Guardare e comprendere il multipolarismo_con Gianfranco La Grassa

Costruire uno strumento interpretativo adeguato a comprendere il contesto politico e geopolitico. Un impegno che non può prescindere dai tempi dettati dalla contingenza storica. Attardarsi, però, nella riproposizione pedissequa degli schemi interpretativi che hanno orientato le vicende politiche del secolo scorso porta sicuramente a posizioni fuorvianti e conclusioni sempre più paradossali. Ne parlo con Gianfranco La Grassa. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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Massimo Morigi, Lo Stato delle Cose dell’ultima religione politica italiana: il Mazzinianesimo 1a parte

Massimo Morigi

LO STATO DELLE COSE DELL’ULTIMA RELIGIONE POLITICA ITALIANA: IL MAZZINIANESIMO

UNA RIFLESSIONE TRANSPOLITICA PER IL SUO LEGITTIMO EREDE: IL REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO. PRESENTAZIONE DI TRENT’ANNI DOPO ALLA DIALETTICA OLISTICO-ESPRESSIVA-STRATEGICA-CONFLITTUALE DE ARNALDO GUERRINI. NOTE BIOGRAFICHE, DOCUMENTI E TESTIMONIANZE PER UNA STORIA DELL’ ANTIFASCISMO DEMOCRATICO ROMAGNOLO

INTRODUZIONE

Se accostiamo «Io sono una forza del Passato./Solo nella tradizione è il mio amore./Vengo dai ruderi, dalle chiese,/dalle pale d’altare, dai borghi/abbandonati sugli Appennini o le Prealpi,/dove sono vissuti i fratelli.» che è la definizione della poetica e della Weltanschauung di Pier Paolo Pasolini con «Mi fanno male i capelli, gli occhi, la gola, la bocca… Dimmi se sto tremando!» criptica, surreale ma al tempo stesso lancinante e terribilmente espressiva dichiarazione del disagio del personaggio di Giuliana, interpretata da Monica Vitti, nel film Il deserto rosso di Michelangelo Antonioni e citazioni entrambe impiegate in questo Lo Stato delle Cose dell’ultima religione politica italiana: il Mazzinianesimo. Una riflessione transpolitica per il suo legittimo erede: il Repubblicanesimo Geopolitico. Presentazione di trent’anni dopo alla dialettica olistico-espressiva-strategica-conflittuale de Arnaldo Guerrini. Note biografiche, documenti e testimonianze per una storia dell’antifascismo democratico romagnolo, abbiamo immediatamente l’immagine del particolare metodo dialettico impiegato da Massimo Morigi e di cui si aveva avuto una prova anche nello Stato delle Cose della Geopolitica. Presentazione di Quaranta, Trenta, Vent’anni dopo a le Relazioni fra l’Italia e il Portogallo durante il periodo fascista. Nascita estetico-emotiva del paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico originando dall’eterotopia poetica, culturale e politica del Portogallo, anche questo pubblicato a puntate sull’ “Italia e il Mondo”, che è, oltre ad essere un metodo dialettico che, come più occasioni ribadito da Morigi, oltre a non riconoscere alcuna validità gnoseologico-epistemologica alla suddivisione fra c.d. scienze della natura e scienze umane storico-sociali, entrambe unificate, secondo Morigi, nel paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico, proprio in ragione del suo approccio olistico, non distingue nemmeno fra dato storico-sociale e fra il suo stesso dato biografico e cercando di capire, assieme ai destinatari dei suoi messaggi, come questo dato biografico lo abbia portato alle sue odierne elaborazioni teoriche. A questo punto si potrebbe obiettare che in Morigi prevale sull’analisi teorica una sorta di deteriore biografismo, dove il momento dell’analisi viene travolto da una non richiesto lirismo. Niente di più errato. Comunque si voglia giudicare il del tutto inedito paradigma dialettico del Nostro, e noi comunque lo giudichiamo come l’unico tentativo veramente serio compiuto dalla fine del grande idealismo italiano di Gentile e Croce di far rivivere in Italia e nel resto del mondo il metodo dialettico, la manifestazione lirica cui Morigi rende conto a sé stesso prima ancora che ai lettori non sono assolutamente le sue interiori ed intime inclinazioni che giustamente egli ritiene non debbano interessare a nessuno ma si tratta del rendere conto, anche pubblicamente, del suo culturale Bildungsroman, dove nello Stato delle Cose della Geopolitica veniva focalizzato nella cultura portoghese, nella saudade di questo paese e, infine nella filmografia di Wim Wenders, in specie in quella che aveva come sfondo il Portogallo, Lo Stato delle Cose e Lisbon Story, mentre ora, Nello Stato delle Cose dell’ultima religione politica: il Mazzinianesimo si tratta della filmografia d’autore degli anni Sessanta del secolo che ci ha lasciato, cioè di quella di Federico Fellini, di Michelangelo Antonioni e di Pier Paolo Pasolini. E se è vero, come è vero, che il ricorso a questo strumento per l’interpretazione della crisi politica non solo del movimento mazziniano e del partito che tuttora vuole presentarsi come la sua attuazione politica è stata anche indotta dal fatto che sulla crisi della religione politica del mazzinianesimo e del partito che ancora vuole esprimere ed intestarsi questa ideologia non è stato, in fondo, scritto praticamente alcunché di veramente interessante e significativo (e non è questa la sede per contestare questa definizione di identità politica del PRI ed anche Morigi, anche per una sorta di rispetto verso un partito politico in cui militò in un lontano passato – e di cui, fra l’altro, dimostra in questo saggio introduttivo di essere un profondissimo conoscitore e, quindi, inevitabilmente quasi un “appassionato”–, è tutt’altro che acido rispetto a questa autodefinizione identitaria) ma anche della crisi politico-sistemica più generale che ha investito il nostro paese è, sulla scorta della sua dialettica totalizzante del tutto giustificata e conseguente, a noi lettori appare chiaro – ma anche Morigi, ne siamo sicuri ne è pienamente consapevole – che la filmografia espressamente citata in questo scritto di Morigi è anch’essa una parte importante del romanzo di formazione culturale di Morigi che, proprio in virtù della particolare dialettica totalizzante da lui elaborata può essere impiegata per dare conto sia del suo metodo dialettico che della crisi politica del sistema politico Italia, filmografia italiana che, sottintende sempre è stato quindi anche decisiva, insieme alle suggestioni portoghesi e wendersiane, per la definizione del paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico.

Un’ultima notazione. Come da sottotitolo Lo Stato delle Cose dell’ultima religione politica italiana: il Mazzinianesimo è l’introduzione del saggio di Massimo Morigi, Arnaldo Guerrini. Note biografiche, documenti e testimonianze per una storia dell’antifascismo democratico romagnolo, edito nel 1989 e che oltre ad essere la biografia dell’antifascista repubblicano e mazziniano Arnaldo Guerrini, già più di trent’anni fa esprimeva, come ci dice il suo autore e come potranno vedere i lettori dell’ “Italia e il Mondo” la consapevolezza della crisi del sistema politico italiano che sarebbe esplosa con Mani pulite. Questa biografia, assieme ovviamente al suo scritto introduttivo sullo Stato delle cose dell’ultima religione politica italiana: il Mazzinianesimo, su espresso desiderio dell’autore viene pubblicata in quattro puntate a partire da questo mese di gennaio del 2023, in una sorta di augurio di buon anno nuovo per l’acquisizione di una rinnovata consapevolezza politica per terminare con l’ultima puntata da pubblicarsi in occasione del IX Febbraio, data dell’anniversario della nascita della Repubblica Romana del 1849 e che per tutti i mazziniani, siano o no ancora facenti parte del Partito Repubblicano Italiano, è la ricorrenza più importante di tutto il calendario, ancora più importante, siano o no questi repubblicani credenti nelle varie denominazioni del cristianesimo, del Natale cristiano. Ci sarebbe così allora ancora molto da dire sulle religioni politiche e su come il Repubblicanesimo Geopolitico nel suo olismo dialettico, voglia essere, come dice espressamente Morigi, una prosecuzione ed evoluzione per i nostri tempi dei principi repubblicani di Giuseppe Mazzini…

Buona lettura

Giuseppe Germinario

Segue sul link sottostante a partire da pag 7

PRIMA PARTE DELLO STATO DELLE COSE DELL ULTIMA RELIGIONE POLITICA

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Il mutamento dell’equilibrio di potere dell’UE, di Adriano Bosone

Tra il 2020 e il 2022, tre eventi geopolitici fortemente dirompenti hanno alterato gli equilibri di potere all’interno dell’Unione Europea, aumentando l’influenza dei paesi del sud e dell’est del blocco a scapito dei paesi tradizionalmente più influenti del nord. Queste nuove dinamiche di potere non solo daranno forma alla politica interna ed estera dell’UE nei prossimi anni, ma probabilmente porteranno a un conflitto interno più in basso che metterà ancora una volta alla prova l’unità interna del blocco.

Tre anni turbolenti

Il primo dei tre eventi dirompenti è stata la Brexit. Il Regno Unito ha lasciato il blocco nel gennaio 2020 dopo anni di negoziati iniziati con il referendum del giugno 2016. La Gran Bretagna era stata in precedenza uno dei più forti sostenitori del blocco del libero scambio, della deregolamentazione e della limitata integrazione sociale, economica e politica nel continente. Per decenni, il Regno Unito è stato anche un alleato dei paesi dell’Europa settentrionale (e soprattutto nordica) che difendevano un’Europa aperta con un approccio pro-business agli affari economici ed erano scettici sulla federalizzazione dell’UE. L’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea, quindi, ha creato un’opportunità per i paesi dell’Europa meridionale, che tendono a difendere un’UE più interventista che protegga le proprie economie dalla concorrenza esterna, mettendo insieme allo stesso tempo risorse finanziarie in tutto il continente per finanziare politiche a livello di blocco.

Subito dopo la Brexit è arrivata la pandemia di COVID-19, che ha provocato la prima ondata di blocchi in tutta l’UE nel marzo 2020. Il devastante impatto umano ed economico della pandemia ha consentito all’Unione europea di compiere passi senza precedenti, tra cui l’avvio di un massiccio Pacchetto di stimolo da 750 miliardi di euro nel luglio 2020 che includeva sovvenzioni e prestiti per i suoi membri, con Italia e Spagna che hanno ricevuto le maggiori somme di denaro. In particolare, i 27 Stati membri dell’UE hanno consentito alla Commissione europea di prendere in prestito nei mercati finanziari per loro conto per pagare il pacchetto, una politica che si era rivelata impossibile da attuare durante la crisi finanziaria solo un decennio prima a causa della ferma opposizione dei governi del nord Europa. In una certa misura, il nord ha sostenuto il pacchetto 2020 perché, a differenza della crisi dell’eurozona del 2009, i danni economici nell’Europa meridionale non è stato il risultato di politiche fiscali irresponsabili ma di eventi al di fuori del loro controllo. Tuttavia, sia in scala che soprattutto nel modo in cui è stato finanziato, il pacchetto di stimoli non ha precedenti nella storia europea recente ed è stato un segnale forte di un’Europa meridionale più influente. In quanto tale, ha stabilito un precedente per le future risposte alle crisi.

Il terzo evento geopolitico che ha alterato l’equilibrio di potere nell’Unione europea è stata l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia nel febbraio 2022, che ha portato a un picco dell’inflazione in tutta Europa a causa di forniture energetiche più limitate e più costose. Le ricadute economiche della guerra e le conseguenti interruzioni delle esportazioni di energia russe hanno visto i governi europei (di nuovo) introdurre grandi pacchetti di stimolo, oltre a cercare disperatamente forniture alternative di gas naturale per evitare il razionamento del gas e i blackout. Anche le industrie ad alta intensità energetica in tutto il continente in settori che vanno dal cemento ai fertilizzanti sono state costrette a ridurre o interrompere le loro attività. La guerra rappresentava sia un rischio che un’opportunità per i paesi dell’Europa centrale e orientale, che per decenni avevano messo in guardia sulla minaccia della Russia alla pace nel continente, e avevano chiesto una maggiore presenza delle truppe della NATO nella regione e una posizione più aggressiva dell’UE nei confronti di Mosca . Sotto la pressione della Polonia e degli Stati baltici, l’Unione europea ha imposto sanzioni economiche e politiche alla Russia, aumentando gli aiuti finanziari, umanitari e militari all’Ucraina. In particolare, la guerra ha anche costretto la Germania a rompere con la sua politica decennale che cercava di mantenere separate le tensioni politiche tra la Russia e l’Occidente dalle massicce importazioni tedesche di gas naturale russo. Berlino’

Forse ancora più cruciale, la guerra ha anche dato alla NATO un rinnovato senso di intenti che era in linea con le opinioni dell’Europa centrale e orientale, meno di tre anni dopo che il presidente francese Emmanuel Macron aveva dichiarato l’alleanza militare “cerebralmente morta” e promosso alternative europee a cooperazione NATO. Il fatto che Svezia e Finlandia abbiano rotto la loro neutralità storica per aderire all’alleanza di sicurezza occidentale ha realizzato l’aspirazione di Polonia, Lituania, Lettonia ed Estonia di circondare completamente la Russia nella regione baltica e ha aperto la porta a una più profonda cooperazione di sicurezza baltico-nordica.

Infine, la guerra ha anche accresciuto l’importanza strategica dei paesi dell’Europa meridionale, che dall’oggi al domani sono diventati attori chiave nella spinta dell’Unione europea a diversificare le sue forniture di gas naturale lontano dalla Russia. I molteplici terminali GNL della Spagna e dell’Italia e le loro connessioni di gasdotti con il Nord Africa contrastare con l’elevata dipendenza della Germania dai gasdotti provenienti dalla Russia, e mettere Madrid e Roma al centro dei piani in corso per moltiplicare e diversificare i fornitori di energia dell’Unione Europea. Inoltre, i significativi investimenti dell’Europa meridionale nelle energie rinnovabili (compresa l’energia solare, che ha un enorme potenziale nei paesi baciati dal sole del Mediterraneo) amplieranno ulteriormente il suo ruolo nel mix energetico del blocco nei prossimi anni, soprattutto se il Nord Europa è disposto pagare le infrastrutture necessarie per distribuire l’energia in tutto il continente. Ironia della sorte, la crisi energetica dell’Europa ha anche portato Bruxelles a tollerare i paesi che utilizzano più carbone , che è stata una vittoria a breve termine per gli utenti di carbone pesante come la Polonia e altri paesi della regione.

L’impatto che va avanti

Gli effetti della Brexit, della pandemia di COVID-19 e della guerra in Ucraina sono stati visibili nel 2022, ma il loro impatto continuerà nel 2023 e oltre. Ora che il tabù del prestito congiunto dell’UE è stato infranto, i governi dell’Europa meridionale continueranno a spingere per prestiti congiunti per finanziare iniziative a livello continentale in aree che vanno dal cambiamento climatico alle infrastrutture energetiche. Nel frattempo, la Commissione europea (che nel 2020 ha sospeso le regole dell’UE sui limiti del debito sovrano e del deficit fiscale in modo che i paesi potessero spendere per uscire dalla pandemia) sta spingendo per una riprogettazione delle regole prima che vengano reintrodotte nel 2024. Sotto la pressione del sud, le nuove regole si concentreranno probabilmente su obiettivi più flessibili relativi alla crescita a lungo termine e alla sostenibilità del debito rispetto alle regole attuali, che sono più orientate verso il raggiungimento di obiettivi a breve termine, dimostrato quasi impossibile da raggiungere . Inoltre, l’Unione europea utilizzerà misure protezionistiche in Cina e negli Stati Uniti per giustificare il proprio aumento di aiuti di Stato , sovvenzioni e altre forme di assistenza a settori strategici della sua economia, il che è anche in linea con le opinioni dell’Europa meridionale su come il blocco dovrebbe funzionare.

