VERSO LA GUERRA CIVILE. IL TRAMONTO DELL’IMPERO USA   (Terza Parte), di Gianfranco Campa

http://italiaeilmondo.com/2020/01/17/verso-la-guerra-civile-il-tramonto-dellimpero-usa_2a-parte-di-gianfranco-campa/

 

 

VERSO LA GUERRA CIVILE. IL TRAMONTO DELL’IMPERO USA

 (Terza Parte)

 

UN CAMBIAMENTO EPOCALE

 

 

“Lo scopo della costituzione e` limitare il potere del governo federale non quello dei cittadini americani”

 

 

La sala riunioni è affollata. Gente in fila che preme per entrare nel ginnasio di una scuola (Horizon Middle School) di Bismarck. La fila di persone si snoda sin oltre il portone di entrata. Dentro la sala tutte le sedie sono occupate e molti sono appoggiati ai muri in piedi. Non avverto per ora la tensione che mi sarei aspettato per un dibattito così saturo di tensione politica e sociale. Mi accomodo nella terzultima fila in fondo la sala. Prima di entrare nel ginnasio, mentre ero in fila, ho scambiato due battute con un cittadino di Bismarck: Jim è un uomo sulla cinquantina, mi invita a sedermi accanto; ci sono anche la moglie, Mary e un amico di Jim, Greg. Siamo tutti coetanei, anche loro attenti a partecipare alla pubblica riunione. Jim è un imprenditore, ha una ditta di costruzione e scavi; la moglie e i due figli lavorano con lui. Mentre parlo con Jim, osservo con la coda dell’occhio Greg. Un uomo dai lineamenti duri, rughe scavate nella pelle come se fossero dei canali di irrigazione. Occhi blu profondi, capigliatura spessa, barba lunga. La stazza e` imponente; ad occhio e croce Greg svetta a oltre un metro e novanta e supera abbondantemente i 100 chili. Sotto la camicia pesante da cowboy, non intravedo grasso; deduco che la stazza di Greg è per la maggior parte composta da muscoli. Le mani sono grosse come pale meccaniche e nel momento di stringerle le ho sentite callose e ruvide. L’insieme mi lascia pensare ad un uomo temprato da un lavoro duro e faticoso. Mi giro verso Greg e gli domandò: “hai terra?” “Si ho terra, animali e un ranch” mi risponde. Un tema ricorrente quello della terra, dei ranch e degli animali, in questa landa americana dell’ultima frontiera, rada di popolazione, quasi a simboleggiare gli immensi spazi sconfinati, posizionati alla periferia del mondo metropolitano, caotico e  decadente della civiltà occidentale.

 

 

Cosa ha spinto tuo figlio a iscriversi all’università di Bismarck?” Mi chiede Jim incuriosito. “Ha vinto una borsa di studio dall’università di Bismarck e quindi ha deciso di frequentare l’università  in Nord Dakota” rispondo. Aggiungo: ”Infatti ha accettato con molte riserve l’offerta da Bismarck, l’ho convinto dicendogli che se non andava dove gli offrivano una borsa di studio, il costo dell’Università sarebbe stato per me decisamente proibitivo e di conseguenza avrebbe dovuto vedersela da solo.”Povero ragazzo cresciuto e nutrito al sole della California, finito nella ‘tundra’ del Dakota…” Scherza Jim.

Sul palco di fronte alla platea sono seduti i commissari della contea di Burleigh, dove si  trova la capitale del Nord Dakota; Bismarck. Jim con il dito mi indica i commissari identificandoli per nome e cognome:  Brian Bitner, Jerry Woodcox, Mark Armstrong, Kathleen Jones e Jim Peluso.  Mi guardo intorno alla platea, osservo nel volto dei partecipanti alla riunione il tratto della società di questa ultima frontiera americana. Gli uomini e le donne che mi circondano rappresentano i cittadini del Nord Dakota e proprio come quelli del Sud Dakota e degli Stati del Redoubt Americano, sono ancora a maggioranza tradizionalmente bianca, una realtà che rappresenta una america che va velocemente scomparendo.  Nel resto degli stati dell’Unione, oltre questa terra da ultima frontiera, la composizione della popolazione americana è cambiata drammaticamente negli ultimi due decenni.

 

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Sin dall’insediamento di Jamestown nel 1607 e dallo sterminio dei popoli nativi, gli Stati Uniti sono stati prevalentemente a maggioranza bianca. I bianchi rappresentavano nel 1950 intorno all’88% della popolazione statunitense. Nel 2018 sono scesi al 60%. Scenderanno al di sotto del 50% nei prossimi 10-15 anni. Già ora i non bianchi rappresentano più della metà delle popolazioni delle Hawaii, del Distretto di Columbia (Washington), della California, del Nuovo Messico, del Texas e del Nevada. “Resistono” gli stati dell’ultima frontiera americana; Idaho, Montana, Wyoming, North Dakota, South Dakota, ma e una resistenza simbolica, dal destino segnato.

Altro dato interessante; nel 2020 si prevede che negli Stati Uniti ci saranno più nascite di bambini non bianchi rispetto a bambini bianchi. Nel 2015, per la prima volta, negli Stati Uniti ci sono stati più decessi che nascite di persone bianche. Gli stati con il numero più alto di morti di bianchi rispetto alle nascite includono la California, la Florida, la Pennsylvania e il Michigan.

 

 

 

https://www.pewresearch.org/fact-tank/2019/12/20/key-ways-us-changed-in-past-decade/

Il cambiamento demografico negli Stati Uniti è una certezza, un destino segnato che renderà la razza bianca minoritaria; porterà cambiamenti epocali nella composizione politica e ideologica della terra a stelle e strisce.  L’America sta cambiando ed è un cambiamento senza possibilità di ritorno. La popolazione bianca sta velocemente scomparendo mentre aumenta la popolazione ispanica, asiatica e nera. Questo passaggio da una nazione in maggioranza bianca a una più diversificata sta avvenendo in alcuni luoghi degli Stati Uniti più rapidamente rispetto ad altri. Gli stati del Redoubt Americano e dell’ultima frontiera sono quelli che stanno cambiando molto più lentamente, ancorati, asserragliati ancora a una popolazione ed a una tradizione culturale e costituzionale che rappresenta il volto di una America smarrita, un concetto di un’america tradizionale incanalata ormai sul viale del tramonto.

L’onda del cambiamento sta bussando inesorabilmente e prepotentemente alle porte del Redoubt. Quel cambiamento che fino a 10 anni fa ancora eludeva l’ultima frontiera americana, ora si ritrova sotto le mura, alla soglia del cancello. Infatti non solo i grandi centri urbani o le zone costiere, ma anche stati limitrofi ai territori del Redoubt come il Colorado, si sono ormai trasformati completamente in una nuova entità. Il muro del Redoubt si sta lentamente ma inesorabilmente sgretolando e con esso l’America dell’ultima frontiera. L’unica domanda da porsi è se i patrioti del redoubt saranno disposti ad accettare questo cambiamento senza porre resistenza.

 

 

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La riunione trasformata in dibattito va avanti per circa quattro ore. I commissari prima discutono fra di loro e poi passano la parola al pubblico che ha il diritto, se desidera, di esprimersi apertamente al microfono ed esporre la propria opinione per cercare di convincere i commissari a favore o contro la ricollocazione dei rifugiati nella terre delle comunità del Nord Dakota. Alla mezz’ora di dibattito tra i commissari fanno seguito tre ore e mezza di interventi da parte dei cittadini di fronte al tavolo dei commissari e di fronte alla platea stessa. La lunga fila di cittadini in piedi, al centro della sala, aspetta diligentemente il proprio turno per esprimere il proprio parere di fronte ai commissari sperando di convincerli a votare contro o a favore della risoluzione di accettazione della quota di rifugiati. Negli occhi e nello sguardo di Jim, Mary e Greg intravedo il riflesso della emotività che questo tema crea nell’animo di molti cittadini di Bismarck.

 

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In seguito alla sconfitta degli Stati Uniti nella guerra del Vietnam, migliaia di vietnamiti furono trasferiti come richiedenti asilo negli Stati Uniti, per sfuggire all’avanzata del  comunismo.

Il 13 aprile 1979, il procuratore generale degli Stati Uniti per l’amministrazione Carter, Griffin Bell, annunciò che, attraverso un ordine esecutivo, avrebbe concesso l’ammissione di migliaia di rifugiati dal Sud-Est asiatico e dai paesi del blocco sovietico negli Stati Uniti.  Come risultato delle azioni di Bell, il numero totale di rifugiati che entrarono negli Stati Uniti raggiunse quell’anno oltre 65.000 (40.000 dal sud-est asiatico e 25.000 dal blocco sovietico). L’azione esecutiva dell’amministrazione Carter apriva la strada alla necessità di cementare una legge, una soluzione, che non fosse temporanea. Il continuo flusso di rifugiati all’indomani della guerra del Vietnam e le rivoluzioni comuniste nel sud-est asiatico generano un sostegno politico, da parte di ambedue i partiti (Repubblicano e Democratico), sulla necessità di rendere permanente, con una legge ed una riforma, l’ammissione di rifugiati negli Stati Uniti allargandone il numero.  Alla fine del 1979 il Congresso approvò tale riforma all’unanimità: Refugee Act del 1980-S.643.

Il 18 marzo 1980, la legge fu presentata al presidente Jimmy Carter che la firmò aprendo definitivamente le porte ai rifugiati. La nuova legge si integrava con la legge sull’immigrazione e naturalizzazione datata 1965, creando anche un meccanismo per rivedere e adeguare le quote dei rifugiati per far fronte alle emergenze che via via si andavano a creare nel mondo. La legge cambiò la definizione di rifugiato stesso, conformando le leggi immigratori americane agli standard stabiliti dalle convenzioni e dai protocolli delle Nazioni Unite.

Dal 1980 ad oggi, cioè dal passaggio in legge del Refugee Act, che va aggiunto appunto alla riforma del 1965, gli Stati Uniti hanno ammesso più rifugiati di qualsiasi altro paese al mondo, oltre 3 milioni in totale. I rifugiati vanno aggiunti al numero degli immigrati legali, che dal 1980, è passato da meno di 15 milioni a 45 milioni. Un aumento vertiginoso spinto dell’immigrazione su larga scala dall’America Latina e dall’Asia, con una popolazione di origine straniera che si è attestata nel 2018 a 44,7 milioni. Agli immigrati legali vanno aggiunti quelli illegali che si calcola siano intorno ai venti milioni (stima per difetto).

 

https://www.migrationpolicy.org/article/frequently-requested-statistics-immigrants-and-immigration-united-states

 

Per anni gli stati, le varie contee e municipalità dell’Unione, si sono visti sdoganare un numero sempre più alto di rifugiati ricollocati dal governo federale nelle proprie giurisdizioni. Stati come la California, New York e  Washington hanno accolto migliaia di rifugiati senza battere ciglio. Altri Stati soprattutto quelli del Redoubt e dell’ultima frontiera americana hanno, malgrado la loro reticenza, accolto i rifugiati senza aver strumenti a disposizione per opporsi. I cittadini dell’ultima frontiera americana hanno sempre espresso la loro disapprovazione al flusso migratorio nei loro stati, mentre i politici locali, siano essi democratici o repubblicani (maggioranza), si sono sempre adoperati per facilitare la ricollocazione dei rifugiati nei territori di loro competenza. Da una parte il governo federale, spalleggiato dai politici locali (di qualsiasi partito essi fossero) che impone agli stati dell’ultima frontiera le quote dei rifugiati pena la perdita di finanziamenti federali,  dall’altro i cittadini che vorrebbero un maggior potere decisionale nella scelta di imporre quote di rifugiati nei propri territori, città, paesi e comunita`.

 

 

Negli anni, i flussi dei rifugiati ammessi negli Stati Uniti è oscillato tra alti e bassi a seconda degli scenari geopolitici mondiali e delle amministrazioni in carica alla Casa Bianca. Con l’avvento di Donald Trump due importanti fattori si sono creati. Il primo:Il numero massimo imposto dall’amministrazione Trump di rifugiati ammessi negli Stati Uniti è sceso al record più basso mai registrato, 18,000 nel 2019, ben al disotto dei 110,000 imposti da Obama nel 2016. Il secondo: Trump nel Settembre del 2019 ha firmato ed emesso un ordine esecutivo con cui, per la prima volta dal 1980,  le agenzie che si occupano di reinsediamento di rifugiati devono ottenere il consenso scritto dai funzionari statali e locali in qualsiasi giurisdizione chiedono di collocare i rifugiati. In altre parole mentre prima i governi locali non avevano modo di opporsi sul numero di rifugiati che il governo federale assegna tramite le agenzie non governative, l’ordine esecutivo di Trump  delega autorità decisionale e consente ai governi locali di accettare o meno i rifugiati e se disponibili a collaborare con le agenzie che si occupano dei rifugiati, decidere quanti rifugiati sono disposti a ospitare.

L’ordine esecutivo di Trump coniugato con il numero striminzito di rifugiati che l’amministrazione Trump è disposta a far entrare, ha reso difficile il lavoro delle agenzie non governative. Le lamentele e le cause intentate in corte per cercare, tramite i giudici, di bloccare l’ordine esecutivo di Trump, si sono moltiplicate. Catholic Charities, Hebrew Immigrant Aid Society, Lutheran Immigration and Refugee Service, Church World Service e tante altre organizzazioni che si occupano di rifugiati sono sul piede di guerra contro l’amministrazione Trump. Cio che queste organizzazioni però non colgono è l’altra faccia di una società che alla periferia dei grandi centri urbani e dei grandi stati liberal-progressisti, fondamentalmente è stanca di vedersi imporre decisioni dall’alto senza essere consultata.

Il decreto esecutivo di Trump ha dato voce ai patrioti che si oppongono all’immigrazione e ai rifugiati offrendo ai cittadini uno strumento da usare per mettere pressione sui politici locali. Prima di Trump i politici si nascondevano dietro la scusa che non potevano opporsi alle quote di rifugiati imposte da Washington nei loro territori. Ora quella scusa è stata rimossa; Trump ha prima abbassato le quote di ammissione di rifugiati nel paese e poi ha trasferito il potere decisionale nelle mani degli stessi enti locali. Il risultato è questa assemblea di cui sono testimone, resa necessaria per discutere e convincere i commissari della contea se accettare o meno i rifugiati.

https://www.whitehouse.gov/presidential-actions/executive-order-enhancing-state-local-involvement-refugee-resettlement/

 

 

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Lentamente la gente in fila, uno alla volta, si presenta di fronte al microfono ed esprime pubblicamente la propria opinione sui rifugiati da collocare nella contea di Burleigh. Sorprendentemente molti di quelli che sono in fila esprimono un’opinione positiva e di sostegno ai rifugiati incoraggiando i commissari  a votare a favore dell’insediamento. Jim con la testa, alzando il mento, indica in direzione delle persone in piedi in mezzo alla sala in attesa pazientemente del loro turno per parlare: “Vedi li riconosci da lontano; molti non sono neanche di Bismarck. Ci sono Immigrati, studenti universitari sottoposti al lavaggio del cervello dai propri professori universitari anche loro presenti in fila, in attesa di parlare ed impartire lezioni di comportamento a noi ‘ignorantoni.” Poi ci sono i rappresentanti di organizzazioni religiose che ci dicono che dobbiamo accettare tutti i rifugiati perché anche Gesù Cristo con la sua famiglia è stato un rifugiato. Se ci ostiniamo ad essere intransigenti ci dicono che andremo sicuramente all’inferno“ mi sussurra Jim all’orecchio. “ Ma all’inferno qualcuno di noi c’è già stato!” continua Jim rivolgendo lo sguardo verso Greg. Mi giro di lato e osservo Greg, ponderando le parole di Jim e chiedendomi che cosa intendesse per  “all’inferno qualcuno c’è già stato”. Jim quasi come se leggesse il mio pensiero continua a parlare sottovoce “quando nel buio più totale che ti avvolge, nei momenti di disperazione che ti  lacerano l’anima, l’unica consolazione che ti tiene a galla è quella di sapere che hai fatto tutto il possibile affinché il sacrificio delle persone a te più care non sia stato invano. Quando Greg ha perso suo figlio, appena ventenne militare in Iraq, queste organizzazioni religiose, caritatevoli, nonostante la tragedia, si sono viste poco o niente.  Gli unici vicini a Greg sono stati i patrioti che stringendosi intorno alla famiglia l’hanno sostenuta e aiutata. Queste entità religiose ritengono meglio concentrarsi sui rifugiati perché portano denaro. Miliardi di dollari dei contributi che ogni anno vanno a riempire le casse di queste organizzazioni religiose o laiche.  Ci sputo sopra e li vomito questi ipocriti

Continua la parata delle persone che esprimono la loro opinione; ha ormai superato le quattro ore, le ultime tre ore e mezza sono state spese dando la possibilità al pubblico di esprimersi. La maggior parte della gente è rimasta seduta ad ascoltare con attenzione e rispetto. Ogni volta che al microfono si sentiva qualcuno esprimere un giudizio positivo, eloquentemente spiegando le ragione per cui si dovrebbero accogliere i rifugiati nelle terre del Dakota, la sala rumoreggiava. Un signore seduto di fronte a me continuava a muoversi nervosamente sulla sedia, quasi come se stesse combattendo internamente con un fuoco invisibile, cercando di domare uno spirito inquieto.

