista-al-professor-massimo-morigi, intervista che rinvia anche all’URL di YouTube https://www.youtube.com/watch?time_continue=4&v=VeOUHYC8zq8 , videointervista che, infine, si è anche provveduto a “congelare” su Internet Archive all’URL https://archive.org/details/RepubblicanesimoGeopoliticoIntervistaAlProfessorMassimoMorigi –; ha infine animato il dibattito, con diversi interventi, sulla rivista on line di geopolitica “L’Italia e il mondo” – URL di riferimento http://italiaeilmondo.com/ –; e sul Repubblicanesimo Geopolitico segnaliamo, infine,  tre documenti: Massimo Morigi, Teoria della Distruzione del Valore (Teoria fondativa del Repubblicanesimo Geopolitico e per il superamento/conservazione del Marxismo), Idem, Dialecticvs Nvncivs. Il punto di vista del Repubblicanesimo Geopolitico attraverso i Quaderni del Carcere e Storia e Coscienza di Classe per il rovesciamento della gerarchia della spiegazione meccanicistico-causale e dialettico-conflittuale, per il rinnovamento degli studi marxiani e marxisti e per l’ Aufhebung della gramsciana e lukacsiana Filosofia della Praxis e Idem, Repubblicanesimo Geopolitico Anticipating Future Threats. Dialogo sulla Moralità del Repubblicanesimo Geopolitico più Breve Nota all’Intervista del CSEPI a La Grassa (di Massimo Morigi): documenti facilmente reperibili in Rete); quello che si cerca, in conclusione, di far comprendere con la locuzione ‘atto di riparazione strategica’ è che non sì è vuole riabilitare introducendo surrettiziamente un concetto inedito ma vago, una figura certamente espressione  di quella parte che è uscita sconfitta  – e ci sia consentito di dire giustamente sotto tutti i punti di vista – dal secondo conflitto mondiale (e poi da riabilitare rispetto a cosa? allo stato sappiamo veramente molto poco su Dante Vacchi, tranne il fatto che per tutta la vita fu certamente fascista e che, evidentemente, mai accettò  di non poter più svolgere il mestiere per il quale si sentiva più vocato, l’arte della guerra: ma se si dovesse scaraventare agli inferi un personaggio storico solo per questo tipo di pulsione e pratica bellica, veramente le nazioni non avrebbero  più né eroi né padri più o meno nobili… il che non è detto che sarebbe necessariamente un male ma però questa opzione etica – o, meglio,  questa deformazione “giustiziera” piuttosto che correttamente “giustificatrice” della storia, come ebbe modo già di dire don Benedetto  nel lontano 1917 in Teoria e storia della storiografia – nell’attività storiografica non può mai essere a senso unico e glissando sulle pulsioni e pratiche violente dei vincitori…), ma si vuole far emergere, attraverso lo studio di Dante Vacchi – prima fase di un inedito sforzo interpretativo sui rapporti fra Estado Novo e Italia fascista e poi “democratica” in cui, alla luce dell’impostazione dialettico-strategica del Repubblicanesimo Geopolitico, verrà verificata l’ipotesi non di una loro pedissequa continuità nel secondo dopoguerra ma, perlomeno, di un loro precario equilibrio fra le ragioni rappresentative, un tempo si sarebbe detto ‘sovrastrutturali’,   delle opposte ideologie dei due Stati e le profonde ragioni geopolitiche della collocazione atlantica ed anticomunista dei due paesi –, il caposaldo fondante e fondamentale del Repubblicanesimo Geopolitico, vale a dire il momento ontogenetico dall’azione-conflitto dialettico-espressivo-strategico, una azione che nel caso di Dante Vacchi, nonostante la  scarsa documentazione in nostro  possesso ma univoca nell’indicare il ruolo di protagonista del Vacchi, emerge essere stata di grandissima portata (non accettò, comunque se ne possano giudicare le motivazioni, la fine della storia emersa come esito apparentemente immodificabile del secondo conflitto mondiale, arrivando a prestare la sua arte militare ad un regime morente, quello del Portogallo salazarista, fascista e totalitario, ma attraverso un operato, la creazione dei commandos portoghesi, i cui effetti si riverbano ancor oggi nell’organizzazione militare del Portogallo “democratico”: almeno su questo dato di fatto concorda tutta la scarsa documentazione disponibile), ma che, questa azione, rischiava e rischia tuttora di rimanere per sempre incognita e/o di disperdersi in fugaci apparizioni nella Rete (con danno evidente, nel caso di un suo irrimediabile oblio, per la comprensione non minata dalle fumisterie ideologiche dell’universalismo “democratico” ma innervata dalla realistica filosofia della prassi del Repubblicanesimo Geopolitico dei reali rapporti nel secondo dopoguerra fra il Portogallo dittatoriale e l’Italia “democratica”, ma “democratica” d’importazione, solo per limitarci alla genesi strettamente événementielle delle nostre “libere” istituzioni). E quindi “atto di riparazione strategica” non perché Vacchi possa tramutarsi da fascista irriducibile in una image d’Épinal buona da spendersi per il politicamente corretto dell’ideologia della fine della storia ma per il semplice fatto che il  ‘momento strategico’  espresso da Vacchi (pur notevole  e di primissimo livello sul piano biografico della sua vicenda umana con tratti eccezionali ma, soprattutto, tassello  fondamentale – e  di collegamento e di continuità fra Italia fascista ed Italia democratica o, meglio, postfascista –  per comprendere, come recita il titolo di questa comunicazione, I rapporti fra il Portogallo dell’Estado Novo e l’Italia fascista e del secondo dopoguerra in relazione al problema coloniale africano) rischiava di perdersi e  quindi, per evitare questa dispersione – o, meglio, questo ‘oblio dello strategico’ che, simile all’ ‘oblio dello strategico’ verso tutti coloro che nel corso della storia umana sono risultati fra gli sconfitti dell’azione-conflitto dialettico-espressivo-strategico, rischia di coinvolgere non solo una vita singola ma un aspetto fondamentale degli ultimi decenni del Novecento italiano e portoghese – era necessario un doveroso atto di riparazione (che certamente, visto il tipo di fonti privilegiate, ha un suo lato tecnico indubbiamente innovatore e debitore delle problematiche tecnico-informatiche del XXI secolo e della correlata volatilità delle fonti Internet ma che, dal punto di vista filosofico, nel suo riparatorio e rimemorante opporsi all’ ‘oblio del momento strategico’ – e di un individuo, Dante Cesare Vacchi che fonda i commandos portoghesi, e di una fase storica, i rapporti fra Italia e Portogallo determinati, al di là delle fumisterie ideologiche, dall’appartenenza al medesimo blocco atlantico anticomunista – si ricollega direttamente al messianismo di Walter Benjamin e alla possibilità  che nel Jetztzeit sprigionato dal procedere dialettico-strategico di una vera attività storiografica[3], nel caso del presente inventario un tempo-ora generato dalla tecnologie informatiche e cibernetiche del Web ma eternizzato  dal nostro artigianale “congelamento” delle fonti in Rete, possa benjaminamente manifestarsi quel Messia che operi quella restitutio ad integrum di coloro che erano stati sommersi dal conflitto strategico dal quale nasce e col quale è costituita la storia umana[4]; quindi il nostro “congelamento delle fonti  Internet”, come una sorta di messianico tempo-ora  non solo per Dante Cesare Vacchi ma anche per la storia – dialettica,  espressiva, conflittuale e strategica – di un secondo dopoguerra segnato dalla divisione del mondo in due blocchi e verso il quale il nostro storiografico salvataggio rimemorante è l’unica possibilità che ci è data per un suo reale superamento che non sia, come pretenderebbe l’ideologia della fine della storia, una sua criminale rimozione-falsa uccisione, allo scopo, come effettivamente oggi accade, di riproporne una sua riproposizione sotto mentite spoglie, democratiche formalmente ma intrinsecamente fasciste nella realtà), che si è concretizzato, come prima sua tappa, attraverso l’inventario delle fonti Internet che lo riguardano e che senza i “congelamenti” da noi operati e debitamente indicati in questo repertorio rischiavano di svanire.

       Nel titolo di questa comunicazione, accanto alla locuzione ‘atto di riparazione strategica’, abbiamo posto il numero ordinale ‘1°’. Certamente primo per quanto riguarda Dante Vacchi, un personaggio cui nessuno prima d’ora aveva dedicato un interesse scientifico non esaurito in sé stesso ma che ponesse le basi per un più vasta ricerca storica sui rapporti fra Portogallo estadadonovista ed Italia fascista prima ed Italia postfascista poi mettendo in luce quegli elementi di continuità che nel secondo dopoguerra non furono più di contiguità ideologica come lo furono durante il Ventennio ma che, come ormai  già sembra dimostrare la figura di Dante Cesare Vacchi, si avvalsero di personaggi o direttamente legati col passato regime fascista italiano o pubblicamente nostalgici dello stesso (come abbiamo già detto, l’unico studio scientifico finora pubblicato su Dante Cesare Vacchi è Giovanni Damele, Dante Vacchi e i Comandos portoghesi. Appunti per una ricerca cit. ma è uno studio strettamente biografico e non con i propositi di ricerca da noi appena enunciati; e se il già menzionato Stefano Salmi, Le relazioni fra l’Italia e il Portogallo durante il periodo fascista e l’Estado Novo cit. è impotante per quanto riguarda  i rapporti fra l’Italia fascista e il Portogallo estadonovista, si deve ricorrere a questo studio anche per quanto riguarda un primo approccio sulla problematiche di ricerca ora  enunciate nel presente inventario, dedicando  sì questa tesi di laurea una parte significativa della sua analisi su come i rapporti fra i due paesi totalitari  si intrecciarono attorno alle loro rispettive problematiche coloniali e di come queste problematiche a loro volta li influenzarono e quindi questa tesi ponendosi come ideale premessa, per il periodo affrontato e per gli argomenti trattati, degli  studi che si dovranno dipanare dalla ricerca sulla figura di Dante Vacchi, che riguardano i rapporti fra Italia e Portogallo nel secondo dopoguerra, ma anche saggio che getta un ponte diretto con la nostra ricerca sulla figura di Dante Cesare  Vacchi, in quanto vi si indaga anche dei rapporti di Pino Rauti  con l’Estado Novo portoghese – cfr. Stefano Salmi, Le relazioni fra l’Italia e il Portogallo durante il periodo fascista e l’Estado Novo cit.,  pp.  404-424 –,  aprendo quindi la strada allo studio sul ruolo  svolto dal neofascismo italiano del secondo dopoguerra nel rafforzare e a livello interno e nelle sue proiezioni internazionali e coloniali l’Estado Novo; un ruolo svolto dal neofascismo italiano la cui definizione è lo scopo precipuo dell’indagine su Dante Vacchi e in una definizione di questo ruolo che prima del nostro studio su Vacchi era stato anche egregiamente affrontato – vedi le fonti secondarie già citate – ma che, prima d’ora, non aveva mai puntato i suoi riflettori su uno straniero protagonista assoluto nella costruzione di un ganglio fondamentale  dell’apparato statale estadonovista: il francese Yves Guérin-Sérac, figura affrontata da pur  egregi studi sull’internazionale nera da noi citati, fonda nel 1966 l’Aginter Press ma si tratta di uno strumento, seppur importante per il terrorismo internazionale e per l’appoggio della politica coloniale portoghese, esterno allo Stato portoghese; l’italiano Dante Cesare Vacchi fonda i commandos portoghesi, strumento fondamentale per la guerra coloniale portoghese e apparato assolutamente interno allo Stato e all’esercito dell’Estado Novo), ma anche primo per il Repubblicanesimo Geopolitico, che attraverso lo studio di questo personaggio come punto di fuga prospettica del  più vasto affresco storico dei rapporti dell’Estado novo con l’Italia fascista e poi postfascista del secondo dopoguerra, intende innervare per la prima volta una specifica ed originale ricerca storica della sua Weltanschauung dialettico-espressivo-conflittuale-strategica.

       Un ‘atto di riparazione strategica’, quindi, che si manifesta come un  ‘contro-atto di oblio dello strategico’ propedeutico, se non diretta espressione, di quella ‘epifania dello strategico’ di cui abbiamo già ampiamente detto in altri luoghi a proposito del Repubblicanesimo Geopolitico e ‘contro-atto di oblio dello strategico’ e/o ‘epifania strategica’[5] che nella sua prassistica attiva ‘rimemorazione strategica’ della quale intende infondere la sua ricerca, si riallaccia direttamente, trovandovi il suo Grundtext, alle soteriologiche benjminiane Tesi di filosofia della storia, attraverso una prassi storiografica in cui l’atto messianico viene finalmente realizzato dal ‘tempo-ora’ della ‘rimemorazione dello strategico’, un momento strategico rimemorato e quindi salvato e quindi reso disponibile ad una prassi umana che proietta in avanti, e in un certo senso “eternizza”, l’originario  Jetztzeit  del procedere storico strategico (nel duplice ma convergente senso – in Gestalt dialettico-espressivo-conflittuale-strategica –  di ‘storia’ inteso come accadimento e come sua narrazione)  e che, nel nostro caso, con fulcro e punto iniziale di fuga prospettica in Dante Cesare Vacchi che fonda i commandos portoghesi, sarebbe stato altrimenti perso per sempre, sommerso (dagli apparentemente) vincitori idola theatri post 1989[6].

E soprattutto per consentirci questa ‘epifania strategica’ che questo rimemorante ‘atto di riparazione’ è dal punto di vista del Repubblicanesimo Geopolitico primo, nel senso di assoluta priorità ed urgenza realizzativa, dopo le sue molte e ripetute elaborazioni prevalentemente teoriche, ed è soprattutto che, per poterci consentire questa concreta applicazione su un concreto case study della Weltanschauung del Repubblicanesimo Geopoliltico,  abbiamo un grande debito di riconoscenza verso Dante Cesare Vacchi, perché Dante Cesare Vacchi ci consente un riaffioramento del concetto di ‘conflitto strategico’ sempre in bilico fra il rischio del suo oblio (il politicamente corretto e la surrettiziamente ribadita fine della storia) e la speranza della sua Epifania (oggi espressa, dopo la fine del marxismo – ma sarebbe meglio dire la sua Aufhebung attraverso il Repubblicanesimo Geopolitico –, con piena consapevolezza teorica dal Repubblicanesimo Geopolitico ma, per fortuna,  certamente con minore consapevolezza ma con non disprezzabile energia da tutti coloro che, pur da contrapposte barricate, decisamente ed espressamente rifiutano la fukuyamesca fine della storia).

       Allo stadio iniziale della nostra ricerca, non ci è dato conoscere se Dante Cesare Vacchi abbia mai sviluppato non diciamo una filosofia ma perlomeno un pensiero politico all’altezza dei suoi grandi risultati strategico-militari e di State Building (Vacchi non solo combattè con indubbia efficacia nella guerra coloniale portoghese ma, come già sottolineato, nel farlo creò ex nihilo all’interno della fabrica dell’esercito portoghese un’articolazione indispensabile dell’Estado Novo, il corpo dei commandos che in questa guerra furono la punta di lancia contro i movimenti di liberazione) che caratterizzarono il suo passaggio su questa terra (i suoi libri elencati nel presente documento devono trovare ancora una lettura complessiva, organica e significativa dal punto di vista scientifico, e sarà uno dei nostri compiti eseguirla, come pure si dovrà procedere per gli articoli per i periodici che Vacchi scrisse e in questa introduzione da noi neppure elencati per la semplice banale ragione che le fonti Internet se possono dare notizia, come nel caso di Vacchi, anche di opere librarie di autori molto poco conosciuti, quasi sempre tacciono completamente per quanto riguarda l’attività giornalistica di questi personaggi. Per andare nello specifico: come si vede dal repertorio delle fonti Internet da noi qui prodotto, il mercato dell’antiquariato librario segnala le opere di Vacchi, e attraverso i sistemi OPAC italiano e portoghese, consultabili solo  tramite Internet – OPAC: On-line public access catalogue –, è ugualmente possibile ricostruire un sostanzioso elenco di opere librarie di Vacchi, ricostruzione internettiana  che non è stata assolutamente possibile per gli articoli di Vacchi: comunque tutte queste fonti primarie su Vacchi, sia i libri che gli scritti per i periodici, saranno da noi non solo minuziosamente  repertoriate al di là delle risorse archivistiche offerte dalla Rete – ma risorse archivistiche che solo attraverso il nostro lavoro di “congelamento” si sono tramutate da virtuali a reali – ma anche attentamente esaminate), ma   per fornire una Gestalt che non sia solamente autoreferenziale di ‘Epifania strategica’ e, al contempo, per fornire anche il segno sotto il quale – pensiamo – si svolse, al di là di un pensiero politico ancora da noi tutto da focalizzare, la vita di Cesare Dante Vacchi, forse la  migliore approsimazione ci può essere prestata da come Roberto Esposito, in Pensiero vivente, sintetizza la peculiarità del pensiero italiano, un pensiero italiano che, non sappiamo ancora quanto consapevolmente – ma amiamo ritenere profondamente – guidò Dante Cesare Vacchi: «È qui, appunto, che si radica il primo asse paradigmatico del pensiero italiano, riconducibile alla figura, altamente complessa, dell’immanentizzazione dell’antagonismo. Che il conflitto sia costitutivo dell’ordine – che, cioè, non sia ipotizzabile, e neanche auspicabile, un ordine escludente il conflitto – segnala l’emergenza dell’origine all’interno della storia che tende, invano, a disfarsene. L’origine non può essere eliminata da un ordine che, nella sua concretezza fattuale, non soltanto ne deriva, ma continua incessantemente a riprodurla. Questo presupposto costituisce uno dei vettori fondamentali e ricorrenti della filosofia, non solo politica, italiana.»: Roberto Esposito, Pensiero vivente. Origine e attualità della filosofia italiana, Torino, Einuadi, 2010, p. 25.

       Solo da un pensiero che fondi il suo sviluppo sulla  ‘immanentizzazione del conflitto’ che fu in primo luogo di Niccolò Machiavelli ma  anche il filo rosso che lega indissolubilmente le migliori e più originali espressioni del pensiero italiano –  e queste solo per limitarci al Novecento,  sotto il segno di una consapevole anche se variamente declinata filosofia della prassi, Gentile, Gramsci, Croce, con le più scaltrite e intimamente dialettiche manifestazioni del marxismo occidentale, György Lukács e Karl Korsch; per finire con Walter Benjamin che, stricto sensu, marxista non fu ma la cui intima e poetizzata Weltanschauung dialettica, il momento-ora attraverso il quale possono irrompere e manifestarsi quelle potenzialità messianiche presenti in ognuno di noi che rendano possibile la restitutio ad integrum di coloro che nel corso del conflitto strategico sono stati sconfitti e sepolti[7],  lo pone come una delle più umanamente ed umanisticamente dense espressioni, sia sul piano personale, filosofico ed anche religioso, della filosofia della prassi e una sorta di prefigurazione dell’ ‘Epifania strategica’ del Repubblicanesimo Geopolitico –, solo un pensiero che, detto altrimenti, sappia manifestare una piena  ‘Epifania strategica’ consapevole erede di tutta la miglior tradizione espressivo-dialettico-conflittuale-strategica della filosofia occidentale (che iniziata dall’aristotelico ζῷον πολιτικόν trova nel Secolo breve col gramsciano moderno Principe la sua più efficace e teoricamente evoluta sintesi politico-sociale[8], e tradizione espressivo-dialettico-conflittuale-strategica che nel XXI secolo ha manifestato  la sua ultima sistemazione col Repubblicanesimo Geopolitico che, ben oltre il “timido prassismo” costruttivista alla Alexander Wendt[9] e piuttosto trovando un suo antesignano nell’antideterministica e antimeccancistica polemologia del Carl von Clausewitz del Vom Kriege, rinnova, alla luce di una visione della scienza non meccanicistica ed anche ispirata all’intima dialetticità dell’epigenetica e della fisica quantistica – sulla “dialetticità” del nuovo modo di intendere la biologia che abbandona paradigmi meccanicistici per sottolineare il rapporto olistico e dialettico fra organismi e specie con l’ambiente vedi The Dialectical biologist (Richard Levins, Richard Lewontin, The Dialectical Biologist, Cambridge (MA), Harvard University Press, 1985 (Delhi, Aakar Books for South Asia, 2009, documento in Rete  presso https://athens.indymedia.org/media/upload/2016/09/02/LEWONTIN_-_THE_DIALECTICAL_BIOLOGIST.pdf . Nostri “congelamenti”: WebCite: http://www.webcitation.org/75i27bpR1 e http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fathens.indymedia.org%2Fmedia%2Fupload%2F2016%2F09%2F02%2FLEWONTIN_-_THE_DIALECTICAL_BIOLOGIST.pdf&date=2019-01-26; Internet Archive:  https://archive.org/details/TheDialecticalBiologist e https://ia801507.us.archive.org/26/items/TheDialecticalBiologist/Lewontin_-Levins_the_dialectical_biologist.pdf; WebCite su Internet Archive: http://www.webcitation.org/75i3BdM3Q e http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia801507.us.archive.org%2F26%2Fitems%2FTheDialecticalBiologist%2FLewontin_-Levins_the_dialectical_biologist.pdf&date=2019-01-26), e per quanto riguarda l’ aspetto dialettico dell’epigenetica cfr.   Eva Jablonka, Marion J. Lamb,  Evolution in Four Dimensions: Genetic, Epigenetic, Behavioral, and Symbolic Variation in the History of Life, Bradford Books/The MIT Press. 2005, dove, in una sorta di opportuno ritorno all’impostazione che fu prima di Lamark e poi di Lisenko, che sostenevano il principio di una selezione naturale dove l’organismo non viene solo selezionato dall’ambiente ma questo è in grado di rispondere attivamente e creativamente agli stimoli ambientali, è prefigurato una sorta di modello biologico che ha profonde attinenze con l’impostazione della filosofia della prassi del rapporto dinamico e dialettico fra soggetto ed oggetto e sfatando quindi in Eva Jablonka, Marion J. Lamb,  Evolution in Four Dimensions cit., il dogma della biologia della barriera di August Weismann dove vi si sosteneva l’esistenza di un barriera insormontabile negli organismi fra le cellule somatiche e quelle germinali; mentre per la sottolineatura dell’eliminazione del principio di non contraddizione naturale portato  del principio della superposition  della fisisca quantistica cfr. Garrett Birkhoff, John Von Neumann, The Logic of Quantum Mechanics, “The Annals of Mathematics”, 2nd Ser., Vol. 37, No. 4. (Oct., 1936), pp. 823-843[10], John von Neuman, On Alternative System of Logics, unpliblished manuscript, 1937, von Neumann Archives, Library of Congress, Washington    e Id., Quantum Logics (Strict-and Probability-Logics),  unpliblished manuscript, 1937, von Neumann Archives, Library of Congress, Washington –, la grande tradizione della filosofia della prassi in un’ottica di radicale abolizione dell’idea della separazione fra scienze umane e scienze della natura e dell’illusorio iato, come già stigmatizzato da Adorno in L’idea della storia naturale, fra storia e natura[11]), potrà salvare non solo una morente  democrazia italiana ma anche l’oramai definitivamente esausta modernità politica democratica, che dopo l’abbattimento con l’Illuminismo e la sua traduzione politica nella Rivoluzione francese della ipostatica teologia politica dell’ ancien régime dell’origine divina del potere e della conseguente alleanza fra trono ed altare, non ha saputo far altro che incardinare il suo concetto di libertà su altrettanto metafisici diritti dell’uomo e su una molto meno metafisica  ma altrettanto stupida – e criminale – concezione pratica della libertà basata sulla robinsonata  dell’ individualismo metodologico di stampo liberale (capostipiti di questo monadico individualismo, Thomas Hobbes e John Locke e, nel secolo che è appena tramontato, su un piano di assoluta volgarità storica e filosofica ma di gran fortuna sul piano pubblicistico Francis Fukuyma, la cui ridicola previsione di fine della storia non è che il compendio ed exitus novecentesco di tutta una tradizione liberale antidialettica ed antiumanistica iniziata nel ’600 e che trova tragica espressività nelle hobbessiane metafora dell’homo homini lupus e nella grandiosa e tenebrosa allegoria del Leviatano).

       Siano quindi gli studi che si dipartiranno dalla figura di Dante Cesare Vacchi un grande ‘atto di riparazione strategica’: verso quest’uomo d’arme ma, soprattutto, verso noi stessi e la grande tradizione del pensiero italiano che con la sua primogenitura nel concepimento dell’ ‘immanentizzazione del conflitto’ pose le basi, ancora tutte da sviluppare, per quell’ ‘epifania strategica’ che costituisce quel fiume carsico di energia filosofica e politica che aveva visto nascere agli albori della civiltà occidentale quel concetto di libertà intesa non come arbitrio ma come interscambio dialettico dell’espressività e creatività delle volizioni e pulsioni soggettive col più vasto ed olistico contesto del momento politico e sociale – lo Zoon politikon aristotelico dell’ Etica nicomachea e della Politica – e che oggi, catastrofe iniziata in era moderna col seicentesco rifiuto meccanicicistico delle potenzialità dialettiche dell’umanesimo, ha subito, a causa  della libertà così come è stata concepita, e purtroppo assolutamente deformata e praticata, dalla visione liberale dell’individualismo metodologico, un tragico – ma siamo sicuri, solo provvisorio – arresto.

        Ed anche operando una restitutio ad integrum della figura del fascista ed uomo d’arme Dante Cesare Vacchi che fonda i commandos portoghesi, fondamentali per un morente Portogallo totalitario nella guerra contro i movimenti di liberazione nelle sue colonie africane,  pensiamo che  messianicamente – seppur non pretendendo come Benjamin di avere come alleato il nano brutto ma bravissimo della teologia ma solo ed unicamente un prosaico Sancho Panza che ha imparato a maneggiare le molto immanentistiche armi di una nuova storiografia espressivo-dialettico-strategica dell’ ‘immanentizzazione del conflitto e/o antagonismo’ – sia possibile dare il nostro contributo per la salvezza della migliore e più profonda tradizione politica e filosofica occidentale.

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                           CONGELAMENTO 1 DI 34

 

Video sui commandos portoghesi – durata 1 ora, trentanove minuti e 21 secondi –  dove viene fatto esplicito  riferimento a Cesare Dante Vacchi. Il video è stato caricato su YouTube il 25 agosto 2016 da António José de Deus Gonçalves sotto il titolo  COMANDOS TROPAS ESPECIAIS DE ELITE Da Zemba a Besmayah – 1962/2015. Il video è stato prodotto nel 2007 a cura della Associação de Comandos col titolo COMANDOS UM CONTRIBUTO PARA A HISTÓRIA. Al 27 dicembre 2017  risultano su YouTube 14.665 visualizzazioni, 130 Like e 3 Dislike. In calce agli URL di questo congelamento n° 1, il testo di   presentazione su YouTube del video.

 

ORIGINAL URL: https://www.youtube.com/watch?v=jZ82gML5jSg

 

GLI URL E I VIDEO DI YOUTUBE NON POSSONO ESSERE CONGELATI  TRAMITE WEBCITE.

 

https://archive.org/details/COMANDOSUMCONTRIBUTOPARAAHISTRIA

https://ia601508.us.archive.org/32/items/COMANDOSUMCONTRIBUTOPARAAHISTRIA/COMANDOS%20UM%20CONTRIBUTO%20PARA%20A%20HIST%C3%93RIA.mp4

 

COMANDOS UM CONTRIBUTO PARA A HISTÓRIA

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António José de Deus Gonçalves

Pubblicato il 25 ago 2016

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COMANDOS TROPAS ESPECIAIS DE ELITE Da Zemba a Besmayah – 1962/2015 A história dos Comandos do Exército Português está escrita, há livros e inúmeros artigos sobre o tema (ver a Cronologia Oficial no final do artigo), vamos apenas fazer aqui uma síntese, organizando-a em épocas que nos parecem diferenciadas. O espírito Comando, esse, atravessa todo este tempo se não de modo igual, pelo menos muito semelhante, e no essencial, tem sido o cimento e a principal razão do sucesso com que têm enfrentado os “ventos da história”. Consideramos assim, 5 grandes épocas: Guerra de contra-guerrilha no antigo Ultramar, entre 1962 e 1974, na qual os diferentes centros de instrução (Angola – Zemba, Quibala, Luanda; Moçambique – Namaacha, Montepuez; Guiné – Brá; Lamego), prepararam cerca de 9.000 Comandos para missões de contra-guerrilha nas quais obtiveram excelentes resultados operacionais e por isso foram distinguidos com as mais elevadas condecorações quer a título individual quer colectivo. Foram 12 anos como unidades de intervenção, sempre na primeira linha dos combates, onde pagaram um elevado preço de sangue: 357 mortos, 771 feridos e 28 desaparecidos. Período revolucionário e a normalização democrática em Portugal, entre 1974 e 1976, na qual se assistiu à criação do Regimento de Comandos na Amadora e a introdução da boina vermelha, tendo a acção do Regimento sido determinante na chamada normalização democrática, contribuindo para a derrota pela força das armas, em 25 de Novembro de 1975, das facções consideradas radicais que dominaram a cena política em Portugal depois do golpe militar de 25 de Abril de 1974; Guerra-fria na Europa e a Cooperação Técnico-Militar em África, de 1976 até 1993, na qual o Regimento de Comandos, procurou o seu lugar num sistema de forças virado para eventual conflito na Europa, integrou a Brigada de Forças Especiais do Exército e participou com pequenos destacamentos em exercícios internacionais no âmbito da NATO, iniciando ao mesmo tempo com sucesso, diferentes acções de Cooperação Técnico-Militar em África, sendo a mais relevante e que ainda se mantém, com Angola; Extinção do Regimento de Comandos e criação do Centro de Tropas Comandos, de 1993 a 2006, na qual o Regimento foi extinto, poucos militares comandos quiseram frequentar o curso de pára-quedismo para integrar a Brigada Aerotransportada criada no Exército a partir das unidades, pessoal e meios das Tropas Pára-quedistas da Força Aérea, também extintas. Manteve-se no Exército a possibilidade de oficiais e sargentos frequentarem o Curso de Comandos em Lamego, no Centro de Instrução de Operações Especiais, com várias finalidades, nomeadamente manter viva a Cooperação Técnico-Militar, o que foi conseguido, e preservar conhecimentos, capacidades e tradições consideradas necessárias ao ramo terrestre. Em 2002 foi criada a 1.ª Companhia de Comandos (100.º Curso de Comandos), depois a 2.ª Companhia e finalmente o Batalhão de Comandos, no Regimento de Infantaria n.º 1 (Serra da Carregueira). Em 2006 foi legalmente criado o Centro de Tropas Comandos, em Mafra, onde se manteve até 2008, ano em que regressou à Serra da Carregueira. Missões expedicionárias, desde 2004 até aos dias de hoje. Em 2004, uma companhia de comandos é integrada no Agrupamento Hotel (com base num Batalhão da Brigada Ligeira de Intervenção) e parte para Timor-Leste participando na missão das Nações Unidas no território, dando assim início ao envolvimento dos Comandos, com unidades constituídas, nas missões expedicionárias(*). No ano seguinte uma Companhia de Comandos integra a força da NATO no Afeganistão e este vai ser um teatro de operações onde os comandos permanecem até 2014, embora com uma ou outra interrupção dando lugar a outras forças da Brigada de Reacção Rápida. Primeiro como uma companhia como Força de Reacção Rápida e depois, com efectivos variáveis, por vezes em conjunto com outras unidades nacionais, integrando a Protecção da Força do Contingente Nacional, mas também fornecendo oficiais e sargentos para diferentes cargos de assessoria/mentoria, os Comandos foram a força nacional que mais tempo permaneceu no Afeganistão. Já este ano, coube ao CTC preparar o contingente português que está no Iraque, no âmbito da Coligação Internacional liderada pelos EUA para combater o “estado islâmico”. A maioria da Força Nacional Destacada é composta por militares Comandos, estando empenhados em missões de assessoria, instrução e segurança em Besmayah nos arredores de Bagdad, numa base espanhola.

 

 

 

 

              CONGELAMENTO  2 DI 34

 

Dante Vacchi e i Comandos portoghesi. Appunti per una ricerca. Autore: Giovanni Damele. Caricato da Giovanni Damele su Scribd il 2 ottobre 2015 (Uploaded by Giovanni Damele on Oct 02, 2015). Allo stato è la ricerca più completa, seppur breve,  su Dante Cesare Vacchi.

ORIGINAL URL:  https://www.scribd.com/document/283472616/Dante-Vacchi-e-i-Comandos-portoghesi-Appunti-per-una-ricerca

 

http://www.webcitation.org/74sn7eCbT

http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fwww.scribd.com%2Fdocument%2F283472616%2FDante-Vacchi-e-i-Comandos-portoghesi-Appunti-per-una-ricerca&date=2018-12-23

 

https://archive.org/details/DanteVacchiEICommandosPortoghesi

https://ia601508.us.archive.org/22/items/DanteVacchiEICommandosPortoghesi/283472616-Dante-Vacchi-e-i-Comandos-portoghesi-Appunti-per-una-ricerca.pdf

 

ULTERIORE CONGELAMENTO WEBCITE SU INTERNET ARCHIVE:

http://www.webcitation.org/75WnWf5OF

http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia601508.us.archive.org%2F22%2Fitems%2FDanteVacchiEICommandosPortoghesi%2F283472616-Dante-Vacchi-e-i-Comandos-portoghesi-Appunti-per-una-ricerca.pdf&date=2019-01-18

                          

                          

                           CONGELAMENTO 3 DI 34

 

Pagina caricata senza indicazione di data e con generica indicazione di autore (Elementos cedidos por um colaborador do portal UTW). Si tratta della proposta della vendita on line del libro fotografico di Dante Vacchi ed Anne Gauze Angola 1961-1063.

 

ORIGINAL URL:  http://ultramar.terraweb.biz/06livros_AnneGauzes_%20e_%20Dante%20Vacchi.htm

 

http://www.webcitation.org/74uaFWVy8

http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fultramar.terraweb.biz%2F06livros_AnneGauzes_%2520e_%2520Dante%2520Vacchi.htm&date=2018-12-24

 

 

 

https://archive.org/details/Livros-Angola1961-1963-AnnaGauzesEDanteVacchi

https://archive.org/details/TrabalhosTextosSobreAGuerraDoUltramarOuLivros

https://archive.org/details/TrabalhosTextosSobreAGuerraDoUltramarOuLivrosDanteVacchi

https://ia601509.us.archive.org/26/items/TrabalhosTextosSobreAGuerraDoUltramarOuLivrosDanteVacchi/TrabalhosTextosSobreAGuerraDoUltramarOuLivrosDanteVacchi.pdf

 

ULTERIORE CONGELAMENTO WEBCITE SU INTERNET ARCHIVE:

http://www.webcitation.org/76FVwNDqA

http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia601509.us.archive.org%2F26%2Fitems%2FTrabalhosTextosSobreAGuerraDoUltramarOuLivrosDanteVacchi%2FTrabalhosTextosSobreAGuerraDoUltramarOuLivrosDanteVacchi.pdf&date=2019-02-17

                      

 

                      

 

                           CONGELAMENTO 4 DI 34

 

 Pagina caricata il 2 ottobre 2015 da Giovanni Damele. Titolo: Storia di Dante Vacchi: il fotografo italiano che fondò i Comandos portoghesi. Costituisce una versione ridotta dell’articolo di questo autore già citato al punto 2 di questo inventario intitolato Dante Vacchi e i Comandos portoghesi. Appunti per una ricerca.

 

ORIGINAL  URL: http://lusosfera.blogspot.com/2015/10/storia-di-dante-vacchi-il-fotografo_2.html#more

 

http://www.webcitation.org/74ud8oxxU

http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Flusosfera.blogspot.com%2F2015%2F10%2Fstoria-di-dante-vacchi-il-fotografo_2.html%23more&date=2018-12-24

 

https://archive.org/details/CaleidoscopioLusitano_StoriaDiDanteVacchi_IlFotografoItalianoChe

https://ia801503.us.archive.org/1/items/CaleidoscopioLusitano_StoriaDiDanteVacchi_IlFotografoItalianoChe/CaleidoscopioLusitano_StoriaDiDanteVacchi_IlFotografoItalianoCheFondIComandosPortoghesi.html

https://archive.org/details/CaleidoscopioLusitano_StoriaDiDanteVacchi_IlFotografoItalianoChe_994

 

https://archive.org/details/CaleidoscopiolusitanoDanteVacchi

https://ia601502.us.archive.org/3/items/CaleidoscopiolusitanoDanteVacchi/CaleidoscopiolusitanoDanteVacchi.pdf

ULTERIORE CONGELAMENTO WEBCITE SU INTERNET ARCHIVE:

http://www.webcitation.org/76FWhIqos

http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia601502.us.archive.org%2F3%2Fitems%2FCaleidoscopiolusitanoDanteVacchi%2FCaleidoscopiolusitanoDanteVacchi.pdf&date=2019-02-17

 

 

                         CONGELAMENTO  5 DI 34

Pagina caricata il 10 febbraio 2017 a firma di  Guido Bruno. Titolo dell’articolo: Dante Vacchi: il fascista che creò le forze speciali portoghesi. Al 27 dicembre 2018, l’articolo risulta avere 2853 visualizzazioni.

ORIGINAL URL: https://www.ilprimatonazionale.it/esteri/dante-vacchi-il-fascista-che-creo-le-forze-speciali-portoghesi-57378/

http://www.webcitation.org/74udQiPC2

 

http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fwww.ilprimatonazionale.it%2Festeri%2Fdante-vacchi-il-fascista-che-creo-le-forze-speciali-portoghesi-57378%2F&date=2018-12-24

 

https://archive.org/details/EccoLaStoriaDiUnVeroArci-italiano_DanteVacchiProfessione

https://ia801505.us.archive.org/16/items/EccoLaStoriaDiUnVeroArci-italiano_DanteVacchiProfessione/EccoLaStoriaDiUnVeroArci-italiano_DanteVacchiProfessioneAvventuriero.html

 

https://archive.org/details/DanteVacchi-IlPrimatoNazionale

 

https://archive.org/details/DanteVacchiIlPrimatoNazionale

https://ia601507.us.archive.org/34/items/DanteVacchiIlPrimatoNazionale/Dantevacchiilprimatonazionale2.pdf

 

ULTERIORE CONGELAMENTO WEBCITE SU INTERNET ARCHIVE:

http://www.webcitation.org/76FXUpA2E

http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia601507.us.archive.org%2F34%2Fitems%2FDanteVacchiIlPrimatoNazionale%2FDantevacchiilprimatonazionale2.pdf&date=2019-02-17

 

                                        

                           CONGELAMENTO  6 DI 34

 

Pagina caricata sul sito dell’associazione “Azimut”  il 12 febbraio 2017. Si tratta sempre dell’articolo di Guido Bruno di cui si è già detto al congelamento  n° 5.

ORIGINAL URL: https://azimutassociazione.wordpress.com/2017/02/12/attualita-su-trump-papa-francesco-incidenti-a-genova-cyber-attacchi-contro-italia-la-storia-e-personaggi-sconosciuti-dante-vacchi-ledicola-e-altre-news/

 

http://www.webcitation.org/74udptiHx

http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fazimutassociazione.wordpress.com%2F2017%2F02%2F12%2Fattualita-su-trump-papa-francesco-incidenti-a-genova-cyber-attacchi-contro-italia-la-storia-e-personaggi-sconosciuti-dante-vacchi-ledicola-e-altre-news%2F&date=2018-12-24

 

https://archive.org/details/Attualita_SuTrumpPapaFrancescoIncidentiAGenovaCyberAttacchiContro

https://ia801509.us.archive.org/23/items/Attualita_SuTrumpPapaFrancescoIncidentiAGenovaCyberAttacchiContro/Attualita_SuTrumpPapaFrancescoIncidentiAGenovaCyberAttacchiControItalia_LaStoriaEPersonaggiSconosciutiDanteVacchiLedicolaEAltreNews_AssociazioneAzimut.html

 

https://archive.org/details/IlFascistaCesareDanteVacchiELaCreazioneDeiCommadosPortoghesi

 

https://archive.org/details/IlFascistaCesareDanteVacchiELaCreazioneDeiCommandosPortoghesi

https://ia601507.us.archive.org/6/items/IlFascistaCesareDanteVacchiELaCreazioneDeiCommandosPortoghesi/IlFascistaCesareDanteVacchiELaCreazioneDeiCommandosPortoghesi.pdf

 

ULTERIORE CONGELAMENTO WEBCITE SU INTERNET ARCHIVE:

http://www.webcitation.org/76FYMnqop

http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia601507.us.archive.org%2F6%2Fitems%2FIlFascistaCesareDanteVacchiELaCreazioneDeiCommandosPortoghesi%2FIlFascistaCesareDanteVacchiELaCreazioneDeiCommandosPortoghesi.pdf&date=2019-02-17

 

 

 

                             

 

                               CONGELAMENTO  7 DI 34

 

Storia di Dante Vacchi: il fotografo italiano che fondò i Comandos portoghesi. Sempre lo stesso articolo, sempre a firma di Giovanni Damele, di cui al congelamento n° 4 del presente inventario. Pagina caricata il 15 ottobre 2015.

 

ORIGINAL URL:

https://sosteniamopereira.org/2015/10/15/storia-di-dante-vacchi-il-fotografo-italiano-che-fondo-i-comandos-portoghesi/

 

http://www.webcitation.org/74ueBgWlc

http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fsosteniamopereira.org%2F2015%2F10%2F15%2Fstoria-di-dante-vacchi-il-fotografo-italiano-che-fondo-i-comandos-portoghesi%2F&date=2018-12-24

 

https://archive.org/details/StoriaDiDanteVacchi_IlFotografoItalianoCheFondIComandosPortoghesi

https://ia601500.us.archive.org/35/items/StoriaDiDanteVacchi_IlFotografoItalianoCheFondIComandosPortoghesi/StoriaDiDadanteVacchi_IlFotografoItalianoCheFondIComandosPortoghesi_SosteniamoPereira.html

https://archive.org/details/StoriaDiDanteVacchi

 

https://archive.org/details/StoriaDiDanteVacchi_733

https://ia601502.us.archive.org/16/items/StoriaDiDanteVacchi_733/Storiadidantevacchi2.pdf

 

ULTERIORE CONGELAMENTO  WEBCITE  SU INTERNET ARCHIVE:

http://www.webcitation.org/76FZ2K6Rc

http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia601502.us.archive.org%2F16%2Fitems%2FStoriaDiDanteVacchi_733%2FStoriadidantevacchi2.pdf&date=2019-02-17

 

 

 

CONGELAMENTO  8 DI 34

 

Pagina caricata il 12 agosto 2009 da (probabilmente) Alexandre Pomar. Si tratta della presentazione del libro di Dante Vacchi, Penteados de Angola, pubblicato nel 1965, allo scopo di effettuarne la vendita sul mercato dell’antiquariato librario.

 

 

ORIGINAL URL: https://alexandrepomar.typepad.com/alexandre_pomar/2009/12/penteados.html

 

http://www.webcitation.org/74vPISpik

http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Falexandrepomar.typepad.com%2Falexandre_pomar%2F2009%2F12%2Fpenteados.html&date=2018-12-25

 

https://archive.org/details/AlexandrePomar_PenteadosDeAngolaDanteVacchi

https://ia801503.us.archive.org/1/items/AlexandrePomar_PenteadosDeAngolaDanteVacchi/AlexandrePomar_PenteadosDeAngolaDanteVacchi.html

https://archive.org/details/DanteVacchiPenteados

 

https://archive.org/details/DanteVacchiPenteados_997

https://ia601507.us.archive.org/30/items/DanteVacchiPenteados_997/Dantevacchipenteados2.pdf

 

ULTERIORE  CONGELAMENTO  WEBCITE  SU INTERNET ARCHIVE:

http://www.webcitation.org/76FZXBuLN

http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia601507.us.archive.org%2F30%2Fitems%2FDanteVacchiPenteados_997%2FDantevacchipenteados2.pdf&date=2019-02-17

 

 

 

 

 

CONGELAMENTO 9 DI 34

 

Sempre sul libro Penteados de Angola e, come riferito al congelamento n° 8,  pagina pubblicata allo scopo di effettuare la vendita del libro attraverso il mercato dell’antiquariato librario. Pagina caricata il 7 dicembre 2009, autore della pagina e del caricamento sconosciuto.

 

ORIGINAL URL: http://aervilhacorderosa.com/2009/12/penteados-de-angola/

 

http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Faervilhacorderosa.com%2F2009%2F12%2Fpenteados-de-angola%2F&date=2018-12-25  (CONGELAMENTO  WEBCITE TECNICAMENTE  FALLITO)

 

https://archive.org/details/PenteadosDeAngola_AErvilhaCorDeRosa

https://ia801507.us.archive.org/23/items/PenteadosDeAngola_AErvilhaCorDeRosa/PenteadosDeAngola_AErvilhaCorDeRosa.html (CONGELAMENTO  INTERNET ARCHIVE  TECNICAMENTE  FALLITO)

 

 

https://archive.org/details/PenteadosDeAngola

 

https://archive.org/details/PenteadosDeAngola_56

https://ia601505.us.archive.org/24/items/PenteadosDeAngola_56/Penteadosdeangola3.pdf

 

ULTERIORE CONGELAMENTO WEBCITE SU INTERNET ARCHIVE:

http://www.webcitation.org/76Fa9aCTG

http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia601505.us.archive.org%2F24%2Fitems%2FPenteadosDeAngola_56%2FPenteadosdeangola3.pdf&date=2019-02-17

 

 

 

                                CONGELAMENTO 10 DI 34

 

Pagina caricata probabilmente nel gennaio 2018 sul giornale online  “Observador”. Titolo dell’articolo: Dante Vacchi. O pai fantasma dos Comandos portugueses. Autore dell’articolo: Pedro Raínho. Al 27 dicembre 2018,  probabilmente 2.263 visualizzazioni.