I prossimi anni offriranno anche nuove opportunità all’Europa centrale e orientale per aumentare la loro capacità di guidare la direzione strategica dell’Unione europea. La Polonia e gli Stati baltici useranno la loro ritrovata influenza sulla politica estera dell’UE per garantire che le sanzioni contro la Russia siano mantenute e, se possibile, ampliate. Chiederanno inoltre (e contribuiranno a) una maggiore presenza di truppe NATO nella regione e spingeranno contro qualsiasi piano francese per attuare iniziative di difesa che potrebbero competere con l’alleanza militare guidata dagli Stati Uniti. Un cessate il fuoco in Ucraina è improbabile nel 2023, il che significa che la Polonia ei suoi alleati baltici raggiungeranno probabilmente questi obiettivi a breve e medio termine. Ancora più importante, la Polonia sta emergendo come una delle principali potenze militari in Europa grazie ad anni di aumento delle spese per la difesa e di modernizzazione militare, una tendenza che l’invasione russa dell’Ucraina accelererà. Questo, combinato con il fatto che la Polonia è una delle economie più dinamiche dell’Unione Europea, significa che il peso di Varsavia negli affari europei è destinato ad aumentare solo nei prossimi anni.

Un cambiamento permanente?

Sebbene questi spostamenti di potere in Europa saranno visibili nel 2023, potrebbero non essere permanenti. Una volta che il senso di urgenza legato alla pandemia e alla guerra sarà svanito, i paesi del Nord Europa potrebbero decidere che la combinazione di regole fiscali più flessibili e massicce spese dell’UE sostenute dal debito congiunto non è una politica responsabile o sostenibile. Ciò potrebbe comportare un significativo respingimento contro queste misure alla fine di questo decennio a causa dei timori di una nuova crisi finanziaria nell’Unione europea.

Questo potenziale cambiamento di atteggiamento dipenderà in gran parte dalla Germania, perché molte delle attuali politiche dell’UE sono state rese possibili dal fatto che due dei tre membri del governo di coalizione tedesco sono economicamente progressisti. Privando Bruxelles della decisiva leadership tedesca, Berlino si concentrò maggiormente sugli affari interni nell’ultimo anno, in risposta alle crescenti crisi economiche ed energetiche, ha anche concesso ai governi dell’Europa meridionale spazio per elevare il proprio profilo nel blocco. Ma le prossime elezioni generali in Germania (previste per il 2025) potrebbero riportare al potere i conservatori e, con loro, posizioni più aggressive sull’integrazione fiscale dell’UE. Le prime ribellioni contro le politiche più lassiste del debito e del deficit dell’Unione Europea sono probabili anche in paesi come Paesi Bassi, Svezia, Austria e Danimarca se la ripresa economica del blocco dalle crisi attuali avverrà più velocemente del previsto. Anche senza un ritorno al conflitto nord-sud sulla politica fiscale, la volatilità dei mercati finanziari causata da significativi rialzi dei livelli del debito sovrano (soprattutto nei paesi meridionali come l’Italia) potrebbe essere un campanello d’allarme per l’Unione europea affinché cambi direzione.

L’influenza dei paesi dell’Europa centrale e orientale deve affrontare limiti propri. L’influenza della Polonia sulla politica dell’UE è cresciuta nel 2022, ma il paese è ancora sotto la minaccia di sanzioni da parte della Commissione europea a causa di controversie relative allo stato di diritto che potrebbero portare al congelamento di miliardi di euro di fondi dell’UE. E mentre la Polonia è una voce di spicco nella politica relativa alla Russia, i paesi pro-UE come Estonia, Lettonia e Lituania non condividono necessariamente le opinioni euroscettiche della Polonia sull’integrazione continentale, il che significa che potrebbero esserci divisioni tra i governi dell’Europa centrale e orientale che sono i principali falchi russi. Inoltre, la guerra in Ucraina ha isolato l’Ungheria, che è stato lasciato solo a opporsi ad alcune delle sanzioni contro la Russia. Ma Ungheria e Polonia sono ancora allineate e si sostengono a vicenda su questioni sociali, culturali, sullo stato di diritto e istituzionali che irritano la maggior parte degli Stati membri occidentali dell’UE e limitano la cooperazione con loro. I sondaggi di opinione suggeriscono che l’opposizione filoeuropea della Polonia ha buone possibilità di vincere le elezioni generali alla fine del 2023 (il che migliorerebbe le relazioni di Varsavia con Bruxelles). Tuttavia, i tempi di guerra tendono anche a favorire i governi in carica, il che significa che i leader euroscettici della Polonia potrebbero assicurarsi un altro mandato, che limiterebbe la sua influenza sulla politica dell’UE al di là delle questioni di sicurezza.

Finora, l’Unione europea è riuscita a rimanere unita nonostante i cambiamenti sismici avvenuti tra il 2020 e il 2022. Ma l’effetto di questi cambiamenti sulla politica dell’UE potrebbe svanire con il tempo. Le tendenze protezionistiche in Cina e, in misura minore, negli Stati Uniti daranno ai membri dell’UE che sostengono l’intervento statale una continua giustificazione per le loro opinioni, il che significa che tali politiche probabilmente persisteranno. Ma è improbabile che il Nord Europa rimanga passivo alle politiche fiscali promosse dal Sud Europa per paura di un aumento del rischio morale e il rischio di nuove crisi del debito nel Mezzogiorno. Inoltre, lo scetticismo di alcuni paesi dell’Europa orientale nei confronti di un’ulteriore integrazione politica ed economica dell’UE si scontrerà probabilmente con le opinioni più favorevoli all’integrazione dell’Europa occidentale. Dal punto di vista della sicurezza, l’ascesa militare della Cina non riunirà l’Unione europea nello stesso modo in cui l’ha fatto l’invasione russa dell’Ucraina, il che si tradurrà in dibattiti interni sul futuro sia della NATO che dell’integrazione della difesa in Europa. Ciò significa che mentre il cambiamento in corso nelle dinamiche di potere interne non rappresenta un’immediata minaccia esistenziale per l’Unione Europea, attualmente vengono piantati i semi per nuovi scontri che probabilmente giungeranno al culmine più avanti nel decennio – e quando lo faranno, il l’unità del blocco sarà ancora una volta messa alla prova.

https://worldview.stratfor.com/article/eus-shifting-balance-power

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IL BICCHIERE MEZZO PIENO, Teodoro Klitsche de la Grange

IL BICCHIERE MEZZO PIENO

Tra le innovazioni del decreto 150/2022, c’è l’estensione dei reati procedibili solo a querela dell’offeso, onde creare un barrage ai processi penali e così ridurne il numero. Il tutto, si sostiene, in linea con gli obiettivi di efficienza del processo e del sistema penale. Ancorché il tutto possa prestarsi ad un’inferiore deterrenza della prescrizione sanzionatoria (e così al di essa effetto dissuasorio) la rimessione alla parte lesa della facoltà di “far partire” il procedimento, ne facilita – a vantaggio della medesima – le condotte risarcitorie e riparatorie del reato, con soddisfazione – almeno parziale – dell’interesse della vittima.

Nello stato in cui versa la giustizia italiana, non possono che essere benvenute disposizioni che consentono una migliore soddisfazione dell’interesse privato, peraltro “alleggerendone” gli oneri per lo Stato. Tuttavia sono i presupposti di soluzioni come questa a dover essere criticati; vediamo perché.

Scriveva Hegel che lo “Stato è la realtà della libertà concreta”, in quanto, brevemente, coniuga gli interessi particolari con l’interesse della generalità così che né l’universale si compie senza l’interesse particolare, né che gli individui vivano solo per questo, senza che vogliano, in pari tempo, l’universale.

Più “tecnicamente”, da giurista, Jhering collegava l’interesse particolare al generale, attraverso i meccanismi giuridici, in particolare la sanzione, che, come Carnelutti avrebbe sottolineato, è un avvaloramento del precetto normativo con la quale si penalizza la condotta conforme o contraria a quella, sacrificando o soddisfacendo l’interesse particolare.

Anche per questo Jhering scrisse quel best seller giuridico che è La lotta per il diritto (Kampf ums Recht) ancora oggi, a circa un secolo e mezzo dalla pubblicazione, continuamente riedito. Nell’edizione Laterza degli anni ’30, con un’avvertenza preliminare di Croce che, sorprendentemente, ne sottolineava l’alto valore etico, scrivendo: “Può far maraviglia che questo elevamento della lotta pel diritto sopra le considerazioni utilitarie sia sostenuto da un pensatore che nella sua speciale trattazione filosofica dell’argomento, Der Zweck im Recht (1877-83), riportò il principio del diritto all’egoismo… Ma tant’è: nel Jhering il sentimento morale era più forte dei suoi presupposti e della sua logica filosofica” e proseguiva che a questa concezione “valse il forte rilievo dato agli individui e ai loro bisogni e ai fini che si propongono nel formare il diritto; se anche gli piacque interpretarli e chiamarli, poco felicemente, egoistici”.

La ragione per cui lottare (Kampf) per il proprio diritto soggettivo, al tempo stesso si risolve nel realizzare  quello oggettivo è che il diritto che non è applicato, per cui non si lotta, è un diritto… teorico. Cioè che nega la propria essenza di attività (ragione) pratica. Come le idee di Platone, confinato in un iperuranio normativo, senza un demiurgo che lo porti in terra.

Se la funzione del demiurgo è rivestita soltanto dalla vittima zelante probabilmente l’effettività dell’attuazione (cioè la soddisfazione dell’interesse pubblico all’ordine sociale) e così l’oggettivazione lascerà a desiderare.

Ciò premesso quel che più sorprende di questa soluzione è che se ne vuole misurare (almeno nella rappresentazione che ne danno molti mass-media) l’efficacia non dal calo dei reati commessi ma da quello dei processi che ne conseguono.

Di per se che non si celebri il processo dopo il reato perché manca la querela, non significa che il reato non sia avvenuto (né che il reo non lo reiteri), ma solo, per l’appunto, che manca la querela. Anzi, sbrigarsela con un risarcimento e non con la detenzione non fa calare le trasgressioni, ma aumentare le possibilità di “farla franca”. In particolare per i rei dotati di disponibilità finanziarie.

C’è da aggiungere che tale modo di ragionare, in particolare se presentato come “momento” decisivo delle riforme, è figlio di una visione burocratica del mondo; è l’universo visto dall’angolo visuale della scrivania, ma tale punto di osservazione non permette una percezione “a giro d’orizzonte” e prenderla per quella principale è frutto di una deformazione professionale, spesso ripetuta. Se invece di centomila processi da iniziare se ne hanno settantamila, onde la durata degli stessi dimezza, non vuol dire (neppure) che l’efficacia dell’amministrazione della giustizia penale è migliorata, ma solo che ha minore lavoro da sbrigare. Tuttavia la funzione della giustizia penale in ispecie, di assicurare l’ordine sociale non ci guadagna un gran che. Ciò non significa che la riforma sia disprezzabile, ma che non è il caso di intonare peana né confidare in grandi risultati da un bicchiere mezzo pieno.

Teodoro Klitsche de la Grange

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Ucraina, 25a puntata_degenerazioni ed adattamenti di regime Con Stefano Orsi e Max Bonelli

Un conflitto prolungato mette a dura prova la tenuta di qualsiasi regime. Un vero e proprio test, fondato sul sangue e sul sacrificio della popolazione, che può portare alla degenerazione e al disfacimento di uno stato e del tessuto sociale, come ad una capacità di adattamento e di rinnovamento impensabili in tempi di ordinaria amministrazione. In questo conflitto stiamo assistendo ad una dinamica speculare, vedremo se irreversibile. Se da una parte, quella russa, si sta affermando, anche nel senso comune, la realtà di un confronto esistenziale con l’intero blocco occidentale, dall’altra il regime ucraino è aggrappato ad una disperata resistenza fondata sull’aiuto esterno pressoché esclusivo, con tutte le degenerazioni che questa comporta: quello di un regime e di una economia e società fondato sullo stato di guerra e sulla speculazione del più infimo livello. Più simile, quest’ultima ad una struttura per bande di fatto anomica e prive di regole per come le intendiamo. Buon ascolto, Giuseppe Germinario
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Emmanuel Todd: ‘La Terza Guerra Mondiale è iniziata’

Se guardiamo i voti dall’ONU, vediamo che il 75% del mondo non segue l’Occidente, che così appare piccolissimo. Vediamo che questo conflitto, descritto dai media come conflitto di valori politici, è un più profondo conflitto di valori antropologici.

Intervista a cura di Alexandre Devecchio a Emmanuel Todd su “Le Figaro”.

Grande intervista – Emmanuel Todd è antropologo, storico, saggista, prospettivista, autore di numerose opere. Molte di esse, come “La caduta finale”, “Illusione economica” o “Dopo l’impero”, sono diventati classici delle scienze sociali. Il suo ultimo lavoro, “La terza guerra mondiale”, è apparso nel 2022 in Giappone e ha venduto 100.000 copie.

Pensatore scandaloso per alcuni, intellettuale visionario per altri, “Rebelle Destroy” con le sue stesse parole, Emmanuel Todd non lascia indifferente. L’autore de “La caduta finale”, che ha previsto nel 1976 il crollo dell’Unione Sovietica, era rimasto discreto in Francia sulla questione della guerra in Ucraina. L’antropologo ha finora riservato la maggior parte dei suoi interventi al pubblico giapponese, perfino pubblicando nell’arcipelago un titolo provocatorio: “La terza guerra mondiale è già iniziata”. Per “Le Figaro”, descrive in dettaglio la sua tesi iconoclasta. […]

Oltre allo scontro militare tra Russia e Ucraina, l’antropologo insiste sulla dimensione ideologica e culturale di questa guerra e sull’opposizione tra l’Occidente liberale e il resto del mondo che ha acquisito una visione conservatrice e autoritaria. I più isolati non sono, secondo lui, quelli che sono ritenuti tali.

Le Figaro. – Perché pubblicare un libro sulla guerra in Ucraina in Giappone e non in Francia?

Emmanuel Todd. – I giapponesi sono altrettanto anti-russi quanto gli europei. Ma sono geograficamente lontani dal conflitto, quindi non c’è un vero senso di urgenza, non hanno la nostra relazione emotiva con l’Ucraina. E lì, non ho affatto lo stesso status. Qui, ho l’assurda reputazione di essere un ribelle iconoclasta, mentre in Giappone sono un antropologo, uno storico e geopolitico rispettato, che si esprime in tutti i grandi giornali e riviste e di cui tutti i libri sono pubblicati. Laggiù posso esprimermi in un’atmosfera serena, cosa che ho fatto dapprima su delle riviste, e poi pubblicando questo libro, che è una raccolta di interviste. Quest’opera si chiama “La terza guerra mondiale è già iniziata, con 100.000 copie vendute ad oggi.

È ovvio che il conflitto, nel passare da una limitata guerra territoriale a uno scontro economico globale, tra tutto l’Occidente da una parte e la Russia sostenuta dalla Cina dall’altra parte, è divenuto una guerra mondiale.

Perché questo titolo?

Perché è la realtà, la Terza Guerra mondiale è iniziata. È vero che ha iniziato “in piccolo” e con due sorprese. Si è partiti in questa guerra con l’idea che l’esercito della Russia fosse molto potente e che la sua economia fosse molto debole. Si credeva che l’Ucraina sarebbe stata schiacciata militarmente e che la Russia sarebbe stata schiacciata economicamente dall’Occidente. Tuttavia, è accaduto il contrario. L’Ucraina non è stata schiacciata militarmente anche se ha perso il 16% del suo territorio ad oggi; La Russia non è stata schiacciata economicamente. Mentre le parlo, il rublo ha preso l’8% rispetto al dollaro e il 18% rispetto all’euro dalla vigilia dell’ingresso in guerra.

Quindi c’è stata una sorta di malinteso. Ma è ovvio che il conflitto, nel passare da una guerra territoriale limitata a uno scontro economico globale, tra l’intero Occidente da un lato e la Russia sostenuta dalla Cina dall’altro, è diventato una guerra globale. Anche se le violenze militari sono più deboli rispetto a quelle delle precedenti guerre mondiali.

Non starà mica esagerando? L’Occidente non è direttamente impegnato militarmente …

Forniamo comunque armi. Uccidiamo i russi, anche se non ci esponiamo in prima persona. Ma resta il fatto che noi, europei, siamo principalmente impegnati economicamente. Sentiamo d’altronde sopraggiungere il nostro vero ingresso in guerra attraverso l’inflazione e le penurie.