Proprio come era successo con Highmore; “l’ombelico del mondo”, i mass media come la CNN, il New York Times si sono, solo ora, accorti dei malumori espressi da questa ultima frontiera americana. Si sono presentati in massa a questa riunione in Bismarck. Ufficialmente è la prima volta, il primo dibattito pubblico, da quando Trump ha firmato l’ordine esecutivo, in cui un ente locale è chiamato, alimentato dall’impeto dei patrioti e cittadini, ad esprimersi sui rifugiati. Nei commenti dei giornalisti presenti si intravede una certa condiscendenza nei riguardi dei cittadini di Bismarck, a dimostrazione che i rappresentanti delle élite mediatiche e politiche di questo paese nutrono un disprezzo culturale nei confronti di una parte del popolo americano. Si può quasi leggere nella testa ciò che pensano: “…ma come si permettono questi mandriani retrogradi a sfidare le regole del buon senso comune…?

Si susseguono gli interventi:

Non siamo contro i rifugiati o gli immigrati, ma abbiamo i nostri veterani, i nostri senzatetto , gli alcolizzati e tossicodipendenti a cui pensare”

“Siamo una nazione che ha sempre accettato i rifugiati e gli immigrati”

“Stiamo parlando di un piccolo numero di persone che fuggono da guerre e disastri e hanno bisogno della nostra assistenza”

”Secondo le cifre ufficiali ogni rifugiato costa alla collettività dei contribuenti 65.000 dollari di spese necessarie per provvedere ai loro bisogni di base, come alloggio, cibo…”

Alla fine degli interventi i commissari si apprestano a votare. Il processo di voto è semplice e trasparente; i commissari vengono chiamati per nome e annunciano a voce il loro voto: Brian Bitner: No a i rifugiati. Un mormorio si alza in sala, con qualcuno che due file di fronte a me applaude convinto. Jerry Woodcox: Si a i rifugiati. “Vergognati!” Si sente qualcuno esclamare in sala.  Mark Armstrong: Si ai rifugiati “Bravo Mark!” Una voce alla mia destra proclama la sua soddisfazione.  “Mark ma che fai? Hai perso la testa? ” Chiede invece ad alta voce un uomo tre-quattro file avanti a me. Jim Peluso: No ai rifugiati. “ Way to go Jim! (E la strada giusta Jim)” dichiara una voce dietro di me. Kathleen Jones: Si ai rifugiati! Voto finale; tre a favore dei rifugiati due contro. Greg si alza di impeto dalla sedia che cade per terra ed esce dalla sala senza dire una parola. Mary stringe la mano al marito Jim e i due restano seduti a fissare un punto del muro alle spalle dei commissari. C’è chi applaude contento della decisione dei commissari, il resto, la maggioranza, si alza e in silenzio comincia a sfollare la sala; si avverte un senso di rabbia e delusione tra la maggior parte delle persone presenti. Un uomo si alza e camminando si avvicina al tavolo dei commissari, punta il dito verso di loro che sono rimasti seduti di fronte alla platea: “La Costituzione non autorizza il Congresso o alcun ramo del governo federale a fornire alcun tipo di assistenza sociale o aiuto finanziario supplementare agli immigrati o rifugiati. Lo scopo della costituzione è limitare il potere del governo federale non quello dei cittadini americani; con questa decisione andate contro la volontà dei cittadini di Bismarck, portate l’acqua per conto dei  politici e degli apparati burocratici,  vi allineate con gli interessi di queste agenzie sovranazionali, vergognatevi…!” Impreca l’uomo.

Mi rivolgo verso Jim e alzandomi chiedo se vogliono rimanere in sala ancora per molto. “No, siamo pronti ad uscire” mi risponde Jim, poi prosegue “ meglio andarcene, voglio vedere dove è andato Greg”. Io, Jim e Mary usciamo insieme dalla sala  e dal tepore dei riscaldamenti, appena messo piede fuori, l’aria gelida mi colpisce come una lama di coltello al viso. Greg è in piedi appoggiato ad un camion nel parcheggio, presumo che sia il suo veicolo. Jim si avvicina a Greg e gli chiede come sta: “you okay man?”  Greg gli risponde “all good bro”. Poi Jim si rivolge verso di me “hai programmi per stasera?” mi chiede. “No, devo solo rientrare un po presto in albergo, domani mattina ho il volo di ritorno in California” gli rispondo. “Vieni con noi! Andiamo a bere qualcosa” mi propone Jim.

 

 

***

 

 

 

L’ ASCESA DELLE MILIZIE

 

 

“Sono come avvoltoi che circolano sopra il corpo di un guerriero ferito mortalmente…”

 

 

Sono le nove di sera, la citta e deserta, una macchina della polizia attraversa l’incrocio di fronte al pub. Siamo ancora in autunno e ci sono solo 3 gradi, mi chiedo come fanno i colleghi di Bismarck ad operare durante l’inverno quando la temperatura a Gennaio scende sotto i trenta gradi, non li invidio…

Il pub è quasi vuoto, io Jim e Greg ci accomodiamo al tavolo con l’intenzione di ordinare qualcosa da bere, la moglie di Jim è tornata a casa. Dopo la riunione e la “sconfitta” dei cittadini di Bismarck, l’atmosfera al nostro tavolo è sobria e serena, la rabbia, specialmente quella di Greg, sembra essere passata, anche se non è mai sfociata in isteria. Non ci sono state parole fuori posto, non ho sentito in sala bestemmie o parolacce, ma solo una genuina frustrazione che si è materializzata in un uscita frettolosa e rabbiosa di molti dei partecipanti dalla sala riunioni.

Si scherza e si ride fra noi tre. Jim e Greg sono interessati principalmente ad ascoltare le mie avventure da poliziotto californiano. Anche se ho conosciuto per la prima volta Jim e Greg questa notte, percepisco che l’amicizia sarà duratura e il mio prossimo viaggio in Nord Dakota e nell’ultima frontiera americana, oltre a includere George e Vince, avrà come protagonisti anche Jim e Greg.

Vorrei chiedere a Greg i dettagli sulla morte del figlio in Iraq, ma mi astengo per rispetto verso l’uomo che ancora non conosco bene; quando i tempi saranno maturi, al mio prossimo viaggio, avrò la possibilità di discutere anche del figlio di Greg. La perdita di un figlio è una tragedia immane per un padre, quello che rende questa tragedia ancora più dolorosa è il sapere che il sacrificio di tanti giovani americani, per certi versi è stato del tutto inutile. Il prezzo pagato dalle famiglie americane per le avventure imperialistiche dei centri di potere di Washington è altissimo. Secondo l’ultimo rapporto pubblicato nel 2016 dal Dipartimento degli Affari dei Veterani degli Stati Uniti (VA), analizzando i dati di 55 milioni di veterani, dal 1979 al 2014, l’analisi indica che una media di 20 veterani muore per suicidio ogni giorno. Senza includere guerre come quella della Corea e del Vietnam, ai suicidi si aggiungono i morti in Afghanistan; 2,216 e quelli in Iraq; 4,576.

Cerco di comprendere l’opposizione dei cittadini di Bismarck all’accoglienza verso i rifugiati. Parlando con Jim e Greg, capisco che non è un opposizione spinta da un impulso intollerante, ma piuttosto una forma di ribellione contro i poteri burocratici e amministrativi: “I veri rifugiati siamo noi non loro. I nostri soldati, appartenenti a legioni sparse per il mondo, in terre e frontiere distanti, che prestano servizio in aree geografiche delle quali a malapena riconosciamo il nome, tornano a casa distrutti. Soffrono di stress post traumatico. Appena attraversato il ciglio della porta di casa, lasciano cadere lo zaino a terra, si dirigono in camera da letto o sul divano e vanno a dormire stanchi, privi di ogni energia, svuotati da ogni motivazione, gusci vuoti, fantasmi, pallidi ricordi di quegli esseri umani che furono prima di arruolarsi. Molti si chiedono perché sono in Afghanistan, in Iraq, in Siria. I nostri soldati sono il riflesso di una nazione esausta da decenni di guerre create con pretesti fasulli per il beneficio di una classa dirigente alla quale la costituzione non interessa in nessun modo. Poi, per compensarci dei sacrifici fatti dai noi stessi, dai nostri amici, dai nostri figli, dai nostri fratelli e sorelle, dai nostri padri e dai nostri nonni ci impongono i rifugiati nelle nostre terre, rifugiati che le loro politiche hanno contribuito a creare, dicendo che è nostro dovere accettarli altrimenti siamo razzisti, egoisti, tribali, intolleranti, xenofobi…Spediamo oltre 700 miliardi annui in spese militari per crearci una corazza, un’armata invincibile. Ci dicono che i nostri nemici sono i russi, i cinesi, i terroristi, quelli stessi terroristi finanziati dalla classe dirigente di questo paese. Tutto ciò mentre dall’interno la nostra nazione si sta lacerando. Le nostre tradizioni stanno scomparendo. Le nostre terre stanno morendo.  Le nostre città invase e violentate. La nostra costituzione calpestata. La nostra nazione somiglia a un palestrato pieno di muscoli con un corpo perfetto, ma dentro quel corpo dalla apparenza invincibile, un cancro lo sta lentamente consumando.” risponde Jim alla mia domanda del perché si sono recati stasera alla riunione esprimendo la loro opposizione alla collocazione di nuovi rifugiati nel loro territorio. Greg incalza la dose “I globalisti guerrafondaii, lo stato burocratico permanente, insieme alla macchina del complesso militare creano, tramite politiche estere fallimentari, le crisi sociali che spingono milioni di persone a spostarsi in cerca di rifugio e poi chiedono a noi cittadini, contribuenti, di sostenere queste politiche fallimentari tramite i sacrifici, le tasse, l’impegno morale e finanziario, accogliendo nelle nostre terre migliaia di poveri rifugiati sfrattati dai teatri di guerra e violenza che gli stessi poteri forti hanno creato distruggendo quelle terre, le loro culture e tradizioni. I poveri rifugiati sono vittime come lo siamo noi, vittime degli stessi nemici. Si aggiungono i sostenitori del politicamente corretto che usano parole come razzismo e intolleranza per imporre i flussi migratori nelle nostre terre e cambiare sostanzialmente la nostra composizione culturale e costituzionale. Sono come avvoltoi che circolano sopra il corpo di un guerriero ferito a morte…”

Fra una birra, le patatine fritte e un bicchiere di vino, la serata al pub scorre veloce, si trasforma in una discussione filosofica-culturale. Scopro con grande sorpresa che Greg è laureato in ingegneria, la sua apparenza bruta e rude inganna e annebbia il giudizio sulla persona, mai giudicare un libro dalla copertina…

La discussione si incanala su diversi argomenti: “Quello che è successo stasera è solo un esempio, un anticipo,  di ciò che avverrà in altri stati; continuano a spingere le loro ideologie e le loro leggi nei nostri territori e se reagiamo ci criticano e ci etichettano usando ogni aggettivo dispregiativo possibile. Nel frattempo sempre più persone si stanno radicalizzando unendosi ai miliziani.”  Afferma Jim. Un tema ricorrente questo delle milizie; lo aveva già accennato Vince durante la mia visita a Highmore due giorni prima. “Ma quante milizie ci sono in Nord Dakota?” Chiedo a Jim. Mi risponde Greg inserendosi nella conversazione ”Una domanda difficile da rispondere, non ti so dire esattamente quanti miliziani ci sono in Nord Dakota, ma ti posso assicurare che c’è ne sono molti di più rispetto al passato. Conosco più di qualcuno che ora fa parte della milizia. Gente assolutamente normale alienata sempre di più dalla società moderna. Si rifugia formando una comunità nella comunità, unendosi a gruppi che resistono e promettono guerra ai nemici della costituzione. Questi sono gli ultimi fuochi di un mondo che sta finendo, tutto intorno il cambiamento ci avvolge; ci si sente impotenti, il coagularsi intorno ad altre persone simili è il naturale processo di autodifesa messo in atto per resistere al cambiamento epocale che ci sta avvolgendo. Si sente nell’aria cha la rivoluzione è prossima. I tempi e i modi non li conosco, ma verrà come è sicuro che la notte segue il giorno, come la morte segue la vita…

Greg ha ragione, lui percepisce ciò che i dati ci dicono: Secondo uno studio del Southern Poverty Law Center; nel 2016 venivano identificati 276 gruppi di milizie attive in tutti gli Stati Uniti. Rispetto ai 202 del 2014 c’è stato un aumento del 37%. Il numero rappresenta una impetuosa crescita dopo diversi anni di declino. Le schiere dei miliziani è cresciuto in modo esplosivo dopo le elezioni nel 2008 del presidente Obama. Si è passati da 42 gruppi nel 2008  ai 276 del 2016. Secondo dati non ufficiali, tra il 2017 e il 2019, i gruppi miliziani attivi sul territorio dell’unione sarebbero aumentati superando abbondantemente le quattrocento unità.

https://www.splcenter.org/news/2016/01/04/antigovernment-militia-groups-grew-more-one-third-last-year

Quantificare il numero dei singoli membri però è molto problematico poiché una larga maggioranza dei miliziani aderiscono in incognito, non pubblicizzano la loro appartenenza alle milizie. Le cifre ufficiali dicono che sarebbero oltre 50,000 i membri appartenenti alle forze miliziane. E una cifra su cui nutro seri dubbi visto la reticenza dei membri stessi a manifestarsi; stimerei quel numero ad almeno il doppio, 100,000. Significativa è stata la manifestazione recentemente svoltasi in Richmond, la capitale dello stato della Virginia.