 

 

 

ORIGINAL URL: https://observador.pt/especiais/dante-vacchi-o-pai-fantasma-dos-comandos-portugueses/

 

http://www.webcitation.org/74sJYJOxT

http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fobservador.pt%2Fespeciais%2Fdante-vacchi-o-pai-fantasma-dos-comandos-portugueses%2F&date=2018-12-23

 

https://archive.org/details/DanteVacchi.OPaiFantasmaDosComandosPortuguesesObservador

https://ia801505.us.archive.org/18/items/DanteVacchi.OPaiFantasmaDosComandosPortuguesesObservador/DanteVacchi.OPaiFantasmaDosComandosPortuguesesObservador.html

 

https://archive.org/details/ObsevadorDanteVacchi.docx

 

https://archive.org/details/ObsevadorDanteVacchi

https://ia601508.us.archive.org/2/items/ObsevadorDanteVacchi/Obsevadordantevacchi2.pdf

 

ULTERIORE CONGELAMENTO WEBCITE SU INTERNET ARCHIVE:

http://www.webcitation.org/76FaXoPgR

http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia601508.us.archive.org%2F2%2Fitems%2FObsevadorDanteVacchi%2FObsevadordantevacchi2.pdf&date=2019-02-17

                        

                         CONGELAMENTO 11 di 34

 

Pagina Facebook caricata presumibilmente a cura dell’associazione “Associação de Comandos – Bataria da Lage”. Si riferisce alla conferenza, tenuta probabilmente nel giugno 2014 dal TCor CMD António Neves, sulla vita di Dante Vacchi. Titolo di questa conferenza: DANTE VACCHI – Um nómada do mundo.

 

ORIGINAL URL: https://www.facebook.com/pg/batariadalage/photos/?tab=album&album_id=1428029860812228

GLI URL  DI FACEBOOK  NON POSSONO ESSERE CONGELATI  TRAMITE WEBCITE.

https://archive.org/details/AssociaoDeComandos-BatariaDaLage

https://ia801503.us.archive.org/32/items/AssociaoDeComandos-BatariaDaLage/131AssociaoDeComandos-BatariaDaLage-Foto.html

(CONGELAMENTO  INTERNET ARCHIVE TECNICAMENTE  FALLITO)

https://archive.org/details/ConvegnoSuCesareDanteVacchi-Immagini

https://ia801500.us.archive.org/19/items/ConvegnoSuCesareDanteVacchi-Immagini/Cattura.pngCesareDanteVacchiConvegno.png

 

https://archive.org/details/ConvegnoSuCesareDanteVacchi

 

https://archive.org/details/ConvegnoSuCesareDanteVacchi_638

https://ia601501.us.archive.org/28/items/ConvegnoSuCesareDanteVacchi_638/Convegnosucesaredantevacchi4.pdf

 

ULTERIORE CONGELAMENTO  WEBCITE  SU INTERNET ARCHIVE:

http://www.webcitation.org/76Gy0usSw

http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia601501.us.archive.org%2F28%2Fitems%2FConvegnoSuCesareDanteVacchi_638%2FConvegnosucesaredantevacchi4.pdf&date=2019-02-18

 

 

 

CONGELAMENTO 12 DI 34

 

Pagina caricata “domingo, 3 de junho de 2018”,  autore  Alexandre Pomar. Titolo della scheda: Dante Vacchi, fotógrafo, aventureiro e fantasma. Si presumono scopi commerciali sul libro di Dante Vacchi  Penteados de Angola, come già riferito ai congelamenti n° 8 e n° 9.

 

ORIGINAL  URL:

https://alxpomar.blogspot.com/2018/06/dante-vacchi.html

 

http://www.webcitation.org/74vTNBFAd

http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Falxpomar.blogspot.com%2F2018%2F06%2Fdante-vacchi.html&date=2018-12-25

 

https://archive.org/details/AlexandrePomar_DanteVacchiFotgrafoAventureiroEFantasma

https://ia801508.us.archive.org/5/items/AlexandrePomar_DanteVacchiFotgrafoAventureiroEFantasma/AlexandrePomar_DanteVacchiFotgrafoAventureiroEFantasma.html

 

https://archive.org/details/DanteVacchiFotografoAvventurieroFantasma

 

https://archive.org/details/DanteVacchiFotografoAvventurieroFantasma_12

https://ia601509.us.archive.org/4/items/DanteVacchiFotografoAvventurieroFantasma_12/Dantevacchifotografoavventurierofantasma2.pdf

 

ULTERIORE CONGELAMENTO  WEBCITE  SU INTERNET ARCHIVE:

http://www.webcitation.org/76GyX0BHR

http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia601509.us.archive.org%2F4%2Fitems%2FDanteVacchiFotografoAvventurieroFantasma_12%2FDantevacchifotografoavventurierofantasma2.pdf&date=2019-02-18

 

                         CONGELAMENTO 13 DI 34

 

Pagina caricata il 12 aprile 2009 sulla rivista on line di argomenti militari “Operacional”. Autore dell’articolo LANÇA-FOGUETES DE 37 mm PARA TROPAS TERRESTRES, dove si parla diffusamente  Di Cesare Dante Vacchi, è Miguel Machado.

ORIGINAL URL:

http://www.operacional.pt/lanca-foguetes-de-37mm-para-tropas-terrestres/

 

http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fwww.operacional.pt%2Flanca-foguetes-de-37mm-para-tropas-terrestres%2F&date=2018-12-25

https://archive.org/details/Lana-foguetesDe37mmParaTropasTerrestres_Operacional.CesareDante

 

https://ia801504.us.archive.org/8/items/Lana-foguetesDe37mmParaTropasTerrestres_Operacional.CesareDante/Lana-foguetesDe37mmParaTropasTerrestres_Operacional.html

 

https://archive.org/details/LanciagranateDanteVacchi

 

https://archive.org/details/LanciagranateDanteVacchi_452

https://ia601508.us.archive.org/29/items/LanciagranateDanteVacchi_452/Lanciagranatedantevacchi3.pdf

 

 

ULTERIORE CONGELAMENTO  WEBCITE  SU INTERNET ARCHIVE:

http://www.webcitation.org/76GyxIDzu

http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia601508.us.archive.org%2F29%2Fitems%2FLanciagranateDanteVacchi_452%2FLanciagranatedantevacchi3.pdf&date=2019-02-18

 

 

                                       CONGELAMENTO  14 DI 34

 

Pagina pubblicata il 12 agosto 2009 da Alexandre Pomar. Valgono  i commenti ai congelamente n° 8, n° 9 e n°12.

 

 

ORIGINAL URL:

https://alexandrepomar.typepad.com/alexandre_pomar/2009/12/penteados.html

 

http://www.webcitation.org/74vqlvjaY

http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Falexandrepomar.typepad.com%2Falexandre_pomar%2F2009%2F12%2Fpenteados.html&date=2018-12-25

 

https://archive.org/details/AlexandrePomar_PenteadosDeAngolaDanteVacchi_969

https://ia801500.us.archive.org/3/items/AlexandrePomar_PenteadosDeAngolaDanteVacchi_969/AlexandrePomar_PenteadosDeAngolaDanteVacchi.html

https://archive.org/details/CesareDanteVacchiPendeadosAngola

 

https://archive.org/details/CesareDanteVacchiPendeadosAngola_410

https://ia601506.us.archive.org/9/items/CesareDanteVacchiPendeadosAngola_410/Cesaredantevacchipendeadosangola3.pdf

 

ULTERIORE CONGELAMENTO  WEBCITE  SU INTERNET ARCHIVE:

http://www.webcitation.org/76GzNMsnP

http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia601506.us.archive.org%2F9%2Fitems%2FCesareDanteVacchiPendeadosAngola_410%2FCesaredantevacchipendeadosangola3.pdf&date=2019-02-18

 

CONGELAMENTO 15 DI 34

 

Il documento in questione è un lungo articolo intitolato Historiography of the Society of Jesus: The Case of France after the Order’s Restoration in 1814, e vi cita il libro di Dante Vacchi e Anne Vuylsteke (cioè Anne Gauze) Les jésuites en liberté. Autori dell’articolo Historiography of the Society of Jesus: The Case of France after the Order’s Restoration in 1814 sono Dominique Avon e Philippe Rocher. Il documento non ha data di caricamento.

ORIGINAL URL:

 https://referenceworks.brillonline.com/entries/jesuit-historiography-online/*-COM_192562

IL DOCUMENTO  HA RIFIUTATO IL CARICAMENTO SU WEBCITE.

 

https://archive.org/details/HistoriographyOfTheSocietyOfJesus_TheCaseOfFranceAfterTheOrders

https://ia601502.us.archive.org/7/items/HistoriographyOfTheSocietyOfJesus_TheCaseOfFranceAfterTheOrders/HistoriographyOfTheSocietyOfJesus_TheCaseOfFranceAfterTheOrdersRestorationIn1814-BrillReference.html

 

https://archive.org/details/GesuitiDanteVacchi

 

https://archive.org/details/GesuitiDanteVacchi_231

https://ia601500.us.archive.org/3/items/GesuitiDanteVacchi_231/Gesuitidantevacchi2.pdf

ULTERIORE CONGELAMENTO  WEBCITE  SU INTERNET ARCHIVE:

http://www.webcitation.org/76GzxVJCA

http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia601500.us.archive.org%2F3%2Fitems%2FGesuitiDanteVacchi_231%2FGesuitidantevacchi2.pdf&date=2019-02-18

 

                     CONGELAMENTO  16 DI 34

 

Questo documento è la versione elettronica in formato PDF della rivista dei commandos portoghesi MAMASUME (Propriedade da Associação de Comandos Instituição de utilidade pública, fundada em 14 de Novembro de 1975 Membro Honorário da Ordem do Infante D. Henrique No de Contribuinte: 501082875) e si tratta del numero del dicembre-gennaio 2012 (Janeiro/Dezembro 2012 Registo no I.C.S. nº. 124782 Depósito Legal Tiragem 2500 exemplares). La rivista dichiara 2500 copie ma non sappiamo quanto visite abbia ottenuto questo caricamento in rete della rivista. Ad ogni buon conto, a pagina 41 di questo numero compare un articolo di Victor M. C. Santos Monsieur Dante, “Le Renard”.

 

 

ORIGINAL URL: http://www.aofa.pt/rimp/MAMASUME_JAN_DEZ_2012.pdf

 

http://www.webcitation.org/74smRkHah

http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fwww.aofa.pt%2Frimp%2FMAMASUME_JAN_DEZ_2012.pdf&date=2018-12-23ù

 

https://archive.org/details/Mamasume_jan_dez_2012CesareDanteVacchi

https://ia601508.us.archive.org/25/items/Mamasume_jan_dez_2012CesareDanteVacchi/MAMASUME_JAN_DEZ_2012.pdf

ULTERIORE CONGELAMENTO  WEBCITE  SU INTERNET ARCHIVE:

http://www.webcitation.org/76H0ncDpm

http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia601508.us.archive.org%2F25%2Fitems%2FMamasume_jan_dez_2012CesareDanteVacchi%2FMAMASUME_JAN_DEZ_2012.pdf&date=2019-02-18

 

 

 

CONGELAMENTO 17 DI 34

 

Il sito reca il titolo “Blogue do “Povo de Portugal”” e alla pagina all’ORIGINAL URL qui in calce riporta un articolo dal titolo História dos Comandos portugueses, Raúl Folques (Cor) e António Neves (Ten-Cor) desde o início A historia dos Comandos ma l’autore di questo articolo (ma sarebbe meglio chiamarlo articolo-intervista) non è né Raúl Folques né António Neves (lo stesso che al congelamento n°  11 abbiamo riferito che nel giugno 2014 aveva tenuto una conferenza dal titolo DANTE VACCHI – Um nómada do mundo) ma Paulino Fernandes. Purtroppo, non viene riportata la data di caricamento di questo importante documento  sul “Blogue do “Povo de Portugal”” e neppure il numero di visite che  sono state effettuate su questa pagina. Vacchi in questo fondamentale documento viene citato ben 58 volte.

 

ORIGINAL URL:

http://jornalpovodeportugal.eu/2017/01/15/historia-dos-comandos-portugueses-raul-folques-cor-e-antonio-neves-ten-cor-desde-o-inicio/

 

http://www.webcitation.org/74sr5TqQG

http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fjornalpovodeportugal.eu%2F2017%2F01%2F15%2Fhistoria-dos-comandos-portugueses-raul-folques-cor-e-antonio-neves-ten-cor-desde-o-inicio%2F&date=2018-12-23

 

https://archive.org/details/HistriaDosComandosPortuguesesRalFolquescorEAntnioNeves

https://ia801506.us.archive.org/21/items/HistriaDosComandosPortuguesesRalFolquescorEAntnioNeves/HistriaDosComandosPortuguesesRalFolquescorEAntnioNevesten-corDesdeOIncio_blogueDo_povoDePortugal_.html

 

https://archive.org/details/HistriaDosComandosPortugueses

 

https://archive.org/details/HistriaDosComandosPortugueses_510

https://ia601500.us.archive.org/23/items/HistriaDosComandosPortugueses_510/Histriadoscomandosportugueses2.pdf

 

ULTERIORE  CONGELAMENTO  WEBCITE  SU INTERNET ARCHIVE:

http://www.webcitation.org/76H1Vd40G

http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia601500.us.archive.org%2F23%2Fitems%2FHistriaDosComandosPortugueses_510%2FHistriadoscomandosportugueses2.pdf&date=2019-02-18

 

 

CONGELAMENTO  18 DI 34

 

Sito Internet che reca il titolo “Guerra Colonial 1961-1974”. La pagina dall’ ORIGINAL URL in calce riporta una scheda dal titolo Comandos. Nella scheda si cita Dante Cesare Vacchi ma storpiandone il cognome in Vachi («A história dos Comandos portugueses começou em 1962, quando, em Zemba, no Norte de Angola, foram constituídos os primeiros seis grupos daqueles que seriam os antecessores dos comandos. Para a preparação destes grupos foi criado o CI 21 – Centro de Instrução Especial de Contraguerrilha, que funcionou junto do Batalhão de Caçadores 280, comandado pelo tenente-coronel Nave, e que teve como instrutor o fotógrafo italiano Dante Vachi, com experiência das guerras da Argélia e da Indochina.»). Autore della sceda: non riportato. Data dell’immissione della scheda in rete: non riportata. Numero di accessi: non riportati.

ORIGINAL URL:  http://www.guerracolonial.org/index.php?content=310

 

http://www.webcitation.org/74stXVAzz

http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fwww.guerracolonial.org%2Findex.php%3Fcontent%3D310&date=2018-12-23

 

https://archive.org/details/GuerraColonial1961-1974 (CONGELAMENTO  INTERNET ARCHIVE TECNICAMENTE  FALLITO)

https://ia801501.us.archive.org/1/items/GuerraColonial1961-1974/GuerraColonial__1961-1974.html   (CONGELAMENTO  INTERNET ARCHIVE TECNICAMENTE  FALLITO)

 

 

https://archive.org/details/GuerraColonial

 

https://archive.org/details/GuerraColonial_938

https://ia601504.us.archive.org/0/items/GuerraColonial_938/Guerracolonial2.pdf

 

 

ULTERIORE  CONGELAMENTO  WEBCITE  SU INTERNET ARCHIVE:

http://www.webcitation.org/76H2HzJfA

http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia601504.us.archive.org%2F0%2Fitems%2FGuerraColonial_938%2FGuerracolonial2.pdf&date=2019-02-18

 

 

CONGELAMENTO 19 DI 34

 

Dissertação de Mestrado em Jornalismo svolta nell’ambito della FCSH, Faculdade de Ciências Sociais e Humanas da Universidade NOVA de Lisboa,  titolo: Guerra Colonial na revista Notícia A cobertura jornalística do conflito ultramarino português em Angola. Autore: Sílvia Manuela Marques Torres. A p. 62 Cesare Dante Vacchi viene citato due volte in relazione ad un servizio giornalistico che Vacchi fece su Salazar: «Salazar surge pela primeira vez na Notícia a 14 de Julho de 1961. A reportagem de duas páginas, a preto e branco, sem direito a qualquer menção na capa, foi da autoria de Dante Vacchi. O jornalista conta tudo o que fez desde o dia em que pediu autorização para fotografar o “palacete senhoril” até à conversa que teve com Salazar. Duas idas à casa do “homem que, sozinho e em silêncio, governa um país inteiro” foram necessárias para o resultado final. A casa é retratada ao pormenor; os passos dados e as pessoas com quem se cruza são descritos por ordem. Três fotografias ilustram a peça: na primeira página, Salazar está sentado com os olhos postos num jornal; na segunda, uma fotografia maior mostra o presidente sentado numa poltrona a consultar um dossier e, na mais pequena, Salazar está de pé, no jardim, junto a um galinheiro. O artigo dá também destaque a uma caixa que revela que “pela primeira vez um jornalista consegue penetrar na intimidade do presidente português”. Em As Origens da Reportagem – Televisão154, Jacinto Godinho encontrou o mesmo cenário de “suspense” na primeira reportagem televisiva feita sobre Salazar, da autoria de Baptista Rosa. A 28 de Abril de 1958, o telespectador, curioso por “ver o que raramente aparecia”, entra de facto na casa do “pouco visível mas omnipresente homem do poder português”, mas não na sua vida íntima, como desejava. Entre um “distanciamento aproximado” e uma “proximidade distante”, o telespectador, assim como o leitor da reportagem de Dante Vacchi, “viu mas sem ver”, continuando, na realidade, a intimidade de Salazar num abrigo inultrapassável.» La tesi riporta come data marzo 2012 ma non è possibile  risalire alla data dell’immissione in rete né al numero delle visite effettuate sulla pagina.

 

ORIGINAL URL:

https://run.unl.pt/bitstream/10362/7280/1/Disserta%C3%A7%C3%A3o%20de%20Mestrado_S%C3%ADlvia%20Torres_aluna20606.docx.pdf

 

http://www.webcitation.org/74suTo18B

http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Frun.unl.pt%2Fbitstream%2F10362%2F7280%2F1%2FDisserta%25C3%25A7%25C3%25A3o%2520de%2520Mestrado_S%25C3%25ADlvia%2520Torres_aluna20606.docx.pdf&date=2018-12-23

 

https://archive.org/details/DissertaoDeMestrado_slviaTorres

https://ia601502.us.archive.org/29/items/DissertaoDeMestrado_slviaTorres/DissertaoDeMestrado_slviaTorres_aluna20606.docx1.pdf

 

 

ULTERIORE  CONGELAMENTO  WEBCITE  SU INTERNET ARCHIVE:

http://www.webcitation.org/76H2dBjB0

http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia601502.us.archive.org%2F29%2Fitems%2FDissertaoDeMestrado_slviaTorres%2FDissertaoDeMestrado_slviaTorres_aluna20606.docx1.pdf&date=2019-02-18

 

                          

                        

                            CONGELAMENTO 20 DI 34

 

Sempre lo stesso numero della rivista MAMASUME di cui si è già detto al congelamento n° 16.

 

URL ORIGINALI:

http://associacaocomandos.pt/associacao-comandos/publicacoes/revista-mama-sume/revista-mama-sume-no-075/, http://docplayer.com.br/11553723-Mamasume-revista-da-associacao-de-comandos.html#show_full_text e https://drive.google.com/file/d/0B-579B5eCQ29UWt3aEFOR2MxWEk/view

 

http://www.webcitation.org/74svYITOD   (CONGELAMENTO  WEBCITE  TECNICAMENTE  FALLITO)

 

http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fdrive.google.com%2Ffile%2Fd%2F0B-579B5eCQ29UWt3aEFOR2MxWEk%2Fview&date=2018-12-23  (CONGELAMENTO  WEBCITE TECNICAMENTE  FALLITO)

 

 

https://archive.org/details/MamasumeRevistaDaAssociaoDeComandos

 

https://archive.org/details/MamasumeRevistaDaAssociaoDeComandos_628

https://ia601502.us.archive.org/2/items/MamasumeRevistaDaAssociaoDeComandos_628/Mamasumerevistadaassociaodecomandos4.pdf

 

ULTERIORE  CONGELAMENTO  WEBCITE  SU INTERNET ARCHIVE:

http://www.webcitation.org/76H34dUhz

http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia601502.us.archive.org%2F2%2Fitems%2FMamasumeRevistaDaAssociaoDeComandos_628%2FMamasumerevistadaassociaodecomandos4.pdf&date=2019-02-18

 

 CONGELAMENTO  21 DI 34

 

“Diário de Notícias” del 09 Junho 2007. Autore: Manuel Carlo Freire. Titolo dell’articolo: Nascidos na guerra. Citazione: «Um jornalista italiano da revista francesa Paris-Match com duvidosa experiência em conflitos militares está na origem do modelo de treino das tropas Comandos, criadas a contra- -relógio pelo Exército, nos anos 1960, para a luta de contra-guerrilha em África. Cesare Dante Vacchi, antigo sargento da Legião Estrangeiro, “afirmava ter uma grande experiência de guerra, porque tinha vivido alguns conflitos. Nunca cheguei a perceber muito bem se todos como jornalista ou alguns como combatente. Ele também não era muito claro nisso”, lembra o então tenente Caçorino Dias, instrutor dos dois grupos de operacionais que dariam origem (em 1963/64) às forças especiais de Comandos.»). Non si riporta il numero di accessi alla pagina.

 

ORIGINAL URL: https://www.dn.pt/arquivo/2007/interior/nascidos-na-guerra-659045.html

 

http://www.webcitation.org/74tsFgXqw

http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fwww.dn.pt%2Farquivo%2F2007%2Finterior%2Fnascidos-na-guerra-659045.html&date=2018-12-24

 

https://archive.org/details/NascidosNaGuerra

https://ia601509.us.archive.org/14/items/NascidosNaGuerra/NascidosNaGuerra.html

 

https://archive.org/details/NascidosVacchi.docx

 

 

https://archive.org/details/NascidosVacchi

https://ia601503.us.archive.org/27/items/NascidosVacchi/Nascidosvacchi2.pdf

 

 

ULTERIORE  CONGELAMENTO  WEBCITE  SU INTERNET ARCHIVE:

http://www.webcitation.org/76H3eLo0h

http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia601503.us.archive.org%2F27%2Fitems%2FNascidosVacchi%2FNascidosvacchi2.pdf&date=2019-02-18

 

 

 

 

CONGELAMENTO 22 DI 34

 

Senza data e senza autore. Articolo intitolato As Forças Armadas Portuguesas nel quale viene citato Dante Vacchi. Passaggio dove viene citato Dante Vacchi: «Atualmente, os Comandos estão vocacionados para a realização das seguintes missões: Operações de ataque em profundidade na área da retaguarda do inimigo; Operações aerómoveis; Operações de contra insurreição; Operações como força de intervenção no âmbito da Segurança da área da retaguarda; Operações de apoio à paz, com prioridade para as operações de imposição de paz; Operações humanitárias, com prioridade para as operações de evacuação de não combatentes (NEO). História Os Comandos nasceram como força especial de contra-guerrilha, correspondendo à necessidade do Exército Português de dispor de unidades especialmente adaptadas a este tipo de guerra com que, em 1961, se viu enfrentada, durante a Guerra do Ultramar. A força destinava-se a: Realizar acções especiais em território português ou no estrangeiro; Combater como tropas de infantaria de assalto; Dotar os altos comandos políticos e militares de uma força capaz de realizar operações irregulares. A instituição torna-se operacional em 25 de junho de 1962, quando, em Zemba, no Norte de Angola, foram constituídos os primeiros seis grupos do que seriam considerados os antecessores dos comandos. Seria criado o CI 21 (Centro de Instrução de Contra-Guerrilha), que funcionou perto do Batalhão de Caçadores 280, e que contou como instrutor com o fotógrafo italiano e antigo sargento da Legião Estrangeira, Dante Vacchi, que já trazia experiência das guerras em Argélia e Indochina. Dado que os seis grupos preparados neste centro obtiveram excelentes resultados operacionais, o comando militar em Angola decidiu integrá-los na orgânica do Exército entre 1963 e 1964, criando os CI 16 e CI 25, na Quibala, Angola. Surgia assim, pela primeira vez, a designação de “Comandos” para as tropas aí instruídas. A 26 de Abril de 1985 o Regimento de Comandos foi agraciado com o grau de Membro-Honorário da Ordem Militar da Torre e Espada, do Valor, Lealdade e Mérito e a 13 de Dezembro de 1993 com o grau de Membro-Honorário da Ordem Militar de Avis.»

ORIGINAL URL: http://defesanacional.org/index.php/espaco-menu/historia-de-portugal/555-as-forcas-armadas-portuguesas

IL DOCUMENTO  HA  RIFIUTATO IL CARICAMENTO SU WEBCITE.

https://archive.org/details/AsForasArmadasPortuguesas

https://ia801507.us.archive.org/1/items/AsForasArmadasPortuguesas/AsForasArmadasPortuguesas.html

 

https://archive.org/details/HistriaDosComandosPortuguesesCesareDanteVacchi

https://archive.org/details/HistriaDosComandosPortuguesesCesareDanteVacchi_702

https://ia601505.us.archive.org/35/items/HistriaDosComandosPortuguesesCesareDanteVacchi_702/Histriadoscomandosportuguesescesaredantevacchi2.pdf

ULTERIORE  CONGELAMENTO  WEBCITE  SU INTERNET ARCHIVE:

http://www.webcitation.org/76H4PDNCZ

http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia601505.us.archive.org%2F35%2Fitems%2FHistriaDosComandosPortuguesesCesareDanteVacchi_702%2FHistriadoscomandosportuguesescesaredantevacchi2.pdf&date=2019-02-18

 

                     CONGELAMENTO 23 DI 34

 

Pagina a scopo di mercato antiquario dove si presenta il libro di Dante Vacchi Angola 1961-1963. Autore pagina sconosciuto ma pagina forse caricata nel 2016 da Le Plac’Art Photo. Valgono i commenti ai congelamenti  n° 8, n° 9 e n° 12.

 

ORIGINAL URL: https://placartphoto.com/book/150/angola_1961_-_1963-_anne_gauzes__dante_vacchi

 

http://www.webcitation.org/74yyS0tKQ

http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fplacartphoto.com%2Fbook%2F150%2Fangola_1961_-_1963-_anne_gauzes__dante_vacchi&date=2018-12-27

 

https://archive.org/details/AnneGauzes

 

https://archive.org/details/AnneGauzes_105

https://ia601502.us.archive.org/22/items/AnneGauzes_105/Annegauzes2.pdf

ULTERIORE  CONGELAMENTO  WEBCITE SU INTERNET ARCHIVE:

http://www.webcitation.org/76H4o3JD9

http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia601502.us.archive.org%2F22%2Fitems%2FAnneGauzes_105%2FAnnegauzes2.pdf&date=2019-02-18

 

 

CONGELAMENTO 24 DI 34

 

Pagina caricata il 9 dicembre 2013 per presentare il libro Porto di Dante Vacchi ed Anne Gauze («‘PORTO’ De Dante Vacchi e Anne Gauzes Edição de Milão 1965»). Autore: sconosciuto. Numero di accessi: sconosciuti. Pagina caricata a scopi commerciali per il mercato antiquario del libro come da congelamenti  n° 8, n° 9, n° 12 e n° 23.

ORIGINAL URL: http://livrosultramarguerracolonial.blogspot.com/2013/12/portugal-porto-de-dante-vacchi-e-anne.html

 

http://www.webcitation.org/74zrswLW3

http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Flivrosultramarguerracolonial.blogspot.com%2F2013%2F12%2Fportugal-porto-de-dante-vacchi-e-anne.html&date=2018-12-28

https://archive.org/details/PortugalPortoDanteVacchiEAnneGauzes

 

https://archive.org/details/PortugalPortoDanteVacchiEAnneGauzes_583

https://ia601504.us.archive.org/13/items/PortugalPortoDanteVacchiEAnneGauzes_583/Portugalportodantevacchieannegauzes2.pdf

 

ULTERIORE  CONGELAMENTO  WEBCITE SU INTERNET ARCHIVE:

http://www.webcitation.org/76H560oIK

http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia601504.us.archive.org%2F13%2Fitems%2FPortugalPortoDanteVacchiEAnneGauzes_583%2FPortugalportodantevacchieannegauzes2.pdf&date=2019-02-18

 

CONGELAMENTO 25 DI 34

Pagina caricata a scopo commerciale per la vendita del libro di Anne Gauze e Dante Vacchi Porto. Non si conosce autore pagina, data di caricamento e numero di accessi. Commento, come ai punti n° 8, n° 9, n° 12, n° 23 e n° 24.

 

ORIGINAL URL: https://fr.shopping.rakuten.com/offer/buy/19407373/Gauzes-Anne-Porto-Livre.html

 

http://www.webcitation.org/74ztNS76q (CONGELAMENTO  WEBCITE TECNICAMENTE  FALLITO)

http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Ffr.shopping.rakuten.com%2Foffer%2Fbuy%2F19407373%2FGauzes-Anne-Porto-Livre.html&date=2018-12-28  (CONGELAMENTO  WEBCITE TECNICAMENTE  FALLITO)

https://archive.org/details/LibroSuPortoDanteVacchi

 

https://archive.org/details/LibroSuPortoDanteVacchi_876

https://ia601502.us.archive.org/28/items/LibroSuPortoDanteVacchi_876/Librosuportodantevacchi3.pdf

 

ULTERIORE  CONGELAMENTO  WEBCITE SU INTERNET ARCHIVE:

http://www.webcitation.org/76H5eioQ0

http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia601502.us.archive.org%2F28%2Fitems%2FLibroSuPortoDanteVacchi_876%2FLibrosuportodantevacchi3.pdf&date=2019-02-18

 

 

CONGELAMENTO  26 DI 34

 

A pagina 24 di The Fuzileiros: Portuguese Marines in Africa, 1961–1974 di John P. Cann si citano come fotografi Anne Gaüzes e Dante Vacchi.

 

ORIGINAL URL: https://books.google.it/books?id=cpW0DAAAQBAJ&pg=PA24&lpg=PA24&dq=Anne+Ga%C3%BCzes&source=bl&ots=TGkjENUGM6&sig=jZagR056ss4oRfvgJl9pZCDgobM&hl=it&sa=X&ved=2ahUKEwiiiMOC7rzfAhXN_KQKHTESBTUQ6AEwCXoECAQQAQ#v=onepage&q=Anne%20Ga%C3%BCzes&f=false

 

http://www.webcitation.org/76H5tRt77 (CONGELAMENTO  WEBCITE TECNICAMENTE  FALLITO)

 

http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fbooks.google.it%2Fbooks%3Fid%3DcpW0DAAAQBAJ%26pg%3DPA24%26lpg%3DPA24%26dq%3DAnne%2BGa%25C3%25BCzes%26source%3Dbl%26ots%3DTGkjENUGM6%26sig%3DjZagR056ss4oRfvgJl9pZCDgobM%26hl%3Dit%26sa%3DX%26ved%3D2ahUKEwiiiMOC7rzfAhXN_KQKHTESBTUQ6AEwCXoECAQQAQ%23v%3Donepage%26q%3DAnne%2520Ga%25C3%25BCzes%26f%3Dfalse&date=2019-02-18 (CONGELAMENTO  WEBCITE TECNICAMENTE  FALLITO)

 

https://archive.org/details/TheFuzileiros_PortugueseMarinesInAfrica19611974-JohnP.Cann- (CONGELAMENTO  INTERNET ARCHIVE TECNICAMENTE  FALLITO

https://ia801505.us.archive.org/15/items/TheFuzileiros_PortugueseMarinesInAfrica19611974-JohnP.Cann-/TheFuzileiros_PortugueseMarinesInAfrica19611974-JohnP.Cann-GoogleLibri.html  (CONGELAMENTO  INTERNET ARCHIVE TECNICAMENTE  FALLITO)

 

https://archive.org/details/TheFuzileiros_PortugueseMarinesInAfrica19611974-JohnP.Cann-_985 (CONGELAMENTO  INTERNET ARCHIVE TECNICAMENTE  FALLITO)

 

 

https://ia601503.us.archive.org/7/items/TheFuzileiros_PortugueseMarinesInAfrica19611974-JohnP.Cann-_985/TheFuzileiros_PortugueseMarinesInAfrica19611974-JohnP.Cann-GoogleLibri.html (CONGELAMENTO  INTERNET ARCHIVE TECNICAMENTE  FALLITO)

https://archive.org/details/TheFuzileiros_PortugueseMarinesInAfrica19611974-JohnP.CannDante

 

https://archive.org/details/TheFuzileiros_PortugueseMarinesInAfrica19611974-JohnP.Cann

https://ia601508.us.archive.org/12/items/TheFuzileiros_PortugueseMarinesInAfrica19611974-JohnP.Cann/Thefuzileiros_portuguesemarinesinafrica19611974-johnp.cann2.pdf

ULTERIORE  CONGELAMENTO  WEBCITE SU INTERNET ARCHIVE:

http://www.webcitation.org/76H6SbDI1

http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia601508.us.archive.org%2F12%2Fitems%2FTheFuzileiros_PortugueseMarinesInAfrica19611974-JohnP.Cann%2FThefuzileiros_portuguesemarinesinafrica19611974-johnp.cann2.pdf&date=2019-02-18

 

                     CONGELAMENTO 27 DI 34

 

Alle pp. 6, 7 e 18 di The Flechas: Insurgent Hunting in Eastern Angola, 1965 1974 di John P. Cann si cita Cesare Vacchi.

 

ORIGINAL URL:

https://books.google.it/books?id=JeXZAwAAQBAJ&printsec=frontcover&dq=The+Flechas:+Insurgent+Hunting+in+Eastern+Angola,+1965-1974&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwiszP7E79bfAhVM1VkKHdhTB8UQ6AEIKDAA#v=onepage&q=VACCHI&f=false

 

http://www.webcitation.org/76I9TvzU5 (CONGELAMENTO  WEBCITE TECNICAMENTE  FALLITO)

 

http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fbooks.google.it%2Fbooks%3Fid%3DJeXZAwAAQBAJ%26printsec%3Dfrontcover%26dq%3DThe%2BFlechas%3A%2BInsurgent%2BHunting%2Bin%2BEastern%2BAngola%2C%2B1965-1974%26hl%3Dit%26sa%3DX%26ved%3D0ahUKEwiszP7E79bfAhVM1VkKHdhTB8UQ6AEIKDAA%23v%3Donepage%26q%3DVACCHI%26f%3Dfalse&date=2019-02-18 (CONGELAMENTO  WEBCITE TECNICAMENTE  FALLITO)

 

https://archive.org/details/Vacchi-Flechas

 

https://archive.org/details/Vacchi-Flechas-Caan

https://ia601507.us.archive.org/0/items/Vacchi-Flechas-Caan/Vacchi-Flechas-Caan.pdf

 

 

 

ULTERIORE  CONGELAMENTO  WEBCITE SU INTERNET ARCHIVE:

http://www.webcitation.org/76I9nwjjl

http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia601507.us.archive.org%2F0%2Fitems%2FVacchi-Flechas-Caan%2FVacchi-Flechas-Caan.pdf&date=2019-02-18

      

                          CONGELAMENTO 28 DI 34

 

Autore: Victor Santo, articolo: De Noqui À Amodora, pp. 16-21. Buona parte dell’articolo è dedicato a o francês, « «Monsieur» Dante Vacchi …», e il soprannome era dovuto alla sua fama che faceva dire «Ele mesmo, o Francês. Consta que combateu na Argélia e fez parte dos « Comandos», vocês sabem o que é… essa tropa especial que às vezes aparece nos filmes …» La pagina PDF è tratta da “Mamasume” dell’aprile 1980. Allo stato della ricerca, questo è la più vecchia fonte secondaria che parla di Cesare Dante Vacchi come fondatore dei commandos portoghesi. Si ignora data di immissione nel Web della pagina.

 

ORIGINAL URL:

http://associacaocomandos.pt/_warehouse/mamasume/rvms-pdf/RVMS-009-1980c-Abril.pdf

http://www.webcitation.org/76IAe56jm

http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fassociacaocomandos.pt%2F_warehouse%2Fmamasume%2Frvms-pdf%2FRVMS-009-1980c-Abril.pdf&date=2019-02-18

 

https://archive.org/details/Rvms-009-1980c-abril.pdfMamasume-Vacchi

https://ia601505.us.archive.org/35/items/Rvms-009-1980c-abril.pdfMamasume-Vacchi/Rvms-009-1980c-abril.pdfMamasume-Vacchi.pdf

 

ULTERIORE  CONGELAMENTO  WEBCITE SU INTERNET ARCHIVE:

http://www.webcitation.org/76IA6p8Oc

http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia601505.us.archive.org%2F35%2Fitems%2FRvms-009-1980c-abril.pdfMamasume-Vacchi%2FRvms-009-1980c-abril.pdfMamasume-Vacchi.pdf&date=2019-02-18

 

 

                               CONGELAMENTO 29 DI 34

 

Video su YouTube intitolato Tropa de Elite Portuguesa em Africa – Comandos Flechas, caricato da “Angola Documentários”, pubblicato l’ 8 novembre 2017. Al 7 febbrario 2018, 1753 visualizzazioni. Dopo circa 3 minuti dall’inizio del video, si parla di Dante Vacchi.  In calce ai relativi URL, copiaincollato il commento al video, ove vi si cita Dante Vacchi.

 

ORIGINAL URL:

https://www.youtube.com/watch?v=-EwjO4Aar_I

GLI URL E I VIDEO DI YOUTUBE NON POSSONO ESSERE CONGELATI  TRAMITE WEBCITE.

 

https://archive.org/details/TropaDeElitePortuguesaEmAfrica-ComandosFlechas

https://ia601506.us.archive.org/33/items/TropaDeElitePortuguesaEmAfrica-ComandosFlechas/TropaDeElitePortuguesaEmAfrica-ComandosFlechas.mp4

Tropa de Elite Portuguesa em Africa – Comandos Flechas

1.528 visualizzazioni

160CONDIVIDISALVA

Angola Documentários

Pubblicato il 8 nov 2017

 

O Regimento de Comandos, Centro de Tropas Comandos ou os Comandos são uma força de elite do Exército Português com treino avançado para a realização de operações ou manobras que envolvam alto risco e baixo índice de sucesso, que poderiam ser apenas realizados por uma infantaria altamente qualificada. Os Flechas foram forças de operações especiais dependentes da Polícia Internacional e de Defesa do Estado (PIDE), criadas, inicialmente em Angola, para actuar na Guerra do Ultramar. Os membros dos Flechas eram recrutados entre determinados grupos nativos, nomeadamente ex-guerrillheiros e membros da etnia bosquímane (khoisan). Os bosquímanos que historicamente tinham sido invadidos pelos povos Bantu não tinham qualquer problema a aliar-se aos portugueses, dado que viam nos movimentos de libertação o Bantu invasor do seu território. Estes eram especialmente escolhidos pelas seus conhecimentos do inimigo, conhecimento do terreno, conhecimento das populações locais, etc. É de salientar que os bosquímanos eram um povo caçador-recolector, logo exímios intérpretes de rastos e pistas deixadas no terreno pelo inimigo dada a sua experiência em perseguição de caça. Esses membros nativos eram enquadrados por oficiais do Exército Português e por agentes da PIDE e recebiam treino de forças especiais. Os Comandos nasceram como força especial de contra-guerrilha, correspondendo à necessidade do Exército Português de dispor de unidades especialmente adaptadas a este tipo de guerra com que, em 1961, se viu enfrentada, durante a Guerra do Ultramar. A força destinava-se a: – Realizar acções especiais em território português ou no estrangeiro; – Combater como tropas de infantaria de assalto; – Dotar os altos comandos políticos e militares de uma força capaz de realizar operações irregulares. A instituição torna-se operacional em 25 de junho de 1962, quando, em Zemba, no Norte de Angola, foram constituídos os primeiros seis grupos do que seriam considerados os antecessores dos comandos. Seria criado o CI 21 (Centro de Instrução de Contra-Guerrilha), que funcionou perto do Batalhão de Caçadores 280, e que contou como instrutor com o fotógrafo italiano e antigo sargento da Legião Estrangeira, Dante Vacchi, que já trazia experiência das guerras em Argélia e Indochina.

 

 

 

 

CONGELAMENTO 30 DI 34

 

Video su YouTube Os Flechas – A Tropa Secreta da PIDE/DGS 1967 (Angola Portuguesa), pubblicato da Miguel Ferreira, l’ 8 settembre 2018. Al 7 febbraio 2019, 168  visualizzazioni. Il video non cita Vacchi in relazione alla fondazione dei commandos portoghesi, ma si diffonde ampiamente sul ruolo della PIDE nella guerra coloniale portoghese e sia questa sottolineatura sul ruolo della sì famigerata polizia politica ma, comunque, portoghese sia non citare Vacchi dimostra che a tuttoggi il riconoscimento dell’operato di Vacchi nella guerra coloniale portoghese non è ancora una memoria condivisa. In calce agli URL, copiaincollato il testo di commento al video.

 

 

ORIGINAL URL:

https://www.youtube.com/watch?v=p3jDL98Nstg

GLI URL E I VIDEO DI YOUTUBE NON POSSONO ESSERE CONGELATI  TRAMITE WEBCITE

https://archive.org/details/OsFlechas-ATropaSecretaDaPide_dgs1967angolaPortuguesa

https://ia601500.us.archive.org/26/items/OsFlechas-ATropaSecretaDaPide_dgs1967angolaPortuguesa/OsFlechas-ATropaSecretaDaPide_dgs1967angolaPortuguesa.mp4

 

 

Durante a guerra de Angola, a PIDE/DGS criou um grupo paramilitar de bosquímanos, um povo africano. Os Flechas nasceram na região do Cuando-Cubango, propagaram-se à vila de Gago Coutinho (Lumbala Nguimbo) e, na fase final do conflito, chegaram à região de Luanda, Luso (Luena) e Caxito. Em 1967, seis anos depois do início da guerra em Angola, a PIDE/DGS começou a recrutar novos membros entre algumas etnias africanas com o objectivo de integrá-los num novo grupo paramilitar autóctone, criado nesse ano pelo inspector Óscar Cardoso. Foi o próprio Óscar Cardoso que lhes escolheu o nome, por utilizarem arcos e flechas envenenadas para caçarem. A ordem era que capturassem os opositores e os levassem para serem interrogados. Porém, isso raramente acontecia — na maioria das vezes, os “Flechas” acabavam por matar os insurgentes durante os confrontos. Alimentavam-se de raízes, carochas, insectos, frutos e animais, e negavam as rações de combate. Na única ocasião em que lhes foram fornecidas rações de combate, os bosquímanos comeram literalmente tudo de uma vez. Nem os plásticos que protegiam alguns alimentos se safaram. Em Angola, os missionários protestantes e católicos eram os únicos capazes de comunicar com os bosquímanos e outros grupos étnicos.

 

 

 

 

 

 

CONGELAMENTO  31 DI 34

 

Da Fernando Cavaleiro Ângelo (pref. Óscar Cardoso), Os Flechas: A Tropa Secreta da PIDE/DGS na Guerra de Angola (1967-1974), 1a ed. Alfragide, Casa das Letras, 2017 (numero di pagina non determinabile tramite motore di ricerca di Google libri): «Durante a estada da OAS em Portugal, Óscar  Cardoso desconhece que os seus agentes tenham ministrado cursos de guerrilha às nossas  forças   armadas. Existiu, contudo, um Italiano, Dante Vacchi, que deu instruçao aos Comandos do […] [citazione interrotta perché la pagina mostrata dal motore di ricerca Google libri, oltre a non mostrare il numero della pagina, non riporta nemmeno la frase intera].»

ORIGINAL URL:

https://books.google.it/books?id=4lEsDgAAQBAJ&printsec=frontcover&dq=inauthor:%22Fernando+Cavaleiro+%C3%82ngelo%22&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwjZoO-bndvfAhVR2KQKHekTDTwQ6AEIKDAA#v=onepage&q=vachi&f=false

http://www.webcitation.org/76IAtD44J (CONGELAMENTO  WEBCITE TECNICAMENTE  FALLITO)

 

http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fbooks.google.it%2Fbooks%3Fid%3D4lEsDgAAQBAJ%26printsec%3Dfrontcover%26dq%3Dinauthor%3A%2522Fernando%2BCavaleiro%2B%25C3%2582ngelo%2522%26hl%3Dit%26sa%3DX%26ved%3D0ahUKEwjZoO-bndvfAhVR2KQKHekTDTwQ6AEIKDAA%23v%3Donepage%26q%3Dvachi%26f%3Dfalse&date=2019-02-18 (CONGELAMENTO  WEBCITE TECNICAMENTE  FALLITO)

 

 

 

https://archive.org/details/OsFlechasTropaSecretaVacchi

 

https://archive.org/details/OsFlechasTropaSecretaDanteVacchi

https://ia601509.us.archive.org/26/items/OsFlechasTropaSecretaDanteVacchi/OsFlechasTropaSecretaDanteVacchi.pdf

ULTERIORE  CONGELAMENTO  WEBCITE SU INTERNET ARCHIVE:

http://www.webcitation.org/76IB57sZ8

http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia601509.us.archive.org%2F26%2Fitems%2FOsFlechasTropaSecretaDanteVacchi%2FOsFlechasTropaSecretaDanteVacchi.pdf&date=2019-02-18

 

CONGELAMENTO   32 DI 34

 

Dante Vacchi citato in Wikpedia alla voce “Comandos (Exército Português)”

 

ORIGINAL URL:

https://pt.wikipedia.org/wiki/Comandos_(Ex%C3%A9rcito_Portugu%C3%AAs)

 

http://www.webcitation.org/76IBM8Jsw

http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fpt.wikipedia.org%2Fwiki%2FComandos_%28Ex%25C3%25A9rcito_Portugu%25C3%25AAs%29&date=2019-02-18

 

https://archive.org/details/ComandosexrcitoPortugusWikipdiaAEnciclopdiaLivre

https://ia801506.us.archive.org/35/items/ComandosexrcitoPortugusWikipdiaAEnciclopdiaLivre/ComandosexrcitoPortugusWikipdiaAEnciclopdiaLivre.html

 

https://archive.org/details/COMANDOSVACCHIWIKIPEDIA

https://ia801506.us.archive.org/18/items/COMANDOSVACCHIWIKIPEDIA/COMANDOS%20VACCHI%20WIKIPEDIA.pdf

 

ULTERIORE  CONGELAMENTO  WEBCITE SU INTERNET ARCHIVE:

http://www.webcitation.org/76ICcXkRS

http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia801506.us.archive.org%2F18%2Fitems%2FCOMANDOSVACCHIWIKIPEDIA%2FCOMANDOS%2520VACCHI%2520WIKIPEDIA.pdf+&date=2019-02-18 (CONGELAMENTO  WEBCITE TECNICAMENTE  FALLITO)

 

 

CONGELAMENTO  33 DI 34

Articolo:  Contra-Insurreição em África. O Modo Português de Fazer a Guerra (1961-1974). Autore: John P. Cann. Si tratta di una recensione dell’autore in merito a José Freire Antunes, Guerra de África – 1961-1974, Vol. I .  In calce agli URL ampia citazione della pagina in cui viene citato Vacchi (ma Caan non precisa il numero della pagina). Immesso in Rete: quarta-feira, 31 de maio de 2017.