Putin ha commesso un grosso errore all’inizio, che presenta un immenso interesse socio-storico. Coloro che lavoravano sull’Ucraina alla vigilia della guerra consideravano questo paese non tanto come una democrazia emergente, quanto come una società in decomposizione e uno “stato fallito” in divenire. Ci si chiedeva se l’Ucraina avesse perso 10 o 15 milioni di abitanti dalla sua indipendenza. Non possiamo decidere in proposito perché l’Ucraina non fa più censimenti dal 2001, classico segno di una società che ha paura della realtà. Penso che il calcolo del Cremlino fosse che questa società in decomposizione sarebbe crollata nel primo shock, o avrebbe addirittura detto “Benvenuta mamma” alla Santa Russia. Ma ciò che è stato scoperto, al contrario, è che una società in decomposizione, se è alimentata da risorse finanziarie e militari esterne, può trovare in guerra un nuovo tipo di equilibrio e persino un orizzonte, una speranza. I russi non potevano prevederlo. Nessuno poteva.

Ma non è che i russi hanno sottovalutato, nonostante lo stato di autentica decomposizione della società, la forza del sentimento nazionale ucraino, e persino la forza del sentimento europeo di sostegno verso l’Ucraina? E lei stesso non la sottovaluta?

Non lo so. Ci lavoro, ma lo faccio in veste di ricercatore, vale a dire ammettendo che ci sono cose che non si sanno. E per me, stranamente, uno dei campi su cui ho troppo poche informazioni per esprimermi è l’Ucraina. Potrei dirle, sulla fede degli antichi dati, che il sistema familiare della piccola Russia era nucleare, più individualistico del sistema Grande Russo, che era più comunitario, collettivista. Questo, posso dirglielo, ma che cosa sia diventata l’Ucraina, con enormi movimenti della popolazione, un’auto-selezione di alcuni tipi sociali attraverso il rimanere in loco o l’emigrare prima e durante la guerra, non posso dirglielo, non lo sappiamo per il momento.

Uno dei paradossi che devo affrontare è che la Russia non mi pone problemi di comprensione. È qui che sono più fuori passo rispetto al mio ambiente occidentale. Capisco l’emozione di tutti, è mi risulta doloroso parlare come uno storico freddo. Ma quando pensiamo a Giulio Cesare che cattura Vercingetorige ad Alesia, portandolo poi a Roma per celebrare il suo trionfo, non ci si chiede se i romani fossero cattivi o carenti di valori. Oggi, in emozione, in sintonia con il mio paese, posso vedere l’ingresso dell’esercito russo nel territorio ucraino, bombardamenti e morti, distruzione di infrastrutture energetiche, ucraini che crepano di freddo per tutto l’inverno. Ma per me, il comportamento di Putin e dei russi è leggibile altrimenti e vi dirò in che modo.

Tanto per cominciare, ammetto di essere stato preso alla sprovvista all’inizio della guerra, non ci credevo. Oggi condivido l’analisi del geopolitico “realista” americano John Mearsheimer. Quest’ultimo ha fatto la seguente osservazione: ci dicevano che l’Ucraina, il cui esercito era stato preso in mano dai soldati della NATO (americani, britannici e polacchi) almeno dal 2014, era quindi membro di fatto della NATO e che i russi avevano annunciato che non avrebbero mai tollerato un’Ucraina membro della NATO. Questi russi fanno quindi, (come Putin ci ha spiegato il giorno prima dell’attacco) una guerra che dal loro punto di vista è difensiva e preventiva. Mearsheimer ha aggiunto che non avremmo motivo di rallegrarci di qualsiasi difficoltà dei russi perché, poiché per loro si tratta una questione esistenziale, quanto più questa dovesse risultare dura, tanto più loro colpirebbero con forza. L’analisi sembra essersi verificata. Aggiungerei un complemento e una critica all’analisi di Mearsheimer.

Questa guerra è quindi diventata esistenziale per gli Stati Uniti. Non più della Russia, non possono ritirarsi dal conflitto, non possono mollare. Questo è il motivo per cui stiamo ormai dentro una guerra infinita, dentro uno scontro il cui risultato deve essere il crollo dell’uno o dell’altro.

I quali?

Per il complemento: quando si dice che l’Ucraina era di fatto membro della NATO, non si va abbastanza lontano. La Germania e la Francia erano diventate da parte loro partner minori della NATO e non erano a conoscenza di ciò che si tramava in Ucraina a livello militare. Abbiamo criticato l’ingenuità francese e tedesca perché i nostri governi non credevano nella possibilità di un’invasione russa. Certo, ma perché non sapevano che americani, britannici e polacchi potevano consentire all’Ucraina di poter condurre una guerra allargata. L’asse fondamentale della NATO ora è Washington-Londra-Varsavia-Kiev.

Ora la critica: Mearsheimer, da buon americano, sopravvaluta il suo paese. Ritiene che, se per i russi la guerra ucraina è esistenziale, per gli americani è fondamentalmente solo un “gioco” di potere tra gli altri. Dopo il Vietnam, l’Iraq e l’Afghanistan, una disfatta in più o in meno…. Cosa importa? L’assioma di base della geopolitica americana è: “Possiamo fare quello che vogliamo perché siamo al sicuro, lontani, tra due oceani, non ci succederà mai nulla”. Niente sarebbe esistenziale per l’America. Analisi insufficiente che ora porta Biden a una fuga in avanti. L’America è fragile. La resistenza dell’economia russa spinge il sistema imperiale americano verso il precipizio. Nessuno aveva previsto che l’economia russa avrebbe tenuto testa al “potere economico” della NATO. Credo che i russi stessi non lo avessero anticipato.

Se l’economia russa resistesse alle sanzioni indefinitamente e riuscisse a esaurire l’economia europea, laddove essa rimanesse in campo, sostenuta dalla Cina, il controllo monetario e finanziario americano del mondo crollerebbe e con esso la possibilità per gli Stati Uniti di finanziare il proprio enorme deficit commerciale dal nulla. Questa guerra è quindi diventata esistenziale per gli Stati Uniti. Così come la Russia, non possono ritirarsi dal conflitto, non possono mollare. Questo è il motivo per cui ora siamo in una guerra infinita, in uno scontro il cui risultato deve essere il crollo dell’uno o dell’altro. Cinesi, indiani e sauditi, tra gli altri, esultano.

Ma l’esercito russo sembra ancora in una brutta posizione. Alcuni arrivano perfino a prevedere il crollo del regime, lei non ci crede?

No, all’inizio sembra esserci stata, in Russia, un’esitazione, ovvero la sensazione di essere stati abusati, di non essere stati avvertiti. Ma lì, i russi sono installati nella guerra e Putin beneficia di qualcosa di cui non abbiamo idea, ossia che gli anni 2000, gli Anni Putin, sono stati per i russi gli anni del ritorno all’equilibrio, del ritorno a una vita normale. Penso che Macron rappresenterà per contro agli occhi dei francesi la scoperta di un mondo imprevedibile e pericoloso, il ricongiungimento con la paura. Gli anni ’90 furono un periodo incredibile di sofferenza per la Russia. Gli anni 2000 sono stati un ritorno alla normalità, e non solo in termini di livelli di vita: abbiamo visto crollare i tassi di suicidio e di omicidio e, soprattutto, aqbbiamo visto il mio indicatore preferito, il tasso di mortalità infantile, che precipitava e persino andava al di sotto del tasso americano.

Nello spirito dei russi, Putin incarna (nel senso forte, cristico), questa stabilità. E, fondamentalmente, i russi ordinari ritengono, come il loro presidente, di fare una guerra difensiva. Sono consapevoli di aver commesso errori all’inizio, ma la loro buona preparazione economica ha aumentato la loro fiducia, non in confronto all’Ucraina (la resistenza degli ucraini è per loro interpretabile, sono coraggiosi come dei russi, mai degli occidentali combatterebbero così bene!), bensì di fronte a quel che chiamano “L’Occidente Collettivo”, oppure “gli Stati Uniti e i loro vassalli”. La vera priorità del regime russo non è tanto la vittoria militare sul terreno, quanto non perdere la stabilità sociale acquisita negli ultimi 20 anni.

Pertanto, fanno questa guerra “in economia”, in particolare un’economia d’uomini. Perché la Russia mantiene il suo problema demografico, con una fertilità di 1,5 bambini per donna. Tra cinque anni avranno classi di età vuote. Secondo me, devono vincere la guerra in 5 anni o perderla. Una durata normale per una guerra mondiale. Pertanto fanno questa guerra in economia, ricostruendo un’economia di guerra parziale, ma volendo preservare gli uomini. Questo è il significato del ritiro di Kherson, dopo quelli nelle regioni di Kharkiv e Kiev. Noi contiamo i chilometri quadrati ripresi dagli ucraini, ma i russi da parte loro attendono la caduta delle economie europee. Noi siamo il loro fronte principale. Posso ovviamente sbagliarmi, ma vivo con l’idea che il comportamento dei russi sia leggibile, perché razionale e duro. Le incognite sono altrove.

Lei spiega che i russi percepiscono questo conflitto come “una guerra difensiva”, ma nessuno ha cercato di invadere la Russia e oggi, a causa della guerra, la NATO non ha mai avuto così tanta influenza ad Est con i paesi baltici che vi si vogliono integrare.

Per risponderle, le propongo un esercizio psico-geografico, che può essere fatto zoomando all’indietro. Se guardiamo la mappa dell’Ucraina, vediamo l’ingresso alle truppe russe da nord, est, sud … e lì, in effetti, abbiamo la visione di un’invasione russa, non c’è altra parola. Ma se facciamo un enorme zoom all’indietro, verso una percezione del mondo, poniamo fino Washington, vediamo che i cannoni e i missili della NATO convergono lontano verso il campo di battaglia, movimenti di armi che erano iniziati prima della guerra. Bakhmout si trova a 8.400 chilometri da Washington ma a 130 chilometri dal confine russo. Una semplice lettura della mappa del mondo consente di pensare, di considerare l’ipotesi che “sì, dal punto di vista russo, quella deve essere una guerra difensiva”.

Quando guardiamo i voti delle Nazioni Unite, vediamo che il 75% del mondo non segue l’Occidente, che a quel punto appare piccolissimo. Vediamo quindi che questo conflitto, descritto dai nostri media come un conflitto di valori politici, è a un livello più profondo un conflitto di valori antropologici.

Secondo lei, l’ingresso nella guerra dei russi è anche spiegato dal relativo declino degli Stati Uniti …

In ‘Dopo l’Impero’, pubblicato nel 2002, ho evocato il declino a lungo termine negli Stati Uniti e il ritorno del potere russo. Dal 2002, l’America ha una catena di sconfitte e ripiegamenti. Gli Stati Uniti hanno invaso l’Iraq, ma hanno lasciato l’Iran quale massimo attore del Medio Oriente. Sono fuggiti dall’Afghanistan. La satellizzazione dell’Ucraina da parte dell’Europa e degli Stati Uniti non ha rappresentato un ulteriore dinamismo occidentale, bensì l’esaurimento di un’onda lanciata intorno al 1990, rilanciata dal risentimento anti-russo dei polacchi e dei baltici. Tuttavia, è stato in questo contesto di riflusso americano che i russi hanno preso la decisione di mettere al passo l’Ucraina, perché avevano la sensazione di avere finalmente i mezzi tecnici per farlo.

Esco dalla lettura di un’opera di S. Jaishankar, ministro degli Affari Esteri dell’India (The India Way), pubblicata poco prima della guerra, che vede la debolezza americana, che sa che lo scontro tra Cina e Stati Uniti non avrà un vincitore ma darà spazio a un paese come l’India e molti altri. Aggiungo: ma non agli europei. Ovunque vediamo l’indebolimento degli Stati Uniti, ma non in Europa e in Giappone perché uno degli effetti del ritrarsi del sistema imperiale è che gli Stati Uniti rafforzano la loro presa sui suoi protettorati iniziali.

Se leggiamo Brzeziński (La grande scacchiera), vediamo che l’Impero americano è stato formato alla fine della seconda guerra mondiale dalla conquista della Germania e del Giappone, che sono ancora oggi protettorati. Mentre il sistema americano si ritrae, pesa sempre più pesantemente sulle élite locali dei protettorati (e includo qui tutta l’Europa). I primi a perdere tutta l’autonomia nazionale, saranno (o sono già) gli inglesi e gli australiani. Internet ha prodotto nell’Anglosfera un’interazione umana con gli Stati Uniti di tale intensità che le loro università, media e élite artistiche sono, per così dire, annesse. Sul continente europeo siamo un po’ protetti dalle nostre lingue nazionali, ma la caduta nella nostra autonomia è considerevole e rapida. Ricordiamoci della guerra in Iraq, quando Chirac, Schröder e Putin hanno fatto conferenze stampa comuni contro la guerra.

Molti osservatori sottolineano che la Russia ha il PIL della Spagna; non è che sopravvaluta la sua potenza economica e la sua capacità di resistenza?

La guerra diventa un test dell’economia politica, è il grande rivelatore. Il PIL della Russia e della Bielorussia rappresenta il 3,3% del PIL occidentale (Stati Uniti, Anglosfera, Europa, Giappone, Corea del Sud), praticamente nulla. Ci si chiede come questo PIL insignificante possa affrontare e continuare a produrre missili. Il motivo è che il PIL è una misura fittizia della produzione. Se ti ritiriamo dal PIL americano metà delle sue spese sanitarie sovrafatturate, poi la “ricchezza prodotta” dall’attività dei suoi avvocati, dalle carceri più affollate del mondo, poi da un’intera economia di servizi scarsamente definiti tra cui la “produzione” dei suoi 15-20.000 economisti con uno stipendio medio annuo di 120 mila dollari, ci rendiamo conto che una parte importante di questo PIL è solo vapore acqueo. La guerra ci riporta all’economia reale, rende possibile capire quale sia la vera ricchezza delle nazioni, la capacità produttiva e quindi la capacità di guerra. Se torniamo alle variabili materiali, vediamo l’economia russa. Nel 2014, abbiamo messo in atto le prime importanti sanzioni contro la Russia, ma essa ha da allora aumentato la sua produzione di grano, che va da 40 a 90 milioni di tonnellate nel 2020. Mentre, grazie al neoliberismo, la produzione americana di grano, tra il 1980 e 2020, è passata da 80 a 40 milioni di tonnellate. La Russia è anche diventata il primo esportatore di centrali nucleari. Nel 2007, gli americani hanno spiegato che il loro avversario strategico era in un tale stato di decadimento nucleare che presto gli Stati Uniti avrebbero avuto una capacità di primo colpo atomico su una Russia che non avrebbe potuto rispondere. Oggi i russi sono in superiorità nucleare con i loro missili ipersonici.

La Russia ha quindi un’autentica capacità di adattamento. Quando vuoi prendere in giro le economie centralizzate, sottolinei la loro rigidità, mentre quando fai l’apologia del capitalismo, ne vanti la flessibilità. Giusto. Affinché un’economia sia flessibile, prendi ovviamente il mercato dei meccanismi finanziari e monetari. Ma prima di tutto, hai bisogno di una popolazione attiva che sappia fare delle cose. Gli Stati Uniti hanno ora più del doppio della popolazione della Russia (2,2 volte nelle fasce di età degli studenti). Resta il fatto che con proporzioni da parte di coorti comparabili di giovani che fanno istruzione superiore, negli Stati Uniti, il 7% sta studiando ingegneria, mentre in Russia è il 25%. Ciò significa che con 2,2 volte meno persone che studiano, i russi formano il 30% di più ingegneri. Gli Stati Uniti colmano il buco con studenti stranieri, ma che sono principalmente indiani e ancora più cinesi. Questa risorsa di sostituzione non è sicura e già diminuisce. È il dilemma fondamentale dell’economia americana: può affrontare la concorrenza cinese solo importando forza lavoro qualificata cinese. Propongo qui il concetto di bilanciamento economico. L’economia russa, da parte sua, ha accettato le regole operative del mercato (è persino un’ossessione per Putin quella di preservarle), ma con un ruolo grandissimo dello stato. E si tiene anche la sua flessibilità della formazione di ingegneri che consentono gli adattamenti, sia industriali che militari.