Lo stato della Virginia, sotto il controllo di legislatori democratici, ha cercato di introdurre una legge restrittiva sull’uso delle armi. La reazione dei cittadini è stata immediata. Secondo la polizia sarebbero state altre 22,000 le persone armate fino ai denti scese in piazza a Richmond per dimostrare contro la legge. Ora è chiaro che non tutti i 22,000 partecipanti erano membri miliziani, ma è altrettanto certo che almeno la metà dei partecipanti hanno contatti o appartengono a organizzazioni miliziane. Il resto ha la potenzialità di unirsi ai miliziani visto che la libertà delle armi è uno dei maggiori punti che accomuna i patrioti americani di ogni tipo e i miliziani. 22,000 persone in piazza a protestare solo nello stato della Virginia mi fanno pensare che 100,000 miliziani per l’intero paese è probabilmente un numero ancora troppo basso. A dimostrazione della pesante presenza di miliziani durante la manifestazione di protesta contro la legge sulle armi, basterebbe osservare alcune delle bandiere che sventolavano nelle strade di Richmond, una fra tutte quella del “III 1776”, un gruppo paramilitare molto nutrito, antigovernativo, fondato nel 2008, attivo sia negli Stati Uniti sia in Canada.

 

 

 

Secondo i mass media e i democratici, i movimenti miliziani sarebbero composti da gruppi bianchi di estrema destra. Questa definizione di comodo, semplicistica e affrettata, denota una mancanza di onestà intellettuale e giornalistica. I miliziani e i movimenti patriottici in generale, sono composti da varie estrazioni sociali, razziali, inclusi afroamericani, latini, donne e movimenti omosessuali.

Storicamente parlando le forze miliziane moderne sono tornate alla ribalta nazionale agli inizi degli anni novanta, ma in realtà hanno sempre fatto parte della cultura a stelle e strisce. Infatti le unità della milizia costituirono la spina dorsale della forza che iniziò la rivoluzione americana e furono usate per potenziare l’esercito continentale durante la guerra di indipendenza. Fu la milizia che portò a termine l’assedio di Boston e diede a George Washington un esercito con cui proseguire la guerra prima che il Congresso continentale potesse fornire l’autorizzazione a una forza semi-professionale.

Quando la Rivoluzione americana finì, l’esercito fu ridotto a una piccola forza in risposta a uno spirito anti-monarchico prevalente all’epoca che considerava un esercito permanente come un pericolo per un popolo libero. Tuttora nello spirito patriottico prevale sì il sostegno ai soldati americani per il dovere che esplicano al servizio della patria, ma nel profondo del loro spirito di libertà sono convinti che un esercito è un viatico di potere in mano ai burocrati per minare e indebolire l’autorità dei governi locali e dei cittadini.

 

 

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Mentre la notte fredda del Nord Dakota scorre via velocemente è giunto il momento di congedarmi dai miei nuovi amici. Il ritorno in albergo e le poche ore di sonno sono tutto ciò che mi separa dal volo di rientro in California. Una delle cose più belle degli Stati Uniti, soprattutto nell’America dell’ultima frontiera è la facilità con cui si fa amicizia e ci si connette con la gente.

Dopo la presa di posizione anti-rifugiati dei cittadini di Bismarck, la diga si è aperta. Sono seguite altre udienze pubbliche: La contea di Beltrami in Minnesota ha votato contro l’insediamento di nuovi rifugiati. La contea di Cass dove si trova la città di Fargo in Nord Dakota  ha votato si ai rifugiati, creando anche li molto malumore. Il governatore del Texas ha chiuso lo stato ad ulteriori rifugiati, i semi della ribellione stanno lentamente germogliando.

Al mio ritorno in albergo mi sdraio sul letto esausto da un viaggio che in 5 giorni mi ha portato a percorrere oltre 2,700 chilometri attraversando 7 stati, incluso il cuore dell’America Redoubt. Non è la prima volta che attraverso gli Stati Uniti dal nord a sud, da est a ovest, in lungo e in largo. Questo viaggio però rispetto agli altri mi ha lasciato dentro un segno indelebile. Sono partito da San Francisco per Bismarck, in macchina, come avevo già fatto altre volte, non più con l’intenzione solamente di visitare il figlio, gli amici o parchi nazionali, bensì con il desiderio di comprendere meglio i cambiamenti in atto in questa nazione. Negli ultimi anni ho sperimentato di persona il cambiamento tumultuoso in corso in America. Un cambiamento culturale, demografico e generazionale che, alimentato dalla politica corrosiva di questi ultimi quattro-cinque anni, sta lacerando profondamente la terra a stelle e strisce. Il viaggio si è trasformato in una odissea che mi ha spiritualmente ed emotivamente scosso, esaurendo l’energia che avevo dentro. Ritornerò in California, al lavoro, in riserva, più stanco di quando sono partito, ci vorranno molti giorni per recuperare. Definire questo viaggio una vacanza è per lo meno un azzardo.

Mentre rivivo mentalmente i momenti più particolari di quel viaggio, improvvisamente mi ricordo che devo prendere la mia pistola, scaricarla, smontarla, per poterla trasportare, con il consenso del capitano, nella stiva dell’aereo. Fisso l’arma per qualche secondo pensando a quanto importante sia questo strumento nello scontro culturale epocale in atto negli Stati Uniti.

Sdraiato sul letto in attesa che morfeo mi accolga, incuriosito vado su un sito di miliziani, leggo la loro introduzione:

Perché state tutti nell’ombra, patrioti? Risorgete fratelli e sorelle di questa nazione, coraggiosamente insieme, l’uno con l’altro, chiedete ai nostri servitori eletti di tornare allo stato di diritto se non vogliono essere trattati da criminali quali sono!

Desideriamo la pace, ma non a spese della nostra libertà! Siamo uniti e pronti!

Per il momento, oh voi tiranni, andate avanti contro di noi usando le vostre leggi incostituzionali, ma mentre ci prepariamo allo scontro finale, vi avvertiamo che non obbediremo! E  rifiutandoci di obbedire, stroncheremo e annulleremo le vostre leggi incostituzionali rendendole inutili!

Fratelli e sorelle, alle armi!

https://modernmilitiamovement.com/

Il mio viaggio nell’America del Redoubt è terminato, quello nella futura prossima guerra civile continua. Mi consola la poesia scritta da un patriota delle praterie:

Lascia che l’America sia di nuovo America.

Lascia che sia il sogno di una volta.

Lascia che sia il pioniere sulla prateria

cercare una casa dove lui stesso è libero.

Lascia che l’America sia di nuovo il sogno sognato dai sognatori.

Lascia che sia quella grande terra splendente

dove mai i re sorgeranno né i tiranni cospireranno.

 

 

Dei movimenti di branco: sardine, di Alessandro Visalli

Dei movimenti di branco: sardine.

Alcune settimane fa, il 19 novembre, avevo provato una riflessione a caldo[1] sul fenomeno delle Sardine del quale veniva riconosciuto il carattere politico, in quanto orientato ad un nemico. Quando si sceglie di attribuire ad un movimento il carattere politico per il fatto, capitale, che individua un “nemico” giova in genere riferirsi al capitale articolo di Carl Schmitt del 1932[2]. In esso l’autore cerca una specificità del “politico” che sia distinta dall’azione come dal pensiero. Ovvero da ciò che si lascia decidere in base all’essere utile o dannoso (ovvero nel campo dell’economico), buono o cattivo (nel campo della morale), bello o brutto (dell’estetica). È una distinzione eminentemente ‘politica’, dunque, quella che non afferma la cattiveria, la bruttezza o la dannosità, ma designa gli amici (freund) e i nemici (feind). Una distinzione, meramente concettuale, che si fonda su un “criterio, [ovvero] non una definizione esaustiva o una spiegazione di contenuto”, che ha a che fare con ciò che appartiene, ciò che unisce, non necessariamente con ciò che si distingue per il grado dell’utile, bontà o bellezza. Un concetto questo che è catturato da frasi come “è un bastardo, ma è il nostro bastardo”, detto, ad esempio di un dittatore sudamericano (frase attribuita al Presidente Roosevelt e riferita a Somoza)[3].

Coglie questo punto Moreno Pasquinelli in un articolo dal titolo espressivo “Sardine: tra Kant e Schmitt[4], su Sollevazione. Il movimento è letto come interprete di una vasta area che unisce un sentimento progressista di ispirazione globalista (anche designato come “neoliberismo progressista”[5]) e un sottostante, e sotto alcuni profili contrastante, umanitarismo di marca cattolica. Materiali eterogenei ma sedimentati, che sono coaugulati da una inimicizia. Quindi una estraneità, quella verso il plebeismo ostentato di Salvini.

La retorica, enormemente potenziata dalla massiva sovresposizione mediatica di questi mesi, ha battuto su valori forti, declinabili facilmente sul sottofondo liberale come su quello cattolico, antecedenti: tolleranza, pazienza, morbida dolcezza, bassotono, pacificazione sorridente, gaia spensieratezza. Posture, prima ancora che valori, che identificano immediatamente, fisiognomicamente, un parente, un essere parente tra chi non soffre la vita. Chi ha, in fondo, l’orizzonte aperto e non vive nel pozzo[6].

Moreno identifica qui la mossa delle Sardine bolognesi (questa distinzione tra poco troverà senso). L’aggregazione, che produce un non irrilevante effetto nelle elezioni romagnole, dei “parenti” avviene contro un “hostis” pubblico, Salvini. Ma non tanto, io credo, perché egli sarebbe il “male”, (certo lo è, come è brutto e come è dannoso), quanto perché è ‘straniero’. Per così dire egli potrebbe anche essere, paradossalmente, onesto, leale, ma resterebbe sempre l’altro[7].

Torneremo sulle lezioni che ne trae, ma intanto restiamo qui. La mossa “politica” è potente, chiama a raccolta e fa popolo, ovviamente nel farlo fa anche guerra (civile). Chiama a raccogliersi come ‘parenti’, esattamente, tutti coloro che sono giusti, sanno ben vivere, pacifici, sereni, e quindi si sentono tolleranti, superiori, morali, in genere spensierati. Guardano con fastidio misto a timore, gli ansiosi, i rozzi, ineleganti, i felposi, urlanti, certo immorali, ovviamente inferiori, abitanti delle tante periferie del paese. Raccogliersi, mano nella mano, coloro i quali, del resto, in questi anni lentamente, inesorabilmente, ma anche ovviamente, pacificamente, si sono separati, hanno imparato a vivere tra simili, sono fuggiti dai sobborghi, hanno popolato i quartieri bene[8]. La chiamata tra ‘parenti’ si declina, insomma, sotto specifici caratteri di classe[9].

Sotto questo profilo dunque, ha ragione Moreno, la mobilitazione delle sardine è “politica”. Sotto questo profilo è una mobilitazione del nemico[10].

Lo rende particolarmente evidente l’incontro con i Benetton di qualche giorno fa. Ma certo non lo determina. Tuttavia è sufficiente per creare fratture nel campo del nemico: infatti alcune ore fa il portavoce delle sardine romane, Stephen Ogongo ha defezionato. In un post reso noto intono alle otto di sera sul gruppo “Sardine di Roma[11], hanno scritto:

Sardine di Roma, da oggi in autonomia. Incontro con i Benetton solo l’ultimo degli errori dei fondatori bolognesi

L’incontro che i fondatori delle Sardine hanno avuto con Luciano Benetton è stato sbagliato, inopportuno. Un errore politico ingiustificabile, ma solo l’ultimo degli errori che Mattia Santori, Roberto Morotti, Giulia Trappoloni e Andrea Garreffa hanno commesso nelle ultime settimane.

Da questo momento le Sardine di Roma non fanno più riferimento ai 4 fondatori di Bologna né alla struttura che stanno creando. Le Sardine di Roma ripartono da quei valori che hanno fatto della manifestazione di Piazza San Giovanni la più grande e la più partecipata delle sardine: uguaglianza, libertà, giustizia sociale. Affiancarsi agli squali, o diventare come loro, non ci rafforza ma ci indebolisce, ci rende prede inconsapevoli.

La pubblicazione della foto scattata a Fabrica, “centro di formazione per giovani comunicatori”, ha giustamente scatenato una polemica all’interno e all’esterno del movimento delle Sardine. È un fatto noto che la famiglia Benetton è la maggior azionista di Atlantia e della società infrastrutturale Autostrade per l’Italia, tuttora compromessa con il tragico crollo del Ponte Morandi di agosto 2018 che ha causato la morte di 43 persone.

Chi lotta per la giustizia sociale e per un nuovo modo di fare politica non può dimenticare il grido di dolore delle famiglie delle vittime di Genova. Per chi ha creduto nei valori espressi nelle piazze delle Sardine è stata una delusione enorme che ha minato gravemente l’integrità e la credibilità del movimento.

Ciò che rende tutto sospetto è la tempistica di questo incontro, che avviene proprio nel momento in cui si è riaperta la trattativa per la concessione di Autostrade per l’Italia. Se non ci fosse niente da nascondere, perché non hanno reso pubblica la loro visita a Fabrica prima? Perché non hanno pubblicato loro stessi la foto dopo l’evento?

L’aspetto più grave di questa vicenda è stato l’aver assistito a diversi tentativi di limitare la discussione all’interno dei gruppi Facebook delle Sardine addirittura attraverso la censura di determinate parole e la cancellazione di diversi commenti e post critici.

Questo è un comportamento pericoloso che limita la libertà di espressione. E non è la prima volta che accade. Sempre più nelle scorse settimane abbiamo assistito a un controllo “dall’alto” delle comunicazioni tra noi e verso l’esterno teso ad assicurarsi che i 4 leader fondatori del movimento siano sempre messi in buona luce, anche a discapito di altri.

Anche l’organizzazione delle Sardine sui diversi territori e città ne ha risentito, con l’allontanamento volontario e forzato di soggetti che non condividevano più il modo di evolversi del movimento. Un comportamento che non giova né al movimento né al Paese che vogliamo migliorare.

Segnali preoccupanti sintomo di una situazione che ha passato il segno e a cui serve rimediare in fretta.

Per questo, credo sia giunto il momento di ritornare alle origini del movimento delle Sardine, che era ed è un fenomeno spontaneo, aperto a tutti quelli che vogliono auto organizzarsi senza controlli e regole imposte dall’alto. Le Sardine di Roma tornano in mare aperto: la nostra forza sarà la comunità, l’essere in tanti e il saper stare insieme”.

Si era detto all’inizio che i due sottofondi, conflittuali, valoriali sono quello liberale e quello umanista (cattolico). Il testo segna lo spostamento.

Vicino alla “libertà”, compare la chiamata della “uguaglianza” e, a maggiore esplicitazione di senso, la “giustizia sociale”. Il capitalismo predatorio dei Benetton è riportato, con metafora ittica di contrasto, alla figura dello squalo.

Segue una brutale presa di distanza, senza sconti e senza rimedio, nella quale ai quattro “fondatori”[12] sono rimproverate doppiezza, manovre nascoste, antidemocraticità nella gestione della discussione, censura, purghe ed allontamenti. Ed, infine, il sempiterno mantra di tutti i “movimenti antisistemici” di questa epoca post-ideologica (o iper-ideologica[13]): tornare alle origini, ad un fenomeno che è stato “spontaneo” e “aperto a tutti quelli che vogliono auto-organizzarsi senza controlli e regole imposte dall’alto”.

Il pedaggio si deve sempre pagare.

La chiusa anti-liberale cade alla fine: “la nostra forza sarà la comunità, l’essere in tanti e il saper stare insieme”.

Bene.

La lezione è triplice:

  1. Non c’è politica senza identificazione del nemico (ma occorre anche riconoscere i suoi travestimenti);
  2. Si definisce la propria identità politica anzitutto indicando il nemico principale (ma bisogna anche farlo nel “momento favorevole”[14]);
  3. Si crea la forza costruendo la comunità non in base al mero interesse (non di solo pane vive l’uomo).

[1] – Si veda “Sardine”, 19 novembre 2019.

