Governo Lega – M5Stelle: come andrà a finire?, di Roberto Buffagni

Governo Lega – M5Stelle: come andrà a finire?

 

Ci vuole una bella faccia di tolla per fare previsioni su come andrà a finire una cosa che ancora non è iniziata, ma per Vs. fortuna io ce l’ho. Ecco quanto ho divinato.

1) Prima valutazione, in ordine di verisimiglianza secondo il Manuale del Piccolo Politico, pagina 1, capitolo I. Per la Lega, questa è un’abile manovra tattica e un grave errore strategico. Abile manovra tattica, perché batte lo stratagemma (oltre il limite del lecito) di Mattarella, volto a instaurare un nuovo “governo tecnico” (= UE) sotto il nome ossimorico, offensivo per il vocabolario e l’intelligenza, di “governo neutro”. Grave errore strategico perché a) spacca il fronte del centrodestra b) libera le mani a Silvio che non ne vedeva l’ora, fornendogli il pretesto per il voltafaccia c) stende un tappeto rosso a Renzi e al suo progetto neomacroniano di “governo della nazione” d) e ovviamente, di solito formare un governo con un alleato che ha il doppio dei tuoi voti nuoce gravemente alla salute.

2) Seconda valutazione, in ordine di importanza e verisimiglianza secondo il MdPP, pagina 732, capitolo LVI. Se l’operazione governo con i 5* è volta a un rapido ritorno alle urne (= entro un anno, in coincidenza con le europee 2019), dopo il varo di provvedimenti magari epidermici ma propagandisticamente efficaci e graditi all’elettorato, in particolare del Sud, ed eventualmente di una nuova legge elettorale che garantisca la governabilità al vincente, è possibile che l’errore strategico venga evitato, e anzi l’abile manovra tattica si raddoppi in audacissima manovra operativa, perché: a) si evita il governo neutro b) si costringono FI e PD ad affrontare il giudizio elettorale in condizioni di grave difficoltà, senza aver avuto il tempo di consolidare il progetto “Partito della Nazione” neomacroniano. Continua il travaso di voti da FI a Lega, il PD continua a perdere elettori c) gli elettori 5* che provengono da sinistra si allontanano dal Movimento e disperdono molti voti (difficile rientrino in casa PD) d) gli elettori 5* che provengono da destra sono tentati di spostarsi verso la Lega che interpreta più schiettamente le loro propensioni, e qualcuno (non so quanti) lo farà. e) La coincidenza delle elezioni politiche con le elezioni europee avvantaggia chi ha una posizione molto chiara sulla UE, cioè la Lega.

E’ più verisimile che si verifichi quanto al punto 1, abile manovra tattica, grave errore strategico. Però Salvini è un politico che sa il fatto suo, e quindi non ritengo affatto inverosimile che stia tentando l’ipotesi 2, abile manovra tattica seguita e raddoppiata da audacissima manovra operativa. Se la manovra gli riesce, dal Cielo il feldmaresciallo Erich von Manstein gli manderà a dire “Ben fatto”. Do 70% all’ipotesi 1, 30% all’ipotesi 2.

That’s all, folks.

 

 

le virtù di Soros e la solerzia dei Torquemada, di Giuseppe Germinario

Di Soros si raccontano le peggiori nefandezze. Non gli si possono negare, però, due qualità fondamentali: la capacità di operare su grande scala, per lo più quella planetaria; il rispetto della parola data nonché la determinazione nel perseguirla. Mesi fa il paladino, a Davos, http://italiaeilmondo.com/2018/01/26/george-soros-la-parabola-di-un-filantropo_-di-gianfranco-campa-e-giuseppe-germinario/aveva sentenziato sulla necessità di regolamentare l’attività dei social network e ripristinare la verità con un tono però, a dire il vero, inquietante, tra il profetico e il minatorio. 

Detto, fatto!

Da allora la campagna sulle fake news ha conosciuto toni sempre più virulenti e azioni sempre più insidiose. Zuckerberg ha aperto il corteo dei penitenti della comunicazione, osannati sino al giorno prima; ha conosciuto la gogna della inquisizione del Congresso americano. Ha dovuto con fare contrito sottostare ad un pubblico processo conclusosi con un solenne impegno a ripulire Facebook degli spiriti bollenti e delle anime impenitenti troppo esposte nella critica ai benpensanti e al politicamente corretto. Da allora si sono intensificate, specie negli Stati Uniti, censure e chiusure di siti, anche con accessi milionari, ma sempre più caratterizzabili per la loro collocazione politica piuttosto che per la loro eccessiva irruenza. Il prodromo alla istituzione di veri e propri tribunali della verità i giudici dei quali avranno poco da invidiare a Torquemada. http://italiaeilmondo.com/2018/03/01/1517/

La Commissione Europea, come al solito solerte, approfittando, a dispetto del suo liberalismo conclamato, del legame tuttora tenue ed evanescente con una cittadinanza europea di là da materializzarsi e di quello più che solido e perverso, connaturato con le varie lobby presenti in pianta stabile a Bruxelles, sta precorrendo i tempi. Sta affidando ad associazioni di “provata fede democratica” il compito di identificare, segnalare e proscrivere i “mestatori” della notizia. Tra queste non potevano mancare associazioni di diretta emanazione ed affiliazione alla Open Society del noto filantropo naturalizzato americano. Ce lo rivela Breibart http://www.breitbart.com/london/2018/04/28/european-union-advocates-independent-fact-checkers-combat-fake-news/  (in basso la traduzione effettuata con un traduttore) Per quanto prodigo, ed i recenti 18.000.000.000,00 (diciottomiliardi) di $ (dollari) messi a disposizione dell’umanità sono tutti lì ad attestarlo, George Soros non può rimuovere del tutto la sua propensione all’affare e l’indole da realizzo propria di un finanziere predatore.http://italiaeilmondo.com/2017/10/22/un-torrido-inverno-di-giuseppe-germinario/ Ci pensa quindi il buon Junker, il Presidente della C.E., tra una bottiglia e l’altra, a rimpinguarlo con i contributi europei, quindi a spese nostre, di una opera tanto meritoria e ricompensarlo di tanto afflato. Dall’Europa, al Nord-Africa, all’Ucraina al Medio Oriente, per parlare delle ultime prodezze, ad ogni angolo sperduto del mondo il benefattore si è speso e prodigato per la libera umanità a spese degli uomini. Le fregature e le nefandezze in corso d’opera sono solo eventi collaterali, probabilmente il giusto obolo da offrire al BENE. Merita quindi laute ricompense.

Soros, si badi bene, non è un eroe, un cavaliere solitario. E’ parte integrante, forse l’anima più appariscente, ma non più importante di centri decisori e di potere ai quali ultimamente deve essere sfuggito il pieno controllo delle redini, o presunto tale.

La fretta e la sicumera nel ripristinare le condizioni precedenti può essere fatale; c’è un solco di profonda diffidenza che divide ormai i facitori di opinioni e i loro consumatori.

Il tentativo di ripristino, sempre che sia coronato da un pieno successo, comporterà comunque un fìo da pagare particolarmente pesante ai restauratori. Le reti dei social network, a causa di queste pressioni e inbragature, sono destinate sempre più a perdere il loro carattere universalistico, luogo comune di confronto e palestre dei punti di vista più disparati. Rischieranno di diventare dei recinti riservati a gruppi chiusi e conformisti sempre meno comunicanti tra di loro. Una vera e propria ghettizzazione dei luoghi di comunicazione. I paesi che ambiscono a mantenere e accrescere la propria condizione di sovranità ed autonomia politica e decisionale, in particolare la Cina e la Russia stato già provvedendo alla costruzione di proprie reti sociali. I paesi europei sono desolatamente estranei a queste tentazioni; con essi la Commissione Europea. Eppure le reti arrivano ormai a gestire non solo le comunicazioni degli individui, ma sempre più anche i flussi decisionali e le stesse attività produttive. Non basta. E’ probabile che si inneschi anche la segmentazione delle reti secondo le affinità ideologiche e culturali dei gruppi promotori all’interno dei singoli paesi. Una tendenza e una reazione alla censura strisciante già emersa negli Stati Uniti. Una possibilità di mantenere sotto altre forme alcuni spazi di libertà. Il prodromo però a quella ulteriore incomunicabilità e frammentazione tra gruppi sociali che sta caratterizzando la formazione sociale statunitense già da diverso tempo.

Certamente un altro prossimo eclatante successo dei paladini dell’europeismo e dell’armonia tra i popoli ospiti della ormai appendice occidentale dell’Asia.

Di certo una soluzione non risolutiva. A quel punto i tentativi di controllo si sposteranno ulteriormente verso i detentori dei server materni attraverso i quali passano i flussi informatici. Una ulteriore sfida che i paesi e i centri competitori dovranno affrontare per mantenere la propria autonomia di giudizio e decisionale e un ulteriore divario da quelle ambizioni delle attuali classi dirigenti europee.

VIVA LA LIBERTà, quindi, purché ben utilizzata e soprattutto conforme alle direttive e al sentimento dei predicatori del bene comune.

Ci aspettano, quindi, nuove forme surrettizie ed esplicite di censura tanto più efficaci quanto più si potranno ricomporre o mettere sotto traccia i contrasti tra gruppi decisori.

Contrariamente alla rappresentazione corrente, però, i poteri forti detentori di tale capacità non sono a Bruxelles. Lì trovano posto semplici funzionari dotati di potere riflesso e con scarse prerogative sovrane. Dovremo cercarli piuttosto oltreatlantico e di risulta nelle due/tre principali capitali europee. Da quelle parti sarà possibile individuare i veri artefici. Si potranno controllare le chiavi di casa propria e negare gli ingressi e l’agibilità ai filantropi mestatori di turno. L’Ungheria e l’Austria ci hanno indicato la strada. Si dovrebbe cogliere il loro esempio. Giuseppe Germinario

L’Unione europea appoggia i “controllori di fatti indipendenti” finanziati da Soros per combattere “false notizie”

La Commissione europea ha proposto nuove misure per contrastare la disinformazione e le cosiddette “false notizie” online, compreso un codice di condotta a livello UE sulla disinformazione e il sostegno a una “rete indipendente per il controllo dei fatti”.

La Commissione europea ha annunciato la nuova proposta all’inizio di questa settimana, sostenendo che le nuove misure “stimoleranno il giornalismo di qualità e promuoveranno l’alfabetizzazione mediatica”, secondo un comunicato stampa pubblicato sul sito web della Commissione.

“L’armamento di notizie false online e disinformazione rappresenta una seria minaccia alla sicurezza per le nostre società. La sovversione dei canali fidati per diffondere contenuti perniciosi e divisivi richiede una risposta chiara basata su maggiore trasparenza, tracciabilità e responsabilità “, ha  dichiarato il commissario per l’Unione di sicurezza Sir Julian King .

“Le piattaforme Internet hanno un ruolo vitale da svolgere nel contrastare l’abuso delle loro infrastrutture da parte di attori ostili e nel mantenere i loro utenti e la società al sicuro”, ha aggiunto.

Le nuove pratiche intendono rendere più trasparenti le pubblicità politiche sui social media e creare una rete indipendente di controllo dei fatti a cui prenderanno parte alcuni membri della Rete internazionale di controllo dei fatti (IFCN).

Breitbart London@BreitbartLondon

Sweden’s government will be giving funds to the mainstream media to fight “fake news” http://www.breitbart.com/london/2017/10/30/sweden-media-million-fight-fake-news-election/ 

Sweden to Give Mainstream Media £1.2 Million to Fight Fake News in Run-up to National Election

The Swedish government will be granting four mainstream media outlets £1.2 million to combat “fake news” ahead of next year’s election.

breitbart.com

L’IFCN è stato fondato dal Poynter Institute, con sede negli Stati Uniti, che,  secondo il suo sito web, è in gran parte finanziato da varie fondazioni – tra cui l’Open Society Foundations del miliardario di sinistra George Soros.

Diversi altri servizi di “fact-checking”, incluso il Correctiv tedesco, sono stati anche collegati a Soros e alle Open Society Foundations.

L’UE, così come i vari singoli paesi all’interno del blocco come la Germania e la Svezia, ha esercitato un’enorme pressione sui giganti dei social media come Google e Facebook per affrontare “false notizie” e “incitamento all’odio” sulle loro piattaforme.

Il governo svedese è stato uno dei più rumorosi sostenitori della lotta alle “false notizie” in vista delle elezioni nazionali del paese entro la fine dell’anno. Il governo ha tenuto incontri di alto profilo  con aziende tecnologiche nelle ultime settimane, e Facebook ha persino concesso al governo un permesso speciale per eliminare “account falsi”.

VIRTU’ E STATO MODERNO. di Teodoro Klitsche de la Grange

VIRTU’ E STATO MODERNO

 

  1. Scriveva un giurista di valore come Ernst Forsthoff[1] che la dottrina dello Stato occidentale ha avuto inizio da Platone ed Aristotele con una concezione dello Stato come istituzione volta alla realizzazione della virtù, e, finché il pensiero classico e cristiano accompagnarono “sulla sua strada lo spirito occidentale, anche la virtù ebbe assicurato il suo posto nella dottrina dello Stato”. Solo nel periodo più recente, successivo alla rivoluzione francese “la dottrina dello Stato ha preso una via che l’allontanò dalle qualità umane e per conseguenza anche dalla virtù”[2]. Cosi, ricorda Forsthoff, nelle opere di Jellinek non se ne parla più. Tantomeno in quelle di Kelsen e di quasi tutti i giuristi del XX secolo: se comunque alcuni di essi non sottovalutavano le qualità umane (e presupposti e condizionamenti concreti e “fattuali”) nessuno, a quanto risulta, ha considerato la virtù alla maniera di Montesquieu come principio di (una) forma di governo.

Il che è, in qualche misura, comprensibile: in un periodo storico, connotato, per il diritto, dalla prevalenza del positivismo, per cui la legge è il dato che l’operatore giuridico deve interpretare ed applicare, attraverso idonei strumenti  logici ed ermeneutici, chiedersi quale sia nel “sillogismo giudiziario” il posto che compete alla virtù, può provocare, e correttamente, solo una risposta: nulla. O tutt’al più, si può rispondere, il ruolo del disturbatore: perché se in un elegante ragionamento fatto di deduzioni, valutazioni, presunzioni, s’inserisce il parametro della virtù, l’esito può essere uno solo: una gran confusione. Ciò non toglie, che, da altra prospettiva, come quella della dottrina dello Stato “classica”, la tematica della virtù abbia un ruolo tutt’altro che secondario. Peraltro le vicende politiche italiane dell’ultimo decennio sono state connotate da un continuo richiamo alla morale, alla bontà, alla necessità di governi e governanti irreprensibili sotto il profilo etico: cose che con la virtù hanno una certa affinità. Ma, nel contempo, generano equivoci se non scompiglio: perché al di là dell’uso strumentale che può farsi della morale in politica, non pare proprio che la virtù, come intesa da Aristotele o Machiavelli, da Montesquieu o da Saint-Just abbia tanto in comune con la morale e la bontà di politici e rotocalchi nostri contemporanei.

Pertanto, è il caso di chiedersi in primo luogo se, (e quanto) la virtù abbia in comune con la dirittura morale, quali ne siano le differenze, e cosa si possa intendere per virtù. Secondariamente se la virtù sia necessaria allo Stato e in che modo ci si può assicurare che non manchi.

  1. Quanto al primo problema, già Aristotele se lo pone nella Politica[3] in relazione al buon cittadino ritenendo che “si può essere buoni cittadini senza possedere la virtù per la quale l’uomo è buono…non è assolutamente la stessa la virtù dell’uomo buono e del buon cittadino” e, interrogandosi su cosa sia la virtù (del cittadino), sostiene “c’è una forma di comando col quale l’uomo regge persone della stessa stirpe e libere. Questa forma di comando noi diciamo politico…la virtù di chi comanda e di chi obbedisce è diversa, ma il bravo cittadino deve sapere e potere obbedire e comandare ed è proprio questa la virtù del cittadino…” Aristotele con ciò non solo distingue nettamente tra privato (bontà dell’uomo) e pubblico (virtù del cittadino) ma fa consistere la virtù nella conoscenza (e pratica) di un altro dei “presupposti del politico”, come denominati da Freund; il rapporto tra comando ed obbedienza. Rapporto particolarmente importante, giacché assicura coesione e capacità d’agire alla comunità, e con ciò l’esistenza della medesima: senza una catena “gerarchica” di comando ed obbedienza che organizzi l’unità politica dal vertice alla base, questa infatti non si tiene in piedi (e non agisce).

Non molto diverso è quanto pensava Machiavelli: nel pensiero del quale è fin troppo evidente che la morale non deve essere confusa in alcun modo con la politica, perché è il fine e la necessità politica l’imperativo primario, e se osservare regole religiose e morali può metterlo in pericolo, è bene violarle: “è necessario a un principe, volendosi mantenere, imparare a poter essere non buono e usarlo o non l’usare secondo la necessità”[4]; perché la patria “è bene difesa in qualunque modo la si difende, o con ignominia o con gloria”.

Quanto alla virtù, tante volte ricorrente negli scritti del Segretario Fiorentino, a volerne intendere il significato, è quello della prudenza nel (costituire e) reggere lo Stato: cioè essenzialmente legata al ruolo pubblico.

A Montesquieu si devono le più penetranti osservazioni del rapporto tra virtù e (assetto dello) Stato. Com’è noto distingue tra natura del governo (cioè della forma di Stato)  e principio del medesimo “Fra la natura del governo e il suo principio esiste questa differenza: che è la sua natura a farlo tale, ed il suo principio a farlo agire. L’una è la sua struttura particolare, l’altro le passioni umane che lo fanno muovere. Ora, le leggi non debbono essere meno relative al principio di ciascun governo”[5]; e relativamente alla democrazia: “Ad un governo monarchico o ad uno dispotico non occorre molta probità per mantenersi o sostenersi. La forza delle leggi nell’uno, il braccio del principe ognora levato nell’altro, regolano o reggono ogni cosa. Ma in uno Stato popolare occorre una molla in più, la quale non è altri che la virtù[6], mentre queste “molle” sono diverse per le altre forme di governo (moderazione, onore e timore), per cui conclude “Questi sono i principi dei tre governi; il che non vuole affatto dire che in una particolare repubblica si sia virtuosi, ma che si dovrebbe esserlo. E nemmeno prova che, in una data monarchia, regni l’onore, in un certo Stato dispotico la paura, ma bensì che essi vi dovrebbero regnare, altrimenti il governo sarebbe imperfetto” (il corsivo è nostro); quanto all’essenza della virtù, già nell’Avertissement all’Esprit des lois, chiarisce che, quando parla della virtù, parla di quella politica, non di quella religiosa o morale, tanto ne temeva la confusione. Sempre nell’ “avertissement” aggiunge che “ciò che chiamo virtù in una repubblica è l’amore di patria ossia l’amore dell’eguaglianza”[7]

Saint-Just pone la questione nel solco del pensiero di Montesquieu (con una variante essenziale) “un governo repubblicano ha per principio la virtù; altrimenti il terrore” e insiste nel concetto, con riguardo alla rivoluzione “In ogni rivoluzione occorre o un dittatore per salvare lo Stato con la forza o censori per salvarlo con la virtù”[8]. Per cui se la virtù non c’è, o se non ve n’è a sufficienza, occorre far ricorso alla forza e incutere paura: è escluso che senza questi “principi” (o “sentimenti”) uno Stato possa reggersi.

Ma non era questo il solo “filone” di pensiero che determinava la dottrina  dello Stato nell’epoca delle rivoluzioni americana e francese. L’altro, e principale, si può sintetizzare nel giudizio di Sieyés che “sarebbe un cattivo conoscitore degli uomini chi legasse il destino della società agli sforzi della virtù”; occorrono infatti accorgimenti idonei a far si che gli interessi particolari cospirino a realizzare quello generale. Il principio del costituzionalismo liberal-democratico non è solo di salvaguardare la libertà e il rispetto della volontà popolare, ma anche quello di modellare le istituzioni in modo da conseguire l’interesse di tutti  attraverso quelli particolari, gli equilibri e le sanzioni (afflittive e premiali) relative. E’ questa la principale preoccupazione dei costituzionalisti. Tuttavia l’altra tesi non è dimenticata: Benjamin Constant scrive infatti che “Occorre agli uomini perché associno reciprocamente i loro destini ben altra cosa che l’interesse”[9]; per cui, pur essendo primaria l’esigenza di “governare” gli interessi, non era l’unica, né la (sola) sufficiente .

  1. Non stupisce che, al riguardo, il collegamento più stretto tra virtù e assetto statale l’abbia formulato proprio Montesquieu, perché l’esprit des loi consiste nelle varie relazioni che le leggi possono avere con diverse cose[10], cioè con condizioni, situazioni, dati reali. La razionalità (o la non razionalità) delle norme è verificata in base alle circostanze e alle determinanti concrete e “fattuali”. Il che significa che il normativo vola basso sul fattuale; o con altre parole che l’esistente (il reale) condiziona le norme assai più di quanto queste possano su quello. Tale impostazione non era dimenticata neanche dai teorici politici del ‘700. Lo stesso Rousseau ricorda che se il legislatore “se trompant dans son objet, prend un principe different de celui qui naît de la nature des choses… l’État ne cessera d’être agité jusq’a ce qu’il soi détruit ou changé, et que l’invincible nature ait repris son empire[11].

D’altra parte Montesquieu chiarisce molto bene, nell’Avertissement a l’ “Esprit des lois” in che senso la virtù per la democrazia, l’onore per la monarchia (e così via) sono principi di quei regimi politici, e lo fa paragonando lo Stato ad un orologio, e la virtù (o l’onore, la moderazione o il timore) alla molla, che contrappone a rotelle e pignoni: questi, che non danno impulso, quella che da ed assicura il movimento dell’insieme. Onde il “peso” e il connotato specifico del principio rispetto alle altre qualità, è di costituire il motore dell’istituzione statale: quello che la fa funzionare, mobilitando sentimenti ed energie dei cittadini.

Nella dottrina del diritto e dello Stato successiva, a partire dalla seconda metà del XX secolo la virtù non è, come scrive Forsthoff, affatto considerata: come, d’altra parte, anche gli altri principi di Montesquieu; nulla anche in molti autori e assai ridotta in altri è poi la valutazione, nella costituzione dello Stato, di tutti gli altri fattori concreti e “fattuali”. Se ancora Hegel e Tocqueville spiegavano la Costituzione federale degli Stati Uniti con l’assenza, nel continente americano, di nemici credibili ai confini, di ragionamenti simili v’è punta o poca traccia nei giuristi[12].

In effetti a ciò contribuiscono almeno tre ragioni. Da un canto la specializzazione scientifica ed accademica tendeva a separare lo studio del diritto (e dello Stato inteso restrittivamente  come ordinamento normativo) come legge (positiva) da quella dei fattori determinanti quelle norme come tali. Per cui tale indagine è ritenuta di competenza di altre discipline scientifiche, come sociologia, scienza politica e così via.

Dall’altro che, da un punto di vista normativistico, l’angolo visuale tipico dell’interprete – applicatore del diritto, il “peso” che nell’esegesi possono avere i fattori condizionanti le norme, è, rispetto a queste, praticamente nullo.

Infine anche le teorie del diritto o dello Stato più attente alle determinanti “fattuali” dell’ordinamento si sono per lo più indirizzate verso lo studio e la valutazione degli interessi in qualche misura sviluppando quelle teorie precedenti (e contemporanee) alla Rivoluzione francese ed americana; Jhering costruisce il diritto come meccanica sociale, cui sono essenziali scopo e molle (ricompensa e coercizione) per ottenere una società regolata e ordinata. E’ l’interesse la categoria cui è , in ultima istanza, ricondotto il diritto – e lo Stato[13].

Peraltro anche la teoria marxista del diritto e dello Stato, considerando l’uno e l’altro come riflesso dei rapporti reali di produzione – e conseguentemente di potere – non prendeva affatto in considerazione la virtù (o l’onore e così via): certi rapporti di produzione determinano un assetto sovrastrutturale corrispondente: cambiando quelli muterà anche questo. Non c’è spazio per altro che non sia una relazione economica.

La conseguenza di queste teorie e ideologie, così diverse, è che tutte tendono a ricondurre o a espungere quei moventi dell’agire umano non riconducibili al meccanismo  premio/afflizione. Il quale ne spiega molto (e forse la maggior parte) ma non è idoneo a spiegare tutto. Il meccanismo di premio/afflizione facente leva sull’interesse non può dar conto del perché, in guerra, i soldati sacrificano la vita, giacchè nessuna afflizione le è superiore e nessun premio può essere goduto da chi muore, come notava Schmitt. Anche se può argomentarsi che in tal caso è l’interesse generale a determinare il comportamento inducendo al sacrificio di quello individuale, è chiaro che, in tali espressioni, a fare la differenza  – e di sostanza – è l’aggettivo non il sostantivo.

Parimenti a una costituzione giuridicamente perfetta, con i rapporti tra poteri ed organi, freni e contrappesi ben studiati, non si capisce chi dovrebbe dare il movimento, giacché questo non è indotto, se non in parte minima, e non può quindi essere assicurato, dall’ammirazione per la sapiente opera del legislatore. Se fosse vero l’inverso, le migliori costituzioni sarebbero quelle redatte a tavolino, e sarebbe sufficiente per organizzare uno Stato comprarne il testo in libreria; mentre è noto che le migliori sono quelle modellate dal tempo, dall’esperienza e dalla lotta. Perché nella realtà lo Stato non è paragonabile – malgrado la radice del termine che richiama la staticità – a qualcosa d’immobile come un affresco, una fotografia, uno scritto: ma è vita e movimento, non foss’altro perché elemento determinante e costitutivo ne sono i milioni di persone che formano la popolazione. Dalle cui volontà, scelte, sentimenti ed anche credenze e pregiudizi non si può prescindere .

Se a un assetto (astrattamente) perfetto nessuno di coloro ha volontà di partecipare, lo Stato nascerà morto, come un corpo senz’anima, o una macchina senza motore[14]. Cioè proprio quello che sosteneva Montesquieu, quando in mancanza – all’epoca – di motori termici, doveva ricorrere alla metafora della molla (che da movimento) e delle rotelle, per spiegare la differenza tra principio e natura del regime politico.

E che il problema sussista è dimostrato dal fatto che indurre a cooperare, obbedire, comandare ed agire gli uomini e i gruppi sociali richiamandosi all’ “imputazione” o alla “competenza” appare altrettanto irreale del pretendere di avviare un’automobile declamando le leggi della termodinamica. Per cui la struttura ed il motore sono ambedue necessari all’esistenza – ed all’azione – dell’istituzione.

Neppure le teorie marxiste del diritto, pur così ancorate a un dato reale, come i rapporti di produzione, arrivano a spiegare la necessità del “principio”: e ciò non solo perché l’introduzione del concetto d’interesse non egoistico (cioè non economicistico) ne falsifica il presupposto, ma anche perché la teoria montequieuviana del “principio” rende irriducibile il rapporto politico alla sola relazione comando-obbedienza. In buona sostanza perché chiarisce una delle ragioni per cui si presta obbedienza al comando.

  1. A questo punto occorre chiedersi cosa sia la virtù. La prima determinazione ovvia è che la stessa non è la bontà dell’onest’uomo (privato) né quella del credente. Ciò comunque non appare sufficiente a determinare il concetto per cui occorre cercare, oltre a ciò che non è, ciò che è.

In tal senso la virtù consiste in un sentimento “pubblico”, cioè attinente all’esistenza ed all’agire dell’unità politica; per cui la virtù è l’amore (e l’azione a favore) dell’unità politica. Sono virtuose qualità ed atti che si risolvono a favore di quella, in particolare ove costituenti condizioni necessarie  e sufficienti alla stessa.