Molti osservatori credono, al contrario, che Vladimir Putin abbia sfruttato la rendita delle materie prime senza aver saputo sviluppare la sua economia …

Se fosse così, questa guerra non avrebbe avuto luogo. Una delle cose sorprendenti in questo conflitto, e questo lo rende così incerto, è che pone (come qualsiasi guerra moderna) la questione dell’equilibrio tra tecnologie avanzate e produzione di massa. Non vi è dubbio che gli Stati Uniti abbiano alcune delle tecnologie militari più avanzate, che a volte sono state decisive per i successi militari ucraini. Ma quando si entra nella durata, in una guerra di logoramento, non solo dalla parte delle risorse umane, ma anche di quelle materiali, la capacità di continuare dipende dal settore della produzione di armi più basso. E troviamo, vedendolo ritornare dalla finestra, la questione della globalizzazione e il problema fondamentale degli occidentali: abbiamo trasferito una proporzione tale delle nostre attività industriali che non sappiamo se la nostra produzione di guerra può proseguire. Il problema viene ammesso. La CNN, il New York Times e il Pentagono si chiedono se l’America riuscirà a rilanciare le catene di produzione di questo o quel tipo di missile. Ma non sappiamo se i russi sono in grado di seguire il ritmo di un tale conflitto. Il risultato e la soluzione della guerra dipenderanno dalla capacità dei due sistemi di produrre armamenti.

Secondo lei questa guerra non è solo militare ed economica, ma anche ideologica e culturale …

Mi esprimo qui soprattutto come antropologo. In Russia, ci sono state strutture familiari più dense, comunitarie, di alcune delle quali certi valori sono sopravvissuti. C’è un sentimento patriottico russo che è qualcosa di cui qui da noi non abbiamo idea, nutrito dal subconscio di una nazione famiglia. La Russia aveva un’organizzazione familiare patrilineare, vale a dire in cui gli uomini sono centrali e non può aderire a tutte le innovazioni occidentali neo-femministe, LGBT, transgender … Quando vediamo la duma russa vota una legislazione ancora più repressiva sulla “propaganda LGBT”, noi ci sentiamo superiori. Posso sentirlo come un occidentale normale. Ma da un punto di vista geopolitico, se pensiamo in termini di soft power, questo è un errore. Presso il 75% del pianeta, l’organizzazione della parentela era patrilineare e si può sentire una forte comprensione degli atteggiamenti russi. Per il non-Occidente collettivo, la Russia afferma un rassicurante conservatorismo morale. L’America Latina, tuttavia, qui sta sul lato occidentale.

Quando si fa geopolitica, ci si interessa a più dominii: i rapporti di forza energetici, militari, produzione di armi (che rinvia ai rapporti di forza industriali). Ma c’è anche l’equilibrio ideologico e culturale del potere, che gli americani chiamano il “soft power”. L’URSS aveva una certa forma di soft power, il comunismo, che influenzava parte dell’Italia, dei cinesi, dei vietnamiti, dei serbi, dei lavoratori francesi … ma il comunismo faceva in fondo orrore al mondo musulmano per via del suo ateismo e non fu particolarmente di ispirazione in India, tranne che nel Bengala Occidentale e nel Kerala. Ora, attualmente, poiché la Russia si è riposizionata come archetipo di grande potenza, non solo anti -coloniale, ma anche patrilineare e conservatrice dei costumi tradizionali, può andare molto più in là con la seduzione. Gli americani si sentono traditi oggi dall’Arabia Saudita che rifiuta di aumentare la sua produzione di petrolio, nonostante la crisi energetica dovuta alla guerra, e che di fatto si schiera dalla parte dei russi: in parte, ovviamente, per interesse petrolifero. Ma è evidente che la Russia di Putin, che è diventata moralmente conservatrice, è diventata solidale con i sauditi, i quali sono sicuro che abbiano qualche problemino con i dibattiti americani sull’accesso delle donne transgender (definite come maschi al concepimento) ai servizi igienici delle donne.

I giornali occidentali sono tragicamente divertenti, mentre continuano a dire: “La Russia è isolata, la Russia è isolata”. Ma quando guardiamo i voti delle Nazioni Unite, vediamo che il 75% del mondo non segue l’Occidente, che a quel punto sembra molto piccolo. Se siamo antropologi, possiamo spiegare la mappa, da un lato i paesi catalogati come aventi un buon livello di democrazia nelle classifiche di The Economist (vale a dire l’anglosfera, l’Europa …), dall’altra parte i paesi autoritari, che si diffondono dall’Africa fino alla Cina attraverso il mondo arabo e la Russia. Per un antropologo, questa è una carta banale. Alla periferia “occidentale” troviamo paesi dalla struttura della famiglia nucleare con sistemi di parentela bilaterale, vale a dire dove parenti maschi e femmine sono equivalenti nella definizione dello stato sociale del bambino. E al centro, con la maggior parte della massa afro-europea-asiatica, troviamo le organizzazioni familiari comunitarie e patrilineari. Vediamo quindi che questo conflitto, descritto dai nostri media come un conflitto di valori politici, è a un livello più profondo un conflitto di valori antropologici. È questa incoscienza e questa profondità che rendono pericoloso lo scontro.

Fonte originale: https://www.lefigaro.fr/vox/monde/emmanuel-todd-la-troisieme-guerre-mondiale-a-commence-20230112.

Traduzione per Megachip a cura di Pino Cabras.

https://megachip.globalist.it/cronache-internazionali/2023/01/15/emmanuel-todd-la-terza-guerra-mondiale-e-iniziata/

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Venti verità sui legami pachistani-talebani alla luce delle loro ultime tensioni, di ANDREW KORYBKO

I legami tra pachistani e talebani sono molto più complicati di quanto presuma la maggior parte degli osservatori, soprattutto alla luce delle loro ultime tensioni. Hanno perso il controllo sul loro dilemma di sicurezza dopo che i loro partner americani e TTP, che avevano rispettivamente reclutato come leva sull’altro, li hanno sfruttati per perseguire i propri fini egoistici. Non è ancora troppo tardi per evitare una guerra pachistano-talebana, ma la prerogativa spetta solo al regime golpista post-moderno del primo citato, che ha ulteriori ragioni per lanciarne una.

” Il Pakistan potrebbe essere in procinto di lanciare una ‘operazione militare speciale’ in Afghanistan ” per autodifesa in risposta alle minacce terroristiche incontrollabili del TTP (“talebani pakistani”) provenienti da quel paese. Anche se il pericoloso dilemma sulla sicurezza pachistano-talebana non raggiunge il punto di rottura, tuttavia, rivela ancora molte scomode verità sui loro legami. Il presente pezzo aumenterà la consapevolezza di ciò che questi sono al fine di infondere nel lettore una comprensione più solida delle loro relazioni.

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1. I talebani non sono mai stati semplici burattini pakistani in primo luogo

I talebani afghani (chiamati semplicemente “i talebani”) non sono mai stati veramente i burattini pachistani che molti osservatori davano per scontati, poiché alla fine si sono rifiutati di tagliare i rapporti con il TTP anche dopo essere tornati al potere a Kabul in parte con il sostegno di Islamabad.

2. I legami pakistani-talebani dal 2001 sono stati un matrimonio di convenienza

Il Pakistan e i talebani si sono usati l’un l’altro per perseguire i propri interessi: il primo ha usato quel gruppo per ottenere una “profondità strategica” in Afghanistan nei confronti dell’India e degli Stati Uniti, mentre il secondo ha usato il Pakistan come protettore di stato non ufficiale per riconquistare il potere dopo l’invasione americana.

3. I leader talebani sospettavano che il Pakistan volesse dominare l’Afghanistan

L’influenza che le agenzie di intelligence pakistane hanno esercitato su molti talebani negli ultimi due decenni per perseguire i suoi interessi sopra menzionati ha portato i leader di quel gruppo a sospettare che Islamabad volesse dominare l’Afghanistan, il cui scenario andava contro le loro fervide convinzioni nazionaliste.

4. Il TTP è stato considerato dai talebani come un credibile strumento di deterrenza

Per scongiurare preventivamente questo scenario, i talebani hanno collaborato con il TTP nella speranza che le capacità di guerra asimmetrica di questo gruppo terroristico potessero dissuadere il Pakistan dal tentare di dominare l’Afghanistan all’indomani di quello che giustamente prevedevano sarebbe stato l’inevitabile ritiro dell’Occidente.

5. I talebani hanno perso il controllo del TTP sempre più indipendente

Analogamente a come i talebani non sono mai stati veramente burattini pakistani in primo luogo, né il TTP è mai stato dei talebani, e questo è diventato abbondantemente ovvio dopo che i leader de facto dell’Afghanistan non sono riusciti a mediare con successo i colloqui di pace tra i suoi alleati ideologici e Islamabad negli ultimi 18 mesi .

6. Il colpo di stato post-moderno del Pakistan ha cambiato le sue dinamiche con i talebani

Le tensioni tra pachistani e talebani sono rimaste per lo più gestibili fino al colpo di stato postmoderno orchestrato dagli Stati Uniti nel primo citato, che ha portato il suo governo importato a ribaltare in modo informale la politica dell’ex primo ministro Khan di mantenere l’America a debita distanza, esacerbando così i sospetti dei talebani sul Pakistan .

7. Il TTP è diventato una preziosa risorsa talebana dopo il cambio di regime del Pakistan

Nonostante i dubbi che i talebani avrebbero potuto avere sul TTP dopo che il gruppo aveva mostrato la sua indipendenza come spiegato in precedenza, è arrivato a considerare la loro partnership come una risorsa preziosa dopo che il cambio di regime del Pakistan ha aumentato il rischio che le forze armate statunitensi tornassero nella regione attraverso il loro nuovo delega.

8. L’attacco dei droni americani di agosto a Kabul è stata l’ultima goccia per i talebani

L’attacco di droni statunitensi a Kabul all’inizio di agosto contro il defunto capo di Al Qaeda è stato ampiamente considerato come facilitato passivamente dal regime golpista post-moderno del Pakistan che ha permesso al loro alleato tradizionale di usare il suo spazio aereo , il che ha confermato i peggiori timori dei talebani su quei due collaborando ancora una volta .

9. Dopo agosto, il TTP è diventato l’ibrido guerriero talebano anti-pakistano

I talebani poco dopo hanno strumentalizzato i loro partner TTP come guerrieri ibridi anti-pakistani per un’ingiusta disperazione per scoraggiare qualsiasi ulteriore rafforzamento della partnership militare pakistano-statunitense in rapido miglioramento, spiegando così la follia di attacchi terroristici del gruppo negli ultimi cinque mesi.

10. La carta TTP dei talebani si è ritorta contro costringendo il Pakistan a difendersi

Il terrorismo è terrorismo, indipendentemente dalla giustificazione o dall’intento strategico che c’è dietro, e il Pakistan ha tutto il diritto di difendersi da tali minacce provenienti dall’Afghanistan, il che significa che la carta TTP dei talebani si è ritorta contro di essa esacerbando ulteriormente le tensioni dopo che il precedente attacco degli Stati Uniti li aveva portati a intensificare questo estate.

11. Un ciclo autosufficiente di mutua destabilizzazione ora affligge le loro relazioni

Le tensioni tra pachistani e talebani sono diventate ingestibili dopo il cambio di regime dello scorso aprile nel primo e nel secondo in risposta all’alleanza militare successivamente ripristinata di Islamabad con Washington armando tacitamente il TTP contro di essa, con il loro dilemma sulla sicurezza che ora sta rapidamente sfuggendo al controllo.

12. I talebani e il Pakistan sono influenzati rispettivamente dal TTP e dagli Stati Uniti

A parte le ragioni politiche interne legate al “salvare la faccia” davanti alle loro popolazioni, i talebani e il Pakistan stanno entrambi lottando per ritirarsi dall’orlo del conflitto, in parte a causa dell’influenza che il TTP e gli Stati Uniti esercitano su di loro rispettivamente a causa dei loro ruoli in catalizzando quest’ultima crisi.

13. Nessuna delle due parti può soddisfare le richieste dell’altro senza perdere la faccia

I talebani non possono soddisfare la richiesta del Pakistan di abbandonare la sua partnership con il TTP sempre più indipendente per non essere accusato di svendere i suoi alleati ideologici, mentre il Pakistan non può soddisfare la richiesta implicita dei talebani di rompere con gli Stati Uniti poiché ora ha bisogno dell’America aiuto.

14. Il TTP e gli Stati Uniti stanno sfruttando rispettivamente i talebani e il Pakistan

I due punti precedenti dimostrano che le dinamiche di potere tra Pakistan-USA e Talebani-TTP sono distorte verso il secondo giocatore menzionato in ciascuna coppia poiché gli Stati Uniti sfruttano il Pakistan per riguadagnare la sua influenza regionale in declino mentre il TTP sfrutta i talebani per dichiarare guerra al Pakistan .

15. Il Pakistan e i talebani sono intrappolati in una trappola creata da loro stessi

Il Pakistan e i talebani sono ugualmente colpevoli di essersi intrappolati in una trappola creata da loro stessi facendo affidamento su terzi per ottenere influenza sull’altro, il che ha portato gli Stati Uniti e il TTP a esercitare un’influenza sproporzionata sui loro partner e successivamente a perpetuare la loro tensioni bilaterali.

16. Gli attori regionali a livello statale non hanno alcuna influenza su questo dilemma di sicurezza

Il dilemma sulla sicurezza tra pachistani e talebani esacerbato congiuntamente dal TTP e dagli Stati Uniti è al di là dell’influenza di attori regionali a livello statale come Russia, Cina e Iran, essendo anche il caso che le precedenti affermazioni di Islamabad sull’influenza indiana sul TTP siano irrilevanti per le ultime dinamiche

17. Una guerra pachistano-talebana probabilmente farebbe deragliare i piani di integrazione regionale

Lo scoppio di un conflitto pakistano-talebano convenzionale di qualsiasi durata e intensità rovinerebbe probabilmente le loro relazioni per anni e quindi impedirebbe all’Afghanistan di compiere il suo destino geostrategico di ponte tra l’Asia centrale e meridionale , facendo deragliare così gli ambiziosi piani di integrazione della regione più ampia.

18. Solo il TPP e gli Stati Uniti trarrebbero vantaggio da una guerra tra pachistani e talebani

Lo scenario di un conflitto pakistano-talebano convenzionale avvantaggia solo il TPP e gli Stati Uniti, il primo dei quali potrebbe fare affidamento indefinitamente sui talebani come loro protettori per condurre la propria guerra contro il Pakistan, mentre il secondo potrebbe sfruttare indefinitamente il Pakistan come suo delegato regionale su un pretesto antiterrorismo.

19. È prerogativa del Pakistan se scoppi o meno una guerra con i talebani

Il Pakistan può evitare la guerra con i talebani rafforzando la sicurezza delle sue frontiere per impedire l’infiltrazione del TTP parallelamente allo sradicamento delle cellule dormienti di quel gruppo invece di ricorrere drammaticamente a grandi attacchi transfrontalieri o altro, spostando così in modo decisivo i legami sulla traiettoria di una “guerra fredda” ” invece di uno caldo.

20. Il regime post-moderno del colpo di stato pakistano potrebbe ancora entrare in guerra per ulteriori motivi

Considerando l’intuizione di cui sopra su come il Pakistan può evitare la guerra con i talebani pur difendendosi dal TTP, qualsiasi decisione di andare ancora in guerra sarebbe probabilmente per ulteriori ragioni legate al radunare la popolazione attorno al suo regime impopolare e al rispetto delle richieste degli Stati Uniti in cambio per gli aiuti.

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Come il lettore ora sa, i legami pakistani-talebani sono molto più complicati di quanto suppongano la maggior parte degli osservatori, soprattutto alla luce delle loro ultime tensioni. Hanno perso il controllo sul loro dilemma di sicurezza dopo che i loro partner che hanno reclutato come leva sull’altro li hanno sfruttati per perseguire i propri fini egoistici. Non è ancora troppo tardi per evitare una guerra pachistano-talebana, ma la prerogativa spetta solo al regime golpista post-moderno del primo citato, che ha ulteriori ragioni per lanciarne una.