[2] – Carl Schmitt “Il concetto di politico”, del 1932, un anno non certo irrilevante. Anzi, un anno cruciale, nel 1930 Heinrich Brüning era stato nominato Cancelliere ed aveva avviato una drastica politica deflattiva (anche in reazione all’inflazione che fino a qualche anno prima era servita a distruggere i debiti di guerra, ma aveva di fatto espropriato la piccola e media borghesia di tutti i suoi risparmi), a seguito del blocco della politica nel Reichstag il 14 settembre 1930 erano state chiamate nuove elezioni che avevano visto l’avanzamento del Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori, che arrivò al 18,3% dei voti, quintuplicandoli in due soli anni. Da quell’anno, senza un possibile governo, la Repubblica di Weimar scivola nella guerra civile. Quindi dal 1930 al 1933, il Cancelliere governa senza maggioranza a forza di Decreti Presidenziali di emergenza. Sulla base di una radicale teoria dell’austerità, nel mezzo della grande depressione causata dalle conseguenze del crollo del ’29, il Cancelliere ridurrà drasticamente le spese pubbliche e licenzierà milioni di impiegati pubblici, riducendo anche le protezioni per la disoccupazione. Sul finire del’32 inizierà, è vero, una timida ripresa ma troppo tardi, ormai il governo non ha il sostegno di nessuno e quasi tutti chiedono una svolta radicale. L’anno successivo ci sarà l’avvento al potere di Adolf Hitler.

[3] – La distinzione tra amico e nemico indica, “l’estremo grado di intensità di un’unione o una separazione, di una associazione o una dissociazione; essa può sussistere teoricamente e praticamente senza che, nello stesso tempo, debbano venire impiegate tutte le altre distinzioni morali, estetiche, economiche o di altro tipo. Non v’è bisogno che il nemico politico sia moralmente cattivo, o esteticamente brutto, egli non deve necessariamente presentarsi come concorrente economico e forse può anche apparire vantaggioso concludere affari con lui. Egli è semplicemente l’altro, lo straniero (der fremde) e basta alla sua essenza che egli sia esistenzialmente, in un senso particolarmente intensivo, qualcosa d’altro e di straniero, per modo che, nel caso estremo, siano possibili con lui conflitti che non possano venir decisi né attraverso un sistema di norme prestabilite né mediante l’intervento di un terzo ‘disimpegnato’ e perciò ‘imparziale’” (Le categorie del politico, p.109). E’ importante anche considerare che il “nemico” non è l’avversario, non è il concorrente, ma un insieme che combatte e si contrappone ad un altro insieme, è sempre pubblico. Egli è l’hostis e non l’inimicus.

[4] – Moreno Pasquinelli, “Sardine: tra Kant e Schmitt”.

[5] – Si veda, Nancy Fraser, “Contro il neoliberismo progressista”.

[6] – Mi riferisco alla bellissima immagine evocata da Chiara Zoccarato in questo intervento video.

[7] – In realtà la designazione dell’altro, dello straniero, è un addensatore di caratteri negativi, disvaloriali, per cui a Salvini, in modo non dissimile dalla sua identificazione dei nemici negli ‘esterni’, non è riconosciuta alcuna virtù. Egli è il cattivo, lo stupido, il brutto, il disutile e distruttivo.

[8] – Il fenomeno è descritto da una ormai vastissima letteratura, da Harvey a Sennett, da Giulluy a Sassen.

[9] – E’ un tentativo di chiamare una classe “per sé”, ovvero una autoidentificazione come simili, nell’elevatissima frammentazione lavoristica, identitaria, insediativa, contemporanea, costituita non necessariamente dagli abbienti, o non solo, ma da tutti coloro che sentono di avere ancora, o di poter avere in un futuro prevedibile e non fantasmatico, controllo della propria esistenza. Di essere in grado di fare, determinare, il proprio valore. E che, per questo, sentono di potersi elevare, distinguere. Non è tutta borghesia, ma è l’area che gravita, credibilmente, su di essa. Non è una classe “in sé”, anzi probabilmente in sé, rispetto ai mezzi di produzione, è quasi altrettanto eterogena del campo avverso, ma, figlia dell’epoca “post-materialista”, subisce l’egemonia dall’alto della borghesia medio-alta.

[10] – Questa era la chiusa, dopo una descrizione volta a giustificarla, dell’articolo di novembre, cui rimando.

[11] – Si veda “Sardine di Roma da oggi in autonomia”.

[12] – Che, ovviamente, sono solo i portavoce degli autentici fondatori, o mandanti politici.

[13] – Non c’è maggiore ideologia di quella che appare come natura.

[14] – Se è vero che può essere opportuno negoziare e finanche allearsi con forze ostili, se serve a neutralizzare di volta in volta quella più pericolosa, è anche vero che va fatto al tempo giusto. “Nemico principale” e “momento favorevole” si guardano negli occhi.

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DAGLI AMICI MI GUARDI IDDIO…., di Teodoro Klitsche de la Grange

DAGLI AMICI MI GUARDI IDDIO….

Da quando è in sella il governo giallorosso i suoi sostenitori decantano che i rapporti con l’Europa sono tornati al bello stabile, che il governo è tra i più considerati a Bruxelles e così via.

Nessuno, che mi risulti, ha notato, all’apertura di tali cori, che l’Unione Europea aveva concesso all’Italia un incremento del rapporto deficit/PIL del di 2,2% per il corrente anno, a fronte del 2,04% assicurato al governo “nemico” Lega-M5S.

Questo (misero) 0,16% del PIL, pari a poco più di 2,5 miliardi di euro, ci ha dato la misura dell’amicizia nutrita dall’establishment europeo nei confronti del nuovo governo. Per fare un paragone è assai meno del deficit concesso alla Francia e comunque inferiore a quello realizzato dalla Spagna (2,5%) che non sembrano preoccupare granché i vertici europei. Anche in passato sono stati tollerati rapporti deficit/PIL superiori al 10% senza ansie eccessive. Vero è che per l’Italia – a differenza di altri Stati (come l’Irlanda e il Portogallo) – le dimensioni economiche e il complesso del debito pubblico rende l’incremento più rischioso.

Ciò stante resta il fatto che laddove esiste un rapporto d’amicizia politica o quanto meno un interesse comune degli Stati i rapporti economici non si misurano col bilancino e la partita doppia, ma seguono esigenze e criteri di carattere politico. Facciamo due esempi di questa costante nel secolo scorso.

Il primo: quando la Gran Bretagna, già in guerra con il III Reich, si trovò a corto di contante, Roosvelt ne finanziò l’armamento con la legge “affitti e prestiti” con cui praticamente concesse un credito amplissimo alla Gran Bretagna (e non solo). Rischiando grosso, perché questa era esposta all’invasione delle Panzer Divisionen, per cui i creditori americani correvano il rischio di ritrovarsi il debitore inglese “al gabbio” tedesco.

Qualche anno dopo, di fronte ad un’Europa distrutta dalla guerra, il Presidente Truman col piano Marshall decise di aiutarne la ricostruzione con copiosi aiuti economici. Anche in tal caso determinante fu l’esigenza politica di bloccare l’espansionismo sovietico e di consolidare il rapporto con i governi amici dell’Europa occidentale; comunque il piano si rivelò una mossa azzeccata anche economicamente, perché consentì di accelerare il recupero delle economie europee con notevoli benefici anche per quella USA.

Se i Presidenti USA avessero valutato le situazioni ricordate in base al giornalmastro, forse l’Inghilterra sarebbe finita sotto un Gauleiter o qualche paese europeo-occidentale sotto un governo comunista o para-comunista (di “larghe intese”) con notevole ridimensionamento della potenza USA (e probabilmente, anche  dell’economia). Quindi era stata una scelta corretta e provvida quella di aiutare gli amici politici, anche correndo un rischio elevato.

Se questo è vero, occorre capire perché i governanti europei sono così avari nei confronti dei loro “alleati” italiani e lesinino loro anche gli zerovirgola.

La prima spiegazione è che gli eurocrati pensino che l’economia debba prevalere sulla politica; ma l’ipotesi non è del tutto credibile – anche se in linea col pensiero prevalente (oggi al tramonto). Questo perché l’ascesa del popul-sovranisti rischia di mandare a casa gran parte degli attuali governanti europei (in particolare quelli di centrosinistra, debilitati dalla disaffezione del loro elettorato); e in politica, l’obiettivo di conservazione del potere è primario onde non è credibile che, per  qualche zerovirgola si ripeta quanto già successo nel 2018: che l’Italia è stata il primo paese dell’Europa occidentale ad avere un governo popul-sovranista.

Tenuto conto che comunque c’è un interesse a dare una mano al governo giallorosso, occorre cercare i motivi perché, a Bruxelles si limitino alla falange del mignolo. All’uopo possono formularsi due ipotesi.

La prima è che si considera il governo giallorosso poco o punto affidabile, per due ragioni concorrenti. L’una che tutti i governi italiani dal 2008 ad oggi, pur applicando, spesso con zelo, le direttive europee, non hanno fatto altro che aumentare l’indice deficit/PIL.

Per cui il PD che di quei governi (con l’eccezione del Conte 1) e dell’attuale è il sostegno più qualificante è considerato poco affidabile. Alla fin fine coniuga le direttive europee con la conservazione degli assetti vintage e la strategia delle mance (alle banche, alle concessionarie “privatizzate”, ai tax-consommers) per cui l’aumento del deficit e della spesa non ha alcun effetto politico gratificante. La crescita dei consensi, anche rispetto alle politiche 2018, dei partiti sovranisti (LEGA e          FDS) lo comprova. Come parimenti il crollo rovinoso dei 5S, aumentato dopo il varo del governo Conte-bis. E qua veniamo alla seconda ragione: se il governo attuale, già minoritario, continua a perdere consensi, l’aiuto è politicamente inutile. Meglio trattare con chi ha una reale legittimazione democratica, e cioè il consenso del potere maggioritario, perché quanto meno, ha più autorità nel far valere poi gli accordi stipulati e mantenerli.

Insomma c’è un grave sospetto che quello 0,16% in più di deficit sia dovuto alla scarsa considerazione che “la dove si puote ciò che si vuole” si ha delle declinanti élite italiane. Altre ragioni si potrebbero enumerare, ma paiono d’impatto minore. La sostanza è che in Europa si aspettano l’imminente tracollo – se non definitivo, almeno per un decennio – degli “amici” italiani.

Per cui come succede in guerra dove gli ascari o gli auxilia erano i primi ad essere sacrificati, così lo saranno gli “amici” italiani, a prova di un rapporto ineguale più che di amicizia, di sudditanza. Politicamente normale per chi la accetta.

Teodoro Klitsche de la Grange

CHI DECIDE PER SALVINI?, di Teodoro Klitsche de la Grange

CHI DECIDE PER SALVINI?

Ha suscitato un vivace dibattito la richiesta di autorizzazione a processare Salvini sulla quale si deve pronunciare la camera d’appartenenza.

Ovviamente il ritornello più battuto dalla maggioranza parlamentare è quello solito: eguaglianza versus privilegio; giustizia versus politica; in minor misura umanità versus sicurezza nazionale.

Da una parte si vuole che la giustizia faccia il suo corso, dall’altra che la politica lo interrompa. Chi ha ragione?

Si può rispondere, in prima battuta: entrambi. Questo perché se una condotta è illecita (giudizio giuridico) o se è politicamente opportuna (giudizio politico) si valutano in base a parametri diversi, hanno corsi differenti e sono entrambi necessari all’esistenza comunitaria. Per cui il fatto che un’azione sia illecita non implica che non sia opportuna e viceversa. Anzi già nella Farsaglia (14 secoli prima di Machiavelli) il contrasto tra norma e opportunità politica è così descritto da Lucano: “Sidera terra ut distant et flamma mari, sic utile recto.Sceptrorum vis tota perit, si pendere iusta incipit, evertitque arces respectus honesti”[1]

Onde nel Principe, dove si legge a proposito del contrasto tra (norma) morale e opportunità politica “è necessario a un principe, volendosi mantenere, imparare a poter essere non buono e usarlo e non usarlo secondo la necessità”, il Segretario fiorentino non faceva che esprimere mutatis mutandis l’esigenza di autonomia della politica. E ancora della prevalenza dell’istituzione politica la cui funzione è la protezione dell’esistenza della comunità.

Dato che, in uno Stato, la protezione comporta anche, sia pure in subordine, di assicurare l’ordine (anche) con l’applicazione del diritto, occorre trovare dei meccanismi in grado di garantire che, nei punti di frizione tra opportunità e politica ed applicazione della legge, si prenda una decisione, necessariamente derogativa del corso normale della giustizia. E così è, anche nei moderni Stati democratici-liberali, nei quali, quando sono in gioco responsabilità politiche, si prescrivono deroghe alla giurisdizione ordinaria. Nel caso dei ministri in Italia la norma relativa (l’autorizzazione a procedere), espressa nella brevità della disposizione è che: a) la camera valuta con giudizio insindacabile; b) se il ministro abbia agito per la tutela di un interesse (ripetuto due volte) pubblico. La camera così non giudica se vi sia illecito, ma soltanto se l’eventuale illecito, anche se commesso, era comunque in funzione di un interesse generale (prevalente). La responsabilità è tutta politica: se l’elettorato non condivide la decisione della Camera, alle prime elezioni può rimandare a casa politici sgraditi.

Così Salvini non sbaglia nel sostenere che aver chiuso i porti era volontà maggioritaria degli italiani (v. risultati elettorali); che rincorrendo interpretazioni, anche ove non peregrine, è voler sopraffare quella volontà: e se proprio gli italiani fossero di opinione diversa dalla Lega, hanno il potere di ridurla alle dimensioni pre-Salvini. La questione è tutta politica e, in una democrazia, rimessa al popolo e non a un collegio di funzionari, i quali per quanto stimabili e giusperiti, non hanno il potere di derogare alle leggi, ma solo di applicarle.

E se anche giuridicamente fondato e condivisibile, la decisione relativa potrebbe essere politicamente inopportuna o contraria alla volontà del “potere maggioritario”: cioè quella del popolo.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

[1] “L’utile dista dall’equo come gli astri dalla terra e il fuoco dal mare. Tutta la forza degli scettri perisce se considera il giusto; il rispetto dell’onestà abbatte i castelli” Pharsalia, VIII, 487-490

W l’uguaglianza, di Piero Visani

IL CORAGGIO DELLA VERITA’

Nei miei anni di ginnasio-liceo classico statale “Massimo d’Azeglio” di Torino (1964-1969), la sinistra azionista e (pseudo)comunista era più scaltra di quella romana attuale. Nella mia scuola “radical chic” (ante litteram) non c’erano divisioni “di classe”, nel senso che i figli della piccola borghesia e del proletariato partivano dalla sezione E in avanti. Le sezioni A, B, C e D erano riservate ai rampolli dei “beati possidentes” e di quelli con il “cognome con la particella” (direbbero i francesi). Nessuno lo diceva e tanto meno ne faceva proclami in Rete (neppure c’era, all’epoca). Era così e basta…
Si respirava a pieni polmoni lo spirito libertario, non classista, sinceramente favorevole al popolo di una certa Torino, quella di sempre, quella che crede di essere all’avanguardia, mentre è solo ottusamente reazionaria e codina, e che si crede migliore di tutti.
Se non fossi stato già di mio ostile a questa deplorevole gentaglia, mi avrebbero insegnato a diventarlo. Dunque un periodo fantasticamente formativo, che non ho mai più dimenticato e per il quale, in fondo, li ringrazio. Se sono stato come sono e sarò, lo devo un po’ anche a loro. Mi hanno insegnato lo straordinario valore dell’eguaglianza… 🤣

Marco Revelli, “Turbopopulismo”, a cura di Alessandro visalli

Nell’epoca in cui austeri dizionari on line, come quello della Treccani, coniano termini come “sovranismo psichico”[1], riprendendo un Rapporto del Censis[2] ed avviando una polemica[3] ben meritata, l’illustre sociologo torinese Marco Revelli, di cui abbiamo già letto altro[4] si impegna in una damnatio di quel che identifica come un populismo 3.0.