Criterio che vale a distinguere le qualità positive dell’onest’uomo, del bonus paterfamilias caro ai manuali di diritto civile, da quelle del cittadino. Sulle prime si può costruire(e fino ad un certo punto) una società ben regolata, ma non una comunità politica, come aveva compreso Aristotele. Lavorare onestamente, pagare i creditori, non arrecar torto ad altri non sono condizioni sufficienti a costituire e mantenere la comunità politica (anzi talvolta possono essere controproducenti). Questa richiede la disponibilità dei componenti al sacrificio dei propri interessi a quello generale: in certi casi al sacrificio della vita per garantire l’esistenza della comunità. Quando Montesquieu (e gli scrittori che di tale tema si sono occupati) parlavano di virtù non pensavano a quella di S. Genoveffa o di S. Sebastiano, ma alla qualità e all’esempio di Leonida, di Attilio Regolo o di Catone l’uticense. Al valore generale – in senso hegeliano – di azioni finalizzate all’interesse generale per cui gli uomini “zugleich in und für das Allgemeine wollen und eine dieses Zwecks bewuβte Wirksamkeit haben”[15]

Del pari le qualità del bonus paterfamilias non sono neppure necessarie: orde barbariche, carenti di quelle, hanno saputo espandersi, vincere e costituire nuovi Stati. Anzi talvolta la bontà è controindicata come sostenevano, tra gli altri, Machiavelli e Hobbes. Proprio il Segretario fiorentino elogia come esempi di virtù (politica) i costruttori di nuovi Principati, personaggi tra i quali, di solito, la bontà (privata) non costituiva una primaria regola di condotta, perché di sicuro impedimento. La stessa carenza si presenta in una teoria dello Stato (e del diritto pubblico) che voglia spiegarlo col solo interesse individuale. Tale via è percorribile per il diritto privato, che presuppone individui tesi a realizzare e garantire il proprio interesse e che nulla può legittimamente costringere a sacrificare. Una società in cui tutti  scambiano tutto e non rinunciano a nulla: questa è l’essenza (il “tipo ideale”) della bürgerliche gesellshaft. Ma nello Stato, in cui la disponibilità (in concreto) a rinunce e sacrifici è essenziale, una impostazione simile appare non tanto erronea, ma sicuramente insufficiente[16].

Comunque l’evoluzione delle idee nel XIX e XX secolo è stata tale da espungere  la virtù, anche se poi questa è stata praticata, senza che tuttavia se ne avesse, a livello di massa, grande consapevolezza e se ne traessero le conseguenze. Rilevabili anche dalla desuetudine del termine. Se per Machiavelli o Montesquieu sarebbe stato ovvio qualificare virtuosi De Gaulle o Bismarck, Cavour o De Gasperi, non consta che a quegli  statisti sia stata riconosciuta tale qualità, anche se la possedevano. Forse perché nell’epoca della tecnica – e della tecnocrazia – la virtù appare qualcosa di desueto, da relegare nei libri di storia o nelle declamazioni dei poeti d’altri tempi. Se a determinare i successi politici – ivi compresi quelli bellici – è l’abbondanza dei mezzi materiali e il progresso tecnico-scientifico, i protagonisti ne diventano capitani d’impresa e tecnocrati, per cui la virtù diviene un elemento decorativo, tutt’altro che indispensabile.

Ma, a prescindere  che la storia del XX secolo – e l’inizio della cronaca del XXI – danno copiosi esempi del contrario, di successi politici riportati da uomini e gruppi sociali enormemente inferiori per mezzi e cultura tecnica rispetto ai loro avversari (da ultimo l’11 settembre) altro è il problema sul tappeto. Ovvero di capire perché, in piena era della tecnica (e della tecnocrazia) si sia riproposto, prepotentemente, in Italia, nel corso degli anni ’90, il problema della “virtù”, in modo così acuto da cancellare una classe dirigente. E, in particolare, perché sotto un aspetto così diverso, difficilmente riconoscibile da Machiavelli o da Montesquieu, al punto da assumere altri nomi, peraltro più congeniali alle “nuove” connotazioni. In effetti il profilo più interessante è che, mentre la virtù ha un carattere essenzialmente pubblico la, “bontà” o la “legalità”, lo hanno, in altrettanta misura, privato. Si potrebbe indicarne la ragione nelle necessità di propaganda, di utilizzo politico dell’accusa di immoralità: ma, pur consentendo a questo, il tutto risolve il problema a metà: perché resta da spiegare perché tale mutamento corrisponda a convinzioni e credenze diffuse.

Proprio quelle credenze e teorie che in crescendo dalla metà del XIX secolo, predicano e prevedono la fine della politica, la sua sostituzione con l’economia, il venir meno del governo degli uomini sostituito dall’amministrazione delle cose. Ma in un mondo senza politica, non servirebbero né istituzioni politiche (come lo Stato) né capacità e sentimenti politici (come quelli riassunti nella virtù).

La lunga pax americana nella metà del mondo di cui fa parte l’Italia, ha, nel nostro Paese, rafforzato ed accresciuto, in misura maggiore che in altre nazioni occidentali, quella tendenza, peraltro comune a tutti: non aveva tutti i torti Lelio Basso quando diceva che finchè l’Italia era nella NATO, il Ministero degli Esteri era inutile, perché bastava quello delle Poste per ricevere i telegrammi da Washington. Ma una sovranità dimezzata, una politica estera imposta su “binari” e con limiti (esogeni) invalicabili, non porta ad altro che ad identificare la politica con l’amministrazione, o, al massimo, con l’attività di polizia (interna) in senso lato[17].

E’ la figura del tecnico, e soprattutto del funzionario che, in questo frangente, appare insostituibile e necessaria. L’etica “professionale” del funzionario non è quella – o meglio, è solo in parte – quella del politico, come sosteneva Max Weber, non foss’altro perché           questi è sopratutto un efficiente ed intelligente esecutore di ordini, mentre il politico gli ordini li deve dare, e suscitare consenso tale da garantirne l’esecuzione e in un certo senso l’interiorizzazione e l’identificazione dei governanti con il progetto e l’impresa politica (l’integrazione). Sotto altro angolo visuale, quello della responsabilità e del rischio, è più vicino al politico virtuoso il “tipo ideale” dell’imprenditore di successo: ma la direzione dello scopo e degli interessi tra (l’impresa e) l’imprenditore politico  e quello economico, e l’irriducibilità del politico all’economico, è tale da costituire differenze essenziali tra le due figure.

  1. Ciò stante siamo ritornati al problema che Montesquieu aveva risolto, se cioè sia necessario allo Stato, specificamente a quello liberaldemocratico (ma non solo), un certo tasso di virtù. Il fatto che questa non sia più presente negli scritti degli addetti ai lavori ,“non implica naturalmente che anche la virtù sia assente dagli ordinamenti degli Stati”, come scriveva Forsthoff. Perché ogni unità politica “si basa sulla qualità degli uomini che la sorreggono e che esercitano le sue funzioni”: altrimenti, nella prima metà del secolo scorso, non si capirebbe come milioni di europei (e non solo) si siano sacrificati combattendo in guerra se non avessero posseduto qualità virtuose.

Ma, anche in società e situazioni politiche in cui la possibilità reale della guerra sia ritenuta (e di fatto è stata) lontana, o tutt’al più circoscritta ed episodica, come quella europea occidentale nella seconda metà del XX secolo, la necessità di una certa dose di virtù non appare ridondante ma, all’inverso, necessaria. Concorrono a ciò sia l’espansione  delle funzioni e attività dello Stato, cioè l’innestarsi dello “Stato sociale” o del “benessere” sul corpo dello Stato legislativo, nato con le rivoluzioni borghesi, sia l’esigenze proprie allo Stato legislativo medesimo.

Il principio di legalità – ovvero la “sottomissione” del potere giudiziario e amministrativo (burocratico) alla legge – richiede, per non ridursi ad un’applicazione soggettiva – quindi variabile e imprevedibile – ed episodica, una certa dose di virtù, indipendentemente dai diversi rimedi modellati, con maggiore o minore efficacia, dal legislatore per reprimere abusi ed omissioni dei funzionari (spesso risolventisi in autoassoluzioni reciproche e collettive). Anche perché le garanzie istituzionali del personale burocratico finalizzate a garantirne un certo grado d’indipendenza (massime quelle riconosciute alla magistratura) limitano o escludono che l’operato e le persone dei medesimi possono essere valutate e riesaminate da un potere in certa misura personale (contrariamente alla legge, per natura impersonale), come quello del Sovrano o del ministro, segnatamente di uno Stato assoluto[18]. Per cui il corretto uso di poteri e funzioni è, in misura maggiore che in altri ordinamenti, rimesso alla capacità ed all’inclinazione “virtuosa” del burocrate.

La querelle tra indipendenza ed imparzialità della magistratura che da tempo contrappone diverse visioni del ruolo del Giudice deriva da una situazione concreta, per cui, di fatto, l’uso improprio di atti e della funzione giudiziaria – sospetta in tali casi di parzialità – non può essere sanzionata. Specie quando alle garanzie stabilite dal legislatore se ne aggiungono altre, di origine politica, sindacale o anche, genericamente sociale. Indubbiamente l’esigenza di garantire una certa dose di virtù è condivisa assai largamente: ma c’è disparità – altrettanto ampia – di vedute su come fare. Ciò dipende, per lo più, da un equivoco e da un’illusione. L’equivoco è quello paventato da Montesquieu, del confondere virtù (pubblica) con quella privata, e, più in generale, diritti (e doveri) inerenti alla funzione pubblica con diritti del cittadino. Per cui, ad esempio, il funzionario che esterna e concede interviste, contravvenendo al dovere di riservatezza e anche al segreto d’ufficio, si appella alla libertà di parola; quando, di converso, è chiaro che lo status di funzionario (con gli obblighi e i diritti connessi) prevale su quello di cittadino.

La seconda è l’illusione di poter garantire ciò attraverso una (idonea) normativa: il che è, da un canto, condivisibile, ove non pretenda di essere la soluzione esclusiva, né prevalente.

Perché se di converso, si volesse cercare di imporre un sufficiente tasso di virtù con leggi, decreti, sentenze e Carabinieri la delusione sarebbe pari all’inutilità dell’apparato che si mobilita, in particolare non appena si manifestasse un’emergenza: frangente in cui dosi di virtù sono l’elemento decisivo per uscirne. In realtà della virtù si può dire ciò che don Abbondio sosteneva del coraggio: che se uno non ce l’ha non se lo può dare. E tutto l’armamentario di coazione e sanzioni può servire a incentivare, consolidare azioni virtuose, e reprimere le non virtuose, ma presuppone necessariamente di “operare” su una certa dose di virtù. E’ vero che per tutte le azioni umane può valere il giudizio espresso da due eccellenti professionisti della guerra, come il Maresciallo sovietico Zukov e il feldmaresciallo tedesco Schörner; i quali richiesti di come avevano fatto l’uno a superare le munite difese tedesche, l’altro a contenere gli impetuosi attacchi sovietici, rispondevano, in termini uguali, che i soldati da loro comandati avevano più timore di quanto poteva capitare loro volgendo le spalle al nemico che ad affrontarlo. Le pattuglie e le Corti volanti dell’NKVD da una parte, delle SS e della feldgendarmerie dall’altra erano efficienti corroboratori e moltiplicatori di virtù. Comunque presente nei soldati: infatti i generali zaristi, i cui modi non erano molto più soavi di quelli di Zukov, non riuscirono ad evitare il collasso – e la rivolta –  dell’esercito sfiduciato ed esaurito; né le fucilazioni alla schiena, praticate con tanta larghezza sull’Isonzo, a scongiurare Caporetto. Quanto vale per la guerra, cioè per una situazione per definizione eccezionale,  vale – anche se con misura minore – per una situazione normale. Vero è che frangente, difficoltà (e urgenza) sono assai diverse: ma lo è pure quanto concesso a un governo che lotti per l’esistenza di una nazione, non riconosciuto se quella non è in dubbio; se gli uomini tollerano lo stato d’assedio, non si può governare in permanenza con quello e, in genere, con misure eccezionali. Le quali, per essere accettate presuppongono uno stato di fatto proporzionato alla gravità delle stesse: per l’appunto uno stato d’eccezione. Fucilare alla schiena, o anche condannare a molti anni di reclusione un ladro di polli o un impiegato corrotto sarebbe meno idoneo a incentivare comportamenti virtuosi che a convincere i cittadini a sbarazzarsi di un governo repressivo, incompatibile col principio della repubblica, quanto vicino a quello del dispotismo. Montesquieu con l’assegnare un principio proprio (ed esclusivo) ad ogni forma di governo aveva ben capito come armonizzare situazioni concrete, spirito pubblico ed assetto istituzionale: perché come in una democrazia, connotata dal ruolo attivo di tutti i cittadini nella gestione delle funzioni pubbliche occorre una dose di virtù diffusa, così a un governo dispotico che non ha quel presupposto, occorre, di converso, ispirare altrettanto generalizzato timore. Governare con la paura una repubblica, è, alla lunga, altrettanto illusorio che, per un governo dispotico, presupporre la virtù dei cittadini

Addossare l’onere del tutto al “diritto” (intendendo con tale termine, in modo un po’ improprio, leggi, pene, polizia e Tribunali) è assai più che sottovalutare la virtù è, principalmente, pretendere di governare un gruppo umano prescindendo da qualità, inclinazioni, aspirazioni umane; voler costruire una “meccanica” sociale senza motore. Ma dato che il problema da risolvere è in sostanza, far agire la comunità, dargli movimento, e per far questo occorre il motore, la soluzione offerta è peggio che errata: è, a dir poco, bizzarra. Anche perché coniugata ad una visione normativistica del diritto: il che accanto all’eliminazione del “principio” dal regime politico, lasciando solo la nature cioè la forma, aggiunge l’ulteriore riduzione  dell’ordinamento alle norme. Con ciò se ne estromette un’altra componente necessaria ed insopprimibile, che Montesquieu intravedeva con chiarezza assai prima che la querelle tra concezioni normativistiche ed istituzioniste la portasse a generale consapevolezza. In effetti quando parla di leggi e in particolare nel delineare la distinzione dei poteri, da rilievo, per l’appunto, ai poteri e ai rapporti tra gli organi che li esercitano cioè alle choses non alle regole.

Proprio nell’XI libro dell’Esprit des lois, nel sostenere l’opportunità della distinzione dei poteri sostiene “perché non si possa abusare del potere, bisogna che per la disposizione delle cose, il potere freni il potere” (il corsivo è nostro). E concetti ed asserzioni simili sono continuamente ripetuti nell’Esprit des lois; Montesquieu sostiene che è la conformazione dei rapporti tra organi statali e “corpi” politici a determinare l’assetto complessivo dello Stato e non (solo) le regole enunciate e (formalmente) vigenti, le quali senza istituti, organi, poteri e “forze sociali”, rimarrebbero largamente inapplicate, e presto, per lo più, desuete. L’attenzione che dava a tutti i dati reali, all’esistente, lo vaccinava dal pensare che le gazzette ufficiali o anche un législateur onnipotente, quali quelli immaginati dai suoi posteri, potesse realmente e stabilmente rimodellare le comunità politiche. Opinione che, invece sarebbe stata alla base delle esperienze successive delle “dittature sovrane”, segnatamente quella giacobina e bolscevica, incisive ma, in sostanza, transeunti .

Nel pensiero di Montesquieu sono le condizioni oggettive (e “pre-giuridiche”) sia materiali che spirituali a condizionare l’assetto istituzionale; è questo, ovvero l’ordinamento, a determinare le norme[19], in modo simile a come avrebbe, con il paragone della scacchiera, sostenuto Santi Romano; per cui quelle, per il pensatore francese, sono l’ultimo risultato di una serie di “cause” e ragioni concrete che, di giuridico, prima delle norme, hanno solo l’istituzione.

Il positivismo giuridico, che Schmitt connota come un misto di decisionismo e normativismo, ha comportato conseguenze – e convinzioni – opposte.

A livello – e nei momenti – politicamente “alti” prevale il profilo decisionista del législateur come ordinatore della comunità. Nei casi estremi, quello, sintetizzato da Saint-Just, di salvare la repubblica con dittatori o censori. Ma la durata di  tali assetti è stata generalmente assai breve; per cui, anche se occorre dar atto alla Convenzione di aver salvato la Francia (e la rivoluzione) nel 1793, occorre tuttavia ascrivere gran parte del merito (di cui di cui beneficiavano assai più che i giacobini, i termidoriani) all’entusiasmo (alla “virtù”) dei francesi.

Il suscitatore (e fomentatore) del quale furono assai meno le ghigliottine ed i processi, che la nuova era (e il nuovo “progetto” di società) che si schiudeva: vedeva bene Marx quando, nelle armate rivoluzionarie e napoleoniche riconosceva il “codice civile in marcia”.

Se invece si scende a livelli e momenti più bassi – tra i quali sono da considerare i contemporanei – la prospettiva cambia, e la pretesa di suscitare qualcosa di simile alla virtù con gli sbirri e gli avvisi di garanzia si manifesta ancora più irreale. In primo luogo perché l’angolo visuale da cui parte è l’opposto: se nel primo il rapporto prevalente tra decisione e norma è nel senso che la prima precede e crea la seconda, nell’altro, attento quasi esclusivamente al momento applicativo, è, ovviamente, la norma a determinare la decisione di chi la esegue. All’onnipotente législateur si sostituisce così il fonctionnaire, il quale infatti è la figura centrale di questo positivismo dimezzato, che al circuito coerente decisione/norma/decisione ha sostituito quello, limitato e claudicante, norma/decisione[20]. Nel primo caso il rapporto era visto complessivamente e dall’alto; nel secondo parzialmente e dal basso. Come se le norme fossero create dal nulla, e non volute, prodotte e, quanto meno, accettate dagli uomini. D’altro canto questo positivismo dimezzato non elimina il problema della virtù, dato che sono sempre uomini a decidere, anche se in base a norme. Perché siano concretamente attuate le quali, e realizzato il carattere impersonale del comando occorre la conformità “fotografica” delle decisioni irrimediabilmente personali dei funzionari al contenuto astratto delle norme applicate. Il che sposta solo la collocazione nello Stato della virtù, non la sua necessità. Se, per un illuminista, a esser virtuoso doveva essere soprattutto(ma non solo) il législateur – secondo la nota espressione di Rousseau il faudrait des dieux pour donner des lois aux hommes -, ora, deve esserlo (almeno) l’interprete – applicatore, la cui virtù specifica deve porlo al riparo da soggettivismi, condizionamenti ideologici, interessi mondani, ipertrofia dell’ego e così via. E senza la quale, l’aspirazione ad un governo di leggi, non di uomini, rimane confinata nei manuali giuridici o nei fondi domenicali dei quotidiani. Credere di poter cancellare (sempre) e deprecare (spesso) la personalità della decisione della norma, non significa comunque eliminarla dalla decisione in base alla norma. Il fatto che quest’ultima sia impersonale  ed oggettiva ex se si rivela un puro atto di fede.

Secondariamente una tale credenza presta il fianco a un obiezione (principale) e a un’altra (derivata). La prima che, come prima ricordato, il diritto “vola basso” sul concreto, sul sociale. Onde pensare che una società carente di virtù possa essere resa virtuosa con gli sbirri è quanto meno azzardato, non foss’altro perché se i comportamenti poco “virtuosi” hanno una tale prevalenza, ciò vuol dire che sono largamente condivisi, e pretendere di cambiarli con i carabinieri va contro il common sense. La seconda è che una società così corrotta dovrebbe aver prodotto, comunque, dei “censori” virtuosi. Ma anche tale presupposto appare poco probabile. Che le funzioni esercitate possono produrre uomini di una tempra etica così diversa è assai difficile. Sarebbe in altri termini, la tesi su cui ironizzavano gli autori  del Federalista sostenendo che i governi non sono composti da angeli. E gli uffici neppure. D’altra parte, approfondendo tale punto, un tale sistema è in grado di funzionare (più o meno bene) se la dose di virtù dei funzionari è sufficiente e congrua rispetto ai compiti. Uno Stato legislativo dove la legge sia poco applicata, domini il soggettivismo interpretativo e il corporativismo burocratico, dove, in altre parole, ci sia poco di quella virtù che connota i buoni funzionari, le istituzioni saranno – anche perciò – tendenzialmente deboli e poco confortate dal consenso popolare. Correttamente Forsthoff rilevava, a tale proposito, che il successo del positivismo giuridico nel periodo bismarckiano e guglielmino era merito, più che del rapporto “idealizzato” tra legge e applicazione concreta della stessa, delle doti professionali della burocrazia tedesca, ovvero della virtù della medesima.

Ma, quel che più rileva, in una democrazia le sorti della comunità sono nelle mani dei cittadini, ai quali competono le decisioni più importanti. Se il popolo è sovrano, e il popolo non è virtuoso, ciò significa che il sovrano non è virtuoso; ma non che qualcuno può (ha il diritto di) castigare il sovrano per la sua scarsa virtù[21]. Che è, di converso, proprio ciò che certe concezioni sottendono.

La ragione di Montesquieu sul porre come principio della repubblica democratica la virtù è proprio il fatto che ivi i cittadini hanno il potere di determinare il proprio destino, qualunque esso sia: perciò ove non possiedano la virtù tale regime ha scarse possibilità di durare; di converso ne avrebbero maggiori altre forme di governo cui la virtù (diffusa) non sia così essenziale.

  1. Montesquieu è stato uno degli interpreti e teorici del costituzionalismo moderno (forse il principale): con la teoria della distinzione dei poteri e della “disposition des choses” ha mostrato come possibile un organizzazione statale razionalmente concepita per la tutela delle libertà politiche e civili (di cui era fautore). Cioè proprio quella teoria che, col tempo, si è radicalmente modificata nel modo qui sottoposto a critica. Curioso sviluppo di una concezione assai equilibrata, in cui la progettualità umana era ancorata a presupposti e condizioni “fattuali” e così tenuta con i piedi per terra. Ma gli esiti successivi, con la sottovalutazione di quei presupposti e condizioni, l’esaltazione del législateur (e poi quella, meno esplicita, del fonctionnaire) la riduzione del diritto da istituzione a norma hanno completamente stravolto la concezione, in se equilibrata e ragionevole, del pensatore francese. Un ritorno alla quale (e al pensiero politico “classico”) può apportare un contributo di chiarimento e consapevolezza, essenziale in tempi in cui la politica, ridotta spesso alla propria caricatura, perde il proprio carattere di regolazione dell’ordine sociale e protezione della comunità. Carattere che forse può recuperare (ed è essenziale che recuperi) nello spirito pubblico, ove riportata alle sue corrette dimensioni ed ai suoi realistici presupposti.

Ciò avveniva contemporaneamente al processo di democratizzazione, quando, avendo i popoli preso in mano il loro destino e il timone degli Stati, c’era, e c’è, maggior bisogno di virtù diffusa. Alla cui mancanza non c’è rimedio “giudiziario”; ma semmai il cambiamento della forma di Stato, con l’adeguamento di questo a un altro “principio” dominante, o più, verosimilmente, la rinuncia alla politica e/o ad un’esistenza indipendente. Senza volontà di esistere politicamente e il peso delle decisioni che ciò comporta, basta veramente la bontà di Jacques le bonhomme.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

[1] Lo Stato moderno e la virtù, trad. it. ne Stato di diritto in trasformazione, Milano, 1973, p. 11 ss.

[2] Op. cit. p. 12.

[3] Politica, 3,4, 1276b-1277b

[4] Principe, XV.

[5] Esprit des lois, lib. 3, cap. II°.

[6] Op. cit., Lib. III°, cap. 3 (il corsivo è nostro).

[7] Lo stesso concetto è ripetuto in Esprit des lois, lib. V°, cap. 3. occorre ricordare che nell’ Avertissement scrive anche  «Enfin l’homme de bien dont il est question dans le livre III, chapitre V, n’est pas l’homme de bien chrétien, mais l’homme de bien politique, qui a la vertu politique dont j’ai parlé ».

[8] Frammenti sulle istituzioni repubblicane, trad. it., Torino 1975, p. 197 e 239.

[9] De l’esprit de conquête.

[10] Riportiamo il testo originale più esteso …les lois politiques et civiles de chaque nation…Il faut qu’elles se rapportent à la nature et au principe du gouvernement qui est établi ou qu’on veut établir; soit qu’elles le forment, comme font les lois politiques; soit qu’elles le maintiennent, comme font les lois civiles. Elles doivent êtrerelatives au phisique du pays ; au climat glacé, brûlant ou tempéré ; à la qualité du terrain, à sa situation, à sa grandeur ; au genre de vie des peuples, laboureurs, chasseurs ou pasteurs : elles doivent se rapporter au degré de liberté que la constitution peut souffrir, à la religion des habitants, à leurs inclinations, à leurs richesses, à leur nombre, à leur commerce, à leurs mœurs, à leurs manières. J’examinerai tous ces rapports : ils forment tous ensemble ce que l’on appelle l’esprit des lois. Je n’ai point séparé les lois politiques des civiles : car, comme je ne traite point des lois, mais de l’esprit des lois, et que cet esprit consiste dans les divers rapports que les lois peuvent avoir avec diverses choses, j’ai dû moins suivre l’ordre naturel des lois que celui de ces rapports et de ces choses.

[11] Du contrat social, Lib II, cap. XI.

[12] V. per Tocqueville La démocratie en Amérique, Lib. I°, p. I, cap. VII; per Hegel Vorlesungen über die Philosophie der Geschichte, trad. it., Firenze 1941, p. 231.

[13] In realtà Jhering riconosce che il comportamento umano può essere indotto anche da “molle” dell’agire umano diverse dall’egoismo, ricorrendo all’abnegazione che non nega l’interesse “ma si tratta di un interesse totalmente diverso da quello proprio dell’egoismo” Der Zweck in Recht, trad. it., Torino 1972, p. 52 (e seguenti).

[14] La teoria Kelseniana, così precisa nel distinguere tra casualità e imputazione, tra sein  e sollen, tra scienze empiriche e normative, non offre – nè intende offrire – una soluzione a tale problema (e a quelli analoghi), ritenuti estranei alla dottrina del diritto. Ma che il problema pur estraneo alla Reine Rechtslhere, sussista in concreto, ossia che per far funzionare la “gran macchina” occorre un motore, e che il centro d’ “imputazione” debba agire di fatto, è altrettanto innegabile.

[15] “Vogliono a un tempo e in vista dell’universale, e hanno un’attività consapevolmente rivolta a questo” G.G.F. Hegel Lineamenti di filosofia del diritto prgrf. 260.

[16] Oltre a non spiegare – ed è più importante – come una società del genere possa esistere e durare in un pluriverso politico, dove l’esistenza del nemico e la possibilità della guerra costituiscono dati concreti e reali. Vale, a maggior ragione in questo caso, il giudizio di Mably su Cartagine “ci sarà sempre in questo mondo qualche popolo sempre pronto a fare la guerra alle nazioni ricche, perché fino ad oggi le ricchezze che corrompono i costumi sono sempre il bottino del coraggio e della disciplina”. Destino comune generalmente a quei popoli, ricchi o non ricchi, cui la virtù – in senso precipuamente machiavellico – abbia fatto difetto.

[17] È sicuro comunque che anche in una dimensione ridotta, una politica (quasi esclusivamente) interna richiede comunque dati e sensibilità apposite, non riducibili alla dirittura morale o alle capacità imprenditoriali.

[18] Un esempio letterario ne è la conclusione del Tartuffe di Moliére, in cui il Re Sole “cassa” motu proprio l’ingiusta sentenza nei confronti di Orgon.

[19] È chiaro che nella concezione di Montesquieu c’è anche (ma assai di più) quella dell’ordinamento di Santi Romano, che è comunque un’idea squisitamente giuridica.

[20] Proprio Saint-Just, in parecchi passi, testimonia la considerazione di un pensiero borghese “forte” e in ascesa per gli “esecutori” della volontà nazionale espressa nella loi: “Quiconque est magistrat, n’est plus du peuple… Les autorités ne peuvent affecter ancun rang dans le peuple. Elles n’ont de rang que par rapport aux coupables et aux lois… Lorsqu’on parle à un fonctionnaire, on ne doit pas dire citoyen ; ce titre est au-dessus de lui » Fragments sur les Institutions républicaines, III, 4.

[21] Mentre è possibile punire il cittadino (o i cittadini) che trasgrediscono, non lo è, di fatto, quando costituiscono la larga maggioranza, e quando i comportamenti non “virtuosi” sono altrettanto  diffusi. Vale in tal caso comunque la regola Kantiana che il Sovrano non ha doveri suscettibili di coazione (cioè giuridici). Il che non esclude quelli non-giuridici e l’uso di strumenti non coattivi.

LA SINISTRA ALLE PRESE CON LA NAZIONE, L’EUROPA ED IL MONDO, di Pierluigi Fagan

Qui sotto un interessante saggio di Pierluigi Fagan (PF), con relativo link al sito originario di pubblicazione. L’argomento (la sinistra, la nazione e la geopolitica) prosegue sulla falsariga di saggi già pubblicati su questo sito e ovviamente sul blog dell’autore. Per accedervi è sufficiente digitare sulla voce dossier del menu in alto e sul nome dell’autore. Il tema è ricco di spunti; la finalità dell’autore è di contribuire a far uscire il dibattito e l’azione politica dei critici della Unione Europea dallo stallo abbarbicato com’è alle mere enunciazioni di principio e ad un approccio meramente negativo della proposta politica, specie della componente sinistrorsa. La chiosa non intende essere una critica al testo, quanto piuttosto un tentativo di focalizzare schematicamente alcuni punti sui quali sviluppare un dibattito proficuo.