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Biden e la caccia al tesoro_con Gianfranco Campa

Biden ovvero la parabola discendente di una controfigura. Siamo al terzo ritrovamento di documenti riservati in casa Biden o dintorni. Non è più soltanto un avvertimento; si tratta di uno stillicidio destinato a mantenere alta la pressione e debilitare e compromettere definitivamente, sia pure in forma controllata, il personaggio, ormai patetico. Per il resto saranno le dinamiche ormai innescate al Congresso a completare l’opera. Una operazione parallela, ma anche un viatico al tentativo di estromettere Trump dall’agone politico e di sterilizzare il movimento cresciuto sotto le sue ali. Un movimento, per altro, che sta imparando sempre più a camminare sulle proprie gambe. L’amministrazione di Biden ha cercato in questo anno di cavalcare i temi sollevati dal suo acerrimo nemico. La sostanza, in realtà, a cominciare dal problema dei flussi migratori, dal contenuto degli accordi internazionali e dalle dinamiche geopolitiche sono in continuità con le passate politiche demo-neoconservatrici. Una fase comunque di transizione gravida di rischi dovuta alla mancanza di una gestione unitaria e controllata e, soprattutto, alla crescente divaricazione tra le ambizioni coltivate e i mezzi disponibili. Il conflitto in Ucraina, la situazione in Brasile, il recente accordo tripartito tra Messico, Canada e Stati Uniti sono solo la punta di un iceberg. Buon ascolto, Giuseppe Germinario
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SUL “NOMOS” POST-MODERNO(*), di Teodoro Katte Klitsche de la Grange

 

NOTA

Questo articolo è stato pubblicato nel 2003 su “Palomar”. E’ il primo di una serie di saggi che saranno pubblicati sul sito. La problematica che affronta appare tuttora – in gran parte – attuale. Sovranità, jus belli, potere e diritto sono riproposti di continuo in un ordine internazionale in via di trasformazione, di cui il conflitto in Ucraina è una delle conseguenze. 

Teodoro Katte Klitsche de la Grange

SUL “NOMOS” POST-MODERNO(*)

Carl Schmitt, nelle prime pagine del “Der Nomos der Erde”, dopo aver individuato nell’occupazione sia l’atto fondante di un ordinamento che la possibilità di dominio non solo sulla terra, ma anche (sia pure profondamente diverso) sul mare, e i rapporti tra i due tipi, sostiene che queste sono profondamente trasformate “da un nuovo avvenimento spaziale: la possibilità di un dominio sullo spazio aereo. Cambiano non solo le dimensioni della sovranità territoriale, non solo l’efficacia  e la rapidità dei mezzi umani di potere, di comunicazione e informazione, ma anche i contenuti dell’effettività. Quest’ultima possiede sempre un aspetto spaziale e rimane sempre, tanto nel caso delle occupazioni di terra e delle conquiste, quanto nel caso delle barriere e dei blocchi, un importante concetto di diritto internazionale. Muta inoltre, in seguito a ciò, anche la relazione tra protezione e obbedienza, e quindi la struttura del potere politico e sociale stesso, e il rapporto tra questi e altri poteri. Ha inizio così un nuovo stadio della coscienza umana dello spazio e dell’ordinamento globale”.

Tale affermazione, come tutto l’inizio del “Der Nomos der Erde”, si può collegare alla definizione che un altro grande giurista, Maurice Hauriou, da dell’ “idea direttiva” dello Stato ovvero di “attività protettiva di una società civile nazionale svolta da un potere pubblico a base territoriale” e prosegue, chiarendola, “non si deve confondere l’idea dell’opera da realizzare, che merita il nome di “idea direttiva dell’impresa” né con la nozione di scopo né con quella di funzione. L’idea dello Stato, per esempio, è cosa ben diversa dallo scopo dello Stato o dalla sua funzione”[1]. Nel “Précis de droit constitutionnel” Hauriou ricollega l’idea di Stato all’ “ordine  individualista”, conseguente al formarsi di civiltà sedentarie[2]: di guisa che la sedentarietà, cioè il rapporto stabile e ordinato con la terra è il fondamento (tra l’altro) dell’idea di Stato, tipo particolare di ordinamento localizzato.

Lo Stato (e il di esso concetto) si specifica con una serie di distinzioni caratteristiche, tra le quali, particolarmente interessante il tema qui trattato, è quella tra interno ed esterno e la delimitazione tra tali due aree, cioè il confine. Interno ed esterno, intra o extra moenia, non costituisce soltanto una divisione spaziale, né si limita a determinare l’ambito d’esercizio dell’imperium dello Stato, ma è la distinzione tra due diversi “ordinamenti”, fondati su principi e presupposti diversi. All’interno, lo spazio della sovranità statale, dell’imperium basato sul principio che “il sovrano nello Stato ha verso i sudditi soltanto diritti e nessun dovere (coattivo)”[3], la volontà sovrana è, per definizione, irresistibile e non condizionabile con limiti e controlli giuridici.

Corollario di questa illimitatezza è che non vi è alcun potere esterno che possa influire all’interno (dei confini) dell’unità politica. Mentre all’esterno il diritto internazionale (denominazione che Schmitt corregge, con maggiore precisione, in interstatale) si basa su una società di Stati simili e pari, componenti l’ordinamento internazionale: per cui, di converso, nessuno può dettar legge all’altro, ma i rapporti tra gli stessi sono a carattere, in linea di principio, paritario. Tuttavia Spinoza ne coglieva assai chiaramente il senso (e il limite), quando scriveva che “Lo Stato, dunque, in tanto è autonomo in quanto è in grado di provvedere alla propria sussistenza e alla propria difesa dall’aggressione di un altro, e… in tanto è soggetto ad altri, in quanto teme la potenza di un altro Stato o in quanto ne è impedito dal conseguire ciò che vuole o, infine, in quanto ha bisogno del suo aiuto per la propria conservazione o per il proprio incremento”[4]; per cui uno Stato, in diritto uguale e pari agli altri, lo è di fatto nella misura in cui riesca ad avere potentia sufficiente a garantire quel tanto di jus effettivamente esercitabile nel consesso internazionale (o interstatale).

Il rapporto tra jus e potentia, nel pensiero di Spinoza, è simmetrico: nel senso che non c’è il primo senza la seconda, né la seconda senza il primo. Un diritto internazionale che non si fondasse sul potere di fatto dei soggetti dell’ordinamento internazionale di conservare la pace e fare la guerra ma su un legalitarismo normativistico sarebbe un non-senso, una parata inutile di pubbliche impotenze.

Ciò non è senza conseguenze, ovviamente, per lo Stato: se questo non ha potentia sufficiente a garantire la protezione, perché non può, almeno, difendersi, se non aggredire, è la stessa obbligazione politica “principe” verso i sudditi a perdere – anch’essa – di senso. Uno Stato che ha bisogno della protezione di un altro non è libero; e neppure può garantire la protezione dei cittadini, (o lo può, ma solo in parte) per la medesima ragione. In tal modo, a seguire Hobbes, ne viene meno anche la legittimità e la funzione, intesa dal filosofo di Malmesbury come garanzia della protezione cui corrisponde il dovere di obbedienza (con la conseguenza che questa va data a chi effettivamente è in grado di assicurare quella).

Le possibilità di fatto sono, tuttavia, quelle che determinano la possibilità concreta di appropriazione, distribuzione e regolazione di una materia e/o di uno spazio: è la potentia che determina lo jus: il “Nomos” moderno della terra presupponeva la navigazione oceanica (e tecnologia, conoscenze che l’hanno reso possibile), cui conseguiva l’appropriazione e la divisione del continente americano – e di parte degli altri – realizzata dalle potenze europee. Ma anche su un altro versante, quello europeo ed euro-asiatico (continentale), connotato da una pluralità di Stati confinanti (per terra) o vicini, non difesi come l’Inghilterra dal fatto di essere un’isola, le innovazioni tecniche e scientifiche sviluppate tra il finire del medioevo e l’inizio dell’evo moderno non furono neutrali, ma decisive per l’assetto politico-giuridico costituitosi.

Sicuramente il nascere dello Stato moderno dal corpo delle monarchie feudali lo si deve a fattori “ideali”, tra cui non bisogna trascurare l’esigenza di una protezione più efficace di quella assicurata dal pluralismo feudale; ma tra quelli “materiali” appare decisiva la diffusione delle armi da fuoco. Queste decretarono l’obsolescenza, ad un tempo, della cavalleria aristocratica feudale e di quella “guerriera” dei popoli nomadi. A Pavia i tercios spagnoli, a Khazan gli strelizzi russi aprivano un nuovo capitolo della storia (militare e) politica; non nasceva solo lo Stato moderno, ma nelle contese tra questo e i non-Stati (interni ed esterni) – ovvero le altre forme di unità e organizzazione politica – il primo vinceva (quasi) sempre. Le aristocrazie feudali fecero così, essendo divenute più che inutili, d’impaccio alla nuova istituzione, una “fine” politica parallela a quella dei popoli nomadi, che per millenni avevano costituito uno dei principali “motori” della storia del Vecchio Mondo: negli stessi anni in cui la Fronda aristocratica perdeva il conflitto con lo Stato monarchico di Mazzarino e del giovane Luigi XIV, russi e cinesi s’incontravano sull’Amur, e definivano i confini dei rispettivi imperi. I nomadi erano circondati nelle loro tende, come la grande nobiltà francese sorvegliata a Versailles: non vi sarebbe stata più alcuna di quelle eruzioni nelle terre dei popoli stanziali che dalle invasioni indo-europee  protostoriche a Tamerlano avevano periodicamente rimesso in moto la storia del mondo. I popoli nomadi regredivano (nelle possibilità politiche) da Gengis Khan a Pugaciov: dall’imperatore al ribelle.

Così era ridimensionato, e praticamente scompariva, quel “principio fluttuante, vacillante” della storia, che Hegel vedeva nei nomadi[5].

Occorre vedere quanto di questa “chiusura” politico-istituzionale si debba allo spirito del Rinascimento e della Riforma, e quanto al fatto che artiglierie e moschetti erano molto più efficaci nel serrare le frontiere marittime e terrestri degli eserciti feudali, e molto meno condizionanti il potere monarchico. Sicuramente, tuttavia, lo “spirito” della modernità e l’elemento, per così dire, materiale, hanno collaborato allo stesso esito. Si può, a tale proposito, ricordare l’opinione di Marx che l’umanità si pone (e risolve) i problemi quando ne sono mature le soluzioni[6]. Il sistema degli Stati sovrani europei nasceva proprio al momento in cui ne maturavano le condizioni “fattuali”.

Appare decisivo che, comunque, non sarebbe stato possibile realizzare, almeno al grado di efficacia ottenuto, quella “chiusura” se non con i mezzi che la tecnica “moderna” aveva messo a disposizione: pochi moschettieri ed artiglieri ben armati ed addestrati potevano fermare e sconfiggere orde assai più numerose di valorosi guerrieri nomadi, occuparne e presidiarne il territorio (il che, in modo parzialmente inverso, nel senso della conquista e dell’espansione, si ripeterà nel Nord America).

La complessità, poi, della nuova organizzazione militare escludeva – o rendeva altamente improbabile, e quindi marginale – che gruppi poco numerosi o poco organizzati (ovvero non organizzati come Stati) potessero arrecare offese rilevanti alle comunità ordinate in Stati, anche a quelli più piccoli e deboli, come i principati italiani e tedeschi, per via di terra: per mare la situazione era parzialmente diversa. Lo sviluppo della pirateria atlantica ai danni anche delle grandi potenze, e il permanere di quella mediterranea (che colpiva però, come scriveva Montesquieu, essenzialmente i commerci dei piccoli Stati) era dovuto alla minor sproporzione, sul mare, del rapporto tra potenza e vulnerabilità: i commerci marittimi erano più vulnerabili dei confini. E più difficile inseguire e scoprire i pirati negli oceani che i predoni nelle steppe e nelle foreste.

2 L’intuizione di Schmitt che la nuova dimensione acquisita con la navigazione aerea modificava sia la guerra che le forme del “politico” è stato confermata dai nuovi attacchi terroristici.

Il nuovo tipo di terrorismo (tra l’altro realizzato col mezzo aereo) ha in comune con l’offesa dall’aria altre caratteristiche, già individuate chiaramente dal generale italiano Giulio Douhet, teorico – pioniere della guerra aerea “totale”. Non esistono in primo luogo, “linee” di fronte, perché sono impossibili (o pressoché superflue): il terrorista, come l’aereo, le può oltrepassare senza prima essere costretto a combattere per forzarle. Secondariamente, neppure barriere naturali possono concorrere a rinsaldarle: l’aereo quindi, come il terrorista, è “indipendente dalla superficie, capace di muoversi in tutte le direzioni con uguale facilità”.

In terzo luogo così “la guerra può far sentire la sua ripercussione diretta oltre la più lunga gittata delle armi da fuoco impiegate sulla superficie, per centinaia e centinaia di chilometri, su tutto il territorio ed il mare nemico. Non più possono esistere zone in cui la vita possa trascorrere in completa sicurezza e con relativa tranquillità. Non più il campo di battaglia potrà venire limitato: ……  tutti diventano combattenti perché tutti sono soggetti alle dirette offese del nemico: più non può sussistere una divisione fra belligeranti  e non belligeranti”. Un quarto aspetto è che: “la vittoria sulla superficie non preserva dalle offese aeree dell’avversario il popolo che ha conseguito la vittoria”; per cui concludeva Douhet: “Tutto ciò deve, inevitabilmente produrre un profondo mutamento nelle forme della guerra, perché le caratteristiche essenziali vengono ad esserne radicalmente mutate”[7] di guisa che il più forte esercito e la più potente marina non servono ad evitare le offese che il mezzo aereo – e il nuovo terrorismo – sono in grado di produrre.

Neppure determinati jura belli, come quello di preda, che valgono a relativizzare la guerra o almeno l’atto di ostilità, sono concretamente esercitabili in tipi di guerra – e di azioni belliche – come quella aerea o terroristica. Il saccheggio che soddisfa l’avidità dell’aggressore salvando in genere la vita dei vinti, in questo tipo di conflitto non è esercitabile. L’unico obiettivo dell’azione diventa quindi la distruzione della vita e dei beni del nemico, senza riguardo alle distinzioni classiche della guerra “relativizzata” dello jus publicum europaeum.

Tale conclusione mina quindi il ricordato presupposto, fondamento – di fatto – dello Stato moderno; il quale, caratterizzato dalla distinzione tra interno ed esterno, si fonda sulla possibilità concreta di serrare porti e frontiere, riducendo e minimizzando sia gli atti di ostilità non rapportabili alla guerra “classica” sia i soggetti che la possono esercitare. Questo (ulteriore) elemento di novità, è suscettibile di sviluppi impensabili in un sistema di relazioni internazionali dominato dai soggetti “normali” (gli Stati) e costruito con istituti, rapporti (e concetti) sull’idea (classica) di Stato e di conflitto interstatale.

L’ “opposizione” di mare e terra, e la delimitazione che ne deriva, (l’offesa arrecabile per mare si trasforma difficilmente in quella di terra; al punto che le potenze marittime hanno, nelle guerre intereuropee, sempre avuto necessità di almeno una “spada” sul continente) non esiste più per la guerra aerea: questa può colpire indifferentemente sul suolo e sull’acqua, e trasferire l’offesa dall’uno all’altro elemento senza cambiare il mezzo con cui è portata[8].

Analoga è la guerra terroristica, condotta da piccole unità, sfuggenti al controllo ed al regime delle “linee” (di confine, di fronte, di “amicizia”) tipiche dell’ordinamento internazionale classico, guerra compresa, come a tutte le altre distinzioni intrinseche e conseguenti al relativo diritto di guerra (belligeranti e neutrali; civili e militari e così via). Di guisa che come guerra aerea e terrorismo non tollerano o riconoscono “linee” così  affievoliscono o fanno venir meno quelle distinzioni, giuridiche, che costituiscono delle chiusure “ideali”, necessarie per umanizzare la guerra e scongiurarne la peculiare  dinamica dell’ “ascesa agli estremi” cioè alla guerra assoluta.