Il libro del politologo e sociologo torinese (anzi cuneese) ex Lotta Continua e poi Bobbio boys[5], sembra interessante soprattutto per questo: è perfettamente espressivo dello spiazzamento della migliore cultura della sinistra italiana.

Una cultura che è forse di sinistra, ma certamente da lungo tempo completamente disancorata con la tradizione socialista[6], se pure nella radice dalla quale proviene l’ex ribelle fattosi pompiere torinese è mai stata connessa[7].

Ciò che accade nel presente a Revelli appare chiaro da un lato e completamente oscuro dall’altro. È in corso quella che chiama una “rivolta dei margini”, un ‘ribollire’ di periferie in fibrillazione (p.56). Svolgendo sotto questo profilo un’analisi simile nella descrizione, ma del tutto opposta nella presa di posizione, a quella che ad esempio abbiamo letto nel lavoro del geografo Guilluy[8], Revelli individua una precisa rappresentazione dell’inversione tra sinistra e destra negli esiti elettorali che dal 2016, sempre più chiaramente, si sono accumulati (Brexit, Trump, fino ai Gilet Gialli). Ma ritrova, proprio come Guilluy, una conferma anche nelle vittorie del centro, quella di Macron in Francia, che ottengono il successo esercitando una loro forma populista, come fece, peraltro Renzi nella sua breve parabola[9]. Quel che si sta verificando è dunque una rivolta, precisamente “dei margini”.

Ma mentre il geografo francese sta con i rivoltosi, sperando possano divenire rivoluzionari, il politologo piemontese sta senza alcun dubbio con il centro assediato. La cosa non potrebbe essere più chiara. E non potrebbe essere più interessante. Come nel caso del Censis e della Treccani, qui è in corso il principio di uno scontro civile totale, occorre prendere posizione[10].

Come si prende posizione? Avvicinandosi ai simili. È quel che fa Revelli, in effetti, ed è quel che tutte le élite, con la loro ampia corona di organizzazioni, media, ed ambienti sociali, fanno. Si tratta di alzare le bandiere della ‘civiltà’, del ‘buon senso’, della buona educazione, della ‘competenza’ contro i barbari, incivili, incomprensibili, plebei, incompetenti, rozzi e ineducati, e quindi anche pieni di ri-sentimento, di rancore. Gente lontana, cattiva, la cui attitudine è distruttiva, l’opposto di ogni buon ordine. Questa “fibrillazione dei margini”, che il nostro professore osserva con distacco da entomologo, come fosse un brulicante mondo di insetti, è infatti pieno, al suo sguardo lontano, di “rancoroso distacco e ostilità nei confronti delle élite governanti” (p.68). Di rancore che “i secondi” portano ai “primi”, tra i quali, è evidente, si annovera per una sorta di diritto di nascita[11].

I “secondi”, vivono in quelli che descrive con precisa immagine spazi a “scorrimento più lento”, in sé quindi portatori dello stigma della lontananza dal principio della modernità e della civiltà. Questi “lenti” e per questo lontani (ed inferiori) vivono in spazi marginali, nella “province, le zone rurali, le periferie dei poveri”. Si tratta di spazi nei quali, l’immagine è di potentissima ed indicativa evocazione, “domina il buio, la luce privata costa, quella pubblica è magari fulminata o intermittente”.

Se domina il buio insorgerà il maligno. Non tarderà a palesarsi.

Il sociologo qui introduce alcune spiegazioni, in epoca di risorse pubbliche calanti e di dominio dello spirito del mercato i servizi sono andati dove potevano essere sostenuti, ed hanno abbandonato le periferie, incoraggiando un circolo vizioso discendente nel quale molti, e molti territori, sono affondati. Naturalmente chi è vicino a chi affonda, anche se sta per ora un poco meglio, ha paura. Ha paura di raggiungere chi sta scendendo (p.76). Del resto ormai mancano tutti quei corpi intermedi, come i vecchi partiti di massa (quelli socialisti e la democrazia cristiana) che sostenevano una relazione interna con i ceti marginali. Questa relazione, ormai persa, è descritta come disciplinante; attraverso l’egemonia culturale che il mondo allargato della sinistra, nella quale svolgevano ruolo centrale e strutturante i ‘chierici’ dei quali l’autore è esponente, lo spirito del buio era tenuto a freno. Oggi il freno è venuto meno.

Tramite gli effetti di questo venire meno è interpretato da Revelli il dispositivo centrale del populismo. L’uomo che si sente ‘perduto’, perché si rende conto di essere periferico, catturato nella lentezza e nel buio, abita spesso in una piccola città, assiste alla proletarizzazione diffusa e alla conseguente perdita di status ne è il protagonista. Si tratta di quello che moltissimi sociologi ed economisti identificano come l’arretramento della classe media.

Il populismo è, in altre parole, l’effetto di una disattivazione. La disattivazione del dispositivo della cetomedizzazione che era sviluppato dall’insieme di politiche e dei corpi sociali che le trasmettevano (sindacati, centri dopolavoristici, circoli sportivi, associazioni, volontariato, partiti). Dispositivo che, sottolineo ancora, sotto la guida degli intellettuali ‘organici’, disciplinava i ‘subalterni’, spingendoli ad accettare il loro posto nel mondo. Questa è una delle possibili declinazioni del concetto di “riformismo” nel quale la cultura azionista e quella ex socialista in particolare di matrice comunista (e della ‘nuova sinistra’) si è ritirata dopo gli anni ottanta.

In realtà è sempre stata la declinazione principale del termine.

Revelli la tocca davvero forte. Con un richiamo prima a Kracauer[12], poi a Bloch[13], peraltro entrambi datati e quindi fuori spazio, lancia un anatema sui ribelli che si rifiutano a farsi ancora guidare. Sarebbero niente di meno che inumani.

Con la stessa mossa del Censis e della Treccani, ma molto più violento, riduce ogni opposizione al disciplinamento che il riformismo diretto dall’alto produceva sulle masse, e che è ormai del tutto screditato, con la tecnica dell’evocazione del male assoluto. Nel 1933, quando sale al potere Hitler, Ernst Bloch scrisse: “non è solo l’uomo mite a scomparire: scompare tutto quanto reca il nome di uomo”. Ciò che accadde, secondo lo scrittore tedesco, alla insorgenza del primo nazismo è quindi una metamorfosi degli uomini in demoni[14].

Seriamente, per decine di pagine, procede a paragonare, fino ad identificare, il male del nazismo con la rivolta degli elettori contemporanea[15]. L’insorgenza di Hitler con l’eventuale, aborrita, vittoria democratica del più vecchio partito italiano, pur criticabile[16].

Richiama una presunta “tara antropologica”, il male nell’uomo, una “cattiveria”, un “compiacimento nell’inumano”, il gusto di “mostrarsi crudeli”, o “indifferenti al male altrui” (cosa che sarebbe, da notare, per lui equivalente). Certo l’indifferenza al male altrui è, in effetti, quella che lui stesso esercita, in quanto nomina ma non comprende il senso di essere abbandonati e traditi dalle politiche che la sinistra, in primis, ha portato avanti. Politiche che ha lui stesso avallato qaundo non mancò di dare il proprio pensoso appoggio a Monti[17] (dato che scacciava l’altro male assoluto, all’epoca rappresentato da Berlusconi).

Ovviamente il punto di massimo esercizio di questo paradigma interpretativo, che segnala in modo davvero plastico l’abbandono dello spirito popolare da parte delle sinistre rifugiatesi da decenni nelle loro cittadelle (siano esse sociali, universitarie o variamente baronali), è l’immigrazione. Una ventina di pagine di autentici deliri. In cui le “vere vittime” sono gli immigrati (lo sono, naturalmente[18], ma non per questo le plebi abbandonate a se stesse dall’assetto neoliberale non lo sono, non per questo sono “false”). Tutte le politiche di respingimento sarebbero allora semplicemente “disumanizzazione” (dal che si deduce che sono inumani in pratica tutti i popoli del mondo, e lo sono da sempre[19]). Per respingere sarebbe necessaria una sorta di “neutralizzazione morale” ed il “rovesciamento del rapporto vittimario” (p.101). Questo rovesciamento poggerebbe sulla “percezione di una concorrenza sleale”, che viene vissuta da chi si sente assediato dalle bollette da pagare, non riesce più a stare dietro alle scadenze e a pagare la scuola ai figli, o a vestirli, soffre la deprivazione corrispondente, non si può pagare le cure mediche, e via dicendo. Si tratta di “un grande serbatoio di disagio materiale” che, però, essendo solo un “disagio” (e non una disperazione, che evidentemente il professore, non avendola mai vissuta, non è in grado di capire e neppure di com-patire) non basta a spiegare quel che Revelli identifica come, niente di meno che “uno spaventoso svuotamento del sé dall’umano”. Una frase pomposa, come se il sé possa essere svuotato dall’essenza umana, quasi come si toglie un liquido da un recipiente. Una frase che alluderebbe a “qualcosa di mentale”, un vedersi fuori del “racconto collettivo”, invisibili.

C’è qualcosa del genere, accade, ma resta il fatto che per il nostro professore torinese il ‘mentale’ implica immediatamente una “regressione nel disumano” che nessun dolore subito può giustificare; implica una “metamorfosi in demoni” di gente comune che, se poteva essere magari sostenuta da Bloch (se pur nel 1933 e non nel 1943), suona strana, stridula applicata oggi a persone che, in fondo, protestano contro la perdita di senso e di democrazia.

Suona ancora più strana nel momento in cui l’autore si mostra consapevole che c’è una connessione con il fatto della globalizzazione. Un evento che era stato indicato dalla sinistra come la “premessa per un nuovo, più universalistico, umanesimo”, mentre ne è nemico. Ma questa relazione è ricondotta a sua volta ad una “sindrome”, ovvero è ancora medicalizzata. La sindrome non elaborata del melting pot in cui si sciolgono (e devono farlo perché è un destino storico) le identità collettive e “nessuno riesce più ad avere un proprio ruolo e un proprio status corrispondente, garantito”. Qui compare, scritto da un garantito ovviamente, un gioco di prestigio dialettico:

“cosicchè si crede – falsamente – che segregando e sigillando ‘fuori’ quell’umanità eccedente, che preme oltre i confini e che si vorrebbe escludere rafforzando quei confini (peraltro sempre più precari), si possa ritornare ad ‘essere’ – come prima – qualcosa, senza accorgersi che così, sciaguratamente, si finisce per estinguere anche quel residuo di umanità che si conservava dentro, e che ci salvava. Come individui e come ‘popolo’. Ci si riduce, appunto, a niente” (p.108).

Sarò sincero, è un esercizio di stile, ma non significa assolutamente nulla. Intanto non c’è qualcosa come una “umanità eccedente”, questo è esercizio di pura astrazione liberale del tipo peggiore[20], esistono invece sempre esseri umani situati, che sono ‘nati da donna’ e che sono stati cresciuti in una cultura, connessi a degli obblighi e portatori dei diritti reciprocamente riconosciuti in comunità umane specifiche. E questi esseri umani possono essere talvolta ‘eccedenti’, quindi indotti o costretti ad emigrare, ma ciò non ha proprio nulla a che fare con l’essere qualcosa (ovvero dotati di risorse e diritti, ordinati nel mondo) o con il non esserlo. Comprendo molto bene che la generazione dei chierici alla quale appartiene Revelli abbia fatto dell’abbandono del popolo al suo destino un segno morale, un elemento di distinzione e marcatore di superiorità, l’identificatore di una appartenenza e di una promozione[21], ma la questione di essere qualcosa, usando gli stessi termini, si pone, e non è affatto vana. Avere, come ovviamente si ha, un confine ed affermare in esso una sovranità è una precondizione per poter lottare (certo contro le élite che l’autore così ben rappresenta), per tornare ad essere. Non è questione di avere “residui di umanità” che “salvano”, idea che solo un borghese con tutto l’essenziale al sicuro può accarezzare. È questione di avere di nuovo il materiale necessario.

Per nascondere questa semplice posta, keynesiana si potrebbe dire, della redistribuzione necessaria per rimettere in questione i rapporti di forza, ci si sposta sulla Repubblica di Weimar, la Turchia del 1916, la Roma del tardo impero, addirittura Sodoma e Gomorra… per sostenere la tesi piuttosto astorica ed astratta che la pietà sarebbe “sostanza indivisibile”, o si ha per tutti e sempre o non c’è, o la si prova o se ne è privi. Se ne deduce che Revelli ne è privo, dato che prova un evidente disprezzo di classe, con assoluta incapacità di comprensione, delle sofferenze di almeno dieci milioni di italiani, cinquanta milioni di statunitensi, un’altra trentina di milioni di europei, che magari talvolta si fanno tentare a votare populista (qualunque cosa significhi), ma certo vivono la disperazione di sentirsi scendere ed arretrare giorno dopo giorno da anni. Come sia, al netto di qualche altra ridicolaggine, come il sacro dovere di ospitalità (che è sempre stato altamente selettivo) o l’abuso di Cicerone e Seneca, il tono resta questo.

Ovviamente i politici che hanno interpretato questo sentimento di dolore ed abbandono dei propri concittadini sono dichiarati “psicopatici” (anche se “di successo”), colpevoli di “sdoganare il male” e di un comportamento mimetico che compie la mossa del “assorbimento mediante abbassamento” (p.126). Colpevoli di utilizzare ed esercitare un linguaggio semplificato e di cercare di passare dal principio di legittimazione nel quale le élite “positive” sono esperte, il “paradigma della superiorità”, a quello nel quale eccellono quelle populiste, il “paradigma del rispecchiamento”.

In altre parole, invece di mostrarsi “migliori” (ovvero aristoi) questi nuovi politici si mostrano schietti, talvolta volgari, praticano “l’abbassamento” verso un popolo che è “un aggregato linguistico maleodorante di termini fallici e in genere sessuali, di posteriori e promiscuità, da frequentatori di angiporti e di trivii; un popolo, appunto ridotto ai propri attributi corporeo-materiali, capace di recepire con particolare rilievo i richiami elementari della riproduzione genitale o gastro-intestinali”.

In questi passaggi lo scontro tra estetiche e quindi tra classi non potrebbe essere più chiaro. Si tratta di una profonda frattura, incomunicabile, una matrice di reciproco disprezzo e finanche di odio. Ma non sono solo i “populisti” che odiano gli aristocratici alla Revelli, è, evidentemente, anche che lui odia loro.

Revelli sente emanare da questo popolo frammentato quello che chiama “un acre odore di zolfo”, una società regredita ad una condizione asociale. Una regressione alla “forma informe del vuoto” (p.163). Una forma che “farà il suo giro” e nella sua ambiguità costitutiva sta prendendo la forma di una sorta di “populismo 3.0”, più espressamente “di destra” che lavora con la vecchia tecnica del “capro espiatorio”.

Scrivevamo all’inizio che è il principio di uno scontro civile totale.

Gli allineamenti sono abbastanza evidenti, anche formazioni intermedie, sensibili al “momento populista”[22] sentono il richiamo della foresta, i tam tam della tribù che battono. Oppure è evidente nella mobilitazione semispontanea delle “Sardine”[23] che appare sempre più come un movimento vasto e reattivo, trascinato dalla paura esistenziale. Se quel che si muove dal fondo e dalla periferia della società occidentale è una ‘rivolta degli elettori’ alla loro designazione come vittime (della storia, secondo la lettura di aristoi come Revelli), quel che dall’altro lato si allinea è una contro-rivolta, un singolare movimento pro-establishment composto da ceti e frazioni di classe non solo protetti e garantiti, ma accumunati da un desiderio di status. Sostiene Guilluy che la frazione dominante della società occidentale ha abbandonato i segmenti popolari e si è distaccata (una tesi che a suo tempo avanzò anche Lasch ed altri), e che l’egemonia sta passando al basso.