Fagan in particolare, nella fase di multipolarismo complesso in via di affermazione:

  • ritiene imprescindibile il problema della dimensione degli stati nazionali. Una posizione nient’affatto scontata; sono numerosi i fautori della tesi che attribuisce anche agli stati più piccoli, purché attrezzati con una adeguata classe dirigente, significative condizioni di agibilità
  • le dinamiche geopolitiche sono altrettanto importanti delle dinamiche tra le classi sociali; anzi, una condizione ottimale nelle prime consente una migliore gestione delle formazioni sociali. In questo ambito il dibattito generale spazia tra la priorità attribuita alle dinamiche sociali e i rapporti tra stati, tema tipico della sinistra e della estrema destra e l’esclusività attribuita ai rapporti geopolitici tra stati e istituzioni, tipica degli analisti geopolitici. Nel mezzo, a dar man forte all’approccio “complesso” offerto da Fagan, trova posto a pieno titolo, come promettente chiave di interpretazione delle dinamiche politiche, la teoria lagrassiana del conflitto strategico tra centri decisori
  • affronta la questione fondamentale riguardante l’approccio al rapporto con l’Unione Europea con una importante delimitazione. Il suo discrimine riguarda non solo i sostenitori duri e puri della UE, ma anche i cosiddetti riformatori. Le possibili posizioni dipendono in pratica dalle combinazioni possibili delle relazioni tra gli stati europei eventualmente aggregati in aree omogenee
  • vede nella Francia il baricentro della costruzione europea. Una posizione originale rispetto alle tesi prevalenti che attribuiscono alla Germania il primato politico oppure agli Stati Uniti l’assoluta predeterminazione della costruzione e degli indirizzi politici comunitari.Una ricostruzione storica delle vicende comunitarie può sembrare un puro esercizio accademico; serve in realtà a determinare le dinamiche e il peso dei vari decisori. La letteratura, al netto dell’agiografia, offre diversi punti di vista. Uno di questi, ben presente nella ricerca francese e statunitense, attribuisce alla classe dirigente “sovranista” francese la volontà di sostegno al progetto comunitario nella misura in cui fosse stata la Francia, con inizialmente la Gran Bretagna, a determinare gli indirizzi. In soldoni, nella misura e nei momenti in cui sarebbe apparsa sempre più chiara l’assoluta influenza americana e la sua volontà di sostenere la Germania in funzione antifrancese e antibritannica e come importante risorsa antisovietica, l’afflato comunitario della Francia sarebbe a sua volta venuto meno. Con due eccezioni importanti tra le quali l’azione dell’oestpolitik tedesca negli anni ’70 che indusse i francesi a sostenere l’ingresso della Gran Bretagna
  • consiglia di prendere atto della progressiva formazione di più aree europee politicamente autonome per individuare in quella latino-mediterranea, il possibile coagulo di forze capace di sostenere il confronto.    

Si attendono sviluppi e contributi_Buona lettura_Giuseppe Germinario 

 

LA SINISTRA ALLE PRESE CON LA NAZIONE, L’EUROPA ED IL MONDO.

Tra un anno si va a votare per l’Europa. Su Micromega, G. Russo Spena (qui), sintetizza le posizioni in cui si divide la sinistra europea.

La prima posizione è sostenuta da Linke (Germania) e Syriza (Grecia), dove però la posizione greca rispetto ai diktat della Troika, non ha mostrato apprezzabili pratiche politiche  alternative. Cambiare l’UE dal di dentro con intenti progressisti, la difficile linea.

C’è poi Varoufakis ed il suo Diem25 sostenuto dai sindaci Luigi de Magistris e Ada Colau, oltre a Benoit Hamon,  fuoriuscito dal partito socialista francese ha creato il movimento Génération-s – e da altre piccole forze provenienti da Germania (Budnis25), Polonia (Razem), Danimarca (Alternativet), Grecia (MeRA25) e Portogallo (LIVRE). Sinistra transnazionale che vuole democratizzare l’Europa.

Infine, ci sono Bloco de Esquerda portoghese, Podemos spagnolo e France Insoumise francese che hanno firmato assieme la Dichiarazione di Lisbona a cui ha successivamente aderito anche l’italiano Potere al Popolo. Anche qui si vuole costruire un contropotere democratico all’Europa neo-ordo-liberale.

Tutti e tre gli schieramenti mostrano un nuovo interessante fenomeno che è quello del dialogo e del coordinamento tra forze politiche di più paesi. Da tempo lo facevano le forze conservatrici, liberali e socialdemocratiche ovvero le forze di governo, quelle che governano nei rispettivi paesi e quel poco che si decide al parlamento europeo. Interessante che ora anche la sinistra quasi sempre di opposizione (Bloco de Esquerda è l’unica forza al governo oltre a Syriza) faccia i conti con il formato inter-nazionale.

Tutti e tre gli schieramenti, si ripromettono sia la democratizzazione delle istituzioni europee, sia l’inversione delle politiche neoliberali che le hanno contraddistinte. Il secondo schieramento, quello di Varoufakis, più che inter-nazionale, è trans-nazionale nel senso che a quanto par di intuire, si ripromette di costruire una unica forza politica contemporaneamente presente in più paesi, posizione molto in auge negli ambienti federalisti.

Il terzo schieramento invece, si è trovato subito diviso, una divisione però sopita e rimandata, tra il famoso “Piano B” di France Insoumise e Podemos. I francesi si sono presentati alle ultime presidenziali con un programma corposo “L’avvenire in comune”, nel quale hanno declinato 83 tesi in 7 sezioni. Nella tesi 52, presentavano l’ipotesi subordinata “Piano B”. Si trattativa dell’alternativa all’eventuale (certo) fallimento dei tentativi di correzione della politica europea, l’ultima ratio era la rescissione unilaterale francese dei trattati. Come molti avevano notato ai tempi del referendum greco, le trattative politiche si basano su i rapporti di forza e chi aspira a contrastare il potere dominante deve poter -ad un certo punto- mettere sul piatto l’opzione alternativa, quella che rovescia il tavolo. Senza questa minaccia o concreata alternativa, inutile sedersi a far qualsivoglia trattativa, trattasi di verità negoziale a priori.

Il Piano B francese era “o cambiamo l’UE-euro o usciamo”, rimaneva aperta una successiva  possibilità in cui la Francia sovrana avrebbe poi  stretto patti cooperativi e di collaborazione in ambito educativo, scientifico, culturale. Questa era la tesi 52, la 53 invece, iniziava con un “Proporre un’alleanza dei paesi dell’Europa meridionale per superare l’austerità e lanciare politiche concertate per il recupero ecologico e sociale delle attività” che è appunto ciò che hanno fatto a Lisbona. Con ciò terminava la quarta sezione e si passava alla quinta. La quinta sezione si apriva col titolo “Per l’indipendenza della Francia” e quindi dava outline di ciò che la Francia avrebbe potuto e dovuto fare sia nel mentre rimaneva nelle istituzioni europee, sia a maggior ragione e con più convinzione dopo l’eventuale applicazione dell’opzione nucleare che portava al Piano B, l’uscita unilaterale. La tesi 63, metteva in campo idee concrete di cose ed iniziative  da promuovere  nel bacino Mediterraneo, un Mediterraneo braudeliano quindi considerato sia per la sponda europea (Portogallo, Spagna, Francia, Italia, Grecia), che per quella nord-africana (Marocco, Tunisia, Algeria, Libia). Il senso dell’intera questione manteneva una certa ambiguità tra questi tre livelli: Francia sovrana, Francia cooperante con i paesi latino-mediterranei nella lotta contro ma dentro l’UE, Francia perno di un nuovo sistema mediterraneo come già Sarkozy ma anche molti altri francesi avevano pensato in passato, ancora dentro l’UE ma a maggior ragione se fuori.  L’ editoriale del numero in edicola di Limes, rimarca pari ambiguità in Macron quando questo sembra superare di slancio il principio di non contraddizione nel sostenere al contempo la Francia sovrana ed uno stadio superiore di Europa federale.

Podemos, pur avendo firmato la Dichiarazione di Lisbona, pare stia ancor tentennando suDiem25 ma più che altro è interessante sottolineare come Iglesias abbia del tutto escluso la condivisione del Piano B di France Insoumise. Al di là delle opinioni specifiche di Podemos sull’euro, Iglesias ha specificato che in Spagna c’è un forte per quanto vago ultramaggioritario sentimento europeista, lo stesso che posso testimoniare personalmente vivendo lì una parte dell’anno, hanno i greci.  Sentimento europeista non vuole affatto dire adesione a questa UE o a questo euro, si tratta di una intuizione più culturale che politica.

Molta parte dell’opinione pubblica europea, è come se avvertisse che i tempi impongono il fare una qualche forma di fronte comune. Il sentimento è forte nel suo radicamento ed al contempo debole nella sua razionalizzazione, unisce i convinti supporter dell’attuale stato di cose, quanto i suoi più convinti critici oltre che ovviamente gli indecisi ed i confusi che sono la maggioranza. Vedi Trump, vedi Putin, vedi Xi Jinping, i britannici che si mettono in proprio, senti di bombe atomiche coreane, terroristi arabi, migranti africani o asiatici, la incombente matassa intricata della “globalizzazione”, l’incubo delle nuove tecnologie, il temuto collasso ambientale e ti viene facile pensare che davanti a tanta minacciosa complessità, l’unione fa la forza e da soli non si va da nessuna parte. Il passaggio da “unione” come spirito vago ad “Unione” come istituzione precisa è garantito dal meccanismo di analogia che abbiamo nel cervello, “sembra” proprio che l’uno risponda all’altro. Vale per le élite, per i medio informati ma anche per coloro che usano più neuroni della pancia che quelli della scatola cranica. Chi si muove politicamente in forma critica sulla questione europea dovrebbe tener conto di questo diffuso sentimento se non altro perché chi fa politica deve aver per interlocutore pezzi di popolazione prima che l’avversario ideologico. Si fanno discussioni con gli amici ed i nemici ideologici davanti a pezzi di popolazione perché il fine politico è conquistare cuori e menti di questi secondi. Dai temi che tratta al linguaggio che usa, questa avvertenza di parlare sempre alla generica popolazione, è del tutto ignorata dalla sinistra che oggi si interroga su dove mai sia finito il suo “popolo”.

Sembra quindi che France Insoumise abbia costruito una posizione a cerchi concentrici di definizione. Il cuore a fuoco è la battaglia contro questa UE ed euro, la corona interna meno a fuoco è la ricerca di alleanze organiche con forze politiche latino-mediterranee da cui la Dichiarazione di Lisbona, la corona esterna ancora meno a fuoco un po’ sciovinista e molto “francese”, è l’idea in fondo guida di una Francia sovrana al centro di cerchi concentrici di cooperazione asimmetrica che arriva fino a pezzi della Françafrique. Questa ultima posizione occhieggia a più vasti settori dell’opinione pubblica francese, inclusi pezzi di classe dirigente ed è forse merito di questa ampia vaghezza se France Insomise ha preso quasi il 20% al primo turno delle presidenziali. Se Mélenchon declina questo target a fasce concentriche che sembrano volersi distaccare dall’UE, Macron declina la stessa geometria egemonica  rivolta verso più UE[1].  Come mai, pur da sponde opposte, i due francesi si agitano tanto occupando più posizioni al contempo e lasciando intendere tutto ed il suo contrario?

Svegliatici, occorre dircelo, tutti un po’ tardi rispetto a ciò che si era stabilito a suo tempo nel trattato di Maastricht (che ricordiamolo è del 1992), l’analisi critica si è soffermata su gli aspetti economici e monetari, tra neo-ordo-liberismo e posizione dominante tedesca. Ma se andiamo a ritroso del registro storico, si vedrà come tutto ciò che precede Maastricht e l’euro  (ed inclusi questi) a partire dall’immediato dopoguerra, ha il suo baricentro non in Germania ma in Francia. E’ la Francia a promuovere la CECA, è la Francia a non approvare la riforma decisiva che avrebbe potuto dare un futuro politico all’Europa ovvero la CED (approvata già dai Benelux e dalla stessa Germania), è la Francia e non far entrare la Gran Bretagna in UE per poi ripensarci ed è lei stessa a sospendersi dalla NATO per diventare potenza atomica per poi ritornarci, è De Gaulle ad invitare Adenauer a Parigi per sancire il trattato dell’Eliseo (1963) quindi fissare formalmente la diarchia regnante l’europeismo, e così via fino allo stesso Maastricht e l’euro che nascono come  contropartita richiesta alla Germania per il via libera dato alla sua preoccupante riunificazione. I tedeschi, si sono limitati ad imporre la struttura economico-monetaria ai trattati, struttura che per altro avevano già nella loro Costituzione dal 1949 e dalla quale non avevano la minima intenzione di derogare perché fonda la loro nazionale narrativa post-bellica, soprattutto come spiegazione dell’irrazionalità da cui sorse il nazismo. Secondo questa narrativa, il nazismo venne dall’eccesso di inflazione.

Questo ci ha portato altrove a definire il progetto europeista, primariamente un trattato di pace tra Francia e Germania, stante che nei due secoli precedenti, questi campioni della potenza europea, si erano già combattuti e reciprocamente invasi più volte. Il  problema del confine tra Francia e Germania con tutto il portato di carbone, acciaio, metallurgia e siderurgia (quindi armi), è una costante geopolitica ovvero basata sulla politica (gli Stati, la volontà di potenza) e la geografia (confine in comune, passato indistinto, assenza di chiari segni geografici di separazione). Se Mélenchon si agita verso più autonomia e Macron verso più integrazione, l’uno pensa che la relazione con la Germania sarà sempre subalterna, l’altro pensa di poterla dominare o quantomeno contrattare secondo la tradizione del dopoguerra, il punto in comune è la Francia, la sua posizione nei prossimi decenni. Si noti come in tutta la questione europeista si incrocino sempre due assi, quello degli interessi delle classi sociali e quello degli interessi delle nazioni. Ogni governante sa che maggiore è il vantaggio portato alla propria nazione, più relativamente agevole sarà gestire i rapporti tra le classi sociali.

Tutta la faccenda europeista, se da una parte discende dal problema dei confini e dalla turbolenta convivenza dei due potenti vicini, non meno certo che da considerazioni ed interessi dell’ economia di mercato e della élite che ne beneficiano, discende anche da alcune non sbagliate considerazioni che si trovano nel Manifesto di Ventotene non meno che in Carl Schmitt, in Alexander Kojève non meno che nel primo scritto europeista del poi diventato leggenda nera principe Coudenhove Kalergi, la PanEuropa. Questi e molti altri, che data l’estrema eterogeneità non possono dirsi discendenti di una unica ideologia (ci sono accenni di Stati Uniti d’Europa addirittura in Lenin), evincono sin dai primi del Novecento che oggettivamente Europa non è più un campo di gioco unico in cui si riflettono le sorti del mondo. Gli Stati Uniti, il Giappone, la Cina, la Russia, il mondo arabo su fino all’India, segnano il prepotente allargamento del rettangolo di ogni gioco, politico, geopolitico, culturale, militare ed ovviamente economico. Lo spettro largo di queste riflessioni dura un secolo ed è la versione più colta del sentimento “unionista” di senso comune di cui abbiamo parlato prima.  Improbabile che Europa, dove a fronte di un 7% delle terre emerse si concentrano ben il 25% degli Stati mondiali, possa continuare a pensarsi come una macedonia conflittuale di stati e staterelli di più o meno antico pedigrèe. La doppia tenaglia anglosassone e sovietica per più di quattro decenni, ha reso presente a tutti come la divisione fa imperare altri soggetti, la sovranità prima ancora che monetaria, fiscale e giuridica, la si è perduta militarmente, quella politica ne è solo la conseguenza. Questo ci dice che se prima abbiamo individuato due assi ora ne dobbiamo mettere un terzo, oltre alla lotta tra le classi di una nazione e quella tra le nazioni europee tra loro, c’è anche da considerare che il quadrante di gioco non è più solo quello sub continentale ma quello mondiale.

Torniamo così al nostro discorso principale. Chi si propone di democratizzare l’UE temo stia perdendo altro tempo. Mi domando se “più democrazia” sia una invocazione infantile che serve ad acchiappare voti agitando il nobile drappo dell’autogoverno dei popoli o un preciso piano. In questo secondo -improbabile- caso, mi domando come pensano questi neo-democratici di risolvere il problema dell’oggettiva differenza che corre tra popoli latini e mediterranei e popoli germani e scandinavi, tra gli euro-occidentali e gli euro-orientali. Se domattina Mago Merlino con la bacchetta magica ci donasse il parlamento dell’euro a cui sottomettere la politica della banca centrale, i mediterranei  avrebbero la maggioranza dei 2/3, se ben convinti (e ci sono oggettivi interessi materiali nazionali a largo spettro a supporto) potrebbero far passare la riforma dell’euro facile-facile. Un millisecondo dopo la Germania, l’Olanda, la Finlandia, Lussemburgo ed i tre baltici uscirebbero.  Lo stesso varrebbe per la maggioranza italo-francese nell’eventuale parlamento della piccola federazione dei sei paesi fondatori la CEE-UE.  Così per lo statuto dell’euro ma anche per le altre necessarie riforme economiche e sempre evitando la politica estera che con la sua radice geografica, pone i mediterranei e quelli del Mare del Nord su sponde opposte, interessi diversi, prospezioni ed alleanze altrettanto diverse. Per avere democrazia ci vuole -al minimo- una Costituzione un parlamento, un governo, l’unione dei tre poteri di Montesquieu ed in definitiva niente di meno di uno Stato. Questo Stato che è l’unico sistema conosciuto in cui applicare la democrazia, a 6 se a base storica (?), 19 se su base euro o a 27 se su base UE, non è materialmente possibile per motivi auto-evidenti che i “democratici” non capisco perché si ostinino a non voler vedere. Se per fare un mercato si può essere 19 o 27 e pure eterogenei, per fare uno Stato sono richieste omogeneità giuridiche, culturali, religiose, linguistiche, storiche, politiche. Ogni volta che il sistema di mercato (UE) tenta di fare lo Stato si spacca, ma non lungo le linee ideologiche, lungo le linee geo-storiche. Ancora di recente, Macron si è speso per l’intensione (più governante quasi-federale) e Juncker ha invece ribadito l’estensione (ci sono molti paesi nel sistema, sarebbe più utile allargare il sistema ad altri paesi ad esempio i balcanici), perché le logiche per fare Stati o quelle per fare mercati sono intrinsecamente diverse.

Nessuno vuole in Europa uno Stato federale (anche perché materialmente irrealizzabile), quindi nessuno è in grado di sottomettersi a volontà generali che diventerebbero potere di popoli su altri popoli. Tra il disprezzo nei confronti dei mediterranei ed il ricambiato odio per i tedeschi o l’ironia svagata su quanto si sentono furbi i francesi senza esserlo davvero, mai come oggi stanno tornando in auge sentimenti nazionalistici che categorizzano molto sommariamente l’Altro. Far finta che non esistono i popoli o gli Stati o la storia o la geografia non aiuta, non appena si spinge troppo sull’inflazione retorica unionista, ecco spuntare subito il rimbalzo sovranista. Ma il peggio è che unionisti e sovranisti si disputano il gran premio della chiacchiera perché tanto né sembra si possa andare a più unione, né tornare alla nazione e ciò che impera, alla fine della fiera, è sempre e solo la Commissione, la BCE, i “Nien!” tedeschi. Tra il grande ed il piccolo Stato, alla fine vince sempre il Mercato.

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Siamo nel doppio vincolo, da una parte vorremmo esser più forti ed unirci ma la nostra estrema eterogeneità lo rende impossibile, dall’altra vorremmo ripristinare una accettabile democrazia e tornare a decidere noi sul “che fare?” il che però ci riporta in teoria ai nostri singoli stati che già oggi ma viepiù fra trenta anni, varranno quanto il due di coppe a briscola quando regna bastoni. Strappare più sovranità oggi, significa perderla senza speranza nell’immediato domani del commercio internazionale, della circolazione dei capitali, della dittatura dei mercati, delle nostre fragilità economiche, dei diktat anglosassoni sulla NATO, delle crescente minorità politica di nazioni piccole, sempre più anziane, sempre meno competitive e significative nello scenario mondo.

In questo dilemma che a volte si presenta come trilemma (dentro la nazione, tra le nazioni europee, nazioni europee vs resto del mondo) la sinistra ha forse una opportunità per quanto la confusione mentale ed ideologica oggi occulti proprio ciò che ha davanti a gli occhi.

Se gli otto paesi firmatari del distinguo rispetto ai sogni devolutivi macroniani sono tutti del nord Europa (inclusa la Germania dietro le quinte), se il gruppo di Visegrad unisce stati orientali confinanti ed eterogenei uniti però nel distinguersi rispetto ai dettami occidentali franco-tedeschi, se la Dichiarazione di Lisbona è firmata dai meridionali portoghesi, spagnoli, francesi ed una particella di italiani è perché l’Europa è fatta di popoli ed i popoli di culture, di storie sovrapposte su un piano geografico costante che unisce alcuni e separa altri. Sono le culture l’ordinatore che consente e non consente le eventuali fusioni tra Stati-nazione in Europa. Nessun paese latino mediterraneo avrebbe grossi problemi ad avere una banca centrale che fa quello che ogni banca centrale al mondo fa (espansione economica, controllo del cambio, aiuto nella gestione del debito pubblico oltre al fatidico controllo dell’inflazione), non così i tedeschi e la loro area egemonica nord europea. E lo stesso gruppo dei latini certo che ha interessi geopolitici comuni verso il Mediterraneo, il Nord Africa ed anche il resto del continente che s’affaccia sul nostro stesso mare (per non parlare delle opportunità di sistema con il Centro-Sud America), quindi interesse ad unire le forze in qualche modo. Interessi diversi da quelli germano-scandinavi o dei confinanti con la Russia.

Tra paesi latino mediterranei si possono fare alleanze senza speranze che si battano per una diversa UE, si possono promuovere  maggior livelli di integrazione e cooperazione fattiva mentre si rimane nell’UE, ci si può dar man forte per coordinare una simultanea uscita dall’euro tornando a chi ci crede alle rispettive valute o per uscire tutti dall’euro tedesco e confluire  in un altro euro mediterraneo espansivo, svalutabile, di aiuto alle gestione dei debiti pubblici (soprattutto quelli collocati all’estero, estero che a quel punto avendo nel nuovo sistema sei diversi paesi, diminuirebbe come impegno nel caso lo si volesse ricomprare per immunizzarsi dagli spread, come è in Giappone), sottomesso non ad un trattato ma ad un parlamento democraticamente rappresentativo.

Nel rompicapo europeo non ci sono soluzioni facili e questa invocazione di un insieme latino-mediterraneo non è esente da problemi. Si tratta però di scegliere la via meno problematica e sopratutto quella che apre a maggiori condizioni di possibilità. La comune cultura latino-mediterranea è l’unica solida base per cominciare a sviluppare progetti politici inter-nazionali per tempi che stanno velocemente scalando indici di complessità sempre meno rassicuranti. Ci conviene oltremodo svegliare tutti dal sonno dogmatico che vuole unioni a 27 o a 19 senza che sussistano gli indispensabili pre-requisiti per farlo, così come ci conviene essere realisti e responsabili e cominciare a pensare  che nel mondo nuovo paesi solitari da 60, 40, 10 milioni di abitanti avranno sovranità men che formali. Coordinarsi tra simili per criticare, provare a cambiare o abbandonare l’euro non meno che la NATO, è condizione necessaria, il fine preciso lo valuteremo assieme, intanto fissiamo il mezzo.

Non esiste una sinistra senza una Idea ed in tempi così complicati, far base su un substrato comune di origine geo-storico, quindi culturale, quindi popolare e reale, a noi sembra il modo migliore per far si che la sinistra torni a pensare e ad agire politicamente. Se le opinioni specifiche su UE, euro e vari tipi di progetti avanzati da più parti fanno perno su quel sentimento istintivo che pensa necessario unire le forze tra alcuni di noi, dare a quel sentimento la prospettiva più limitata e perciò più concreta dell’alleanza progressiva tra noi mediterranei europei (per i paesi-popoli musulmani mediterranei il discorso verrà fatto dopo, non si possono fare progetti di unione federale con paesi del nord Africa, ora), può aiutare a darci identità, egemonia nel dibattito pubblico, spinta creativa a disegnare il mondo che verrà, voglia di tornare a fare politica. Se la sinistra nasce nel conflitto sociale interno, oggi deve anche misurarsi con il formato Stato-nazionale, coi rapporti interni all’Europa che sono tra nazioni prima che tra classi e col problema di ciò che è fuori dal nostro antico mondo. L’Idea deve orizzontarsi su tutte e tre le variabili altrimenti rimane idealismo, inutile sequenza di petizioni di principio e non progetto.

La sinistra uscirà dalla sua crisi quando dimostrerà di avere un progetto positivo sulla realtà, alla funzione critica si può aderire scrivendo e comprando libri (una delle principali attività della sinistra), ma non si costruisce realtà con la “potenza del negativo”. La sinistra nata dal conflitto di classe deve sapersi riattualizzare davanti ai tre scenari sistemici mai davvero trattati in profondo dalla sua pur voluminosa produzione teorica: nazione, Europa, mondo. Niente progetto, niente sinistra.

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[1] Il Piano Macron è stato presentato a settembre 2017 alla Sorbona. Le “corone” del piano Macron erano sicurezza, difesa e politica estera, tre argomenti che si fondono come interesse francese ad agire negli “esteri” identificando l’interesse francese con quello europeo. La partecipazione francese, almeno “ideale”, al bombardamento in Siria e l’orgogliosa rivendicazione valoriale che ne ha fatto Macron il 17 aprile a Bruxelles, confermano di questa vocazione del francese ad intestarsi la funzione esteri. (Sullo sviluppo del business della difesa, si veda questo contributo di B. Montesano su Sbilanciamoci: http://sbilanciamoci.info/difesa-europea-business-della-sicurezza/ a rimarcare la costante ambiguità per la quale non si parla di esercito comune ma di business comune). Oltre ai tre argomenti “estero”, il piano Macron ha ambiente e ricerca tecnologica dove quest’ultima segna una delle croniche debolezze europee. Nessuno stato europeo è effettivamente in grado di mobilitare investimenti significativi in grado di competere con quelli americani e cinesi, mancanza che poi si riflette nelle minori condizioni di possibilità economiche e mancanza di indipendenza in un settore strategico. Infine, l’euro che Macron vorrebbe riformare con un comune bilancio e conseguente allineamento fiscale e con unico ministro delle Finanze.  Difficile che anche volendo (e sull’esistenza di questa volontà è lecito nutrire parecchi dubbi), la Germania in cui le due forze politiche in ascesa e che controllano già oggi un quarto dell’elettorato sono i Liberali euroscettici ed AfD apertamente xenofoba, aderisca al progetto se non rendendolo ancora più ambiguo tra la sua forma narrativa e la sostanza ben meno palpitante. Chissà quindi se ci sono proprio i tedeschi dietro la presa di posizione del 6 marzo, in cui otto paesi euro (Finlandia, Irlanda, Olanda, i tre baltici, Svezia e Danimarca ultimi due non in Eurozona e si tenga conto che fuori Eurozona c’è poi su posizioni simili anche il Gruppo di Visegrad) hanno pensato necessario dichiarare assieme l’assoluta contrarietà ad ulteriori devoluzioni dei poteri nazionali, bocciando in sostanza il piano Macron. A sentire le dichiarazioni di Merkel in preparazione del vertice con Macron sembrerebbe proprio di sì, i settentrionali  non vogliono alcun sistema politico comune coi meridionali, non si capisce perché i meridionali non ne prendano atto e ne traggano conclusioni.