 

 

ORIGINAL URL:

http://liceu-aristotelico.blogspot.com/2017/05/contra-insurreicao-em-africa-o-modo.html

 

http://www.webcitation.org/76ID5clAs

http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fliceu-aristotelico.blogspot.com%2F2017%2F05%2Fcontra-insurreicao-em-africa-o-modo.html&date=2019-02-18

 

https://archive.org/details/MiguelBrunoDuarte_Contra-insurreioEmfrica.OModoPortugusDe

https://ia601505.us.archive.org/16/items/MiguelBrunoDuarte_Contra-insurreioEmfrica.OModoPortugusDe/MiguelBrunoDuarte_Contra-insurreioEmfrica.OModoPortugusDeFazerAGuerra1961-1974.html

 

https://archive.org/details/RecensioniCaan-Vacchi

https://archive.org/details/RecensioniCaan-DanteVacchi

https://ia601505.us.archive.org/4/items/RecensioniCaan-DanteVacchi/RecensioniCaan-DanteVacchi.pdf

 

ULTERIORE  CONGELAMENTO  WEBCITE SU INTERNET ARCHIVE:

http://www.webcitation.org/76IDSJxUd

http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia601505.us.archive.org%2F4%2Fitems%2FRecensioniCaan-DanteVacchi%2FRecensioniCaan-DanteVacchi.pdf&date=2019-02-18

 

«Para os primeiros cursos de comandos, em Angola, contrataram um indivíduo franco-italiano, o Dante Vacchi, que tinha sido sargento na Legião Estrangeira. Sem dúvida que tinha limitações na sua formação e na parte táctica, mas tinha uma preparação técnica muito grande entre arame farpado. Trouxe grandes inovações. Os oficiais que estavam à frente aceitaram o homem, naturalmente dando-lhe o desconto na parte táctica porque ele, como sargento, tinha limitações. Mas dentro do arame farpado foi extraordinário.
Nessa altura tinham saído e andavam em voga aqueles livros franceses, Os CenturiõesOs Pretorianos, etc. “Bebíamos” aqueles livros. Para nós, portugueses, a experiência francesa foi muito rica. Foram os homens que estiveram na Indochina, estiveram prisioneiros, depois foram para a Argélia. Houve oficiais portugueses que estiveram meses na Argélia a estagiar. Para mim, o modelo francês foi o mais seguido. Até porque, sendo um país com um passado com algumas semelhanças com o nosso, havia que aproveitar. A Indochina e a Argélia foram exemplos a seguir. Outra coisa que nós tínhamos era um certo cuidado, principalmente os oficiais. De certa maneira, tínhamos que dar o exemplo. Posso dizer que das baixas que tivemos nos comandos, uma percentagem elevada foram graduados, oficiais e sargentos. Para além disso, em cada cinco homens, um era oficial ou sargento, enquanto que na tropa normal, em cada trinta homens, havia um oficial e três sargentos. Nos comandos, em cada vinte e cinco homens havia um oficial e em cada cinco havia um sargento. Posso dizer que foram eliminados dos cursos de comandos vários oficiais do Quadro Permanente, incluindo alguns que são hoje colunáveis. Dou um exemplo: Uma noite dormimos em Mueda num dos quartéis, porque normalmente ficávamos em barracas. Dormíamos nas casernas, no chão, ao lado do nosso pessoal, como sempre fazíamos em operações e campanha. Fomos tomar café à messe dos oficiais de Mueda e, quando entrámos, apercebemo-nos de uma grande zaragata na caserna. E o maior orgulho que tive foi ouvir sussurrar numa companhia de caçadores que lá estava: “Porra, se tivéssemos oficiais como os vossos também éramos bons!” Havia da nossa parte uma postura que era importante e determinante.
Durante o curso, uma pessoa levava em cima, durante trinta noites seguidas, com altifalantes que lhe diziam: “Tu és o melhor do mundo!” Um gajo ficava mesmo convencido de que era bom. Acredito que isso seja muito criticado, mas era fundamental. Não direi que houvesse um espírito de superioridade. Estávamos convictos do valor que tínhamos. Nós próprios ficávamos admirados com a capacidade de resistência que tínhamos. Trabalhávamos muitas vezes no limite do esforço. Mas acima do espírito comando estava a Pátria. O nosso dia, nas unidades ou no mato em instrução, começava sempre com o hastear da bandeira nacional – compareciam todos – e com a leitura do código do comando, onde a Pátria é exaltada. Um jornalista disse um dia que os comandos estavam muito ligados a África e defendiam valores ultrapassados. De facto, nós, os comandos que estivemos em África e lá adquirimos a plenitude, éramos capazes de ficar lá toda a vida. O espírito de corpo que temos vem desses anos em África, das comissões de dois anos em que os indivíduos viviam em conjunto os problemas do dia-a-dia. Era o fulano a quem morreu o filho, o fulano que a namorada deixou, o fulano a quem a mulher pôs os cornos, os problemas de vária ordem que se sentiam a viver em companhia. O espírito de corpo foi cimentado em África, e isso não desaparece. Se agarrar num jornal, vê que é raro o mês em que não há reuniões de batalhões e de companhias. Isto não é por acaso, há um espírito de corpo que ficou, há qualquer coisa que os une. Foi o Santos e Castro – o comando número um – que introduziu o grito “Mama Sume!”, que significa isto: “Aqui estou!” Em Angola, uma das provas que os bailundos faziam para atingirem a maturidade era sair e caçar um leão, com lança. Na altura em que atiravam a lança gritavam: “Estou aqui, não tenho medo”. Por isso, e porque os comandos nasceram em Angola, o Santos e Castro achou que esse era um grito a adoptar, porque era a plenitude de um jovem que ia matar um leão com uma lança, e ao dar esse grito sentia-se com força e coragem. Ainda hoje se usa nas cerimónias comando. Na guerra, às vezes íamos a correr atrás dos gajos e gritávamos “Mama Sume!”».
Jaime Neves («Mama Sume!», in José Freire Antunes, «Guerra de África – 1961-1974», Vol. I).»

 

 

 

 

CONGELAMENTO  34 DI 34

 

Da Google libri, dal quale risulta che Dante Vacchi in José Freire Antunes, A Guerra de África – 1961-1974, Lisboa, Círculo de Leitores, 1995 viene citato tre volte: pp. 233, 234 e 464. Dalla pagina all’URL http://liceu-aristotelico.blogspot.com/2017/05/contra-insurreicao-em-africa-o-modo.html (congelamento n° 33), risulta che esso viene citato anche in un altro luogo di  José Freire Antunes, A Guerra de África cit. ma il numero di questa pagina non viene mostrato.

 

ORIGINAL URL:

https://books.google.it/books?hl=it&id=MXAFAQAAIAAJ&dq=Jos%C3%A9+Freire+Antunes%2C+%C2%ABGuerra+de+%C3%81frica+-+1961-1974%C2%BB%2C+Vol.+I&focus=searchwithinvolume&q=VACCHI

http://www.webcitation.org/76IDerGMg (CONGELAMENTO  WEBCITE TECNICAMENTE  FALLITO)

 

http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fbooks.google.it%2Fbooks%3Fhl%3Dit%26id%3DMXAFAQAAIAAJ%26dq%3DJos%25C3%25A9%2BFreire%2BAntunes%252C%2B%25C2%25ABGuerra%2Bde%2B%25C3%2581frica%2B-%2B1961-1974%25C2%25BB%252C%2BVol.%2BI%26focus%3Dsearchwithinvolume%26q%3DVACCHI&date=2019-02-18 (CONGELAMENTO  WEBCITE TECNICAMENTE  FALLITO)

 

https://archive.org/details/AGuerraDefrica-DanteVacchi

 

https://archive.org/details/AGuerraDefrica-DanteCesareVacchi

https://ia601509.us.archive.org/29/items/AGuerraDefrica-DanteCesareVacchi/AGuerraDefrica-DanteCesareVacchi.pdf

 

ULTERIORE  CONGELAMENTO  WEBCITE  SU INTERNET ARCHIVE:

http://www.webcitation.org/76IDxrZHm

http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia601509.us.archive.org%2F29%2Fitems%2FAGuerraDefrica-DanteCesareVacchi%2FAGuerraDefrica-DanteCesareVacchi.pdf&date=2019-02-18

____________

 

 

 

 

 

 

 

Diego Rodríguez de Silva y Velázquez, Las Meninas, 1656

 

 

 

 

 

[1] Rudolf  Kjellén, Staten som lifsform, Stockholm, Gebers, 1916.

[2] In particolare, per quanto riguarda la profondissima influenza che la gentiliana Filosofia della  prassi ebbe sul pensiero e sulla politica dell’Italia del  Novecento, non troviamo nulla di meglio che stralciare dalle bozze del nostro Glosse al Repubblicanesimo Geopolitico (di prossima ma sempre rinviata pubblicazione) le seguenti considerazioni: «Ma torniamo ora alla filosofia della praxis. Sebbene questa locuzione, come abbiamo precedente visto, sia larghissimamente impiegata nei Quaderni del carcere da Gramsci, il termine non fu da lui coniato ma ha invece due padri che lo avevano preceduto. Il primo è Antonio Labriola e il secondo è Giovanni Gentile. Tuttavia in Labriola e Gentile il significato è radicalmente diverso. Per semplificare: Antonio Labriola riteneva che il marxismo fosse una filosofia della prassi perché esso metteva al centro del suo discorso non un’astratta dialettica delle idee ma il concreto rapporto dell’uomo col suo lavoro destinato a modificare il suo ambiente naturale e sociale. Giovanni Gentile invece, dava a ‘filosofia della praxis’ il significato che il soggetto poteva conoscere non impiegando kantaniamente astratte categorie trascendentali ma confrontandosi direttamente con l’oggetto, un oggetto che però non è astrattamente posto ma creato dall’attività conoscitiva del soggetto stesso. Siamo, come è di tutta evidenza, dalle parte di un Fitche e della sua dialettica fra un io che deve porre per manifestarsi un non io (fra l’altro molto stranamente ma forse proprio per non dover pagare debiti troppo elevati, Gentile mai riconoscerà l’importanza di questo filosofo) ma siamo anche dalle parti, anzi vi si entra direttamente, delle Tesi su Feuerbach di Karl Marx, Tesi che, come ora vedremo, risulteranno in pratica non solo l’esordio filosofico di Giovanni Gentile ma anche il motivo animatore di tutta la dinamica interna della filosofia dell’atto puro di Gentile. Giovanni Gentile affronta il tema delle marxiane Tesi su Feuerbach nel 1899 nell’opera La filosofia di Marx (Giovanni Gentile, La filosofia di Marx. Studi critici, Pisa, E. Spoerri, 1899). Quest’opera contiene due saggi. Il primo è Una critica del materialismo storico, che aveva avuto anche una precedente pubblicazione, il secondo è La filosofia della prassi, dove oltre a porre sulla base delle Tesi su Feuerbach l’interpretazione gentiliana del pensiero di Marx, queste Tesi vengono pubblicate (e tradotte per la prima volta in Italia) da Gentile. Ma qual è, in concreto, il cuore dell’operazione ermeneutica intrapresa da Gentile con quest’ultimo saggio? Consiste in questo: poggiandosi sulla prima tesi su Feuerbach, ove il filosofo di Treviri afferma che la realtà è Gegenstand e non Objekt, Gentile afferma che per Marx la realtà è sempre e solo  il prodotto di una vicenda storica che non risponde ad alcuna legalità esterna tranne la sua peculiare dinamica interna che si sostanzia proprio nel rapporto diretto e non passivo fra soggetto e oggetto. Quindi, nell’interpretazione di Marx data da Gentile, la realtà non è un dato che prescinde dal soggetto ma è una realtà prodotta direttamente dal soggetto; fichtianamente, anche se con linguaggio diverso da Fichte, il soggetto attraverso la sua oggettivazione produce il soggetto. Di fatto, La filosofia della prassi è non solo il più profondo testo su Marx mai apparso in Italia ma è anche il testo che inquadrando la filosofia del pensatore di Treviri come filosofia della prassi nel senso attivistico del soggetto che forma l’oggetto ha anche direttamente ispirato tutta quella schiera di rivoluzionari italiani che, partendo dal totale rifiuto del positivismo, volevano lottare per il totale rivoluzionamento della società. Anche parte del fascismo trasse linfa iniziale da  questi slanci rivoluzionari ed attivistici di matrice idealistico-marxiana filtrati da Gentile, i futuristi indubbiamente ebbero  nel loro album di famiglia ideologico anche la Weltanschauung gentilo-marxiana; sull’altro versante in Gobetti sono molto rigogliosi i semi rivoluzionari di stampo gentiliano  ma l’autore che ha subito il più profondo marchio dall’interpretazione attivistica di Marx che emerge dalla Filosofia della prassi di Gentile è senza alcun dubbio Antonio Gramsci. Tanto per essere chiari e delimitare il campo degli argomenti (e degli uomini) con cui può essere utile sviluppare una dialettica e quelli che semplicemente devono essere considerati dei traditori belli e buoni del pensiero gramsciano. C’è chi ha recentemente affermato che il solo accostare il nome di Gramsci a quello di Gentile costituisce una sorta di sacrilegio perché il primo fu rinchiuso nelle carceri fasciste mentre il secondo fu uno degli ideologi di quel fascismo che incarcerò Gramsci. Per costoro non c’è nessuna risposta razionale e basata sui dati di fatto che possiamo fornire. Quando espresso in sincerità si tratta di un ragionamento di tipo religioso che non ricorre ad alcuna argomentazione razionale ma all’affermazione ripetuta e stordita di puri atti di fede (di falsa sinistra). Purtroppo, coloro che hanno il compito di dare una veste formale a questi deliri, sono tutt’altro che degli ingenui ma sono i professionisti dell’antifascismo militante il cui compito è, appunto, stordire  gli ingenui ai fini della propria carriera personale. Ci sono poi coloro, filologicamente un po’ più onesti, che dicono che l’attualismo gentiliano fu sì importante per Gramsci ma che questo influsso si fermò alle soglie degli anni Venti del Novecento. Sulla scorta di un’attenta lettura dei Quaderni, si dimostrerà che la “filosofia della praxis” versione Gentile fu determinante e centrale nel pensiero di Gramsci. C’è poi infine chi afferma, in base all’influsso diretto di Gentile su Gramsci, che Gramsci deve essere definito un filosofo idealista. Pur nel pieno rispetto di questa opinione, mostreremo una realtà molto diversa. Per quanto riguarda però  coloro che con tutta le sfumature possibili di una buona o cattiva coscienza affermano che è un sacrilegio accostare il nome di Gramsci a quello di Gentile, bastino le seguenti parole che Antonio Gramsci scrisse nel 1918 su Giovanni Gentile giudicandolo «il filosofo italiano che più in questi ultimi anni abbia prodotto nel campo del pensiero. Il suo sistema della filosofia è lo sviluppo ultimo dell’idealismo germanico che ebbe il suo culmine in Hegel, maestro di Marx, ed è la negazione di ogni trascendentalismo, l’identificazione della filosofia con la storia, con l’atto del pensiero in cui si uniscono il vero e il fatto in una progressione dialettica mai definitiva e perfetta.»: Antonio Gramsci, Il socialismo e la cultura attuale, in “Il Grido del Popolo”, 19 gennaio 1918. Veniamo ora a coloro che pur riconoscendo l’importanza di Gentile nel primo Gramsci, la vogliono negare per quanto riguarda i Quaderni del Carcere. Ora se è chiaro che nei Quaderni non sono presenti entusiastici apprezzamenti di Gramsci su Gentile del tipo di quello apparso  nel ’19 nel “Grido del popolo” (e sarebbe veramente strano aspettarseli visto che Gramsci era stato incarcerato dal regime fascista, quello stesso regime di cui Gentile tanto faticava a presentarsi come l’ideologo ufficiale), è di  altrettanta  solare evidenza che è proprio la filosofia della praxis versione gentilo-marxiana la vera colonna vertebrale filosofica che struttura tutti i Quaderni. Solo qualche citazione in proposito:[…]».

 

[3] « «L’origine è la meta»: Karl Kraus, Worte in Versen I [Parole in versi]. «La storia è oggetto di una costruzione il cui luogo non è il tempo omogeneo e vuoto, ma quello pieno di momento-ora [Jetztzeit]. Così, per Robespierre, la Roma antica era un passato carico di momento-ora [Jetztzeit], che egli faceva schizzare dalla continuità della storia. La Rivoluzione francese si autorappresentava come una Roma rediviva. Citava  l’antica Roma esattamente come la moda cita un costume d’altri tempi. La moda ha il senso del momento-ora [Jetztzeit], dovunque esso viva nella selva di quello che fu. Essa è un balzo di tigre nel passato. Ma questo balzo ha luogo in un’arena dove comanda la classe dominante. Lo stesso balzo, sotto il cielo libero della storia, è quello dialettico, come Marx ha concepito la rivoluzione.»: Walter Benjamin, XIV Tesi di filosofia della storia.

 

 

[4] « «Una delle caratteristiche più notevoli dell’animo umano, – scrive Lotze, – è, fra tanto egoismo nei particolari, la generale mancanza di invidia del presente verso il proprio futuro». La riflessione porta a concludere che l’idea di felicità che possiamo coltivare è tutta tinta del tempo a cui ci ha assegnato, una volta per tutte, il corso della nostra vita. Una gioia che potrebbe suscitare la nostra invidia, è solo nell’aria che abbiamo respirato, fra persone a cui avremmo potuto rivolgerci, con donne che avrebbero potuto farci dono di sé. Nell’idea di felicità, in altre parole, vibra indissolubilmente l’idea di redenzione. Lo stesso vale per la rappresentazione del passato, che è il compito della storia. Il passato reca seco un indice temporale che lo rimanda alla redenzione. C’è un’intesa segreta fra le generazioni passate e la nostra. Noi siamo stati attesi sulla terra. A noi, come ad ogni generazione che ci ha preceduto, è stata data in dote una debole forza messianica, sui cui il passato ha un diritto. Questa esigenza non si lascia soddisfare facilmente. Il materialista storico lo sa.»: Walter Benjamin, II Tesi di filosofia della storia. 

 

[5] «Il materialista storico non può fare a meno del concetto di presente che non è passaggio ma in cui il tempo ha origine ed è arrivato ad un arresto. Poiché questo concetto definisce precisamente il presente in cui egli scrive la storia per sé stesso. Lo storicismo dipinge un’immagine “eterna” del passato, il materialista storico, un’esperienza con esso, che si erge autonoma. Egli lascia che altri sprechino le proprie forze con la prostituta «C’era una volta» nel bordello dello storicismo. Egli rimane signore delle sue forze: uomo abbastanza per far saltare il continuum della storia: Walter Benjamin, XVI Tesi di filosofia della storia. «Lo storicismo culmina legittimamente nella storia universale. Da nessuna come da questa impostazione più  chiaramente si differenzia, dal punto di vista metodologico, la storiografia materialista. La prima non ha un’armatura teoretica. Il suo procedimento è quello dell’addizione; essa fornisce una massa di fatti per riempire un tempo omogeneo e vuoto. Alla base della storiografia materialistica è invece un principio costruttivo. Il pensiero comporta non  solo il movimento dei pensieri, ma anche il loro arresto. Quando il pensiero si arresta di colpo in una costellazione straripante di tensioni, le impartisce un urto per cui esso si cristallizza in una monade. Il materialista storico affronta un oggetto storico unicamente e solo dove esso gli si presenta come una monade [corsivo nostro]. In questa struttura egli riconosce il segno di un arresto messianico degli eventi o, detto altrimenti, di una chance rivoluzionaria nella lotta per il passato oppresso. Egli la coglie per far saltare un’epoca determinata dal corso omogeneo della storia; così facendo esplodere una determinata vita fuori dalla sua epoca, o una determinata opera fuori dall’opera complessiva di una vita. Il guadagno netto di questo modo di procedere consiste in questo:  che l’opera della vita  è conservata e superata nell’opera, l’epoca nell’opera della vita, e l’intero corso della storia nell’epoca. Il frutto nutriente dello storicamente concettualizzato ha nel suo nucleo il  concetto di tempo, come il seme prezioso ma privo di sapore.»: Walter Benjamin, XVII Tesi di filosofia della storia.  « «I cinque scarsi decenni dell’homo sapiens, – dice un biologo moderno – rappresentano, in rapporto alla storia della vita organica sulla terra, qualcosa come due secondi al termine di una giornata di ventiquattr’ore. La storia infine dell’umanità civilizzata  occuperebbe, riportata su questa scala, un quinto dell’ultimo secondo dell’ultima ora».  Il momento-ora [Jetztzeit], che, come modello del tempo messianico, riassume in una grandiosa abbreviazione la storia dell’intera umanità, coincide esattamente con la parte che la storia dell’umanità occupa nell’universo. Corollario a) Lo storicismo si accontenta di stabilire un nesso causale fra i momenti diversi della storia. Ma  nessun fatto, in quanto causa, è solo per questo storico. Lo diventerà solo dopo, postumamente, in seguito a fatti che possono essere divisi da millenni. Lo storico che muove da questa constatazione, cessa di lasciarsi scorrere fra le dita la successione dei fatti come un rosario. Coglie la costellazione in cui la sua  epoca è entrata in contatto con un’epoca anteriore alla sua. E fonda così un concetto del presente come del momento-ora [Jetztzeit], in cui sono sparse schegge di quello messianico. Corollario b)  È certo che il tempo non era vissuto dagli indovini, che cercavano  di divinare cosa era nascosto nel grembo del futuro,  né come omogeneo né come vuoto. Chi tenga presente questo, può forse farsi un’idea del modo in cui il passato era vissuto come  l’azione stessa del ricordare: e cioè nello stesso modo. È noto che agli ebrei era vietato investigare il futuro. La Torah e la preghiera li istruivano, al contrario, alla memoria. Ciò li liberava dal fascino del futuro, a cui soggiacciono quelli che cercano informazioni presso gli indovini. Ma non per questo il futuro diventò per gli ebrei un tempo omogeneo e vuoto. Poiché ogni secondo, in esso, era la piccola porta da cui poteva entrare il Messia.»: Walter Benjamin, XVIII Tesi di filosofia della storia. XVI Tesi di filosofia della storia, XVII Tesi di filosofia della storia e XVIII Tesi di filosofia della storia:  una grandiosa  ‘appropriazione dello strategico’  (e/o ‘epifania strategica’) che non ha avuto pari nella storia e nella cultura del Novecento se non nella filosofia della prassi di Antonio Gramsci e  che pone Walter Benjamin come uno dei più diretti antesegnani del Repubblicanesimo Geopolitico.

 

 

[6] «La lotta di classe, che è sempre davanti agli occhi dello storico educato su Marx, è una lotta per le cose rozze e materiali, senza le quali non esistono quelle più fini e spirituali. Ma queste ultime sono presenti, nella lotta di classe, in altra forma che non sia la semplice immagine di una preda destinata al vincitore. Esse vivono, in questa lotta, come fiducia, coraggio, umore, astuzia, impassibilità, e agiscono retroattivamente nella lontananza dei tempi. Esse rimetteranno in questione ogni vittoria che sia toccata nel tempo ai dominatori. Come i fiori volgono il capo verso il sole, così, in forza di un eliotropismo segreto, tutto ciò che è stato tende a volgersi verso il sole che sta salendo nel cielo della storia. Di questa trasformazione, meno appariscente di ogni altra, deve intendersi il materialista storico. »: Walter Benjamin, IV Tesi di filosofia della storia. «La vera immagine del passato passa di sfuggita.  Solo nell’immagine, che balena una volta per tutte nell’attimo della sua conoscibilità, si lascia fissare il passato. «La verità non può scappare» – questo motto, che è di Gottfried Keller, segna esattamente il punto, nella concezione storicistica della storia, in cui essa è spezzata dal materialismo storico. Poiché è un’immagine irrevocabile del passato che rischia di svanire ad ogni presente che non si riconosca significato, indicato in esso. (La lieta novella che lo storico del passato porta senza respiro, viene da una bocca che forse, già nel momento in cui si apre, parla nel vuoto).»: Walter Benjamin, V Tesi di filosofia della storia.  «La tradizione degli oppressi ci insegna che lo «stato di emergenza» in cui viviamo è la regola. Dobbiamo giungere a un concetto di storia che corrisponda a questo fatto. Avremo allora di fronte, come nostro compito, la creazione del vero stato di emergenza; e ciò migliorerà la nostra posizione nella lotta contro il fascismo. La sua fortuna consiste, non da ultimo, in ciò che i suoi avversari lo combattono in nome del progresso come di una legge storica. Lo stupore perché le cose che viviamo sono «ancora» possibili nel ventesimo secolo è tutt’altro che filosofico. Non è all’inizio di nessuna conoscenza, se non quella che l’idea di storia da cui proviene non sta più in piedi.»: Walter Benjamin, VIII Tesi di filosofia della storia. « «Bedenkt das Dunkel und die grosse Kälte in diesem Tale das von Jammer schalt [Considerate il buio e il grande freddo in questa valle, che risuona di sofferenza] »: Bertold Brecht, Die Dreigroschenoper [L’opera da tre soldi]. Fustel de Coulanges raccomanda allo storico che voglia rivivere un’epoca di sgombrare la mente di tutto ciò che appartiene al corso successivo della storia. Non si potrebbe definire meglio il procedimento con cui il materialismo storico ha rotto i ponti. È un procedimento di immedesimazione. La sua origine è l’indolenza del cuore, l’acedia, che dispera di impadronirsi dell’immagine storica autentica, balenante per un attimo. Essa era considerata, dai teologi del Medioevo, come il fondamento ultimo della tristezza. Flaubert, che ne aveva fatto la conoscenza, scriveva: «Peu de gens devineront combien il a fallu être triste pour ressusciter Carthage [Pochi capiranno quanta tristezza ci sia voluta per risuscitare Cartagine]». La natura di questa tristezza si chiarisce se ci si chiede per chi   lo storico dello storicismo prova empatia. La risposta suona inevitabilmente: per il vincitore. Quelli che oggi comandano sono quindi gli eredi di coloro che un tempo furono i vincitori. L’empatia col vincitore è così ogni volta  indirizzata verso gli odierni dominatori. Questo è tutto quello che c’è da sapere per il materialista storico. Chiunque ha riportato fino ad oggi la vittoria, partecipa al corteo trionfale in cui i dominatori di oggi passano sopra quelli che oggi giacciono a terra. La preda, come si è sempre usato, è trascinata nel trionfo. Essa è designata con l’espressione ‘patrimonio culturale’. Esso dovrà avere, nel materialista storico, un osservatore distaccato. Poiché tutto il patrimonio culturale che egli abbraccia con lo sguardo ha immancabilmente un’origine a cui non può pensare senza orrore. Esso deve la propria esistenza non solo alla fatica dei grandi geni che lo hanno creato, ma anche alla schiavitù senza nome dei loro contemporanei. Non c’ è mai stato documento di cultura senza essere, nello stesso tempo, documento di barbarie. E come, in sé,  non è immune dalla barbarie, non lo è nemmeno il processo della sua trasmissione, attraverso il quale passa da una mano all’altra. Il materialista storico si distanzia quindi da esso nella misura del possibile. Egli considera come suo compito passare a contropelo la storia.»: Walter Benjamin, VII Tesi di filosofia della storia.

 

[7] «Articolare storicamente il passato non significa conoscerlo «come propriamente è stato». Significa impadronirsi di un ricordo come esso balena nell’istante di un pericolo. Per il materialismo storico si tratta di fissare l’immagine del passato come essa si presenta improvvisamente al soggetto storico nel momento del pericolo. Il pericolo sovrasta tanto il patrimonio della tradizione quanto coloro che lo ricevono. Esso è lo stesso per entrambi: di ridursi a strumento della classe dominante. In ogni epoca bisogna cercare di strapare la tradizione al conformismo che è in procinto di sopraffarla. Il Messia non viene solo come redentore, ma come vincitore dell’Anticristo. Solo quello storico ha il dovere di accendere nel passato la favilla della speranza, che è penetrato dall’idea che anche i morti non saranno al sicuro del nemico, se egli vince. E questo nemico non ha smesso di vincere.»: Walter Benjamin, VI Tesi di filosofia della storia.

 

[8] Certamente non si deve omettere il grande merito di Hannah Arendt che con Vita Activa (Vita Activa. La condizione umana, odierno titolo della traduzione italiana  pubblicata in Italia nel  1964 per i tipi di Bompiani del saggio originalmente pubblicato nel 1958 negli Stati uniti: Hannah Arendt, The Human condition, University of Chicago Press, 1958) ha introdotto prepontemente nel Novecento  lo Zoon politikon come figura archetipa dell’agire politico. Ma con Antonio Gramsci questo Zoon politikon cessa di essere un elemento di archeologia politica legato al mondo ellenico per dialettizzarsi integralmente e nella storia e nella filosofia del XX secolo (e anche del XXI) attraverso la figura mitologica di conio machiavelliano – ma  figura mitologica carica di una dirompente carica prassistica – del moderno Principe.

 

[9] Su questo “timido prassismo” wendtiano, timido soprattutto perchè è completamente dimentico della grande tradizione della filosofia della prassi ma comunque importante perchè introduce all’interno dello studio delle relazioni internazionali fondamentali spunti volontaristici e umanistici tratti da questa impostazione  filosofico-politica, cfr. Alexander Wendt, Anarchy is what States Make of it: The Social Construction of Power Politics in “International Organization”, Vol. 46, No. 2. (Spring, 1992), pp. 391-425, articolo consultabile all’URL https://people.ucsc.edu/~rlipsch/migrated/Pol272/Wendt.Anarch.pdf, dai noi  caricato su WebCite agli URL  http://www.webcitation.org/76DqnzgU1 e http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fpeople.ucsc.edu%2F~rlipsch%2Fmigrated%2FPol272%2FWendt.Anarch.pdf&date=2019-02-16; su Internet Archive agli URL https://archive.org/details/AnarchyIsWhatStatesMakeOfIt.TheSocialConstructionOfPowerPolitics.pdf e https://ia601506.us.archive.org/7/items/AnarchyIsWhatStatesMakeOfIt.TheSocialConstructionOfPowerPolitics.pdf/AlexanderWendt.AnarchyIsWhatStatesMakeOfIt.TheSocialConstructionOfPowerPolitics.pdf, con successivo finale caricamento della stessa pagina di Internet Archive su WebCite agli URL http://www.webcitation.org/76DoCJ4ia e http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia601506.us.archive.org%2F7%2Fitems%2FAnarchyIsWhatStatesMakeOfIt.TheSocialConstructionOfPowerPolitics.pdf%2FAlexanderWendt.AnarchyIsWhatStatesMakeOfIt.TheSocialConstructionOfPowerPolitics.pdf&date=2019-02-15.

[10] In Rete anche presso l’original URL http://www.fulviofrisone.com/attachments/article/451/the%20logic%20of%20quantum%20mechanics%201936.pdf; “congelamento” WebCite agli URL  http://www.webcitation.org/76DzVbjNK  e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fwww.fulviofrisone.com%2Fattachments%2Farticle%2F451%2Fthe%2520logic%2520of%2520quantum%2520mechanics%25201936.pdf&date=2019-02-16; Internet Archive: https://archive.org/details/TheLogicOfQuantumMechanics1936 e   https://ia801506.us.archive.org/0/items/TheLogicOfQuantumMechanics1936/the%20logic%20of%20quantum%20mechanics%201936.pdf e infine “congelamento” della pagina Internet Archive agli URL WebCite http://www.webcitation.org/76E0F0hI7 e   http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia801506.us.archive.org%2F0%2Fitems%2FTheLogicOfQuantumMechanics1936%2Fthe%2520logic%2520of%2520quantum%2520mechanics%25201936.pdf&date=2019-02-16 .

 

 

[11] L’idea della storia naturale, conferenza tenuta da Adorno nel  1932, può essere considerata e uno dei più efficaci attacchi nel Novecento, assieme alle Tesi di filosofia della storia di Walter Benjamin, all’impostazione similpositivistica dello storicismo tedesco che aveva abbandonato tutti gli spunti dialettici della grande stagione dell’idealismo e contestualmente – e conseguentemente – come la presa d’atto, anche se espressa in maniera tutt’altro che cristallina, che la divisione fra mondo della natura retto da deterministiche leggi e mondo storico dell’uomo, che in ragione dell’impossibilità ad essere inquadrato in tali leggi sarebbe separato dal mondo della natura da un’alterità addirittura ontologica,  dal punto di vista teorico non aveva alcun fondamento: «Se si vuole che la domanda sul rapporto tra natura e storia abbia una risposta concreta, bisogna riuscire a comprendere l’essere storico stesso come un essere naturale, ossia a comprenderlo nelle sue determinazioni naturali, proprio laddove esso è maggior­mente storico; oppure riuscire a comprendere la natura come un essere storico proprio laddove essa si mostra come natura apparente.»: Die Idee der Naturgeschichte, trad. it. di M. Farina, L’idea della storia naturale, in T. W. Adorno, L’attualità della filosofia. Tesi all’origine del pensiero critico, Mimesis, Milano 2009, p. 69. Il tema dell’impraticabilità teorica della separazione fra mondo della natura e mondo storico-sociale dell’uomo verrà infine completamente sviluppato da Adorno in Dialettica negativa, dove si può anche apprezzare un suo notevolissimo approssimarsi ad un modello filosofico-politico dell’azione-conflitto dialettico-espressivo-strategico, unito però ad  una non soddisfacente focalizzazione della problematica del rapporto fra natura e storia in Marx, dove il filosofo e rivoluzionario di Treviri viene da Adorno praticamente – ed erroneamente – del tutto assolto delle degenerazioni della dialettica verificatesi tramite il Diamat staliniano: «Il concetto di storia universale, dalla cui validità la filosofia hegeliana è ispirata quanto quella kantiana da quella delle scienze naturali, divenne tanto più problematico, quanto più il mondo unificato si approssimava ad un processo globale. Da un lato la scienza storica avanzante con metodo positivistico ha disgregato la concezione di una totalità e di una continuità senza interruzioni. Rispetto ad essa la costruzione filosofica aveva il dubbio vantaggio di una minore conoscenza dei dettagli, che voleva spacciare fin troppo facilmente per una sovrana distanza; e veramente anche meno timore di dire qualcosa di essenziale, che si profili soltanto alla distanza. Dall’altro una filosofia sviluppata doveva cogliere l’accordo tra storia universale e ideologia (1)  e la vita sconvolta come discontinua [nota 1 di p. 287 di Theodor Ludwig Wiesengrund Adorno, Dialettica negativa, Torino, Einuadi, 1966: «Cfr. Benjamin, Scriften cit., vol. I, pp. 494 sgg. [pp. 81 sgg.].»]. Hegel stesso aveva concepito la storia universale come unitaria solo grazie alle sue contraddizioni. Con la sua riformulazione materialistica l’accento maggiore fu posto sulla comprensione della discontinuità di ciò che non era tenuto insieme da alcuna unità consolatoria dello spirito e del concetto. Tuttavia bisogna pensare insieme storia universale e discontinuità. Cancellare quella come residuo di superstizione metafisica, consoliderebbe la mera fattualità come l’unica cosa da conoscere e quindi da accettare, allo stesso modo della  sovranità precedente, che ordinava i dati nell’avanzata totale dello spirito uno, confermandoli con le sue manifestazioni. La storia universale si deve costruire e negare. Sarebbe cinico affermare dopo le catastrofi e nell’attesa delle future un piano mondiale verso il miglioramento che si manifesti nella storia e la unifichi. Però non si deve negare perciò l’unità, che salda insieme i momenti e fasi discontinui, caoticamente disgregati dalla storia, quella del dominio della natura, progredente nel dominio sugli uomini ed infine sulla natura interiore. Non c’è una storia universale che conduca dal selvaggio all’umanità, ma certo una che porta dalla fionda alla megabomba. Essa termina nella minaccia totale dell’umanità organizzata contro gli uomini organizzati, la quintessenza della discontinuità. Così Hegel viene terribilmente verificato e messo sulla testa. Se egli trasfigurava la totalità della sofferenza storica in positività dell’assoluto che si realizza, l’uno e il tutto che si sviluppa per prender fiato fino ad oggi è teleologicamente la sofferenza assoluta. La storia è l’unità di continuità e discontinuità. La società si mantiene in vita non malgrado il suo antagonismo, ma tramite esso; l’interesse al profitto, e quindi il rapporto di classe sono oggettivamente il motore del processo produttivo, da cui dipende la vita di tutti e il cui primato ha il suo punto di fuga nella morte di tutti. Ciò implica anche l’elemento conciliante nell’inconciliabile: poiché esso soltanto permette agli uomini di vivere; senza di esso non ci sarebbe nemmeno la possibilità di una vita trasformata. Ciò che quella possibilità creò storicamente, può anche distruggere. Lo spirito del mondo, degno oggetto di definizione, dovrebbe essere definito come catastrofe permanente.  Sotto il principio d’identità che assoggetta tutto, ciò che non si dissolve  nell’identità  e si sottrae alla razionalità pianificante nell’ambito dei mezzi diventa angoscioso, rappresaglia per quel male che il non identico subisce da parte dell’identità. La storia potrebbe difficilmente essere interpretata altrimenti, senza trasformarla magicamente in idea [evidenziazione nostra].»: Theodor Ludwig Wiesengrund Adorno, Dialettica negativa, cit., pp. 286-88. «L’oggettività della vita storica è quella di una storia naturale. Marx lo ha riconosciuto contro Hegel, e precisamente in stretta connessione con l’universale realizzantesi sopra le teste dei soggetti: «Anche quando una società è riuscita a intravvedere la legge di natura del proprio movimento – e fine ultimo al quale mira quest’opera è di svelare la legge economica del movimento della società moderna – non può  né saltare né eliminare per decreto le fasi naturali dello svolgimento… Non dipingo affatto in luce rosea le figure del capitalista e del proprietario fondiario. Ma qui si tratta delle persone soltanto in quanto sono la personificazione delle categorie economiche, incarnazione di determinati rapporti e di determinati interessi di classe. Il mio punto di vista, che concepisce lo sviluppo della formazione economica della società come processo di storia naturale, può meno che mai rendere il singolo responsabile di rapporti dei quali egli rimane socialmente creatura, per quanto soggettivamente possa elevarsi al di sopra di essi (1) [nota 1 di p. 319 di Theodor Ludwig Wiesengrund Adorno, Dialettica negativa, cit.: «Marx, Das Kapital cit., Vol. I, prefazione alla 1° ed., pp. 7 sg. [vol. I, I, p. 18].»].» Non s’intende certo il concetto antropologico di natura di natura di Feuerbach, contro il quale Marx ha rivolto il materialismo storico, nel senso di una ripresa di Hegel contro gli hegeliani di sinistra (2) [nota 2 di p. 319 di Theodor Ludwig Wiesengrund Adorno, Dialettica negativa, cit.: «Cfr. Schmidt, Der Begriff der Natur in der Lehre von Marx cit., Vol. II, p. 15 [cap. I, sez. A].»]. La cosiddetta legge naturale, che  pure è solo una legge della società capitalistica, viene perciò chiamata mistificazione da Marx: «La legge dell’accumulazione capitalistica mistificata in legge di natura esprime dunque in realtà il fatto che la sua natura esclude ogni diminuzione del grado di sfruttamento del lavoro o ogni aumento del prezzo del lavoro che siano tali da esporre a un serio pericolo la costante riproduzione del rapporto capitalistico e la sua riproduzione su scala sempre più allargata. Non può essere diversamente in un modo di produzione entro il quale l’operaio esiste per i bisogni di valorizzazione di valori esistenti, invece che, viceversa, la ricchezza materiale per i bisogni di sviluppo dell’operaio (1). [nota 1 di p. 320  di Theodor Ludwig Wiesengrund Adorno, Dialettica negativa, cit.: «Marx, Das Kapital cit., Vol. I, pp. 652 sg. [Vol. I, 3, p. 69»].].» Tale legge è naturale a causa del carattere della sua inevitabilità sotto i rapporti di produzione dominante. L’ideologia non si sovrappone all’essere sociale come uno strato che si possa staccare, ma gli inerisce. Essa si fonda sull’astrazione, che è essenziale per il processo di scambio. Ciò implica nel processo della vita reale fino ad oggi un’apparenza socialmente necessaria. Il suo nocciolo è il valore della cosa in sé, «natura». La quasi naturalità della società capitalistica è reale e nello stesso tempo apparenza. Che l’assunto di legge naturale non deve essere preso alla lettera, e tanto meno ontologizzato nel senso di un qualche progetto del cosiddetto uomo, è confermato dal motivo più potente della teoria marxiana in generale, quello dell’eliminabilità di tali leggi . Dove inizia il regno della libertà, non varrebbero più. La distinzione kantiana fra un regno della libertà e uno della necessità viene trasposto al succedersi delle fasi, mobilitando come mediazione la filosofia della storia hegeliana. Soltanto uno stravolgimento dei motivi marxisti come il Diamat, che prolunga il regno della necessità assicurando che sia quello della libertà, poteva cadere nell’errore  di falsificare il concetto polemico marxiano di  normatività naturale da una costruzione della storia naturale in una dottrina scientistica di invarianti . Con ciò il discorso marxiano sulla storia naturale non perde nulla del suo contenuto di verità, appunto quello critico. Hegel si aiutò ancora ricorrendo ad un soggetto personificato trascendentale, che perde però già la natura di soggetto; Marx denuncia non solo la trasfigurazione hegeliana, ma la fattispecie che ne è oggetto. La storia umana, il progressivo dominio sulla natura, prosegue quella inconsapevole della natura, mangiare ed essere mangiato. In senso ironico Marx era un socialdarwinista: ciò che i socialdarwinisti esaltano e secondo cui godono di agire, per lui è la negatività, in cui si risveglia la possibilità della sua negazione [evidenziazione nostra].»: Theodor Ludwig Wiesengrund Adorno, Dialettica negativa, cit., pp. 319-320. E a questo proposito – e, riteniamo, senza bisogno di ulteriori commenti se non sottolineare che il  modello dell’azione-conflitto dialettico-espressivo-strategico del Repubblicanesimo Geopolitico permette di affrontare con un’inedita e rivoluzionaria prospettiva situazioni storiche e/o filosofiche ritenute fino ad oggi fuori dalle “magnifiche sorti e progressive” del mondo liberal-liberista del secondo dopoguerra: dalla storia  «che porta dalla fionda alla megabomba» – ma anche alle elaborazioni culturali dalle più popolari alle più alte, fino a giungere all’espressività artistica e scientifica!  fino al fascista Dante Cesare Vacchi che crea i commandos portoghesi per aiutare il morente Portogallo salazarista nella guerra contro i movimenti di liberazione in Africa – accostiamo alla citazione adorniana una da una nostra riflessione, il Dialectivs Nvncivs (agli URL di Internet Archive: https://archive.org/details/DialecticvsNvncivs.IlPuntoDiVistaDelRepubblicanesimoGeopolitico_866 e https://ia801603.us.archive.org/7/items/DialecticvsNvncivs.IlPuntoDiVistaDelRepubblicanesimoGeopolitico_866/DialecticvsNvncivs.IlPuntoDiVistaDelRepubblicanesimoGeopoliticoAttraversoIQuaderniDelCarcereEStoriaECoscienzaDiClasse.pdf, e di WebCite:

http://www.webcitation.org/76Q9qTn9X e http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia801603.us.archive.org%2F7%2Fitems%2FDialecticvsNvncivs.IlPuntoDiVistaDelRepubblicanesimoGeopolitico_866%2FDialecticvsNvncivs.IlPuntoDiVistaDelRepubblicanesimoGeopoliticoAttraversoIQuaderniDelCarcereEStoriaECoscienzaDiClasse.pdf&date=2019-02-24): «Dal punto di vista del Repubblicanesimo Geopolitico, (1) oltre alla “falsificazione” di Marx, innumeri volte rappresentata da La Grassa in tutta la sua opera e ora per ultimo di nuovo molto opportunamente ripetuta nella Intervista (teorica) a Gianfranco La Grassa (di F. Ravelli), cioè la nascita mai avvenuta della nuova classe al potere del lavoratore collettivo cooperativo associato, sulla quale ci soffermeremo fra poco, siamo di fronte a due ulteriori “crampi” del pensiero marxiano che, uniti alla “falsificazione” di cui sopra ci consentono davvero, alla luce dell’impostazione conflittuale-strategica lagrassiana, di compiere un passo decisivo per lo sviluppo delle scienze sociali e storiche che, non solo rivoluzionino gli attuali paradigmi teorici, ma anche possano dare l’inizio ad una reale prassi sociale anch’essa rivoluzionaria rispetto agli stantii paradigmi politici democraticistici [nota 1 di p. 3 di Massimo Morigi, Dialecticvs Nvncivs. Il punto di vista del Repubblicanesimo Geopolitico attraverso i Quaderni del Carcere e Storia e Coscienza di Classe per il rovesciamento della gerarchia della spiegazione meccanicistico-causale e dialettico-conflittuale, per il rinnovamento degli studi marxiani e marxisti e per l’ Aufhebung della gramsciana e lukacsiana Filosofia della Praxis: si omette la citazione del testo della nota]. Partiamo, molto semplicemente, dal passo fondamentale del Capitale  dove Marx individua il carattere del tutto ideologico dell’allora (e tuttora) imperante economia politica: «Al possessore di denaro, che trova il mercato del lavoro come particolare reparto del mercato delle merci, non interessa affatto il problema del perché quel libero lavoratore gli compaia dinanzi nella sfera della circolazione. E a questo punto non interessa neanche a noi. Noi, dal punto di vista teorico, ci atteniamo al dato di fatto, come fa il possessore di denaro dal punto di vista pratico. Però una cosa è evidente. La natura non produce da un lato possessori di denaro o di merci e dall’altro semplici possessori della propria forza lavorativa. Tale rapporto non risulta dalla storia naturale né da quella sociale ed esso non è comune a tutti i periodi della storia. È evidente come esso sia il risultato d’uno svolgimento storico precedente, il prodotto di molte rivoluzioni economiche, della caduta di una intera serie di più vecchie formazioni della produzione sociale. (2) [Nota 2 di p. 5 di Massimo Morigi,  Dialecticvs Nvncivs cit.: «Karl Marx, Il Capitale, trad. it., Roma, Newton Compton, 1970, I, pp. 199-200.»].»  Marx ci dice quindi, al contrario di quanto sostenevano gli economisti classici (e di quanto sostengono ancor oggi gli attuali economisti), che è la storia e non la natura a produrre la società dominata dal capitalismo e che, di conseguenza, le presunte leggi economiche non sono per niente naturali ma totalmente dovute all’umana evoluzione storica. Questo totale cambio di paradigma segna ad un tempo la grandezza ed anche l’enorme ed invalicabile limite di Marx (e di tutte le varie scuole di pensiero e di azione che da lui prenderanno origine). Detto in estrema sintesi: vero è che la società capitalistica e le presunte leggi dell’economia non hanno affatto l’ineluttabilità della natura ma sono di pura origine storico-sociale. Falso è, come invece traspare chiaramente dal testo appena citato, che sussista una suddivisione reale fra natura e storia. Come ho già affermato in altri luoghi, questa errata epistemologia è l’errore più grande di tutta la tradizione filosofica occidentale, alla quale, con risultati del tutto insoddisfacenti, cercarono di porre rimedio Hegel e Schelling e che, quindi, non si può fare particolare biasimo a Marx per esservi ricaduto. Ma se non si può certo biasimare in particolare Marx per questo errore, sul piano del giudizio storico sono del tutto da deprecare i problemi derivatine. La conseguenza, veramente nefasta, è stata una visione terribilmente ristretta del metodo dialettico dove da una parte, cioè nel cosiddetto Diamat – sviluppo teorico finale delle cosiddette tre pseudoleggi dialettiche di Engels illustrate nella sua Dialettica della Natura e nell’Anti-Dühring (conversione della quantità in qualità, compenetrazione degli opposti e negazione della negazione, tre leggi che sono la scimmiottatura della logica aristotelica) –, la dialettica è diventata una forma corrotta di pensiero positivistico e che, sulla linea dell’ineluttabilità di queste leggi pseudodialettiche engelsiane, ha smesso, appunto, di essere dialettica per trasformarsi in instrumentum regni dei regimi totalitari del socialismo reale […]»: Dialecticvs Nvncivs cit., pp. 3-5. «Torniamo ora a Marx, quando afferma nella prefazione alla prima edizione del Capitale con una evidente contraddizione (per niente dialettica) rispetto al passo sempre del Capitale appena citato: «Una parola ad evitare possibili malintesi. Non ritraggo per niente le figure del capitalista e del proprietario fondiario in luce rosea. Ma qui si tratta delle persone solo in quanto sono la personificazione di categorie economiche, che rappresentano determinati rapporti e determinati interessi di classe. Il mio punto di vista che considera lo sviluppo della formazione economica della società come processo di storia naturale, non può assolutamente fare il singolo responsabile di rapporti da cui egli socialmente proviene, pure se soggettivamente possa innalzarsi al di sopra di essi. (5) [ Nota 5 di p. 10 di Dialecticvs Nvncivs cit.: «Karl Marx, Il Capitale, cit., pp. 6-7.»]» Qui la società è quindi per Marx assimilabile ad una sorta di processo naturale, gli uomini piuttosto che agire in esso sono agiti da forze che li sovrastano e la loro natura, insomma, è quella del Gattungswesen, un ente naturale generico determinato dalle leggi e dalle forze che agiscono nella società stessa. (6) [Nota 6 di p. 10 di Dialecticvs Nvncivs cit.: «Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza. Ad un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l’espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l’innanzi s’erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale. Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura.»: Karl Marx, Per la Critica dell’Economia Politica cit., p.5 […]»] In questo passaggio si sviluppa sì una linea di pensiero che unisce società e natura ma è una linea di pensiero similpositivistica, anticipatrice della Dialettica della Natura e dell’ Anti-Dühring di Engels prima e poi del Diamat di cui abbiamo già detto. Veniamo ora ai nostri giorni. Il conflittualismo strategico di Gianfranco La Grassa nasce dopo la definitiva consunzione, filosofica prima che politica, di tutta la tradizione marxista che, se a livello storico-politico, è crollata per la tragicomica inefficienza economica dei vari sistemi socialisti effettivamente storicamente realizzatisi unita alle lusinghe (totalmente) false del paese dei balocchi della forma di stato “democratico-capitalistica”, sul piano teorico e filosofico praticamente sin dal suo inizio aveva fatto bancarotta in ragione del suo economicismo, prendendo poi successivamente le forme ideologiche di una pseudodialettica di stato, il Diamat, che altro non era che una forma di positivismo degradato, di pratiche e modelli economici meno inefficienti di quelli del cosiddetto “libero mercato” capitalistico e, last but not the least, di una visione filosofica dell’uomo come Gattungswesen, un ente naturale generico completamente sottoposto alle determinazioni sociali, con la non irrilevante conseguenza che alla mitizzata classe operaia (mito che era una versione degradata del marxiano lavoratore collettivo cooperativo associato) veniva riservato un trattamento da Gattungswesen, appunto, mentre alla nomenklatura veniva, in pratica, violentemente concesso di “elevarsi al di sopra” di essa; realizzando cioè nella prassi, a solo uso e consumo della burocratica classe dominante, un compiuto modello conflittuale-strategico, in cui il dominato era la tanto mitizzata (e presa per il fondelli) classe operaia-gattungswesen. Il conflittualismo strategico di Gianfranco La Grassa, portando esplicitamente il conflitto al centro dell’interpretazione della società, mantiene e approfondisce la fondamentale critica marxiana sulla falsa naturalità dell’economia politica, chiude quindi definitivamente con tutta questa tradizione marxista economicistico-positivistica da una parte (Diamat, altrimenti detto marxismo orientale) o dialettico-dimidiata dall’altra (il cosiddetto marxismo occidentale: uno dei massimi esempi di questa seconda – immensamente più feconda però per il futuro, nonostante le segnalate contraddizioni, della deriva diamattina – quella avanzata da György Lukács in Storia e Coscienza di Classe) e però, per il completo sviluppo rivoluzionario del suo paradigma, è per il Repubblicanesimo Geopolitico assolutamente necessario un dialettico riorientamento gestaltico sia della prassi del conflitto strategico che del suo stesso concetto. (7) [Nota 7 di p.11 di Massimo Morigi, Dialecticvs Nvncivs cit. : si omette la citazione del testo della nota] Questo riorientamento passa A) attraverso un deciso abbandono della mainstream impostazione della cultura occidentale che vede una suddivisione fra storia e natura (o cultura e natura: sotto questo punto di vista, l’annullamento cioè dell’antidialettico discrimine fra natura e cultura, è possibile ricuperare e superare, rovesciandolo, il significato del concetto di alienazione, facendolo, cioè, poggiare saldamente sui piedi di un sodo realismo politico e di un’altrettanto concreta epistemologia politico-filosofica prassistica anziché su una testa positivista e/o genericamente gattungsweseniana; l’uomo, comunque si intenda il marxiano Gattungswesen – in senso deterministico-positivista o come un segno delle sue potenzialità e libertà – non è un ente generico, ma è, polarmente al contrario, un ente naturale strategico, anzi il massimo ente strategico prodotto dalla natura, o per dare conseguente e migliore definizione a quanto fin qui affermato, il massimo ente strategico prodotto dalla natura/cultura – per un approfondimento su questo inestricabile rapporto natura/cultura e sull’uomo ente naturale strategico, il presente nunzio anticipa Glosse al Repubblicanesimo Geopolitico per una Fenomenologia della Dialettica della Natura e della Cultura attraverso il Conflitto Espressivo-Cognitivo-Evoluzionistico-Strategico. Nuovo Nomos della Terra, Nuovo Principe, Rivoluzione e Dialettica della Filosofia della Praxis Espressiva, Conflittuale e Strategica del Repubblicanesimo Geopolitico (Aufhebung della Rivoluzione e dell’Azione Strategica nello Sviluppo Storico-Dialettico della Cultura e della Natura), di prossima pubblicazione –, una nuova semantica dell’alienazione così interpretata ed indagata, contrariamente all’accezione negativa marxiana, attraverso il rioerientamento compiuto su di questa dal concetto e dalla prassi dell’azione-conflitto strategico e, perciò, come la felice concreta manifestazione della dialettica di tale conflitto; felice anche da un punto di vista soggettivo solo se, è ovvio, questo processo alienante è vissuto consapevolmente e strategicamente da un agente alfa-strategico e non risulta, invece, dall’imposizione di un dominio esterno di un agente alfa-strategico su un agente omega-strategico – sulle dinamiche dei rapporti fra agenti alfa-strategici e agenti omega-strategici, i portatori storici, quest’ultimi, del negativo marxiano significato originario di ‘alienazione’ e, quindi, il permanente lato “infelice” dell’alienazione, cfr. la Teoria della Distruzione del Valore. Teoria Fondativa del Repubblicanesimo Geopolitico e per il Superamento/conservazione del Marxismo, riferimenti bibliografici in nota 1) e passa quindi B) attraverso un ripudio delle categorie positivistiche, in primis quella di legge di natura deterministica e immodificabile ed immutabile. Insomma, e qui dissento da La Grassa, il punto non è se il pensiero possa o meno riprodurre la realtà, il punto è che il pensiero, se veramente pensiero e quindi pensiero integralmente strategico e quindi strategia realmente in azione, produce – o, meglio, crea – la realtà. E ora mi taccio, in parte perché la giustificazione di questa mia ultima fondante e fondativa affermazione dovrebbe essere trovata nelle parole che l’hanno qui preceduta (e che, oltre a quanto si è già precedentemente scritto o ora espresso nel presente Dialecticvs Nvncivs – che introduce le prossime Glosse al Repubblicanesimo Geopolitico che svolgono, attraverso il taglio del nodo gordiano natura/cultura o storia/natura, la dialettica del Repubblicanesimo Geopolitico stesso –, seguono il filo rosso di una filosofia della praxis che, partendo dalle marxiane Glosse a Feuerbach, approda prima in Giovanni Gentile – cfr. del filosofo dell’attualismo La Filosofia di Marx del 1899 – e poi nella filosofia della praxis compiutamente espressa da Antonio Gramsci nei Quaderni del Carcere) (8) [nota 8 di p.15 di Massimo Morigi, Dialecticvs Nvncivs cit.: si omette la citazione del testo della nota]  e  in parte perché, oltre La Grassa, altri grandi (vedi la teoria del rispecchiamento di Lenin (9) [nota 9 di p. 18 di Massimo Morigi, Dialecticvs Nvncivs cit. : si omette la citazione del testo della nota]   in Materialismo e Empiriocriticismo) hanno sempre espresso una differente opinione, un contraddittorio che necessita acribia e anche una puntuta analisi delle relative fonti e non certo il presente discorso da intendersi solo come inquadramento generale – anche se con tutta la dignità ed autorevolezza che, in via di consolidata storica consuetudine, ogni nunzio merita che gli si accordi – del necessario e, ormai, non più rinviabile dibattito. Massimo Morigi, luglio-25 dicembre 2016.»: Dialecticvs Nvncivs cit., pp. 9-23. Nota finale di qualche tempo dopo (febbraio-marzo 2019) e in circostanze non solo teoriche (una riflessione non solo filosofico-politica ma anche l’inizio dello studio sul fascista Dante Cesare Vacchi che crea i commandos portoghesi): l’invito al dibattito con Gianfranco La Grassa è tuttora valido.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTE SU COSTITUZIONE E INTERPRETAZIONE COSTITUZIONALE, 2a parte_ di Teodoro Klitsche de la Grange

NOTE SU COSTITUZIONE E INTERPRETAZIONE COSTITUZIONALE

II PARTE

Secondo la tesi di Leibnitz, sopra cennata, teologia e giurisprudenza si basano ambedue su scriptura e ratio; a giudizio di Gierke (prima ricordato) i teologi-giuristi della Seconda Scolastica si servivano con dovizia della ratio. Questo sia per il carattere razionalista della teologia cristiana, sia perché il diritto positivo costituiva solo una parte del diritto, sia perché la rivelazione divina (la scriptura) non era un insieme univoco, esauriente e per così dire, “privo di lacune” che l’interprete non dovesse colmare. In particolare la distinzione fondamentale concerneva ciò che è necessario, perché corrispondente all’ordine creato da Dio – e quindi il diritto naturale – e ciò che era frutto di decisione (divina o umana). Mentre il primo non poteva essere altro da quello che era, il secondo era rimesso alla determinazione della volontà di chi lo poneva in essere. Anche Sieyès riteneva che “Una Nazione si costituisce solo in virtù di un diritto naturale. Un governo, al contrario, è frutto solo del diritto positivo. La Nazione è tutto quel che può essere per il solo fatto di esistere”.[41] Tale distinzione era stata (in parte) ripresa (e sviluppata) da Hegel nella formulazione sopra riportata[42], tra ciò che è necessario perché una moltitudine sia uno Stato (e quindi costituisca un potere comune) e ciò che essendo solo un modo di esistenza dello Stato, appartiene “alla sfera del caso e dell’arbitrio”. Trasponendola al diritto pubblico, ciò che rende possibile la stessa esistenza dello Stato, ne pone e collega gli elementi necessari perché l’istituzione (e la comunità) esista ed agisca, è costituzionale, anche se nessun testo (o dichiarazione costituzionale) la qualifica come tale: è costituzionale per natura, non perché una dichiarazione, per quanto solenne lo statuisca[43]. Anzi è esso che, nell’extremus necessitatis casus prevale sulla vigenza dell’apparato normativo (ed anche sull’assetto “normale” dei poteri) così come, con massima evidenza) nel momento genetico è l’esistenza di quello che consente al diritto – da esso posto o riconosciuto – abbia validità ed efficacia. Ma in quanto è costituzionale in se, non c’è nessuna norma che possa “costituirlo” né eliminarlo ( e tanto meno modificarlo); onde per comprenderlo non occorre alcuna scriptura, ma necessita la ratio. E infatti la ratio appare la sola via per capire ciò che è necessario, non essendo modificabile da una decisione umana, con la conseguenza che, anche se vi fosse – ed è anche capitato che vi siano – decisioni umane, anche espresse in testi costituzionali, che contraddicano ciò che è necessario, sono inapplicabili, in primo luogo (e quel che poi conta) nella concreta realtà, e, di conseguenza, non possono essere oggetto di comandi eseguibili, quindi neppure interpretabili in quel senso. E’ appena il caso di ricordare quanto scriveva Spinoza  che il sovrano può far tutto ma non modificare le leggi di natura (ovvero ciò che è necessario), e comandare cose impossibili come toccare gli anelli di Saturno o sedersi sugli angoli del triangolo (ad impossibilia nemo tenetur), o superflue perché non rientranti nell’ambito (delle possibilità di violazione e con ciò) della libertà umana (ad es. ordinare di rispettare la legge di gravità). Quel che più rileva è come in quel necessario non rientra soltanto ciò che è riconducibile alle leggi naturali (c.d. limite ontologico), ma ciò che è riconducibile alle costanti dell’azione sociale umana: come la necessità della comunità politica e dell’ordine (v. sopra); dell’assetto gerarchico del potere; della  classe politica[44] .

Mano a mano  che dal necessario (in senso assoluto) si passa al (relativamente) necessario[45] e all’accidentale (direbbe Hegel) si riduce l’uso necessario della ratio e cresce quella della “scriptura”, cioè della statuizione (scritta), in quanto tale oggetto d’interpretazione (nel senso tradizionale, anche se con le specificità dovute al carattere costituzionale della materia). Ad esempio, per qualificare democrazia il regime frutto della decisione costituente occorre che sia prescritto il diritto d’accesso di tutti i cittadini alla funzione pubblica (art. 51 della Costituzione) che è considerato una delle condizioni, (necessaria anche se non sufficiente) perché esista una democrazia politica da 25 secoli (cioè dal famoso passo di Tucidide in cui riporta il discorso di Pericle per i caduti della prima fase della guerra del Poleponneso): Una norma che, di converso, escludesse dall’accesso la grande maggioranza dei cittadini,  sarebbe a dispetto della dichiarazione costituzionale contraria, istitutiva di un regime oligarchico.

In una recente polemica, reperibile in rete[46] si possono trovare motivi e spunti su cosa possa essere l’interpretazione della costituzione, sotto il profilo di differenti teorie del diritto. Secondo Baldassarre i tratti fondamentali del positivismo giuridico sono:

– “il diritto (oggettivo) è «posto da una volontà (se no, perché chiamarlo «positivismo»?), nel senso che è il prodotto di un «potere» o di un’autorità, ossia è un atto di volontà di un sovrano precostituito (ora soggettivizzato, come lo Stato, la Nazione, il Popolo o altro Soggetto politico; ora oggettivizzato nell’ordinamento normativo, sia quello nazionale o internazionale, sia l’una o l’altra delle norme fondamentali che si impongono «di fatto»);”

– “il diritto (oggettivo) consiste in norme assistite da una sanzione (istituzionalizzata), vale a dire consiste in norme coattive;”

– “l’applicazione del diritto (norma,legge) è il frutto di una deduzione logica, di modo che la decisione di un caso (controversia) è sempre la conclusione di un «sillogismo deduttivo (o sussuntivo)», derivante da una scelta (valutazione) interamente ascrivibile al «legislatore», ossia alla «volontà» di chi ha posto la norma considerata (sovrano).”

Da cui conclude che “questi tratti comuni ad ogni approccio giuspositivista (esclusivista)… si siano dissolti nella vita pratica del diritto costituzionale dell’ultimo cinquantennio (in Europa)”.

Ad avviso di Guastini, che cita Bobbio, l’espressione positivismo giuridico “è di fatto usata per denotare non una sola ed univoca corrente di pensiero, ma tre modi di vedere distinti e logicamente irrelati tra loro: il positivismo «metodologico», il positivismo «teorico», e il positivismo «ideologico»” di cui il positivismo teorico è “grosso modo, la teoria del diritto, dominante nel secolo XIX: quel modo di vedere secondo cui le norme giuridiche (ivi incluse quelle consuetudinarie) sono interamente riducibili a comandi coattivi del sovrano politico (i. e., di un legislatore umano), un ordinamento giuridico è un insieme di norme completo e coerente, l’interpretazione del diritto è atto di conoscenza(non di volontà), la sua applicazione è attività logico-deduttiva.”. Avendo sostenuto Baldassarre “ che l’antica massima hobbesiana –vero manifesto del positivismo giuridico in tutte le sue forme-auctoritas, non veritas, facit legem sia ormai inattuale. Se ne  deve concludere che nello stato costituzionale di diritto “ratio,non auctoritas, facit legem”. Una tale tesi non è condivisa da Guastini “La tesi che il diritto nasca non dall’autorità, ma dalla “verità” o dalla “ragione” (così sostiene Baldassarre), significa che le norme giuridiche sono il prodotto non di atti di volontà, bensì di atti di conoscenza: di conoscenza, dobbiamo supporre, non della (eterna) “natura” umana, bensì dei “costumi” e della “coscienza sociale”. E ciò implica che le norme giuridiche – proprio come le proposizioni scientifiche – possono dirsi vere o false. Tesi classica dei giusnaturalisti, d’altronde, i quali disgraziatamente non hanno mai saputo indicare a noi, poveri giuspositivisti, quali mai possono essere i criteri di verità degli enunciati del discorso prescrittivo.”

In questo riepilogo  – largamente parziale e sintetico di quanto scritto – entrambi gli autori presuppongono che la costituzione sia un atto (documento) scritto e statuito (mentre per le parti più importanti, non è scritto e neppure statuito): nell’esposizione di Baldassarre una importanza decisiva (specie per le sentenze dei giudici costituzionali) riveste il fatto che le costituzioni (cioè gli atti/documenti) contengono enunciazioni di principio e statuizioni di valore, onde l’applicazione/interpretazione consiste in una valutazione di compatibilità “tra due distinti ordini di «principi»: quelli stabiliti, secondo una certa gerarchia e un certo ordine di preferenza, dalla costituzione e  quelli implicati… dalla «regola (generale e astratta)» contenuta nella norma legislativa  della cui costituzionalità si dubita”. Tale è il modo di “operare di tutte le corti costituzionali occidentali”.

Tuttavia sia che si tratti d’interpretare norme, sia di applicare principi (e/o valori) le due posizioni si riferiscono entrambe al diritto statuito (e scritto) tralasciando così tutto ciò che non è scritto né statuito[47]. Quanto all’altra questione– che più interessa ai fini del presente scritto – se il diritto nasca dall’autorità o dalla ragione (verità), occorre appena ricordare che un simile dilemma (se la legge sia atto della volontà e dell’intelletto) era stato largamente dibattuto dai teologi[48] e la soluzione che dava Suarez non era un “aut…aut” ma un “et…et”, nel senso che la legge era atto sia d’intelletto che di volontà[49]. La legge positiva è sia  ratio che voluntas; che sia la seconda è evidente; e che presupponga (e incorpori) anche la ratio (quasi altrettanto) evidente, giacché una legge bizzarra e/o superflua non è suscettibile di esecuzione e coazione, diventando così una bizzarria normativa, non potendo essere un comando eseguibile.

Se, come sostiene chi scrive, la costituzione non è (solo) un atto, e spesso neanche scritto, resta da vedere come si possa interpretare/applicare ciò che non è né scritto né statuito.

Nella realtà un problema siffatto è familiare al giurista: che come regola di una decisione (ad es. giudiziaria) il legislatore imponga all’interprete di ricavare il diritto da un comportamento (cioè da un fatto) è disposto (ad es. dall’art. 1362 c.c., o dalla previsione della consuetudine come fonte di diritto). Nel diritto internazionale è quello, analogo, dello jus non scriptum internazionale; la cui applicazione chiede in primo luogo l’accertamento storico dell’effettiva vigenza (e ancor prima esistenza) della norma.

Fatta questa premessa la disposizione costituzionale interpretanda può non essere formulata nello schema abituale “Se F (fattispecie), allora G (conseguenza giuridica)[50]” o in qualche formulazione analoga (cara alla giurisprudenza analitica); e ancor più la disposizione spesso non è espressa neanche come principio (cioè di guisa da non collegare la fattispecie alla conseguenza giuridica), e talvolta non espressa (non “statuita”). Ma se interpretare è per lo più enucleare il significato di un testo normativo, in tal caso il significato deve essere ricavato da rapporti, fatti, comportamenti (e principi) inespressi il che non è inconsueto, anche se, in un ordinamento moderno, meno frequente.

Piuttosto un’interpretazione/applicazione costituzionale richiede un cambiamento di prospettiva, che pone in secondo piano la classica  dicotomia sein/sollen, per riportare in auge quella dell’Amleto: essere o non essere. Inteso in un doppio significato: che il normativo presuppone l’esistente e che l’esistente prevale sul normativo, che potremmo chiamare limite naturale e criterio funzionalistico –teleologico. Nel limite naturale non c’è solo quello ontologico, ma in genere ogni condizionamento necessario dovuto a leggi, anche dell’agire sociale; così una costituzione non può essere interpretata nel senso che non costituisca rapporti di comando/obbedienza, perché ogni comunità politica, per esistere, necessita di  qualcuno che comanda e altri che obbediscano. Così, ma sul punto rinviamo alla prima parte di questo lavoro, il senso della massima  salus rei publicae suprema lex, è che l’esistente (la comunità) prevale sul normativo, onde il diritto dev’essere interpretato-applicato nel senso di salvaguardare l’esistenza collettiva e non l’esattezza dell’interpretazione/applicazione delle norme o dei valori o della giustizia, implicita nella (contrapposta) espressione fiat justitia, pereat mundus.

In entrambi i casi è così l’essere che condiziona in modo cogente il dover-essere, nel primo caso perché l’ordine comunitario, se non si osservano le leggi naturali (nel senso precisato) neppure può venire ad esistenza, o la conduce breve e grama; nel secondo perché verrebbe meno alla prima crisi (seria). Ma dato che, come scriveva Jhering, il diritto serve alla vita è pertanto da interpretare di guisa da conservare l’ordine e la vita comunitaria (ed individuale).

D’altra parte il limite “ontologico” all’applicazione dei precetti (norme, comandi) giuridici è già “codificato” non solo nel codice civile vigente (v. il combinato disposto dell’art. 1418-1346 c.c. sull’impossibilità dell’oggetto come causa di nullità del contratto) ma fin dalla giurisprudenza romana come risulta dai brocardi impossibile habetur id, cui natura impedimento est quominus existat; impossibilium nulla est obligatio; quae rerum natura prohibentur, nulla lege confirmata sunt.

Piuttosto da ciò derivano due problemi: il primo, quello cennato, e dato per scontato che l’obbligo (dovere, obbligazione) relativo ad un oggetto impossibile per natura è nullo, occorre ricordare che lo stesso trattamento compete alla norma (precetto, obbligo, ordinamento) che pretende di  violare le leggi del funzionamento e dell’equilibrio sociale, come risultano dall’uniformità sperimentale e (talvolta) dalla stessa analisi razionale. Come è (a dir poco) bizzarro presupporre una società politica senza comando, obbedienza, potere, così lo è concepire un’attività economica senza scarsità dei beni. Il secondo problema è che quei brocardi citati (ed altri) sono la conversione in termini giuridici di constatazioni e valutazioni di fatto. Potrebbe sembrare che così si violi la “legge di Hume”  per la quale non è possibile dedurre giudizi precettivi da proposizioni  assertive [51]. La tesi che le norme giuridiche (come il diritto) non possa essere dedotto dalle leggi di natura è stata più volte esposta – tra gli altri – da Kelsen[52]; il quale – ma non solo il giurista viennese – aveva sottolineato tuttavia un’essenziale distinzione tra diritto e morale, relativa al modo in cui essi prescrivono o  vietano un certo comportamento umano[53].

Tale distinzione, ancora più dell’altra, spesso ripetuta, che il diritto sanziona comportamenti “esterni”, mentre la morale sanziona (soprattutto) quelli interni, costituisce la differenza fondamentale tra dovere giuridico e morale: esserci o meno un apparato coercitivo  deputato (anche) a (prevenire e ) reprimere le violazioni del diritto (come ad incentivare l’osservanza dello stesso). Ma la violazione dev’essere possibile, la coazione – che è l’essenza della differenza – dev’essere esercitabile, così come l’obbligazione giuridica eseguibile. Come sopra cennato, un legislatore che prescrivesse di sedersi sugli angoli del triangolo, produrrebbe solo ilarità[54], ma nulla di concretamente efficace[55].

Contrariamente a quanto giudicava Hume per la morale, nel diritto che un obbligo sia coercibile o meno  non è un giudizio di valore, un sollen, ma un sein. Pertanto il legislatore (o nel caso di altri precetti giuridici – e con le dovute diffferenze -, il giudice o il funzionario) compie sia un giudizio di “fatto” che una scelta di valore, nel formulare le norme legislative[56].

Anche Bobbio considerava  connotato peculiare dell’ordinamento giuridico la coazione[57]  pur precisando per l’appunto che “la teoria del diritto come regola della forza, sin qui esaminata, è una teoria non già della norma giuridica isolatamente considerata, come la teoria tradizionale, ma dell’ordinamento giuridico nel suo complesso”[58].

Ciò conferma che, da un lato, la differentia spaecifica del diritto, rispetto alla morale, è la coercibilità; dall’altro che, proprio per ciò l’applicazione al diritto della legge di Hume – pensata e scritta per la morale –  necessita  di adattamenti di guisa da non poter essere di carattere esclusivo e portata generale. Una cosa è sanzionare con qualche anno di Purgatorio i peccati; altro è adempiere un contratto d’appalto per la costruzione di una villa su Marte (o chiedere al Giudice la relativa esecuzione dell’obbligo di fare – art. 2931 c.c.). Ogni precetto richiede (quanto meno) un giudizio sulla di esso coercibilità/applicabilità/efficacia. Per cui ogni precetto giuridico consta di un duplice giudizio sia al momento della statuizione che a quello dell’applicazione: è sia un atto di conoscenza che di volontà: la tesi di Suarez (e non solo) appare confermata[59].

Infatti giudicare che un’obbligazione sia possibile è una constatazione (un giudizio) di fatto; il giudizio che tutte le costituzioni disciplinano il rapporto di comando/obbedienza (cioè il potere) può essere storicamente (e sociologicamente) verificato e così anche i  corollari di questo. Ovvero che se c’è un potere di comando obbedito allora c’e una costituzione (Hegel e Santi Romano); se questo non c’è – viceversa – non vige la costituzione (nel senso di costituzione statale) – e neppure esiste lo Stato; e che una costituzione non è interpretabile nel senso che non costituisca e disciplini rapporti di comando-obbedienza: E il tutto è applicabile anche agli altri “presupposti del politico”: pubblico-privato, amico-nemico, tutti verificabili storicamente e sociologicamente.

Ulpiano sosteneva Ius nostrum constat aut ex scripto aut sine scripto (D I, 1, 6). Concezione condivisa  quindi (e per lo più) da (almeno) diciotto secoli. Ma che negli ultimi due  appare un po’ in affanno. Un ausilio a capire la ragione ce l’offre Max Weber, il quale nel delineare i presupposti del potere razionale-legale (cioè la rappresentazione del potere prevalente nelle concezioni moderne) ne indica (tra gli altri) i seguenti: “ Il potere legale riposa sulla validità dei seguenti presupposti, tra loro connessi:  che qualsiasi diritto possa essere statuito rispetto al valore o rispetto allo scopo (o a entrambi), mediante pattuizione o imposizione…che ogni diritto sia nella sua essenza un cosmo di regole astratte,  e di norma statuite di proposito, che la giurisdizione costituisca l’applicazione di queste regole al caso particolare…il tipico detentore del potere legale – il «superiore» – mentre dispone e insieme comanda, da parte sua obbedisca all’ordinamento impersonale in base al quale orienta le sue prescrizioni…che i membri del gruppo – in conformità al n. 3 – obbedendo al detentore del potere obbediscano non alla sua persona, ma a quegli ordinamenti impersonali[60]. L’identificazione della costituzione con un atto scritto e statuito appare quindi conseguenza della fede dei moderni nella legittimità del potere razionale-legale, d’altra parte enunciata nello (spesso ricordato) art. 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, dove, oltre ad essere enunciati i principi dello Stato borghese è formulata la concezione della costituzione come statuizione consapevole (e scritta) al punto di negare il carattere di costituzione agli ordinamenti privi di queste caratteristiche[61]. Com’è noto questo non era il concetto di costituzione di Weber secondo il quale “Per costituzione di un gruppo si deve intendere la possibilità effettiva di disposizione a  obbedire – possibilità diversa per misura, specie e presupposti – nei confronti della forza di imposizione dell’autorità di governo sussistente” e precisa “ Il concetto di «costituzione» qui impiegato è uguale a quello usato da Lassalle: Esso non coincide con il concetto di una costituzione «scritta», e in genere di costituzione  in senso giuridico. La questione sociologica è semplicemente la seguente: accertare quando, per quali oggetti ed entro quali limiti, ed eventualmente in base a quali presupposti particolari (per esempio in base all’approvazione di divinità o di sacerdoti, o al consenso di comizi elettorali) i membri del gruppo si piegano al capo”[62];concezione imperniata sul rapporto comando-obbedienza.

Il carattere necessario dei presupposti costituzionali condiziona l’interpretazione, dato che senza quelli non c’è né esistenza né capacità di azione politica. Chiedersi se la norma (costituzionale) o il valore (costituzionale) sono stati violati presuppone che ci sia unità politica e ordinamento giuridico senza i quali non si capisce come far rispettare le une e gli altri. Vale il giudizio di Hegel che lo Stato è la “realtà della libertà concreta”[63]; o come scriveva Croce “prima vivere e poi filosofare, prima essere e poi essere morale”[64]; e il giudizio del filosofo si adatta bene al rapporto tra esistenza dell’istituzione,  i principi e le norme che impone o i valori cui fa riferimento. Senza vita (e vitalità) di quella non c’è possibilità di applicare o di realizzare questi. Così  si può aggiungere che se le norme cambiano – spesso vorticosamente – pur lasciando sostanzialmente inalterata l’istituzione; e anche i principi e i valori mutano – anche se più lentamente – l’istituzione – Stato – è sempre la stessa, anche nel mutamento di norme, valori (e classi dirigenti), per cui, secondo i principi del diritto internazionale risponde degli obblighi contratti verso gli altri Stati, cui quei cambiamenti (di norme e/o valori) sono del tutto indifferenti.

Così l’Italia ha cambiato tre costituzioni (liberale, fascista e repubblicana) e  relative “tavole di valori” senza che fosse alterata la (continuità dell’) istituzione statale. Consegue da ciò che né norme né valori possono essere interpretati nel senso che mettano in pericolo l’esistenza (e la capacità d’azione) dell’istituzione.

Nel caso questo si verifichi è l’esigenza primaria (d’esistenza) che deve prevalere sulle altre. Il tutto non è “negoziabile” né “bilanciabile” e non per la ragione onde si ritengono tali (e sottratti anche alla revisione costituzionale) i principi fondamentali (o i valori altrettanto fondamentali) della Costituzione, ma perché – come sostenuto – il normativo presuppone l’esistente[65]. E mentre questo può cambiare quello, di converso il primo non può modificare il secondo.

  1. La conseguenza è che, al contrario di quanto spesso si pensa, ogni conseguenzialità (e coerenza) normativa non può prevalere sull’esistenza comunitaria. In caso contrario la massima di Jhering, già sopra ricordata, che il diritto è un mezzo finalizzato alla vita sarebbe capovolta nel senso che la vita (l’esistenza) è un mezzo del diritto. Come sopra cennato, una Corte costituzionale – o un altro organo pubblico – che interpretasse il sistema normativo nel senso di attentare all’esistenza concreta (alla salus rei publicae), anche se normativamente (e logicamente) fondata (nel senso “corrente”), sarebbe invalida. Anzi potrebbe costituire (in tutti gli ordinamenti vi sono norme volte a tutelare l’esistenza e l’unità politica) un illecito penale tra i più gravi (attentato alla costituzione, usurpazione e via emunerando).

La massima fiat justitia pereat mundus non vale per gli organi statali costituiti: non è nel loro potere distruggere l’istituzione e la comunità[66], da cui dipende il loro esser costituiti.

Se si ammette, come molti giuristi, e tra questi Santi Romano, che la necessità sia fonte di diritto, vale la regola necessitas non habet legem (e infatti imporre una legge alla necessità è un bisticcio logico e una contraddizione concreta); regola che è anch’essa la specificazione della prevalenza dell’esistente (e della conservazione dell’esistente) sul normativo[67].

Per cui se per necessità è consentita la deroga alla legge (o la normazione praeter legem) a ratione majus la necessità costituisce criterio di giudizio per valutare la costituzionalità (o meno) di presunte trasgressioni alla costituzione.

  1. Dato che il significato usuale dell’interpretazione (e dell’attività interpretativa) è l’attribuzione di significato a un testo, un segno, un simbolo[68], ove si tratti d’interpretare lo jus involuntarium, l’operazione (prima) che si richiede all’interprete è la ricostruzione (l’individuazione) del precetto applicabile.

È stato sopra cennato come questo sia familiare al giurista. È chiaro che la ricostruzione del precetto può avvenire (talvolta) applicando i principi della logica deduttiva (identità, non contraddizione, terzo escluso e quanto ne consegue) ma per lo più attraverso verifiche storiche e sociologiche (e combinandoli, se necessario, con i primi). Ad esempio la vexata (in Italia)  quaestio della legittimità costituzionale delle deroghe alla giurisdizione ordinaria (nel caso di processi a carico di personale politico apicale). Se si parte dal principio d’uguaglianza è chiaro che la deroga (di qualsiasi genere) possa essere facilmente ritenuta contrastante con quello[69]. Ma se si parte dalla natura dell’istituzione, dal carattere della forma di governo e li si verifica anche in concreto, la conclusione è opposta. Occorre tener presente quanto scriveva Santi Romano sullo jus involuntarium, la cui prima specie era costituita dai “principii generali o fondamentali che sono impliciti nella stessa esistenza dello Stato, nella sua struttura, e nei suoi atteggiamenti concreti, dai quali sono da esprimersi e desumersi. Se alla c.d. «natura delle cose» o «dei fatti» non si può riconoscere valore di vera e propria fonte formale del diritto, lo stesso non è da ritenersi per la natura delle istituzioni e, quindi, in primo luogo dello Stato, giacché queste sono da per sé diritto positivamente vigente”[70].

Per cui, operando una verifica comparativa, tutti i principali testi costituzionali vigenti stabiliscono deroghe alla giurisdizione ordinaria nel caso di “giustizia politica” (onde tutti sarebbero lesivi del principio d’uguaglianza, pur essendo stabilite nelle costituzioni moderne considerate democratiche – l’argomento criticato quindi prova troppo) per cui, oltretutto c’è una concordanza in quello che Hauriou chiamava droit commun constitutionnel; le stesse costituzioni italiane precedenti quella vigente stabilivano vistose deroghe (nel tempo e nello spazio la regola è quindi la deroga); ragione di ciò è che, se così non fosse, la scelta del personale di governo, immediatamente o mediatamente riconducibile al corpo elettorale, come naturale in democrazia, sarebbe “controllata” da un potere burocratico, non selezionato con procedimenti democratici (elezione o nomina di organi elettivi) e irresponsabile verso il corpo elettorale. Ma dato che la repubblica è democratica (e ciò sia per disposizione costituzionale espressa dall’art. 1 sia perché desumibile dall’intero testo della costituzione scritta) e che la scelta per la democrazia è un modo d’esistenza dell’istituzione, è questa a prevalere sulla competenza normale del giudice ordinario. Alla stessa conclusione si arriva partendo dalla distinzione dei poteri fatta propria dalla Costituzione (e dalla legislazione ordinaria), anche se non applicata (del tutto) coerentemente: se non fosse prevista una qualche deroga alla giurisdizione, la repubblica parlamentare diverrebbe uno Stato giurisdizionale (justizstaat) consentendo al potere giudiziario d’intromettersi (liberamente) nel funzionamento (e nella composizione) degli altri poteri costituzionali, e stravolgendo il principio di distinzione dei poteri.

Combinando le conclusioni (concordanti) di questi tre percorsi argomentativi si ha che l’applicazione “meccanica” del principio di isonomia (nel caso, della legge processuale) potrebbe ledere le capacità di azione politica, la forma democratica di Stato (e di governo) e il principio di distinzione dei poteri. Tutti principi fondamentali (due dei quali scritti), sicuramente non secondari a quello d’isonomia.

Occorre peraltro vedere se sia utilmente applicabile il criterio del bilanciamento cioè di determinare un ordine “gerarchico o preferenziale di valori o di principi” (v. Baldassarre op. cit.), e più in generale i parametri (non normativi) del giudizio di costituzionalità, come intesi da molti[71].

In effetti nel caso sopra considerato ad applicare letteralmente l’art. 3 della Costituzione, la deroga non sarebbe possibile; ma ricorrendo ai criteri di cui al passo citato di Baldassarre, e soccorrendo anche la massima di Celso scire leges non hoc est verba earum tenere sed vim ac potestatem (D I, 3, 17) – uno dei capisaldi dell’interpretazione sistematica – il risultato cambia completamente. Anche a tener conto delle considerazioni di Baldassarre che “se, per tale teoria, l’«interpretazione» è, in generale, una «mediazione creativa», nella quale il contributo degli interpreti concorre al «perfezionamento» o al «completamento» (Gadamer) del segno oggetto dell’interpretazione medesima, nel campo specifico del diritto, proprio in quanto «comprensione» eminentemente rivolta ai fini pratici, il fattore principale della mediazione ermeneutica è dato dagli «effetti veicolati dal segno» (Peirce), vale a dire dagli effetti pratici riferibili alla disposizione normativa nel relativo contesto sociale di attuazione. Sono, insomma, questi «effetti», vale a dire le conseguenze pratiche ipotizzate in relazione all’applicazione della disposizione normativa nell’ambiente sociale dato (attuale), che contribuiscono maggiormente a quella «attribuzione di significato» nella quale consiste il risultato finale (ancorché «anticipatorio» rispetto all’applicazione effettiva) di quel complesso processo chiamato «interpretazione»”.

In effetti nel caso della controversia sulla “giustizia politica”, l’inesistenza di deroghe, consentirebbe l’effetto pratico di cambiare la maggioranza parlamentare o la composizione del governo, cioè gravissime limitazioni e condizionamenti alla capacità di azione politica e/o al pouvoir déliberant del parlamento[72].

Cioè “effetti” contrari sia alla capacità d’azione dell’istituzione sia, alla specifica forma di governo scelta nella costituzione medesima.

  1. Più in generale occorre chiedersi come “graduare” o “bilanciare” (ovvero “determinare il valore relativo di due principi” costituzionali – Guastini). In questo caso il valore relativo tra ciò che è necessario, (assolutamente); ciò che lo è in relazione alle scelte costituzionali (relativo); e ciò che è accidentale. E insieme tra lo jus involontarium (non scritto) e il diritto statuito.

Quanto al rapporto tra ciò che è necessario (in senso assoluto) e l’ “accidentale”, sia che si tratti di norme che di principi o valori, il contrasto tra il primo e il secondo non può che risolversi con il riscontro dell’inesistenza/inapplicabilità del secondo. Almeno finché l’esistenza (e l’unità) politica  perdura è sul presupposto di questa – e del suo durare – che vige un diritto e può avere efficacia concreta. Per cui è l’esistenza di quella a costituire il presupposto necessario di questo; e una decisione contraria all’esistenza è, come sopra scritto, opposta all’essenza (ai presupposti essenziali e allo scopo) della costituzione. Del pari una decisione lesiva della capacità di azione (politica), perché, avendo gli Stati un’esistenza storica e politica, è loro essenziale la capacità d’azione.

Più sfumato è ove la necessità sia relativa (cioè consegua non dalle generali condizioni d’esistenza ed azione, ma da quelle particolari della forma di stato e di governo e dalle decisioni fondamentali della costituzione; cioè di qualcosa rimesso alla volontà – ed alla possibilità di scelta – del potere costituente) È chiaro che questi precetti possono essere esplicitati nella costituzione (ad es. per quella vigente, il principio democratico)  o impliciti (ad esempio la distinzione dei poteri).

Un aiuto a determinare ciò che è (relativamente) necessario lo può dare Lassalle. Questi nella (notissima) conferenza Über verfassungswesen, nel definire l’espressione legge fondamentale, diceva “ma una cosa che ha un fondamento non può più essere a piacere così o diversamente; ma deve essere così come essa è. Del fatto che essa è diversa non soffre il suo fondamento. Solo ciò che non ha fondamento e quindi anche ciò che è casuale può essere così come è e anche diversamente. Ma ciò che ha un fondamento, è necessario così come è. I pianeti hanno per esempio un certo movimento”[73].

Un altro ce lo offre il concetto di “rottura” della Costituzione. Com’è noto la prima formulazione della (necessità di istituti che comportino la )rottura della costituzione è di Machiavelli. Questi scrivendo della dittatura romana, sostiene “E però le repubbliche debbano intra loro ordini avere uno simile modo… Perché quando in una republica manca uno simile modo, è necessario, o servando gli ordini rovinare, o per non rovinare rompergli… Talché mai fia perfetta una republica se con le leggi sue non ha provvisto a tutto, e ad ogni accidente posto il rimedio e dato il modo a governarlo. E però chiudendo dico che quelle republiche le quali negli urgenti pericoli non hanno rifugio o al Dittatore o a simili autoritadi, sempre ne’ gravi accidenti rovineranno” (Discorsi, I, XXXIV). È chiaro, nel passo del Segretario fiorentino, che l’ “ottima” costituzione deve prevedere i modi per essere disapplicata o sospesai (parzialmente).