Di fronte a questo movimento ‘polanyiano’[24] è in corso una sorta di contro-contro-movimento. Si tratta di un allineamento che in altri termini avremmo definito “sovrastrutturale”. Una spaccatura che nasce dalla paura di alcuni mondi vitali di essere travolti, dalla “rivolta degli elettori” che si sentono messi a margine e scacciati nell’irrilevanza.

Il mondo vitale plurimo che si mobilita contro la rivolta, e che si esercita in una singolare contro-rivolta pro-establishment, è aggregato da un certo tono libertario, da un’estetica liberale e da un afflato ancora competitivo, dal desiderio se non altro di essere cooptato di accedere alle aree dense e veloci. Spesso si assommano anche i militanti di movimenti non distributivi, come l’ambientalismo, le lotte per i diritti civili, il pacifismo, il femminismo. Movimenti che hanno, e da sempre, una chiara egemonia piccolo-borghese e metropolitana. In questo campo c’è maggiore densità degli urbani, di coloro che hanno una formazione media o alta, che condividono quindi le narrazioni e le strutture cognitive dominanti, sono stati formati in esse. In termini di stratificazione sociale (ma ricordo che l’adesione ai ceti medi è questione di status percepito molto più che di mera condizione materiale), troviamo in questo campo allineato con la contro-reazione impiegati, giovani precari ad alto sfruttamento (ma “provvisorio”), insegnanti, studenti, quadri pubblici, piccolo borghesi anche autonomi, professionisti, pensionati a reddito alto, imprenditori di imprese rivolte ai mercati esteri. Insomma, coloro che sono nel centro o aspirano ad accedervi.

Nello scontro civile l’altra parte, i barbari e gli inumani, i demoni, sono molto più operai, ancora giovani precari, ma con poche speranze di riscattarsi, certo anche alcuni sottoproletari, alcuni dipendenti pubblici e privati, ancora segmenti di piccola borghesia e di lavoro autonomo, molti professionisti, anche imprenditori che lavorano verso il mercato interno e ne percepiscono la sofferenza. Coloro che sono al margine sanno di esservi.

Le contraddizioni attraversano entrambi i campi ed i confini sono tutt’altro che impermeabili, soprattutto i meri interessi economici non spiegano tutto. Se la prima Italia, quella alta e centrale, è per il mercato, di cui apprezza le virtù salvifiche, lo spirito libero e competitivo, il vitalismo, la seconda Italia, quella bassa e periferica, normalmente avversa lo Stato, la sua imposizione fiscale. Contraddittoriamente la prima si trincera in esso, la seconda ne richiede la protezione, sociale e lavoristica.

Lo scontro civile totale, al quale il libro di Revelli porta armi, nasce dall’incapacità di entrambe le Italie, della rivolta come della contro-rivolta, di comprendere se stesse e di venire a patti con la propria estetica. Non si riconoscono vicendevolmente l’appartenenza al campo dell’umano, e parlano lingue diverse.

Si riconoscono al primo sguardo, al movimento, al vestiario, alla prima parola, e si odiano.

[1] – Il neologismo compare a questa voce: “sovranismo psichico s. m. Atteggiamento mentale caratterizzato dalla difesa identitaria del proprio presunto spazio vitale. ♦ Sovranismo psichico, prima ancora che politico. È la definizione del Censis nel 52esimo rapporto presentato ieri al Cnel a Roma. Più che un’analisi sui dati dell’economia, e della sua crisi, l’indagine trova un suo interesse per il panorama che offre sulla crisi della soggettività nell’epoca del risentimento e del «populismo» al potere. L’espressione ridondante di «sovranismo» non allude solo al conflitto tra Stato-Nazione e tecnocrazia europea, ma al cittadino-consumatore che «assume i profili paranoici della caccia al capro espiatorio». (Roberto Ciccarelli, Manifesto.it, 8 dicembre 2018, Italia) • Non accettiamo la realtà del nostro futuro che sarà nella globalizzazione dei mercati e in una società multietnica e multirazziale? Noi italiani che corrispondiamo a meno dell’1% della popolazione mondiale vogliamo metterci alla guida dell’altro 99% affermando che devono fare quello che riteniamo giusto noi? Naturalmente, in questo modello di pensiero, se gli altri popoli non si adeguano ci sentiamo incompresi e accerchiati per cui costruiamo dei nemici mentali che in questo momento storico sono i migranti e le istituzioni sovranazionali come l’Unione europea, i mercati, il Fondo monetario, etc. Ringrazio il Censis e il Dr. De Rita per aver chiarito, inventando il termine sovranismo psichico, questo modello di pensiero e perché poi, inevitabilmente, sfoci in rabbia e cattiveria verso gli altri. (Luciano Casolari, Fatto Quotidiano.it, 18 dicembre 2018, Blog) • È vero: sondaggi alla mano, questo grumo ideologico di nazionalismo securitario e xenofobo seduce molti italiani, rinchiusi nei miti della “Piccola Patria” e nei riti del “sovranismo psichico” (per restare alla formula Censis). (Massimo Giannini, Repubblica.it, 2 gennaio 2018, Commento).”

[2] – 52° Rapporto Censis, che attribuisce ad un sentimento, come il rancore e quindi la cattiveria, che è normalmente pensata come una attitudine ad offendere, a far del male, e quindi la radice di azioni riprovevoli, dannosi, il sovranismo. Cito: “Al volgere del 2018 gli italiani sono soli, arrabbiati e diffidenti. La prima delusione ‒ lo sfiorire della ripresa ‒ è evidente nell’andamento dei principali indicatori economici nel corso dell’anno. La seconda disillusione ‒ quella del cambiamento miracoloso ‒ ha ulteriormente incattivito gli italiani. Così, la consapevolezza lucida e disincantata che le cose non vanno, e più ancora che non cambieranno, li rende disponibili a librarsi in un grande balzo verso un altrove incognito. Una disponibilità resa in maniera pressoché incondizionata: non importa se il salto è molto rischioso e dall’esito incerto, non importa se si rende necessario forzare – fino a romperli – i canonici schemi politico-istituzionali e di gestione delle finanze pubbliche, a cominciare dalla messa in stato d’accusa di Bruxelles. L’Europa non è più un ponte verso il mondo, né la zattera della salvezza delle regole rispetto al nostro antico eccesso di adattismo: è una faglia incrinata che rischia di spezzarsi. Così come il Mediterraneo non è più la culla delle civiltà e la nostra piattaforma relazionale, bensì ritorna come limes, limite, linea di demarcazione dall’altro, se non proprio cimitero di tombe. Gli italiani sono ormai pronti ad alzare l’asticella: sono disponibili a un funambolico camminare sul ciglio di un fossato che mai prima d’ora si era visto da così vicino, perfino a un salto nel buio, se la scommessa è quella poi di spiccare il volo. È quasi una ricerca programmatica del trauma, nel silenzio arrendevole delle élite, purché l’altrove vinca sull’attuale. È una reazione pre-politica che ha profonde radici sociali, che hanno finito per alimentare una sorta di sovranismo psichico, prima ancora che politico. Un sovranismo psichico che talvolta assume i profili paranoici della caccia al capro espiatorio, quando la cattiveria diventa la leva cinica di un presunto riscatto e si dispiega in una conflittualità latente, individualizzata, pulviscolare e disperata, ma non più espressa nelle manifestazioni, negli scioperi, negli scontri di piazza tipici del conflitto sociale tradizionale”.

[3] – Scrive, ad esempio, Andrea Zhok: “Dopo essere stata presa in giro sui social per mesi la definizione di ‘sovranismo psichico’ ha l’onore di essere ospitata come voce dalla Treccani online. Forse è il caso di smettere di ridere e di chiederci se ci siano ancora limiti che i poteri mediaticamente ed economicamente più influenti (l’establishment) considerano non sorpassabili, o se oramai siamo arrivati al punto in cui si ritiene che valga tutto, assolutamente tutto, pur di abbattere l’avversario. Già, perché ospitare come voce accreditata una formula che è dimostrabilmente un’idiozia con finalità di lotta politica spicciola ricalca esattamente una delle dinamiche descritte da George Orwell, di confisca concettuale e assoggettamento culturale. Da un lato le istanze del ‘politicamente corretto’ mettono fuori legge tutte le espressioni che suonano come critiche dell’opinionismo mainstream, e dall’altro vengono accreditate unità concettuali farlocche e strumentali come se fossero descrittori di natura scientifica. Non basta dunque aver distorto pervicacemente la nozione di ‘sovranismo’, applicata originariamente in contesto francofono per le istanze di rivendicazione autonomiste su base nazionale (Quebec, Irlanda, Palestina, ecc.), trasformandola in un sinonimo di ‘nazifascismo’. Ora si passa alla fase della patologizzazione del dissenso, che viene ridotto a categoria psichiatrica, a deviazione mentale. Esaminiamo innanzitutto la definizione che ne viene data: ‘Atteggiamento mentale caratterizzato dalla difesa identitaria del proprio presunto spazio vitale’.

La prima cosa da osservare è che se togliamo l’aggettivo ‘presunto’, che insinua la natura illusoria, erronea del giudizio (per il loro ‘presunto’ punto di vista obiettivo), il resto della definizione rappresenta una descrizione che si attaglia a tutte le specie viventi, a tutte le unità culturali, istituzionali e statali di cui abbiamo contezza. Infatti, la ‘difesa identitaria del proprio spazio vitale’ è qualcosa che può valere per l’identità di un organismo rispetto a fattori esogeni che ne destabilizzano l’identità, così come per ogni unità politica nota. Anche la multiculturale e multinazionale Svizzera opera in forme che tendono a preservare la difesa identitaria del proprio spazio vitale: ha una Costituzione, dei confini, leggi comuni, regole che ne definiscono l’indipendenza da altre unità politiche entro uno spazio in cui vivono i suoi cittadini.

Salvo che per colonie, protettorati o entità politiche fittizie (come alcuni paradisi fiscali), nel mondo non esistono che unità politiche per cui è ovvio che la propria identità entro uno spazio vitale vada difeso. Tutto il peso dello stigma nella definizione sta nel carattere di illusorietà (‘presunto’), che farebbe dell’ ‘atteggiamento mentale’ una forma di delirio, di allucinazione malata. Le citazioni che forniscono la campionatura d’uso dell’espressione sono in questo senso eloquenti. La prima fa riferimento ad un atteggiamento ‘paranoico’, cioè appunto ad una categoria delirante; niente viene aggiunto al quadro, salvo il giudizio insindacabile del giudicante: si tratta di patologia mentale.

La seconda addirittura, secondo il canone retorico dello ‘strawman’, inventa di sana pianta una tesi che nessuno, neanche qualche ultras neonazi etilista, ha mai sostenuto (“vogliamo metterci alla guida dell’altro 99% affermando che devono fare quello che riteniamo giusto noi?”), per poter procedere alla liquidazione forfettaria di ogni richiesta di sovranità. Ora, ciò che è particolarmente preoccupante in questo episodio di malcostume culturale è vedere l’abisso di malafede, arroganza e ignoranza in cui sguazzano soddisfatti precisamente quelli che sparacchiano accuse ad alzo zero di malafede, arroganza e ignoranza sui dissenzienti. Siamo di fronte ad operazioni spudorate, prive di scrupoli, in cui vengono avvelenati i pozzi del dibattito pubblico da coloro i quali sono stati posti a guardia degli stessi.

E’ qualcosa che eravamo abituati a leggere nelle descrizioni sull’atmosfera di falsificazione culturale nella Controriforma tridentina o nella Restaurazione napoleonica, pensando che eravamo fortunati a vivere in un’epoca che li aveva superati. E ci ritroviamo oggi con i sedicenti portatori sani di ‘illuminismo’ a fare le stesse cose, ma con meno scuse.”

[4] – Si veda, Marco Revelli, “Finale di partito”, 2013; “Dentro e contro”, 2015; “Populismo 2.0”, 2016.

[5] – Marco Revelli, figlio di un partigiano e poeta come Nuto Revelli, si è laureato in giurisprudenza sotto la guida di Norberto Bobbio all’avvio degli anni settanta, insegna Scienza della politica all’Università del Piemonte orientale dalla fondazione fino allo scioglimento aderisce a Lotta Continua e poi aderisce al gruppo di Primo Maggio. La sua biografia è perfettamente rappresentativa di un’intera epoca della cultura italiana.

[6] – Per questa distinzione tra le tradizioni della “sinistra” e del “socialismo” si veda Jean-Claude Michéa, “I misteri della sinistra”, che pone in chiave di ricostruzione filosofica della storia delle idee al centro il semplice fatto, noto a tutti ma da tutti dimenticato, che il socialismo non è il liberalesimo. Sono stati alleati, nella lotta contro la reazione, ma non coincidono. E neppure si può dire che il socialismo sia il superamento dialettico del liberalesimo, in quanto si tratta di tradizioni di pensiero che da quasi duecento anni procedono in parallelo, anche se hanno alcuni costrutti comuni. Tra i più profondi e problematici quello di “progresso”, che entrambe le tradizioni tendono a leggere, in una sorta di residuo illuminista e positivista, sotto la forma della crescita economica illimitata e auto programmata. In questo modo la dimensione “sociale” e comunitaria della tradizione socialista viene oscurata in favore della fascinazione per il continuo sradicare e rendere flessibili, mobili, della modernità contemporanea. La pratica della costante rivoluzione culturale della modernità discioglie nelle gelide acque del calcolo egoista tutte le costituzioni e le eredità, smontando ciò che permane. E’ chiaro che questa ideologia, e sin dall’inizio, trova senso e scopo nell’ineguaglianza e guarda il mondo dal punto di vista dei possidenti. A chi giova la libertà desiderante dai vincoli sociali ed il trionfo dell’individuo, a chi ha le risorse economiche per goderne e non vuole limiti a questo, o a chi lotta giorno per giorno per avere l’essenziale? Nascondendo questo fatto la metafisica del progresso è “lo zoccolo duro di tutte le concezioni borghesi del mondo” (Michéa), e con esso l’idea che le forme produttive dominanti siano anche, e sempre, delle forme della ragione (una sorta di hegelismo pervertito) e dunque “tappe storicamente necessarie” per la liberazione e la parusia. La versione liberale di questa è la “pace perpetua” nel contesto di una futura governance mondiale a-politica e della totale mobilità di ogni fattore (con la dissoluzione di ogni identità, in quanto ostacolo al dispiegarsi della logica del valore e della sua appropriazione individuale). La versione socialista sfuma in quella. Ma nella tradizione socialista è presente anche un altro sistema di idee, radicalmente indisponibile alla dissoluzione nelle gelide acque del calcolo, la critica alla reificazione che ricorda come non necessariamente ogni passo “avanti” è per definizione nella “giusta” direzione. La direzione della storia, in particolare quando procede verso la dissoluzione delle forme sociali esistenti sotto la spinta dell’automovimento della tecnologia e dell’economico, non è sempre apprendimento ed emancipazione. Secondo quanto sintetizza Michéa, “nessun liberale autentico – ovvero nessun liberale psicologicamente capace di accettare tutte le implicazioni logiche delle sue convinzioni – potrà mai ritrovarsi in un’altra ‘patria’ (se con tale nome ormai demonizzato s’intende ogni primaria struttura di appartenenza che –come la famiglia, il paese di origine, o la lingua madre- non può derivare, per definizione dalla libera scelta degli individui) che non sia quella ormai costituita dal mercato globale senza frontiere” (p.31). I liberali sono, cioè, naturaliter cosmopoliti. Ma essere ‘conservatori’ non è sempre identico all’essere di destra, a volte significa essere realmente socialisti. La conclusione di Michéa è prettamente politica: accettando questa analisi, ne deriva che il ‘significante principale’ intorno al quale schierare un fronte avverso al selvaggio liberalismo trionfante dei nostri tempi non può limitarsi alla “sinistra”, ma deve riprendere quelle che chiama “bandiere a priori” molto più larghe ed unificanti. Che abbiano senso per tutte le classi popolari e per i loro alleati. E’ chiaramente la questione del populismo.