Neo-costituzionalismo, di Luis Maria Bandieri

Lunedì 23 aprile abbiamo pubblicato un saggio di Teodoro Klitsche de la Grange dal titolo “Presentazione a “Dallo stato di diritto al neo-costituzionalismo” http://italiaeilmondo.com/2018/04/23/presentazione-a-dallo-stato-di-diritto-al-neo-costituzionalismo-di-teodoro-klitsche-de-la-grange/. Come deducibile dal titolo si tratta di una chiosa ad un testo del Professor Bandieri sul tema del neocostituzionalismo. Per offrire una migliore comprensione degli argomenti di de la Grange riproduciamo qui sotto il testo di riferimento debitamente tradotto dal francese. Buona lettura_Giuseppe Germinario

NEO-COSTITUZIONALISMO

Qualsiasi consenso sarà sempre la pallida realizzazione di un intimo desiderio totalitario,il desiderio di unanimità (Javier Marias Un coeur si blanc) In materia di costituzionalismo, il XXI secolo sta tradendo il sec. XX. Nel secolo passato, attraverso una serie d’avvenimenti drammatici e di risoluzioni tragiche che hanno lasciato il loro strascico di morte e di dolore,una creatura del XIX sec, lo Stato di diritto, si era imposto come una figura politica che si credeva e si rappresentava allora come definitiva. Questa creazione dava al diritto una forma politica, la forma-Stato che incarna il diritto fino a fondersi in esso, attraverso la quale il diritto stesso si trova a realizzarsi pienamente nell’elemento comune che veicola la legge, essendo questa da un lato posta come sinonimo di tutto il diritto e dall’altro presentandosi come il prodotto della creazione statale. Lo Stato di diritto del XIX secolo stato uno stendardo dispiegato contro lo Stato forte, il Machtstaat. Lo stato di diritto del XX secolo credette di risolvere una volta per tutte la tensione dialettica tra diritto e potenza, tra Recht e Macht, questa aporia sulla quale i giuristi si erano affaticati fino allora. D’altronde questa sintesi si realizzava forse più intenzionalmente che oggettivamente come lasciano intendere, per esempio, certi classici di quest’epoca, oggi dimenticati. Gerhard Ritter parlava così della “diabolicità del potere” come di una penombra ambigua e sinistra segnata dalla possessione, Friedrich Meinecke dedicò a questo tema un enorme volume nel quale esitava tra i due poli del dilemma anche se nell’ultimo paragrafo dell’opera, evitando di incrociare lo sguardo di sfinge del potere, egli consigliava ai potenti d’iscrivere sul loro petto lo Stato e Dio “se essi non vogliono che influisca su di essi questo demone di cui in assoluto, non è mai possibile disfarsi”. Hans Kelsen, infine, diluì questa dualità stabilendo l’identità tra diritto e stato e avvertendoci che colui che vorrebbe andare più lontano e non chiudere gli occhi si ritroverebbe di fronte “la Gorgona del potere” Ora in questo inizio di nuovo millennio si afferma e si sviluppa una nuova corrente di pensiero che pretende di superare questa vecchia aporia di cui i pezzi sparsi, sempre presenti nell’antico quadro costituzionale, erano nelle mani dei costituzionalisti vecchio stampo, per gettare le basi di una nuova concezione del diritto che per l’esaltazione dello “Stato Costituzionale”come conseguenza logica delle sue proposte annuncia finalmente la sepoltura del vecchio Stato di diritto. In questo studio speriamo di apportare una risposta sintetica a due questioni che abbiamo rilevato in margine ad una lettura attenta dei testi “neocostituzionalisti”:1) Lo Stato di diritto costituzionale è un nuovo paradigma che supera lo Stato di diritto? 2) Il neocostituzionalismo è una teoria giuridica che supera il costituzionalismo classico? Con l’espressione “Stato Costituzionale”o “Stato di diritto costituzionale” ci riferiamo a ciò che si propone per indicare le “società pluraliste attuali ,cioè le società dotate di un certo grado di relativismo” dove il solo “metavalore” (o “contenuto solido”) identificabile è precisamente quello della pluralità dei valori e dei principi, ovvero il precetto di imporre dolcemente la “necessaria coesistenza dei contenuti”10. Questa coesistenza è resa possibile per questo”artificio moderno che è lo Stato di diritto costituzionale” dove si produce una “doppia soggezione del diritto al diritto”11 nella forma come nella sostanza. Il diritto supremo che assoggetta tutto l’ordine giuridico, rinvia alla Costituzione, non a quella di ciascuna ordinamento nazionale ma a una costituzione cosmopolitica che culmina nella creazione di una “sfera pubblica mondiale”12 fornitrice di principi e di valori i quali rendono concreti i diritti dell’uomo in costante espansione. Il neo costituzionalismo è il supporto dottrinale dello Stato di diritto costituzionale che si sviluppa su tutto il pianeta. E non ne risulta, secondo le sue voci più autorevoli, una estensione dello Stato di diritto perché, “più che di una continuazione,si tratta di una profonda trasformazione che incide necessariamente sul concetto stesso di diritto”13. I suoi partigiani così assicurano che si tratta di un nuovo paradigma. Ricordiamo che “paradigma” – espressione divenuta talmente banale che richiede alcune precisazioni-indica secondo Thomas Kuhn l’insieme delle strutture concettuali e metodologiche che costituiscono l’orizzonte di una disciplina scientifica ad un certo momento. Quando un paradigma si è stabilito ed è divenuto l’oggetto di una accettazione generale e convenzionale in un campo di conoscenze, sopravviene un periodo di “scienza normale” dove i problemi e i modi per risolverli si collocano in anticipo attraverso il prisma di questo paradigma dominante. Ciò che allora è messo alla prova nella ricerca,non è la teoria che il paradigma esibisce ma l’abilità dello “scientifico” ad applicarla. Quando uno o più problemi definiti dal paradigma resistono agli operatori sopraggiunge un periodo critico chiamato “rivoluzione scientifica” che culmina con la nascita di un nuovo paradigma accettato a sua volta dai partecipanti all’attività scientifica .La storia di una disciplina si rivela come lo sviluppo di linee di spartizione successive correlativamente ai paradigmi discussi. Nell’intermezzo critico fra due paradigmi, gli adepti dell’uno o dell’altro parlano due linguaggi differenti. Si ha dunque bisogno di una traduzione del linguaggio dell’uno nel vocabolario dell’altro. Ora, giustamente, il paradigma dello Stato di diritto costituzionale -difeso dal neocostituzionalismo- non ha bisogno di traduzione e il suo linguaggio è condiviso dalla maggior parte dei costituzionalisti o dei filosofi del diritto, già sostenitori delle categorie del costituzionalismo classico. Costoro vi intravedono un ampliamento degli orizzonti dell’antica disciplina, ma non una rottura. Per ragioni differenti da quelle dei costituzionalisti classici, penso ugualmente che lo Stato di diritto costituzionale così come il neocostituzionalismo che ne è il supporto teorico non costituiscono una rottura epistemologica in rapporto alla teoria “classica” dello Stato di diritto e al vecchio costituzionalismo. Entrambi sono il prodotto della modernità con la differenza che lo Stato di diritto ne connota l’apogeo mentre lo Stato di diritto costituzionale ne sarebbe piuttosto il crepuscolo. In realtà non è nelle parole “Costituzione” o “diritto” ripetute a volontà dagli uni o dagli altri che appaiono i segni critici e la necessità di una “traduzione” ma nella formula interna di un termine giuridico dalla lunga storia: lo “Stato”; è in effetti lo Stato, in quanto forma politica che sembra essere entrato nel suo declino storico, ciò che ci porta a chiederci se il neocostituzionalismo non si riveli un modo di iniettare, nell’impostura generale, un vaccino di sopravvivenza alla statalità in rovina. Lo Stato di diritto, come l’ha spiegato Carl Schmitt14 è sicuramente centrato sulla legalità “il diritto è la legge e la legge è il diritto” ma comprende un elemento ontologicamente politico che, precisamente, è stato per lungo tempo, lo Stato. Questo elemento politico si manifestava nella “sovranità del popolo”, limitata e contenuta dai diritti dell’uomo e dalla separazione dei poteri, e nella possibilità che detiene, dal potere costituente, la decisione politica di dotarsi di una costituzione “positiva” nel senso che Schmitt stesso da a questa ultima espressione come specifica a un popolo in particolare15. Lo Stato di diritto costituzionale,in compenso,si presenta come un mezzo di neutralizzazione quasi totale dell’elemento puramente politico sotteso alla forma statale che è stata appena descritta ovvero che sopprime il potere decisionale del Principe. L’elemento politico(democratizzato) lo si trova ridotto al fugace istante del suffragio,alla scelta tra proposte definite prima dal marketing elettorale al punto che un celebre politologo argentino ha potuto caratterizzare lo Stato costituzionale come la “società più civilizzata e repubblicana che vi sia, ma che, di democratico nel senso stretto del termine…lo è sempre di meno”16. La Costituzione vi si trasforma ora in Costituzione globale,cosmopolitica,in diritto dell’individuo cosmopolita – das Weltbùrger-recht – ripreso in convenzioni e dichiarazioni locali o universali poi esteso (attraverso la via tortuosa dell’interpretazione) attraverso tribunali supremi non eletti. Lo Stato di diritto costituzionale priva di ogni contenuto politico la forma politica statale ma vuole continuare a chiamarsi “Stato”conservandone passivamente questo titolo allorché gli converrebbe senza dubbio meglio quello di “Costituzione senza sovrano”17 Zagrebelsky18 riassume il cuore delle argomentazioni di differenti giuristi tra l’una e l’altra delle formule seguenti. Nello Stato di diritto:diritto=legge=misura dei diritti; nello Stato di diritto costituzionale: Diritto=diritti fondamentali=misura della legge. Queste differenze possono in modo semplice riassumersi così:

 

Quando noi utilizziamo delle espressioni come “post modernità”o “post-positivismo” sappiamo che il prefisso post indica” ciò che viene dopo “ma ciò non vuole per forza dire che noi conosciamo questo “dopo” ed ugualmente che questo sia necessariamente distinto da ciò che precede .Tale è il segno delle epoche dove, per usare le parole di Heidegger, le divinità antiche si sono ritirate mentre le divinità nuove non si sono ancora manifestate. E il tempo dell’interregno la cui caratteristica secondo Ernst Junger è di “mancare di una verità ultima”19. La divinità che si spegne sotto i nostri occhi è la modernità, quella di cui siamo gli eredi che ci piaccia o no, e le cui categorie ci condizionano. Noi ignoriamo quale sarà la nuova era e le nuove divinità che le succederanno. Di contro ciò che noi possiamo osservare sono gli ultimi segnali di questa modernità che noi chiamiamo, in mancanza d’altro, la postmodernità e, come giuristi,gli ultimi soprassalti del positivismo – che denominiamo in mancanza di meglio – il postpositivismo. Il neocostituzionalismo è il nocciolo dottrinale del post-positivismo. Così osserviamo il fallimento progressivo della forma politica statale che fu l’ultima costruzione tecnico-giuridica della razionalità occidentale e di cui il neo costituzionalismo tenta di illuminare gli ultimi sprazzi. Questa modernità nella quale siamo vincolati proviene da due correnti di pensiero che hanno posto i loro fondamenti concettuali e le loro contraddizioni: l’illuminismo e il romanticismo. I dogmi sui quali posa la modernità sono i seguenti: l’autorealizzazione continua dell’individuo attraverso la ragione – il sapere aude -,il pensiero in se kantiano – per raggiungere la maturità e arrivare all’emancipazione; il ritorno mitico all’infanzia perduta e all’innocenza della natura essa stessa mitizzata; il progresso lineare, inesorabile e indefinito; la realizzazione dell’utopia, la possibilità di realizzazione di un altro mondo, distinto dal presente, dove si erigerebbe la città perfetta e dove si raggiungerebbe la pacificazione universale. La postmodernità giuridica dipende anche da questi dogmi,che hanno subito un certo lifting ma si conservano tali e quali. Nell’autorealizzazione dell’individuo espressa dai diritti di ultima generazione (l’immagine stessa di “generazione” evoca questa espansione indefinita): diritto alla disposizione assoluta e senza limiti sociali del proprio corpo, alla mutazione antropologica del “genere”, alla follia, alla vita, alla morte ecc-noi siamo arrivati alla decostruzione totale della relazione del soggetto e dell’oggetto. Al punto anche di poterla del tutto trascurare, malgrado il diritto moderno, fino allo stato di diritto, derivasse dalla distinzione cartesiana del soggetto e dell’oggetto – anche se, qui, il soggetto era piazzato sopra l’oggetto o per dirla diversamente, il soggetto era al centro e l’oggetto alla periferia (essendosi Cartesio così distanziato dalla filosofia classica dove c’era corrispondenza e non dipendenza dell’oggetto rispetto al soggetto). In effetti, per lo ius, il conflitto giuridico è una disputa sulla ripartizione dei beni della vita, materiali o simbolici. Dalla cosa disputata si estrae lo ius, il criterio di attribuzione proprio a ciascuno cioè la res justa. Concentrandosi sul soggetto, il cartesianismo alterava già questa relazione, ma la post-modernità l’ha trasformata in modo fondamentale. Con essa non resta più oramai che il soggetto solitario, titolare di diritti prima ancora di entrare in contatto con l’altro e di cui l’identità non deriva ormai che dalla sua volontà egoista. Questa costruzione e ricostruzione permanente del soggetto, personaggio esclusivo della scena giuridica la cui autorealizzazione reclama la disseminazione indefinita dei diritti soggettivi fondamentali si concretizza a mezzo dell’attivismo giudiziario e dell’agitarsi degli attori sociali impegnati (come le ong). Come sostenuto dai suoi partigiani, lo Stato costituzionale di diritto opera su principi teorici che esprimono insieme i valori incarnati dai diritti dell’uomo, in un processo circolare e in costante espansione. I principi “positivizzano quanto considerato prerogativa del diritto naturale: la determinazione della giustizia e dei diritti dell’uomo”20. I valori, in una società post-moderna sono così plurali e così relativi che devono coesistere e preservare le loro contraddizioni. Tale coesistenza di valori s’esprime “nel duplice imperativo del pluralismo dei valori (in ciò che riguarda l’aspetto sostanziale) e della lealtà del loro confronto antagonistico (per ciò che concerne l’aspetto procedurale”; riveste anche il ruolo di punto focale e indistruttibile di qualsiasi vita sociale, politica, giuridica “le supreme esigenze costituzionali… si congiungono all’intransigenza e… alle antiche ragioni della sovranità”21. E il fardello della comune preservazione dei valori contraddittori affermato dalla supremazia del pluralismo, ricade sui giudici che si servono a questo fine di un “diritto flessibile” e, utilizzando un’altra immagine, d’una dogmatica giuridica “liquida” o “fluida”22. Perché i giudici, nello Stato costituzionale di diritto, sono i “nuovi signori” di questo diritto flessibile e si sostituiscono al legislatore quale figura centrale dello Stato di diritto. Può allora parlarsi di governo dei giudici? Forse, ma non nel senso evocato dall’antico – ma non anacronico – caveat di Lambert23. Oggi l’espressione significa soltanto che la conflittualità politica si è spostata: dalle alleanze di governo con la loro legislazione alle maggioranze docili alla nomina dei giudici dei Tribunali supremi (Corti costituzionali o supreme); e, poi, nei gradini inferiori, alla manipolazione delle procedure per la nomina dei consigli dei magistrati e di altri organi simili, o ancora dell’addomesticamento dei giudici in servizio. Giudici già designati con procedure improprie (o anche fraudolente) nelle commissioni disciplinari o nelle commissioni di concorso – tutto ciò formalmente attestato nella recente storia giudiziaria dell’Argentina – per non citare che un esempio. Non si tratta quindi di un Governo di giudici, ma di governare i giudici. Più ancora il neo-costituzionalismo sembrerebbe tendere alla formazione di uno Stato giudiziario, dove l’ultima parola, la decisione sovrana, spetterebbe al giudice, non in applicazione di norme preventivamente statuite ma di principi. Come scriveva Carl Schmitt riguardo al potere giudiziario statale “a stento si può ancora parlare di Stato, perché l’ambito della comunità politica sarebbe occupato da una comunità giuridica, o almeno, a seconda dei casi, apolitica”24. Ma, come notavamo in precedenza, la pretesa di neutralizzare la politica e rimpiazzarla con un tecnicismo giudiziario frana per la natura delle cose. Perché allora il campo (o uno dei campi decisivi) verso il quale si concentra la conflittualità politica diviene il Tribunale, col risultato di politicizzare la giustizia e contemporaneamente di giudiziarizzare il politico. Ciò che esce dalla porta, rientra – rumorosamente – dalla finestra. Il ricorso alla distinzione tra atti amministrativi e atti politici, che permetteva d’invocare la non giudiziarizzazione di questi ultimi e stabilire – sotto forma di un accordo politico – un’area di self-restraint del potere giudiziario (estensiva o restrittiva secondo le circostanze da governare) già discutibile nella teoria dello Stato di diritto classico, ancor più è indifendibile con l’ortodossia dello Stato di diritto costituzionale. Col sottomettere tutto l’apparato normativo statale al controllo di legalità internazionale (conventionalité) e costituzionalità (per sottrarlo a decisioni aleatorie) lo Stato in quanto sostanza politica perde la sua coesione unitaria (entièreté) e, di conseguenza, ogni credibilità ontologica. L’idea di un consenso politico Il neo-costituzionalismo sottolinea, di rimando, che la dimensione politica del giudice post-moderno consiste nell’esprimere, colle sue sentenze, un “consenso razionale” tra valori contrapposti. La fonte dei principi messi in gioco per stabilire un siffatto consenso deriva dalla “tavola” (grille) dei valori dei diritti dell’uomo, che delimita una zona non negoziabile, “illimitata (hors-limites) e inviolabile”, che come spiega Garzon Valdes25 “esige eticamente l’intolleranza o se si preferisce la dittatura contro quelli che pretendono di invaderla”26. La politica odierna non sarebbe più capace di mediare i conflitti concernenti “valori essenziali” né d’esprimere un qualsiasi “consenso razionale”, mentre la politica giudiziaria, col suo strumentario (appareillage) tecnico ricolmo d’imparzialità, è presentata come la sola capace di padroneggiarla (maîtrise). Il “consenso” diviene così una delle parole feticcio di politici e giornalisti: “Governo e opposizione cercano consenso sulle misure da prendere per contenere il rialzo dei prezzi”, “I ministri degli Esteri dell’UNASUR hanno raggiunto il consenso per eleggere il segretario generale: “Per decidere si ricercherà il consenso con il resto degli eletti in Comune” ecc. ecc.. In ogni caso tale consenso somiglia all’unanimità. Questa ricerca (vogue) del consenso, e del vocabolario a questo connesso, può considerarsi l’eco lontana di una concezione filosofica – quella dell’ “azione comunicazionale” e della teoria consensuale della verità – nello stesso modo in cui si trova l’eco della grande letteratura in certe telenovelas. Tale formulazione, di cui Jürgens Habermas è uno degli ispiratori, pretende che – in un contesto ideale di linguaggio – si può ottenere un consenso morale e razionale attraverso la discussione libera e leale che consacrerà, ancor più, la verità di una proposizione (proposition). Nelle società pluraliste, dove si trova un nocciolo duro costituito dai diritti fondamentali tratti dalla Costituzione cosmopolitica, la quale difende l’antagonismo dei valori di cui garantisce la pacifica co-abitazione, il consenso morale-razionale dev’essere capace di pervenire per la sua verità e rigore all’assenso generale. In altri termini, la forza generatrice del consenso troverà un terreno più fertile nel giudice, signore del diritto che decide con calma a seguito di una discussione razionale ed equa, ascoltando gli interessati che nel legislatore (negoziatore della legge) costretto a “riunire” maggioranze con la distribuzione di prebende tra interessi organizzati. L’idea di un consenso politico che potrebbe superare l’insufficienza del principio maggioritario e così portare ad un’unanimità teorica, proviene come si sa da Rousseau. Se, a fianco della nostra volontà indirizzata dall’interesse particolare (la “volontà di tutti”), noi partecipiamo in quanto cittadini a un’altra volontà (la “volontà generale”, rivolta al bene comune) allora la legge votata dalla maggioranza – anche se si rivela contraria alla mia opinione – esprimerà quanto meno la mia partecipazione personale alla volontà generale. Mi sono così mutato in co-legislatore della legge cui obbedisco, e assoggettandomi, non obbedisco che a me stesso. Questo consenso umanimistico della volontà generale implica che al di fuori di tale consenso, la sola via sia l’esilio e che viene meno la distinzione politica di comando ed obbedienza, perché queste due funzioni si confondono nello stesso soggetto. Kant stesso è ritornato su tale consenso forzato, considerato da Bertrand De Jouvenel come “frode intellettuale inconsapevole”27. E’ perché la volontà generale non è più trasponibile nella nostra epoca che si spiega il cambiamento neo-costituzionalista, un consenso che passa dalla politica al diritto, dal legislatore al giudice, ma al prezzo di una marginalizzazione della politica e di uno sconvolgimento del diritto che finisce per fabbricare, partendo dai tribunali, delle “unanimità” altrettanto forzate della teoria maggioritaria della sovranità popolare. Tentiamo un altro approccio al consensus, che non abolisca la politica e renda ipertrofico il diritto, Torniamo a un classico come Cicerone, che elaborò tale concetto. Al posto di un consenso a costruire poi la società, si tratta di precederla costituendo il suo basamento fondamentale: il consenso non gli sarebbe posteriore, ma ne costituirebbe l’antecedente: non ne sarebbe il risultato, ma la precederebbe rendendola possibile. E’ il consenso di tutti (consensus omnium). Questo connota l’insieme delle credenze fondamentali tramandato di generazione in generazione; tale consenso unificatore “consente di fare liberamente ciò che le leggi obbligano a fare”28. Il legame di cittadinanza (civique) è unito al legame giuridico, al consensus juris, al consenso sul diritto, cioè su un comune sentire su ciò che è justum. Secondo l’Arpinate, il consenso su ciò che è giusto trasforma una moltitudine in popolo e da forma alla res publica, alla cosa pubblica, la cosa comune, la cosa di tutti. Il principale dovere civico consiste quindi nel sorvegliare il consensus juris fondatore delle res publica, depositario della sua realtà concreta come unità politica, in altre parole della sua costituzione originaria. E soltanto su tale base consensuale, e unicamente su essa, ch’è possibile stipulare accordi e compromessi per superare la conflittualità politica e realizzare la convivenza nella concordia. Come sosteneva Simmel ai suoi tempi, accordo e compromesso sono “una delle migliori invenzioni dell’umanità”29. Ma ogni accordo suppone il terreno comune d’un consenso unificatore preventivo, base della comunità politica accanto a questo bene comune che è il diritto. Il consenso è qui l’insieme delle credenze comunitarie fondamentali su cui può successivamente costruirsi l’edificio giuridico-politico. All’inverso il consenso neo-costituzionalista appare come una costruzione sociale e culturale, continuamente mutevole, di raggruppamenti eterocliti che hanno per scopo di preservare simultaneamente dei valori opposti ed eterogenei – senza mai preoccuparsi di uno spazio comune. In questo operare continuo, si corre il rischio di cadere nell’avvertenza ricordataci dal brillante romanziere spagnolo che ci ha servito d’epigrafe. Al di là delle intenzioni sicuramente lodevolissime dei loro attori, la produzione a ritmo accelerato di consenso per via giudiziaria può, malgrado il lavaggio mediatico dei cervelli, avverarsi solo con la fabbricazione a catena d’unanimità semplicemente virtuali e supposte con le quali – come scriverebbe Emil Cioran – si finisce per praticare un “assassinio per entusiasmo” dei principi fondamentali che si difendono. La filosofia dei valori, risposta al nichilismo. Un noto pensatore come Garzon Valdés sosteneva (forse solo a titolo di provocazione intellettuale e per “animare il dibattito”), che coloro che non comprendono l’importanza del complesso dei diritti e valori fondamentali che costituisce i “fuori limite”, saranno classificati come “incompetenti di base” e resteranno sottomessi alle decisioni di quelli che saranno, al contrario, ritenuti come pienamente competenti sull’oggetto. E’ il famoso “li si costringerà ad essere liberi” di Rousseau, salvo che oggigiorno, se i marginalizzati scegliessero l’asilo nello spazio pubblico mondializzato, troverebbero difficilmente un angolo dove rifugiarsi. Il filosofo argentino si riferisce sicuramente ai nazisti che preparavano la “soluzione finale”, o ai colonizzatori spagnoli ribelli alle leyes nuevas del 1542 sul trattamento umano e la protezione degli indiani. Ma, al di fuori dei grandi archetipi delle malignità che agiscono sotto il motto del Lucifero di Milton (“Male sii il mio Bene”), osserviamo quotidianamente nel mondo reale che la discordia non deriva dal rigetto in blocco dei “fuori-limite”, ma nasce tra avversari che accampano, a sostegno dei loro comportamenti, giustificazioni interne ai “limiti” (à ce hors-limites). I cattivi ordinari, in ogni caso, argomentano come dei buoni perdenti. Non si dice come potrebbe esercitarsi correttamente ed effettivamente questa dittatura dei competenti sugli “incompetenti di base” salvo che si avverte che solo i membri del partito dei neo-costituzionalisti vi saranno intrinsecamente qualificati. Il problema, come notato da Schmitt, rinvia conseguentemente al quis iudicabit? ovvero a chi avrà in ultima istanza, il potere di giudicare reprobi ed eletti, gli invitati all’agape del dibattito leal-idealista e i condannati alle tenebre? Quando proclamiamo la necessità d’una coabitazione di valori eterogenei, ci si rende conto che ciò non basta, a meno di nascondere soltanto il problema, invece di risolverlo. E’ per questa via metodologicamente indiretta che la confusione neo costituzionalista miscela i principi con i valori. Al termine della metafisica classica, la filosofia dei valori ha tentato di occupare il posto di un’ontologia moribonda30. In un notevole lavoro su questo tema Carl Schmitt precisava che fu all’inizio una “risposta alla crisi nichilista del XIX secolo”31. Il valore e la validità, riteneva dal canto suo Heidegger, arrivano a divenire un sostituto positivista della metafisica. I valori non sono essenze: “Non sono, ma valgono” e non significano niente al di là della relazione con il soggetto che valuta gli oggetti in relazione ai suoi desideri, ai suoi bisogni, alle sue preferenze ecc.. La nozione di “valore” non ha mai potuto sfuggire alla sua origine economica. Ogni valore suppone una competizione con altri valori: questa s’esprime sempre nel giudicare che l’uno è “migliore” dell’altro, il che comporta, per misurarla, il passaggio dalla qualità alla quantità. Parlare di valore significa quindi costruire – nel compromettente scenario d’un soggettivismo profondo – una scala e una “quotizzazione” mobile di tali o talaltri valori. E chi definisce un valore deve, insieme, definire un antivalore, un valore negativo. I valori, nota Schmitt «valgono così sempre contro qualcuno». Il problema si sposta allora su chi fissa le diverse coordinate della scala mobile dei valori, chi ha il potere di dichiarare che una cosa è migliore o peggiore di un’altra, il quis iudicabit? … Quando dal neo costituzionalismo si afferma che l’unico metavalore inamovibile è quello della preservazione del pluralismo, s’intronizza così una sorta di autorità obiettiva che avrebbe la capacità di decidere quali valori integrare nella diversità plurale da rispettare, e quali sono quelli che, all’inverso, dovranno essere iscritti nella lista dei valori da evitare, da non ammettere alla gara del consenso. L’idea di valore implica necessariamente una pluralità di giudizi comparativi che riafferma la sua dimensione soggettiva. Ma un pluralismo in cui tutti i valori si equivalessero non è altro che un “sogno della ragione” perché se tutto vale, se il ruolo della valutazione dei valori è giustamente di stabilire una scala e una gerarchia di valutazioni comparative allora non vale più niente e nessun “consenso razionale” è più possibile a partire da operazioni misurate su un insieme sistematicamente svalutato che non sposterebbe neppure l’ago della bilancia. Sarebbe erroneo, d’altro canto, immaginarsi di poter giungere al “consenso razionale” attraverso una disputa su valori opposti. Il fondamento di tale errore risiede nell’assimilazione, fatta dal neo costituzionalismo, tra principi oggettivi e valori soggettivi. Il diritto come arte della gestione e regolamentazione dei conflitti, ha da sempre fatto ricorso ai principi – i “principi generali del diritto” ecc. – perché i principi partono d’una evidenza originale indimostrabile, base di ogni dimostrazione oggettiva: essi non precedono dalla pura soggettività. Di più, i principi sono «pro-etici», ossia sono di guida, indicano, mostrano, consigliano, persuadono senza pretendere d’imporsi. Partendo da questi, è possibile trovare la formula di ripartizione più giusta ed equilibrata. Al contrario i valori sono “tetici”32 ossia s’impongono per essere esercitati. Il valore non ha altra evidenza che quella della propria soggettività, si difende e s’installa ostinatamente come una conclusione in se: si rivela, in definitiva “conflittogeno”, e se viene imposto mascherato dall’unanimità virtuale attraverso l’opera del consenso razionale, allora tenderà a far scoppiare il bellum omnium contra omnes. Globalismo giuridico e disarmo degli stati. Il programma neo-costituzionalista è sufficientemente egemonico per essere “applicabile a qualsiasi ordinamento, anche internazionale”33 Ferrajoli distingue a tale proposito due percorsi d’intervento. Il primo è “il superamento delle sovranità attraverso la rifondazione del sistema delle fonti e la proiezione, sul piano internazionale, delle istanze statali tradizionali delle garanzie costituzionali” … In altri termini: la diffusione planetaria della Costituzione cosmopolita e il ricalco delle decisioni giudiziarie supreme sul nocciolo duro dei valori e diritti a pretensione globale. Il secondo è: il superamento delle frontiere statali delle cittadinanze attraverso l’instaurazione d’una cittadinanza universale”. Ovvero l’elargizione definitiva della cittadinanza cosmopolita Kantiana per una sorta d’edittto di Caracalla planetario. Tuttavia, dato che le norme non s’impongono da sole, né le sentenze s’eseguono in forza della sola enunciazione (esigono una volontà e una coazione esecutiva per divenire effettive), sembra che occorra allora ricorrere al potere esecutivo politico. Ora, lo constatiamo un’ennesima volta, il neo-costituzionalismo da un colpo finale onde anestetizzare l’elemento politico che caratterizzava lo Stato di diritto classico, ossia il principio democratico della sovranità popolare. S’impongono una serie di valori e di diritti fondamentali indecidibili e inattaccabili dalla maggioranza e neppure dall’unanimità, allorquando si trasforma il giudice, compreso il giudice a competenza generale, in sovrano. E’ la politica che diventa uno strumento d’intervento del diritto, precisa Ferraioli34. E’ su tale percorso che viene proposto di cercare una “sfera pubblica globale” cosparsa d’ “istituzioni internazionali (giudiziarie) di garanzia” destinate ad applicare un minimum di diritto penale globale, il cui archetipo è la Corte penale internazionale (CPI) competente ai crimini contro l’umanità e organizzata dal Trattato di Roma del 17 luglio 199835. Questo nuovo obiettivo neo-costituzionalista, assai prossimo al “globalismo giuridico” dovrebbe essere accompagnato da riforme nel sistema attuale delle relazioni internazionali: “modificare gli organi dell’ONU, cominciando dal Consiglio di sicurezza … la progressiva sparizione delle forze armate, il rilancio del disarmo degli Stati, compresi i più potenti e riprendere gli interventi e stipulare convenzioni tutti orientati verso l’interdizione totale alla vendita e produzione di armi”36. Se si considera la questione di sapere chi dovrà eseguire le decisioni di queste istituzioni di garanzia, tenuto conto dell’interdizione progressiva della guerra, la corrente neo-costituzionalista evoca un “intervento di polizia internazionale (che) supporrà, essenzialmente un’opera di mediazione giuridicamente regolata, per le garanzie e i controlli processuali che il diritto comporta”37. La pretesa di neutralizzare la dimensione politica dell’uomo, qui mediante l’intermediazione del diritto, non è meno falsa ora che all’esordio. Essendo un dato che la dimensione politica è propria dell’uomo, volerla sopprimere equivale a disumanizzarla. Non è neppure necessario rammentare Aristotele: basta chiedersi se noi ci stiamo avvicinando alle divinità o abbassandoci alla mediocrità. Il diritto non può instaurare la pace. L’avvenire della pace universale promessa dal neo-costituzionalismo è ben nota. Hans Kelsen, al termine della seconda guerra mondiale, ce l’aveva descritto ne “La pace attraverso il diritto” la pace sarà stabilita attraverso il diritto. La pace sarà un diritto azionabile davanti ai Tribunali internazionali e la guerra, considerata crimine, sarà perseguita davanti a questi. Lo jus ad bellum, il diritto di ricorrere alla guerra sarà prescritto, e al posto suo, sarà posto uno jus contra bellum, che punirà la belligeranza. Si utilizzeranno le armi soltanto per mantenere o ristabilire la pace, in nome dell’umanità. Risorgeranno le guerre discriminatorie, dove il nemico sarà demonizzato come nemico dell’umanità e condannato alla distruzione totale. le guerre discriminatorie s’unificheranno e si presenteranno come una guerra civile unica, totale e perpetua, contro il “Male”, fino a quando non sarà definitivamente estirpato. Il territorio di questa guerra è senza confini. Copre tutto il pianeta. In questo mondo nuovo, nessuno può restare neutrale, perché la neutralità è necessariamente alleanza col nemico, ossia con il “Male”. E’ l’eccezione che diviene così permanente sotto la copertura della democrazia e del diritto. “Davanti all’irresistibile progresso di ciò che è stato definito come “una guerra civile mondiale” scrive Giorgio Agamben, “lo stato d’eccezione tende sempre più a presentarsi come il paradigma di governo dominante nella politica contemporanea”. Questo Stato d’eccezione, continua Agamben, “si presenta in questa prospettiva come una soglia d’indeterminazione …tra democrazia e assolutismo”38. La pace non si è stabilita attraverso il diritto, perché il diritto non può instaurare la pace. La può sostenere una volta stabilita, ma la pace costituisce l’esclusiva opera dell’alta politica. Come sottolineava Julien Freund, pace e guerra sono nozioni reciproche: è impossibile conseguire la prima senza tener conto della seconda e del nemico. perché la pace si fa col nemico, ha bisogno del nemico “la relazione tra pace e guerra è politicamente così stretta, scriveva Freund, che qualora si criminalizzi la guerra … si criminalizza anche la pace”39. Poco importa allora che le nuove operazioni militari sferrate per “ragioni umanitarie” siano denominate guerre od operazioni di polizia. In ogni caso, l’intervento diviene discriminatorio e demonizza il nemico considerandolo fuori dell’umanità, e per di più dando ragione a Tribunali istituiti per giudicare i vinti e consacrare la superiorità morale del vincitore40. Così il neo-costituzionalismo porta alle estreme conseguenze la neutralizzazione del politico (occorrerebbe anche indubbiamente parlare di dislocazione), processo già in atto, ma non ancora completato nell’epoca dello Stato di diritto classico. Per giudiziarizzare completamente gli elementi politici, occorreva operare un rinnovamento del positivismo, decostruendo la tappa normativista di Kelsen e la sua teoria pura del diritto verso un “positivismo dei valori” utilizzante la piramide delle norme come un sistema tentacolare almeno così stretto e cogente (violent) del diritto naturale, ma ancor più meccanizzato in forza della sua paradossale origine positivista. Il passaggio della testualità giuridica ai principi del diritto non fu, in questo stadio, senza risultati innovativi (nouvelles) sui rapporti tra diritto e politica. Implicò notoriamente di sopravalorizzare il giudice e la sua interpretazione delle regole. Servendosi della tipologia dei giudici e dei modelli di diritto elaborati da François Ost41, potremmo caratterizzare il Giudice post-moderno come un “giudice Mercurio” (Ermes). Il “giudice Giove” (jupiter) sarebbe collocato al vertice della piramide normativa, (essendo) l’unico capace di poterne dedurre in modo inflessibile della decisione. Il “giudice Ercole”, conformemente alla parabola di Dworkin avrebbe l’onere infine della conoscenza del diritto richiesta onde identificare i principi direttivi che consentiranno di decidere nel caso concreto in giudizio. Qui l’innovazione è quella di una piramide rovesciata o d’un imbuto. Il compito del “giudice Mercurio” (sul punto mi allontano dalla descrizione del professore belga) è di restare attento al corso dei valori che la condizione spirituale dell’epoca lo Zeitgeist, considera come dominante. In conclusione, si può constatare che il neo-costituzionalismo è un portare alle estreme conseguenze lo stato di diritto al fine di depolitizzarlo, ma che non inventa un nuovo paradigma che supererà il positivismo. Lo trasforma in un positivismo dei valori. Fa dello Stato di diritto un tecnico normativista dei diritti dell’uomo a beneficio d’un potere giudiziario divenuto l’attore emergente della “post-politica”42. Luis Maria Bandieri (tradotto dal francese da Maria D’Antonio)