Onde potrebbe individuarsi il limite tra quello che è (relativamente) necessario a quello che è – per usare la terminologia hegeliana – accidentale in ciò che, in caso di previsione costituzionale della rottura, è immodificabile da quello che non lo è. Ad esempio nel caso dell’art. 16 della Costituzione francese vigente, il Presidente, pur utilizzando i poteri eccezionali, non può sciogliere il Parlamento; analogamente nell’art. 48 della Costituzione di Weimar il Presidente, pur potendo prendere le misure eccezionali, doveva riferire al Reichstag e revocarle a richiesta di questo. Schmitt a tale proposito sosteneva “La costituzione come un tutto resta non solo lo scopo di ogni provvedimento sulla base dell’art. 48: essa è anche determinante in quanto fondamento dei suoi presupposti… Essenzialmente ogni costituzione è l’organizzazione. Per questo l’unità dello Stato è creata come quella di un ordinamento”[74].

Da ciò consegue che, nelle rotture costituzionali, a non poter essere innovata, è la costituzione intesa come (decisione sulla) forma di Stato e di governo (e cioè sull’essenziale dell’organizzazione di governo); nei casi esaminati, come repubblica democratica semi-presidenziale, con i due organi (dotati) di rappresentanza politica (cioè Presidente della repubblica e Parlamento), che rimangono intangibili, mentre sono disapplicabili (momentaneamente l’esercizio dei) diritti, anche se garantiti dalla costituzione[75].

Tutto ciò può servire a chiarire se le decisioni riconducibili al (relativamente) necessario possano essere oggetto di valutazioni contemperabili con altre disposizioni della costituzione formale.

Ad avviso di chi scrive la risposta è negativa: non può “bilanciarsi” un principio che da forma allo Stato ed al governo – rientrando così nel “nocciolo duro” della costituzione – con prescrizioni, anche ricondotte dal testo costituzionale a quelle di principio, che comunque non sono costitutive della forma politica.

Nella costituzione vigente sicuramente di questa sono costitutivi il principio democratico (e quello – connesso – d’eguaglianza) quello di libertà nonché di tutela dei diritti dell’uomo – e le conseguenze immediate di quelli, come il diritto d’elettorato attivo e passivo, l’inviolabilità della libertà personale, di domicilio, di riunione (e, in genere, di tutti i diritti di cui agli artt. 13-27 della Costituzione vigente), mentre non sono “costitutivi” della forma politica il principio di tutela delle minoranze (art. 6) la tutela della cultura e del paesaggio (art. 9) la conformazione all’ordinamento internazionale (art. 10, I e II comma), il ripudio della guerra (art. 11).

Piuttosto un “bilanciamento” appare possibile all’interno della categoria dei precetti “costitutivi” della forma politica: ad esempio se una riduzione delle libertà di cui agli artt. 13-27 della Costituzione sia compatibile in occasione di gravi turbative all’ordine ed alla sicurezza pubblica, di guisa da mettere in dubbio il funzionamento delle istituzioni. In questo caso una compressione della libertà va commisurata all’ineliminabilità, specie in certi periodi (come quelli elettorali) – della fruizione delle stesse, ai fini di un corretto funzionamento dell’istituzione e della forma di governo in cui è organizzata[76].

Mentre tali esigenze di salvaguardare il “nocciolo duro” della Costituzione (cioè la costituzione e non le leggi costituzionali nel senso di Schmitt) non sussistono se i valori da bilanciare sono riconducibili a ciò che è “accidentale”; ossia non necessariamente (nei due sensi specificati) facente parte della Costituzione.

  1. Altro problema è quello del carattere prevalentemente teleologico dell’interpretazione. Qua s’intende per teleologico non tanto la considerazione privilegiata del “fine” della norma, quanto quello della funzione della costituzione, cioè di disciplinare l’esistenza e l’azione della comunità, anche con riguardo agli effetti concreti.

In questo senso è determinante il carattere di “comunità perfetta” che il pensiero teologico attribuisce a quella politica[77] e presente anche nel pensiero giuridico dello scorso secolo, in particolare in Santi Romano[78]; e in Rudolf  Smend[79].

La conseguenza che ne traeva Santi Romano era che “il diritto costituzionale è quella parte del diritto dello Stato, in cui meglio si rivela l’esattezza del concetto sopra fugacemente accennato sulla garanzia del diritto. L’opinione comune che ripone questa garanzia in una norma che dovrebbe farsi valere da una potestà sopraordinata ai soggetti vincolati ad essa o in altra norma, cui la prima servirebbe di sanzione,  nel campo del diritto costituzionale è manifestamente inammissibile. Se la costituzione è l’ordinamento supremo dello Stato, non ci può essere una norma ancora superiore che la protegga e quindi essa deve trovare nei suoi stessi elementi e atteggiamenti la propria garanzia[80].

Dato il carattere di comunità perfetta e il fatto di non essere obbligata (o facultata) a chiedere (e ad ottenere) la garanzia del proprio ordinamento ad un’altra istituzione (tanto meno ad una norma, a un principio, o a un valore), l’interpretazione della costituzione deve avere connotati particolari, così come la decisione delle controversie costituzionali.

In effetti, e tornando al criterio di conservazione dell’esistenza (cioè la salus rei publicae…) esso è del tutto peculiare (alla costituzione e) all’interpretazione costituzionale: un giudice ordinario che applica la norma in una lite tra privati non deve porsi il problema delle salus rei publicae. Lo stesso accade in ogni caso d’applicazione di precetti giuridici che poggino (e presuppongano) la saldezza e la vitalità dell’insieme (e non li ponga a rischi – il che è un’ipotesi rarissima, quasi di scuola – per le disposizioni non aventi carattere costituzionale).

Smend scriveva in proposito che “Il criterio che distingue la costituzione dal resto dell’ordinamento giuridico è sempre e di nuovo il carattere «politico» del suo oggetto”, e “qui il metodo formalistico rinuncia consapevolmente a fondare la teoria dello Stato nel senso delle scienze dello spirito, cioè ad assumere, come punto di partenza del lavoro giuridico, una teoria dell’essenza materiale specifica del suo oggetto”. Infatti così rinuncia a comprendere la costituzione non come “regolamentazione astratta di un infinito numero di casi”, mentre “qui si tratta di una legge individuale di un’unica e concreta realtà di vita”[81]. È chiaro che la funzione d’integrazione come essenza della costituzione costituisce “il principio del divenire dinamico dell’unità politica[82].

Pertanto il criterio interpretativo, in questa come nelle altre concezioni costituzionali improntate a considerare la  costituzione come “modo d’esistenza di un popolo” (de Bonald) è (segnatamente) sistematico ma soprattutto teleologico, mentre uno spazio assai minore rispetto all’interpretazione della norma legislativa è riservato all’interpretazione letterale.

E, come scrive Smend, si tratta di interpretare la costituzione, come la “legge vitale di un essere concreto”, cioè in funzione della vitalità dell’insieme; per cui il criterio teleologico non è incentrato sullo scopo che la singola norma si propone di raggiungere (la ratio legis) ma quelli che la costituzione, nel suo insieme, persegue (per così dire la ratio constitutionis).

Ne consegue che da un canto la garanzia della costituzione, come scriveva Hegel, viene dalle istituzioni stesse[83]. Il che è un modo di significare che, come per il diritto internazionale non ci sono Pretori tra gli Stati[84], anche per il diritto costituzionale la garanzia effettiva deriva più dal (complesso) assetto istituzionale che da un ricorso al “Pretore” costituzionale del tutto incongruo a proteggere effettivamente l’unità e la forma dello Stato[85]. Sul piano interpretativo ciò conferma il particolare carattere teleologico e “fattuale” dell’interpretazione costituzionale: quanto Baldassarre sostiene che occorre guardare anche agli effetti (alle conseguenze) dell’interpretazione (nel caso della Corte, delle sentenze); questo criterio che per un giudice non costituzionale, sarebbe del tutto residuale, perché, per lo più, vietato – di converso è  peculiare all’interpretazione della costituzione (molto meno per le leggi costituzionali, a seguire la distinzione di Schmitt).

Anche in questo è confermata la regola che l’esistente prevale sul normativo: la costituzione – che è il modo d’esistenza politica di un popolo – va interpretata nel senso che le relative decisioni conservino quel modo d’esistenza. Se un potere costituito lo mettesse in pericolo, ciò non rientrerebbe nei suoi poteri: sarebbe come segare il ramo (o la pianta) su cui è appollaiato (e da cui è sostenuto). Cioè costituirebbe un atto rivoluzionario o almeno un atto apocrifo di sovranità, essendo riservato al sovrano (o al potere costituente, laddove l’uno e l’altro coincidono – v. sopra).

  1. Le tesi sopra esposte confermano quanto sostenuto (da buona parte) della dottrina politica – e del diritto pubblico – classica, le cui conseguenze si riflettono sull’interpretazione costituzionale.

In particolare che non si ha a che fare (per lo più) con un diritto scritto e statuito (de Maistre e Santi Romano, tra gli altri)[86]; in buona parte ciò che è (realmente) costituzionale non è rimesso alla volontà umana; lo jus dicere, e più ancora il condere leges è un atto di volontà, ma anche di conoscenza (assertivo) (Suarez e Vico); c’è un diritto costituzionale necessario – nei due significati indicati – e uno volontario (Vico, Spinoza ed Hegel); la ratio, dati i presupposti di cui sopra, ricopre un ruolo superiore a quanto usuale in altri campi del diritto; la distinzione tra costituzione e leggi costituzionali (Schmitt) è feconda e spesso decisiva – anche ai fini esegetici; la costituzione è il modo d’esistenza di un popolo (de Bonald) e come tale va, in primo luogo, considerata; il diritto serve alla vita e non viceversa (Jhering, tra i molti); leggi, principi e valori cambiano più o meno velocemente, mentre comunità, istituzioni, Stati cambiano i primi, ma non mutano – o mutano poco e lentamente – il loro ordinamento (Hauriou e Santi Romano).

Tutti aspetti che non risultano particolarmente frequentati né (implicitamente) condivisi: ai quali si preferiscono altrettante riduzioni/semplificazioni: che il diritto sia statuito (e scritto), che la costituzione sia un determinato (e deliberato) documento, distinguibile dalla legge solo per la sua posizione nella stufenbau; che le “regolarità” dell’agire sociale siano modificabili ad libitum del legislatore (aspetto del “prometeismo” moderno, di cui il marxismo realizzato nel socialismo reale – e la sua fine ingloriosa – hanno mostrato l’inconsistenza); che la costituzione sia (solo) un atto connotato dalla rigidità.

E altro, il cui limite manifesto e ricorrente è di spiegare solo (parte) dell’oggetto, con l’accorgimento di delimitarlo in misura assai più stretta di quello che la realtà mostra; e con l’inconveniente di lasciarne fuori gran parte: non il troppo e il vano, ma l’essenziale e il decisivo.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

[41] Qu’est-ce-que le Tièrs Etat  ora in Opere Milano 1993 p. 256 ss e ribadisce : “Non solo la Nazione non è sottomessa a una Costituzione, ma non può neanche esserlo, il che è come ribadire una volta di più che non lo è… (le nazioni) vanno considerate come individui privi di ogni legame sociale, ovvero, come si suol dire, nello stato di natura. L’esercizio della loro volontà è libero ed indipendente da ogni forma civile…comunque una Nazione voglia, è sufficiente che essa voglia; tutte le forme sono buone, e la sua volontà è sempre legge suprema…” op. cit, pp. 257-258 (i corsivi sono nostri). La distinzione fra potere costituente/diritto naturale e poteri costituiti/diritto positivo è chiaramente formulata.

[42] v. Behemoth n. 45 p. 12

[43] L’espressione “natura delle cose” (e quelle similari) è stata intesa come essenzialmente giusnaturalistica. Bobbio ritiene che “si tratta di una nozione di derivazione prettamente giusnaturalistica. L’essenza del giusnaturalismo consiste infatti nella convinzione di poter ricavare le regole fondamentali della condotta umana dalla natura stessa dell’uomo: ora, è evidente la stretta parentela fra il concetto di natura dell’uomo e quello di natura delle cose; intendendo il termine “cose” in senso lato (come sinonimo di “enti”), il primo concetto può essere ricompreso nel secondo”. Il Positivismo giuridico, Torino s.d., p. 265.

È chiaro che nel presente scritto s’intende qualcosa di diverso, ovvero la necessità (assoluta) di un ordinamento per le comunità umane, o la necessità (relativa) cioè in relazione al fine, al modo d’essere, alla forma di Stato e di governo. Onde appartiene alla natura delle cose (per necessità assoluta) che vi sia una società politica con un potere di comando ed obbedienza (et simili); alla natura della democrazia (ad es.) che i governati eleggano i governanti (direttamente e/o indirettamente), che abbiano il diritto d’accesso alle cariche pubbliche (e così via). Mentre nel primo caso non può esistere qualcosa di diverso, nel secondo la necessità deriva dalla scelta, libera e consapevole (e realisticamente conseguente), di quelle che Schmitt chiama le “decisioni politiche fonamentali” (cioè l’essenza della Costituzione) v. Verfassungslehre, trad. it. di A. Caracciolo, Milano 1984, pp. 38 ss.. Per una concezione della “natura delle cose” prossima a come la poteva intendere Spinoza (v. nota 54). v. M.S. Giannini Introduzione al diritto costituzionale, Roma 1984, p. 72.

[44] v. per le “regolarità” del politico la presentazione di G. Miglio alla raccolta di saggi di Schmitt Categorie del politico, Bologna 1972 p. 13; quanto alle costanti, alle leggi dell’agire sociale, basti ricordare, tra i molti, Comte, per cui la società ha una realtà naturale ed originaria: gli uomini vivono in società perché questo fa parte della loro natura sociale; la società ha proprie leggi di funzionamento; la sociologia che la studia si divide in statica sociale, che costruisce la teoria dell’ordine; e in dinamica che sviluppa la dottrina del progresso. “La liberté véritable se trouve partout inhérente et subordonnée à l’ordre, tant humain qu’extérieur”; infatti “si la liberté humaine consistait à ne suivre aucune loi, elle serait encore plus immorale qu’absurde, comme rendant impossible un régime quelconque, individuel ou collectif” in Catéchisme positiviste(I parte, IV colloquio).

[45] Sul concetto di necessità assoluta e necessità relativa (conseguente alle scelte politiche fondamentali v. supra nota 42.

[46] v. articoli di Riccardo Guastini “Sostiene Baldassarre” e Antonio Baldassarre “Una risposta a Guastini” – reperibili in rete.

[47] La distinzione tra enunciati di principio e norme giuridiche, spesso all’attenzione della dottrina contemporanea, in rapporto alla tesi esposta non fa differenza, perché sia i principi che le norme sono ricavate dal diritto statuito.

[48] V. per un’esposizione delle tesi v. F. Suarez,  Tractatus de legibus ac Deo legislatore, trad. it a cura di O. De Bertolis, Padova 2008, pp. 81 ss.

[49] “Per gli argomenti che abbiamo addotti a favore di queste opinioni sembrano persuaderci che l’uno o l’altro atto, di intelletto e di volontà, sono necessari per la legge, e perciò può sostenersi la terza tesi, che dice che la legge si forma e si compone con un atto di entrambe le potenze; perché in queste cose morali non si richiede di ottenere un’unità perfetta e semplice ma accade che una realtà, che moralmente è una, può constare di molte realtà fisicamente distinte, e che si aiutano l’una con l’altra”  op. cit. pag. 96

[50] v. Guastini op. cit.

[51] v. “Non posso evitare di aggiungere a questi ragionamenti un’osservazione, che forse può avere una certa importanza: In ogni sistema morale che ho finora incontrato, ho sempre trovato che l’autore procede per un po’ nel consueto modo di ragionare, e afferma l’esistenza di Dio o si esprime riguardo alle questioni umane; e poi improvvisamente trovo una certa sorpresa che, invece delle abituali copule è e non è incontro soltanto proposizioni connesse con un deve, o non deve. Questo cambiamento è impercettibile; ma è comunque molto importante. Infatti, dato che questo deve, o non deve, esprime una certa nuova relazione o affermazione, è necessario che siano osservati e spiegati; e allo stesso tempo è necessario spiegare ciò che sembra del tutto inconcepibile, ossia che questa nuova relazione possa costituire una deduzione da altre relazioni completamente diverse” A treatise on human nature, trad. it. di P. Guglielmoni, Milano 2005, p. 329 (i corsivi sono nostri)

[52] V. General theory of law and state,  trad. it. Milano 1952 pp. 8 ss; v. anche Reine Rechtslehre, trad. it. Torino 1968. pp. 86 ss, ma è rivisitata in altre opere

[53] e prosegue “Si può distinguere sostanzialmente il diritto dalla morale soltanto se – come si è dimostrato in precedenza – si concepisce il diritto come ordinamento coercitivo, cioè come ordinamento normativo, che tenta di generare un certo comportamento umano, ricollegando al comportamento opposto un atto coercitivo dell’organizzazione sociale, mentre la morale è un ordinamento sociale che non prevede alcuna di tali sanzioni, un ordinamento, cioè, le cui sanzioni consistono soltanto nell’approvazione del comportamento conforme alla norma e nella disapprovazione del comportamento in contrasto con essa¸un ordinamento in cui non si prende quindi neppure in considerazione la possibilità di applicare la coazione fisica. V. Reine Rechtslehre, trad. it. cit. di Mario Losano p. 78. Anche nella  Reine rechtslehre Einleitung in die rechtswissenschaftliche Problematik trad, it. Torino 1952 p. 66 Kelsen scrive “Con la categoria formale del dovere o della norma si è riusciti però soltanto a determinare il genere prossimo, non già la differenza specifica del diritto. La teoria del diritto del secolo XIX è stata in genere concorde nel ritenere che la norma giuridica fosse una norma coattiva…In questo punto la dottrina pura del diritto continua la tradizione della teoria positivistica del diritto del secolo XIX. Essa sostiene che in una proposizione giuridica, a una determinata condizione è unito come conseguenza l’atto coattivo dello Stato, cioè la pena e l’esecuzione forzata civile e amministrativa…Ciò fa si che un determinato comportamento umano valga come illecito, come delitto nel più ampio senso della parola, non è affatto una qualità immanente e neppure un rapporto con una norma meta-giuridica, con un valore morale, cioè trascendente il diritto positivo, ma è solo ed esclusivamente il fatto che nella proposizione giuridica tale comportamento sia posto come condizione di una conseguenza specifica e che l’ordinamento giuridico positivo reagisca a questo comportamento come un atto coattivo”. (I corsivi dei passi citati sono nostri)

[54] V. sul punto, la tesi, già ricordata  (Trattato politico  Torino 1958 pp. 204-206) di Spinoza: “Se, per esempio, io dico che ho diritto di fare quel che voglio di questo tavolo, non intendo, perbacco, di poter far sì che esso mangi erba; così, pur dicendo che gli uomini non sono liberi di sé, ma soggetti allo Stato, non intendiamo che essi perdano la natura umana e ne assumano un’altra, o che lo Stato abbia diritto di far sì che gli uomini volino… esistono  certe condizioni, poste le quali si impone si impone ai sudditi il rispetto e l’ossequio verso lo Stato, e tolte le quali, non soltanto vengono meno il rispetto e l’ossequio, ma lo Stato stesso cessa di esistere: Per conservare la propria autorità, insomma, lo Stato deve badare che non gli vengano meno i motivi del rispetto e dell’ossequio, altrimenti perde il suo essere di Stato”

[55] Si nota la differenza tra la tesi qui sostenuta e quella di Bobbio dal seguente passo del filosofo torinese, sempre sulla “natura delle cose” in cui introduce (nella propria concezione del diritto) la “legge di Hume” “La natura delle cose è una nozione che nasce dunque dall’esigenza di garantire l’oggettività della regola giuridica. Il problema è appunto se esiste effettivamente questo rapporto fra la natura del fatto e la regola. A nostro avviso la nozione di natura delle cose è inficiata da quella che in filosofia morale è detta la fallacia naturalistica, cioè dall’illusoria convinzione di poter ricavare dalla constatazione di una certa realtà (il che è un giudizio di fatto) una regola di condotta (la quale implica un giudizio di valore): il sofisma della dottrina della natura delle cose, come del giunaturalismo, è il pretendere di ricavare un giudizio di valore da un giudizio di fatto”, op. ult. cit., p. 268. In effetti qua non si ricava una scelta (giudizio di valore) da un giudizio di fatto, in quanto l’atto (il fatto) non è giuridico perché non coercibile, non efficace, non applicabile. Semmai la scelta del legislatore è nel disciplinare gli effetti giuridici di un atto privo delle possibilità concrete di applicazione. In tal senso, ad esempio, il c.c. sanziona di nullità il tutto, prescrivendo alle parti (e al giudice) la restituzione delle prestazioni eseguite in “esecuzione” del contratto ad oggetto impossibile (art. 2033 c.c.) in applicazione del principio quod nullum est nullum producit effectum. In realtà il legislatore nel caso di prestazione impossibile non costituisce un precetto, ma riconosce ciò che risulta dal giudizio di fatto, statuendo solo sullo statuibile (la conseguenza dell’atto nullo).

[56] Per le norme d’ “applicazione” il discorso – che qui non interessa – è diverso.

[57] v. Studi per una teoria generale del diritto Torino 1970 pp. 143 ss.

[58] e prosegue “ Sia in Kelsen sia in Olivecrona e in Ross l’idea di coazione è strettamente connessa all’idea di forza (fisica): “il dire che l’ordinamento giuridico è un ordinamento coattivo (coercive order, Zwangsordnung) equivale a dire che contiene regole per l’esercizio della forza, anzi è caratterizzato da queste. Ciò presuppone che l’unico espediente cui ricorre un ordinamento giuridico per rendere efficaci le norme primarie sia il ricorso della forza”, precisando successivamente “Mi pare si possa proporre, per le nullità, questa interpretazione: quando si dice che l’ordinamento giuridico è un ordinamento coattivo, caratterizzato dall’esistenza di norme che regolano l’esercizio della forza, si vuol dire, come si è visto, che l’ordinamento giuridico stabilisce le condizioni (norme sostanziali) in base alle quali l’intervento della forza diventa lecito, e le modalità (norme procedurali) con cui questo intervento deve essere esercitato”… “ in altre parole, il giudizio di illiceità, presupposto di una pena (o un’esecuzione forzata, pone le condizioni per l’intervento di una forza vendicatrice (o riparatrice); il giudizio di invalidità presupposto della nullità, pone le condizioni per il non intervento di una forza protettrice” – p. 134-137 (i corsivi sono nostri). Bobbio non prende in considerazione le sanzioni  premiali   anch’esse “coercibili”, che tratta Carnelutti.

[59] È da considerare la tesi di G. B. Vico sul rapporto tra verità e certezza “Verum gignit mentis cum rerum ordine conformatio; certum gignit conscientia dubitandi secura. Ea autem conformatio cum ipso ordine rerum est et dictur «ratio». Quare, si alternus est ordo rerum, ratio est aeterna, ex qua verum aeternum est: sin ordo rerum non semper, non ubique, non omnibus constet, tunc in rebus cognitionis ratio probabilis, in rebus actionis ratio verisimilis erit” De uno universi juris principio et fine uno (proloquium); e nel cap. LXXXII “Ratio autem legis eidem dat esse verum- Verum autem est proprium ac perpetuum adiunctum iuris necessarii.

Certum est pars veri.

Certum vero est proprium et perpetuum iuris voluntarii attributum, sub aliqua tamen veri parte, ut Ulpianus nuper ius civile definivit”.

[60] Wirtschaft und Gesellschaft trad. it. vol. I. Milano 1980 pp. 212-213 (i corsivi sono nostri).

[61] In realtà si è scambiata quella che è un’aspirazione, per quanto condivisibile e diffusa, con la realtà (e la necessità) dell’esistenza politica e sociale. Per cui se è possibile (ed auspicabile) regolare molti istituti e materie, è impossibile (e dannoso) credere di poter regolare tutto. Cioè arrivando ad una giuridificazione di (tutta) la vita.

[62] Op. cit. p. 48-49

[63] Lineamenti di filosofia del diritto  § 260

[64] v. B. Croce Etica e politica Bari 1931 p.185.

[65] Ovvero come sostiene Santi Romano criticando l’opinione fondata sull’art. 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 20-26 agosto 1789 “l’errore dell’opinione di cui si è fatto cenno è evidente: Ogni Stato è per definizione, come si vedrà meglio in seguito è coevo all’esistente (politicamente),  un ordinamento giuridico, e non si può immaginare, quindi, in nessuna sua forma fuori del diritto: Qualunque sia il suo governo e qualunque sia il giudizio che se ne potrà dare dal punto di vista politico, esso non può non avere una costituzione e questa non può non essere giuridica, perché costituzione significa niente altro che ordinamento costituzionale. Uno Stato «non costituito» in un modo o in un altro, bene o male, non può avere neppure un principio di esistenza, come non esiste un individuo senza almeno le parti principali del corpo. Il diritto costituzionale del c.d. Stato assoluto o dispotico sarà poco sviluppato; si concreterà in una sola istituzione fondamentale, quella del suo sovrano; sarà regolato da poche norme che, esagerandone e stilizzandone la figura tipica, si potranno ridurre magari soltanto a quella che dichiarerà l’appartenenza del sovrano di tutti i poteri; ma almeno questa norma non potrà mancare e non essere giuridica, se su di essa si impernia per intero quell’ordinamento giuridico quale è sempre, per sua  indeclinabile natura, lo Stato”. Diritto Costituzionale generale Milano 1947, p. 3

[66] Il giovane Hegel esercitava la sua (amara) ironia su come il rispetto per il diritto contribuisse ad indebolire l’Impero nel momento in cui aumentava l’aggressività della Francia rivoluzionaria “è un elemento, se pur non razionale, almeno in certa misura nobile del carattere tedesco il fatto che il diritto in generale, comunque siano costituiti il suo fondamento o le sue conseguenze, è per esso qualcosa di sacro. Se pur la Germania in quanto Stato proprio e indipendente, di cui ha tutta l’apparenza, e la nazione tedesca in quanto popolo, va del tutto in rovina, tuttavia procura sempre una vista piacevole il notare tra gli spiriti distruttori il rispetto per il diritto” v. Verfassung Deutschlands, trad. it. Bari 1960, p. 21.

[67] V. l’opinione di Santi Romano “Come la consuetudine, anzi a maggior ragione, data la sua maggiore energia, la necessità è fonte autonoma del diritto, superiore alla legge. Essa può implicare la materiale e assoluta impossibilità di applicare, in certe condizioni, le leggi vigenti e, in questo senso, può dirsi che «necessitas non habet legem». Può anche implicare l’imprescindibile esigenza di agire secondo nuove norme da essa determinate e, in questo senso, come dice un altro comune aforisma, la necessità fa legge. In ogni caso «salus rei publicae suprema lex»” in Diritto costituzionale generale, Milano 1947, p. 92.

[68] Ricordiamo la concezione di Bobbio “interpretare significa risalire dal segno (signum) alla cosa significata (designatum), cioè comprendere il significato del segno individuando la cosa da esso indicata. Ora, il linguaggio umano (parlato o scritto) è un complesso di segni” op. ult. cit., p. 325.

[69] In effetti, a seguire la teoria di Rousseau sulla volontà generale, essa è tale perché lo è nell’oggetto e nell’essenza, perché “deve partire da tutti per applicarsi a tutti” (Du conrtact social, II, 4). Nella concezione dell’eguaglianza come (mera) isonomia passiva, c’è una visione estremamente riduttiva del principio d’uguaglianza, visto solo quale assoggettamento alla legge (e al comando), tralasciando la partecipazione alla funzione di “governo” (in senso lato).

[70] V. op. ult. cit., p. 92. Bobbio sostiene (v. prima) che “in realtà non è il fatto in sé che impone la regola, ma il fine che si vuole raggiungere: è il fine che fa valutare in un certo modo i fatti; nel nostro caso il fine è di garantire la sicurezza del traffico e la possibilità per tutti gli automobilisti di poter parcheggiare. Ma nell’individuazione del fine interviene necessariamente un giudizio (o una serie di giudizi) di valoreop. ult. cit., p. 269. A parte le pendenti considerazioni, qua non si nega che vi sia un giudizio di valore, ma che non vi sia quello di fatto (assertivo). Sul punto ritorniamo in seguito.

[71] Sul punto v. Baldassarre op. cit.: “Nell’ipotesi del giudizio di costituzionalità, invece, colui che interpreta/applica le norme (costituzionali) procede in modo diametralmente inverso. Innanzitutto, tutte le norme costituzionali, incluse quelle che appaiono come le più particolari (ad es. la necessità di convertire i decreti-legge entro 60 giorni dalla loro emanazione), vanno comprese nel significato loro attribuibile in modo da riferirle ai principi supremi e ai valori ultimi della costituzione (come sentiti e vissuti dalla comunità politica). Così, per riprendere l’esempio fatto, il termine di conversione dei decreti-legge entro 60 giorni è stato inteso restrittivamente, cioè nel senso di precludere la possibilità di reiterazione del medesimo decreto, solo a partire da una sentenza del 1996, in quanto solo se così interpretato il principio della conversione è stato ritenuto più coerente con il principio della democrazia parlamentare, come allora, e non prima, sentito e condiviso.  In secondo luogo,  dai principi costituzionali non vengono «dedotte» le «regole» per decidere il giudizio, per il semplice motivo che la questione di costituzionalità viene decisa, non in base a una (presunta) «regola», ma in base a «principi»: in genere, il giudice della costituzionalità procede a una «riduzione» della «regola» legislativa (= generale e astratta) oggetto del giudizio ai principi o ai valori ad essa sottesi, al fine di valutare la compatibilità/incompatibilità di questi ultimi con il quadro dei principi e dei valori costituzionali ritenuti rilevanti rispetto alla «regola» contestata”.

[72] E anche altro. È per lo più dimenticato che la legge sui pieni poteri al governo del Reich del 23 marzo 1933 –legge di modifica (abolizione) della costituzione di Weimar, e quindi necessitante della maggioranza qualificata – raggiunse il quorum grazie all’opportuno scioglimento del PC tedesco e l’arresto di una dozzina di deputati dell’opposizione.

[73] E proseguiva “Questo movimento o ha un fondamento, che lo determina, o non ne ha. Se non ne avesse, questo movimento, sarebbe casuale e ad ogni momento potrebbe anche essere diverso. Ma se ha un fondamento, come dicono gli scienziati, cioè la forza d’attrazione del sole, con ciò è già determinato il fatto che questo movimento dei pianeti è determinato e regolato attraverso il fondamento, la forza d’attrazione del sole, in modo tale da non potere essere altro rispetto a ciò che è. Nella rappresentazione del fondamento vi è quindi l’idea di una necessità attiva, di una forza effettiva, che con necessità rende ciò che è fondato su di essa ciò che esso è. Se quindi la costituzione rappresenta la legge fondamentale di un paese, o essa è così – e qui albeggia forse per noi la prima luce, miei Signori, – un qualcosa puramente ancora da determinare in modo più preciso ovvero, come abbiamo intanto scoperto, una forza attiva che rende obbligatoriamente  tutte le altre leggi e istituzioni giuridiche che vengono varate in questo paese ciò che sono” v. trad. it. di Clemente Forte in Behemoth n. 20, p. 6 (i corsivi sono nostri).

[74] Die Diktatur (App. I) trad. it. di A. Caracciolo, Roma 2006, p. 283 (i corsivi sono nostri).

[75] E’ da notare che nell’evoluzione dell’istituto francese dell’état de siège, alle misure straordinarie non è connessa alcuna alterazione (dei rapporti) tra organi costituzionali. v. M Hauriou Prècis de droit costitutionnel.  Paris 1929 p. 705 ss

[76] In questo senso quelle libertà – normalmente inquadrate, come da rubrica, tra i rapporti civili (diritti dell’uomo, libertà liberali) – sono anche condizioni per l’esercizio dei diritti (politici) del cittadino di partecipare alla formazione della volontà pubblica, e così della forma democratica di governo. Tra i (non pochi) esempi delle conseguenze di una mancata garanzia dell’esercizio di questi, ricordiamo il decreto per la protezione del popolo e dello Stato (del 28/02/1933) proposto da Hitler e sottoscritto da Hindenburg, pochi giorni prima delle elezioni del 05/03/1933 (e i risultati di queste), v. William Shirer, Storia del Terzo Reich, vol. I, Torino 1990, p. 303 ss. A tale proposito Hauriou, citando Thiers, ritiene che questi aveva ragione a sostenere che la libertà di stampa, riunione, d’associazione (e d’insegnamento) nella società moderna erano delle libertà necessarie: in questo caso il necessario era inteso sia rispetto al principio (politico) democratico sia a quello liberale di protezione delle libertà (della società civile rispetto allo Stato)  Prècis de droit constitutionnel. Paris 1929 p. 711

[77] v. Suarez op. cit., p. 118 ss.. Suarez distingue – sulla base del pensiero di Aristotele e S. Tommaso – tra comunità sufficienti a se stesse (perfette) e non sufficienti a se stesse: “È detta perfetta nel suo genere quella che è capace di governo politico, che, in quanto è tale, è detta sufficiente in questo ordine; come disse Aristotele e S. Tommaso, che la città è una comunità perfetta… Ma è detta «comunità imperfetta» non in relazione ad altre, ma in senso assoluto, la casa privata, alla quale presiede il padre di famiglia, come ha notato S. Tommaso, e Soto, e sopra è preso da Aristotele.

Il motivo è che quella comunità non è sufficiente a se stessa, come ora sarà spiegato… E così tale comunità, parlando di per sé e in termini propri, non è retta da una propria potestà di giurisdizione, ma da [una potestà che si può chiamare] dominativa… Per cui [la casa privata] non possiede perfetta unità o un potere uniforme, e nemmeno partecipa propriamente di un governo [che possa essere detto] propriamente politico, e così quella comunità è detta assolutamente imperfetta” (i corsivi sono nostri).

[78] “Si possono distinguere le istituzioni perfette, che sono sempre originarie e che possono essere o semplici o complesse, dalle imperfette, che cioè si appoggiano ad altre istituzioni rispetto alle quali sono, non soltanto presupposte, ma coordinate o subordinate”, L’ordinamento giuridico, rist. Firenze 1962, p. 143; v. anche p. 38 “Ci sono istituzioni che s’affermano perfette, che bastano, almeno fondamentalmente, a se medesime, che hanno pienezza di mezzi per conseguire scopi che sono loro esclusivi. Ce ne sono altre imperfette o meno perfette, che si appoggiano a istituzioni diverse”.

[79] V. “Qui non è possibile discutere a fondo il criterio che distingue lo Stato dalle altre associazioni. Dalla particolare posizione dello Stato derivano comunque due elementi. In primo luogo, la sua stabilità non viene garantita, come per le altre associazioni, da un potere situato all’esterno; il suo funzionamento non viene mantenuto da un motore o da un giudice esterni alla sua struttura, non viene sorretto da una causa o da una garanzia eteronome, ma si integra, grazie alla legislatività oggettiva rispetto al valore, esclusivamente in un sistema di integrazione gravitante su se stessoVerfassung und verfassungsrecht trad. it., Milano 1988, p. 156; nella voce Integration, scritta da Smend per Evangelisches Staatlexikon e riportato nel volume citato, chiarisce: “Ciò è inesatto poiché, per quanto anche le altre formazioni sociali, dal matrimonio o dalle associazioni private sino alle più complesse comunità politiche e apolitiche, necessitino di una continua e sempre nuova inclusione degli uomini che le sorreggono, dispongono tuttavia di garanzia di stabilità del tutto differenti da quelle statali. Quelle comunità e associazioni vengono garantite dalla dissoluzione interna perlopiù mediante poteri esterni: il giudice, la coercizione amministrativa, sino agli strumenti della coercizione sociale e a quelli della politica estera e del diritto internazionale. Per lo Stato, in quanto si pone semplicemente come compito, non vi sono affatto tali garanzie esterne: esso riposa in ultima istanza non sul diritto o sul suo potere di fatto, ma sulla sempre nuova e volontaria adesione dei suoi appartenenti”, op. cit., p. 286 (i corsivi sono nostri)..

Nella diversità delle concezioni, ambedue i giuristi citati concordano nel fatto che diversamente da altre (associazioni e) comunità umane lo Stato (e quindi la costituzione statale) devono trovare all’interno dell’ordinamento gli strumenti di garanzia dello stesso. Questo perché, come scriveva de Bonald, riguardo alla costituzione della monarchia francese “la nazione era costituita, e così ben costituita, che essa non ha mai chiesto a nessuna nazione vicina la protezione della sua costituzione”. Il che è un’applicazione della regola (hobbesiana) del protego ergo obligo; e in termini giuridici (e politici), significa la perdita (o la restrizione) dell’indipendenza dello Stato.

[80] Principii di diritto costituzionale generale, cit., p. 57 (i corsivi sono nostri).

[81] E prosegue “A tale metodo sfugge il fatto che si tratta della legge vitale di un essere concreto e precisamente, dal momento che tale essere concreto non è una statua ma un processo di vita unitario che riproduce di continuo questa realtà,  della legge della sua integrazione… ogni singolo aspetto del diritto dello Stato è comprensibile non in se stesso e isolatamente, ma come momento della connessione di senso da realizzare, cioè della totalità funzionale dell’integrazioneop. cit., pp. 216-217. Così “non si può comprendere la giustizia costituzionale in analogia con la giustizia civile o amministrativa. La tutela delle minoranze parlamentari da parte del giudice costituzionale è una cosa diversa dalla tutela di un gruppo di azionisti, con i loro interessi individuali, da parte di un giudice civile, in quanto deve servire alla ricomposizione integrativa delle parti”, op. cit., p. 218 (i corsivi sono nostri).

[82] Così C. Schmitt op. ult. cit., p. 18.

[83] Op. cit., § 286.E anche, a seguire Hauriou – per le costituzioni liberali, dal complesso e dall’assetto generale, che fa sì che  la “libertà si protegga da sola” v. Précis. cit. pag. 709.

[84] Hegel, op. cit., § 333; e anche, per conflitti acuti, all’interno dello Stato, come sosteneva Locke, che quindi non restava altro che l’appello al cielo, cioè la rivoluzione.

[85] È chiaro che nel caso di grave crisi politica la “garanzia della costituzione” dipende ancor più da circostanze meramente “fattuali”, come il consenso dei governati e la determinazione dei governanti. Ossia sulla legittimità, l’autorità, la virtù – intesa nel senso classico di Machiavelli. Anche l’assetto istituzionale (i poteri costituiti), in tali casi, diviene quasi evanescente.

[86] A tale proposito è opportuno ricordare l’introduzione di Roberto de Mattei al “Saggio sul principio generatore delle costituzioni politiche e delle altre istituzioni umane” da tale opera di de Maistre è “un saggio polemico rivolto contro una determinata categoria di avversari, i fabbricatori di costituzioni a tavolino, gli autori di artificiose costruzioni intellettuali, gli ideologi rivoluzionari che, disprezzando la lezione della storia e dell’esperienza, avevano preteso elaborare un modello puramente astratto delle strutture sociali e politiche” (op. cit., p. 12).

NEMICO, OSTILITA’ E GUERRA, di Teodoro Klitsche de la Grange

NEMICO, OSTILITA’ E GUERRA

  1. La crisi finanziaria che da qualche mese ha colpito l’ “eurozona” pone – di nuovo – il problema di comprendere se si tratti – come in parte è – di un fatto puramente economico – finanziario (dovuto in larga parte – secondo molti – a difetti di costruzione dell’euro, a cominciare dall’essere una moneta senza Stato) ovvero, in buona misura, politico.

Se si giudica dagli effetti finora prodotti, il carattere politico è innegabile: basti ricordare che, in meno di otto mesi, sono stati sostituiti i governi (d’investitura popolare) di due paesi dell’euro-zona (Italia e Grecia) con governi tecnici; mentre in un terzo (Spagna) il governo è stato battuto (e rimpiazzato) dall’opposizione. Fatto comunque in buona parte causato dalla crisi finanziaria. Non è sufficiente comunque giudicare la natura politica di una causa (situazione, fatto) dagli effetti che comporta: anche una malattia può portare – e la Storia ce lo dimostra – conseguenze politiche di grande rilievo[1]. Ciò non toglie che la malattia non sia una causa politica.

Ma del pari, che la causa sia normalmente qualificata come economica non implica che i soggetti che la producono e gli scopi che perseguono non possano essere politici. Un esempio (tra tanti) è la decisione degli Alleati nel 1941 di imporre l’embargo al Giappone sulle esportazioni di petrolio e materiali ferrosi (e altro). Ciò risultava più efficace dell’intero esercito cinese: infatti costrinse il Giappone ad attaccare le potenze anglosassoni prima della fine dell’anno. Se i generali nipponici avessero indugiato qualche altro mese, i giapponesi avrebbero subito una devastante crisi economica che li avrebbe costretti probabilmente a ritirarsi dalla Cina subito dopo. Il che significa che, anche se in quella situazione non si era fatto uso di violenza, non si può ridurre il tutto alla mera constatazione (economica) che il Giappone mancava di ferro e petrolio e che gli Alleati  – che ne abbondavano – avessero il diritto di non rifornirlo (giuridicamente ovvio). A qualificare quella misura come politica erano i soggetti (le potenze anglosassoni e i loro  satelliti) e lo scopo (ottenere la ritirata del Giappone dalla Cina occupata).

Ciò non toglie che, almeno in Italia, ma per quanto ne so, anche in Europa, quasi nessuno abbia dato attenzione al possibile carattere e scopo politico della crisi, e tanto meno all’esistenza di soggetti interessati a provocarla per raggiungere fini di carattere politico.

Il che, per certi aspetti non sorprende: rientra nella tendenza al rifiuto della politica (non solo dell’attività, ma della politica come costante dell’esistenza umana) che ha connotato (in parte prima piccola, ma crescente) la modernità, in particolare dal XVIII secolo e che negli ultimi decenni è diventata di gran lunga prevalente in Europa (e nell’Occidente).

Vent’anni fa era di moda la tesi – espressa da Fukuyama – che la conclusione della guerra fredda fosse la fine della storia: che il pianeta avesse solo una Superpotenza (gli U.S.A.); che non ci fosse nessun nemico, perchè quello esistente (il comunismo) era collassato e niente faceva presagire che il sistema comunista sarebbe risuscitato (valutazione – quest’ultima –  da confermare anche oggi).

Tutte tali tesi (e le altre similari) si fondavano su una convinzione: che il nemico non ci fosse più e neppure un conflitto (politico) estremo, per cui ogni tipo di lotta (residuata dopo la “fine della storia”) fosse gestibile con mezzi giuridici ed economici: governance, tecnocrazia, amministrazione delle cose al posto del governo degli uomini.

L’occidente, così rallegrato, si inoltrava, senza accorgersene, non tanto verso la fine della storia, quanto, probabilmente (e sicuramente l’Europa) nella propria decadenza costituita – sul piano interno – da una variante (peggiore) di quel “dispotismo mite”, profetizzato da Tocqueville nella parte IV della Democratie en Amérique.

Qualche anno fa “Catholica” organizzava un incontro a Parigi: il libro che ne raccoglie le relazioni ha il titolo – quanto mai significativo – de “La culture du refus de l’ennemi”. Difficilmente un titolo ha reso così efficacemente il senso del convegno[2], né poteva essere altrettanto preciso: perché un certo tipo di cultura non si limita a negare la (possibilità) di guerra (anche nel senso limitato che la si possa sempre evitare); ma si spinge assai più lontano, asserendo di possedere il rimedio che evita l’inimicizia e i conflitti.

  1. Tipico esempio ne è Marx (e i marxisti) che, nella fase compiuta del comunismo (la società senza classi), immagina una società umana senza Stato/i (senza politica), armonica e quindi non necessitante né di un apparato di difesa e di repressione: priva di tutti i presupposti del politico, come individuati da Freund, ovvero delle regolarità costanti della politica (Miglio). Quindi senza lotta per il potere (Tucidide), senza autonomia del politico (Machiavelli), senza sovranità (Bodin), senza classe politica (Mosca e Pareto), senza nemico (Hobbes e C. Schmitt), senza conflitti.

Qualcosa di assai simile all’età dell’oro degli antichi, alla terza età di certe riflessioni teologico-storiche cristiane (per lo più eretiche) o al “Paese dei balocchi” descritto in Pinocchio[3].

Ma, a parte l’illusione (prevedibile) teorie siffatte – o similari – sono connotate da un errore e confusione “fattuale” e concettuale: quella tra guerra, nemico, conflitto. Nel senso che evitare la guerra non significa far cessare l’inimicizia (né l’intenzione ostile e neanche il conflitto); affermare non c’è guerra, quindi non c’è nemico (né conflitto) significa confondere soggetti (nemico), presupposti (conflitto), fini (obiettivo politico) e mezzi (tra i quali c’è la guerra). La guerra è (un’attività) e uno status; come la pace essa è un mezzo della politica. La politica non implica (in ogni situazione) necessariamente e ineluttabilmente la guerra; ma non è pensabile senza nemico. Così il conflitto: questo presuppone solo la pluralità di soggetti – e correlative pretese – a uno stesso oggetto (bene). Dato che molti beni sono limitati, ne consegue che il conflitto esiste indipendentemente dai mezzi usati per risolverlo: la concorrenza o la guerra (o altro, come l’accordo)[4]. Mentre conflitto e nemico sono (relativamente o totalmente) indipendenti dalla volontà (perché esistono) la guerra richiede comunque la volontà di aggredire e di difendersi (e quindi due volontà irriducibilmente ostili)[5].

La guerra, in definitiva presuppone il nemico e il conflitto: ma non ne è la conseguenza necessaria. Ne deriva che l’assenza di guerra non significa che non esistono conflitti e nemici: ma solo che questi non hanno deciso di risolvere i conflitti e raggiungere i loro obiettivi politici col mezzo della guerra.