3 Carl Schmitt, nel passo citato, nota come le nuove forme di guerra e di dominio modificano la relazione tra protezione ed obbedienza, le strutture del potere politico (e sociale) e il rapporto tra poteri: così collega l’esterno all’interno, come sottolinea l’influenza delle situazioni fattuali e concrete sull’assetto normativo. E’ noto che i fattori concreti (geografici, storici, climatici, e così via) condizionano e modellano l’ordinamento (la costituzione) delle comunità umane: da Montesquieu a de Maistre l’hanno rilevato in tanti. Meno noto, anzi spesso trascurato, è che di solito le società si organizzano nella forma la quale meglio permette di condurre la guerra in una determinata epoca storica. Tuttavia il rapporto tra istituzioni e guerra fa parte del pensiero umano, almeno a far data da Polibio di Megalopoli e dalla sua spiegazione dell’ascesa di Roma[9]. Di tutti i (numerosi) fattori che determinano strutture e dimensioni di una società umana, questo, a dispetto di certe astrazioni della “progettualità” politica (praticata da ideologi, costruttori di utopie), è uno dei principali: perché se una società perfetta (sotto il profilo culturale, economico, giuridico) non fosse organizzata in modo da proteggersi efficacemente dai tanti vicini, non altrettanto colti, ricchi, pii o giusti, ma meglio attrezzati a far la guerra, non durerebbe che pochi anni o, al massimo, decenni. Le unità politiche di lunga durata sono state capaci di risolvere quel problema, con delle istituzioni non congrue perché buone, ma buone perché adatte; ed avendo oltretutto il senso politico di cambiarle, anche radicalmente, ove la rei novitas lo richiedesse.

La fortuna, in determinate epoche, di certe forme di aggregazione politica si deve così alla loro capacità di consentire un’esistenza libera alle comunità che in queste si organizzavano; la loro decadenza – e sostituzione con altre forme e tipi – dal non essere più adatte a quella.

Nella storia europea, in particolare mediterranea, vediamo che fino al IV secolo a.C. le comunità hanno la forma della polis o delle tribù; solo nell’Oriente mediterraneo  esistono imperi, le cui caratteristiche – come, ad esempio, l’estremo “decentramento” di quello achemenide – erano tuttavia tali da renderli nemici affrontabili dalle altre unità politiche, come dimostra l’esito delle guerre persiane. A partire dalla fine del IV secolo, i popoli mediterranei si organizzano – per larga parte – in unità politiche regionali: a oriente quelle degli epigoni di Alessandro, a occidente Roma e Cartagine. La fine dell’ultima potenza regionale, l’Egitto dei Tolomei, segnò l’inizio dell’imperium unico mediterraneo. Toynbee nota che nel I secolo d.C. l’area temperata del Vecchio Mondo, dall’Oceano Atlantico al Mar Cinese, era divisa in (solo) quattro grandi imperi, al di fuori dei quali esistevano una miriade di piccole comunità politiche, talvolta clienti degli imperi, ma per lo più indifferenti a questi, perché troppo deboli per muovere loro la guerra. In epoca più recente l’assetto costituzionale e il diritto pubblico interno delle potenze “marittime” (Inghilterra e U.S.A.) sono stati ritenuti tali perchè tipici di due “isole”: in senso geografico (e politico) l’Inghilterra da De Maistre[10]; in senso politico (perchè privi di nemici credibili  ai confini terrestri e grandi guerre da sostenere con questi) gli U.S.A. da Tocqueville e da Hegel[11]. Differente invece, quello degli Stati continentali, per la necessità di eserciti permanenti, sempre potente strumento di difesa e di centralizzazione, ma a volte d’oppressione. Si può affermare pertanto, parafrasando Marx, che il modo di condurre la guerra determina il modo di governare. In questo senso lo jus belli del diritto internazionale dell’Europa moderna era quello peculiare degli Stati, non solo dotati di una (notevole) omogeneità culturale, ma di forme politiche e modi simili di combattere e quindi di danneggiarsi o avvantaggiarsi (reciprocamente). Il che comportava – con l’eccezione, solo relativa, delle potenze marittime – delle regole applicabili (con relativa facilità) perché i soggetti dell’ordinamento internazionale erano simili e se non pari, almeno non troppo impari.

  1. Diversa appare la situazione attuale, per una pluralità di ragioni: riducendo le quali ai limiti del presente scritto, ovvero ai riflessi che possono avere i nuovi modi di condurre la guerra – aerea e aerospaziale in primo luogo, e terroristica – sulle forme ed organizzazioni dell’unità politica, abbiamo diverse conseguenze.

In primo luogo che la “chiusura” dello Stato, sulla cui possibilità si basava l’idea (e l’ideologia) del medesimo, appare più difficile, e così i “beni “ che assicurava alla comunità: ordine, pace, e sicurezza. Il “defensor pacis”, in un mondo in cui gli Stati sono fra loro come nello stato di natura è tale se riesce ad assicurare chiusura e distinzione tra interno ed esterno. Se tra questi spazi viene meno il confine, disordine e insicurezza penetrano all’interno, e non l’inverso. La capacità di garantire “attività protettiva” viene così correlativamente ridotta.

Secondariamente, nel XX secolo si è contribuito in vari modi ad attenuare e/o negare quella “chiusura”. La Weltbürgerkrieg del marxismo-leninismo, con la contrapposizione amicus/hostis tra borghesia e proletariato, e la minaccia – più volte prospettata (e spesso impiegata) di mobilitare, con la guerra rivoluzionaria, i proletari, amici dell’Unione Sovietica e quinta colonna alle spalle degli Stati borghesi, ne è stata quella, ideologicamente più intensa e qualificata[12]. Anche la nuova minaccia terroristica di Al Quaeda, non solo nega qualsiasi distinzione tra interno ed esterno (e le altre peculiari allo jus publicum europaeum), ma, a quanto è dato capire, nega che la distinzione tra amici e nemici corra lungo i confini degli Stati attualmente esistenti, islamici o “non”, e sembra piuttosto contrapporre credenti ad infedeli[13].

In qualche misura , anche se su basi diverse, la stessa aspirazione a leghe di Stati o comunque ad istituzioni internazionali che scongiurino il ricorso alla forza sostituendolo con procedure “giuridiche” (d’ispirazione Kantiana), o meglio para-giudiziarie, concorre ad attenuare quella distinzione, ma senza granchè dei benefici prospettati: anche perché, a ben vedere, non riesce a portare la pace se non attraverso la guerra, che differisce da una “normale” guerra solo perché a dichiararla e condurla è una lega di Stati piuttosto che uno Stato singolo[14]. Il caso del Kosovo ne è stata la conferma più chiara, perché occasione (e motivo) dell’intervento non era un’aggressione esterna (come nella guerra all’Irak per l’occupazione del Kuwait), ma la repressione attuata dallo Stato sovrano sulla popolazione di etnia albanese residente nel proprio territorio. Con ciò si contestava allo Stato l’esercizio della funzione di “polizia” cui è connessa quella di identificare il nemico interno (il ribelle) e anche il criminale. Il principio di non-intervento negli affari interni dello Stato, essenziale alla distinzione tra quelli e gli affari esterni, viene così meno. In termini weberiani le relazioni  chiuse vengono sempre più sostituite da relazioni aperte[15]. Conseguenza di ciò non è tuttavia di sostituire il diritto alla guerra, ma di espropriare lo Stato del diritto d’individuare il nemico , trasferendolo ad un’istituzione internazionale, cui compete il potere anche d’esercitare la “violenza legittima” e garantire la pace, non solo tra Stati, ma anche negli Stati[16].

In questo senso il termine di “operazione di polizia internazionale” spesso dato a quella guerra è in effetti corretto nel sostantivo, ma fuorviante nell’aggettivo: perché costituisce attività di polizia (in quanto interna allo Stato che la subisce), ma proprio per ciò, quanto all’oggetto non è internazionale, nel senso delle relazioni fra più Stati, ma solo con riguardo al soggetto cioè all’istituzione (internazionale) che l’esercita[17]. A una simile concezione vanno ricondotti anche altri organismi (come la Corte penale internazionale di cui al recente Statuto di Roma) che, derogando alle regole (per la verità ripetutamente violate nel XX secolo) dell’esclusività statale dell’esercizio della giustizia la trasferiscono, in determinati casi, all’istituzione internazionale[18].

  1. Dati i rapporti (e le distinzioni) tra interno ed esterno, jus e potentia, modi di guerra e forma politica, occorre vedere in quale guisa i nuovi tipi di ostilità possono modificare il Nomos o, più limitatamente, l’ordinamento internazionale, e di riflesso, e in quale misura, quello interno.

Nella situazione odierna nessuno Stato appare in grado di esercitare appieno lo jus belli, perché nessuno è in grado di condurre una guerra (con qualche possibilità di sopravvivenza) con gli U.S.A., tranne, forse, la Russia e, in futuro, la Cina. Lo jus non corrisponde pertanto alla potentia, limitata alle guerre realmente possibili. E anche tali tipi di ostilità (tra Stati senza eccessivo squilibrio di potenza), sono praticabili nei limiti in cui la superpotenza non se ne ritenesse lesa o minacciata: di fatto quindi sottoposte a un possibile veto U.S.A.. A questo occorre aggiungere il favore al principio di intervento, finalizzato alla salvaguardia di diritti umani che limita la sovranità al contrario, salvaguardata da quello di non-intervento.

In tale situazione è la guerra terroristica, condotta da piccoli – o piccolissimi – gruppi umani, l’unica sempre praticabile. Ciò comporta che questi gruppi sono, paradossalmente, più efficienti ed adatti  dello Stato all’esercizio dello jus belli (malgrado tale diritto non sia loro riconosciuto).

Si verifica così una scissione tra jus e potentia: confermata dal fatto che la maggior parte dei conflitti successivi alla Seconda guerra mondiale non sono guerre tra Stati, ma tra uno Stato e una fazione (partito, etnia, ecc.) o tra fazioni all’interno di uno Stato.

A questo punto si pone anche il problema se può considerarsi Stato, nel senso dello jus publicum europaeum un’entità politica largamente (o totalmente) di fatto priva dello jus belli. Ai giuristi – ma non solo a loro – è familiare giudicare che, se a un istituto – e al concetto corrispondente – si sottrae un carattere (un attributo) essenziale, questo non è riconducibile a quello normalmente considerato e definito. A sottrarre (o ridurre) lo jus belli  allo Stato, se ne azzera (o si riduce) la capacità di protezione. E’ possibile, poi, ricondurre, al genere “Stato” un’istituzione, connotandola, per fare un esempio (tra i molti), secondo la definizione “funzionale” di Hauriou: “Protéger la société individualiste par son gouvernement, lui assurer la paix et l’ordre au dedans et au dehors par sa force armée, par sa diplomatie, par sa police, par sa législation, par ses tribunaux[19]”, di cui la protezione è l’elemento essenziale? E lo stesso potremmo ripetere paragonandolo ad altre definizioni o concetti di Stato elaborati. Certo si può chiamare “Stato” un ente privo dello jus belli, analogamente a come l’eufemismo prima ricordato definisce “operazioni di polizia internazionale” delle guerre tout-court, ma occorre intendersi, prescindendo dal tasso d’ipocrisia o d’illusione di certe operazioni da vocabolario, che quanto ne risulta non è uno Stato né qualcosa di diverso dalla guerra.

Il tutto non è indifferente all’altro aspetto della sovranità, così limitata dalla (parziale) inidoneità del ricorso alla forza, cioè quello interno. Invero il rapporto hobbesiano tra protezione ed obbedienza e l’effettività della decisione sovrana poggiano sul monopolio statale della violenza legittima, che appare doppiamente eroso: in primo luogo dalla (parziale) inidoneità prima ricordata e, secondariamente, dal ruolo delle istituzioni internazionali.

Ma se lo Stato non è più idoneo, se non è più la “gran macchina” della pace e della sicurezza, se non riesce a tenere al di fuori dai confini lo “stato di natura”, a chi si dovrà dare obbedienza? Un sostituto dello Stato moderno non è all’orizzonte, e ciò ch’è visibile è piuttosto un ritorno, mutatis mutandis, a forme politiche pre-moderne, di volta in volta imperiali, feudali, particolaristiche, corporative, comunque contrapposte allo Stato e all’ordine interstatale dello jus publicum europaeum, perché non basate su quella chiusura (e distinzione) e sull’assolutezza della decisione sovrana. A un mondo in cui lo jus è determinato da quel tanto di potentia esercitabile in una situazione concreta e in continuo movimento, meno o poco “calcolabile” e prevedibile; e quindi tendenzialmente non comparabile con ordine concreto in se concluso, come quello determinato dallo Stato.

La non coincidenza tra Stato, sovranità e jus belli fa, di converso, intravedere, in futuro, forme politiche di confusione e sovrapposizione tra quelli: con Stati non sovrani, sovrani senza Stato, belligeranti non statali e così via. Lo stesso Impero, ordine politico assai differenziato nelle varie situazioni storiche, non ha escluso sia forme “interne” di ostilità (come le guerre “tribali” nelle colonie extraeuropee o i conflitti tra feudatari  nel Sacro Romano Impero), sia, di conseguenza situazioni di “pace” interna non comparabile a quella assicurata dallo Stato europeo “classico”, e, in taluni casi financo, autorità “locali” che praticano una politica all’esterno (quindi estera) non coincidente né compatibile con quella dell’Impero[20].

In effetti l’impero è un ordinamento politico che, al contrario dello Stato, ha conosciuto forme diversissime, in cui le variabili prevalgono largamente nelle costanti. Tuttavia uno dei caratteri tipici (quasi sempre) degli imperi è di consentire forme – più o meno limitate – di ostilità all’interno (e all’esterno) dell’unità politica, cui corrisponde spesso una “competenza” in politica estera, riconosciuta (o tollerata) alle unità politiche “minori” o “vassalle”. In questo contesto si può immaginare – ma di fatto l’immaginazione è divenuta, in parte, già realtà – che possano esservi forme di ostilità limitate sia nei soggetti (accanto agli Stati, movimenti e partiti di liberazione, forme in futuro anche gilde armate e compagnie di ventura) sia nel motivo e nei modi di guerra, secondo distinzioni che ricalcano la dottrina della “guerra giusta” di S. Tommaso e dei teorici della controriforma. Per cui certi motivi e modi di guerra sarebbero consentiti: come (nei modi) l’uso di armi convenzionali, la eliminazione degli obiettivi militari, al contrario dell’impiego di armi “NBC” e, in genere, la sistematica distruzione di bersagli civili. Nei motivi sarebbero consentite guerre per la tutela dei “diritti umani”, probabilmente l’autodeterminazione di popoli e regioni, forse guerre limitate per diritti determinati. A una moltiplicazione  dei soggetti ( lo justus hostis, limitato fino a tutto il XIX secolo allo Stato, diviene un concetto “elastico”) corrisponderebbe una casistica dei modi e dei motivi (justa causa e justus modus), con un solo limite: l’illiceità di nuova guerra (giusta) alla potenza egemone, d’altra parte già esclusa di fatto, che lo sarebbe così anche – e conseguentemente – di diritto. Al di sotto di questo, le guerre – entro una “soglia” determinata – sarebbero consentite e tollerate.

Inter pacem et bellum nihil medium: questa frase di Cicerone era ripresa da Schmitt (come titolo di un breve saggio) a denotare uno dei principi del diritto internazionale classico, da Schmitt considerato ormai tramontato per i vistosi vulnera subiti nel primo dopoguerra[21], e dovuti alla prassi di azioni ostili non militari o senza dichiarazione di guerra. Tuttavia sempre condotte da Stati contro Stati. Nel secondo dopoguerra (e già durante la seconda guerra mondiale) lo sviluppo inconsueto di nuovi soggetti politici belligeranti, con i movimenti partigiani, aggiungeva allo Stato un “nuovo” soggetto politico[22].