 

Il 25 aprile nulla da festeggiare, di Max Bonelli

 

Il 25 aprile nulla da festeggiare.

 

Alla stanchezza fisiologica che si accompagna alla primavera (con l’ondata di pollini e le  allergie connesse) si sente nel bel paese un’altra stanchezza che scaturisce da una data rossa sul calendario dove in teoria dovremmo festeggiare la liberazione dall’occupazione tedesca avvenuta dopo l’armistizio dell’8 settembre del 1943.

I festeggiati i circa 20.000 partigiani e i “liberatori” americani, sono venuti piano, piano a mancare negli anni ma non solo per un motivo fisiologico di morte degli stessi ma per la trasformazione di questi e dei loro discendenti morali in occupanti e collaboratori degli occupanti. Questa è la situazione ad oggi  in data 25 aprile 2018. Certo non come liberatori si possono indicare  gli  USA che hanno scalzato l’occupante tedesco per sostituirlo con un nodo da “cravattaro” che si fa di ogni anno più stretto. Nuove basi aprono sul nostro territorio, impunità dei loro soldati per i crimini commessi sul nostro suolo (Cermis docet) ed imposizioni in politica estera sempre più lesioniste dei nostri interessi (Libia).

Riguardo i collaboratori degli occupanti PD=PD-L: la prima parte dell’equazione rappresentano gli eredi immorali dei partigiani comunisti.  Il PCI almeno fino alla famigerata svolta  fatta con il viaggio di Napolitano negli USA era l’unico partito che si professava sovranista in Italia (volevano un Italia neutrale fuori dalla Nato). Già riecheggiano le urla dei “destrorsi” che dicono “non è vero ci volevano nel patto di Varsavia”. Illazioni mai provate dalla Storia e dette spesso per giustificare  il servilismo dell’MSI nei confronti della Nato e dei suoi apparati senza contare la scarsa propensione storico dinamica dell’URSS all’espansione geopolitica.

Ora il pronipote è rappresentato dal PD renziano, collaborazionisti degli USA ,fedeli servi che fanno della lotta alle timide istanze sovraniste della Lega e di Fratelli d’Italia la loro ragione di esistere.

I loro antenati morali si stanno rivoltando nella tomba,chi siede a botteghe oscure è un servo del capitalismo e traditore della Patria.

La seconda parte dell’equazione è composta dagli odiosi opportunisti spesso alto borghesi benestanti che diedero avvallo allo squadrismo degli anni venti per fermare l’avanzare del socialismo e tradirono il fascismo quando fu chiaro che era ormai cavallo perdente. Anche  essi fedeli servi del più forte ed in questo caso della bandiera a stelle strisce.

 

L’occupazione militare è solo un espressione di un’altra occupazione che subisce il paese: quella economica dell’Europa a conduzione tedesca.

Presenza ancor più pesante di quella militare descritta in precedenza, perchè sta uccidendo l’Italia, il suo substrato manifatturiero, quello che

l’ ha reso  una piccola potenza economica.

La moneta unica sta uccidendo la nostra economia che non avendo in mano lo strumento della svalutazione è costretta a riversare sul lavoro le leve per attuare concorrenza dei prodotti, precarizzando le condizioni degli occupati a tutti i livelli e non ultima la classe della piccola borghesia impiegatizia.

Questa occupazione a 360|gradi Germano-Americana la stiamo vivendo in tutta la sua implacabile stretta nel mandato del presidente  Mattarella al secondo schieramento per numero di eletti il M5S con il preciso intento di unirsi al PD uscito perdente dalle elezioni. Tutto dettato dal pericolo populista sovranista che Lega e Fratelli d’Italia si fanno espressione seppur in maniera timida. Se analizziamo le parole espresse dal PD “si al dialogo con il M5S se cessano di dialogare con la Lega” si capisce a quale padrone rispondono, lo schiavo perdente che vuole prendersi in carico l’addestramento del nuovo il M5S.

Il peccato della Lega? Il timido accenno di ribellione all’occupazione. Proprio ora che Salvini parla non più di Padani, ma di Italiani e da partito secessionista timidamente fa passi verso il Sovranismo patriottico rappresentato dall’On. Bagnai e nelle loro file eletto?

 

Questa rinnovata lotta tra occupanti e loro collaborazionisti da una parte e dall’altra  patrioti che con diversi colori,contraddizioni emergono nel paese si rinnova e ci dovrebbe far riflettere che non c’è niente da festeggiare in questa data. Ci sono ragioni per una ribellione, per una lotta contro l’occupazione. Bisognerebbe rileggersi le figure di veri eroi come :

Bottai

https://it.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Bottai

 

Mattei https://it.wikipedia.org/wiki/Enrico_Mattei

 

ed altri patrioti sovranisti  sconosciuti che in silenzio rifiutarorno di versare sangue italiano

http://www.conflittiestrategie.it/il-25-aprile-nel-ricordo-di-mio-nonno-gigi-ed-altre-storie-sconosciute-ai-piu-di-max-bonelli

 

e rivolsero le loro energie contro gli occupanti.

Eroi  che rifiutarono  la logica dei Guelfi e Ghibellini che porta ad ammazzarci con facilità tra di noi italiani e  che indicarono una strada:

rivolgere le nostre energie ad una vera lotta di liberazione perchè questa è rimasta incompiuta.

Bisognerebbe far partire un tavolo di conciliazione nazionale che parta da una base comune data di tanti patrioti che dopo l’8 settembre decisero di combattere da una parte e dall’altra i due occupanti il tedesco e l’americano senza  versare sangue italiano. Per fare questo occorre potare sia a destra che sinistra la faziosità partitica e far rimanere centrale il fusto su cui si poggia l’Italia la Patria fatta di lavoratori e piccola media borghesia con l’attività produttiva incentrata nei confini nazionali.

 

Max Bonelli

 

 

 

La trattativa con la realtà, di Roberto Buffagni

La trattativa con la realtà

 

Ho appena letto della sentenza sulla trattativa Stato-Mafia, con le pesanti condanne inflitte agli ufficiali dei Carabinieri. Evito di diffondermi sul messaggio (trasversale?) che i giudici mandano alle FFOO: “Prima di tutto coprirsi le spalle e altre parti del corpo”, all’antica quieta non movere, alla moderna don’t  rock the boat. Evito di diffondermi anche sul fatterello che le FFOO non “trattano con la Mafia” in proprio ma per conto terzi, cioè per conto dei governi (nel caso in oggetto, governi di sinistra e non berlusconiani, ma sono dettagli). Evito di diffondermi sul fatto, incontestabile, che le trattative si fanno con gli avversari e/o i nemici, con gli amici ci si mette d’accordo con le gambe sotto il tavolo e il bicchiere in mano. Evito di diffondermi sul tempismo cronometrico della sentenza, che influisce sulla delicata dialettica politica in corso, favorendo un governo 5*-PD e/o un governo 5*-Lega che spaccherebbe il centrodestra e farebbe lo scherzo dell’Anaconda a Salvini. Evito di diffondermi persino sul fatto storico, anch’esso incontestabile, che le trattative con la Mafia le faceva anche Giovanni Giolitti, un politico italiano di grande statura e specchiata onestà personale che si beccò la definizione di “Ministro della malavita” da Gaetano Salvemini.

Mi diffondo invece (poco, niente paura) su un tema che mi interessa di più.

E’ il tema della grande fiaba desinistra dei “servizi deviati” e dell’inattingibile ”terzo livello della Mafia”, in pillola: la DC un tempo, in seguito Berlusconi, insomma i destrogiri, sono complici della Mafia e in genere delle Forze Oscure della Reazione, solo grazie a questa complicità assurgono a un immeritato e altrimenti inspiegabile potere, conculcano e sbeffeggiano le Forze Sane del Progresso e fanno dell’Italia, che sarebbe tanto brava, un paese anormale ove spadroneggiano impuniti e sfacciati gli evasori fiscali, i furbetti del cartellino, gli analfabeti d’andata e ritorno, i fans di Padre Pio, Berlusconi e Lucio Battisti, gli assessori che scialacquano i risparmi degli italiani in coca troie aragoste e mutande a rete come il celeberrimo Batman, i guidatori di SUV parcheggianti in posto riservato invalidi, etc.; e questo infausto destino durerà nei secoli dei secoli sinché non andrà al governo con larga maggioranza prima il PCI, poi il PD o altri avatar del Bene levogiro tipo 5*, e allora sì che cambierà tutto: in meglio, s’intende, il dopo è sempre meglio del prima, sennò che fine fa il progresso, dove andiamo a finire, torniamo indietro?

Archetipo della suddetta fiaba, il mitico sceneggiato anni Settanta in milletrecentosei puntate La piovra, che diede fama imperitura a Michele Placido, da allora trasfigurato nell’icona immortale del “Commissario Cattani”; il quale  – nota a margine per i più piccini – aveva anche lui la moglie straniera e incontentabile come il suo più tardo avatar Commissario Montalbano, pure lui eroe desinistra sebbene pelato. Bene: colgo l’occasione per formulare anche io una sentenza, la seguente: la fiaba desinistra sulla Mafia è una fiaba.  Questa fiaba desinistra può essere raccontata bene, anche molto bene (le prime serie de La piovra sono belle o belline); e sarà sempre interessante non perché sia interessante la sinistra italiana che francamente non lo è, sotto il profilo spettacolare e drammaturgico il mito dell’onestà, del rigore, del pagamento al centesimo delle tasse, della superiorità morale, dell’eguaglianza tous azimuts, delle vacanze intelligenti, insomma il mito delle professoresse piddine entusiasma come un accertamento fiscale o una seduta dal dentista. Sarà sempre interessante perché è interessante la Mafia, che furbescamente la sinistra italiana parassita per incrementare il suo indice di gradimento spettacolare. La Mafia è interessante per due motivi: uno, che il Male è sempre più immediatamente interessante del Bene, provate a creare un personaggio integralmente buono che non sia un pesce lesso e ve ne accorgerete subito, l’ultimo che ha avuto successo è Gesù Cristo che d’altronde negava recisamente di essere buono (v. tutti i sinottici, es. Mt. 19,17);  lo spericolato Dostoevskij ci ha provato ma ha truccato le carte facendone L’idiota, troppo facile l’espediente del buono perché matto.  E’ un fatto che può dare occasione a spunti di riflessione teologica ed estetica di grande profondità che qui ometto, sarà per un’altra volta. Due, che la Mafia è interessante perché la criminalità organizzata è l’immagine analogicamente più prossima a quella di uno Stato che agisca in condizioni di reale sovranità politica, dunque non l’Italia del dopoguerra: il che rende più ghiotto ed emozionante il surrogato Mafia, quando non c’è il caviale le uova di lompo fanno venire l’acquolina in bocca. La Mafia infatti vive e opera in un mondo nel quale non esiste un terzo imparziale in grado di promulgare e applicare la legge, e dunque in un mondo che somiglia come una fotocopia al mondo delle relazioni internazionali, in cui operano gli Stati: un mondo nel quale non si può andare dal giudice o dal poliziotto se qualcuno ti fa un torto, in cui non ci si può ritirare a vita privata estraniandosi dai conflitti di vario genere che turbano sonni e digestione, in cui di punto in bianco può spuntare nel tuo orizzonte qualcuno che per motivi tutti suoi ti vuole ammazzare, te e i tuoi cari, e non solo ne ha l’intenzione ma pure i mezzi e il know-how. E’ insomma il mondo in cui chi ha il potere è costretto a prendere decisioni di vita e di morte che non solo decidono della vita e della morte fisica, ma della salvezza o della dannazione dell’anima – ognuno traduca la formula religiosa nel suo linguaggio – anzitutto la propria ma anche le altrui. Un esempio davvero magistrale di svolgimento di questo tema sono i primi due film della serie Il padrino, di F. F. Coppola, che senza alterare di molto la trama del mediocre romanzo di Mario Puzo, vi indovinò con grande intelligenza la struttura drammaturgica di una tragedia storica shakespeariana, sfuggita al superficiale romanziere.

Per concludere: la Mafia è interessante perché la Mafia è tragica, e con tragedia intendo la situazione in cui legge, costume, istituzioni, telefono amico non ti forniscono una soluzione precostituita al tuo serio dilemma di vita e di morte. Ci sei tu che sei solo, c’è il mondo che è grande, c’è il cielo che è lontano, e stop: incipit tragoedia. Questa è la tragedia, e questo è anche, nel linguaggio politico, lo stato di eccezione, che definisce chi è il sovrano.

Ecco perché la fiaba desinistra sulle Forze Oscure della Mafia & della Reazione è interessante, ed ecco anche perché è una fiaba.

E’ una fiaba nella parte desinistra, col Commissario Cattani/Montalbano che si batte per il PCI/PD +  il popolo buono che paga le tasse e raccoglie la cacca del cane con la paletta, e in quanto fiaba non intrattiene alcun significativo rapporto con la realtà effettuale, al massimo con la realtà psicologica che vuole a) sentirsi dalla parte giusta b) mettere dalla parte sbagliata chi ci sta antipatico c) vincere + avere ragione d) in attesa di c, perdere + avere ragione e) come minimo, giustificare la propria sconfitta dandone la colpa agli altri che vincono perché sono cattivi e viceversa, v. sub b.

E’ interessante invece, e sul serio, nella parte tragedia, perché la tragedia, sebbene dedestra, quella sì che intrattiene un significativo rapporto con la realtà effettuale, anzi mi sento di spararla grossa e affermare pubblicamente che qualora non si introduca nel quadro un’audace prospettiva soprannaturale & provvidenziale, la tragedia è la realtà effettuale, proprio la realtà effettuale che il pensiero (si fa per dire) desinistra non coglie, per difetto genetico dell’apparato visivo, mai. E non c’è neanche bisogno di tirare in ballo il Politico e lo stato di eccezione come ho fatto prima: perché nella realtà effettuale, anche nella realtà effettuale piccola e modesta delle nostre vite, di fronte alle cose veramente decisive come la gioia e il dolore e la scelta e la morte “ci sei tu che sei solo, c’è il mondo che è grande, c’è il cielo che è lontano, e stop: incipit tragoedia.”

Da quanto precede deriva anche un più equilibrato giudizio sulla famosa trattativa Stato-Mafia, questo. Che la Mafia è una realtà, una realtà non solo criminale ma sociale e politica, con vasto consenso in alcune, non piccole, zone del paese, forza militare non trascurabile, abbondanti finanze, embrione e qualcosina in più che embrione di struttura politica, efficiente amministrazione giudiziaria, fiscalità senza evasori, legami internazionali importanti. Sradicarla si può, come no, almeno per ora lo Stato italiano disporrebbe della forza militare sufficiente. Basterebbe rifare la “guerra al brigantaggio”, però stavolta contro i briganti veri invece che contro i legittimisti borbonici. Però i Commissari Cattani o Montalbano non bastano. Bisognerebbe anche varare un avatar della “Legge Pica” d’antan, cioè sospendere le elezioni democratiche e le garanzie giuridiche agli individui almeno nelle zone di maggior radicamento mafioso, istituire tribunali speciali e comminare condanne amministrative, meglio se anche a morte, impiegare le FFAA non per posare come belle statuine nelle piazze e nelle stazioni ma per fare i rastrellamenti, attivare una vasta campagna di eliminazioni di dirigenti mafiosi (senza processo), e scontare l’inevitabile quota di sbavature cioè innocenti che ci vanno di mezzo + atrocità assortite, dura repressione di eventuali moti popolari a sostegno della Mafia in nome dell’identità locale, ritorsioni anche terroristiche del nemico, e così via. Per me si può cominciare anche domani, ma non mi sembra che il programma qui delineato sia proprio un programma democratico e desinistra, tipo fiaccolata contro la Mafia e celebrazioni di Falcone e Borsellino nei licei con l’oratore di turno che dice “E’ tutta una questione culturale, la scuola ha il compito primario eccetera”.

Insomma: la Mafia è una realtà effettuale, e con la realtà effettuale, volenti o nolenti, tutti dobbiamo aprire una trattativa, anche lo Stato. Poi certo, le trattative possono andare meglio o peggio. Questa per lo Stato è andata bene, per la Mafia no e per gli ufficiali dei Carabinieri neanche; ma del resto, anche la fiaba desinistra ha assunto, nei cuori e nelle menti degli italiani che detto per inciso votano anche in base alla loro psicologia, una sua forma, se si vuole distorta, di realtà effettuale. E dunque, per salvare il Commissario Cattani e il Commissario Montalbano, per non sporcare la loro immagine tanto cara a tanti italiani e poter aggiungere un altro centinaio di puntate al serial Italiamoraledesinistra vs. MafiaForzeOscuredellaReazione, i giudici si sono visti costretti ad appioppare qualche decina d’anni di galera ai Carabinieri, che essendo persone concrete e non archetipi non possono aspettarsi indulgenze plenarie e resurrezioni, e del resto sono usi a obbedir tacendo, tacendo morir (per ora, poi vedremo).

That’s all, folks.

 

IL BUCO NERO_ IL RE (UE) E IL MATTO (M5S), di Roberto Buffagni

Sulla situazione politica italiana e sulle novità funamboliche del Movimento Cinque Stelle il blog ha già dedicato numerose pagine.

Riproponiamo un articolo ancora attuale di Roberto Buffagni, già apparso nel 2016 su http://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.it/2016/12/la-politicaitaliana-secondo-shakespeare.html

Un testo attuale, propedeutico a quanto scriveremo una volta che si delineerà più chiaramente la dinamica che ci porterà al varo di un nuovo governo e della conseguente maggioranza_Giuseppe Germinario

La crisi  europea e  italiana… secondo  William Shakespeare 

Il Re e il suo Matto

di Roberto Buffagni

Why, ‘some are born great, some achieve greatness,
and some have greatness thrown upon them
.
(il Matto Feste, Twelfth Night, Atto V, Scena 1)

Winning will put any man into courage.
(il Matto Cloten, Cymbeline, Atto II, Scena 3)

In questo inverno del nostro scontento (59,11% di NO nel referendum appena votato), nella situazione politica italiana non si capisce niente, tranne una cosa: che dopo questo terremoto, tra le rovine dei partiti di maggioranza e opposizione, resta in piedi ed anzi si consolida un solo partito, o meglio un solo Coso: il Movimento 5 Stelle. Il problema è che non si sa che cosa sia il M5S, questo Buco Nero. Populista, si dice. Sì, è populista: ma il populismo è uno stile, non un’identità politica, e neanche un contenuto programmatico. Insomma: che cos’è questo Coso?

Come faccio sempre quando non ci capisco niente, ho consultato il Bardo, che di politica e d’altro se ne intende assai; e come sempre il Bardo mi ha cortesemente risposto la verità, raccomandandomi però di dirla in fretta, perché “La verità è simile ad un cane/che deve restar chiuso in un canile;/va ricacciato lì dentro a frustate.” (il Matto, Re Lear, Atto I Scena 4).

Obbedisco, e ve la dico subito: il M5S è il Matto che rivela la verità sul Re.

Il Bardo, però, ama la sintesi estrema, perché è un grande poeta amico dei simboli e degli enigmi, e un grande uomo di teatro nemico delle lungaggini e della noia. A me, tocca spiegare. Spiego, scusandomi sin d’ora se dovrò esser lungo.

Chi è il Re? Il Re è l’Unione Europea. E qual è la verità che rivela il Matto sul Re? Che il Re è un usurpatore, un falso Re.

Facciamo un passo indietro, come nei romanzi d’appendice, e vediamo un po’ che cos’è quest’altro Coso o Buco Nero: l’Unione Europea, il Mostro Buono, come lo chiamava H.M. Enzensberger.

Nella grammatica politica, esistono soltanto gli Stati nazionali, che possono in varia forma e misura confederarsi, cioè unirsi in modo revocabile: v. il progetto gaulliano di “Europa delle nazioni”; e gli Imperi, in cui l’unità è federale, cioè irrevocabile: v. per antifrasi la guerra di secessione USA tra Nord federale e Sud confederale. L’Europa non può essere o diventare uno Stato nazionale, perché se esiste una civiltà europea, non esiste una nazione europea. L’UE non è una confederazione: se lo fosse, il quadro giuridico dei rispettivi poteri e competenze di Stati nazionali e istituzioni confederali sarebbe chiaro e politicamente legittimato, e l’unione revocabile.

Dunque, l’UE è un progetto federale imperiale (in corso d’opera). Per federare un insieme di Stati in un organismo istituzionale maggiore, Stato-nazione o Impero che sia, ci vuole un federatore (v. il ruolo di Piemonte e Prussia nelle unificazioni italiana, nazionale, e tedesca, imperiale, del XIX sec.). I requisiti essenziali del federatore sono l’indipendenza politica e la forza egemonica (senz’altro militare, nel caso migliore anche economica e culturale). Nel progetto di federazione imperiale UE, invece, non c’è un federatore: lo Stato più forte, la Germania, difetta di entrambi i requisiti (ospita sul proprio territorio basi militari non europee, è economicamente ma non culturalmente egemone).