  1. La speranza della fine del nemico (in una con quella della Storia) fu contraddetta subito dopo il crollo del comunismo, dai conflitti che tale collasso generò (Balcani, Cecenia). Passato qualche anno provvide Bin Laden a confermarne l’illusorietà con l’attacco dell’11 settembre 2001. Tra la conclusione del comunismo e l’emergere del terrorismo di Al Quaeda, era pubblicato uno studio dei colonnelli cinesi Qiao Liang e Wang Xiangsui destinato a dare un grosso dispiacere alle speranze e alle illusioni del pacifismo “senza se e senza ma”. Sostenevano i colonnelli che “la nuova situazione creatasi dopo il 1989-1991 facesse sì che “da questo momento in poi la guerra non sarà più ciò che è stata tradizionalmente. Il che significa che, se in futuro l’umanità non avrà altra scelta che entrare in conflitto, non potrà più condurlo nei modi consueti… Quando la gente comincia ad entusiasmarsi e a gioire propendendo per la riduzione di forze militari come mezzo per la risoluzione dei conflitti, la guerra è destinata a rinascere in altre forme e su di un altro scenario… In tal senso esistono fondate ragioni per sostenere che l’attacco finanziario di George Soros all’Asia Orientale, l’attacco terroristico di Osama Bin Laden all’ambasciata militare in Sudan… rappresentano una ‘semi-guerra’, una ‘quasi –guerra’ e una ‘sotto-guerra’, vale a dire la forma embrionale di un altro genere di guerra[6]. Il tutto significava assimilare alla guerra delle situazioni in cui l’ostilità non è riconducibile al concetto classico di questa (atto di forza).

L’acuto giudizio dei colonnelli in effetti non fa che confermare sia il famoso discorso sul potere di Tucidide (l’ambasciata degli ateniesi agli abitanti di Melo) sia, ancor più, il giudizio di Karl von Clausewitz e Giovanni Gentile[7] che la guerra è un atto di forza (comunque un mezzo) per costringere un’altra (potenza) a fare la nostra (di potenza) volontà: se a raggiungere questo fine tuttavia non è necessario mobilitare gli eserciti, ma bastano le scalate in borsa o gli attentati terroristici, ciò non toglie né che questi modifichino i rapporti di forza né che costringano l’aggredito a doversi adeguare alla volontà del nemico, se si arrende; se intende difendersi, al modo di combattere dell’aggressore.

In sostanza i due colonnelli, innovando alla (prima) definizione della guerra data da Clausewitz avevano acutamente posto il problema, prevedendo come l’inimicizia poteva ricorrere a forme inconsuete (ma non del tutto) una volta ritenuto inutile, inopportuno o antieconomico il ricorso alle armi.

Questa concezione dei colonnelli era tributaria dell’antico pensiero strategico cinese (Sun Zu) e indiano (Kautilya).

Scriveva Sun Zu: “Ottenere cento vittorie su cento battaglie non è il massimo dell’abilità: vincere il nemico senza bisogno di combattere, quello è il trionfo massimo[8]: per cui la vittoria è realizzare l’obiettivo politico: i mezzi sono secondari. Se lo si raggiunge senza far uso della forza, risparmiando sangue (e denaro) è meglio.

Nell’Arthasastra, Kautilya distingue vari tipi di guerra: quella aperta; quella dissimulata che consiste nell’infondere paura, nel colpire in modo imprevedibile; silenziosa con pratiche clandestine e complotti suscitati da spie[9].

D’altra parte è ripetuto da Kautilya che la scelta tra pace e guerra è funzionale all’interesse di potenza degli Stati, onde se mantenendo la pace si rovina (o decresce) la potenza – anche economica – del nemico, è meglio non fare guerra; l’inverso se la potenza si accresce[10]. Così anche se la guerra non è in atto, l’ostilità è sempre presente.

Pur nella diversità (inevitabile, anche se parziale) Sun Zu e Kautilya danno due insegnamenti, poi ripetuti in forma diversa e sotto vari profili, e tuttora validi: che il nemico (e il conflitto) non si manifestano sempre nella guerra (l’insopprimibilità dell’ostilità e della competizione di e per il potere), onde la guerra (mezzo) è subordinata alla politica (scopo); e che i tipi di “guerra” possono essere diversi, e non sempre richiedere l’impiego della violenza[11].

Per cui appare logico – e in linea con l’antico pensiero strategico orientale – quanto sostenuto da Quiao Liang e Wang Xiangsi che “se si riconosce  che i nuovi principi della guerra non sono più quelli di «usare la forza delle armi per costringere il nemico a sottomettersi ai propri voleri», quanto piuttosto quelli di «usare tutti i mezzi, inclusa la forza delle armi e sistemi di offesa militari e non-militari e letali – non letali per costringere il nemico ad accettare i propri interessi», tutto ciò costituisce un cambiamento: un cambiamento nella guerra e un cambiamento nelle modalità della guerra da ciò provocato”. Il che comporta un concetto più ampio di guerra che “non può che ridurre l’attaccamento dei soldati alla categoria di «operazioni militari diverse dalla guerra» nella quale, in ultima istanza, essi non saranno in grado di inserire il nuovissimo concetto di «operazioni di guerra non militari»”, in particolare il concetto di “«operazioni di guerra non militari», amplia la nostra percezione di ciò che esattamente costituisce uno stato di guerra a tutti i campi dell’attività umana, ben oltre, dunque, i contenuti racchiusi nell’espressione «operazioni militari». Questo ampliamento è il risultato naturale del fatto che gli esseri umani useranno qualsiasi mezzo per conseguire i loro obiettivi”.

  1. Indubbiamente a far maturare il nuovo/vecchio concetto di guerra, è da un lato la novità della tecnologia, dall’altro il progredire delle ideologie pacifiste.

Quanto alla prima ragione, non si può che rimandare a quanto scrivono i due colonnelli. Ma occorre aggiungere alle precedenti una terza ragione: il  tramonto dello jus publicum europeaum e dello stesso razionalismo occidentale, fondati in larga misura sul realismo e la teologia politica cristiana.

Per l’irenismo, tanto accresciuto dalle straordinarie distruzioni delle guerre del “secolo breve”, si è passati dal rifiuto della guerra – di per se una scelta, per lo più opportuna, la quale va valutata sotto tale profilo – alla negazione “a prescindere” della guerra e ancor più del nemico, in se totalmente irreale. Illusione che si può giudicare con le parole di Tucidide (rivolte dagli ambasciatori ateniesi agli abitanti di Melo) “giudicate il futuro più evidente della realtà concreta, e il desiderio vi fa trattare come cosa salda l’inesistente”[12]. Pretendere che il nemico non esista perché non è gradito e turba i sogni di pace fa parte delle stesse (pericolose) illusioni del non capire che azioni ostili possono compiersi (e ottenere il loro scopo politico) pur senza atti di violenza.

Tuttavia il giudizio di Tucidide, che corrisponde a quello di Machiavelli nel XV capitolo del Principe[13], introduce la terza ragione della “soppressione” del nemico: l’abbandono della concezione realistica cristiana e dello jus publicum europeaum.

É inutile dire che per la teologia politica cristiana la guerra è da evitare, ma essendo sempre possibile, data l’insopprimibilità dell’inimicizia tra uomini (e gruppi umani), non si può escludere né condannare sempre il ricorso a questa[14].

Tale concezione è realistica: parte dall’osservazione della realtà, ovvero l’esistenza di una pluralità di soggetti in grado di far guerra e aventi motivi di conflitto, per identificare le condizioni che consentano di evitare le guerre, e, se inevitabili, ridurne le potenzialità distruttive: i tre (poi quattro) requisiti della guerra giusta (auctoritas, justa causa, recta intentio, debitus modus gerendi bellum) limitavano i soggetti, le occasioni, le modalità e i fini della guerra. Ne contenevano gli effetti più devastanti e le ragioni più discutibili, senza né pretendere di aver trovato il rimedio per l’inimicizia e la guerra. Anche perché, a negare il nemico, ed in presenza di  qualcuno che ci fa comunque la guerra (a dispetto delle nostre buone intenzioni) la conclusione è che si tratta di un criminale, come sosteneva Carl Schmitt[15].

Quei principi passavano nel diritto internazionale westphaliano, con la nota “enfatizzazione” dell’auctoritas, cioè del soggetto legittimato alla guerra e così justus hostis, e il deperimento della justa causa (almeno fino all’inizio del secolo scorso).

Resta il fatto che, fino all’inizio del XX secolo la guerra era un mezzo giuridicamente lecito, il nemico era quel soggetto con cui si faceva la guerra, ma (poi) la pace. Come riteneva Raymond Aron “Il diritto internazionale pubblico europeo non aveva mai avuto lo scopo di mettere fuori legge la guerra, né mai si era attenuto a questo principio”[16]. Ma se quel mezzo è stato già condannato in sedi internazionali[17] e quel che più conta, è rifiutato da gran parte della popolazione, resta tuttavia l’esercizio dell’ostilità tramite mezzi non violenti.

  1. Scrive Max Weber che potenza significa la capacità d’imporre la propria volontà in una relazione sociale[18]; Aron, trasponendo tale definizione nel contesto internazionale sostiene che “la potenza o capacità di una collettività di imporre la sua volontà ad un’altra non va confusa con la sua capacità militare”. Freund elenca, esemplificandoli, i mezzi non violenti dell’ostilità, con cui si cerca di piegare la volontà di una comunità[19].

Correntemente per potere s’intende la capacità “d’un soggetto individuale o collettivo, di conseguire in modo intenzionale e non per accidente determinati scopi in una sfera specifica della vita sociale, ovvero di imporre in essa la propria volontà, nonostante la eventuale volontà contraria o la resistenza attiva o passiva di un altro soggetto o gruppo di soggetti”.

Ne consegue che ai fini della lotta per il potere è del tutto indifferente che l’effetto sia conseguito con l’uso della forza o con altro. L’essenziale è il risultato.

Tuttavia di fronte al conseguimento del risultato è peccato d’ingenuità non solo pensare che non sia un atto ostile, ma anche credere che la fondatezza giuridica (ad esempio, l’embargo all’esportazione di beni propri) escluda l’intenzione politica e l’ostilità: tutt’altro, semmai le occulta[20].

  1. Secondo Schmitt “Pensiero politico ed istinto politico si misurano perciò, sul piano teoretico come su quello pratico, in base alla capacità di distinguere amico e nemico. I punti più alti della grande politica sono anche i momenti in cui il nemico viene visto, con concreta chiarezza, come nemico” e prosegue “dovunque nella storia politica, di politica estera come di politica interna, l’incapacità o la non volontà di compiere questa distinzione appare come sintomo della fine della politica”.

Quello che sta succedendo è qualcosa che viene prima dell’incapacità di non distinguere amico e nemico: è la volontà e prima ancora la convinzione di non poterli distinguere: perché si presuppone che il nemico non esista ove la guerra non sia dichiarata, o perché non è tale in quanto ha ragione sul piano giuridico e/o economico.

Entrambe illusioni: quanto alla prima, stigmatizzata da Freund[21], consegue, come scrive, dalla concezione giuridica dell’ostilità[22]. Anche se il tutto è influenzato dal nominalismo giuridico (conseguente alle correnti neo-positiviste) e dalle sue versioni più modeste e “popolari”; per cui non c’è guerra se non la si dichiara (formalmente) tale. Con la consegueza che chi la dichiara è formalmente e apertamente un guerrafondaio; e per evitare tale nomea – così nociva in una società – spettacolo come quella globalizzata – la si fa evitando di dichiararla[23].

Credere poi che il compimento di atti d’ostilità sia giustificato sul piano giuridico ed economico (e quindi non è guerra, in senso lato, ma è attuazione di un diritto, riscossione di un credito) è anch’esso un truffarsi da soli, per almeno due ragioni: la prima perché sottovaluta che sotto le pretese giuridiche (ed economiche) c’è sempre un interesse (e un effetto) di potere. Il “diritto per il diritto” non è tale neppure nelle procedure giudiziarie (che richiedono, in linea generale, un interesse), tantomeno nei conflitti internazionali di guisa che, come scriveva Suarez il sovrano è legittimato a muovere guerra per i diritti della propria comunità politica non per quelli altrui[24].

D’altra parte se tali atti non sono atti di guerra, non si devono applicare neanche le limitazioni del diritto di guerra: le cui conseguenze possono essere devastanti[25].

Schmitt già nello scritto “Inter pacem et bellum nihil medium[26], giudicando cosa s’intendeva per “guerra” e “pace” negli anni ’30 del secolo scorso riteneva che “dimostra che l’ostilità, l’animus hostilis è divenuto il concetto più importante riguardo alla guerra”; ciò considerando che “In tutti i tempi ci sono state guerre «a metà», «parziali», «incompiute», «dosate», «localizzate», «wars sub modo»”[27].

  1. Se si condivide il giudizio di Schmitt che l’incapacità di operare la distinzione tra amico e nemico è sintomo della fine politica, si deve anche concludere che il capolavoro del nemico è quello di far credere che non esista: non c’è sistema più efficace di esercizio dell’ostilità. Sun Zu sostiene che l’abilità strategica consiste nel disorientare l’avversario “L’attacco migliore è quello che non fa capire dove difendersi, La difesa migliore è quella che non fa capire dove attaccare” di guisa che muovendosi “con rapidità senza lasciare traccia, quasi fossi evanescente, meravigliosamente misterioso, impercettibile: sarai padrone del destino del nemico”; ma gli stratagemmi consigliati dallo stratega cinese sono giochi da bambini rispetto al creare l’illusione che non esiste né ostilità né nemico. La clausewitziana “nebbia della guerra” così non copre solo il campo di battaglia, ma, per intero, lo stato conflittuale.

Il rifiuto dell’inimicizia consegue – come sopra scritto – a quello della guerra; quest’ultimo è il prodotto di un approccio (prevalentemente) di carattere giuridico al fenomeno guerra. Freund nel passo sopra citato si riferisce a concezioni giuridiche e non ad atti, e non fa pertanto riferimento alle costituzioni italiana e giapponese, successive alla fine del secondo conflitto mondiale, dov’è prescritto il rifiuto della guerra anche se con espressioni diverse[28].

Bisogna dar atto che malgrado il dettato pacifista, le due norme costituzionali non si sono spinte a negare l’esistenza e la possibilità dell’ostilità e del nemico, né che lo Stato lo possa individuare. Anzi il fatto che sia legittima la guerra difensiva presuppone che il nemico possa esistere e muovere guerra, e che ci si debba difendere.

Diverso appare il rifiuto del nemico in voga nella società contemporanea globalizzata: questo appare non solo come un residuo d’illusioni ideologiche smentite dalla storia (l’ultima e più conseguente delle quali è stata il comunismo), ma anche come derivato della società-spettacolo e della capacità di manipolare le credenze nella società di massa.

Se si prende per guerra (per conflitto) solo quello praticato con mezzi violenti, peraltro tanto spettacolari grazie alla tecnologia, è chiaro che dove non c’è spettacolo (la guerra classica con missili, bombe, corazzate e carri armati)  allora non c’è conflitto. Se poi a questo si aggiunge che la società di massa è drogata dai mezzi di comunicazione, è sufficiente un’attenta campagna di disinformazione – che sarebbe stata approvata da Kautylia e Sun Zu – per convincere che non essendoci violenza in atto, non ci sono né atti di ostilità né nemico. Specie se tale disinformazione si basa su notizie che all’uditorio piace sentire e occulta quelle sgradite: l’aspetto psicologico (nella e) della guerra è sempre stato fondamentale. L’aveva già sostenuto Joseph de Maistre, affermando che una battaglia persa è una battaglia che si è convinti di aver perduto. L’aveva ribadito Giovanni Gentile per il quale la guerra era un modo di superare l’opposizione tra volontà umane, e la soluzione della lotta era che il nemico riconosca “come sua la nostra volontà”, e cessi così di essere “volontà avversaria”[29].

Perché cessi di essere tale i modi possono essere tanti, il più efficace dei quali è non farla nascere cioè non far percepire l’esistenza di inimicizia e atti di ostilità a chi subisce (o subirà) l’aggressione.

Neppure il fatto che il nemico abbia ragione sul piano giuridico, lo assolve dall’ostilità politica e dalla conseguente necessità di difendersi. Solo una concezione decadente e limitata del diritto, ridotto a norme (e alle conseguenti decisioni giudiziarie, magari di Corti internazionali) può legittimare una concezione così lesionista. Se ci si richiama al principio romano che salus rei publicae suprema lex, è chiaro che nessun governante della comunità aggredita “a ragione” (normativa) potrebbe sacrificare l’esistenza della comunità, o anche “solo” la vita di molti cittadini, al rispetto dei trattati o comunque delle norme di diritto internazionale, applicando il contrario principio fiat justitia, pereat mundus. La politica, come sosteneva Max Weber, esige un’etica della responsabilità: degli uomini possono (e talvolta devono) decidere di morire per il rispetto delle leggi, e talvolta tale scelta può avere un significato di conservare il vincolo comunitario[30], ma non procurare morte e sofferenza ai propri concittadini in ossequio alla legalità[31].

D’altra parte la politica genera rendite politiche[32] e quindi ne produce la guerra. Un tempo si chiamavano tributi; nel XX secolo spesso “riparazioni”: ambedue i termini presuppongono un rapporto tra unità politiche. Nel XXI secolo dovremo forse chiamarle interesse differenziale, spread o quant’altro: il nomen conta (e dice) poco. Ciò che rileva è che trattasi di spostamento di risorse dal dominato al dominatore, dal vinto al vincitore. Quello che un tempo i primi pagavano ai secondi diventandone schiavi o prestando corvées; ed oggi, meno scomodamente (ma la società moderna è molto più comoda di quelle antiche, per cui la comodità non è merito del dominatore, ma dell’epoca), contraendo i consumi, modificando modi ed abitudini di vita per pagare debiti ed interessi. E in questa strada verso la servitù (e la povertà) ci s’inoltra tranquilli e contenti, per aver perso la guerra senza neanche accorgersene.

Teodoro Klitsche de la Grange

[1] Tra le tante ricordiamo che, a giudizio di molti storici, l’unità d’Italia fu propiziata dalla morte di Ferdinando II di Borbone – Napoli, morto nel 1859 per un’infezione mal curata; l’opinione dei quali è che se Garibaldi avesse dovuto combattere col padre (Ferdinando II) invece che col figlio (Francesco II) l’esito sarebbe stato probabilmente diverso. Ovvero che le imprese dei conquistadores in America siano state assai favorite dall’epidemie di vaiolo e tubercolosi nelle popolazioni amerinde.

[2] Come scritto da G. Dumont nell’Avant-propos “…La première, qui est l’objet du prèsent ouvrage, est le modérantisme, considéré comme recherche du compromis, plus encore que du consensus, c’est-à-dire comme refus a priori de la possibilité même de toute situation conflictuelle”. I lavori sono stati di recente pubblicati in volume dal titolo “La guerre civile perpetuelle” (ed. Artège – Perpignan 2012); sulla guerra economica v. gli interventi di De Lauzun, Bonnet e Mescheriakoff.

[3] E del protagonista della favola di Collodi, tale illusione condivide anche il “naso lungo”:  d’essere una falsa profezia, cioè una menzogna, giacché della società comunista, nel socialismo reale, non s’è visto che il contrario: guerre, campi di concentramento, dittatura, governi totalitari più che polizieschi.

[4] É interessante ricordare, a tal riguardo, le distinzioni che fa Carnelutti in Teoria generale del diritto, Roma 1946, p. 15 e ss..

[5] Freund definisce il conflitto così: “Le conflit consiste en un affrontement ou heurt intentionnel entre deux êtres ou groupes de même espèce qui manifestent les uns à l’égard des autres une intention hostile, en général à propos d’un droit, et qui pour mantenir, affirmer ou rétablir le droit essaient de briser la résistance de l’autre, éventuellement par le recours à la violence, laquelle peut le cas échéant tendre à l’anéantissement physique de l’autreSociologie du conflit, Paris 1983, p. 65.

[6] E proseguono “Comunque si scelga di definirla, questa nuova realtà non può renderci più ottimisti che in passato. Ciò perché la riduzione delle funzioni della guerra in senso stretto non implica affatto che quella guerra abbia cessato di esistere. Anche nella cosiddetta era postmoderna e post-industriale la guerra non sarà mai eliminata del tutto. É solo tornata a invadere la società in modi più complessi, più estesi, più nascosti e sottili… La guerra che ha subito i cambiamenti della moderna tecnologia e del sistema di mercato verrà condotta in forme ancor più atipiche. In altre parole, mentre si assiste a una relativa riduzione della violenza militare, allo stesso tempo si constata una aumento della violenza politica, economica e tecnologica. Tuttavia, indipendentemente dalle forme assunte dalla violenza, la guerra è guerra, e un cambiamento nella sua veste esteriore non le impedisce di mantenere i principi della guerra in sé” v. Guerra senza limiti, Gorizia 2001, p. 39; si può dire, mutuando una frase di Clausewitz, che la guerra ha una grammatica, ma non una logica, cambia la grammatica, ma non la logica.

[7] Il concetto di Gentile è più sfumato, distinguendo tra diverse forme di guerra: v. appresso al punto 7.

[8] La stessa tesi, sotto diversi profili – riecheggia in altri passi di Sun Zu, con “agisci soltanto nell’interesse dello Stato. Se non sei più che sicuro di riuscire, non impiegare uomini. Se non sei in pericolo, non combattere”; o sul calcolo (costo) delle risorse necessarie alle spedizioni militari “Ricorda: quando si mobilita un esercito di centomila uomini per impegnarlo in una campagna militare a mille li dallo Stato, le spese che ne derivano per il popolo, costituite dagli esborsi dell’Erario, ammontano a mille pezzi d’oro al giorno. Possono essere necessari anni di guerra per un giorno di vittoria. Ne nascerà un grande turbamento, sia interno che esterno; il popolo sarà sfibrato dalle imposte, e i bilanci di settecentomila famiglie andranno in dissesto” v. L’arte della guerra, Edizioni Mediterranee, Roma 2005, pp. 49, 143, 145.

[9] v. Kautilya, Arthasastra, trad. fr. Paris 1998, p. 40.

[10] L’esame nell’Arthasastra di cause, presupposti, condizioni della guerra e della pace è assai più articolato, e vi rimandiamo; lo consideriamo qui solo per l’aspetto “economico” che è quanto interessa ai fini dello scritto.

[11] Ad esempio basta appoggiare, anche con mezzi economico-finanziari, uno dei belligeranti. É la linea, tra tanti, seguita dal Cardinal Richelieu nella guerra dei Trent’anni, aiutando i protestanti fino alla (prima) battaglia di Nordlingen (poi si trasformò in guerra aperta agli Asburgo); o di F.D. Roosevelt nell’appoggio finanziario ed economico alla Gran Bretagna, alla Cina (e all’Unione Sovietica), fino a Peral Harbour (dopo di che fu guerra).

[12] La guerra del Peloponneso, V, 113. G. Miglio riconduce il concetto di “pace” intesa come anti-politica a “una tendenza culturale squisitamente borghese”. Ovviamente la pace come situazione permanente dell’umanità non è mai esistita e non può esistere, a meno che non venga meno la costante dell’obbligazione politica (e l’esigenza umana che la fonda). In questo senso intesa, la pace è riconducibile a quelle “anti-realtà” ideologiche che “si contrappongono alla struttura dell’obbligazione politica. Sono valori utopici, la cui permanenza è legata proprio al fatto che contraddicono parti di quella struttura costante; pretendono di contraddire alcune regolarità fondamentali dell’obbligazione politica. La pace nega la realtà indistruttibile della conflittualità e della guerra, sulla quale è basata la sintesi politica; l’eguaglianza nega la struttura articolata delle istituzioni politiche; la libertà nega la stessa struttura delle procedure convenute delle convenzioni pattuite e delle istituzioni politiche”, v. G. Miglio Lezioni di politica, vol. II°, Bologna 2011, p. 419.

[13] “E molti si sono immaginati repubbliche e principati che non si sono mai visti né conosciuti in vero essere. Perché gli è tanto discosto da come si vive a come si dovrebbe vivere, che colui che lascia quello che si fa, per quello che si dovrebbe fare, impara più presto la ruina che la perseverazione sua”.

[14] Evitiamo di ricordare i principali teologi che se ne sono occupati. Rinviamo per questo a Roberto De Mattei, Guerra Santa. Guerra giusta, Casale Monferrato 2002.

[15] La necessità di distinguere nemico e criminale è già nel Digesto: “Hostes’ hi sunt, qui nobis aut quibus nos publice bellum decrevimus: ceteri ‘latrones’ aut ‘praedones’ sunt”, Nemici sono coloro che ci hanno o cui noi abbiamo dichiarato pubblicamente guerra; gli altri sono briganti o pirati (v. D. 118, 50, 16).

[16] Paix et guerre entre les nations, trad. it. Milano 1983, p. 143.

[17] v. C. Schmitt Der Nomos der Erde, trad it. Milano 1991, pp. 335 ss. (sul mutamento di significato della guerra tra le due guerre mondiali).

[18] Wirtschaft und Gesellshaft, vol. I, trad. it. Milano 1980, p. 51.

[19]De tout temps on a essayé de menacer l’existence politique d’une collectivité par d’autres moyens que la guerre: affamer la population, soudoyer un parti politique et favoriser sa prise du pouvoir afin d’opérer ensuite, avec son accord, le rattachement de ce pays à une autre collectivité… mettre l’embargo sur des produits de première nécessité, faire un blocus, etc. Que sont les moyens dits pacifiques comme l’encerclement diplomatique ou les sanctions que l’on prend contre un pays récalcitrant, sinon des mesures d’hostilité destinées à menacer l’existence de ce dernier ? Bref, il existe toutes sortes d’agressions. A côté de la conquête militaire, il y a les moyens psychologiques de la propagande, de la mise en condition, de la subversion, les aggressions économiques, sociales et thecniques ou encore les armes biologiques. Les ressources de l’inimitié sont donc extrêmement variables”, v. Freund L’essence du politique, Paris 1965, p. 507.

[20] Al riguardo è opportuno ricordare in questo caso il rapporto che Hauriou vedeva tra teologia e diritto: l’una il nocciolo, l’altro l’involucro. O il giudizio di Freund che l’obbligazione giuridica è eteronoma: suppone una volontà diversa da quella del giurista.

[21] Op. cit. p. 507.

[22] “… qui a empêché la plupart des auteurs ayant écrit sur la politique de voir dans la relation ami-ennemi un présupposé du politique, en quoi ils se sont trompés et sur la nature de la politique et sur celle de la guerre” Freund Op. loc. cit.

[23] Per i giuristi più attenti al pensiero realista, la guerra è un fatto: dichiararla è un obbligo giuridico. Farla senza dichiarazione non è un merito: è semplicemente la violazione di una regola di diritto internazionale.

[24] De charitate, disp. 13 De Bello, sectio IV. E’ chiaro che, senza la limitazione dell’interesse proprio (anche quindi nel rinunciare all’attuazione d’interessi propri) le cause di guerra si moltiplicherebbero geometricamente.

[25] Ad esempio l’embargo su prodotti alimentari. Se ciò provoca carestie (ed epidemie) è soprattutto a carico della popolazione civile, e della fazione più debole della stessa. Così si viola la limitazione a non coinvolgere nella guerra gli innocentes: se si può credere che il progresso tecnologico abbia prodotto delle bombe “intelligenti” tali da ridurre al minimo i c.d. “danni collaterali”, non ci risulta che esistano delle carestie “intelligenti”. Sull’embargo dell’IRAQ è interessante leggere l’appello consegnato da 54 vescovi cattolici al Presidente Clinton nel gennaio del 1998; i quali giudicavano “Questa campagna di bombardamenti, assieme all’embargo totale in vigore dall’agosto 1990, era, ed è, un attacco contro la popolazione civile dell’Iraq. Una tale guerra contro la popolazione è stata condannata in maniera inequivocabile dal corpus magisteriale più autoritativo della Chiesa cattolica, il Concilio Vaticano II (1962-1965). Agenzie indipendenti continuano a documentare il devastante impatto delle sanzioni sulla popolazione civile … qualunque sia l’intento di queste sanzioni, siamo costretti da questa valutazione a giudicarle una violazione dell’insegnamento morale, segnatamente come è formulato nella tradizione cattolica”.

[26] in “Schriften der Akademie für Deutsches RechtGruppe Völkerrecht, n. 7, Berlin, 1939, trad. it. in Lo Stato X (1939), pp. 541-548.

[27] e prosegue “l’espressione usata dalla relazione Lytton sull’avanzata dei giapponesi «war disguised» non presenterebbe in sé alcunché di nuovo. Il nuovo era lo stato intermedio fra pace e guerra, elaborato giuridicamente e reso istituzione dalla Lega delle Nazioni e dal patto Kellogg”. D’altra parte quando Schmitt, sottolineando l’incongruenza dei concetti di guerra e pace applicati dalla Lega delle nazioni (determinati a contrario per cui non era guerra l’aggressione giapponese alla Cina ma lo era quella italiana all’Abissinia) rispetto a quello di vera pace ricorda da vicino la concezione della pace come “tranquillità dell’ordine” di S. Agostino.

[28] L’art. 9 della Costituzione giapponese prescrive “Aspirando sinceramente ad una pace internazionale fondata sulla giustizia e sull’ordine, il popolo giapponese rinunzia per sempre alla guerra, quale diritto sovrano della Nazione, ed alla minaccia o all’uso della forza. quale mezzo per risolvere le controversie internazionali.

Per conseguire l’obiettivo proclamato nel comma precedente, non saranno mantenute forze di terra, del mare e dell’aria, e nemmeno altri mezzi bellici. Il diritto di belligeranza dello Stato non sarà riconosciuto”; l’art. 11 di quella italiana dispone che “l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”. Le due espressioni normative non vanno prese troppo alla lettera: né la rinuncia della guerra ha impedito al Giappone di riarmarsi, né il ripudio italiano della stessa era totale (perché era ammessa quella di difesa) né del tutto efficace, perché non ha impedito di mandare corpi di spedizione all’estero per “pacificare” sotto comando straniero popolazioni riluttanti.

[29] In effetti il concetto di guerra di Gentile è anch’esso più esteso di quello usuale di guerra come atto di forza “Tra i modi di superare l’opposizione è la guerra: della quale il filosofo non può ignorare che ci sono mille forme, e si vengono moltiplicando col moltiplicarsi dei modi in cui si esplica l’espressione del pensiero umano e la volontà si sforza di farsi valere. C’è la guerra a punte di spillo, e c’è la guerra a colpi di cannone. Le punte di spillo sono parole: parole però che tendono a scopi sostanzialmente affini a quelli perseguiti dal cannone: l’annientamento dell’avversario. Ma la guerra propriamente detta è quella che gli Stati combattono con tutte le armi più micidiali per aver ragione l’uno dell’altro, quando l’uno sia d’impedimento all’altro nel raggiungimento di fini essenziali alla sua esistenza”  (i corsivi sono nostri) Genesi e struttura della Società, rist. Firenze 1983, p. 104.

[30] Come per Socrate nel “Critone”, nel noto passo della prosopopea delle Leggi (le quali però non sono le “norme” dei neo-positivisti).

[31] Cosa che è assai chiara nella concezione dei giuristi istituzionisti. Per Maurice Hauriou l’istituzione – per la modernità lo Stato – ha la funzione principale di “Protéger la société individualiste par son gouvernement, lui assurer la paix et l’ordre au dedans et au dehors par sa force armée, par sa diplomatie, par sa police, par sa législation, par ses tribunaux”, Précis de droit constitutionnel, Paris 1929, p. 49. La funzione di protezione è l’obbligo principale dell’istituzione nei confronti della comunità (e così dei governanti verso i governati). Per Santi Romano la necessità è fonte di diritto superiore alla legge. Se la necessità (il cui concetto nel giurista siciliano non è molto distante dal Ausnahmezustand di Carl Schmitt) impone di violare la legge, la “violazione” della norma è legittima, in quanto salvaguarda l’ordinamento. Sia in Hauriou che in Romano e Carl Schmitt è evidente la lezione di Hobbes, per cui il protego ergo obligo è la sostanza dell’obbligazione politica (v. Leviathan, Esame critico e conclusione, rist. Bari 1974, in particolare p. 661). Pretendere di obbligare senza proteggere, o viceversa di essere protetti senza essere obbligati è un inganno e un’assurdità.

[32] Sul punto v. Gianfranco Miglio, Lezioni di scienza della politica, Bologna 2011, pp. 320 ss.

INTRODUZIONE ALLA “POLITICA COME DESTINO”_2A PARTE, di Teodoro Klitsche de la Grange

http://italiaeilmondo.com/2018/07/02/introduzione-alla-politica-come-destino_1a-parte-di-teodoro-klitsche-de-la-grange/

Qui sotto la seconda parte del saggio di TKdlG. Continuiamo per tanto con la pubblicazione di testi alquanto interessanti riguardanti l’approccio al “politico” del pensiero liberale “forte” in contrapposizione e critica al pensiero liberale “debole” ancora nettamente predominante, se pure in crisi nella sua capacità persuasiva. Il discrimine tra le due varianti riguarda appunto l’atteggiamento verso e l’analisi della funzione del politico, inteso nella sua essenza e nella sua relazione con i diversi ambiti dell’agire umano. Il peso ancora minoritario della componente realista di questa corrente di pensiero è evidenziato dal misconoscimento dell’importanza, in particolare in Italia, di pensatori come Julien Freund e dalla demonizzazione e travisamento di altri come Carl Schmitt. Essa, la sua componente “realista” appunto, al contrario rientra a pieno titolo nell’alveo del dibattito sul conflitto strategico tra centri decisionali ripreso ed elaborato ultimamente in Italia da Gianfranco La  Grassa. E’ il nuovo punto di incontro e di confronto decisivo di varie correnti del pensiero politico cresciuto ed affermatosi nel ‘800 e nel ‘900 e ormai giunto ad una drammatica crisi delle proprie chiavi di interpretazione. Teodoro Klitsche de la Grange continua ad offrire da par suo il proprio contributo e ad alimentare il dibattito intrapreso pure da questa redazione, in particolare da Massimo Morigi e Luigi Longo. Buona lettura_Germinario Giuseppe

Sotto un altro profilo la concezione di Schmitt, corroborata dalle regolamentazioni normative che cita[1], è in linea con il “fattuale”. La regolamentazione/previsione dei poteri eccezionali è aderente alla realtà e alla necessità: se le costituzioni possono scegliere, disporre e regolare o meno i poteri eccezionali (cioè abolirli o non istituirli) non possono abolire le situazioni eccezionali. Solo l’Onnipotente può evitare guerre, calamità naturali, crisi economiche. Così un liberalismo realistico non può non prescrivere la normativa necessaria in siffatte emergenze; ed in effetti in quasi tutte le costituzioni lo dispone. Dove non è prescritta vale la regola di Jhering, e più ancora di Santi Romano: che “la necessità fa legge” ossia che è sicuro che nella situazione d’emergenza la costituzione sarà violata. E, se non violata, probabilmente sarà distrutta l’istituzione politica. Cosa che il liberalismo “ideale” – o almeno parte di esso – non considera, contrariamente a Schmitt, la cui critica è quindi confortata dalla storia.

  1. Sempre il liberalismo esangue (e post-moderno, ma non solo) ha, se non abolito, messo tra parentesi il nemico (e la guerra); senza considerare sia la possibilità concreta che l’ostilità degeneri in guerra, sia soprattutto che gli interessi contrapposti, non possano essere conciliati con procedure giuridiche (trattati, mediazioni, Tribunali internazionali). Già da prima Constant e Spencer ritenevano le società orientate ad attività economiche tendenzialmente pacifiche; e Schmitt critica Constant perché considerava le società orientata al commercio (e al benessere economico) meno guerrafondaie delle comunità tradizionali.

Il tempo si è incaricato se non di contraddire, almeno di ridimensionare questa concezione. La diffusione nel periodo dell’imperialismo (classico) e cioè nel XIX secolo (ed oltre) di guerre dettate da motivi economici, d’altra parte tutt’altro che sconosciute prima (e dopo), ne è la prova[2].

Nella successiva “fase” tardo-moderna (e post-moderna) si è creduto di trasferire dall’economico e addossare al diritto il fardello di poter eliminare e/o ridurre (e decidere) i conflitti non solo all’interno – che è più naturale – ma anche all’esterno della sintesi politica. Ma se all’interno c’è comunque il soccorso della sintesi politica “totale e decisiva” col monopolio della violenza legittima e della decisione in ultima istanza, cioè sovrana e (spesso apparentemente) “neutra”, all’esterno mancano l’uno e l’altra.

Il che ha condotto a derogare, nel corso del XX secolo al principio internazionalistico che “par in parem non habet jurisdictionem”, attivando istituzioni e Tribunali internazionali, sia per la soluzione di controversie con (e tra) Stati e tra privati e Stati, sia per giudicare, specialmente dopo le guerre, i vinti da parte dei vincitori[3]. Il tutto in nome di un “diritto” universale che, al di là delle buone intenzioni, ha perso di vista come il diritto abbia anche, necessariamente, un momento (e apparati) d’applicazione. La fase successiva è stata di promuovere guerre – non denominate tali – in nome dei “diritti umani” che per lo più, al di là delle buone intenzioni – sempre presenti – hanno dimostrato che è solo la proporzione delle forze a determinare se, in quei Tribunali si è giudicati (e prima ancora, se il “reo” è debellabile senza (o con pochi rischi); onde, successivamente, i capi dell’unità politica “pacificata”, sono giudicati dalle apposite Corti (internazionali o meno). Perché un’operazione di peacekeeping contro una potenza, anche media, ancorché notoriamente vi si pratichi la violazione dei diritti umani, non si è finora vista. Spedizioni punitive del genere (e successivi giudizi dinanzi a Corti internazionali) sono state promosse in conflitti (prevalentemente) etnici, relativamente a entità statali minori e gruppi politici non consolidati, privi di strumenti militari decisivi, ed hanno visto sfilare come imputati generali e politici balcanici o dell’Africa nera.

Nessuno dei quali aveva il potere d’opporsi realmente all’operazione benintenzionata come avrebbero potuto fare tanti altri, perciò al riparo da interventi umanitari. Il che conferma il detto di Hegel che non c’è Pretore tra gli Stati[4]; perché fondandosi ciò su volontà particolari sovrane, avrebbe carattere “accidentale”. Più che altro mentre a fondamento della giustizia statale c’è un istituzione, di per sé generale, superiore, decisiva e durevole, a base di quella internazionale vi sono soltanto uffici (chiamarli organi è forse eccessivo), la cui esistenza è frutto di accordi e trattati particolari e pertanto carente (del carattere) di “istituzionalizzazione”, politica in specie.

Anche in tal caso la critica di Schmitt coglie nel segno: non appare realistico né confermato dalla storia che possano eliminarsi o ridursi drasticamente i conflitti e quindi l’inimicizia politica che ne deriva, né per l’orientamento sociale all’attività ed al benessere economico, né per decisione dei Tribunali[5].

Come la costituzione è l’assetto e l’organizzazione della comunità politica, in base all’insopprimibile (Freund) presupposto del politico  del comando/obbedienza; così non è possibile eliminare dal mondo la lotta e il nemico, altro presupposto del politico.

A base di tali illusioni c’è la credenza che sia possibile trovare, tra esseri razionali, un punto d’incontro, malgrado diverse visioni del mondo. Max Weber assicurava che si arriva comunque a valori non negoziabili e non vi è modo di conciliarli[6]. Un acuto studioso argentino come Bandieri, ha qualificato una delle correnti riconducibili a un (vago) liberalismo esangue, e cioè il c.d. “neocostituzionalismo”, come positivismo di valori, che distingue da quello di Kelsen (ed epigoni) che è positivismo di norme.

Nei casi estremi (quelli che più contano), tra comunità riconoscentesi in “tavole di valori” inconciliabili una decisione giuridificata o meglio (e soprattutto) giurisdizionalizzata, è pertanto impossibile.

Valitutti sostiene che “secondo Schmitt, l’unità politica è sempre unità decisiva, sovrana e totale. Egli scrive, e noi lo abbiamo già riferito, che è totale perché l’uomo viene afferrato tutto alle radici stesse del suo essere dalla partecipazione politica alla quale egli si da. Aggiunge incisivamente che la politica è destino… Il destino è il fatum in senso greco-latino, cioè una necessità superiore e ineluttabile. Per Schmitt il totalitarismo politico è il destino in questo significato”.

Conseguenza di ciò è che “il nostro è un tempo nel quale la distinzione schmittiana tra amicus e hostis, come distinzione totale e totalizzante, fornisce il criterio interpretativo di porzioni e manifestazioni cospicue della nostra realtà politica e sociale”[7]. Secondo il liberale italiano questo iperpoliticismo è viziato: “Il vizio, se così possiamo chiamarlo, attraverso il quale passa nella realtà effettuale il totalitarismo politico, è quello stesso attraverso il quale passa l’unilateralità dell’apoliticismo, cioè la reductio ad unum della multiforme vita spirituale dell’uomo”. L’apoliticismo è frutto non tanto del primato del Bourgeois sul citoyen ma dell’essere in corso “una grande rivoluzione utilitaristico-edonistica, che ha le sue armi nella scienza e nella tecnica e che è liberatrice di ingenti forze già compresse, ma che intanto produce uno squilibrio della vita spirituale”[8]. Nella vita spirituale del (tardo) XX secolo (ma anche oggi) è sovrana la praxis[9]. Così si crea uno squilibrio, riduttivo della comune umanità[10].

Il tutto presuppone, scrive Valitutti, la priorità della figura dell’hostis anche su quella dell’amicus[11].

  1. A considerare la critica di Valitutti a Schmitt, ancorché le censure del primo al secondo siano centrate, occorre valutarle nel contesto del pensiero di Schmitt, oggigiorno maggiormente noto al lettore italiano per la traduzione quasi integrale dell’opera del giurista di Pletteberg e per i contributi che ha suscitato.

Valitutti rimprovera a Schmitt l’ “iperpoliticismo” e, ad esso strettamente collegata, una concezione per così dire “settoriale” dell’uomo. Tuttavia l’intero pensiero di Schmitt è orientato allo stato d’eccezione. Come scrive nella Politische theologie nella situazione d’emergenza “L’esistenza dello Stato dimostra qui un’indubbia superiorità sulla validità della norma giuridica”[12]. Quindi l’eccezione, e la guerra, che dello stato d’eccezione è l’aspetto più rilevante, non nega la normalità, ma ne ridimensiona l’importanza e la stessa capacità di comprendere interamente il diritto, pubblico in particolare. Il diritto è norma ed eccezione: è ordinamento della vita della comunità e questa è fatta sia di situazioni normali che di eccezionali.

La critica al costituzionalismo liberale esangue consiste così proprio nel fatto che non considera l’unità e la completezza dell’ordinamento e che questa ricomprende sia norme che ordinamento, sia comando che obbedienza, legittimità oltre che legalità, forza e norma, principi di forma politica e principi dello Stato borghese. E dimentica che in tante occasioni, come nella seconda guerra mondiale, l’esistenza politica delle democrazie liberali è stata difesa anche con bombardamenti indiscriminati (atomici e non), non proprio da considerare mezzi umanitari. Alla fine le teorie da Schmitt criticate sono più che errate, parziali: coperte strette che non coprono e non spiegano l’intero e tantomeno come, proprio nello stato d’eccezione, la parte “politica” prevalga su quella “normativa”. Così avviene anche per gli altri aspetti.

Come l’antropologia di Schmitt: se è vero, come scrive Valitutti, che Schmitt non considera l’uomo “tutto intero” ma enfatizzandone l’aspetto politico, è pure vero che, nel caso di guerra il cittadino (il componente della comunità) ha il dovere di difendere la comunità e così il rischio di morire. Cosa che generalmente non succede nel discutere una teoria scientifica o filosofica.

Quindi è nell’emergenza (e in vista di quella) che lo “squilibrio”  notato da Valitutti, si realizza a causa del montare di quello che Clausewitz chiamava il “sentimento politico”, elemento fondamentale – ancorché non esclusivo – del triedro della guerra[13].

Anche in questo caso il prevalere della politica è ridimensionato proprio dallo (e in vista) dello stato d’eccezione, d’altronde, come scrive Agamben, istituto tipico degli ordinamenti costituzionali moderni.

Piuttosto quanto sostiene Valitutti è spiegabile con il periodo in cui è scritto: in pieno sessantottismo e post-sessantottismo dove  si consumavano le ultime battute del comunismo (prossimo all’implosione), con slogans che ne enfatizzavano il potenziale liberatorio e di conformazione di una nuova società umana, per realizzare la quale nessuno sforzo (e mezzo) doveva essere risparmiato (terrorismo compreso). In quel contesto il personale (era) politico: espressione che coniuga iperpoliticismo con un sotteso edonismo (cioè con la maior pars dell’a-politicismo).

Valitutti fa carico a Schmitt di sottovalutare l’attività spirituale e teorica dell’uomo. Anche qui pare piuttosto che Schmitt segua quanto scrive de Maistre “L’uomo, per il fatto di essere contemporaneamente morale e corrotto, giusto nell’intelligenza e perverso nella volontà, deve necessariamente essere governato”[14]. E, in connessione con la sua antropologia, la perversità della volontà umana, è indipendente dalla (razionalità) e giustizia della sua intelligenza (e, spesso su quest’ultima prevalente).

Va da se che in tale contesto realistico è una nobile quanto illusoria aspirazione pensare che una decisione si possa raggiungere attraverso l’accordo tra uomini razionali, ispirati da imperativi categorici[15].