Il successivo sviluppo è costituito proprio da Al Quaeda, il cui principale carattere differenziale rispetto ai movimenti partigiani e ai partiti rivoluzionari è di non avere come quelli, seppure in forma fluida, gli elementi di Stato “in embrione”[23], ma prescinde (almeno apparentemente) in modo completo dalla “statalità”. Ciò non ha impedito a un’organizzazione avulsa da un popolo e da un territorio (cioè da due dei tre elementi-base dello Stato) di condurre un’operazione “bellica”[24].

La presenza, pertanto di soggetti politici non statali e il carattere “illimitato” e “irregolare” delle guerre da questi condotte, contrapposto alla “guerra in forma” fra Stati dello  jus publicum europaeum, appare non inquadrabile in un ordinamento che, come quello classico, costituisce un sistema di relazioni fondate su un contesto di pace e sicurezza reciproca. Il nuovo Nomos post-moderno che si intravede al tramonto dello Stato e dell’ordinamento “classico” appare quindi assai meno rassicurante di quello formatosi nell’età moderna.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

(*) Questo articolo è la rielaborazione di un contributo scritto per la rivista nordamericana “Telos”, destinata ad un “Symposium” internazionale sul “Der Nomos der Erde” di Carl Schmitt.

[1] V.M. Hauriou, La théorie de l’institution et de la fondation (essai de vitalisme social), trad. it. in Teoria dell’istituzione e della fondazione, Milano 1967, pp. 15-15.

[2] M. Hauriou op. cit., P. Iª, cap. 1, Sez. II, Paris 1929 p. 41 ss..

[3] E’ la definizione di I. Kant in “Die Metaphysik der Sitten”, p. II, sez. I.

[4] Trattato politico, Torino 1958 p. 196.

[5] V. Vorlesungen über die Philosophie der Geschichte, trad. it., Firenze 1941 p. 212. Hegel prosegue con considerazioni sul diritto “Non sono legati al suolo, e non conoscono niente dei diritti che la convivenza, insieme con l’agricoltura, rende di natura obbligatoria. Questo principio incostante ha costituzione patriarcale, ma prorompe in guerre e rapine interne, ed anche in aggressioni contro altri popoli”.

[6] Nella prefazione alla Zur Kritik der Politischen Ökonomie, trad. It., Roma 1974, pp. 5-6.

[7] Giulio Douhet, Il dominio dell’aria, rist. Roma 1955, p. 9-10.

[8] Scrive Schmitt che i conquistadores (ma lo stesso vale per i coloni inglesi) si spostavano velocemente e per questo sottomisero gli Amerindi: sui vascelli per mare e sui cavalli per terra. La guerra aerea evita anche l’inconveniente di dover cambiare mezzo di trasporto.

[9] VI libro delle Storie.

[10] Du Pape, II, 2.

[11] La démocratie en Amérique, Lib. I°, p. 1, cap. VIII°. Una considerazione analoga faceva Hegel, secondo il quale “L’America del nord…va considerata come uno Stato tuttora in divenire: esso non è ancora tanto progredito da aver bisogno della monarchia. E’ uno Stato federativo: ma questi, per quel che concerne i loro rapporti con l’estero, sono gli Stati peggiori. Solo la sua particolare posizione ha impedito che questa circostanza non causasse la sua totale rovina. Ciò si è visto nell’ultima guerra con l’Inghilterra” e prosegue: “ gli Stati liberi nordamericani non hanno nessuno Stato confinante, rispetto a cui siano nella situazione in cui gli Stati europei sono reciprocamente, uno Stato cioè che debbano considerare con sospetto e contro cui debbano mantenere un esercito stanziale. Il Canada e il Messico non incutono loro timore”. Vorlesungen über die Philosophie der Geschichte, trad. it., Firenze 1941 p. 231. Si noti che sia Hegel che Tocqueville prendono lo spunto per queste considerazioni dal rifiuto di alcuni Stati del New England d’inviare i loro contingenti militari nella guerra del 1812 contro l’Inghilterra.

[12] Ne è un esempio chiaro ed argomentato, tra tanti, il discorso di Stalin al XVII congresso del PCUS (nel 1934): “la guerra si svolgerebbe non unicamente sul fronte, ma pure nell’interno dei paesi dei nostri nemici. La borghesia può essere sicurissima che i numerosi amici della classe operaia dell’U.R.S.S. nell’Europa e nell’Asia tenterebbero di colpire alle spalle i loro  oppressori che avessero ordito una guerra delittuosa contro la patria della classe operaia di tutti i paesi…”. Tale minaccia di Stalin era indirizzata (prevalentemente) alle democrazie liberali. Fu attuata, com’è noto, in tutt’altra direzione.

[13] Il tratto comune tra marxismo-leninismo e fondamentalismo islamico appare non solo quello di prescindere degli Stati (e dei confini) al fine di scriminare amici e nemici, ma anche di depotenziare o negare l’idea di Stato. Se nel marxismo questo è destinato ad estinguersi con l’avvento della società senza classi, nell’Islam – più o meno fondamentalista – appare negata la distinzione tra potere  spirituale e temporale, che nell’idea di Stato dell’Europa moderna è il carattere fondamentale.

[14] Quando poi s’intende applicare un diritto a carattere universalistico (diritti umani) ci s’imbatte  in una contraddizione con i principi dell’ordinamento internazionale. Non solo, il che è evidente con la “chiusura” per cui è lo Stato a decidere cos’è che deve valere come diritto all’interno dell’unità politica; ma anche col principio che, a determinare la “legittimità” di uno Stato non è la conformità delle sue leggi (o comportamenti) a un sistema ideale o anche positivo di norme, ma l’effettività del potere sul (proprio) territorio. Che questo sia un criterio non solo realistico ma anche opportuno è dimostrato dal fatto che riconoscimenti e trattati hanno un senso solo con chi può garantire la pace o minacciare la guerra: ove non sia in grado di fare queste due cose, un trattato con lo stesso è del tutto inutile, e talvolta farsesco.

[15] V. Max Weber Wirtshaft und Gesellshaft, Vol. I°, p. 1, cap. I, prgrf. 10.

[16] A sviluppare coerentemente  certe posizioni di “pacifismo giudiziario” si ha l’impressione si creda di aver risolto l’enigma della storia (e della Provvidenza) invertendo il detto di Hegel Die weltgeschichte ist das weltgericht, e cioè trovato il weltgericht adatto a giudicare e financo a fare la storia del mondo. Ma non è questo il reale rapporto tra Storia e Tribunali (anche autorevoli). Lo prova il fatto che nella veste di giudici stanno sempre i vincitori, in quella d’imputati, i vinti.

[17] In effetti si potrebbe sostenere, a sostegno dell’intervento nel Kosovo, che, di fatto nella regione lo Stato iugoslavo non esisteva più, essendovi una guerra civile. In tal caso, a seguire Kant, non varrebbe più il principio di non intervento v. in “Per la pace perpetua” in Antologia degli scritti politici, Bologna 1961, p. 110; sul tema, ci sia consentito richiamare il nostro scritto “Breve Storia della guerra giusta” in Palomar 2/2002.

[18] Com’è noto tale trattato non è stato ratificato  dagli Stati militarmente più forti del pianeta come gli USA, la Russia e la Cina, e neppure da quelli che verosimilmente avrebbero più occasioni (e tentazioni) per violare le regole istituite dal Trattato, come Israele, l’India o il Pakistan. E’ dubbio quale consistente beneficio per la pace ed il diritto possano apportare norme non applicabili ai (più) probabili trasgressori

[19] V. Précis de droit Constitutionnel  cit. p. 49, Paris 1929, in cui ne descrive le funzioni essenziali (quella riportata nel testo è la prima).

[20] Un esempio classico ne costituisce, a leggere l’Anabasi, quella del satrapo Tissaferne contro i mercenari greci; ovvero come scrive Otto Brunner in “Land und Herrshaft. Grundfragen der territorialen Verfassungsgeschichte Österreichs in Mittelater„ (trad. It. Milano 1983, p. 7) quella dei feudatari nel medioevo: “si da politica – politica spinta sino all’estrema conseguenza della guerra – non solo fra gli “Stati” medievali ma anche al loro interno … i regni medievali  si articolano in poteri locali ai quali competono il diritto ed il dovere di svolgere, entro determinati confini, una politica autonoma sia all’interno che dall’esterno del territorio. Anzi, questa politica, in certe circostanze, può perfino volgersi contro i poteri superiori”.

[21] Inter pacem et bellum nihil medium trad. it. ne lo Stato, X, 1939, pp. 541-548.

[22] In effetti “vecchio” dato che risaliva alle guerre napoleoniche, come ricordato da Schmitt nella Theorie des Partisanen (1963), che lo fa risalire ai guerilleros spagnoli antinapoleonici del 1808-1812. In realtà le prime forme della moderna guerra partigiana devono essere fatte risalire agli insorgenti italiani del 1796-1799 e all’esercito della “Santa Fede” guidato dal Cardinal Ruffo, che riconquistò il Regno di Napoli nel 1799.

[23] Come notato da un grande giurista italiano, Santi Romano, nel 1946, in uno scritto sul partito rivoluzionario: “si tratta di un’organizzazione, la quale, tendendo a sostituirsi a quella dello Stato, consta di autorità, di poteri, di funzioni più o meno corrispondenti e analoghi a quelli di quest’ultimo: è un’organizzazione statale in embrione, che, a mano mano,, se il movimento è vittorioso si sviluppa sempre più in tal senso”, Santi Romano Frammenti di un dizionario giuridico, p. 224, rist. Milano 1983.

[24] Sul che ci permettiamo di rinviare a quanto scritto in Osservazioni sul terrorismo post-moderno in Behemoth n. 30, luglio-dicembre 2001.

saggio del 2003, pubblicato su “Palomar” n. 14 (4/2003)

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Korybko allo Sputnik Brasil: gli Stati Uniti hanno svolto un ruolo decisivo nell’incidente dell’8 gennaio

Ecco la versione integrale in inglese dell’intervista che ho recentemente rilasciato a Sputnik Brasil, i cui estratti sono stati originariamente pubblicati in portoghese l’11 gennaio con il titolo “Gli Stati Uniti hanno giocato un ruolo decisivo nell’invasione degli edifici pubblici a Brasilia, dice Korybko”.

1. Nel tuo articolo, suggerisci che la capitale brasiliana era sospettosamente incustodita durante le proteste di domenica. Oggi, il quotidiano Folha de São Paulo ha riferito che l’Agenzia di intelligence brasiliana (ABIN) ha allertato il governo Lula che un attacco era imminente. Mentre è noto che la polizia del Distretto Federale non ha fermato i manifestanti – presumibilmente per affinità ideologica – non è chiaro perché il governo Lula non abbia risposto alla minaccia imminente. Perché pensi che il governo brasiliano abbia scelto di rimanere passivo? Pensa che le proteste possano essere usate come un utile pretesto per una repressione dell’estrema destra?

È chiaro che la capitale non era “innocentemente” indifesa. I sostenitori di Bolsonaro si sono accampati là fuori per mesi e alcuni di loro stavano già segnalando la loro intenzione di replicare lo scenario del 6 gennaio (J6), di cui i media americani e brasiliani Mainstream (MSM) hanno ripetutamente messo in guardia. Stando così le cose, è ovvio che alcuni elementi delle burocrazie militari, di intelligence e diplomatiche permanenti del Brasile (“stato profondo”) – che nel contesto storico nazionale è influenzato in modo sproporzionato dall’ala militare – quantomeno “hanno facilitato passivamente” gli eventi che si sono svolti domenica a causa della loro negligenza criminale nel non aver difeso adeguatamente la capitale

Per quanto riguarda l’ultimo rapporto secondo cui l’amministrazione Lula è stata allertata su un attacco imminente, né lui né il suo team dovrebbero essere considerati direttamente responsabili di questa negligenza, almeno in questo momento. Il flusso di lavoro non è chiaro rispetto a chi potrebbe aver reagito a questo avviso (se non l’hanno ignorato), cosa hanno incaricato le agenzie appropriate di fare, chi potrebbe aver ricevuto tali ordini e così via. Per il momento, sembra che l’amministrazione Lula fosse funzionalmente impotente in questo scenario, dal momento che alcuni elementi dello “Stato profondo” volevano che tutto andasse come è successo. Stando così le cose, probabilmente lui e il suo team non avrebbero potuto impedirlo anche se ci avessero provato.

2. 24 ore dopo l’incidente, oltre 1,2mila sostenitori di Bolsonaro sono già sotto custodia della polizia. Nonostante la delicatezza dell’arresto di manifestanti politici, l’agenda del gruppo sembra essere chiaramente antidemocratica. I manifestanti difendono una dittatura militare e misure come l’eliminazione dei diritti delle minoranze religiose. Pensi che un giro di vite sia giustificato se è in gioco la democrazia?

La legge dovrebbe essere sempre applicata senza eccezioni e non dovrebbe mai essere politicizzata. Non importa se qualcuno non è d’accordo con le cause che un altro sostiene pubblicamente poiché quest’ultimo non dovrebbe essere punito per aver esercitato la libertà di parola sancita dalla costituzione, purché tale azione non violi la legge. Se un numero sufficiente di persone si sente a disagio con le suddette cause, allora deve lavorare attraverso il processo legale per proibirne l’espressione pubblica. Fino a quando ciò non accadrà, nessuno dovrebbe essere arrestato sulla base del solo fatto che le sue opinioni hanno offeso qualcun altro.

Detto questo, la base ufficiale su cui sono stati arrestati quei 1,2mila sostenitori non erano loro che esprimevano pubblicamente la loro libertà di parola, ma le azioni che avrebbero compiuto. Se hanno infranto la legge, devono essere puniti, ma il processo legale alla fine determinerà se sono colpevoli o meno. L’assalto e il vandalismo alla proprietà pubblica sono azioni estreme che sfidano il mandato dello stato. Il contesto post-elettorale iper-partigiano in cui si sono verificati suggerisce anche l’intenzione di ribaltare le elezioni dello scorso anno, il che rende quindi questo un tentativo di cambio di regime.

3. Come si spiega il fatto che non solo Bolsonaro, ma anche il Segretario alla Difesa del Distretto Federale brasiliano erano entrambi negli Stati Uniti durante questo evento?

Bolsonaro non ha voluto partecipare alla tradizionale cerimonia presidenziale brasiliana e quindi è partito per la Florida, dove casualmente vive il suo caro amico ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump, prima che Lula tornasse in carica. Si ipotizza che lo abbia fatto per eludere ciò che i suoi sostenitori ipotizzavano potesse essere la politicizzazione del processo legale da parte del suo successore per punirlo con qualsiasi pretesto (ad esempio la sua politica COVID-19, la deforestazione dell’Amazzonia, ecc.) al fine di inviare un messaggio alle forze interne di destra. La sua presenza negli Stati Uniti, tuttavia, non dovrebbe essere interpretata come una sua collusione con il governo del suo ospite per portare a termine l’incidente di domenica.

Per quanto riguarda la presenza di Anderson Torres nello stesso stato, il capo della pubblica sicurezza della capitale ha affermato che era in vacanza, anche se molte persone ipotizzano che stesse coordinando clandestinamente l’incidente di domenica con Bolsonaro e/o il governo degli Stati Uniti. Qualunque cosa stesse realmente facendo, non c’è dubbio che fosse per lo meno penalmente negligente nelle sue responsabilità e che trovarsi fuori dal Brasile mentre gli eventi si svolgevano riduceva il suo rischio di essere assicurato alla giustizia se alla fine le accuse fossero presentate contro di lui. Con questa osservazione in mente, avrebbe potuto potenzialmente far parte del complotto di domenica e lasciare il Brasile con il pretesto di una vacanza prima che tutto accadesse nel caso in cui il cambio di regime fallisse.

4. Nel tuo testo accenni al fatto che il Brasile e gli Stati Uniti condividono l’interesse a combattere l’opposizione interna di destra. Come si può realizzare in pratica questa cooperazione? Pensi che gli Stati Uniti estradano effettivamente Bolsonaro in Brasile?