In realtà, il progetto federale imperiale UE ha due federatori a metà: un federatore politico (gli USA, che hanno l’indipendenza politica, della forza militare, e in certa misura dell’egemonia culturale in Europa) e un federatore economico (la Germania). Nessuno dei due “federatori a metà”, né il politico né l’economico, può/vuole portare a compimento la sua opera. Gli Stati europei non possono federarsi politicamente con gli USA, diventando il cinquantunesimo, cinquantaduesimo, settantottesimo, etc., Stato della federazione nordamericana. Né gli Stati europei possono federarsi intorno all’egemonia economica tedesca, perché il vantaggio economico del “federatore a metà” tedesco implica lo svantaggio economico senza contropartita politica della maggior parte dei federandi, che com’è logico alla fine si ribellano: ma né gli USA per evidente assenza di legittimazione, né la Germania per evidente difetto di mezzi atti allo scopo, possono far uso della forza per ricondurli all’unità.

Ora, nessun federatore agisce gratis et amore Dei nell’unica preoccupazione dell’interesse dei federati; ma perché l’operazione sia politicamente vitale, tra federatore e federati deve sempre avvenire uno scambio, più o meno equo e immediato, di reciproci vantaggi: anche quando la federazione avvenga per conquista sul campo di battaglia. Ad esempio, nell’unificazione italiana, allo svantaggio economico patito dal Meridione – sconfitto con le armi in due campagne militari, la seconda delle quali, la “guerra al brigantaggio”, particolarmente crudele – corrispondono i vantaggi politici dell’accrescimento di potenza dello Stato, così liberato dalle ingerenze straniere, dell’integrazione tra territori culturalmente e linguisticamente affini, e, seppur tardivamente e imperfettamente, un riequilibrio/compensazione delle disparità economiche e sociali tra Nord e Sud, aggravate o almeno non appianate dall’unificazione.

Nel caso dell’UE, invece, la federazione non può essere portata a compimento né dal “federatore a metà” politico, gli USA, né dal “federatore a metà” economico, la Germania. Ne risulta non solo un impaludamento del processo di federazione, ma:

  1. a) un grave danno politico per tutte le nazioni europee: l’UE risulta in un dispositivo di neutralizzazione politica dell’Europa nel suo complesso, del quale si avvantaggia il “federatore a metà” statunitense
  2. b) un grave danno economico per tutte le nazioni europee tranne la Germania e i suoi satelliti, che invece si avvantaggiano del danno altrui.

La contropartita di questi due danni, politico ed economico, è zero. Ripeto e sottolineo due volte: zero.

Per l’Italia – Stato, nazione, popolo italiani – la contropartita di questi due danni, politico ed economico, è meglio esprimibile con un valore algebrico negativo. Esempio politico. Regnante la UE, per due volte l’Italia ha fatto uso della forza contro uno Stato straniero, su indicazione del “federatore a metà” USA e contro il proprio manifesto interesse nazionale: contro la Jugoslavia e contro la Libia (nel caso jugoslavo, l’Italia già che c’era ha fatto anche l’interesse economico della Germania). Esempio economico. Dall’ingresso nell’euro, che è una macchina per svalutare il marco e favorire il mercantilismo tedesco ai danni anzitutto dell’Italia, che della Germania è tuttora il principale concorrente economico europeo, l’Italia ha perso il 25% della sua base industriale, con la disoccupazione di massa che ne consegue.

Quanto all’Unione Europea in generale, poi, lo squilibrio tra intenzioni (almeno esplicitamente dichiarate) e risultati effettuali dell’UE è talmente grande che minaccia di provocare, più prima che poi, una implosione/disgregazione totale del progetto federale, in modi e con effetti imprevedibili e potenzialmente catastrofici.

Come sentenziato dal Bardo, insomma, l’Unione Europea è un usurpatore, un falso Re.

Ma come è giunto a conquistare il trono questo usurpatore, questo falso Re? Quali grandi Casate nobiliari l’hanno sostenuto nella sua impresa, e perché?

Le grandi Casate nobiliari che hanno posto la corona sul capo del falso Re (“uneasy lies the head that wears a crown”, dice Bolingbroke nell’Enrico IV) sono le classi dirigenti europee e statunitensi: liberals, cattolici, socialdemocratici; gli eredi legittimi delle classi dirigenti antifasciste che hanno vinto, sul campo di battaglia o nelle urne elettorali, la Seconda Guerra Mondiale e il dopoguerra. Dalla grande alleanza antifascista mancano solo i comunisti sovietici, ma sono rappresentati dai loro eredi: eredi legittimi anche loro, anche se dopo l’estinzione del ramo principale è un ramo cadetto (i maligni dicono, un ramo bastardo) a portare il titolo.

Dopo la grande vittoria comune di settant’anni fa, queste grandi Case si sono aspramente combattute per decenni. Oggi governano insieme il Consiglio della Corona del (falso) Re e la Camera dei Lord dell’Unione Europea. Come hanno fatto ad accordarsi? Per il potere, si dirà. Certo, per il potere: ma questa risposta, che è sempre vera, non spiega tutto, e anzi forse non spiega niente. Qual è il minimo comun denominatore che ha consentito alle grandi Case, un tempo in lotta per il potere, di trovare un durevole accordo, e così porre la corona sul capo del falso Re?

Il minimo comun denominatore delle grandi Casate americane ed europee che sostengono il falso Re (l’Unione Europea) è l’universalismo politico.

L’universalismo è una cosa sul piano delle idee, dei valori, della spiritualità (nella cristianità europea, l’istituzione delegata a incarnarlo era la Chiesa, il primo “sole” del De Monarchia dantesco). Se tradotto sul piano politico, però, l’universalismo non può che incarnarsi in forze inevitabilmente particolaristiche: perché esistono solo quelle, nella realtà effettuale.

Volendo, chiunque se ne senta all’altezza può parlare in nome dell’universale umanità; ma non può agire politicamente in nome dell’universale umanità senza incorrere in una contraddizione insolubile, perché l’azione politica implica sempre il conflitto con un nemico/avversario.

Senza conflitto, senza nemico/avversario non c’è alcun bisogno di politica, basta l’amministrazione: “la casalinga” può dirigere lo Stato, come Lenin diceva sarebbe accaduto nell’utopia comunista. A questa contraddizione insolubile si può (credere di) sfuggire solo postulando come certo e autoevidente l’accordo universale, se non presente almeno futuro, di tutta l’umanità: “Su, lottiamo! l’ideale/ nostro alfine sarà/l’Internazionale/ futura umanità!” (il “governo mondiale” è un surrogato o avatar della “futura umanità” dell’inno comunista).

Lenin, e in generale il movimento comunista (o anarchico) rivoluzionario, vuole risolvere la contraddizione con la forza. Nella classificazione machiavelliana, Lenin è un “leone”.

L’universalismo politico delle grandi Casate nobiliari nordamericane ed europee che sostengono l’UE non è meno radicato di quello leniniano, perché discende dalla stessa radice illuminista. Esse però vogliono/devono risolvere la contraddizione con l’astuzia; Machiavelli le definirebbe “volpi”. Scrivo “devono”, perché a prescindere dalle intenzioni soggettive, le grandi Case non potrebbero essere altro che “volpi”: entrambi i “federatori a metà”, USA e Germania, non possono portare a compimento con la forza la loro opera.

Come l’URSS comunista, anche l’UE postula l’accordo universale, se non presente almeno futuro: accordo anzitutto in merito a se medesima, e in secondo luogo in merito al governo mondiale legittimato dall’umanità universale, che ne costituisce lo sviluppo logico, e giustifica eticamente sin d’ora l’obbligo di accogliere un numero indeterminato di stranieri, da dovunque provenienti, sul suolo europeo. Per questa ragione è impossibile definire definitivamente i confini territoriali dell’Unione Europea, che qualcuno pretende di estendere alla Turchia, e persino a Israele: perché ha diritto di far parte dell’UE chi ne condivide i valori universali (cioè virtualmente tutti, dal Samoiedo al Gurkha al Masai), non chi ne condivide i confini storici e geografici.

Il passaggio tra il momento t1 in cui l’accordo universale è soltanto virtuale, e il momento t2 in cui l’accordo universale sarà effettuale, non avviene con il ferro e il fuoco della “volontà rivoluzionaria”. Le volpi oligarchiche UE introducono invece nel corpo degli Stati europei, il più possibile surrettiziamente, dispositivi economici e amministrativi – anzitutto la moneta unica – che funzionano, secondo la celebre definizione di Mario Draghi, come “piloti automatici”. Questi piloti automatici provocano crisi politiche e sociali, previste e premeditate, all’interno degli Stati e delle nazioni, ai quali impongono o di insorgere in aperto conflitto contro la Corona, o di addivenire a un accordo universale in merito al “sogno europeo”: per il bene degli europei e dell’umanità, naturalmente, come per il bene dei russi e dell’umanità Lenin ricorreva al terrore di Stato, alle condanne degli oppositori per via amministrativa, etc.

A quest’opera va associata, inevitabilmente, una manipolazione pedagogica minuziosa e su vasta scala, in altri termini una lunghissima campagna di guerra psicologica. La dirigenza UE conduce questa campagna di guerra psicologica da una posizione di ipocrisia strutturale formalmente identica a quella della dirigenza sovietica, perché non è bene e vero quel che è bene e vero, è bene e vero quel che serve alla UE o alla rivoluzione comunista: in quanto Bene e Verità = accordo dell’intera umanità, fine dei conflitti, pace e concordia universali. Le élites, necessariamente ristrette, di “pneumatici” e di “psichici” che conoscono questo arcano della Storia, hanno il diritto e anzi il dovere morale di ingannare e manipolare, per il loro bene, le masse di “ilici” che invece lo ignorano.

Il leone Lenin accetta solo provvisoriamente il conflitto politico, e anzi lo spinge a terrificanti estremi di violenza, in vista dell’accordo universale futuro: dopo la “fine della preistoria”, quando diventerà reale il “sogno di una cosa” comunista e ogni conflitto cesserà nella concordia, prima in URSS poi nel mondo intero. Le volpi UE celano l’esistenza effettuale del conflitto (in linguaggio lacaniano lo forcludono), e da parte loro lo conducono, solo provvisoriamente, con mezzi il più possibile clandestini, in vista dell’accordo universale futuro, quando diventerà reale il “sogno europeo” e ogni conflitto cesserà nella concordia, prima in Europa poi nel mondo intero.

In questo grande affresco romantico proposto alla nostra ammirazione con la colonna sonora dell’Inno alla Gioia (forse non è un caso che il Beethoven delle grandi sinfonie fosse anche il compositore preferito di Lenin) c’è solo una scrostatura: che nella realtà, l’accordo universale di tutta l’umanità non si dà effettualmente mai. Ripeto e sottolineo due volte: mai, never, jamais, niemals, jamàs, etc.

E’ questa cosa, l’usurpatore, il falso Re: il Re del Mondo di Domani che non ha né la forza, né l’autorità, né la legittimità per governare il suo regno di oggi.

E il Matto? Il Matto Movimento 5 Stelle? In che modo ci rivela la verità sul suo e nostro falso Re?

Il M5S è un caso esemplare di universalismo politico spinto fino alle estreme conseguenze dell’assurdità, del ridicolo, insomma del grottesco. La sua scelta di non allearsi con alcuna forza politica se non su singoli provvedimenti definiti “tecnici” o “concreti” consegue, infatti, direttamente dal rifiuto pregiudiziale e preliminare del conflitto politico: dire che tutti sono avversari o nemici è identico a dire che nessuno lo è; dall’individuazione del nemico/avversario, infatti, consegue quali siano gli amici politici, che non si scelgono in base alla comunanza dei valori o all’affinità intellettuale e sentimentale, ma ci vengono imposti dalla comune inimicizia.

E chi è il nemico o l’avversario del Movimento 5 Stelle? La destra? La sinistra? Il centro? Il PD? La Lega? L’Unione europea? I nemici dell’Unione Europea? L’ISIS? L’America?  Il sistema solare? Il riscaldamento climatico? I corrotti? I bugiardi? I ricchi? I poveri? Il Resto del Mondo finché non si converte e non s’iscrive alla piattaforma Rousseau?

Il M5S rinvia tutto al momento magico in cui, da solo, prenderà il 51% dei voti, metterà in opera un progetto di democrazia diretta elettronica totale, e gradualmente persuaderà tutti della bontà e verità della propria azione, che non si caratterizza per la rispondenza a interessi ben definiti di ceti, classi, istituzioni, etc., ma per qualità d’ordine prepolitico come l’onestà, la trasparenza, la freschezza, etc.: qualità in merito alle quali tutti saranno costretti ad accordarsi, se non vogliono autodefinirsi corrotti, bugiardi, marci, etc.: “… honesty coupled to beauty is to have honey a sauce to sugar.” (il Matto Touchstone, As You Like It, Atto III, Scena III)

Una posizione simile condurrebbe, per sua logica interna, al Terrore giacobino; se non fosse che a) il M5S è sprovvisto dei mezzi per metterlo in opera b) il M5S agisce in un quadro di sovranità nazionale limitata (dalla UE) c) il M5S è un Matto, e il Matto può impugnare lo scettro e la spada, ma lo scettro è di cartone e la spada di gomma: più piccoli, ma per il resto identici al (finto) scettro e alla (finta) spada del suo (falso) Re.

Il M5S è, insomma, è un microcosmo che rispecchia il macrocosmo UE: un Matto buffo, piccolo, gobbo, sguaiato, vestito come il Re, e che parla, gesticola, si atteggia, promette e minaccia (a vuoto) come il Re. Come l’Unione Europea, è un organismo politico affatto disfunzionale, ispirato a un universalismo politico che non ha la forza di imporre, e il contenuto delle sue proposte politiche si autodefinisce come “la miglior soluzione tecnica, oggettiva, per il bene di tutti, di problemi concreti”. Poi, certo: il Re ha  un vasto stuolo di tecnici professionisti ben pagati che sfornano impeccabili soluzioni tecniche a tonnellate, 24/7, mentre il Matto ha una squadretta parrocchiale di geometri, ragionieri, laureati per corrispondenza che lavorano nei ritagli di tempo e fanno quel che possono. Ma la somiglianza – anzi, diciamolo col Bardo: la parodia c’è tutta.

Come l’UE in grande, cioè in Europa, così il M5S in piccolo, cioè in Italia, sortisce principalmente due effetti: neutralizza politicamente l’Italia, che a causa dell’ “elefante nel salotto” M5S si impaluda nella paralisi politica; e non pronunciandosi mai chiaramente in merito alla UE – perché per esistere, il Matto ha bisogno del Re, anche se può punzecchiarlo – gioca e fa giocare agli italiani un incessante ping-pong mentale tra la UE realmente esistente (falsa e cattiva) e la UE possibile (vera e buona); tra il Re com’è oggi, e il Re come sarà in futuro, in quel mondo migliore che i Matti chiamano Paese di Cuccagna, Schlaraffenland, Terra di Jaunja, Land of Plenty, Pays de Cocagne, etc.

Concludo. Rispondendo alla mia domanda sul Movimento 5 Stelle, il Bardo mi ha bonariamente rimproverato, invitandomi a disturbarlo solo quando devo fargli domande veramente difficili. “Aiutati che io t’aiuto”, m’ha detto scherzosamente. Ci ho riflettuto un attimo, e arrossendo gli ho presentato le mie scuse. In effetti, ci potevo arrivare anche da solo. Non c’è forse un Matto di professione, alla guida del Movimento Cinque Stelle? Non reca forse cinque stelle, la bandiera del Matto, come ne reca dodici la bandiera del Re (proposta dall’Araldo capo d’Irlanda)? Il dodici, che nella Cabala simboleggia “Il bene sopra tutto. La virtù non è solo pensiero ma anche azione. L’agire senza lucro e senza calcolo.” E il cinque, che simboleggia: “Fugate le nere ombre della notte, l’alba porta con sé i colori vivi della primavera e prepara l’arrivo del sole.”

Che sciocco sono stato, a non accorgermene subito. E’ proprio vero che  “The fool doth think he is wise, but the wise man knows himself to be a fool.” (il Matto Touchstone, As You Like It, Atto I, Scena 5).

 

Roberto Buffagni

LA DECADENZA DI UN PAESE E DELLE SUE ISTITUZIONI, di Antonio de Martini

Le asciutte considerazioni di Antonio de Martini lasciano l’amaro in bocca. I diversi collaboratori di Italia e il Mondo si sono soffermati spesso sulla qualità delle nostre classi dirigenti e sulle modalità nefaste con le quali si sta svolgendo il confronto politico. Più volte si sono soffermati sul ruolo dei vari centri di potere e sulla particolare funzione svolta da settori sempre più ampi della magistratura e degli ordini giudiziari nel regolare e condizionare le scelte politiche. Negli ultimi trenta anni tale funzione è stata addirittura determinante, con tutte le distorsioni e le forzature conseguenti che hanno contribuito pesantemente ad inibire la formazione di élites appena più autonome ed autorevoli. La sentenza riguardante la trattativa Stato-Mafia, non ostante le suggestioni e le rievocazioni, rientra purtroppo pienamente in questo canone; è lontana anni luce dagli squarci aperti da Falcone e Borsellino e per i quali hanno pagato drammaticamente. Ancora una volta la peggiore restaurazione ha bisogno di coprirsi dell’aura della moralità. Per arrivare a mettere ordine in questi ambiti particolarmente delicati e cruciali occorrerebbe una forza politica determinata, coesa e radicata, ben lungi da essere in via di costruzione. Una situazione paludosa che sta esponendo il paese alle peggiori intemperie geopolitiche senza pensare e disporre di un equipaggio adeguato. Ne vedremo purtroppo ancora delle belle_Giuseppe Germinario

Quando una istituzione avvia la propria discesa agli inferi, inizia con lotte interne e col perseguitare i propri servitori.

Accadde a Cicerone che dopo aver salvato la Repubblica dalla congiura di Catilina e sconfitto i ribelli, fu accusato di non aver rispettato le procedure nel mettere fuori combattimento i senatori Lentulo e Cetego che miravano a sovvertire lo Stato.

Anche la Repubblica di Venezia cadde nella fatiscenza quando si affidò ai magistrati, alle delazioni anonime e ai processi ipocriti in difesa della morale in cui nessuno credeva, tanto che per anni, “veneziana” fu sinonimo di donna di liberi costumi.

Non dissimile il caso degli allora colonnelli Mori e Subranni e del capitano De Donno, cui un tribunale ha comminato due condanne da dodici anni e una da otto per aver trattato “a nome dello Stato” coi vertici della mafia identificati nel sindaco di Palermo Vito Ciancimino.

La ” trattativa” sarebbe consistita nel comunicare col sindaco di Palermo ( verissimo).
Il risultato dei colloqui fu la consegna alla giustizia del capo mafioso Totò Riina, fatto puntualmente avvenuto il 5 gennaio 1993.

Il Ciancimino, quindi, era stato trasformato in un “confidente di polizia” e non in un diplomatico di carriera.

Il ministro dell’interno, Nicola Mancino, “mandante logico” di una eventuale trattativa tra lo Stato e l’organizzazione malavitosa, è stato invece accusato e assolto per un reato minore ( falsa testimonianza). In TV , il Mancino si è autoattribuito il merito della cattura di Riina che spetta evidentemente al ROS del colonnello Mori.

Se vero, era al corrente del lavoro dei carabinieri. Se falso, l’assoluzione dall’accusa di falsa testimonianza, è stata , a dir poco, precipitosa.

Consapevoli della mancanza di una controparte credibile, i giudici l’hanno identificata in Berlusconi che divenne Presidente del Consiglio nel 1994 ( dopo la stagione delle stragi) .

Hanno taciuto – ignorandoli?- sugli atti parlamentari che hanno registrato la dichiarazione dell’allora neo presidente della commissione antimafia, Luciano Violante, che annunziava alla commissione iniziative il tal senso e della “coincidenza” che per ben due volte costui si sia trovato sullo stesso aereo Roma-Palermo in cui viaggiava il signor Brusca, anch’esso assolto perché ” pentito”.

Hanno trascurato , i giudici, anche le interviste di Giovanni Maria Flick ( all’epoca ministro di Grazia e Giustizia) che ha ripetutamente ammesso di essere all’origine dei provvedimenti di alleggerimento delle regole del 41bis, più volte sanzionate dalle istanze internazionali come evidenti violazioni dei diritti umani.
Ha anche detto – e scritto- di essersi consultato in proposito col Presidente della Repubblica.

In poche parole, se mai sia esistita una trattativa Stato- Mafia questa l’ha fatta il governo di cui guardasigilli era Flick e il governo Berlusconi non c’è entrato.

La ” gratitudine” ( immotivata?) all’Arma dei Carabinieri l’hanno espressa i governi di sinistra che hanno promosso una forza di Polizia a Forza Armata autonoma. Unico precedente al mondo è il KGB di buona memoria comunista.

Gli interlocutori primi di una eventuale trattativa non potevano che essere uomini di governo e parlamentari dotati di autorità e certamente non un colonnello e due suoi collaboratori.

La verità è che nei periodi di vuoto di potere spuntano magistrati che cercano di arrivare al potere politico sciabolando a dritta e manca trascurando i danni inferti alla credibilità dei magistrati e all’idea stessa di giustizia.

Vogliamo un altro Di Pietro? Vogliamo che i carabinieri si trasformino in pecore?
Attenzione che se proprio si vogliono pecore, potrebbero diventare pecore nere.

Che ne dice il nuovo Parlamento di una commissione parlamentare di inchiesta che svisceri questa materia ?

NEL MONDO SIAMO SEMPRE IN DUE, di Luigi Longo

NEL MONDO SIAMO SEMPRE IN DUE

(a cura di) Luigi Longo

Le donne sono strane creature, anche quelle provviste di molta intelligenza.

 

Karl Marx*

                            Il mio problema è capire come mai la donna non arriva al punto

                            di soggettività che crei una duplicità di coscienza sul mondo.

                            Siccome sento che le coscienze sono due, non è una, però poi di

                            fatto ce n’è solo una e quell’una va a ruota libera come se l’altra

                            non ci fosse e l’altra si comporta come se non ci fosse davvero.

Carla Lonzi**

                            Ma perché gli uomini che nascono

                            Sono figli delle donne

                            Ma non sono come noi

                            […] gli uomini che cambiano

                            Sono quasi un ideale che non c’è

                                                         Mia Martini***

 

Una piccola premessa

Quando con Giuseppe Germinario parlammo della impostazione del blog Italiaeilmondo e della sua grafica proposi che non si potesse più pensare a un blog senza tenere conto che in tutto il mondo siamo sempre in due (1) e che dovevamo far diventare possibilità ciò che oggi è necessità della relazione con il pensiero femminile, nelle sue diverse articolazioni (2), per capire, interpretare, trasformare e creare un senso della vita.

Posso affermare, in estrema sintesi, che nella tradizione marxiana e marxista non c’è traccia di relazione profonda con il pensiero femminile, e questo è un’assenza che va capita storicamente e va colmata per creare le condizioni per la costruzione, teorica e pratica, di un ordine simbolico sessuato che aprirebbe nuovi orizzonti e nuove visioni del legame sociale della società data. Parafrasando lo storico Carlo Maria Cipolla (che parla di un’epoca di grandi cambiamenti scaturiti dalla rivoluzione industriale) posso dire che qualunque sia il giudizio o la critica assunti, si trova in corrispondenza della creazione del soggetto sessuato della storia un salto che non ha precedenti nella storia: un salto che introduce a un mondo completamente nuovo (3).

Lo spirito di ricerca è quello descritto efficacemente sia da Karl Marx:<< Sarà per me benvenuto ogni giudizio di critica scientifica. Per quanto riguarda i pregiudizi della cosiddetta opinione pubblica, alla quale non ho fatto mai concessioni, per me vale sempre il motto del grande fiorentino: Segui il tuo corso, e lascia dir le genti>> (4), sia di Gianfranco La Grassa:<< Un marxista deve partire da Marx; attestarsi su una determinata rotta con la convinzione di voler arrivare comunque a qualcosa di nuovo, che non può più aspettare dopo un secolo e mezzo [ periodo trascorso dalla pubblicazione del primo libro de Il Capitale curato direttamente da K. Marx,

1867-2017, precisazione e corsivo miei] di continuo calpestare il solito suolo, di ancoraggio nella solita rada. Restare attestati alla fonda dopo tanto tempo implica che non si è marinai se non a chiacchiere. Partire però senza nemmeno sapere dove si stava stazionando durante i preparativi del viaggio, significa votarsi a vagare in alto mare senza cognizione di quale rotta effettiva si sta seguendo. Si può consultare la bussola quanto si vuole; se gli occhi sono appannati, se i giramenti di testa sono incessanti, se le mani tremano e l’aggeggio continua a cadere di mano, l’aggirarsi come quando si esce ubriachi da un tugurio è garantito (5) […] Ovviamente, non ho visitato tutti i moli, tutti i docks e quant’altro ci sia. Ne ho solo tratteggiato uno schizzo e soprattutto mi sono concentrato sulla “insenatura” in cui è situato, per ben individuare quel rapporto sociale che è il capitale, secondo la nota formula marxiana. Se non si conosce questa insenatura, si salpa sbagliando rotta e ci s’incaglia fin da subito. E’ invece necessario, dopo un secolo e mezzo, prendere il mare; magari credendo di andare verso le Indie. Ci si augura che in seguito qualcun altro, assumendo il comando delle navi, si troverà magari nelle Americhe.>> (6).

 

Perché proporre un saggio di Nancy Fraser

Ho proposto il saggio di Nancy Fraser (7) perché è una buona base di discussione dove viene avanzata una analisi storica sul capitalismo liberale concorrenziale del XIX° secolo, sul capitalismo regolato dallo Stato nel XX° secolo e sul capitalismo finanziarizzato nell’epoca attuale. E’ un saggio che attraverso le lotte di confine tra economia e politica, tra società e natura, tra produzione e riproduzione propone una periodizzazione all’interno delle tre fasi storiche incentrate sulla casalinghizzazione, sul fordismo e salario familiare, sulle famiglie bireddito.

Di Nancy Fraser non condivido la lettura fondamentalmente economicistica nonchè la concezione dello stato, della finanza e del ruolo delle classi lavoratrici; non mi convince il suo saggio soprattutto perché non affronta il problema, fondante e di grande attualità, che invece si poneva Carla Lonzi cioè quello di capire come mai la donna non arriva al punto di soggettività che crei una duplicità di coscienza sul mondo con cui creare un’altra sintesi di ordine simbolico sessuato espressione di due soggettività differenti; per me questo scritto di Nancy Fraser resta una lettura stimolante finalizzata ad iniziare una relazione con il pensiero femminile critico (8).

Inoltre la pubblicazione del saggio di Nancy Fraser è propedeutica ai prossimi miei due scritti che riguarderanno a) Il conflitto strategico e la mossa del cavallo. Appunti di ricerca e b) Il conflitto strategico, una buona base per la costruzione dell’ordine simbolico sessuato. Tempo e spazio della ricerca.

 

 CHI E’NANCY FRASER

 Nancy Fraser, filosofa e teorica femminista statunitense, è docente di filosofia e politica alla New School for Social Research, a New York, Einstein Fellow della città di Berlino e titolare della cattedra “Giustizia globale” al College d’ètudes mondiales di Parigi.

 EPIGRAFI

 * Karl Marx, Lettera a Engels del 28 gennaio 1863 in Marx-Engels, Carteggio, Volume quarto (1861-1866), Editori Riuniti, Roma, 1972, pag.158.

** Carla Lonzi, Vai pure. Dialogo con Pietro Consagra, Scritti di Rivolta femminile, Milano, 1980, p.13.

*** Mia Martini, Gli uomini che non cambiano, www.angolotesti.it ,1992.

 NOTE

 

  1. E’ il titolo del libro di Luce Irigaray, edito da Baldini Castoldi Dalai editore, Milano, 2006.
  2. Per una introduzione al pensiero femminista si veda Franco Restaino-Adriana Cavarero, Le filosofie femministe, Paravia, Torino, 1999.
  3. Carlo Maria Cipolla, Storia economica dell’Europa pre-industriale, il Mulino, Bologna, 2002, pag.419.
  4. Karl Marx, Il Capitale. Critica dell’economia politica, Einaudi, Torino, 1975, libro primo, pp.7-8.
  5. Gianfranco La Grassa, Il capitale non è cosa ma rapporto sociale, www.conflittiestrategie.it, 5/8/2011.
  6. Gianfranco La Grassa, Navigazione a vista. Un porto in disuso e nuovi moli, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2015, pag.79.
  7. Nancy Fraser, Le contraddizioni del capitale e del lavoro di cura in www.ilrasoiodioccammicromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2017/12/11/contraddizioni-del-capitale-e-del-lavoro-di-cura .
  8. Per un approfondimento delle questioni trattate nel saggio si rimanda a Nancy Fraser, Fortune del femminismo. Dal capitalismo regolato dallo Stato alla crisi neoliberista, Ombre Corte, Verona, 2014; Idem, Oltre l’ambivalenza: la nuova sfida del femminismo in Scienza & Politica n.54/2016, pp.87-102.