[7] – Si veda in proposito Luc Boltanski, Eve Chiappello, “Il nuovo spirito del capitalismo”, 2014

[8] – Christophe Guilluy, “La società non esiste”, 2018.

[9] – Si veda la diagnosi dello stesso Revelli in “Dentro e contro”, 2015.

[10] – Da una parte la visione dell’emancipazione come rottura e liberazione da ogni vincolo, in primo luogo comunitario. In quella che Honneth in “Il diritto della libertà”, caratterizzerà in modo convincente come una parziale ed insufficiente libertà solo “negativa”, da oltrepassare sia in senso “riflessivo” (è libero ciò che effettivamente scelgo senza essere costretto neppure da passioni e costrizioni acquisite) sulla scorta delle lunghe riflessioni in questo senso (da Aristotele alle riprese di Rousseau e dello stesso Kant) sia e più profondamente dalla “libertà sociale” (sono libero solo quando mi oriento verso l’altro e insieme sosteniamo i reciproci piani d’azione). Ecco che un’emancipazione come libertà di essere solo, in concorrenza con tutti gli altri, invece attiva inevitabilmente forme di schiacciamento dell’altro, di mancato riconoscimento come persona e di riduzione ad oggetto, a strumento, e di potenziamento delle ineguaglianze.

[11] – Ciò che accade nel secondo dopoguerra è, in particolare in alcuni ambienti semicentrali come la Torino degli anni dai cinquanta ai settanta e ottanta l’effetto di un mito fondativo imperniato sulla resistenza e sull’azionismo. Chi scrive condivide l’alta valutazione della resistenza ma bisogna avere il coraggio di dire il vero. Intorno a questa si sono formate delle vere e proprie aristocrazie che fondano il proprio potere, radicato in alcuni ambienti densi come l’università e alcune amministrazioni e soprattutto corpi intermedi essenziali per il funzionamento democratico, ma anche viatico di cooptazioni che assicurano la continuità, sulla presunta e rivendicata superiorità morale. Questo tono inconfondibile è la tecnica attraverso la quale si sceglie ex ante chi è “primo” e chi “secondo”, chi sta al centro, perché ha il buon diritto che deriva dalla riconosciuta cultura e dalla indubitabile integrità, e chi è, perché lo deve, periferico.

[12] – Siegfried Kracauer, “Gli impiegati”, Einaudi, 1980

[13] – Ernst Bloch, “Il mito della Germania e le potenze mediche”, 1933

[14] – Ricordiamo qualche antefatto: Nel 1923 la grande guerra è finita da pochi anni e la Germania è nel pieno del caos, dall’ottobre 1918 al 1919 si sussegue una guerra civile a bassa intensità nella quale trovano la morte Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, il governo andò ai socialdemocratici moderati di Ebert che vinsero le elezioni del 19 gennaio 1919, formando la Repubblica di Weimar. A Monaco, invece, venne proclamata una Repubblica Sovietica che fu repressa dall’esercito. Quindi ci furono sollevazioni in Polonia e tre distinte sollevazioni slesiane. Nel frattempo la Germania firmò il Trattato di Versailles accettando condizioni che umilieranno il paese e porranno le condizioni (come previse un giovane Keynes), della rivalsa successiva. Tale fu l’odio per il Trattato che due dei firmatari per parte tedesca saranno successivamente assassinati. Il nuovo Stato è sotto la pressione di opposti estremismi. Mentre altre sollevazioni comuniste si susseguivano (nella Ruhr, in Sassonia ed a Amburgo) dal 1923 la Repubblica è insolvente verso le riparazioni di guerra e le truppe francesi occuparono la Ruhr; seguirono scioperi massicci e stampa di ulteriore moneta per pagare comunque gli operai. Partì quindi una breve ma impressionante fiammata di iperinflazione (causata dalla totale mancanza di fiducia nella moneta e nel governo che questa rappresentava). Nel 1923, a Monaco di Baviera, Adolf Hitler con il neonato Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori (NSDAP) diede seguito al Putsch della birreria; dal 1921 si formarono le SA (sturmabteilung). Hitler venne arrestato e condannato a cinque anni di carcere, ma dopo uno fu rilasciato. Dal 1923 si formò un governo di coalizione che sembrò tranquillizzare un poco la situazione, per stabilizzare l’economia avviò però una brutale politica restrittiva (ridusse le spese e alzò le tasse). Purtroppo nel 1930 Heinrich Bruning venne nominato cancelliere, ma il governo era debole e cadde quasi subito. Il 14 settembre 1930 alle elezioni il NSDAP ottenne il 18% dei voti. Mentre la nazione scivolava verso la guerra civile Bruning sulla base di Decreti Presidenziali di emergenza, non avendo la maggioranza, tentò di risanare lo Stato su inflessibili linee di stretta austerità liberale. Ridusse quindi drasticamente la spesa pubblica, creando milioni di disoccupati in un paese in cui l’iperinflazione di pochi anni prima aveva distrutto i risparmi di moltissimi, ed eliminò anche i sussidi per la disoccupazione introdotti nel 1927. La disoccupazione arrivò al 40%. Le elezioni del 3i luglio 1932 portarono la NSDAP al 37,2%, e poi al 33% nelle immediatamente successive nuove elezioni. Il 30 gennaio 1933 Adolf Hitler fu nominato Reichskanzler.

Ma anche nel resto del mondo nei cruciali anni venti si era nel pieno di quelle reazioni difensive a catena imperniate sotto molti profili nella difesa ostinata della “base aurea” e quindi delle politiche deflattive che questa imponeva. Negli anni venti l’Italia cade nel fascismo, nei trenta tocca alla Germania e, al termine del decennio, alla Spagna. Il sistema internazionale che aveva retto il mondo nel settantennio di pace sotto l’imperialismo inglese e “il concerto” delle nazioni termina quindi definitivamente; fallisce cioè il tentativo di ripristinarlo dopo la grande guerra. In tutti i paesi europei, Inghilterra nel 1931, Austria nel 1923, Francia nel 1926, Germania nel 1931, i partiti della sinistra, dopo aver sostenuto politiche di austerità perdendo parte del loro consenso, furono allontanati quando si trattò di “salvare la moneta”. Come Karl Polanyi fisserà nel suo capolavoro “La grande trasformazione” furono accusati delle difficili condizioni i salari inflazionati e i disavanzi di bilancio per cui si perseverò nella scelta di ulteriore austerità nel mezzo di una devastante crisi. Come dice Polanyi, quindi: “il tempo divenne maturo per la soluzione fascista”. Nel 1932 molti intellettuali si rivolsero verso la ricerca di soluzioni forti, Werner Sombart pronunciò un indicativo discorso su “L’avvenire del capitalismo”.

[15] – Formula richiamata in un fortunato libro di Andrew Spannaus, “La rivolta degli elettori”, del 2017.

[16] – Si veda, ad esempio, “Giochi di specchi ed equivoci: il caso della Lega

[17] – Si veda, Marco Revelli, “Bacio il rospo Monti, ma…”. E’ interessante che dichiari di fare il tifo per Monti per una questione estetica (ed etica), di pelle. Lo strepitio, la volgarità al potere, il caravanserraglio, … del governo di Berlusconi offendevano il suo senso dell’appropriato. Si tratta di uno schieramento che si manifesta su linee prerazionali (anche se non mancano anche le ragioni razionali, il solito Tina), ovvero per allineamenti identitari. E quale è l’identità che è qui così bene manifestata? Ovviamente si tratta di un richiamo ai tradizionali valori di sobrietà, buon senso, educazione ed ordine della buona borghesia. Anche un poco noiosa, un poco conservatrice, ma certamente capace di sapere come si sta a tavola. Si potrebbe dire molto altro, e di interessante, su questo articolo, ma non è la sede.

[18] – Sono vittime sia per il viaggio, sia per il selvaggio sfruttamento, la vera e propria schiavitù cui sono sottoposte da parte dei ceti imprenditoriali e borghesi italiani. In un sistema di sfruttamento paraschiavistico che coinvolge milioni di persone (questa è l’unica parte valida del recente libro di Luca Ricolfi “La società signorile”, 2019.

[19] – Difficile non vedere, se non dagli spessi occhiali della ideologia, che in pratica tutti i paesi del mondo praticano, tanto più quanto più sono sovrani, la regolazione dell’immigrazione. Come difficile non sapere che le politiche di welfare sono cresciute sempre in condizione di regolazione forte degli spiriti animali del capitalismo e di rafforzamento della coalizione sociale del lavoro, e quindi dell’immigrazione (che tende ad alimentare gli uni e depotenziare l’altra). Si veda, ad esempio, Kiran Klaus Patel, “Il New deal”, ma si veda anche per un quadro allargato “Appunti sull’economia politica delle emigrazioni: il caso dei paesi semi-periferici”.

[20] – Si veda, ad esempio la polemica tra liberali e comunitari degli anni ottanta. Ad esempio il grande classico di Michael Sandel “Il liberalismo e i limiti della giustizia”, 1982.

[21] – La promozione a classe dirigente del paese e a parte essenziale della sua borghesia. Proprio mentre si disprezza il paese reale e si dichiara l’indispensabilità del vincolo esterno.

[22] – Mi riferisco a Patria e Costituzione, che qualche giorno fa ha pubblicato il post “Perché il fascismo è una patologia dell’anima”, nel quale con argomenti piuttosto leggeri riprende la tesi di una sorta di radice antropologica del fascismo e con l’artificio retorico dell’abuso del termine “negazionalista” (riferito non a chi neghi l’olocausto, ma a chi dubiti della natura fascista dei populisti) accusa indifferentemente di “tentare di difendere i fascisti”. Con questo cortocircuito, ed il richiamo del libro più liberale della fase più liberale di un autore come Umberto Eco (“Il fascismo eterno”, nel quale in sostanza si bollava come fascismo tutto quello che non è liberale), e la dimostrazione dell’esistenza di qualche sparuto gruppuscolo di autentici fascisti, la redazione prende posizione, disumanuzzando gli avversari. Si tratta di un allineamento estetico, in effetti. Un allineamento di classe.

[23] – Si veda, “Sardine”. Per un intervento di Marco Revelli si veda, “Il neo-qualunquismo della sinistra radicale che attacca le sardine”.

[24] – Si veda Karl Polanyi, “La grande trasformazione”, 1944. nel quale descrive appunto il crollo subitaneo della mondializzazione liberale di tardo ottocento per effetto delle forze che aveva mobilitato e della reazione difensiva della società sfidata di distruzione da queste. Come scrive, cioè, l’effetto dell’incapacità del capitalismo del lassaire-faire di governare le forze che esso stessa aveva messo in moto e il venir meno quindi dei meccanismi fondamenti del suo funzionamento. L’utopia di autoregolazione senza politica e dissolvendo la società crolla sotto il peso delle sue contraddizioni e del mondo inospitale che crea. L’opinione dell’autore è, infatti, che queste idee siano del tutto errate, che l’individualismo e in particolare la rivoluzione industriale non sia un veicolo di progresso, ma una vera e propria calamità sociale; che il mercato non sia autoregolato, non sia soggetto ad un automovimento, ma sia un’artificiosa costruzione parte di un intreccio funzionale di “istituzioni” (un equilibrio di potere geopolitico, la base aurea internazionale, lo Stato liberale), e alla fine non possa che operare, se lasciato nella sua purezza, per annullare la sostanza umana e naturale della società (che talvolta chiama “organica”); per distruggere quindi sia l’uomo che l’ambiente.

È per reazione a quest’aggressione che “la società” (cioè concretamente le forze sociali che hanno di volta in volta da perdere, anche in inedite alleanze di fatto) si difende, introducendo vincoli e garanzie che sono alla lunga incompatibili con esso e finiscono per provocarne il crollo (descritto negli anni quaranta).

Per Polanyi la popolazione ed in essa le classi sociali e le forze che sono principalmente aggredite e destabilizzate dalla centralità dell’interesse egoistico senza freni del mercato (nelle tre dimensioni del lavoro, del denaro e della terra in particolare) “manifesta una fondata esigenza di sicurezza materiale e di riconoscimento sociale”. Dunque legittimamente sottopone il mercato al vincolo di una “società democratica” che sottrae i fattori del lavoro, del denaro e della terra al mercato, fissandone politicamente i prezzi (cioè regolando il lavoro ed i relativi contratti, limitando i movimenti di capitale e controllando gli scambi nei limiti del danno ai territori).

https://tempofertile.blogspot.com/2019/11/marco-revelli-turbopopulismo.html

SARDINE SOTT’ODIO, di Teodoro Klitsche de la Grange

SARDINE SOTT’ODIO

Dubitiamo molto che i parlamentari che hanno approvato la mozione Segre contro il “no hate speech”, ossia contro i discorsi di odio in politica, avessero letto quello che scriveva negli anni ‘20 Julien Benda: “il nostro secolo sarà stato in senso proprio il secolo de l’organizzazione intellettuale degli odi politici. Sarà uno dei grandi titoli nella storia morale dell’umanità”. Questo perché permetteva alle parti politiche di incrementare a dismisura la loro potenza di passione (puissance passionelle). Di guadagnare consenso indicando dei nemici, anche assoluti, onde consolidare  il proprio potere.

Di lì a poco, l’avvento al potere del nazismo permise di confermare il giudizio dell’intellettuale francese, che nel momento in cui scriveva La trahison des clercs, pensava allo sciovinismo, al pangermanesimo e, in genere, all’atteggiamento di molti politici ed intellettuali durante la prima guerra mondiale.

Il dubbio è legittimo perché Benda condannava l’ “organizzazione intellettuale” dell’odio in generale. Mentre il parlamento italiano (e non solo) lo ha circondato di sostantivi aventi valore (e senso) illustrativo-restrittivo (intolleranza, antisemitismo, razzismo) che ne delimitano il campo d’applicazione. In particolare non è indicato il fattore socio economico come suscitore d’odio. Come sosteneva Duverger “Per i marxisti gli antagonisti politici sono frutto delle strutture socio-economiche… La contesa politica è perciò il riflesso della lotta delle classi“. Fattore ovviamente positivo per i marxisti.

Per cui, al limite, predicare l’odio di classe non è riconducibile alle cure della commissione Segre, al contrario di quello razziale.

Prima e dopo è stato tutto un fiorire – sui media dell’establishment – e altrove – di dichiarazioni – e invettive preoccupate per l’odio che le posizioni dei popul-sovranisti presupponevano e comunque esternavano, nonché contro le relative menzogne (a cominciare dalle fake-news). A giudizio dei benintenzionati si dovrebbe far politica, ma senza coltivare sentimenti di avversione verso l’avversario. Una lotta a base di riverenze e buone maniere. Che il tutto sia, in diversi casi, auspicabile, è condivisibile; che possa esserlo in ogni frangente è impossibile; che sia poi opportuno, lo è a seconda dei casi. Spieghiamo il perché. Benda scriveva dell’organizzazione intellettuale degli odi politici, cioè della sottomissione dei “chierici” alle esigenze della prassi politica (alla conquista e conservazione del potere), con relativo tradimento della loro funzione. Che questo sia un connotato del XX secolo è, in larga parte vero, ma occorre aggiungervi, come, in modo non altrettanto pervasivo ed efficace, lo sia stato sempre. Nel XX secolo sono state la potenza propagandistica dei mezzi di comunicazione di massa da un lato e la democratizzazione della politica (e della guerra) – con la necessità di coinvolgere, convincere e mobilitare le masse popolari – ad implementare il ruolo dell’ “organizzazione intellettuale” delle passioni politiche, in primis dell’odio. Ma che questa sia una componente costante della politica, perfino quando gestita essenzialmente dai gabinetti ministeriali, (in tal caso in ruolo minore) è cosa nota. Scriveva Clausewitz di quello strumento essenziale della politica (da cui mutua presupposti e funzioni) che è la guerra, che consiste di uno “strano  triedro composto:

  1. della violenza originale del suo elemento, l’odio e l’inimicizia, da considerarsi come un cieco istinto;
  2. del giuoco delle probabilità e del caso, che le imprimono il carattere di una libera attività dell’anima;
  3. della sua natura subordinata di strumento politico, ciò che la riconduce alla pura e semplice ragione.

