Il paradigma machiavelliano. Per la definizione di una teoria politica non ideologica, di Gennaro Scala

Fu la lettura del saggio di Marco Geuna Machiavelli e il ruolo dei conflitti nella vita politica (2005), circa 4 o 5 anni fa, a mettermi sulla traccia di un percorso di ricerca che successivamente mi ha associato alla scoperta del «continente teorico» (per usare le parole di Luca Baccelli) del «repubblicanesimo», un continente ormai esplorato teoricamente da vari decenni, ma non ancora abitato politicamente. La fertilità di questo continente apparirà in tutta la sua potenzialità soltanto se pensiamo radicalmente, se «andiamo alla radice dei problemi».

Ritengo che il repubblicanesimo possa diventare, da corrente teorica confinata all’ambito accademico, un utile strumento per iniziare a definire una nuova teoria politica per gli emergenti movimenti, più emergenti che compiutamente formati, cosiddetti «populisti» (un epiteto con cui si vorrebbe stigmatizzare un’istanza sostanzialmente democratica). È senso comune ormai ritenere che il discredito raggiunto dai partiti politici sorti nell’ambito dello stato moderno sia radicale e definitivo. I partiti politici esistenti non sono in grado, e non ne hanno nessuna intenzione, di affrontare i problemi che assillano la maggior parte delle società odierne. Vedremo in che senso il paradigma machiavelliano può essere utile per affrontare un radicale ripensamento della politica necessario per far fronte alla crisi radicale a cui ci troviamo di fronte. E questo mio scritto vuole essere un modesto quanto iniziale contributo in tal senso.

L’epoca delle ideologie, delle visioni del mondo complessive, una patologia europea del secolo scorso, è tramontata. Machiavelli a distanza di cinque secoli può essere letto con profitto, ma il suo repubblicanesimo non dovrebbe essere considerato un’ideologia, ma un paradigma che configura una teoria politica diversa rispetto alle altre teorie politiche. Tanto più che i repubblicani, sul piano puramente nominale, in Italia ci sono già già stati (un ormai scomparso partito liberale non di massa della «I repubblica» che aveva le sue radici nella storia dell’unità d’Italia), e attualmente sono uno dei due maggiori partiti degli Stati Uniti. Anche per evitare questi equivoci preferisco parlare di paradigma machiavelliano.

Com’è noto, Machiavelli è l’autore più politico dell’intera storia del pensiero occidentale: non confonde la politica con la religione, ma nemmeno con la filosofia o con l’etica. Non per questo è immorale, privo di fini etici secondo quella che è stata una diffamazione secolare. Esiste una specifica moralità della politica che è diversa dalla morale dei rapporti intersoggettivi. Il fine della politica è di mantenere la «repubblica bene ordinata», e a questo scopo è lecito usare la violenza, se necessario, perché il male che ne risulterebbe in caso di disgregazione della collettività, cioè disordine e maggiore violenza, è minore rispetto alle violenze a cui si può essere costretti per mantenere un determinato assetto politico. Come ha chiarito definitivamente Isaiah Berlin, Machiavelli non «separa la morale dalla politica», nel senso che la politica sarebbe priva di fini etici, piuttosto ha una morale diversa rispetto a quella cristiana che ha informato l’intero pensiero moderno, secondo la quale l’individuo ha la preminenza, ma è invece quella antica secondo la quale l’insieme è prioritario rispetto al singolo, la salvezza della città è più importante della salvezza dell’anima. Machiavelli pur non mancando di fini morali (la «repubblica bene ordinata» in cui gli uomini possano vivere liberi) non confonde i piani, voler subordinare l’etica, la religione, la cultura, la filosofia, l’arte ai fini politici è l’essenza della ideologia, che finisce per cancellare qualsiasi piano culturale comune al di là dei conflitti che necessariamente attraversano le relazioni umane. Il concetto marxiano di ideologia partiva da un dato di fatto: l’arte, il diritto, la filosofia, la morale dominante, la religione, persino la ricerca scientifica riflettono i conflitti del loro tempo, ma questo non vuol dire che sono pura espressione di «classe», che i romanzi di Balzac (che Marx tanto apprezzava), espressione sicuramente di un certo mondo borghese, non possano interessare i «proletari».

Il fine della politica è un fine necessariamente particolare che riguarda i conflitti tra gli esseri umani, quindi non può innalzarsi a visione generale. Chi è alla ricerca di una visione del mondo non deve rivolgersi alla politica, ma all’arte, alla filosofia, alla religione, all’insieme del cultura del proprio tempo e di quello passato. Ma proprio perché l’individualismo su cui si regge la società moderna distruggeva ogni presupposto di una cultura comune ci si rivolse alle ideologie nella ricerca di una patria spirituale, ma il rimedio fu peggiore del male.