Quando poi Valitutti stigmatizza come “fantoccio polemico” il liberalismo criticato da Schmitt, la censura è largamente condivisibile. A un liberale italiano, peraltro di formazione  idealistica come Valitutti, non possono che apparire (almeno) parziali e riduttivi gli appunti, pur spesso centrati, di Schmitt al “liberalismo”. Per un liberale italiano il liberalismo è soprattutto “religione della libertà” e, scriveva Croce, come tutte le religioni, crea guerre di religione. Così furono in Italia le guerre civili del 1799 e del 1860 (senza aggiungere quella del 1806) in particolare nel Mezzogiorno. Lo Stato nazionale non fu costruito da congressi, accordi, trattati, sentenze ma da tre guerre interstatali e da una guerra civile (il c.d. brigantaggio). Altro che agreements tra esseri razionali. E di ciò è consapevole ogni liberale che abbia senso storico-politico. Diceva V.E. Orlando che “nulla per noi è più intollerabile della contrapposizione; Libertà e Patria”.

Lo Stato nazionale fu costituito – diversamente che in altri paesi europei – non dalle monarchie assolute, ma dalla collaborazione tra monarchia sabauda e movimento nazionale, di cui i liberali erano  la maior pars e cui era evidente che lo Stato era “nel fatto sorto da un procedimento rivoluzionario”[16].

Il principio politico (la monarchia mista con elementi di democrazia) era coniugato ai principi del Bürgerliche Rechtstaat in uno Stato “rappresentativo”. Il che vaccinava (per lo più) i liberali italiani da certe concezioni riduttive del liberalismo, come quelle criticate dal giurista renano. Lo stesso termine con cui giuristi e scienziati politici del periodo liberale dello Stato nazionale lo qualificavano prevalentemente come rappresentativo[17] è indice sia della consapevolezza del processo di costruzione nazionale (e radicamento) che dell’unione dei principi di forma politica con quelli dello Stato borghese.

C’è un altro aspetto, meno “esclusivo”, ma comunque importante, nel pensiero liberale italiano[18]: è la concezione realistica dell’uomo, l’antropologia (moderatamente) negativa. Questa, tuttavia, è comune a ogni pensiero liberale “forte”.

Già gli autori del Federalista fondavano su quella sia la necessità dello Stato sia quella del costituzionalismo (liberale)[19]. La stessa antropologia realistica è presupposta nelle concezioni di Croce, di Fortunato, Einaudi, Puviani e tanti altri. Soprattutto nel pensiero di Mosca e Pareto l’uomo non è considerato  (solo) essere razionale e soprattutto capace di seguire una condotta  razionale, ma anche dotato di volontà, istinti, pregiudizi in grado di determinare le azioni assai più della razionalità.

Proprio Pareto con la sua teoria dei  residui  (non razionali, corrispondenti ad interessi e istinti  ) e delle derivazioni (apparentemente razionali) ne ha fatto una trattazione analitica “preceduta” dall’ancora più rilevante tra azioni logiche  e azione non logiche: le une e le altre soprattutto in relazione allo                      iato tra scopo perseguito e risultato conseguito.

Anche Mosca giudicava che la grande maggioranza degli esseri umani non agisce in base a convinzioni razionali (scientifiche) ma a illusioni diffuse[20].

Ciò non era carattere “proprio” ed esclusivo del pensiero italiano: ma è, in questo, almeno nel periodo suddetto, particolarmente sviluppato (ed autorevole).

  1. In particolare il fantoccio polemico, che Valitutti critica in Schmitt è ciò che il giurista tedesco vede nei pensatori dallo stesso criticati, ma che non è né il liberalismo storico “classico” – in particolare italiano – né quello che emerge da un’analisi fattuale ma anche giuridico-normativa, sia dei comportamenti che degli ordinamenti dello Stato borghese. È piuttosto quel che risulta da condivisibili aspirazioni che hanno il limite di non considerare o di sottovalutare le costanti ossia, le regolarità della politica (Miglio), con la conseguenza di non spiegare la conformazione dello stesso Stato democratico (o borghese a seguire Schmitt).

In questo senso l’analisi di Valitutti fatta all’inizio della “rinascita” in Italia dell’interesse per il pensiero del giurista renano[21] e in tempi in cui era demonizzato (e misconosciuto) molto più di oggi, è espressione di un coraggio intellettuale e di una pregevole indipendenza e chiarezza di giudizio.

Teodoro Klitsche de la Grange

[1] V. Verfassungslehere, trad. it. cit. p. 154 ss, v. anche pp. 46,56, 236.

[2] D’altra parte Schmitt ha avanzato anche la spiegazione, assai interessante, che ciò dipendeva dalla centralità nello spirito europeo del XIX secolo dell’economia e del conseguente criterio del raggruppamento (principale) di amicus/hostis. Per cui il raggruppamento decisivo è quello borghese/proletario, come evidente in particolare nei bolscevichi e nel concetto di guerra civile mondiale. V. ne Le categorie del politico, Bologna 1972, p. 167 ss.

[3] Anche se la normativa internazionale più recente ha evitato (almeno) che nel ruolo dei giudici vi fossero i vincitori e in quella dei giudicati, i vinti, precostituendo dei giudici non coinvolti.

[4] Hegel spiegava che la rappresentazione kantiana di una pace perpetua, presuppone la concordia tra gli Stati. Considera che questa si baserebbe su fondamentali morali, religiosi ed altri; ma avrebbe “pur sempre per base delle volontà sovrane particolari”, e perciò rimarrebbe affetta da accidentalità. Grundlinien des Philosophie des Recht, trad. it. di V. Cicero, Milano 1995, §333 p. 555

[5] Anzi è l’esistenza e lo svilupparsi del conflitto che rende necessario (per arrivare ad una soluzione dello stesso) ad “internazionalizzare” il diritto derogando a quello normale “interno”, come scriveva Santi Romano, nel caso delle guerre civili (amnistie, scambi di prigionieri, accordi), v. Corso di diritto internazionale, Padova, p. 73. Il processo di cui scrive il giurista è proprio l’inverso di quello criticato e la cui ratio è di applicare per risolverlo istituti di diritto interno. Infatti come nota Santi Romano “Così, in caso d’insurrezione o di guerra civile, le norme di diritto internazionale, specialmente attinenti alla guerra e alla neutralità, vengono spesso riferite agli insorti … Ciò può accadere per diverse ragioni, che però si riducono ad una sola: l’impotenza dello Stato nel quale scoppia l’insurrezione a dominare col suo ordinamento gli autori di essa, per cui lo stesso Stato sente il bisogno, per mitigare la lotta, di condurla secondo le norme internazionali, purchè anche gli insorti adottino uguale comportamento” (il corsivo è mio).

[6] “Tra i valori, cioè, si tratta in ultima analisi, ovunque e sempre, non già di semplici alternative, ma di una lotta mortale senza possibilità di conciliazione, come tra «dio» e il «demonio». Tra di loro non è possibile nessuna relativizzazione e nessun compromesso. V. ora trad. it.. di P. Rossi ne Il metodo delle scienze storico-sociali, Milano 1980, p. 332. Tuttavia prosegue: “Beninteso, non è possibile secondo il loro senso. Poiché, come ognuno ha provato nella vita, ve ne sono sempre di fatto, e quindi secondo l’apparenza esterna, ad ogni passo”. Il che significa che il compromesso è spesso praticabile ma non sempre e non in tutti i casi.

[7] Ed aggiunge “Oggi si sta moltiplicando il purus politicus, l’uomo per cui non esiste che la politica. Poiché la politica è lotta, il purus politicus è un uomo lottante … non poche antitesi si trasformano e si esasperano in antitesi politiche nel senso chiarito da Schmitt, cioè in antitesi tra amici e hostes.

[8] E prosegue “perciò si arrugginiscono, quando non si atrofizzano, quelle altre attitudini che permettono all’uomo di abbracciare tutta la realtà e di nutrirsene, e in particolare le attitudini conoscitive”

[9] “La scienza e la tecnica sono baconianamente ricercate e utilizzate per il cangiamento e il miglioramento delle condizioni di vita. La praxis è sovrana e assorbente e distoglie dalla teoria. È l’impeto della vitalità che ostruisce ad un tempo quelle che il filosofo ha chiamato le fonti della cratività morale e le vie della ricerca della verità”.

[10] Scrive Valitutti che ciò comincia da Marx e dalla celebre 11ª postilla a Feuerbach, per cui compete ai filosofi (futuri) cambiare il mondo più che interpretarlo “Oggi si tende a possedere la realtà solo praticamente e perciò solo utilitaristicamente”. La ragione è “neutralizzata; perde il rapporto con il contenuto oggettivo perché è usato per soli fini utilitari, e non per conoscere la verità”. Da un lato c’è l’apoliticismo la cui conseguenza è che “scarseggiano i fattori unificanti e aumentano quelli dirompenti. Gli uomini si accomunano e concentrano nel godimento del benessere che è intrinsecamente isolante”. E l’altra faccia di questo Giano è il “raggrupparsi politico, in cui il cemento è l’ostilità contro l’hostis, cioè contro il raggruppamento nemico. Tra apoliticismo e panpoliticismo c’è passaggio pur se il secondo si manifesta talvolta con il volto tragico del vendicatore che vuole colpire la tirannia dell’edonismo”

[11] “Concezione che ritiene erronea e “cattiva”; ma cattive teorie possono originare cattive coscienze: “come la cattiva coscienza si insinua nella cattiva teoria e le fornisce impulsi e stimoli, così la cattiva teoria fornisce un sostegno alla cattiva coscienza”.

[12] V. trad. it. di P. Schiera ne “Le categorie del politico” Bologna 1972 p. 39, e aggiunge “Il caso d’eccezione rende palese nel modo più chiaro l’essenza dell’autorità statale. Qui la decisione si distingue nella norma giuridica e (per formulare un paradosso) l’autorità dimostra di non aver bisogno di diritto per creare diritto. Per la dottrina dello Stato di diritto di Locke e per il razionalistico XVIII secolo, lo stato d’eccezione era qualcosa di incommensurabile. La diffusa consapevolezza del significato del caso d’eccezione che domina il diritto naturale del XVII secolo, va presto perduta nel corso del secolo seguente, allorché viene instaurato un ordine relativamente durevole … Solo una filosofia della vita concreta non può ritrarsi davanti  all’eccezione e al caso estremo, anzi deve interessarsi ad esso al più alto grado. Per essa l’eccezione può essere più importante della regola, e non in base ad una ironia romantica per il paradosso, ma con tutta la serietà di un punto di vista che va più a fondo delle palesi generalizzazioni di ciò che comunemente si ripete. L’eccezione è più interessante del caso normale. Quest’ultimo non prova nulla, l’eccezione prova tutto; non solo essa conferma la regola: la regola stessa vive solo dell’eccezione. Nell’eccezione, la forza della vita reale rompe la crosta di una meccanica irrigidita nella ripetizione” e conclude il passo “Abitualmente non ci si accorge della difficoltà poiché si pensa al generale non con passione ma con tranquilla superficialità. L’eccezione al contrario pensa il generale con energica passionalità”

[13] Si noti che il generale prussiano il quale distingue, tra l’altro, guerra assoluta e guerra “normale”, anche nella concezione generale del fenomeno bellico ritiene che “la guerra si presenta inoltre nel suo aspetto generale, sotto il rapporto delle tendenze che regnano in essa, come uno strano triedro composto:

  1. della violenza originale del suo elemento, l’odio e l’inimicizia, da considerarsi come un cieco istinto;
  2. il giuoco delle probabilità e del caso, che le imprimono il carattere di una libera attività dell’anima;
  3. della sua natura subordinata di strumento politico, ciò che la riconduce alla pura e semplice ragione.

La prima di queste tre facce corrisponde più specialmente al popolo, la seconda al condottiero ed al suo esercito, la terza al governo” Vom Kriege trad. it. Milano 1970, vol. I, p. 40. Quindi anche nella guerra sono presenti elementi razionali, che contribuiscono a ridimensionarla ed umanizzarla.

[14] V. Du Pape, trad. it. Milano 1995, p. 155.

[15] Che è poi uno dei presupposti di un liberalismo esangue, ispirato al pensiero di Kant (ma sottovalutando il “legno storto”). Ma che tale condivisibile aspirazione possa costituire una base – sempre e ovunque valida – non è credibile, per cui si trasforma in una sicura illusione, che seleziona della natura umana il connotato più gestibile: la ragione. E, al tempo, sminuisce quello che lo è meno, la volontà (istinti, interessi, pregiudizi e così via).

[16] V. V.E. Orlando Principii di diritto costituzionale p. 51.

[17] Ricordiamo tra gli altri: G. Mosca, Appunti di diritto costituzionale, Milano 1912 (il quale scrive anche di governo rappresentativo, di regime rappresentativo).

[18] D’altra parte condiviso anche con gran parte dai pensatori liberali non italiani.

[19] “Ma cos’è il governo se non la poderosa analisi dell’umana natura? Se gli uomini fossero angeli non occorrerebbe alcun governo. Se fossero gli angeli a governare gli uomini, ogni controllo esterno o interno sul governo diverrebbe superfluo.

Ma nell’organizzare un governo di uomini che dovranno reggere altri uomini, qui sorge la grande difficoltà: prima si dovrà mettere il governo in grado di controllare i propri governanti, e quindi abituarsi ad autocontrollarsi”. V. Il federalista, trad. it. di Bianca M. Tedeschini Lalli, Bologna 1980, p. 396. (Il corsivo è mio).

[20] “La scienza e tutti quei brani di verità… sono sempre stati l’opera di un numero molto scarso d’individui… Le masse finora non hanno mai vissuto della scienza e per la scienza, ma di grandi illusioni collettive, che trovano la loro base non nel raziocinio, ma nel sentimento umano” v. Partiti e sindacati nella crisi del regime parlamentare, Bari 1949, p. 85 (il corsivo è mio).. D’altra parte considerazioni simili si trovano in altre opere di Mosca.

[21] Che ha preceduto la “rinascita” dell’interesse in altri paesi. Günther Maschke, in un  saggio dedicato all’impatto del pensiero di Schmitt (scritto poco dopo la morte del giurista) giudicava che l’Italia di quella rinascita costituiva la parte più cospicua, v. trad. francese (col titolo Carl Schmitt «Fossoyeur de la République» «Kronjurist» ou «Dernier classique»? in Nouvelle École n. 44, 1987, p. 53 ss.

SCHEDA DEL LIBRO OGGETTO DI CRITICA

SCHEDA de “LA POLITICA COME DESTINO”

Originariamente pubblicato nella rivista “Nuovi studi politici” nel 1976 e quindi in un volume contenente anche uno scritto di Karl Lowith nel 1978, La politica come destino di Salvatore Valitutti torna oggi nuovamente nelle librerie italiane per i tipi della Liberilibri.

Valitutti, pur da liberale e con atteggiamento critico, accanto alle ragioni di dissenso riuscì ad intuire l’incisività e la validità di alcune intuizioni di Carl Schmitt.

Pubblichiamo pertanto per la gentile concessione della Società Liberilibri e dell’autore, il saggio introduttivo di Teodoro Klitsche de la Grange al libro di Salvatore Valitutti.

INTRODUZIONE ALLA “POLITICA COME  DESTINO”_1A PARTE, di Teodoro Klitsche de la Grange

Continuiamo con la pubblicazione di testi alquanto interessanti riguardanti l’approccio al “politico” del pensiero liberale “forte” in contrapposizione e critica al pensiero liberale “debole” ancora nettamente predominante, se pure in crisi nella sua capacità persuasiva. Il discrimine tra le due varianti riguarda appunto l’atteggiamento verso e l’analisi della funzione del politico, inteso nella sua essenza e nella sua relazione con i diversi ambiti dell’agire umano. Il peso ancora minoritario della componente realista di questa corrente di pensiero è evidenziato dal misconoscimento dell’importanza, in particolare in Italia, di pensatori come Julien Freund e dalla demonizzazione e travisamento di altri come Carl Schmitt. Essa, la sua componente “realista” appunto, al contrario rientra a pieno titolo nell’alveo del dibattito sul conflitto strategico tra centri decisionali ripreso ed elaborato ultimamente in Italia da Gianfranco La  Grassa. E’ il nuovo punto di incontro e di confronto decisivo di varie correnti del pensiero politico cresciuto ed affermatosi nel ‘800 e nel ‘900 e ormai giunto ad una drammatica crisi delle proprie chiavi di interpretazione. Teodoro Klitsche de la Grange continua ad offrire da par suo il proprio contributo e ad alimentare il dibattito intrapreso pure da questa redazione, in particolare da Massimo Morigi e Luigi Longo. Buona lettura_Germinario Giuseppe

INTRODUZIONE ALLA “POLITICA COME  DESTINO”

  1. Quando un liberale italiano come Salvatore Valitutti si confronta con il pensiero di Carl Schmitt è inevitabile che accanto a ragioni di dissenso ve ne siano di apprezzamento, spesso critico, e non demonizzazione aprioristica.

E’ quanto capita in questo saggio, pubblicato prima su “Nuovi studi politici” nel 1976 e poi in libro insieme a un saggio di Karl Lövith su Schmitt (del 1935).

I punti principali della critica di Valitutti a Carl Schmitt, da un punto di vista liberale, sono tre.

Il primo è che la distinzione propria del “politico”, ovvero quella tra Amicus ed Hostis, la quale è come quelle di “buono e cattivo nel settore morale, di bello e brutto nell’estetico e di utile e dannoso nell’economico”, indipendente dalle altre e ad esse irriducibile. Cioè, come avrebbe sostenuto Freund, la politica è un’ “essenza”  (come l’etica, l’economia, l’estetica).

“La distinzione tra amicus ed hostis, di amico e nemico, (è) la estrema intensità di un legame o di una separazione…Amicus  è un gruppo di individui tenuto stretto e compatto dalla reciproca solidarietà determinata dal bisogno di difendersi, per sopravvivere, dall’Hostis. L’hostis  è hostis in quanto si contrappone al gruppo che gli è ostile, ma in se stesso è amicus.  La politica è perciò ostilità che divide e contrappone due gruppi ciascuno dei quali è amicus in se stesso, e cioè reso compatto contrapponendosi all’altro”, scrive Valitutti. I due gruppi hanno un senso dato dall’ostilità, che implica la possibilità di lotta armata. Da qui il rapporto necessario tra politica e guerra per cui se “Clausevitz scrisse che la guerra non è altro che una continuazione delle relazioni politiche con l’intervento di altri mezzi. Schmitt rovesciando la formula avrebbe potuto dire che la pace è la continuazione della guerra con l’intervento di altri mezzi”.

Schmitt, continua Valitutti, sente il bisogno di difendersi dell’accusa di una visione “guerrafondaia”. Lo fa realisticamente, spiegando che ciò consegue dall’ostilità (naturale in un pluriverso) “perché questa è la negazione essenziale di un altro essere”, affermazione che ricorda da vicino quella di Hegel sul nemico come differenza etica (in Schmitt esistenziale)[1]. Centrale, nel pensiero di Schmitt è, secondo Valitutti, il concetto di unità politica “soggetto della politica è il gruppo ma solo alla condizione che il gruppo realizzi una perfetta unità politica. L’essenza dell’unità politica consiste nell’esclusione del contrasto politico all’interno dell’unità stessa”. Ne consegue che “la teoria politica di Schmitt è una teoria monistica perché si basa sulla compattezza dell’unità politica”: una teoria pluralista diviene facilmente strumento di dissoluzione. Tuttavia se all’interno la concezione di Schmitt è monistica, all’esterno è pluralista[2].

Il secondo punto è il pessimismo antropologico.

Si fonda sulla concezione pessimistica dell’uomo, che è la medesima su cui si fonda la scriminante etica (buono, cattivo) e la possibilità di scegliere, cioè la libertà. Ma, scrive Valitutti “Schmitt nell’individuare nella malvagità dell’uomo la molla che fa scattare la politica come distinzione fra amico e nemico, non si avvede che giunge a mettere in crisi proprio   quella autonomia della politica, intesa come indipendenza dalle altre distinzioni esistenti, operanti nella vita umana…giungendo, come giunge, al presupposto  della malvagità umana   come condizione da cui scaturirebbe la necessità della politica, intesa come distinzione fra amico e nemico , egli riconduce la politica stessa proprio ad uno dei termini della coppia degli opposti che è la coppia della vita morale”.

Da ciò consegue la centralità dell’unità politica per comprenderne l’anti-liberalismo di Schmitt[3]. Questo è la “bestia nera” di Schmitt, secondo il quale ha dominato il secolo XIX. Il liberalismo combattuto da Schmitt è tuttavia un fantoccio polemico: “In questo fantoccio figurano lineamenti che appartengono al liberalismo storico ma che sono scissi da altri lineamenti essenziali dello stesso corpus di dottrine e di esperienze e che perciò appaiono deformati”[4]. Schmitt riconosce tuttavia che il liberalismo, come realtà storica, non è sfuggito né all’identificazione/designazione del nemico, né all’abolizione della guerra (perché impossibile)[5]. E Valitutti rileva che “Nella sua polemica contro il liberalismo Schmitt, credendo di incolparlo in realtà gli rende omaggio e comunque è nel vero anche quando sottolinea il rispetto del valore dell’autonomia delle varie forme dell’attività umana come un carattere distintivo del liberalismo” (il corsivo è mio)[6]. Peraltro Schmitt, partendo dal postulato dell’unità politica ha come obiettivo della di esso critica soprattutto il liberalismo sociale e associativo, che garantisce la società come “pluralità di legami sociali”. Ma così configura uno Stato che realizza continuamente “la sua unità come sintesi dialettica di differenti e congiunti centri di iniziativa. L’unità politica, secondo Schmitt, la quale ha la sua più perfetta espressione nello Stato, è viceversa un’unità monistica, immediata e immota”[7].

La distinzione amicus/hostis relativizza tutte le altre in quanto giunge a definire la distinzione politica come quella totale e totalizzante; “per cui Schmitt praticamente vanifica tutte le altre distinzioni. È l’unità politica che decide quello che è buono, bello e utile, e, in contrapposizione, quello che è cattivo, brutto e dannoso”. Il vizio di tale concezione è evidente: nel momento in cui la distinzione politica prevale sulle altre questa è non solo indipendente da quelle, ma superiore[8].

Nota poi Valitutti che tra le tante opposizioni il giurista di Plettemberg non ricorda mai quella di vero/falso[9]

Ovviamente, scrive Valitutti, in questa concezione la “volontà politica è regina assoluta”; onde è legittimo chiedersi “se egli si sia installato con tanta sicurezza e facilità nella sua teoria proprio in quanto è partito dalla preliminare negazione della realtà e del valore del pensiero teoretico”.

Valitutti prende in esame il saggio di Löwith su Schmitt pubblicato insieme al suo nel libro (da cui è tratto il saggio di Valitutti), scrivendo che Löwith attribuisce a Schmitt di credere “solo al valore della decisione per la decisione, cioè alla decisione come fine a se stessa”. Secondo Valitutti è più importante collocare storicamente la teoria di Schmitt tra “quegli atteggiamenti volontaristici e attivistici posti in essere nell’età post-hegeliana in contrapposizione alla tradizione del primato del pensiero teoretico, alcuni dei quali hanno rasentato o investito la stessa ragione deteriorandola o distruggendola”.

  1. Il saggio di Valitutti appare condizionato (v. la nota bibliografica pubblicata nello stesso volume e redatta dall’autore) dal riferirsi, praticamente nella totalità delle opere di Schmitt che cita, a quelle tradotte in italiano fin verso la metà degli anni ’70 del secolo scorso, ed ai saggi su Schmitt pubblicati in Italia nello stesso periodo. Questo fa si che le note critiche dell’autore a Schmitt non tengono conto né delle opere tradotte successivamente (la stragrande maggioranza di quanto scritto dal giurista di Plettemberg) né dei successivi interventi intorno al pensiero del medesimo. Il che non significa che Valitutti abbia travisato la teoria del pensatore renano; ma che la conoscenza di queste ne avrebbe permesso di “centrare meglio” contenuto, obiettivi e senso.

In primo luogo: è vero che il liberalismo considerato da Schmitt è un “fantoccio polemico”; ma lo è per due ragioni.

La prima, ancora diffusa, nelle sue declinazioni “post-moderne”, nell’Italia degli anni a cavallo dei due secoli, e anche attualmente (che è quella prevalente, anche nell’ambiente politico e culturale non italiano) secondo la quale, sintetizzandola al massimo, il liberalismo è quell’ideologia che: a) tutela i diritti fondamentali b) prescrive la distinzione dei poteri (alla Montesquieu) c) discute ogni proposta e soluzione nelle assemblee rappresentative e (soprattutto) nell’opinione pubblica d) tutela i diritti (prevalentemente) attraverso il potere giudiziario e) ritiene la decisione dei conflitti più opportuna se disposta da organi giudiziari.

Non tutti questi aspetti godono di un consenso unanime da parte dei (spesso sedicenti) liberali, ma buona parte si.

Ciò che rende particolarmente ficcante la critica di Schmitt a tale/i concezione/i è che da un lato vi manca un qualcosa che costituisca l’unità politica; dall’altro che il liberalismo è, a intenderlo in senso ideale, non un modo di costituire il potere, ma quello di limitarlo. Onde aspettarsi di costituire una sintesi politica senza un principio politico costitutivo è vano. Come scrive Schmitt citando Mazzini “sulla libertà non si costituisce nulla”.

Ne consegue, come scrive Schmitt nella Verfassungslehre[10], che “I principi della libertà borghese possono ben modificare e temperare uno Stato, ma da soli non fondano una forma politica… Da ciò segue che in ogni costituzione con l’elemento dello Stato di diritto è connesso e misto un secondo elemento di principi politico-formali[11].

Il liberalismo può modificare qualsiasi forma di Stato, facendolo diventare una monarchia o una democrazia liberale, ma non può eliminare il principio di forma politica su cui necessariamente lo Stato si basa. La costituzione dello Stato liberale è così necessariamente mista “nel senso che l’elemento in se autonomo e concluso dello Stato di diritto si unisce con elementi politico-formali”.

L’errore di credere che possa esistere una costituzione liberale “pura” senza politica, né soprattutto elementi di forma politica era già espresso nell’art. 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789: “Toute société dans laquelle la garantie des droits n’est pas assurée, ni la séparation des pouvoirs déterminée, n’a point de constitution”. Fu stigmatizzato già da de Bonald, che lo riprendeva dalle (entusiastiche) parole di adesione di M.me De Staël.

Scriveva de Bonald che chiedersi se uno Stato esistente ed esistente da secoli come la Francia, non avesse una Costituzione, è come domandare ad un arzillo ottuagenario se è costituito per vivere. Ciò perché, come avrebbero affermato circa un secolo dopo altri eminenti giuristi come Santi Romano, uno Stato esistente non ha, ma è una costituzione[12]. E lo stesso faceva Schmitt nel distinguere il concetto assoluto di costituzione come “concreto modo di esistere che è dato spontaneamente con ogni unità politica esistente[13] e la cui forma “indica qualcosa di conforme all’essere uno status e non qualcosa di conforme ad un principio giuridico o di normativamente dovuto”[14]. Tuttavia “per motivi politici è spesso indicata come «vera» o «pura» costituzione solo ciò che corrisponde ad un determinato ideale di costituzione”[15]. Ma ritiene il giurista di Plettemberg “Una costituzione che non contenesse altro che queste garanzie dello Stato borghese di diritto, sarebbe impensabile; giacché lo Stato stesso, l’unità politica, ossia ciò che è da controllare, deve pur esistere ovvero al tempo stesso essere organizzato”[16].

I due elementi, quello politico e quello dei principi dello Stato di diritto, sono sempre congiunti e presenti[17].

Dove si constata la “prevalenza” dell’elemento politico su quello dello Stato borghese di diritto è nella disciplina dello Stato di eccezione con la sospensione, deroga, rottura della normativa costituzionale[18] … “In questi casi si mostra assai chiaramente che il moderno Stato costituzionale nella sua struttura è composto di due diversi elementi: di una serie di intralci al potere statale propri dello Stato borghese di diritto e di un sistema – sia esso monarchico o democratico – di attività politica”[19].

Nelle emergenze l’elemento politico (il potere costituito) sospende la normativa del bürgerliche rechtstaat, così come Jhering sosteneva che, nelle crisi gravi la forza “sacrificherà il diritto per salvare la vita”[20].

Ciò che distingue la disciplina dello “stato d’eccezione” dello Stato borghese da quello di altre sintesi politiche è l’accurata distinzione tra situazione normale  ed eccezionale, che in altri regimi è assente o sfumata. Laddove la sovranità è attribuita al vertice politico (al principe) vale il principio ulpianeo quod principi placuit legis habet vigorem applicabile ad ogni situazione contingente (quindi anche dell’emergenza); nello Stato liberal-democratico (o borghese secondo la terminologia preferita da Schmitt) i presupposti, (in parte) la normativa relativa all’eccezione, e le sanzioni per l’inosservanza sono regolate dalla Costituzione. Una norma, regolarmente votata dal Parlamento in uno Stato liberale democratico a forma di governo parlamentare che violasse la Costituzione, sarebbe annullata dal Giudice costituzionale (generalmente) istituito in tali forme di Stato. In una monarchia assoluta o in una dittatura sovrana, no. Come sostenuto da Agamben al riguardo “In ogni caso è importante non dimenticare che lo stato di eccezione moderno è una creazione della tradizione democratico-rivoluzionaria e non di quella assolutista”[21].

[1] Per una esposizione più articolata e diffusa v. Hegel Sistem der sittlichkeit ora in “ Il dominio della politica” trad. it. di  N.Merker, Roma 1980 p. 174 ss.

[2] “Il monismo all’interno presuppone il pluralismo all’esterno. Il mondo politico – afferma Schmitt – è un pluriversum, non un universum, L’unità politica presuppone la reale possibilità  del nemico, e quindi almeno un’altra unità politica coesistente. Il mondo politico è perciò il coesistere e il competere di differenti e contrapposte unità politiche”.

Sviluppando poi il primo aspetto, Valitutti rileva “Il carattere mistico dell’unità politica nel pensiero di Schmitt è comprovato dall’assoluta negazione del suo carattere associativo”; non c’è alcuna società, ma solo comunità politica. Anche quando alla nascita un’unità politica ha carattere associativo (come nella federazione), diviene subito esclusiva e totalizzante.

 

[3] “La prima e più consistente ragione del tenace e veemente antiliberalismo di Schmitt è da ricercare e da ravvisare nel posto che occupa nel suo pensiero il concetto di unità politica. Quanto meno è in questo concetto che si annodano e si saldano tutti i motivi del suo antiliberalismo”

[4] Sostiene Valitutti che i suoi padri (secondo Schmitt) sono soprattutto Spencer e Constant “Per Schmitt il liberalismo è puro individualismo, in quanto avrebbe solo e sempre presente come principio e fine del suo processo logico l’individuo”. Il fatto che, secondo il giurista di Plettenberg il liberalismo si muove tra le polarità dell’etica e dell’economia “non gli fa sorgere il dubbio che un pensiero politico che affonda sia pure in parte le sue radici nel concetto del primato dell’etica non possa rimanere relegato nel mero individualismo”

[5] Il problema consiste che, nella sua dimensione/aspirazione ideale “il liberalismo concepisce la realtà come gara e lotta, gara che sul piano spirituale si svolge come discussione, cioè come lotta tra idee, e sul piano economico come concorrenza, lotta e concorrenza eterne che non debbano mai diventare sanguinose, cioè degenerare in ostilità”.

[6] Aggiunge che Schmitt “individua esattamente quello che è il maggiore sforzo logico in cui si travaglia quella concezione della realtà a cui si ricollega il liberalismo politico nel secolo XIX, cioè lo sforzo inteso a distinguere le varie forme dell’attività spirituale e della vita umana per fondarne e salvaguardarne l’autonomia e insieme la connessione

[7] Per cui Schmitt concepisce l’unità politica come “decisiva, sovrana e totale”.

Questa unità, che storicamente, nella modernità si costituisce in Stato, considera tutto, potenzialmente, come politico “il decidere se una faccenda o un genere di cose sia apolitico è una decisione specificatamente politica, Perciò non c’è nulla che per virtù propria sia distinto dalla politica. Anche il non politico è una qualificazione attribuibile dalla decisione politica”.

[8] Tuttavia a leggere Der hüter der Verfassung, trad it. di A. Caracciolo Il Custode della costituzione, Milano 1981 p. 115 ss, si ridimensiona tale giudizio di Valitutti. Scrive Schmitt quanto alla situazione costituzionale del XIX secolo e la diversa nella Repubblica di Weimar che in quella la sua struttura “fondamentale è stata riassunta dalla grande  dottrina tedesca dello Stato di questo periodo in una formula chiara ed utile: la distinzione fra Stato e società” onde “ Esso era abbastanza forte per confrontarsi autonomamente con le restanti forme sociali e quindi per determinare da sé il raggruppamento, cosicchè tutte le numerose differenze all’interno della società … erano relativizzate e non impedivano la comune considerazione in seno alla «società». Ma per altro verso esso si manteneva in una posizione di ampia neutralità e di non-intervento nei confronti della religione e dell’economia e “ripettava in notevole misura l’autonomia di questi ambiti di vita e di interessi; cioè, esso non era assoluto e non così forte nel senso che avrebbe reso privo di importanza tutto il non-statuale” mentre con Weimar “adesso lo Stato diventa l’ «auto-organizzazione della società». Perciò cade, come menzionato, la distinzione finora sempre presupposta di Stato e società” e così “la società che si organizza da sé in Stato passa dallo Stato neutrale del liberale secolo XIX ad uno Stato potenzialmente totale. La potente svolta può essere interpretata come parte di uno sviluppo dialettico, che si svolge in tre stadi: dallo Stato assoluto del XVII e XVIII secolo attraverso lo Stato neutrale del liberale secolo XIX allo Stato totale dell’identità di Stato e società”.

[9] “Se Schmitt avesse salvaguardata la coppia di vero e falso avrebbe dovuto ammettere la distinzione tra la teoria e pratica e proprio questa distinzione gli avrebbe creato non superabili difficoltà nella teorizzazione della totalità politica. Egli è potuto giungere al suo mostruoso concetto della totalità politica sul presupposto della negazione dell’attività teoretica come attività distinta e autonoma dello spirito umano”.

[10] V. trad. it. dr. A. Caracciolo La dottrina della Costituzione, Giuffrè Editore, Milano 1984.

[11] Op. ult. cit., p. 265 (il corsivo è mio).

[12] Nel criticare l’opinione che Stati costituzionali siano solo quelli rappresentativi (cioè a “regime libero”) scrive “Ogni Stato è per definizione, come si vedrà meglio in seguito, un ordinamento giuridico, e non si può immaginare, quindi, in nessuna sua forma fuori del diritto… Uno Stato «non costituito» in un modo o in un altro, bene o male, non può avere neppure un principio di esistenza, come non esiste un individuo senza almeno le parti principali del suo corpo” Principi di diritto costituzionale generale, Milano 1947, p. 3.

[13] Op. ult. cit., p. 16.

[14] Op. ult. cit., p. 17 e prosegue “Anche qui sarebbe più esatto dire che lo Stato è una costituzione; è una monarchia, un’aristocrazia, una democrazia, una repubblica dei Soviet, e non ha soltanto una costituzione monarchica, ecc. La costituzione è qui la «forma delle forme», forma formarum”.

[15] Op. ult. cit., p. 58 e poche pagine dopo scrive “Nello sviluppo storico della costituzione moderna si è affermato un particolare concetto ideale con tale successo che dal XVIII sec. Sono indicate come costituzioni solo quelle costituzioni che corrispondono alle richieste della libertà borghese e contengono determinate garanzie di questa libertà” p. 60, per cui la Costituzione è un “sistema di garanzia della libertà borghese” onde come “costituzioni liberali, che meritino il nome di «costituzione», sono considerate solo quelle costituzioni che contengono alcune garanzie della libertà borghese” (p. 61).

[16] Op. ult. cit., p. 64 e aggiunge “Le costituzioni degli attuali Stati borghesi sono perciò composte sempre di due elementi: da un lato i principi dello Stato di diritto posti a difesa della libertà borghese contro lo Stato, dall’altro l’elemento politico, dal quale si deve dedurre la vera forma di Stato (monarchia, aristocrazia, democrazia o «status mixtus»). Nel collegamento di questi due elementi si trova la caratteristica delle odierne costituzioni dello Stato borghese di diritto”.

[17] È da considerare nei rapporti tra democrazia e liberalismo il giudizio di M. Alessio che “Schmitt insomma distingue troppo rigidamente democrazia e liberalismo, senza pensare che quest’ultimo può attecchire solo su di un terreno già preparato politicamente. Il liberalismo contemporaneo è una derivazione della democrazia moderna, ed è dunque su di essa che bisognerebbe puntare dapprima l’attenzione”. Democrazia e liberalismo (lo status mixtus) sono uniti nella modernità in concreto da un ethos comune, v. Carl Schmitt Democrazia e liberalismo, Milano 2001, p. 8 (introduzione di M. Alessio).

[18] La costituzione in senso proprio, scrive Schmitt “cioè le decisioni politiche fondamentali sulla forma di esistenza di un popolo, ovviamente non può essere temporaneamente abrogata, ma – proprio nell’interesse del mantenimento di queste decisioni… possono esserlo la normative legislative costituzionali generali emanate per la sua attuazione. In particolare, ci sono le normative tipiche dello Stato di diritto poste a protezione della libertà borghese, che sono soggette ad una sospensione temporanea…Nei turbamenti della sicurezza e dell’ordine pubblico, in tempi di pericolo come una guerra e durante una rivolta, sono sospese le limitazioni legislative costituzionali. Op. cit., p. 154.

[19] Op. loc. cit..

[20] R. Von Jhering Der Zweck im Recht trad it. Di M. G. Losano, Torino 1972 p. 184 ss.. È interessante ricordare per sommi capi, la concezione di Jhering “Il diritto non è quanto di più elevato vi sia al mondo, non è fine a se stesso, ma è soltanto un mezzo diretto ad un fine, ed il suo fine ultimo è l’esistenza della società. Se si riscontra che, nella situazione giuridica attuale, la società non è in grado di esistere, se il diritto non è in grado di venirle in aiuto, interviene la forza a compiere ciò che è necessario: nella vita dei popoli e degli stati prende così forma lo stato di emergenza. Nello stato di emergenza, il diritto vien meno tanto nella vita dell’individuo quanto anche nella vita dei popoli e degli stati” e poiché “al di sopra del diritto è la vita; e se ls asituazione concreta è quella da noi ipotizzata – cioè una situazione di emergenza politica riducibile all’alternativa; o il diritto o la vita – non vi possono essere dubbi sulla decisione da prendere: la forza sacrificherà il diritto per salvare la vita” e prosegue “ Abbiamo così individuato il punto in cui il diritto sfocia nella politica e nella storia: qui il giudizio del politico, dell’uomo di stato e dello storico deve sostituirsi a quello del giurista, che giudica soltanto alla stregua del diritto positivo” … “Se non ci si fanno scrupoli nell’usare il termie “diritto” in questo senso, potremmo qui parlare di un diritto eccezionale della storia, che in linea di principio rende praticamente possibile l’esistenza del diritto e, sporadicamente, il raffiorare della forza della sua missione e funzione storica originaria, cioè come fondatrice dell’ordinamento e creatrice del diritto” op. cit. p. 185 ss.

[21] G. Agamben, Stato d’eccezione Torino 2003, p. 14; e l’affermazione è ripetuta “Lo stato di eccezione si presenta anzi in questa prospettiva come una soglia di indeterminazione fra democrazia e assolutismo” idem p. 11.

SCHEDA DEL LIBRO OGGETTO DI CRITICA

SCHEDA de “LA POLITICA COME DESTINO”

Originariamente pubblicato nella rivista “Nuovi studi politici” nel 1976 e quindi in un volume contenente anche uno scritto di Karl Lowith nel 1978, La politica come destino di Salvatore Valitutti torna oggi nuovamente nelle librerie italiane per i tipi della Liberilibri.

Valitutti, pur da liberale e con atteggiamento critico, accanto alle ragioni di dissenso riuscì ad intuire l’incisività e la validità di alcune intuizioni di Carl Schmitt.

Pubblichiamo pertanto per la gentile concessione della Società Liberilibri e dell’autore, il saggio introduttivo di Teodoro Klitsche de la Grange al libro di Salvatore Valitutti.

FIAT IMPERIUM PEREAT HOSTIS: LE IPOSTATICHE ILLUSIONI DELLA DEMOCRAZIA RAPPRESENTATIVA, di Massimo Morigi

FIAT IMPERIUM PEREAT HOSTIS: LE IPOSTATICHE ILLUSIONI DELLA DEMOCRAZIA RAPPRESENTATIVA FRA NORMATIVISMO, ISTITUZIONALISMO, DECISIONISMO E REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO (TERZA RECENSIONE CUMULATIVA A TEODORO KLITSCHE DE LA GRANGE)

 

 

Di Massimo Morigi

 

 

Nella pubblicistica e saggistica politologica accade assai di rado – purtroppo – che quello che dovrebbe essere il livello dell’analisi si riesca ad incontrare con la teoresi attorno ai valori da cui questa analisi dovrebbe prendere l’avvio. Stiamo parlando, come si sarà ben compreso, del problema dell’avalutatività, il quale se già si presentava nella versione datane da Max Weber, con la sua soluzione che assegnava al valore la sola funzione di focalizzazione dell’oggetto della ricerca per poi pretendere di lasciare del tutto al di fuori dalla dialettica del valore lo svolgimento concreto della ricerca stessa, assolutamente insoddisfacente, profondamente inficiata da ingenuo positivismo e quindi assurdamente dimentica della consapevolezza dialettico-olistica hegeliana della distinzione fra intelletto e ragione (fra Verstand e Vernunft) e della, in ultima analisi, assoluta preminenza gerarchica della ragione che se pur contempla, per beneficio operativo di sviluppo del discorso e/o dell’indagine, le rigide suddivisioni categoriali (e quindi una iniziale separazione fra valori e fatti), riesce (e deve riuscire) a superare poi questa divisione puramente pratica e tecnico-procedurale iniziale in una visione d’insieme in cui l’ideale punto di riferimento è una totalità che si esprime sì per sintesi dialettiche ed anche contrappositive (distinzione hegeliana fra Verstand e Vernunft) ma che nella sua sostanzialità è una e indivisa (e quindi in grado di essere colta sola dalla Vernunft), nella versione ulteriormente degradata datane oggi dagli attuali cantori delle «magnifiche sorti e progressive» del mondo liberal-liberista presenta tratti addirittura ridicoli ed indecenti.

Gli ultimi interventi che Teodoro Klitsche de la  Grange ha offerto ai lettori dell’ “Italia e il mondo”, oltre a confermare l’assoluto valore di questo giuspubblicista filosofo politico che si sostanzia in una teoresi distante milioni di anni luce dall’avalutatività weberiana  (e ovviamente distante miliardi di anni luce dall’ avalutatività degli odierni pennivendoli  liberal-liberisti), per una felice occasione si prestano pure egregiamente per guidarci alla comprensione integrale, e quindi, dialetticamente effettuale e valoriale al tempo stesso, delle ultime vicende della politica italiana che hanno visto l’assunzione alle massime responsabilità governative  delle cosiddette forze populiste e sovraniste. Veniamo quindi al primo intervento del La Grange preso in esame dalla presente nuova  recensione sul Nostro, Su Hegel e la virtù (URL: http://italiaeilmondo.com/2018/05/07/su-hegel-e-la-virtu-di-teodoro-klitsche-de-la-grange/, http://www.webcitation.org/6zQNXC3Bw e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2018%2F05%2F07%2Fsu-hegel-e-la-virtu-di-teodoro-klitsche-de-la-grange%2F&date=2018-05-14), che a differenza di quanto suole fare solitamente La Grange, tralascia il discorso precipuamente giuridico per focalizzarsi su un’analisi linguistica del degrado semantico del lessico della politica. Nello specifico La Grange, sulla scorta della Fenomenologia dello spirito di  Hegel, ci mostra il terribile degrado che nella modernità politica ha subito la parola ‘virtù’:

 

«In effetti il filosofo nota due cose, spesso ripetute nei secoli successivi; la prima che la virtù esternata dai moderni è per lo più “Pomposo discorrere del sacrificio per il bene e dell’abuso delle doti; simili essenze e fini ideali si accasciano come parole vuote che rendono elevato il cuore e vuota la ragione; simili elevate essenze edificano, ma non costruiscono, sono declamazioni che con qualche determinatezza esprimono soltanto questo contenuto: che l’individuo il quale dà ad intendere d’agire per tali nobili fini e ha sulla bocca tali frasi eccellenti, vale di fronte a se stesso come un’eccellente essenza, ma è invece una forzatura che fa grossa la testa propria e quella degli altri, la fa grossa di vento… Ma la virtù da noi considerata è fuori della sostanza, è priva di essenza, è una virtù soltanto della rappresentazione, virtù di parole prive di qualunque contenuto… La nullità di quella chiacchiera sembra essere divenuta certa anche per la cultura del nostro tempo, sebbene in modo inconsapevole; giacché dall’intera massa di quelle frasi e dal vezzo di farsene belli è dileguato ogni interesse, il che trova la sua espressione nel fatto ch’esse producono soltanto noia”. Il secondo è che, di converso “La virtù antica aveva il suo significato preciso e sicuro, perché possedeva un suo fondamento pieno di contenuto nella sostanza del popolo e si proponeva come fine un bene effettuale già esistente; e perciò non era rivolta contro l’effettualità (intesa) come una universale inversione, né contro un corso del mondo” (Fenomenologia dello spirito, trad. it. di E. De Negri, Firenze 1973 pp. 323-324).»