 

LE CONTRADDIZIONI DEL CAPITALE E DEL ‘LAVORO DI CURA’

di NANCY FRASER*

Senza tutto quello che va comunemente sotto il nome di ‘lavoro di cura’ – mettere al mondo e crescere bambini, occuparsi di amici e familiari eccetera – non vi sarebbero cultura, economia, organizzazione politica. Ma tutti questi processi di ‘riproduzione sociale’ – storicamente assegnati al lavoro delle donne – vivono oggi una profonda crisi. Una crisi che, secondo Nancy Fraser, autrice insieme ad Axel Honneth di Redistribuzione o riconoscimento?, è espressione più o meno acuta delle contraddizioni sociali-riproduttive del capitalismo finanziarizzato, che da un lato dipende da questo lavoro di cura per la produzione economica e dall’altro tende a penalizzare quelle stesse capacità riproduttive di cui ha bisogno.

* * *

La «crisi della cura» è oggi un argomento centrale nel dibattito pubblico[1]. Spesso associata alle idee di «mancanza di tempo», «conciliazione lavoro-famiglia» e «impoverimento sociale», fa riferimento alle pressioni che, da più direzioni, stanno attualmente limitando un insieme fondamentale di capacità sociali: mettere al mondo e crescere bambini, prendersi cura di amici e familiari, sostenere famiglie e più ampie comunità, e più in generale mantenere legami[2]. Storicamente, questi processi di «riproduzione sociale» sono stati assegnati al lavoro delle donne, anche se gli uomini ne hanno sempre svolto una parte. Si tratta di un lavoro sia affettivo che materiale, spesso svolto senza retribuzione, indispensabile alla società. In sua assenza non vi sarebbero cultura, economia, organizzazione politica. Nessuna società che indebolisca sistematicamente la riproduzione sociale può resistere a lungo. Oggi, tuttavia, una nuova forma di società capitalistica sta facendo proprio questo. Il risultato è una crisi profonda, non semplicemente della cura, ma della riproduzione sociale in senso lato.

Considero questa crisi come un aspetto di una «crisi generale» che include anche componenti economiche, ecologiche e politiche, le quali si intersecano e aggravano l’un l’altra. La componente relativa alla riproduzione sociale costituisce una dimensione importante di questa crisi generale, ma è spesso trascurata nelle discussioni attuali, che si concentrano soprattutto sui pericoli economici o ecologici. Questo «separatismo critico» è problematico; la componente sociale svolge un ruolo tanto centrale nella crisi più ampia che nessuna delle altre può essere compresa senza tenerne conto. Tuttavia, è vero anche il contrario. La crisi della riproduzione sociale non è indipendente e non può essere adeguatamente compresa da sola. Come intenderla allora? Ritengo che la «crisi della cura» sia meglio interpretata come espressione più o meno acuta delle contraddizioni sociali-riproduttive del capitalismo finanziarizzato. Ciò suggerisce due idee. In primo luogo, le attuali pressioni sulla cura non sono casuali, ma hanno profonde radici sistemiche nella struttura del nostro ordine sociale, che chiamo qui capitalismo finanziarizzato. Nonostante ciò, e questo è il secondo punto, l’attuale crisi della riproduzione sociale indica un che di viziato non solo nell’attuale forma finanziarizzata del capitalismo, ma nella società capitalistica in quanto tale.

La mia tesi è che ogni forma di società capitalistica nutra una profonda «tendenza alla crisi» o contraddizione sociale-riproduttiva: da un lato, la riproduzione sociale è una condizione di possibilità per l’accumulazione continua di capitale; dall’altro, la propensione del capitalismo all’accumulazione illimitata tende a destabilizzare i processi di riproduzione sociale da cui pure dipende. Questa contraddizione sociale-riproduttiva del capitalismo è alla radice della cosiddetta crisi della cura. Benché intrinseca al capitalismo in quanto tale, assume un carattere diverso e distintivo in ogni forma storicamente specifica di società capitalistica – nel capitalismo liberale concorrenziale del XIX secolo; nel capitalismo regolato dallo Stato del dopoguerra; e nel capitalismo neoliberale finanziarizzato del nostro tempo. I deficit di cura che oggi viviamo sono la forma che assume questa contraddizione nella sua terza, più recente fase dello sviluppo capitalistico.

Per sviluppare questa tesi, propongo in primo luogo un quadro della contraddizione sociale del capitalismo in quanto tale, nella sua forma generale. In secondo luogo, tratteggio le linee del suo dispiegamento storico nelle due fasi iniziali dello sviluppo capitalistico. Infine, suggerisco una lettura dei «deficit di cura» odierni come espressioni della contraddizione sociale del capitalismo nella sua fase finanziarizzata attuale.

Trarre vantaggio dal mondo della vita

Gran parte degli analisti della crisi contemporanea si concentrano sulle contraddizioni interne del sistema economico capitalistico. Nel suo cuore, sostengono, opera una tendenza radicata all’autodestabilizzazione, che si esprime periodicamente nelle crisi economiche. Fino a un certo punto, questa interpretazione è corretta; ma non prevede un quadro completo delle tendenze alla crisi intrinseche al capitalismo. Adottando una prospettiva economicistica, intende il capitalismo in modo troppo restrittivo, come un sistema economico simpliciter. Al contrario, intendo assumere una lettura più ampia del capitalismo, comprensiva sia dell’economia ufficiale sia delle sue condizioni «non-economiche» di sfondo. Una simile prospettiva ci consente di concettualizzare, e criticare, lo spettro complessivo delle tendenze alla crisi del capitalismo, incluse quelle riguardanti la riproduzione sociale.

Sostengo che il sottosistema economico capitalistico dipenda da attività sociali riproduttive esterne ad esso, le quali costituiscono una delle sue condizioni di possibilità fondamentali. Altre condizioni di sfondo comprendono le funzioni di governance dei pubblici poteri e la disponibilità della natura come fonte di «input produttivi» e come «canale di scarico» per gli scarti della produzione[3]. Qui, tuttavia, mi concentrerò sul modo in cui l’economia capitalistica dipende da – ma si potrebbe dire, approfitta di – attività di sostentamento, cura e interazione che producono e mantengono i legami sociali, benché non accordi loro alcun valore monetario e li tratti come se fossero gratuiti. Variamente denominata «cura», «lavoro affettivo» o «soggettivazione», quest’attività forma i soggetti umani del capitalismo, li sostiene come esseri naturali incarnati e li costituisce come esseri sociali, formando il loro habitus e l’ethos culturale in cui si muovono. Il lavoro di mettere al mondo e di socializzare i giovani svolge un ruolo centrale in questo processo, almeno quanto prendersi cura degli anziani, mantenere la sfera familiare, costruire la comunità e sostenere significati comuni, disposizioni affettive e orizzonti di valore che sono alla base della cooperazione sociale. Nelle società capitalistiche, gran parte di queste attività, benché non tutte, si svolge al di fuori del mercato – nelle case, nei quartieri, nelle associazioni della società civile, nelle reti informali e nelle istituzioni pubbliche come la scuola, e relativamente poche fra di esse prendono la forma del lavoro salariato. L’attività sociale-riproduttiva non pagata è necessaria all’esistenza del lavoro pagato, all’accumulazione di plusvalore e al funzionamento del capitalismo in quanto tale. Nulla di tutto questo potrebbe esistere in assenza del lavoro domestico, dell’educazione dei bambini, dell’istruzione scolastica, della cura affettiva e di una quantità di altre attività che servono a produrre nuove generazioni di lavoratori e a riprodurre le esistenti, nonché a mantenere legami sociali e visioni comuni. La riproduzione sociale è una condizione di sfondo indispensabile per la possibilità della produzione economica nella società capitalistica[4].

Tuttavia, almeno a partire dall’epoca industriale, le società capitalistiche hanno separato il lavoro di riproduzione sociale dal lavoro di produzione economica. Associando il primo alle donne e il secondo agli uomini, hanno ripagato le attività «riproduttive» con la moneta dell’«amore» e della «virtù», continuando a compensare il «lavoro produttivo» in denaro. In questo modo, le società capitalistiche hanno posto i fondamenti istituzionali per nuove, moderne forme di subordinazione delle donne. Separando il lavoro riproduttivo dal più vasto universo delle attività umane, in cui il lavoro delle donne occupava in precedenza un posto riconosciuto, lo hanno relegato in una «sfera domestica» di nuova istituzione, la cui importanza sociale è stata occultata. E in questo nuovo mondo, in cui il denaro è diventato il principale mezzo di potere, il carattere non remunerato del lavoro delle donne ne ha segnato il destino: chi svolge questo lavoro è in una posizione di subordinazione strutturale a chi guadagna salari in denaro, anche se soddisfa una precondizione necessaria per il lavoro salariato stesso – e viene saturato e mistificato con i nuovi ideali domestici di femminilità.

In generale, quindi, le società capitalistiche separano la riproduzione sociale dalla produzione economica, associando la prima alle donne e oscurando la sua importanza e il suo valore. Paradossalmente, tuttavia, esse rendono le loro economie ufficiali dipendenti proprio dagli stessi processi di riproduzione sociale il cui valore disconoscono. Questa peculiare relazione di separazione-dipendenza-disconoscimento è intrinseca fonte di instabilità: da un lato, la produzione economica capitalistica non è autosufficiente, ma dipende dalla riproduzione sociale; dall’altro, la sua spinta all’accumulazione illimitata minaccia di destabilizzare gli stessi processi e le capacità riproduttive di cui il capitale – e tutti noi – abbiamo bisogno. Nel tempo, come vedremo, ciò può compromettere le condizioni sociali indispensabili all’economia capitalistica. Qui, in effetti, risiede una «contraddizione sociale» intrinseca alla struttura profonda del capitalismo. Come le contraddizioni economiche evidenziate dai marxisti, anche questa è alla base di una tendenza alla crisi. In questo caso, però, la contraddizione non si colloca «all’interno» dell’economia capitalistica, bensì sul confine che separa e al contempo unisce produzione e riproduzione. Né intra-economica né intra-domestica, si tratta di una contraddizione fra questi due elementi costitutivi della società capitalistica. Spesso, beninteso, questa contraddizione è sopita, e la connessa tendenza alla crisi rimane nascosta. Si fa acuta, tuttavia, quando la spinta del capitale all’accumulazione si rende avulsa dalle sue basi sociali, rivoltandosi contro di esse. In questo caso, la logica della produzione economica prevale su quella della riproduzione sociale, destabilizzando i processi da cui dipende il capitale – a risultarne compromesse sono allora le capacità sociali, sia domestiche che pubbliche, indispensabili per sostenere l’accumulazione nel lungo periodo. Distruggendo le condizioni della sua stessa esistenza, la dinamica accumulativa del capitale finisce di fatto per mangiarsi la coda.

Realizzazioni storiche

Questa è la struttura della generale tendenza alla crisi sociale del «capitalismo in quanto tale». Tuttavia, la società capitalistica esiste solo in forme o regimi di accumulazione storicamente specifici. Infatti, l’organizzazione capitalistica della riproduzione sociale ha subìto importanti mutazioni storiche, spesso come esito di contestazioni politiche – in particolare nei periodi di crisi, quando gli attori sociali lottano sui confini che delimitano l’«economia» dalla «società», la «produzione» dalla «riproduzione», il «lavoro» dalla «famiglia», talvolta riuscendo a ridisegnarli. Queste «lotte di confine», come le ho definite, sono tanto essenziali alle società capitalistiche quanto lo sono le lotte di classe analizzate da Marx, e i cambiamenti che producono segnano trasformazioni epocali[5]. Una prospettiva che ponga in primo piano questi cambiamenti può distinguere almeno tre regimi di articolazione della coppia «riproduzione sociale-produzione economica» nella storia del capitalismo.

  • Il primo è il regime del capitalismo liberale concorrenziale del XIX secolo. Combinando sfruttamento industriale nel centro europeo ed espropriazione coloniale nella periferia, questo regime si è caratterizzato per la tendenza a lasciare i lavoratori riprodursi «autonomamente», al di fuori dei circuiti di valore monetizzato, mentre gli Stati si tenevano in disparte. Tuttavia, esso ha anche creato un nuovo immaginario borghese di vita domestica. Facendo della riproduzione sociale la provincia delle donne nella famiglia privata, questo regime ha elaborato l’ideale delle «sfere separate», proprio mentre ha privato gran parte delle persone delle condizioni necessarie alla sua realizzazione.
  • Il secondo regime è quello del capitalismo regolato dallo Stato del XX secolo. Basato su produzione industriale di massa e consumismo domestico al centro, e sostenuto dalla continua espropriazione coloniale e postcoloniale alla periferia, questo regime ha internalizzato la riproduzione sociale attraverso lo Stato e le prestazioni sociali aziendali. Modificando il modello vittoriano delle sfere separate, ha promosso l’ideale apparentemente più moderno del «salario familiare», anche se, ancora una volta, relativamente poche famiglie erano nelle condizioni di raggiungerlo.
  • Il terzo regime è il capitalismo finanziarizzato globale dell’epoca attuale. Questo regime ha delocalizzato la produzione manufatturiera in regioni a bassi costi salariali, ha reclutato le donne nelle forza lavoro pagata e incoraggiato il disinvestimento statale e aziendale dalla protezione sociale. Esternalizzando il lavoro di cura su famiglie e comunità, ha contemporaneamente diminuito la loro capacità di sostenerlo. In un contesto di crescente diseguaglianza, il risultato è un’organizzazione duale della riproduzione sociale, mercificata per quelli che possono pagare per averla, ricondotta al privato familiare per quelli che non possono – il tutto contornato dall’ideale ancora più moderno della «famiglia bireddito».

In ogni regime, dunque, le condizioni sociali-riproduttive per la produzione capitalistica hanno assunto una forma istituzionale e incarnato un ordine normativo differenti: prima le «sfere separate», poi «il salario familiare», ora la «famiglia bireddito». In ciascun caso, inoltre, la contraddizione sociale della società capitalistica ha assunto un profilo diverso, trovando espressione in un insieme eterogeneo di fenomeni di crisi. In ogni regime, infine, la contraddizione sociale del capitalismo ha provocato diverse forme di lotta sociale – lotte di classe, senz’altro, ma anche lotte di confine – le quali si sono intrecciate anche con altre lotte, per l’emancipazione di donne, schiavi e popoli colonizzati.

“Casalinghizzazione”

Consideriamo anzitutto il capitalismo liberale concorrenziale del XIX secolo. In quest’epoca, gli imperativi di produzione e riproduzione sembravano stare in aperta contraddizione l’uno con l’altro. Nei primi centri manufatturieri del nucleo capitalista, gli industriali costrinsero donne e bambini nelle fabbriche e nelle miniere, avidi di lavoro a basso costo e data la loro reputazione di docilità. Pagate una miseria e costrette a lavorare per molte ore in condizioni malsane, queste lavoratrici diventarono il simbolo del disprezzo del sistema capitalistico per le relazioni e le capacità sociali alla base della sua produttività[6]. Ne seguì una crisi su almeno due livelli: da un lato, una crisi della riproduzione sociale fra poveri e classi lavoratrici, le cui capacità di sostentamento e riproduzione giunsero al collasso; dall’altro, un senso di panico morale fra le classi medie, scandalizzate da quella che ai loro occhi era la «distruzione della famiglia» e la «de-sessuazione» delle donne della classe operaia. La situazione era grave al punto che anche critici tanto acuti come Marx ed Engels fraintesero questi primi conflitti frontali fra produzione economica e riproduzione sociale: credendo che il capitalismo fosse entrato nella sua crisi terminale, essi pensavano che, nel distruggere la famiglia proletaria, il sistema stesse anche sradicando le basi dell’oppressione delle donne[7]. Ma quel che stava accadendo era in realtà proprio il contrario: nel corso del tempo, le società capitalistiche trovavano risorse per gestire questa contraddizione – in parte creando «la famiglia» nella sua ristretta forma moderna, reinventando e intensificando le differenze di genere, e modernizzando il dominio maschile.

In Europa, il processo ebbe inizio con l’adozione di una legislazione protettiva. L’idea era di stabilizzare la riproduzione sociale limitando lo sfruttamento di donne e bambini nel lavoro di fabbrica[8]. Guidata dai riformisti della classe media in alleanza con le nascenti organizzazioni dei lavoratori, questa «soluzione» rifletteva un amalgama complesso di motivazioni eterogenee. Un obiettivo, descritto com’è noto da Karl Polanyi, consisteva nel difendere la «società» dall’«economia»[9]. Un altro obiettivo consisteva nel placare l’ansia per il «livellamento di genere». Ma queste ragioni si legavano anche a qualcos’altro: l’importanza assegnata all’autorità maschile su donne e bambini, in particolare all’interno della famiglia[10]. Di conseguenza, la lotta per garantire l’integrità della riproduzione sociale finì per intrecciarsi con la difesa del dominio maschile.

L’effetto voluto, tuttavia, era di mettere a tacere la contraddizione sociale nel centro capitalistico – proprio mentre la schiavitù e il colonialismo nella periferia la portavano all’estremo. Creando quella che Maria Mies ha chamato «casalinghizzazione» (housewifization), intesa come l’altra faccia della colonizzazione[11], il capitalismo liberale concorrenziale diede forma a un nuovo immaginario di genere incentrato sulle sfere separate. Rappresentando la donna come «l’angelo del focolare», i suoi sostenitori erano alla ricerca di un’àncora di stabilità che controbilanciasse la volatilità dell’economia. Lo spietato mondo della produzione andava affiancato da un «paradiso in un mondo senza cuore»[12]. Finché ogni lato si atteneva alla sua designata sfera, fungendo da complemento dell’altro, il loro potenziale conflitto sarebbe rimasto nascosto.

In realtà, questa «soluzione» si rivelò piuttosto precaria. La legislazione protettiva non poteva assicurare la riproduzione del lavoro se i salari rimanevano al di sotto del livello necessario a sostenere una famiglia, se le abitazioni affollate e immerse nell’inquinamento impedivano la vita privata e causavano malattie polmonari, se l’occupazione stessa (quando disponibile) era soggetta a fluttuazioni selvagge dovute a bancarotte, crolli di mercato e panico finanziario. Neanche i lavoratori erano soddisfatti di questo compromesso. Mobilitandosi per salari più alti e migliori condizioni di lavoro, formarono sindacati, organizzarono scioperi e aderirono a partiti socialisti e laburisti. Lacerato da un conflitto di classe sempre più acuto ed esteso, il futuro del capitalismo sembrava tutto fuorché garantito.

Le sfere separate si rivelarono anch’esse problematiche. Le donne povere e razzializzate della classe operaia non erano certo nella posizione per soddisfare gli ideali vittoriani di vita domestica; se la legislazione protettiva mitigava il loro sfruttamento diretto, non offriva loro alcun supporto materiale o compensazione per la perdita del salario. Neanche le donne della middle-class, che avevano i mezzi per conformarsi agli ideali vittoriani, erano soddisfatte della loro situazione, che combinava comodità materiale e prestigio morale con lo stato di minorità legale e dipendenza istituzionalizzata. Per entrambi i gruppi, la «soluzione» delle sfere separate si realizzava in gran parte a spese delle donne. Ma finì anche per metterle le une contro le altre – come testimoniano le lotte del XIX secolo sulla prostituzione, in cui le preoccupazioni filantropiche delle donne della middle-class vittoriana confliggevano con gli interessi materiali delle loro «sorelle perdute»[13].

Una dinamica diversa aveva luogo alla periferia. Lì, poiché il colonialismo estrattivo saccheggiava popolazioni soggiogate, né le sfere separate né la protezione sociale godevano di alcun credito. Lungi dal tentare di proteggere le relazioni locali di riproduzione sociale, i poteri delle metropoli incoraggiavano attivamente la loro distruzione. Le popolazioni rurali furono depredate e le loro comunità distrutte per fornire cibo a basso costo, tessuti, minerali ed energia, senza i quali lo sfruttamento dei lavoratori industriali delle metropoli non sarebbe stato redditizio. Nelle Americhe, intanto, le capacità riproduttive delle donne ridotte in schiavitù furono asservite ai calcoli di profitto dei piantatori, che regolarmente distruggevano le famiglie di schiavi vendendone i membri a più proprietari[14]. Anche i bambini nativi furono strappati dalle comunità, reclutati in scuole missionarie e sottomessi a discipline coercitive di assimilazione[15]. Quando si rendevano necessarie delle giustificazioni, lo stato «retrogrado, patriarcale» delle collettività parentali indigene pre-capitalistiche serviva alquanto bene allo scopo. Anche qui, fra i colonialisti, le donne filantrope fecero sentire pubblicamente la loro voce, esortando «gli uomini bianchi a salvare le donne scure dagli uomini scuri»[16].

Tanto al centro quanto alla periferia, i movimenti femministi si trovarono a negoziare un campo politico minato. Nel rifiutare la tutela maritale e le sfere separate e nel rivendicare il diritto di voto, il rifiuto del sesso, l’ accesso alla proprietà, il diritto a stipulare contratti, a svolgere professioni ed esercitare un controllo sui propri salari, le femministe liberali sembravano dare più valore all’aspirazione «maschile» all’autonomia che agli ideali «femminili» di cura. E su questo punto, come su poco altro, le loro controparti socialiste-femministe in effetti concordavano. Considerando l’ingresso delle donne nel lavoro salariato come la strada verso l’emancipazione, anche queste ultime preferivano i valori «maschili» della produzione a quelli legati alla riproduzione. Queste associazioni erano senz’altro ideologiche, ma celavano un’intuizione profonda: nonostante le nuove forme di dominio che portava con sé, l’erosione delle relazioni di parentela tradizionali da parte del capitalismo conteneva un momento di emancipazione.

Intrappolate in questa contraddizione, molte femministe trovarono scarsa consolazione su entrambi i lati del doppio movimento di Polanyi: quello della protezione sociale, con il suo corollario di dominio maschile, e quello della logica di mercato, con il suo disprezzo per la riproduzione sociale. Incapaci tanto semplicemente di rifiutare quanto di accettare l’ordine liberale, avevano bisogno di una terza alternativa, che chiamarono emancipazione. Nella misura in cui le femministe furono capaci di impersonare quel termine, fecero effettivamente saltare la figura dualistica polanyiana, sostituendola con quello che potremmo chiamare un «triplo movimento». In questo conflitto su tre fronti, le sostenitrici della protezione e della mercatizzazione si scontravano non solo fra di loro, ma anche con chi difendeva l’emancipazione: con le femministe, certo, ma anche con socialisti, abolizionisti e anticolonialisti, i quali si sforzavano di mettere le due forze polanyiane l’una contro l’altra, proprio mentre si scontravano fra di loro. Per quanto in teoria promettente, una simile strategia era difficile da realizzare. Finché gli sforzi di «proteggere la società dall’economia» si confondevano con la difesa della gerarchia di genere, l’opposizione femminista al dominio maschile poteva facilmente essere accusata di avallare le forze economiche che stavano distruggendo la classe operaia e le comunità della periferia. Queste associazioni si sarebbero rivelate sorprendentemente durevoli, molto tempo dopo il collasso del capitalismo liberale concorrenziale sotto il peso delle sue molteplici contraddizioni, nell’agonia di guerre inter-imperialistiche, depressioni economiche e caos finanziario internazionale – aprendo la strada a un nuovo regime nella metà del XX secolo, quello del capitalismo regolato dallo Stato.

Fordismo e salario familiare

Emergendo dalle ceneri della Grande Depressione e della seconda guerra mondiale, il capitalismo regolato dallo Stato disinnescava la contraddizione fra produzione economica e riproduzione sociale in un altro modo – affidandosi al potere dello Stato sul lato della riproduzione. Assumendosi qualche responsabilità pubblica per la «previdenza sociale», gli Stati di quest’epoca cercarono di contrastare gli effetti corrosivi sulla riproduzione sociale non solo dello sfruttamento, ma anche della disoccupazione di massa. Tale obiettivo fu perseguito dagli Stati socialdemocratici del centro capitalistico e dagli Stati in via di sviluppo della periferia da poco indipendenti – nonostante le diseguali capacità di realizzarlo.

Le ragioni erano, ancora una volta, eterogenee. Un gruppo di élite illuminate era giunto a credere che l’interesse a breve termine del capitale nello spremere massimi profitti andasse subordinato all’esigenza più a lungo termine di sostenere l’accumulazione nel corso del tempo. L’istituzione del regime regolato dallo Stato rispondeva all’esigenza di salvare il sistema capitalistico dalle sue stesse propensioni a destabilizzarsi – nonché dallo spettro della rivoluzione in un’epoca di mobilitazioni di massa. La produttività e la ricerca del profitto richiedevano la coltivazione «biopolitica» di una forza lavoro in salute e istruita dotata di un interesse nel sistema, in opposizione alla cenciosa folla rivoluzionaria[17]. L’investimento pubblico in sanità, istruzione, servizi per l’infanzia e pensioni, con la partecipazione finanziaria delle imprese, era percepito come una necessità in un’epoca in cui i rapporti capitalistici avevano penetrato la vita sociale al punto che le classi lavoratrici non avevano più i mezzi per riprodurre se stesse in modo autosufficiente. In una tale situazione, la riproduzione sociale andava internalizzata, portata sotto il dominio ufficiale dell’ordine capitalista.

Il progetto rispondeva anche alla nuova problematica della «domanda» economica. Mirando ad appianare i cicli endemici di espansione e contrazione del capitalismo, i riformatori economici cercarono di assicurare la crescita continua consentendo ai lavoratori nel centro capitalista di assolvere a un doppio dovere di produttori e consumatori. Accettando la sindacalizzazione, che portava salari più alti, e la spesa pubblica, che creava occupazione, i decisori politici reinventarono ora la casa come uno spazio privato per il consumo domestico di oggetti di uso quotidiano prodotti in serie[18]. Legando la catena di montaggio al consumismo familiare della classe operaia da un lato, e alla riproduzione sostenuta dallo Stato dall’altro, tale modello fordista diede forma a una nuova sintesi di mercatizzazione e protezione sociale – progetti che Polanyi aveva considerato antitetici.

Ma furono soprattutto le classi lavoratrici – sia donne che uomini – a guidare la lotta per i servizi pubblici, agendo per proprie ragioni. In questione per loro era la piena appartenenza alla società come cittadini e cittadine democratici – quindi dignità, diritti, rispettabilità e benessere materiale, tutti elementi che erano intesi richiedere una vita familiare stabile. Appoggiando la socialdemocrazia, allora, le classi lavoratrici stavano anche valorizzando la riproduzione sociale contro il dinamismo divorante della produzione economica. In effetti, i lavoratori votavano per famiglia, territorio e mondo-della-vita contro fabbrica, sistema e macchine. Diversamente dalla legislazione protettiva del regime liberale, la politica del capitalismo regolato dallo Stato era il frutto di un compromesso di classe e rappresentava un progresso democratico. Diversamente dal regime precedente, inoltre, questi nuovi compromessi servirono, almeno per alcuni e per un po’ di tempo, a stabilizzare la riproduzione sociale. Per i lavoratori delle nazionalità maggioritarie dei paesi nel centro capitalista, esse alleviarono le pressioni materiali sulla vita familiare e favorirono l’integrazione politica.

Ma prima di affrettarci a proclamare un’età dell’oro, dovremmo tenere conto delle esclusioni costitutive che resero possibili questi risultati. Come in precedenza, la difesa della riproduzione sociale al centro si intrecciava con il (neo)imperialismo; i regimi fordisti finanziavano i diritti sociali in parte attraverso la continuazione dell’espropriazione della periferia – inclusa la «periferia nel centro» – che persisteva in vecchie e nuove forme dopo la decolonizzazione[19]. Nel frattempo, gli Stati postcoloniali stretti nella morsa della Guerra fredda diressero gran parte delle loro risorse, già impoverite dalla predazione imperiale, verso progetti di sviluppo su larga scala, che spesso comportavano l’espropriazione dei «propri» popoli indigeni. Per la grande maggioranza nella periferia la riproduzione sociale rimaneva esterna, dal momento che le popolazioni rurali furono abbandonate a loro stesse. Come il regime che lo aveva preceduto, anche il regime regolato dallo Stato si intrecciava con le gerarchie razziali: le assicurazioni sociali statunitensi escludevano lavoratori domestici e agricoli, di fatto tagliando fuori molti afroamericani dalle prestazioni sociali[20]. E la divisione razziale del lavoro riproduttivo, cominciata durante la schiavitù, assunse una nuova forma sotto Jim Crow, considerato che le donne di colore trovavano lavoro mal pagato crescendo i bambini e facendo le pulizie nelle case delle famiglie «bianche», a scapito delle loro[21].