La prima di queste tre facce corrisponde più specialmente al popolo, la seconda al condottiero ed al suo esercito, la terza al governo. Le passioni che nella guerra saranno messe in giuoco debbono già esistere nelle nazioni”.

E così è per la politica: una politica senza distinzione tra l’amico e il nemico la quale operi senza suscitare un sentimento di avversione per il secondo e solidarietà per il primo è un oggetto sconosciuto. La lotta, anche se non militare, si fa con i presupposti della lotta. Il primo (e più importante dei quali è) l’indicazione del nemico. Se non è tale è necessario crearlo: in mancanza la lotta non ha senso. Il nemico e l’avversione verso il medesimo è la condizione minima (necessaria e sufficiente) per condurre la lotta.

Il che è confermato dal movimento delle sardine, che pare l’ultima (per ora) mascherata in soccorso delle élite decadenti. Non si riesce a strappare dalla bocca dei loro portavoce intervistati in televisione una indicazione su problemi reali, concreti (e divisivi): volete salvare l’ILVA? che ne pensate del MES? o del reddito di cittadinanza? e così via. Nulla: e a ragione. Perché scegliere è dividere: pronunciarsi a favore del MES significa perdere i voti dei contrari e così per il resto. Mentre opporsi a Salvini e al sovranismo unifica gli avversari più disparati: da quelli che rimpiangono Stalin, a coloro che disdegnano il leader leghista perché volgare o perché goloso di Nutella. Così le sardine hanno capito che il nemico serve ad unificare non solo i diversi ma anche gli opposti. Cosa che un poeta tragico come Eschilo aveva capito venticinque secoli fa. Hitler servì a far alleare un conservatore duramente anticomunista come Churchill a un bolscevico rivoluzionario come Stalin.

State sicuri che le sardine e chi le consiglia e le sponsorizza l’hanno capito bene: e quindi se la prendono con l’odio: quello degli altri.

Teodoro Klitsche de la Grange

Il buontempone, di Giuseppe Germinario

Giornalista francese: “negli Stati Uniti avete un tasso di disoccupazione molto basso; in Francia è invece molto alto. Come mai, quale è la ricetta?”

Trump: “Forse perché noi abbiamo un presidente migliore del vostro…”

https://twitter.com/rbehrouzdo/status/1210970428199624709?s=12&fbclid=IwAR1uP9w_EUA2alxgvyy15PnXsb7XxcrqbSv2-qemLnZwIs_YAblWP07bZcA

Sono sicuro che i bacchettoni e gli indignati delle due sponde dell’Atlantico, quasi tutti ben allignati nel campo democratico-progressista, sapranno cogliere il senso e lo spirito esatto di questa battuta nell’ego e nella presunzione smisurata di Donald Trump. Un motivo in più per rendercelo più simpatico. Buon Anno a tutti, bacchettoni e non_Giuseppe Germinario

Sardine e sfera pubblica, di Vincenzo Costa

Sardine e sfera pubblica
Un’analisi filosofica

Il fenomeno “Sardine” ha suscitato una vasta discussione e tornare su di esso potrebbe essere ozioso. E tuttavia, vi è un’angolatura che non ho visto emergere, e che forse vale la pena di sorvegliare, a partire dalla domanda: se a minare la democrazia è lo svuotamento della sfera pubblica, il fenomeno sardine rappresenta qualcosa che rivitalizza la sfera pubblica o è, invece, un suo ulteriore momento di tracollo? Rappresenta un elemento di ripresa democratica o solo un momento dell’irreversibile crisi della democrazia?

Questioni non filosofiche
Prima di affrontare la questione filosofica è bene circoscriverla, e a questo fine è necessario escludere le altre domande, tutte pertinenti e necessarie, ma non di carattere filosofico, e su cui del resto esistono molti resoconti e riflessioni interessanti facilmente rintracciabili su FB. Le sardine sono state “progettate”? Scadono con le elezioni emiliane? Esisterebbero senza i media che le fanno esistere? Servono a drenare voti dal M5s verso il PD? Sono funzionali al PD o, sfuggendo di mano a chi le ha inventate, potrebbero essere il becchino del vecchio PD?

Tutte questioni serie, che qui lasciamo da parte, poiché implicano un’analisi empirica che non è il nostro tema. Il nostro tema è appunto se esse sono un segno di vitalità democratica o un segno di decadenza irreversibile della democrazia e se rappresentano un avanzamento o una regressione culturale. Le sardine sono un elemento che, se non certamente di matrice socialista, è almeno di radice liberale? O rappresentano una rottura con lo stesso pensiero liberale, almeno nei suoi momenti più alti? Per rispondere a queste domande cercherò di indicare alcune caratteristiche che secondo alcuni pensatori fondamentali del pensiero liberale sono essenziali alla sfera pubblica democratica.

Alcuni problemi filosofici posti dal movimento delle sardine

1) Secondo la Arendt, «agendo e parlando gli uomini mostrano chi sono, rivelano attivamente l’unicità della loro identità personale, e fanno così la loro apparizione nel mondo umano» (Vita activa). Dunque, un movimento rende viva la sfera pubblica in quanto prende posizione, genera magari conflitto, perché nel conflitto e nel dissenso le identità prendono forma. Se il dissenso viene demonizzato, si sterilizza la sfera pubblica, la si svuota, e se un movimento assume come proprio programma questa demonizzazione, chiamandola “odio”, allora mira a sterilizzare la sfera pubblica.

2) Secondo Amartya Sen la sfera pubblica è decisiva perché svolge una funzione protettiva, «perché dà voce alle persone svantaggiate o trascurate» (L’idea di giustizia). In questo modo si rivitalizza la democrazia, perché questa diviene un luogo dove pretese di giustizia possono essere fatte valere, ed è chiaro che avanzare pretese di giustizia significa anche sviluppare sentimenti di odio verso privilegi, prebende e familismi: l’odio contro l’ingiustizia è un cardine della democrazia. Ora, se un movimento si rifiuta sistematicamente di dire qualcosa, di dare voce a qualcosa, e se si presenta come autoreferenziale, esso mira a creare una sfera pubblica che ha perso la propria funzione protettiva. Non da voce a niente e criminalizza chi cerca di dare voce e chi, sentendosi vittima di ingiustizia, esige un riconoscimento e un mutamento delle regole che presiedono all’ingiustizia reale.

3) Indipendentemente dalle intenzioni – e io non ho dubbi che le persone che partecipano a quelle adunate siano persone perbene e di buoni sentimenti – se guardiamo il fenomeno delle sardine dal punto di vista dei suoi effetti, dunque sistemico e indipendentemente dalle intenzioni delle singole persone e anche degli organizzatori, un dato emerge con chiarezza: esso ha imposto a tutti noi (me compreso in questo istante) di parlare di loro. Determinano l’agenda di ciò che può essere discusso, e poiché non veicolano altri contenuti, essi non permettono che si parli di problemi: impongono se stessi alla discussione. Così facendo, tuttavia, saturano la discussione pubblica e RIMUOVONO tutti gli altri problemi, che non trovano più spazio nella sfera pubblica (mediatica): i temi della disoccupazione giovanile, della deindustrializzazione, dell’immigrazione etc., cioè tutti i problemi dotati di contenuto spariscono dalla visibilità. In questo modo, la ragione critica non può più esercitarsi, gira a vuoto, non ha oggetti e temi su cui agire, per cui è la nozione stessa di ragione ad essere rimossa ed emarginata. Per così dire, il “sapere aude” del buon Kant, il suo abbi il coraggio di pensare viene rimosso, poiché pensare significa criticare, e la differenza tra criticare e avere sentimenti di “odio” (l’uso delle parole conta, e basterebbe dire “di indignazione” per cambiare tutto) diviene colpa: gli indignati non esprimono indignazione verso il sorpruso, il privilegio e l’ingiustizia, ma solo odio.

4) Edmund Husserl ha caratterizzato il discorso come una funzione che è all’opera se e solo se si parla di qualcosa, su qualcosa e in vista di qualcosa. Vietandosi e vietando un discorso su contenuti il fenomeno sardine modifica (forse irreversibilmente) la modalità discorsiva nella sfera pubblica e della ragione democratica: viene imposto un metadiscorso, cioè non si dice qualcosa, ma si opera un’interdizione. Il fenomeno delle sardine mi pare cerchi di imporre un discorso che non fa vedere il reale ma, ponendo condizioni di “forma espressiva”, interdice un discorso che deve necessariamente vertere su contenuti, e dunque su interessi: si impone il silenzio, e non appena si parla si rischia di essere tacciati di propagatore di odio.

In questo modo viene rimossa la vitalità stessa dei sistemi democratici, poiché, per dirla con Lyotard, «parlare è combattere, nel senso di giocare, e gli atti linguistici dipendono da un’agonistica generale» (La condizione postmoderna). La sfera pubblica non può somigliare al salotto borghese e a un luogo di buone maniere senza menomare la sua vitalità e svuotare di significato la democrazia.

Equiparare violenza verbale a violenza fisica significa esercitare una violenza enorme, imporre un modello di discorso che appartiene solo a un ristretto gruppo e imporlo a tutti. In questo senso, il fenomeno delle sardine opera una torsione della sfera pubblica, poiché genera la colpa: chiunque nutra sentimenti di ostilità, maturati a partire dalla sua condizione svantaggiata e dal fatto di subire privilegi, deve sentirsi colpevole, deve interpretare se stesso come invidioso.

ESIGENZE DI GIUSTIZIA VENGONO INTERPRETATE E DIFFUSE COME ESPRESSIONI DI ODIO.

5) Tutto questo è solidale con l’idea secondo cui non si deve prendere posizione su niente, perché a questo fine ci sono “i competenti”, questa entità un poco mitica che ha preso il posto di Dio e rappresenta il nuovo dio nell’epoca della secolarizzazione. Ed in questo modo si sviluppa un performativo potente: si prefigura la soppressione della democrazia, dell’idea secondo cui le decisioni che riguardano tutti devono essere prese da pochi, e di fatto, nel suo apparente non prender partito, il fenomeno delle sardine prende partito su una questione epocale e fondamentale, che implica la fine della democrazia: propone l’idea secondo cui i problemi politici sono in realtà problemi amministrativi, per cui la politica perde di senso e la partecipazione rappresenta un limite alla razionalità delle decisioni prese. Una prospettiva temuta da un liberale come Habermas (si veda Scientifizzazione della politica e opinione pubblica) e tristemente prevista da Lyotard.

6) Infine, se compariamo il liberalismo di Locke con quello di John Stuart Mill emerge come il fenomeno delle sardine rappresenti, da un punto di vista culturale, un FENOMENO REGRESSIVO, poiché dalla prospettiva di Mill regredisce a quella di Locke. Per Locke, infatti, la sfera pubblica non ha funzioni politiche, poiché il potere dell’opinione pubblica è un mero potere di “privata censura”: la sfera pubblica non deve servire a formare una volontà politica, e in questo senso non vi è spazio per una sfera pubblica democratica. Il potere di decidere non appartiene al popolo e l’idea fondamentale della nostra carta costituzionale non sarebbe stata recepita. Al contrario, Per Stuart Mill «le classi lavoratrici diverranno anche meno disposte di quanto non siano attualmente a lasciarsi guidare e governare, e dirigere nella via che dovrebbero seguire, dalla semplice autorità e prestigio dei loro superiori».

Prefigurando un liberalismo democratico, Mill notava che «i poveri sono sfuggiti alle redini dei loro educatori e non si possono più governare o trattare come bambini. È alle loro stesse qualità che si deve ora affidare la cura del loro destino». E’ così evidente che, dal punto di vista filosofico, siamo di fronte a un regressione dal liberalismo avanzato di Mill a quello di Locke. O, se volete, ad un abbandono del liberalismo di Mill, di Tocqueville e di Schumpeter, a favore di quello di von Hayek, secondo cui bisogna sottrarsi alla “tirannide” democratica, sostituendo alla democrazia una demarchia, al cui interno al popolo non è concesso di governare, perché, appunto come indica Sartori, si tratta, insomma, di affidare le decisioni importanti concernenti la libertà e il mercato a istituzioni diverse da quelle democratico-rappresentative (Hayek, legge legislazione giustizia), cioè ai competenti.

In questo senso, il fenomeno Sardine non rappresenta solo una rottura con tutta la tradizione socialista, ma anche una rottura con il liberalismo democratico: un’involuzione del pensiero liberale. Non è il terreno di resistenza contro le tendenze illiberali della destra, ma un altro aspetto di un medesimo processo di decomposizione delle società democratiche. Con il movimento delle sardine il processo di sterilizzazione e svuotamento della sfera pubblica ha raggiunto una soglia critica.

 

Pagliuzze e… travi, di Piero Visani

Pagliuzze e… travi

       Nel mondo politico italiano, dove in genere si sprecano i “laureati all’università della vita”, i bibitari, i seguaci dell’ “uno vale uno”, i periti odontotecnici e i periti agronomi (titoli rispettabilissimi, per attività tecnico-pratiche), oltre agli studenti “fuori corso” in SPE (Servizio Permanente Effettivo), sono partite bordate contro il primo ministro britannico Boris Johnson, reo di avere vinto alla grande le recentissime elezioni politiche in quel Paese. Di lui la Sinistra italiana ha evidenziato il fatto di essere il rappresentante di una “Destra ignorante e incolta”.
       Detto da cotanto pulpito, ci sarebbe già da sorridere, anche se – al riguardo – c’è da ammettere che la Sinistra italiana è fuorviata dalla presenza, in Italia, di una Destra che si impegna con costanza ed eccellenti risultati – specie a livello politico – per corrispondere allo stereotipo di tanta belluina ignoranza, in genere riuscendovi perfettamente, peraltro…
       Nonostante i suoi modi rudi e decisionisti, forse troppo “macho” per certa Sinistra di casa nostra, Johnson è in realtà un intellettuale raffinato, con solidi studi classici alle proprie spalle, appassionato della lingua latina e favorevole alla sua reintroduzione nella formazione dei giovani, nonché cultore della storia e della cultura di Roma, e autore di un significativo saggio in materia, Il sogno di Roma. La lezione dell’antichità per capire l’Europa di oggi, edito in Italia da Garzanti.
       Insomma, tutto questo non lo renderà comprensibilmente più simpatico alle Sinistre, ma certo lo pone nettamente al di sopra della media dei politici italiani, che almeno di una cautela dovrebbero dare costantemente prova: evitare di dare dell’ignorante a molti dei loro colleghi di altri Paesi, perché è una pratica destinata solo a risultare un eclatante caso di eterogenesi dei fini. Va detto peraltro che anche i loro elettori sono in genere entusiasti della propria belluina ignoranza, per cui questo è il caso classico in cui un ignorante con laticlavio ne vale uno senza (favoloso esempio di “uno vale uno” e anche più di uno…): e vissero tutti infelici e in progressivo fallimento. Ma piace così e dunque laissez faire, laissez passer…
                             https://derteufel50.blogspot.com/2019/12/pagliuzze-e-travi.html
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