Il direttore dell’intelligence nazionale (DNI) ha valutato all’inizio del 2021 che “gli estremisti violenti di matrice razziale o etnica (RMVE) e gli estremisti violenti della milizia (MVE) presentano le minacce DVE più letali” per gli Stati Uniti. Quelle forze sono associate a elementi di destra, il che conferma così quanto siano gravi le considerazioni su una minaccia per lo “stato profondo” di quel paese. Il loro rapporto è stato pubblicato all’indomani del J6, portando alcuni a ipotizzare che si tratti di un’esagerazione politicizzata intesa a stabilire il pretesto per un giro di vite contro i sostenitori di Trump. Indipendentemente dal fatto che si sia d’accordo con il corso di pensiero di quelle persone, alcune forze di destra costituiscono davvero una minaccia, così come anche alcune di sinistra.

La reazione dell’Amministrazione Lula all’incidente di domenica, che il neo-rieletto leader ha definito una serie di “atti terroristici” parlando a fianco dei capi del Congresso e della Corte Suprema, fa pensare che anche loro condividano una valutazione simile della minaccia rappresentata da alcuni elementi di destra come fa il DNI degli Stati Uniti. Sebbene al momento non sia chiaro se quelle forze nazionali abbiano coordinato le loro azioni con controparti straniere, figuriamoci con Bolsonaro attualmente con sede negli Stati Uniti, non si può negare che alcuni elementi di destra abbiano legami internazionali proprio come le loro controparti di sinistra. Per quanto riguarda il destino dell’ex leader, molto dipenderà dal fatto che l’amministrazione Lula sporgerà denuncia contro di lui.

Nel caso in cui lo facciano, cosa che non può essere esclusa considerando quanto grave sia la minaccia alla sicurezza nazionale che considerano l’incidente di domenica, allora gli Stati Uniti saranno in difficoltà. Il consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan ha dichiarato lunedì in una conferenza stampa che ci sarebbero “problemi legali e problemi precedenti” coinvolti in quello scenario, ma ha anche affermato che “se ricevessimo tali richieste, le tratteremmo nel modo in cui abbiamo sempre fatto: li tratteremmo seriamente. Da un lato, consegnare Bolsonaro a Lula su un piatto d’argento dimostrerebbe la volontà di entrambi i paesi di combattere congiuntamente il cosiddetto “terrorismo di destra”, ma dall’altro ridurrebbe la fiducia negli Stati Uniti da parte della destra attuale e futuri leader latinoamericani.

5. Lo stratega di Trump, Steve Bannon, ha pubblicato messaggi sul social network Gettr a sostegno dei manifestanti a Brasilia. “Lula ha rubato le elezioni… e i brasiliani lo sanno”, ha scritto domenica. È corretto affermare che i movimenti trumpisti e bolsonaristi condividono le stesse tattiche e, in definitiva, le stesse fonti di finanziamento?

I post sui social media come quello di Bannon in sé e per sé non sono pistole fumanti che confermano l’esistenza di un oscuro complotto per il cambio di regime, ma su di lui personalmente, è risaputo che simpatizza con Bolsonaro e le loro reti politiche sono presumibilmente collegate. Per questo motivo, ci sono motivi per sospettare che possano avere anche legami finanziari, che potrebbero almeno essere tra alcuni dei loro membri senza l’autorizzazione o la conoscenza dei leader dei loro movimenti. Questo dovrebbe essere indagato dopo l’incidente di domenica, anche se il contesto post-elettorale iper-partigiano in Brasile e l’allineamento ideologico interno dell’amministrazione Biden con le sue controparti ne mettono in discussione l’imparzialità.

Entrambi hanno motivi egoistici per inventare e/o esagerare le prove che presumibilmente dimostrano che la rete di Bannon – e per estensione indiretta quella di Trump – ha contribuito finanziariamente a quanto è appena accaduto a Brasilia, se non addirittura ha contribuito a coordinarlo o per lo meno ne era a conoscenza in anticipo di quello che stava per accadere ma non ha informato le autorità di nessuno dei due paesi di questi presunti atti illegali pianificati in anticipo. Le amministrazioni Biden e Lula potrebbero sfruttare il suddetto pretesto per reprimere le rispettive opposizioni di destra, ma per essere assolutamente chiari, chiunque in entrambi i paesi abbia dimostrato dai tribunali in un processo veramente imparziale di aver infranto la legge merita di essere punito .

6. Il giudice brasiliano Alexandre de Moraes ha chiesto che i social media come Facebook, Twitter e Tik-Tok rimuovano i contenuti che incoraggiano atti di colpo di stato e condividano dati che potrebbero portare all’identificazione dei manifestanti. Pensi che tali misure siano efficaci per mettere a tacere l’opposizione di destra? È lo stesso metodo utilizzato negli Stati Uniti per soffocare l’influenza politica di Trump?

Il New York Times (NYC), che è tra i principali media occidentali di MSM, era stato precedentemente critico nei confronti dei poteri di censura senza precedenti che Moraes aveva ottenuto. Hanno espresso questo punto di vista nei loro articoli pubblicati a settembre e ottobre intitolati “ Per difendere la democrazia, l’Alta Corte brasiliana sta andando troppo oltre? ” e “ Per combattere le bugie, il Brasile dà a un uomo il potere sulla parola online ” rispettivamente. Pertanto non è “marginale” che nessuno condivida sentimenti simili, anche se dovrebbero anche essere ricordati che Moraes ha ottenuto questi poteri senza precedenti attraverso mezzi legali. Che sia giusto o sbagliato, rientra quindi nel suo mandato di censurare i social media e chiedere che condividano i dati.

Qui sta il nocciolo del dibattito, tuttavia, poiché alcuni sospettano che stia esercitando selettivamente questi poteri per mettere a tacere l’opposizione di destra nei casi in cui le persone prese di mira non sono veramente colpevoli di alcun crimine mentre chiudono un occhio sulle forze di sinistra. che i critici affermano di aver effettivamente infranto la legge. Se questi presunti doppi standard sono davvero veri, allora significherebbe che Moraes sta politicizzando la sua posizione in modo simile a come i file Twitter recentemente pubblicati dimostrano che i servizi di sicurezza degli Stati Uniti hanno politicizzato la propria per mettere a tacere l’opposizione di destra del loro paese. Per il momento e considerando le precedenti critiche del NYT nei suoi confronti, ci sono motivi credibili per sospettare delle intenzioni di Moraes.

7. Il tuo testo suggerisce che gli Stati Uniti e il Brasile potrebbero essere collusi per reprimere l’estrema destra, al fine di consolidare il governo di Biden e Lula, è corretto? Come mettere in relazione questa presunta alleanza Lula-USA con il fatto che il leader brasiliano è stato imprigionato durante un’operazione architettata dagli Stati Uniti, come lo stesso Lula sa perfettamente? Come possono due nemici diventare così vicini?

Sì, la mia analisi non suggerisce solo quella collusione, ma afferma esplicitamente che è probabile che sia così. Le amministrazioni Biden e Lula hanno interessi politici condivisi nel reprimere le rispettive opposizioni di destra, anche se ciò non significa che nessuno di quei leader sia a conoscenza di tutto ciò che sta facendo il “deep state” del loro paese. Chiarito ciò, ciò che sembra essere accaduto in modo irresistibile domenica è che gli elementi all’interno delle ali militari e di intelligence della burocrazia permanente brasiliana sono collusi con i loro colleghi statunitensi per replicare lo scenario J6 al fine di inventare il loro finto complotto destinato a fallire. che potrebbe successivamente servire da pretesto per consolidare il potere di Lula.

La cosa particolarmente curiosa di questo è che quelle forze summenzionate sono considerate molto solidali con la destra in generale e con Bolsonaro in particolare, eppure non si può negare che mentre alcuni elementi al loro interno hanno per lo meno facilitato passivamente l’incidente di domenica lasciando la capitale indifesa nonostante i precedenti avvertimenti di uno scenario simile a J6, queste istituzioni in generale sono anche riuscite alla fine a ripristinare la legge e l’ordine alla fine della giornata. Se i servizi militari e di intelligence brasiliani volevano davvero rovesciare Lula, allora avrebbero potuto orchestrare questa sequenza di eventi alla fine dell’anno scorso per impedire il suo ritorno in carica o addirittura truccare apertamente le elezioni per Bolsonaro.

Non hanno fatto nessuno di questi, tuttavia, il che mette quindi in dubbio la speculazione secondo cui una o entrambe queste istituzioni sono/sono contro Lula e a sostegno di Bolsonaro (sia che abbia precedentemente mantenuto il potere e/o che vi sia tornato a seguito di incidente di domenica). Alcuni elementi al loro interno non supportano l’incumbent, ma non sono abbastanza potenti da rimuoverlo, come dimostrato dal loro fallimento nel farlo questo fine settimana all’indomani di quanto appena accaduto, anche se è teoricamente possibile che un colpo di stato militare o un post – uno moderno come quello che si è svolto nel corso dell’operazione Car Wash può ancora verificarsi o almeno essere minacciato come una spada di Damocle per aver limitato la libertà di Lula di formulare politiche.

Considerando l’esito indiscutibile dei servizi militari e di intelligence che hanno ottemperato alla richiesta di Lula di ristabilire l’ordine nella capitale dopo che alcuni dei sostenitori di Bolsonaro hanno sequestrato i suoi tre edifici governativi politicamente più importanti, si può quindi concludere che i loro leader riconoscono la sua autorità legale come comandante- in capo. Anche gli Stati Uniti lo fanno da quando il presidente Joe Biden, il segretario di Stato Antony Blinken e il consigliere per la sicurezza nazionale Sullivan hanno espresso pubblicamente il loro sostegno a lui domenica, il che getta ancora più acqua fredda sulla speculazione secondo cui gli Stati Uniti avrebbero voluto rovesciarlo quel giorno attraverso una replica dello scenario J6.

La realtà è che lo sostengono con entusiasmo per ragioni ideologiche legate alle politiche socio-culturali condivise delle loro amministrazioni in patria, che possono essere descritte come liberali rispetto a quelle conservatrici di Bolsonaro. Gli Stati Uniti in precedenza avevano orchestrato il colpo di stato postmoderno che rovesciò il suo successore Dilma Rousseff e alla fine portò all’imprigionamento di Lula, ma il “cavallo oscuro” che in seguito la sostituì si dimostrò politicamente più indipendente di quanto si aspettassero. Invece di essere un completo burattino degli Stati Uniti, Bolsonaro ha sfidato il quid pro quo riferito da Sullivan nell’estate 2021 di vietare Huawei in cambio di rendere il Brasile un partner ufficiale della NATO, nonché le richieste di Washington dell’anno scorso di sanzionare la Russia.

Queste decisioni sarebbero inaccettabili per qualsiasi amministrazione statunitense, ma quella di Biden è stata particolarmente respinta dalle sue politiche socio-culturali conservatrici poiché contraddicevano direttamente la sua stessa visione liberale. Al contrario, la visione interna di Lula a questo proposito è in gran parte allineata con quella dell’amministrazione americana in carica, in particolare per quanto riguarda la loro percezione condivisa delle forze di destra come serie minacce alla sicurezza. Lo stesso tre volte leader ha anche moderato quello che gli osservatori in precedenza consideravano il suo scetticismo nei confronti degli Stati Uniti, per usare un eufemismo, soprattutto dopo essere stato imprigionato all’indomani del suo colpo di stato post-moderno contro il suo successore. Ciò è dimostrato dal suo incontro con Sullivan il mese scorso.

Non ha dovuto farlo poiché quel funzionario non è la sua controparte, ma è comunque andato avanti con l’incontro per segnalare il suo ritrovato “pragmatismo” (per mancanza di una descrizione migliore) qualunque sia stata la sua ragione. In risposta a quelli dei suoi sostenitori che affermano che “non aveva scelta” o che stesse “giocando a scacchi”, va ricordato loro che l’ex primo ministro pakistano Imran Khan avrebbe rifiutato di incontrare il capo della CIA durante il viaggio di quest’ultimo a Islamabad nell’estate 2021 secondo Axios . Successivamente è stato rovesciato da un colpo di stato postmoderno orchestrato dagli Stati Uniti ma superficialmente democratico , ma il suo esempio dimostra ancora che Lula aveva davvero una scelta quando si trattava di incontrare Sullivan.

Da ciò, gli osservatori possono concludere con sicurezza che Lula non è “antiamericano” come alcuni lo considerano a torto o a ragione, ma aspira a cooperare pragmaticamente con esso nel perseguimento di interessi condivisi. Ricordando la lettura ufficiale del viaggio di Sullivan da parte della Casa Bianca, “ha incontrato il segretario per gli affari strategici, ammiraglio Flávio Rocha, per esprimere apprezzamento per i progressi nelle relazioni USA-Brasile e rafforzare la natura strategica a lungo termine della partnership USA-Brasile”. Lula ha approvato lo scopo esplicito della sua visita incontrandolo successivamente nonostante non fosse necessario, come sostenuto sopra, confermando così il suo nuovo approccio agli Stati Uniti nonostante la loro ben nota storia complicata.

Gli interessi strategici che collegano i loro paesi sono duraturi e trascendono le amministrazioni, essendo principalmente legami militari e commerciali. Le amministrazioni Biden e Lula, in particolare, sono allineate anche rispetto al cambiamento climatico, al COVID-19, alla percezione delle forze di destra come gravi minacce alla sicurezza nazionale e a questioni socio-culturali come l’omosessualità, ecc., che non era il caso con quello di Bolsonaro. Tuttavia, differiscono ancora sulle loro opinioni nei confronti della transizione sistemica globale , che l’amministrazione Biden vuole guidare nella direzione del ripristino dell’egemonia unipolare in declino degli Stati Uniti mentre quella di Lula vuole che continui a muoversi verso il multipolarismo.

In questo senso, il leader brasiliano in carica ha una visione simile a quella del suo predecessore, il che suggerisce che lo “Stato profondo” del loro paese è rimasto per lo più multipolare nel senso della grande strategia, nonostante l’affinità di alcuni dei suoi elementi con gli Stati Uniti (sia in generale che in termini di sostegno ideologico a varie amministrazioni come quella di Trump o di Biden). Dopotutto, se la potente ala militare della sua burocrazia permanente non avesse veramente abbracciato questa visione del mondo, allora avrebbero potuto orientarsi decisamente verso gli Stati Uniti durante il mandato di Bolsonaro rompendo con i BRICS, vietando Huawei e sanzionando la Russia, ma ciò non è accaduto. Ciò dovrebbe sollecitare una profonda riflessione da parte dei brasiliani, indipendentemente dalle loro opinioni politiche.

Guardando al futuro, si prevede che Lula tenterà di allinearsi in modo multiplo tra il Golden Billion dell’Occidente guidato dagli Stati Uniti e il Global South guidato congiuntamente da BRICS e SCO di cui il Brasile fa parte, seguendo l’esempio introdotto dall’India nell’ultimo anno. A differenza di quello stato dell’Asia meridionale, tuttavia, il Brasile ha un’autonomia strategica relativamente minore nella Nuova Guerra Fredda a causa di quanto profondamente radicati siano gli “agenti di influenza” degli Stati Uniti all’interno del suo “stato profondo”. Ciò a sua volta ostacolerà l’efficacia della visione multipolare della politica estera di Lula, soprattutto perché quelle suddette forze possono essere armate a piacimento dagli Stati Uniti per tentare un colpo di stato militare o postmoderno contro di lui se “esce dalla linea” ancora una volta come l’ultima volta tempo fa.

L’unico modo realistico per ridurre lo scenario della guerra ibrida è per lui garantire che quegli “agenti di influenza” che hanno colluso con gli Stati Uniti per portare a termine l’incidente di domenica siano assicurati alla giustizia o almeno neutralizzati politicamente. Sarà immensamente difficile per lui, tuttavia, considerando quanto sia potente l’ala militare della sua burocrazia permanente e l’irrimediabile corruzione dei tribunali brasiliani. Stando così le cose, il suo terzo mandato gli lascia molta meno flessibilità in termini di politica estera rispetto ai due precedenti, il che dovrebbe a sua volta mitigare le alte aspettative dei suoi sostenitori che otterrà molta sostanza tangibile su quel fronte.

Estratti dell’intervista sono stati originariamente pubblicati in portoghese su Sputnik Brasil l’11 gennaio con il titolo “Gli Stati Uniti hanno svolto un ruolo decisivo nell’invasione degli edifici pubblici a Brasilia, afferma Korybko “.  

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