Neanche la gerarchia di genere mancava in questo compromesso. In un periodo – approssimativamente dagli anni Trenta fino alla fine degli anni Cinquanta – in cui i movimenti femministi non godevano di molta visibilità pubblica, difficilmente qualcuno contestava l’idea che la dignità proletaria richiedesse «il salario familiare», un’autorità maschile in casa e un forte senso della differenza di genere. Di conseguenza, la tendenza generale del capitalismo regolato dallo Stato nei paesi del centro era di valorizzare il modello eteronormativo, maschio-capofamiglia e donna-casalinga, della famiglia basata sul genere. L’investimento pubblico nella riproduzione sociale rafforzava queste norme. Negli Stati Uniti, il sistema previdenziale assumeva una forma duale, divisa in assistenza per donne povere («bianche») e bambini senza accesso a un salario maschile, da un lato, e un’assicurazione sociale considerata rispettabile per quelli che venivano costruiti come «lavoratori», dall’altro[22]. Invece, i provvedimenti europei rafforzavano la gerarchia androcentrica in modo diverso, nell’opposizione fra sussidi destinati alle madri e diritti legati al lavoro salariato – promossa in molti casi attraverso programmi a favore delle nascite nati dalla concorrenza fra Stati[23]. Entrambi i modelli legittimavano, assumevano e incoraggiavano il salario familiare. Istituzionalizzando una visione androcentrica della famiglia e del lavoro, essi naturalizzavano l’eteronormatività e la gerarchia di genere, sottraendoli ampiamente alla contestazione politica.

Sotto tutti questi aspetti, la socialdemocrazia sacrificava l’emancipazione in nome di un’alleanza fra protezione sociale e mercatizzazione, nonostante per molti decenni avesse mitigato la contraddizione sociale del capitalismo. Tuttavia, il regime di Stato capitalistico cominciava a disfarsi; prima politicamente, negli anni Sessanta, quando la New Left globale fece irruzione denunciando, in nome dell’emancipazione, le sue esclusioni imperialistiche, di genere e razziali, nonché il suo paternalismo burocratico; e poi economicamente, negli anni Settanta, quando la stagflazione, la «crisi di produttività», e il calo dei tassi di crescita nella produzione manufatturiera rinvigorirono gli sforzi neoliberali di dare il via libera alla mercatizzazione. Ad essere sacrificata nell’unione delle forze di queste due fazioni, sarebbe stata la protezione sociale.

Famiglie bireddito

Come il precedente regime liberale, l’ordine del capitalismo regolato dallo Stato si è dissolto nel corso di una lunga crisi. A partire dagli anni Ottanta, alcuni osservatori potevano distinguere precocemente i primi tratti di un nuovo regime, che sarebbe diventato il capitalismo finanziarizzato dell’epoca attuale. Questo regime, globalizzato e neoliberale, promuove il disinvestimento pubblico e privato dalla protezione sociale mentre recluta le donne nella forza lavoro pagata – esternalizzando il lavoro di cura verso le famiglie e le comunità nell’atto stesso di indebolire la loro capacità di realizzarlo. Il risultato è una nuova organizzazione duale della riproduzione sociale, mercificata per quelli che possono pagare per averla, e ricondotta al privato familiare per quelli che non possono, considerato che alcuni membri della seconda categoria offrono lavoro di cura ad alcuni membri della prima, in cambio di (bassi) salari. Nel frattempo, l’azione congiunta della critica femminista e della deindustrializzazione ha definitivamente spogliato «il salario familiare» di ogni credibilità. Quell’ideale ha aperto la strada alla norma contemporanea della «famiglia bireddito».

Il principale motore di questi sviluppi, nonché tratto distintivo del regime, è la nuova centralità del debito. Il debito è lo strumento attraverso cui le istituzioni globali finanziarie premono sugli Stati per tagliare la spesa sociale, imporre l’austerità, e in generale colludere con gli investitori nell’estrazione di valore da popolazioni inermi. Di più, è soprattutto attraverso il debito che i contadini nel Sud Globale sono spossessati da un nuovo giro di appropriazioni private del suolo, finalizzato a monopolizzare l’offerta di energia, acqua, terra coltivabile e delle «compensazioni per l’emissione di anidride carbonica». È sempre più attraverso il debito che procede anche l’accumulazione nel nucleo storico del capitalismo: dal momento che il lavoro precario e malpagato nei servizi sostituisce il lavoro sindacalizzato industriale, i salari cadono al di sotto dei costi socialmente necessari di riproduzione; in questa «economia dei lavoretti» («gig economy»), la spesa costante per i consumi richiede un’espansione del volume dei crediti al consumatore, che cresce in modo esponenziale[24]. È sempre più attraverso il debito, in altre parole, che il capitale oggi cannibalizza il lavoro, disciplina gli Stati, trasferisce ricchezza dalla periferia al centro ed estrae valore da case, famiglie, comunità e natura.

L’effetto è quello di intensificare la contraddizione insita nel capitalismo fra produzione economica e riproduzione sociale. Mentre il regime precedente consentiva agli Stati di subordinare gli interessi a breve termine delle aziende private all’obiettivo a lungo termine dell’accumulazione, in parte stabilizzando la riproduzione con le prestazioni pubbliche, questo regime autorizza il capitale finanziario a subordinare Stati e istituzioni agli interessi immediati degli investitori privati, non ultimo chiedendo il disinvestimento pubblico dalla riproduzione sociale. Se il regime precedente alleava la mercatizzazione con la protezione sociale contro l’emancipazione, questo genera una configurazione anche più perversa, in cui l’emancipazione si unisce alla mercatizzazione per indebolire la protezione sociale.

Il nuovo regime è emerso dalla fatale intersezione fra due insiemi di lotte. Un insieme opponeva una fazione ascendente di sostenitori del libero mercato, decisi a liberalizzare e globalizzare l’economia capitalistica, contro i movimenti dei lavoratori in declino nei paesi del centro; se in passato erano la base più forte di supporto alla socialdemocrazia, sono adesso sulla difensiva, se non del tutto sconfitti. L’altro insieme di lotte opponeva i «nuovi movimenti sociali» progressisti, che contestavano le gerarchie di genere, sesso, «razza», etnia e religione, contro popolazioni intenzionate a difendere mondi-della-vita  stabiliti e privilegi, ora minacciati dal «cosmopolitismo» della new economy. Dalla collisione di questi due insiemi di lotte è emerso un risultato inatteso: un neoliberalismo «progressista», che celebra la «diversità», la meritocrazia e l’«emancipazione» mentre smantella le protezioni sociali e ri-esternalizza la riproduzione sociale. La conseguenza non è solo l’abbandono delle popolazioni inermi alle predazioni del capitale, ma anche  la ridefinizione dell’emancipazione in termini di mercato[25]. Alcuni movimenti per l’emancipazione hanno partecipato a questo processo. Tutti – compresi i movimenti antirazzisti, multiculturalisti, per la liberazione LGBT e per l’ecologia – hanno dato vita a correnti neoliberali favorevoli al mercato. Ma la traiettoria femminista si è rivelata particolarmente fatale, dato il legame capitalistico di lunga data fra genere e riproduzione sociale. Come i regimi precedenti, il capitalismo finanziarizzato istituzionalizza la divisione produzione-riproduzione su una base di genere. Diversamente dai regimi precedenti, però, il suo immaginario dominante è liberale-individualista ed egualitarista rispetto al genere: le donne sono considerate uguali agli uomini in ogni sfera, meritevoli di uguali opportunità per realizzare i loro talenti, compreso – forse in modo particolare – nella sfera della produzione. La riproduzione, per contro, appare come un residuo arretrato, un ostacolo al progresso da eliminare, in un modo o nell’altro, nella strada verso la liberazione.

A dispetto o forse a causa della sua aura femminista, questa concezione incarna l’attuale forma della contraddizione sociale del capitalismo, che assume una nuova intensità. Oltre a ridurre le prestazioni pubbliche e ad assumere donne nel lavoro salariato, il capitalismo finanziarizzato ha abbassato i salari reali, così portando i membri dei nuclei familiari ad aumentare il numero di ore di lavoro pagato necessario a sostenere una famiglia, e spingendo a una corsa disperata per trasferire ad altri il lavoro di cura[26]. Per colmare il «divario della cura» (care gap), il regime importa lavoratrici migranti dalle nazioni più povere a quelle più ricche. Tipicamente, si tratta di donne razzializzate, spesso donne rurali provenienti da regioni povere che si fanno carico del lavoro riproduttivo e di cura che prima era svolto da donne più privilegiate. Ma per poterlo fare, le migranti devono trasferire le proprie responsabilità familiari e comunitarie ad altre lavoratrici della cura ancora più povere, che a loro volta devono fare lo stesso – e così via, in sempre più lunghe «catene globali della cura». Lungi dal colmare il divario della cura, l’effetto netto è di delocalizzarlo – dalle famiglie più ricche alle più povere, dal Nord globale al Sud globale[27]. Questo scenario incontra le strategie di genere degli Stati postcoloniali a corto di denaro e indebitati, soggetti ai programmi di regolazione strutturale dell’FMI. Alla disperata ricerca di valuta forte, alcuni fra loro hanno promosso attivamente l’emigrazione delle donne per svolgere all’estero lavoro di cura pagato e così beneficiare delle rimesse, mentre altri hanno corteggiato l’investimento estero diretto creando zone di trasformazione per l’esportazione, spesso nelle industrie, per esempio tessili o di elettronica, che preferiscono impiegare lavoratrici donne[28]. In entrambi i casi, le capacità sociali-riproduttive sono ulteriormente colpite.

Due recenti sviluppi negli Stati Uniti offrono un esempio della gravità della situazione. Il primo è la crescente popolarità del «congelamento degli ovuli», una procedura che normalmente costa 10 mila dollari, ma adesso offerta gratuitamente dalle aziende IT come beneficio aggiuntivo alle impiegate più qualificate. Impazienti di attirare e trattenere queste lavoratrici, aziende come Apple e Facebook offrono loro un forte incentivo a rimandare la gravidanza, dicendo, di fatto: «Aspetta e abbi i tuoi bambini a quaranta, cinquanta, o anche sessant’anni; dedica a noi i tuoi anni più produttivi, quelli in cui hai più energia»[29].

Un secondo sviluppo negli Stati Uniti è ugualmente sintomatico della contraddizione fra riproduzione e produzione: la proliferazione di tiralatte meccanici molto costosi ad alta tecnologia, per la raccolta del latte materno. Questa è la «soluzione» a cui ricorrere in un paese con un alto tasso di partecipazione della forza lavoro femminile, privo di congedo obbligatorio di maternità o parentale, e una relazione d’amore con la tecnologia. Questo è un paese, inoltre, in cui l’allattamento al seno è de rigueur, ma è cambiato radicalmente, più di quanto venga riconosciuto. Non si tratta più di allattare un bambino al seno, ora «si allatta» raccogliendo il proprio latte meccanicamente e depositandolo per l’alimentazione con il biberon in un secondo momento da parte della tata. In un contesto caratterizzato da cronica mancanza di tempo, i tiralatte a doppia coppa che non richiedono l’uso delle mani sono considerati preferibili, perché permettono di raccogliere il latte contemporaneamente da entrambi i seni durante la guida in autostrada per andare al lavoro[30].

Date simili pressioni, c’è forse da stupirsi se negli ultimi anni sono esplose le lotte sulla riproduzione sociale? Le femministe del Nord spesso descrivono il fulcro delle loro rivendicazioni in termini di «conciliazione lavoro-famiglia»[31]. Ma le lotte sulla riproduzione sociale includono molto di più: movimenti comunitari per la casa, le cure sanitarie, la sicurezza alimentare e un reddito di base incondizionato; lotte per i diritti di migranti, lavoratrici domestiche e impiegati pubblici; campagne per sindacalizzare le lavoratrici del settore dei servizi in case di cura, ospedali e centri per l’infanzia privati; lotte per i servizi pubblici come asili e centri per gli anziani, per una settimana lavorativa più corta, per un generoso congedo di maternità e parentale pagato. Considerate insieme, queste rivendicazioni equivalgono alla richiesta di una massiccia riorganizzazione del rapporto fra produzione e riproduzione: per delle soluzioni sociali che possano mettere persone di ogni classe, genere, sessualità e colore, nelle condizioni di coniugare attività sociali-riproduttive con un lavoro sicuro, interessante e ben remunerato.

Le lotte sui confini della riproduzione sociale sono tanto centrali nell’attuale congiuntura quanto lo sono le lotte di classe per la produzione economica. Esse rispondono prima di tutto a una «crisi della cura» radicata nelle dinamiche strutturali del capitalismo finanziarizzato. Globalizzato e alimentato dal debito, questo capitalismo sta espropriando sistematicamente le capacità disponibili per sostenere i legami sociali. Annunciando il nuovo ideale della famiglia bireddito, esso attira a sé movimenti per l’emancipazione, che si uniscono ai sostenitori della mercatizzazione per opporsi ai partigiani della protezione sociale, ora diventati sempre più risentiti e sciovinisti.

Un’altra mutazione?

Cosa potrebbe emergere da questa crisi? Nel corso della sua storia, la società capitalistica ha reinventato se stessa molte volte. Specie nei momenti di crisi generale, quando molteplici contraddizioni – politica, economica, ecologica e sociale-riproduttiva – si intrecciano e inaspriscono l’un l’altra, le lotte di confine sono esplose nelle giunture delle divisioni istituzionali costitutive del capitalismo: dove l’economia incontra la politica, dove la società incontra la natura, e dove la produzione incontra la riproduzione. Gli attori sociali si sono mobilitati su questi confini per ridisegnare la mappa istituzionale della società capitalistica. I loro sforzi hanno alimentato il passaggio prima dal capitalismo liberale concorrenziale del XIX secolo al capitalismo regolato dallo Stato del XX, e in seguito al capitalismo finanziarizzato dell’epoca attuale. Inoltre, la contraddizione sociale del capitalismo costituisce storicamente una componente essenziale nelle dinamiche che conducono alla crisi, dato che il confine che divide la riproduzione sociale dalla produzione economica si è rivelato come la sede e la posta in gioco fondamentale della lotta. Ogni volta, l’ordine di genere della società capitalistica è stato contestato, e l’esito è dipeso dalle alleanze formatesi fra i poli principali di un triplo movimento: mercatizzazione, protezione sociale, emancipazione. Queste dinamiche sono il motore della transizione, prima dalle sfere separate al salario familiare, poi alla famiglia bireddito.

Cosa aspettarsi dalla congiuntura attuale? Le contraddizioni odierne del capitalismo finanziarizzato sono tanto gravi da configurarsi come una crisi generale, e dovremmo aspettarci un’altra mutazione della società capitalistica? L’attuale crisi alimenterà le lotte, con ampiezza e prospettiva tali da trasformare l’attuale regime? Una nuova forma di femminismo socialista potrebbe riuscire a rompere la storia d’amore fra mercatizzazione e movimento mainstream, creando una nuova alleanza fra emancipazione e protezione sociale? E, se sì, a che fine? Come si potrebbe reinventare oggi la divisione riproduzione-produzione, e cosa potrebbe prendere il posto della famiglia bireddito?

Nulla di ciò che ho detto qui serve direttamente a rispondere a queste domande. Ma nel tracciare le basi che ci permettono di porle, ho provato a gettare un po’ di luce sulla congiuntura attuale. Più precisamente, ho suggerito che le radici della «crisi della cura» odierna risiedono nella contraddizione sociale insita nel capitalismo – o piuttosto nella forma acuta che la contraddizione assume oggi, nel capitalismo finanziarizzato. Se questa interpretazione è corretta, allora la crisi non sarà risolta tentando di dare una ritoccata alle politiche sociali. Il percorso per la sua risoluzione può passare solo attraverso una profonda trasformazione strutturale dell’ordine sociale. Quel che è necessario, prima di tutto, è porre fine alla sottomissione rapace della riproduzione alla produzione compiuta dal capitalismo finanziarizzato – stavolta però senza sacrificare l’emancipazione o la protezione sociale. Ciò a sua volta richiede di reinventare la distinzione produzione-riproduzione e di reimmaginare l’ordine di genere. Resta da vedere se il risultato sarà del tutto compatibile con il capitalismo.

 

[* Questo saggio è uscito originariamente sulla New Left Review, n. 100/2016, con il titolo «Contradictions of Capital and Care» (goo.gl/wGYPFL). Su autorizzazione della NLR avrebbe dovuto essere pubblicato all’interno dell’Almanacco di filosofia di MicroMega in uscita il 14 dicembre ma la casa editrice Mimesis (chiedendo direttamente all’autrice che però non ha comunicato l’autorizzazione alla NLR), ha dato alle stampe una traduzione italiana che ci ha quindi indotti a scegliere di pubblicarlo sul sito anziché sul cartaceo.]

 

NOTE

[1] Una traduzione francese di questo saggio è stata presentata a Parigi il 14 giugno 2016 alla Marc Bloch Lecture dell’École des Hautes Études en Sciences Sociales ed è disponibile sul sito dell’École. Ringrazio Pierre-Cyrille Hautcoeur per l’invito alla conferenza, Johanna Oksala per le discussioni stimolanti, Mala Htun ed Eli Zaretsky per gli utili commenti, e Selim Heper per l’assistenza nella ricerca.

[2] Si vedano, fra i molti altri esempi recenti, R. Rosen, «The Care Crisis», The Nation, 27/2/2007; C. Hess, «Women and the Care Crisis», Institute for Women’s Policy Research Briefing Paper n. 401/2013; D. Boffey, «Half of All Services Now Failing as UK Care Sector Crisis Deepens», The Guardian, 26/9/2015. Sulla «mancanza di tempo», cfr. A. Hochschild, The Time Bind, Henry Holt and Company, New York 2001; H. Boushey, Finding Time, Harvard University Press, Cambridge  2016. Sulla «conciliazione lavoro-famiglia», cfr. H. Boushey-A. Rees Anderson, «Work–Life Balance», Forbes, 26/7/2013; M. Beck, «Finding Work-Life Balance», The Huffington Post, 10/3/2015. Sull’«impoverimento sociale», cfr. S. Rai-C. Hoskyns- D. Thomas, «Depletion: The Cost of Social Reproduction», International Feminist Journal of Politics, n. 1/2013.

[3] Per un quadro sulle condizioni politiche di sfondo necessarie a un’economia capitalistica, cfr. N. Fraser, «Legitimation Crisis?», Critical Historical Studies, n. 2/2015. Sulle condizioni ecologiche, cfr. J. O’Connor, «Capitalism, Nature, Socialism: A Theoretical Introduction», Capitalism, Nature, Socialism, n. 1/1988; J. Moore, Capitalism in the Web of Life, Verso, London-New York 2015.

[4] Molte teoriche femministe hanno proposto delle versioni di questo argomento. Per formulazioni marxiste-femministe, cfr. L. Vogel, Marxism and the Oppression of Women, Pluto Press, London 1983; S. Federici, Revolution at Point Zero, PM Press, New York 2012 (trad. it. di A. Curcio, Il punto zero della rivoluzione, Ombre corte, Verona 2014); C. Delphy, Close to Home, University of Massachusetts Press, Amherst 1984. Un’altra potente elaborazione si trova in N. Folbre, The Invisible Heart, The New Press, New York 2002 (trad. it. di F. Pretolani, Il cuore invisibile, EGEA, Milano 2014). Per la «teoria della riproduzione sociale», cfr. B. Laslett-J. Brenner, «Gender and Social Reproduction», Annual Review of Sociology, vol. 15, 1989; K. Bezanson-M. Luxton (a c. di), Social Reproduction, Montréal 2006; I. Bakker, «Social Reproduction and the Constitution of a Gendered Political Economy», New Political Economy, n. 4/2007; C. Arruzza, «Functionalist, Determinist, Reductionist», Science & Society, n. 1/2016.

[5] Sulle lotte di confine e per una critica della visione del capitalismo come economia, cfr. N. Fraser, «Behind Marx’s Hidden Abode»New Left Review, 2/2014.

[6] L. Tilly-J. Scott, Women, Work, and Family, Methuen, London 1987 (trad. it. di A. Lamarra, Donne, lavoro e famiglia nell’evoluzione della società capitalistica, De Donato, Bari 1981).

[7] K. Marx-F. Engels, «Manifesto of the Communist Party», in The Marx-Engels Reader, W.W. Norton and Company, New York 1978, pp. 487–8 (trad. it. di P. Togliatti, Manifesto del partito comunista, Editori Riuniti, Roma 1980); F. Engels, The Origins of the Family, Private Property and the State, Charles H. Kerr & Co., Chicago 1902, pp. 90–100 (trad. it. di D. Della Terza, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, Editori Riuniti, Roma 2005).

[8] N. Woloch, A Class by Herself, Princeton University Press, Princeton 2015.

[9] K. Polanyi, The Great Transformation, Beacon Press, Boston 2001, pp. 87, 138-9, 213 (trad. it. di R. Vigevani, La grande trasformazione, Einaudi, Torino 2010).

[10] A. Baron, «Protective Labour Legislation and the Cult of Domesticity», Journal of Family Issues, n. 1/1981.

[11] M. Mies, Patriarchy and Accumulation on a World Scale, Zed Books, London 2014, p. 74.

[12] E. Zaretsky, Capitalism, the Family and Personal Life, Harpercollins, New York 1986; S. Coontz, The Social Origins of Private Life, Verso, London-New York 1988.

[13] J. Walkowitz, Prostitution and Victorian Society, Cambridge University Press, Cambridge 1980; B. Hobson, Uneasy Virtue, University of Chicago Press, Chicago 1990.

[14] A. Davis, «Reflections on the Black Woman’s Role in the Community of Slaves», The Massachusetts Review, n. 2/1972 (trad. it. di M. Cartosio-L. Percovich, «Riflessioni sul ruolo della donna nera nella comunità degli schiavi», in A. Gordon et al., Donne bianche e donne nere nell’America dell’uomo bianco, La Salamandra, Milano 1975).

[15] D. W. Adams, Education for Extinction, University Press of Kansas, Kansas 1995; W. Churchill, Kill the Indian and Save the Man, City Lights Publishers, San Francisco 2004.

[16] G. Spivak, «Can the Subaltern Speak?» in C. Nelson-L. Grossberg (a c. di), Marxism and the Interpretation of Culture, Palgrave Macmillan, London 1988, p. 305 (trad. it. di A. D’Ottavio, in Critica della ragione postcoloniale, Meltemi, Roma 2004, p. 296).

[17] M. Foucault, «Governmentality», in G. Burchell-C. Gordon-P. Miller (a c. di), The Foucault Effect, The University of Chicago Press, Chicago 1991, pp. 87–104 (trad. it. di P. Pasquino, «Governamentalità», Aut Aut, n. 28/1978); Id., The Birth of Biopolitics, Lectures at the Collège de France 1978–1979, Picador, New York 2010, p. 64 (trad. it. di M. Bertani-V. Zini, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France 1978-1979, Feltrinelli, Milano 2005).

[18] K. Ross, Fast Cars, Clean Bodies, The MIT Press, Cambridge, 1996; D. Hayden, Building Suburbia, Pantheon Books, New York 2003; S. Ewen, Captains of Consciousness, McGraw-Hill, New York 1976.

[19] A quest’epoca, il sostegno statale alla riproduzione sociale era finanziato dal gettito fiscale e da fondi dedicati cui contribuivano, in diverse proporzioni, sia i lavoratori delle metropoli che il capitale, a seconda dei rapporti di forza fra le classi di ogni Stato. Ma questi flussi di entrate lievitavano col valore sottratto alla periferia mediante i profitti dall’investimento estero diretto e il commercio basato su uno scambio diseguale: R. Prebisch, The Economic Development of Latin America and its Principal Problems, United Nations, Department of Economic Affairs, New York 1950; P. Baran, The Political Economy of Growth, Monthly Review Press, New York 1957; G. Pilling, «Imperialism, Trade and “Unequal Exchange”: The Work of Aghiri Emmanuel», Economy and Society, n. 2/1973; G. Köhler-A. Tausch, Global Keynesianism, Nova Publishers, New York 2001.

[20] J. Quadagno,  The Color of Welfare, Oxford University Press, Oxford 1994; I. Katznelson, When Affirmative Action Was White, W. W. Norton & Company, New York 2005.

[21] J. Jones, Labor of Love, Labor of Sorrow, Basic Books, New York 1985; E. Nakano Glenn, Forced to Care, Harvard University Press, Cambridge 2010.

[22] N. Fraser, «Women, Welfare, and the Politics of Need Interpretation», in Id., Unruly Practices, University of Minnesota Press, Minneapolis 1989; B. Nelson, «Women’s Poverty and Women’s Citizenship», Signs: Journal of Women in Culture and Society, n. 2/1985; D. Pearce, «Women, Work and Welfare», in K. Wolk Feinstein (a c. di), Working Women and Families, Sage Publications, Beverly Hills 1979; J. Brenner, «Gender, Social Reproduction, and Women’s Self-Organization», Gender & Society, n. 3/1991.

[23] H. Land, «Who Cares for the Family?», Journal of Social Policy, n. 3/1978; H. Holter (a c. di), Patriarchy in a Welfare Society, Universitetsforlaget, Oslo 1984; M. Ruggie, The State and Working Women, Princeton University Press, Princeton 1984; B. Siim, «Women and the Welfare State», in C. Ungerson, (a c. di), Gender and Caring, Hemel Hempstead: Harvester Wheatsheaf, New York 1990; A.S. Orloff, «Gendering the Comparative Analysis of Welfare States», Sociological Theory, n. 3/2009.

[24] A. Roberts, «Financing Social Reproduction», New Political Economy, n. 1/2013.

[25] Frutto di un’improbabile alleanza fra sostenitori del libero mercato e «nuovi movimenti sociali», il nuovo regime sta rimescolando tutti i consueti allineamenti politici, opponendo femministe «progressiste» neoliberali come Hillary Clinton a populisti autoritari nazionalisti come Donald Trump.

[26] E. Warren-A. Warren Tyagi, The Two-Income Trap, Basic Books, New York 2003 (trad. it. di P. Salerno, Ceti medi in trappola, Sapere 2000 Ediz. Multimediali, Roma 2004).

[27]A. Hochschild, «Love and Gold», in B. Ehrenreich-A. Hochschild (a c. di), Global Woman, Holt Paperbacks, New York 2002, pp. 15–30 (trad. it. di V. Bellazzi-A. Bellomi, Donne globali, Feltrinelli, Milano 2004); B. Young, «The “Mistress” and the “Maid” in the Globalized Economy», Socialist Register, n. 37/2001.

[28] J. Bair, «On Difference and Capital», Signs, n. 1/2010.

[29] «Apple and Facebook offer to freeze eggs for female employees», The Guardian, 15/10/2014. Significativamente, questo beneficio non è più riservato esclusivamente alla classe professionale-tecnica-manageriale. L’esercito degli Stati Uniti adesso rende gratuitamente disponibile il congelamento degli ovuli alle donne arruolate che hanno accettato di impegnarsi per lunghi periodi di servizio: «Pentagon to Offer Plan to Store Eggs and Sperm to Retain Young Troops», The New York Times, 3/2/2016. Qui la logica del militarismo prevale su quella della privatizzazione. A mia conoscenza, nessuno ha ancora affrontato l’impellente questione di cosa fare con gli ovuli di una donna arruolata che muore in guerra.

[30] C. Jung, Lactivism, Basic Books, New York 2015, in particolare pp. 130–1. L’Affordable Care Act (alias «Obamacare») adesso impone alle assicurazioni sanitarie di offrire questi tiralatte gratuitamente alle loro beneficiarie. Così persino questo beneficio non è più prerogativa esclusiva delle donne privilegiate. L’effetto è di creare un nuovo enorme mercato per produttori che realizzano i tiralatte nei grandi stabilimenti dei loro subappaltatori cinesi: S. Kliff, «The breast pump industry is booming, thanks to Obamacare», The Washington Post, 4/1/2013.

[31] L. Belkin, «The Opt-Out Revolution», The New York Times, 26/10/2003; J. Warner, Perfect Madness, Riverhead Books, New York 2006; L. Miller, «The Retro Wife», New York Magazine, 17/3/2013; A.M. Slaughter, «Why Women Still Can’t Have It All», The Atlantic, 7-8/2012; Id., Unfinished Business, Random House, New York 2015; J. Shulevitz, «How to Fix Feminism», The New York Times, 10/6/2016.

(11 dicembre 2017)

 

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