 

Due osservazioni in merito a questo ragionamento del La Grange. Prima osservazione. Se è evidente sullo sfondo, seppur non citato, il saggio di Benjamin Constant De la liberté des Anciens comparée à celle des Modernes, qui La Grange, sulla scorta di Hegel, compie un’inversione a U rispetto allo spirito del saggio del Constant, perché laddove la De la liberté des Anciens afferma a chiare lettere che la democrazia dei moderni, cioè quella che già allora aveva preso le forme della democrazia rappresentativa, è preferibile a quella degli antichi perché questa, a differenza di quella nata nel mondo classico, lascia la libertà ai cittadini di occuparsi dei propri affari privati e, attraverso il meccanismo della delega, affida l’onere di occuparsi degli affari pubblici ad un ristretto gruppo di rappresentanti elettivi, La Grange, al contrario, afferma che i moderni (cioè, traduciamo noi, ma pensiamo proprio di non forzare il suo pensiero: coloro che sono immersi nell’attuale modernità politica della democrazia rappresentativa) sono stati vittime di un profondissimo degrado semantico del linguaggio politico. E la questione del degrado semantico del linguaggio della politica, è particolarmente pesante, solo che limitiamo la nostra attenzione, come fa La Grange,  alla parola “virtù” e alla famiglia semantica che attorno a questa si aggrega, soffermandoci alla cronaca politica italiana di questi ultimi anni: il decreto salva-Italia faceva appello alla virtù del sacrificio degli italiani e l’opposizione attuale contro i “populisti” e i “sovranisti” fa sempre appello neppure tanto celatamente alla stessa virtù al sacrificio economico e sociale della popolazione del nostro paese per poter consentire all’Italia di rimanere nel novero dei paesi UE e dell’area Euro. Apparentemente nihil sub sole novi ma solo che facciamo mente locale ai sacrifici che si chiedevano ai cittadini e alle popolazioni delle polis del mondo classico, specialmente se guardiamo alla Grecia nelle sue guerre antipersiane e durante la guerra del Peloponneso, vediamo che questa richiesta al sacrificio non poggiava, come negli ultimi anni in Italia, su una pretesa virtù di sopportazione e di rassegnazione ad essere le vittime designate delle imperscrutabili leggi economiche, ma che questo sacrificio altro non doveva significare che la capacità di mostrare il proprio valore attivo, cioè la propria virtù, cioè la propria abilità di guerriero,  nel corso della guerra, una guerra che poteva sì essere letale per il singolo ed anche per la comunità ma che doveva essere condotta e vissuta non con la virtù pecorile del gregge rassegnato e predestinato alla mattanza ma con l’orgoglio di mostrare alla proprio comunità e al mondo intero il proprio immortale valore (immortale non perché conferisca al combattente una sorta di invulnerabilità fisica ma perché questo valore, nella sua sublime e monumentale grandezza, sarà ricordato per l’eternità dalla migliaia di generazioni che verranno dopo di noi  e da tutte le altre comunità umane presenti e future che animeranno la scena del mondo: cfr. a questo proposito, il discorso funebre di Pericle nella Guerra del Peloponneso di Tucidide: «Essi furono, dunque, di quella tempra che l’onore di Atene richiedeva: tutti gli altri devono augurarsi una decisione più fortunata sì, ma non meno audace e indomabile volerla di fronte ai nemici, avendo di mira non soltanto a parole il bene dello stato (ognuno potrebbe di fronte a voi, che pur non ne siete all’oscuro, dilungarsi molto ad enumerare tutti i vantaggi che la vittoriosa resistenza ai nemici comporta), ma piuttosto di giorno in giorno contemplando, in fervore d’opere, la grandezza della nostra città, che deve essere oggetto del vostro amore. E quando essa veramente grandeggi davanti alla vostra immaginazione, pensate che tale la fecero uomini dal cuore saldo e dall’intelligenza pronta al dovere, sorretti nelle imprese dal sentimento dell’onore: e se mai, alla prova, talvolta fallirono, non ritennero di dover defraudare la città almeno del loro valore; anzi le offersero, prodighi, il più splendido contributo. Facendo nell’interesse comune sacrificio della vita, si assicurarono, ciascuno per proprio conto, la lode che non invecchia mai e la più gloriosa delle tombe; non tanto quella in cui giacciono, quanto la gloria che resta eterna nella memoria, sempre e ovunque si presenti occasione di parlare e di agire. Per gli uomini prodi, infatti, tutto il mondo è tomba e non è solo l’epigrafe incisa sulla stele funebre nel paese loro che li ricorda; ma anche in terra straniera, senza iscrizioni, nell’animo di ognuno vive la memoria della loro grandezza, piuttosto che in un monumento. Ora, dunque, proponetevi di imitarli e, convinti che la felicità sta nella libertà e la libertà nell’indomito coraggio, non fuggite i rischi della guerra.»: Tucidide, Orazione funebre di Pericle, in Guerra del Peloponneso,  II, 34-36).

Seconda osservazione. Quando La Grange attraverso Hegel ci fa notare che «La virtù antica aveva il suo significato preciso e sicuro, perché possedeva un suo fondamento pieno di contenuto nella sostanza del popolo e si proponeva come fine un bene effettuale già esistente; e perciò non era rivolta contro l’effettualità (intesa) come una universale inversione, né contro un corso del mondo», non solo ribadisce l’anzidetto degrado semantico del linguaggio della vita pubblica ma compie un’operazione genealogica su questo degrado suggerendoci che esso ha avuto luogo in seguito all’affermarsi del giusnaturalismo prima e dell’illuminismo poi che, al netto della positiva funzione storica che hanno avuto nella storia politica dell’Occidente, hanno anche avuto la non leggera pecca di introdurre una mentalità universalistica nell’agire politico dell’uomo, una mentalità universalistica che, al contrario che nell’antichità classica, fa sì che l’azione dell’uomo di deprivi di finalità e contenuti concreti ed effettuali ma si metta all’inseguimento di fantomatici obiettivi universali(stici) validi per ogni tempo ed ogni luogo. Sullo sfondo di questa impostazione lagrangiana sul decadimento semantico delle parole della politica, che se vogliamo strettamente attenerci alla nostra modernità politica, ha la sua origine nel giusnaturalismo prima e nell’illuminismo poi, sta sicuramente Edmund Burke e le sue Reflections on the Revolution in France, dove i diritti universalistici che giungevano dalla Francia rivoluzionaria vengono paragonati dal Burke ad orridi e surreali fantocci ripieni di segatura incapaci di apportare il minimo contributo positivo alla vita politica e sociale dell’Inghilterra:

 

«In England we have not been completely emboweled of our natural entrails; we still feel within us, and we cherish and cultivate, those inbred sentiments which are the faithful guardians, the active monitors of our duty, the supporters of al liberal and manly morals. We have not been drawn and trussed, in order that we may be filled, like stuffed bird in a museum, with chaff and rags, and paltry, blurred shreds about the rights of man» (Edmund Burke, Reflections on the revolution in France and on the proceedings in certain societies in London, relative to that event in a letter intended to have been sent to a Gentleman in Paris, London, 1790, p. 109).

 

Burke era un feroce antirivoluzionario, la qual cosa non si può certo dire di Hegel, ed è evidentemente la profonda mentalità storicistica di La Grange, che fa preferire al Nostro, nella sua argomentazione antiuniversalistica nel campo della politica un autore che salutò la rivoluzione francese, nonostante i suoi truculenti eccessi e le sue stupidaggini universalistiche sui diritti dell’uomo e del cittadino, come una grande tappa nel progresso dell’umanità, anziché, come il Burke, come il trionfo degli istinti più  bestiali e belluini.

Ma non essendo questa la sede per fare il processo sulla gerarchia ideale nella  galleria  dei suoi autori di riferimento – anche perché, esplicitamente o implicitamente, assolutamente chiari e perspicui – meglio è cercare di mettere a fuoco come La Grange concretamente articoli nella storia della teoresi politica questo degrado universalistico che nella modernità politica occidentale ha inizio col giusnaturalismo (volendo risalire a ritroso si potrebbe dire col cristianesimo ma il cristianesimo si sviluppò in un mondo classico già in exitu e precedentemente portato a consunzione dalla dimensione di massa – e quindi di estremo degrado dei costumi e della virtù – della romanità imperiale ed ebbe anche nel basso medioevo come principale filosofia di appoggio  la meravigliosa fioritura del  tomismo, del quale tutto si può dire tranne che fosse una filosofia antidialettica, nichilistica e dissolvente del legame sociale come il giusnaturalismo e l’illuminismo: insomma il crociano Perché non possiamo non dirci “cristiani”, inteso non in senso fideistico-confessionale ma nel senso della necessità di un approccio dialettico verso la Totalità, ha ancora molto da insegnare anche all’attualmente declinante cultura rivoluzionaria).

E in questa messa a fuoco, fondamentale si rivela la grandissima maestria di dottrina giuridica e giuspubblicistica del La Grange. In  Istituzione, norme, valori e nuove forme di ostilità  (URL: http://italiaeilmondo.com/2018/05/13/istituzione-norme-valori-e-nuove-forme-di-ostilita-di-teodoro-klitsche-de-la-grange/,http://www.webcitation.org/6zQO3Tp2U e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2018%2F05%2F13%2Fistituzione-norme-valori-e-nuove-forme-di-ostilita-di-teodoro-klitsche-de-la-grange%2F&date=2018-05-14), La Grange indica chiaramente che il nemico da battere sul piano della mentalità politica universalistica non sono tanto (o non solo) le basse retoriche politiche ammannite alla masse delle democrazie rappresentative (ma dal punto di vista del Repubblicanesimo Geopolitico sarebbe meglio dire: delle oligarchie elettive) ma, in primo luogo – e appena appena nascosta  e all’ombra di queste retoriche – una particolare dottrina giuridica, quella particolare dottrina giuridica che va sotto il nome di normativismo, e che vide in Hans Kelsen il suo principale esponente nel Novecento:

 

«In tutti e tre i giuristi [Maurice Hauriou,  Carl Schmitt e  Santi Romano, ndr] la preoccupazione (e la critica) principale al normativismo era di ridurre il diritto a qualcosa di astratto, avulso dalla sua (principale) funzione: regolare effettivamente  ed efficacemente la vita sociale. L’obbiettivizzazione si realizza non – o non solo –  in un corretto ragionamento logico,  con il quale un determinato fatto o azione è sussunta alle norme che la disciplinano; ma piuttosto nel fatto che la normativa vigente sia generalmente applicata e osservata sia dai cittadini che dai pubblici funzionari. Far rispettare la legge, creare e mantenere a tal fine una situazione normale, richiede autorità e consensopotenza  ed  efficaciacomando obbedienza, più che sillogismi ed implicazioni. Espungendo, come fa il normativismo, il problema (in sé distinto) dell’applicazione delle norme e della loro effettiva vigenza nell’ambito sociale, (perché “sociologico” e non riconducibile alla Reine rechtslehre), e separandolo da quello dello jus dicere, la purezza e l’astrattezza del medesimo risultano tali solo perché sottraggono al diritto gran parte del suo ambito (e delle sue problematiche). Così l’oggettività di una corretta applicazione delle norme si riduce alla validità e correttezza di una operazione logica e intellettuale (verificabile in base a Barbara e Darii, cioè a parametri di rigore logico), mentre l’oggettività, per giuristi come  Hauriou, Schmitt e Romano, consiste nell’incidenza reale del diritto vigente sui comportamenti sociali. Se questa è consistente il diritto ( e l’istituzione) è oggettivizzata; se scarsa e  episodica, non lo è.»

 

Quando in occasione della formazione del governo giallo-verde, il Presidente della Repubblica ha ritenuto di non dover accettare la nomina di Paolo Savona a ministro dell’economia adducendo esplicitamente come spiegazione il fatto che Savona veniva ritenuto dal Presidente della Repubblica una minaccia per la permanenza dell’Italia nell’UE e nell’ Euro, permanenza ritenuta dal Presidente irreversibile e quindi, de facto, come l’elemento più importante della costituzione materiale dell’Italia, si è intravvisto, avvolto ad occhi non allenati da una fitta nebbia ma chiaramente profilato da chi dotato di un’acuta visione potenziata da potenti strumenti come quelli forniti dal La Grange, l’inquietante profilo del normativismo, normativismo per il quale la norma giuridica è una creazione a sé stante e che nulla dovendo a tutto il resto della totalità storica, sociale e culturale, basa unicamente la giustificazione della sua esistenza al mondo ed il diritto di imporre obbedienza unicamente sulla  kelseniana Grundnorm, la norma che sta alla base di tutte le altre: e nel caso di cui stiamo parlando questa Grundnorm altro non è che la permanenza dell’Italia nell’UE e nell’Euro. Ma questa staticità del pensiero (e, soprattutto, della pratica) istituzionalista oltre ad immobilizzare nell’immediato non solo  la vita politica e sociale e anche a negare la natura umana che proprio in una decisionistica strategicità totalmente rifiutante ogni ipostatizzazione modello Grundnorm trova la sua più intima dialettica teleologia, a lungo andare altro non fa che pavimentare la strada per violenti e micidiali scontri:

 

«Vale cioè per i valori – anche se parzialmente – una delle critiche che i giuristi istituzionalisti rivolgono al normativismo: d’essere cioè da un canto estremamente statico, e dall’altro di sostituire il potere di dominazione dello Stato con quello di un “imperativo categorico, che equivale ad un ordine sociale essenzialmente coattivo” (M. Hauriou, Précis de droit constitutionnel, Paris, 1929, p. 11). Hauriou con questo, in sostanza, contrapponeva la stabilità dell’istituzione (cioè il mutare pur conservando forma ed elementi fondamentali), alla staticità di un sistema normativo impersonale. Nella prima l’essenziale  dura, mentre l’elemento secondario (le norme) mutano; se si è, di converso, conseguenti alla seconda ne risulta o un ordinamento statico – e perciò poco adatto alla vita – o, al limite, di dover applicare le norme anche al prezzo della fine dell’istituzione. Adeguandosi così al detto fiat justitia, pereat mundus, ch’è proprio quanto rifiutato da tanti giuristi e filosofi, da Jhering ad Hegel, da Machiavelli a Santi Romano.»

 

Conseguenza ultima quindi di una mentalità che ragioni lungo schemi istituzionalistici è il fiat iustitia, pereat mundus ma noi, volendo declinare dal punto di vista del Repubblicanesimo Geopolitico lo spirito di Istituzione, norme, valori e nuove forme di ostilità,  possiamo anche dire fiat imperium, pereat hostis perché l’espulsione del ‘politico’ dalla polis non ottiene il risultato che il nemico diviene amico o si dissolve come neve al sole morendo di morte naturale, come ingenuamente credono i liberal-liberisti animati dalla fede nella Grundnorm della prevalenza del “tecnico” e/o dell’ “economico” sul “politico”, ma, molto più semplicemente, che il nemico  non è più un nemico politico ma il  nemico totale ed assoluto di una fantomatica umanità perfetta (e quindi, in ultima analisi, da eliminare e sterminare manu militari e non da battere, invece, attraverso una politica e strategica azione per conseguire una gramsciana egemonia all’interno della società), umanità perfetta che identifica la propria azione nel religioso rispetto di una Grundnorm e/o di qualche suo ridicolo succedaneo (nel caso del Presidente della Repubblica italiana il risibile succedaneo è l’UE e l’Euro).

Che l’annullamento del “politico” e la sua sostituzione con un qualsiasi ipostatizzato marchingegno universalistico, ultimo e più pericoloso dei quali il normativismo  perché apparentemente svincolato dalla “pappa del cuore” dei diritti universali dell’uomo ma strettamente affine a questi sia per la comune genealogia storica giusnaturalista, illuminista ed infine positivista sia perché, sul piano logico, trattasi della più grande e scaltrita ipostasi politico-giuridica che mente umana abbia mai concepito, siano pronubi al peggior disordine e alla peggiore violenza è cosa che Carl Schmitt aveva ben presente e si può dire che questa consapevolezza costituisca l’alfa e l’omega di tutto il suo miglior pensiero.

E come aveva correttamente rappresentato sempre Schmitt, questo “politico” trova le sue radici nel  formarsi della decisione sulla scelta dell’amico e del nemico e dal conseguente costituirsi di un campo conflittuale all’interno della società. (Per i classici del pensiero schmittiano riguardo al decisionismo e per la distinzione amico/nemico si rimanda, ovviamente, a  Carl Schmitt, Politische Theologie. Vier Kapitel zur Lehre von der Souveränität, München-Leipzig, Duncker & Humblot, 1922;  trad. it. Teologia politica: quattro capitoli sulla dottrina della sovranità, in Le categorie del “politico”, a cura di Gianfranco Miglio e Pierangelo Schiera, Il Mulino, Bologna, 1972 e a Carl Schmitt, Der Begriff des Politischen, in “Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik”, a. LVIII, n. 1, 1927, pp. 1-33).

Tuttavia, concomitante con l’ingresso di Carl Schmitt nel partito nazista (Carl Schmitt entrò ufficialmente nel partito nazista nella primavera del 1933: il 1° maggio 1933 gli fu intestata la tessera 2.098.860 del NSDAP),  prendeva forma un percorso teorico di Schmitt che lo avrebbe allontanato dall’originario Dezisionismus per farlo rapidamente approdare al konkrete Ordnungsdenken, che è la versione schmittiana dell’istituzionalismo di Maurice Hauriou e Santi Romano. Il lavoro che segna questa svolta istituzionalista  di Carl Schmitt è Über die drei Arten des rechtwissenschaftlichen Denkens del 1934 (Carl Schmitt, Über die drei Arten des rechtwissenschaftlichen Denkens, Hanseatische Verlagsanstalt, Hamburg, 1934; trad. it. – ma parziale – I tre tipi di pensiero giuridico, in Le categorie del “politico” cit., pp. 245-275) e in Istituzione, norme, valori e nuove forme di ostilità  Teodoro Klitsche De La Grange così ci dà conto di questo fondamentale passaggio nella produzione di Schmitt:

 

«Nel saggio Über die drei Arten des rechtwissenschatflichen Denkens Schmitt rende omaggio ai grandi giuristi (istituzionalisti) Maurice Hauriou e Santi Romano. In particolare osserva che malgrado la concezione istituzionista  del diritto risalga ad Aristotele e S. Tommaso “la distinzione qui accennata fra pensiero fondato sulle norme e pensiero fondato sull’ordinamento è sorta ed è divenuta pienamente consapevole solo nel corso degli ultimi decenni. Negli autori precedenti, non è possibile rintracciare un’antitesi come quella contenuta nel passo appena citato di Santi Romano. Le antitesi precedenti non riguardano la contrapposizione di norme e ordinamento, ma piuttosto quella di norma e decisione oppure di norma e comando”  (Trad. it. ne Le categorie del “politico”, Bologna, 1972, p. 260). Sia in Hauriou che in Santi Romano, pur ritenendo entrambi  che il diritto consista tanto di norme che di istituzioni, il presupposto (e la condizione d’esistenza) ne è l’istituzione, e non le norme. Sono quelle – scrive Hauriou – “a fare le regole di diritto, non sono le regole a fare le istituzioni” (La thèorie de l’institution et de la fondation (Essai de vitalisme social) , Paris, 1925, trad. it. Milano, 1967, p. 45); e Santi Romano: “l’ordinamento giuridico, così comprensivamente inteso, è un’entità che si muove in parte secondo le norme, ma, soprattutto, muove, quasi come pedine in uno scacchiere, le norme medesime, che così rappresentano piuttosto l’oggetto e anche il mezzo della sua attività, che non un elemento della sua struttura” (L’ordinamento giuridico, 1918, 2ª ed., Sansoni, Firenze, 1947, p. 130 e proseguiva: “sotto certi punti di vista, si può anzi ben dire che ai tratti essenziali di un ordinamento giuridico le norme conferiscono quasi per riflesso: esse, almeno alcune, possono anche variare senza che quei tratti si mutino, e, molto spesso, la sostituzione di certe norme con altre è piuttosto l’effetto anziché la causa di una modificazione sostanziale dell’ordinamento”). La stessa tesi è ripetuta da Schmitt (Op. ult. cit.), secondo il quale, per il pensiero fondato sull’ordinamento “la norma o regola non fonda l’ordinamento, essa svolge soltanto, sulla base o nell’ambito  di un ordinamento dato, una certa funzione dotata solo in misura modesta di validità autonoma, indipendente dalla situazione oggettiva”. Ed è proprio la necessaria oggettività del diritto a rendere preferibile un tipo di pensiero giuridico fondato sull’istituzione a quello normativistico.».

 

Come abbiamo potuto appena vedere, La Grange dà sì conto delle ragioni logico-giuridiche che indubbiamente fanno preferire un’impostazione istuzionalista ad una normativista (e che indubbiamente hanno avuto un notevole peso nella stesura dell’ Über die drei Arten e che riassumendole in due battute ci fanno affermare che l’istituzionalismo, al contrario del normativismo, non cade in sciocche visioni mistico-ipostatiche e che l’istituzionalismo partendo dal dato concreto sociale e/o subsociale è una teoria pluralista del “giuridico” e questo sia a livello interno che internazionale) e quindi non possiamo non concordare con La Grange quando afferma che «è proprio la necessaria oggettività del diritto a rendere preferibile un tipo di pensiero giuridico fondato sull’istituzione a quello normativistico», anzi potremmo anche spingerci ad affermare modificando solo leggermente la citazione «è proprio la necessaria oggettività della conoscenza del diritto a rendere preferibile un tipo di pensiero giuridico fondato sull’istituzione a quello normativistico». Ma su quest’ultima nostra (retoricamente euristica) affermazione è necessario soffermarci un attimo riprendendo per un attimo il discorso appena interrotto sull’iscrizione di Carl Schmitt al partito nazionalsocialista ed integrando questo dato biografico con un particolarissimo punto di vista, quello del Repubblicanesimo Geopolitico – cioè quello del modesto scrivente – e che può essere espresso nel seguente modo: il Repubblicanesimo Geopolitico consapevole, in accordo con l’impostazione  istituzionalista  pluralista fatta propria per ultimo anche da  Schmitt, che,  in prospettiva storica, la statualità volge al termine, pone il principio d’ordine non nel concreto ordinamento giuridico visto – giustamente come da corretta dottrina istituzionalista e da Schmitt – precedente allo Stato ma, altresì, nella concreta consapevolezza di massa e/o da parte di più o meno estese élite  della natura dialettico/strategico/conflittuale della morfogenesi e fisiologia politica e sociale, consapevolezza  che già altrove è stata chiamata “epifania strategica” o, declinata riguardo al sorgere degli odierni “populismo” e/o  “sovranismo”, “consapevolezza strategica in statu nascenti”. Quello che quindi qui si vuole altresì affermare è che 1) non si può non concordare con La Grange che sul piano pratico delle conduzione degli affari sociali l’istituzionalismo proprio per il suo carattere pluralista e intrinsecamente antitotalitario è assolutamente da preferire al normativismo; che 2) per quanto forma di pensiero giuridico indubbiamente indirizzato verso il realismo, anche l’istituzionalismo rischia di cadere in una visione appesantita da una mentalità ipostatica perché se prima, nel normativismo, l’ipostasi si concretizzava in una norma, nella Grundnorm, ora l’ipostasi rischia di investire il concreto ordinamento giuridico, che viene sì giudicato nella concretezza della sua produzione sociale ma che perlomeno, se non viene ipostatizzato, viene rappresentato rigido ed ingessato perché le forme sociali che lo producono non vengono pensate come generate dalla dialettica del conflitto/azione strategico; e, infine, che 3) dal punto di vista del Repubblicanesimo Geopolitico il passaggio di Carl Schmitt dal decisionismo all’istituzionalismo avvenuta nel saggio Über die drei Arten des rechtwissenschatflichen Denkens costituisce un netto ed innegabile arretramento teorico indotto, oltre che dall’apparente paradosso che la decisione dell’attore politico di dividere  il campo del “politico” fra amico e nemico se riesce a dare una prima e veritiera fotografia della dinamica sociale non riesce a restituircene la sequenza filmata (quello che noi abbiamo  già altrove definito il “paradosso Carl Schmitt”e di questo problema teorico Carl Schmitt era assolutamente consapevole), soprattutto dalla circostanza che Schmitt voleva entrare nel partito nazista, un partito nazista per il quale non poteva esistere  il nemico costitutivo assieme all’amico del  campo del “politico” (il nemico doveva essere tout court eliminato) ma nemmeno  il campo del  “politico” stesso perché per il nazismo gli unici soggetti contemplati a costituire la vita nazionale erano il Volk razzialmente inteso (al quale venivano ammanniti i deliri antisemiti e la mitologia del Blut und Boden)  e il partito élite di questo Volk e al  vertice dei quali stava, in unione mistica col suo popolo, il semidio Führer Adolf Hitler. Indubbiamente anche questo: popolo, partito, Führer, è un ordinamento concreto ma il “piccolo” problema è che questo specifico ordinamento concreto molto concretamente non ammetteva alcun altro ordinamento concreto, cioè, detto in altre parole, l’insito pluralismo che costituisce uno delle colonne portanti dell’istituzionalismo era assolutamente inammissibile per il totalitarismo razzista nazionalsocialista.

      Accadde così che Schmitt che aveva deciso di non approfondire la dialettica amico/nemico in direzione conflittuale strategica e quindi di sciogliere l’apparente paradosso cui noi abbiamo dato il suo nome (paradosso sciolto dalla consapevolezza del Repubblicanesimo Geopolitico che la coppia oppositiva amico/nemico non è altro che una prima veritiera ma grezza rappresentazione della morfogenetica ed evolutiva azione all’interno della società umana e delle popolazioni animali e vegetali della dialettica dell’azione/conflitto strategico:  sulla dialettica dell’azione/conflitto strategico come paradigma antipositivistico e unificante, alla luce della filosofia della prassi di Giovanni Gentile, Antonio Gramsci, György Lukács e Karl Korsch, il mondo naturale fisico-biologico e il mondo storico-culturale dell’uomo, cfr. Massimo Morigi,   Repubblicanesimo Geopolitico Anticipating Future Threats. Dialogo sulla moralità del Repubblicanesimo Gepolitico più breve nota all’intervista del CSEPI a La Grassa (di Massimo Morigi) – URL: https://archive.org/details/RepubblicanesimoGeopoliticoAnticipatingFutureThreatsDialogoSulla_904 e https://ia801909.us.archive.org/2/items/RepubblicanesimoGeopoliticoAnticipatingFutureThreatsDialogoSulla_904/RepubblicanesimoGeopoliticoAnticipatingFutureThreatsDialogoSullaMoralitaDelRepubblicanesimoGeopoliticoMassimoMorigiKarlMarxAdamSmith.pdf e Id., Dialecticvs Nvncivs. Il punto di vista del Repubblicanesimo Geopolitico attraverso i Quaderni del Carcere e Storia e Coscienza di Classe per il rovesciamento della gerarchia della spiegazione meccanicistico-causale e dialettico-conflittuale, per il rinnovamento degli studi marxiani e marxisti e per l’ Aufhebung della gramsciana e lukacsiana Filosofia della Praxis, URL https://archive.org/details/DialecticvsNvncivsNeoRepubblicanesimo e https://ia801903.us.archive.org/24/items/DialecticvsNvncivsNeoRepubblicanesimo/DialecticvsNvncivs.IlPuntoDiVistaDelRepubblicanesimoGeopoliticoAttraversoIQuaderniDelCarcereEStoriaECoscienzaDiClasse.pdf), sia per la  sua mentalità intimamente cattolico-conservatrice in costante ricerca di un Katéchon che frenasse l’insita conflittualità delle moderne società industriali secolarizzate e pericolosamente propense a ricadere nell’abbraccio comunista e sia per ragioni di carriera personale attraverso l’entrata nel partito nazista, si ritrovò ad avere a che fare con un bestia politica, il nazismo, che era l’esatta antitesi dell’ordinata società tradizionalista alla quale egli aspirava e con un esito sul piano delle fortune personali ugualmente deludente (la fama di Kronjurist del terzo Reich è ampiamente sopravvalutata: Der Führer schützt das Recht –  Carl  Schmitt, Der Führer schützt das Recht. Zur Reichstagsrede Adolf Hitlers vom 13 Juli 1934, “Deutsche Juristen-Zeitung”, 39 (1934), 15, pp. 945-50, poi in Id., Positionen und Begriffe im Kampf mit Weimar – Genf – Versailles, 1923-1939, Berlin, Duncker & Humblot, 1988; trad. it. Il Führer protegge il diritto, in Id., Posizione e concetti in lotta con Weimar-Ginevra-Versailles, 1923-1939, Milano, Giuffrè, 2007, pp. 326-335 – , scritto per giustificare i massacri della Notte dei lunghi coltelli, oltre a segnare uno dei punti più bassi della produzione di Carl Schmitt, non riuscì nemmeno a convincere con le sue argomentazioni ridicolmente legalitarie e cercanti di scindire la responsabilità di Hitler dai peggiori eccessi della Notte – erano state coinvolte anche delle vittime innocenti non facenti parte delle SA – che Schmitt fosse del tutto affidabile, come un altro boomerang fu Carl Schmitt, Staat, Bewegung, Volk. Die Dreigliederung der politischen Einheit, Hamburg, Hanseatische Verlagsanstalt, 1935; trad. it. Stato, movimento, popolo, in Id. Un giurista davanti a se stesso. Saggi e interviste, Vicenza, Neri Pozza, 2005, pp. 255-312, che fu giudicato impregnato di spirito hegeliano, alieno al razzismo biologico del nazismo e quindi unvölkisch; ed infatti, terminando questa fallimentare scalata al potere nazista con  le accuse  rivolte a Schmitt provenienti dall’entourage   di Rosenberg di essere impregnato di spirito cattolico-romano – accuse le quali fornirono addirittura il materiale per un dossier datato 8 gennaio 1937 e intitolato Der Staatrechtslehrer Prof. Dr. Carl Schmitt:  la pietra dello scandalo era  Römischer Katholizismus und Politische Form, Hellerau, Jakob Hegner, 1923,  che sebbene scritto molti anni prima, dal punto di vista nazista era assolutamente inaccettabile che lo potesse aver scritto un sincero nazionalsocialista perché quivi veniva esaltata  la funzione stabilizzatrice del cattolicesimo – Carl Schmitt dovette abbandonare ogni ambizione riguardo alla vita pubblica ritirandosi prudentemente a vita privata).

      Abbiamo velocemente ripercorso questa parabola discendente sul piano umano come sul piano scientifico di Carl Schmitt non tanto per sminuire l’importanza del pensiero giuridico istituzionalista (La Grange giustamente ci potrebbe replicare che lo Schmitt post-decisionista ed istituzionalista è riuscito ad offrirci quel capolavoro geofilosofico e geopolitico del Nomos della terrra: Carl Schmitt, Der Nomos der Erde im völkerrecht des Jus Publicum Europaeum, Berlin,Greven Verlag, 1950, trad. it. Il Nomos della Terra nel diritto internazionale dello “Jus Publicum Europaeum”, Milano, Adelphi, 2006. Per lo Schmitt geofilosofico o geopolitico tout court, vedi anche Terra e mare –  Idem,  Land und Meer. Eine weltgeschichtliche Betrachtung, Leipzig, Reclam, 1942, trad. it. Terra e Mare. Una considerazione sulla storia del mondo, Milano, Giuffrè, 1986 – e Dialogo sul nuovo spazio Idem, Gespräch über den neuen Raum, in AA. VV. , Estudios de Derecho Internacional. Homenaje al profesor Camilo Barcia Trelles, Universidad de Santiago de Compostela, Santiago de Compostela, 1958, pp. 262-282, trad. it. Dialogo sul nuovo spazio, in Terra e mare  cit., pp. 87-109–, testi nei quali Carl Schmitt già allora aveva intravisto tutta la carica distruttiva di quel fenomeno che oggi viene chiamato ‘globalizzazione’ e della quale Schmitt, pur non avendo coniato il termine, aveva colto l’aspetto essenziale; Schmitt aveva cioè compreso che con il prevalere delle grandi potenze marittime –   Inghilterra prima, Stati uniti poi – era definitivamente tramontato quel diritto consuetudinario internazionale che aveva informato per secoli la vita del Vecchio continente – il Nomos della terra, appunto – e che aveva comportato l’esistenza di unità nazionali delimitate spazialmente e in rapporto di mutua ostilità/riconoscimento – le nazioni si facevano guerra ma si riconoscevano vicendevolmente come justi hostes. La guerra può divenire così qualcosa di analogo a un duello, uno scontro armato tra personae morales determinate territorialmente che stabiliscono tra loro lo jus publicum EuropaeumIl nomos della terra, cit., p. 165 –,  per essere sostituito, il vecchio Nomos della terra,  con una sorta di diritto liquido, una sorta di generica “International law” – Ivi,  p. 223 –  nella quale saltano completamente le vecchie compartimentazioni spaziali e il momento economico si emancipa radicalmente dalla protezione/dominio dello Stato. Il nuovo Nomos della terra – la nostra globalizzazione – si caratterizza così, oltre che per un mercato operante a livello internazionale svincolato dal potere regolatore dello Stato, anche per il progressivo smantellamento della stessa forma Stato il cui diritto pubblico, adeguandosi all’imperante ideologia  economicista liberale, lo trasforma in una sorta di  organizzazione privata con criteri di razionalità rispetto allo scopo tipici di un’ impresa che opera sul mercato e non di un’organizzazione, come dovrebbe essere lo Stato, che si occupa – o si dovrebbe occupare – della totalità del “politico”) ma per segnalare, prima di tutto a noi stessi, le involuzioni che può prendere un pur interessante ed innovativo pensiero qualora, come in Schmitt, si faccia prendere da ansie ed inquietudini vuoi rivoluzionarie vuoi reazionarie o controrivoluzionarie senza che queste pur indispensabili scelte di campo non siano a loro volta filtrate e distillate da un consapevole, sorvegliato, intransigente e tirannico sopra ogni altra considerazione di natura etica e assiologica sforzo teorico. Siamo così tornati al problema dell’avalutatività weberiana e della impossibile separazione che il sociologo tedesco pretendeva di tracciare fra valore e oggetto della ricerca, anche se, evidentemente, nel caso di Carl Schmitt, l’errore rispetto a Weber è semmai di segno polarmente opposto potendo noi di tutto accusare il presunto Kronjurist del Terzo Reich tranne  che di tenere separati i suoi valori dalla sua teoresi politica.

Ma qui sta il punto: rifiutare l’avalutatività weberiana non vuol dire che il valore, come è accaduto nel punto più basso della parabola di Carl Schmitt, si debba sovrapporre come una maschera di ferro sulla teoresi, significa – al contrario –  che il valore deve essere il motore dialettico, come da correttamente interpretata filosofia della prassi – che vede i suoi caposaldi in epoca contemporanea, repetita iuvant, in Giovanni Gentile, nell’Antonio Gramsci dei Quaderni del Carcere, nel  György Lukács di Storia e coscienza di classe e nel  Karl Korsch di Marxismo e filosofia –    di una  teoresi il cui obiettivo costante è l’individuazione del sovente furtivo, perché dolosamente celato, azione/conflitto strategico all’interno della società.  (Per il timido decisionismo di Carl Schmitt, cfr. Massimo Morigi, La democrazia che sognò le fate (Stato di eccezione, teoria dell’alieno e del terrorista e Repubblicanesimo Geopolitico) – URL  https://archive.org/details/LaDemocraziaCheSognLeFatestatoDiEccezioneTeoriaDellalienoE_913 e https://ia801601.us.archive.org/28/items/LaDemocraziaCheSognLeFatestatoDiEccezioneTeoriaDellalienoE_913/LaDemocraziaCheSognLeFate.StatoDiEccezioneTeoriaDellalienoEDelTerroristaERepubblicanesimoGeopolitico.pdf – e Id. Walter Benjamin, Iperdecisionismo e Repubblicanesimo Geopolitico: lo Stato di eccezione in cui viviamo è la regola, piccolo saggio sull’iperdecisionismo di Walter Benjamin ben più radicale di quello del giuspubblicista di Plettenberg – URL https://archive.org/details/WalterBenjaminIperdecisionismoERepubblicanesimoGeopolitico.LoStatoDi_909 e https://ia801608.us.archive.org/19/items/WalterBenjaminIperdecisionismoERepubblicanesimoGeopolitico.LoStatoDi_909/WalterBenjaminIperdecisionismoERepubblicanesimoGeopolitico.LoStatoDiEccezioneInCuiViviamoLaRegola-Neomarxismo.pdf). Questo per quanto riguarda il Repubblicanesimo Geopolitico e, come vittima in parte consenziente dei rischi che si corrono quando non si osa abbastanza, anche Carl Schmitt. Per quanto invece riguarda Teodoro Klitsche de la Grange discorso completamente diverso. A questo valentissimo (ed unico nel panorama nazionale) studioso di cose della politica e giuspubblicista risulta naturaliter, proprio per la sua profondissima cultura storica, giuridica, letteraria e filosofica, essere alieno da ogni tipo di idòla fori, quelli della politica in specie, e il suo impareggiabile esprit de finesse, generato da una tale completezza di studi, fa sì che quella che noi presumiamo essere addirittura una troppo entusiastica adesione alla visione istituzionalista, si traduca, sempre e comunque, oltre che nel sicuro riconoscimento del pluralismo giuridico, anche in una visione di fondo sempre e comunque animata da uno spirito conflittual-dialettico così come viene espressamente professato dal Repubblicanesimo Geopolitico.

Come è del resto dimostrato dagli ultimi due contributi che veniamo velocemente ad esaminare. In Oltre sessanta e li dimostra  (URL: http://italiaeilmondo.com/2018/05/20/oltre-sessanta-e-li-dimostra-di-teodoro-klitsche-de-la-grange/, http://www.webcitation.org/6zZSUJAs5 e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2018%2F05%2F20%2Foltre-sessanta-e-li-dimostra-di-teodoro-klitsche-de-la-grange%2F&date=2018-05-20), intervento di La Grange sulla genesi della Costituzione italiana si dimostra ulteriormente, casomai ce ne fosse ancora bisogno, l’abissale distanza del Nostro, proprio sulla scorta della più  scaltrita mentalità istituzionalista che ben avverte l’intrinseca conflittualità sociale (e capacità ideologica più o meno normativistica di inganno e/o autoinganno) della produzione della norma, da ogni ipostatica mitizzazione della nostra Grundnorm, la cui genesi non è da ricercarsi nel fatto che gli italiani si sono rivelati improvvisamente “democratici” ma nel fatto che la nuova situazione internazionale che aveva visto l’Italia sconfitta nel secondo conflitto mondiale imponeva un’Italia “democratica”, dove “democrazia” doveva essere sinonimo di perdita della sovranità nazionale e impossibilità di esprimere classi dirigenti realmente autonome e con nessuna possibilità di resistere all’eterodirezione proveniente dall’estero (nel caso dell’Italia, il maggior asservimento di tutti gli altri paesi del Vecchio continente “liberati” dagli anglo-americani all’alleanza politico-militare guidata dagli Stati uniti):

 

«Nella realtà la costituzione vigente è il risultato di quella sollecitazione, esternata negli accordi di Yalta, ben sostenuta dall’argomento-principe della sconfitta militare e dalla conseguenziale occupazione. Si potrebbe obiettare che il procedimento democratico seguito – e l’alta partecipazione alle elezioni della Costituente – hanno attenuato il carattere d’imposizione e legittimato, in certa misura, la Costituzione che ne è conseguita. Anzi si potrebbe aggiungere che la procedura relativa – conclusasi  politicamente anche se non giuridicamente, con l’elezione, il 18 aprile 1948 del primo Parlamento – abbia costituito un esempio di applicazione del consiglio di Machiavelli che regola della decisione politica è di scegliere quella che presenta minori inconvenienti (V. Discorsi, lib. I, VI.) E sicuramente dato il disastro militare e l’occupazione, non esistevano le condizioni per sfuggire (forse per attenuarla sì, a seguire il discorso di V. E. Orlando, sopra ricordato) alla logica degli accordi di Yalta. Ma in tale materia è importante essere consapevoli che certe scelte sono state in gran parte frutto di necessità (e di imposizione) e non prenderle per quelle che, a una visione giuridica (peraltro parziale e riduttiva), appaiono come scelte (ottime) del “popolo sovrano” il quale, come scriveva Massimo Severo Giannini, è sovrano solo nelle canzonette; e, in quel frangente, forse neppure in quelle. La sovranità implica libertà di scelta: quella non vi era né in diritto – limitata com’era dalle clausole dell’armistizio e del Trattato di pace – e quel che più conta era inesistente di fatto per la sconfitta e l’occupazione militare. Per cui alla Costituzione del ’48, ed alla relativa decisione si può applicare il detto romano per la volontà negli atti annullabili: che, il popolo italiano coactus tamen voluit

 

      Non possumus eis quicquam addere, nec auferre. Sovranisti e “servilisti” (URL: http://italiaeilmondo.com/2018/05/27/sovranisti-e-servilisti-di-teodoro-klitsche-de-la-grange/,http://www.webcitation.org/6zin7PpGc e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2018%2F05%2F27%2Fsovranisti-e-servilisti-di-teodoro-klitsche-de-la-grange%2F&date=2018-05-27), ultimo contributo di La Grange sottoposto a questa nostra rassegna critica, dove ben traspare in controluce che l’impianto pluralista di matrice istituzionalista di La Grange, unito questo impianto con una perfetta conoscenza di storia della filosofia, nello specifico la filosofia tomista, si presta perfettamente non solo alla critica degli idòla fori normativistici, primo fra i quali la mitica Grundnorm e le sue relative nefaste  e nefande conseguenze culturali e ideologiche ma è anche un infallibile viatico per una critica semantica ai luoghi comuni della politica, nello specifico per un critica e per un totale ribaltamento del significato  che viene attribuito al termine ‘sovranista’ e, con questo contributo, “leggero” in termini di manifestazione esplicita di specifica dottrina giuridica ma pesantissimo, non solo in termini più direttamente filosofici, ma anche per il background giuspubblicistico che, segno caratterizzante del Nostro, come sempre ha costituito il celato ma fondamentale endoscheletro di questo contributo, Teodoro Klitsche De La Grange si ricollega per metodologia argomentativa e obiettivi di indagine all’iniziale contributo, Su Hegel e la virtù , da noi messo sotto esame all’inizio di questa rassegna critica:

 

«Da qualche anno, da quando sono stati coniati i neo-logismi sovranismo e sovranista (probabilmente dal francese) il pensiero “politicamente corretto” (e relativi pensatori) si è lanciato in una, per esso abituale, opera di screditamento e demonizzazione. Sovranismo sarebbe un’ideologia guerrafondaia (??), passatista, dittatoriale, egoista e così via. I sovranisti poi demagoghi, ignoranti, cattivi, maleducati e cafoni (oibò!) […] [Volendo dar retta all’accezione negativa che viene data a questi termini] bisogna cominciare con lo svalutare del tutto il nostro Risorgimento, e buona parte della storia moderna. I costruttori dello Stato nazionale italiano (da Cavour a Garibaldi, da Vittorio Emanuele II a Mazzini), forse non erano dei damerini (il Savoia era anche un po’ grossier) ma sicuramente non avrebbero acconsentito – il Piemonte prima, l’Italia poi tanto da fare quattro guerre all’uopo – che in nome di qualche idea, si fosse limitata l’indipendenza dell’Italia. Se per Metternich l’Italia  era un’ “espressione geografica” per loro era una comunità politica. E per esserlo doveva avere l’indipendenza (dalla volontà) e dagli interessi di altre potenze (e popoli). Del pari non avrebbero mai preteso di occupare Vienna, Praga, Lubiana o Zagabria (tant’è che neppure con lo sfascio dell’Impero asburgico lo fecero), neppure con la giustificazione di qualche ideale cosmopolita. Dato che, a ben vedere, il cosmopolitismo rientra nella classe delle alternative al patriottismo. […] le più interessanti e centrate definizioni di ciò che è la libertà, politica in specie, l’ha date S. Tommaso. Come ho scritto in un precedente articolo per Rivoluzione liberale (Sovranismo e libertà politica) l’Aquinate sosteneva che è libero chi è causa di se (del suo): liber est qui causa sui est; e per chiarire ulteriormente definiva  servo chi è di altri (servus autem est, qui id quod est, alterius est). Applicando queste due asserzioni di S. Tommaso non sono né libere, né comunità perfette quelle che giuridicamente e politicamente dipendono da altri e pertanto non hanno la piena disponibilità di determinare i propri scopi né i mezzi per conseguirli. Per cui liberarsi da quella condizione di dipendenza è il requisito minimo per poter decidere del proprio destino. L’inverso è sopportare che lo decidano gli altri: come spesso capitato nella recente storia nazionale. Dato che né Di Maio né Salvini vogliono occupare, neppure Tripoli e Tirana, ma solo evitare di subire troppi condizionamenti in casa nostra, non sono dei pericolosi aggressori e guerrafondai. […] Diceva Vittorio Emanuele Orlando in un famoso discorso pronunciato alla Costituente, chiedendo che l’assemblea non ratificasse il Trattato di pace: “considerate almeno questo lato della decisione odierna, il significato di questa accettazione, che avviene in un momento in cui essa non è necessaria; onde il vostro voto acquista il valore di un’accettazione volontaria di questa che è una rinuncia a quanto di più sacro vi è stato confidato dal popolo quando vi elesse: l’indipendenza e l’onore della Patria… Questi sono voti di cui si risponde dinanzi alle generazioni future: si risponde nei secoli di queste abiezioni fatte per cupidigia di servilità”. Seguendo l’indicazione del Presidente della vittoria, non sarebbe il caso di cominciare a chiamare gli anti-sovranisti, mutuando l’espressione di Orlando: “servilisti”?»

 

Abbiamo citato quasi per intero questo ultimo contributo preso in esame nella nostra rassegna critica perché veramente anche in questo caso ci troviamo nella condizione espressa nell’Ecclesiaste di non poter togliere od aggiungere alcunché. Se non umilmente affermare che ancora una volta dobbiamo un profondo ringraziamento a Teodoro Klitsche de la Grange.

 

Massimo Morigi – 9 giugno 2018

 

 

 

 

 

 

 

 

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