Se oggi continuiamo a leggere Marx, Hegel, Nietzsche, Heidegger è perché nonostante una loro precisa collocazione nei conflitti del loro tempo, e nonostante il loro essere immersi nell’ideologismo del loro tempo, le loro riflessioni superavano questo fatto contingente per toccare questioni che riguardano tutti. Uno studioso non è tale se non tocca questo livello comune, altrimenti è un puro e semplice propagandista destinato ad essere dimenticato. Nel suo tener fermo alla questione politica Machiavelli è un pensatore anti-ideologico, un salutare correttivo rispetto all’ideologismo del secolo scorso. Se si trasforma la lotta politica in una lotta ideologica, simile alle lotte di religione, il conflitto politico mira necessariamente alla conversione o al non riconoscimento come interlocutore e tendenzialmente all’annientamento di chi non condivide la propria ideologia. Quando una società si divide in gruppi impegnati in una lotta ideologica questa è una società che è destinata al declino, e sottoposta all’influenza determinante di altre società che possono manipolare queste contrapposizioni.

Dopo il «crollo del muro» nessuno più crede ad una delle ideologie concorrenti del liberalismo, il comunismo, mentre per quanto riguarda quella particolare declinazione del nazionalismo che furono il fascismo e il nazismo, la questione fu chiusa con la II guerra mondiale. Oggi esiste una solo grande ideologia, il liberalismo, che non si presenta più come tale, ma come una sorta di senso comune che ogni gruppo politico che vuole avere un ruolo non può non professare. In tale «liberal consensus» che è sempre stato dominante negli Usa, che non hanno avuto movimento nazionalisti e socialisti paragonabili a quelli europei, mentre nelle nazioni europee si è venuto affermando dopo «il crollo del muro», e mentre già negli anni settanta già si iniziava a sperimentare il cosiddetto neo-liberismo in Cile, fece discutere la scoperta del «repubblicanesimo» da parte di John Greville Agard Pocock in The Machiavellian Moment portava alla luce un filone di pensiero «sommerso» che parte dal pensiero comunale repubblicano comunale italiano e che ebbe come massimo esponente Machiavelli, e passa per i pensatori inglesi della prima rivoluzione inglese (principalmente Harrington), fino ai rivoluzionari americani. Il «repubblicanesimo» metteva radicalmente in discussione il «liberal consensus», una storia del pensiero politico statunitense che vedeva «Locke e poco altro», ma non riguardava solo tale contesto, ma il modo in cui guardiamo all’insieme delle dottrine politiche moderne occidentali.

La rilettura della storia del pensiero politico «occidentale» nasceva da un disagio, se così vogliamo chiamarlo, nei confronti di tale paradigma liberale dominante e da un’insoddisfazione per la «democrazia liberale» (come recitava il titolo di un libro di Michael J. Sandel, Democracy and its discontents). In questo modo però si dava per buono il concetto che ciò che la «democrazia liberale» sia davvero tale. Il repubblicanesimo machiavelliano, tra le altre cose, è utile per evidenziare la moderna distorsione del concetto di democrazia, che secondo il significato etimologico significa pur sempre potere del popolo. Particolarmente ostico per la mentalità indivualistica moderna che si ritiene sommamente «libera e democratica» confrontarsi con l’ideale della democrazia antica basata sul cittadino-soldato. Scrive Pocock:

«È proprio l’Arte della guerra [di Machiavelli] a fornirci il quadro preciso delle caratteristiche morali ed economiche del cittadino-soldato. Costui, infatti, per nutrire il dovuto interesse per il pubblico bene, deve possedere una famiglia e avere un’occupazione che non sia quella delle armi . Il criterio qui applicato è identico a quello cui doveva corrispondere il cittadino di Aristotele, che deve, anche lui, avere una sua famiglia da reggere e guidare per non essere servo di alcuno e per poter e conseguire di persona e con le proprie forze il bene, imparando cosí ad avvertire il rapporto che il suo bene particolare ha con il bene generale della polis». 1

Grazie alla sottolineatura della continuità del pensiero repubblicano comunale con il pensiero classico greco, principalmente quello aristotelico, in un primo momento il repubblicanesimo è stato visto come una variante del comunitarismo. Ma se è vero che Machiavelli condivide l’ideale classico della democrazia antica è pur vero che aggiunge qualcosa in più rispetto al pensiero classico che costituisce il suo contributo specifico alla storia del pensiero politico.

Con la critica dell’eccessivo avvicinamento del repubblicanesimo al comunitarismo, che rischiava di far scolorire il profilo autonomo del primo, studiosi come Quentin Skinner si sono affermati nella discussione internazionale sul repubblicanesimo (discussione soprattutto di carattere accademico). Come scrive Geuna, «Skinner cerca di dare un profilo autonomo al repubblicanesimo, sottraendolo all’abbraccio di aristotelici vecchi e nuovi . A suo giudizio, il repubblicanesimo non è una forma di politica aristotelica … Per dimostrare questo, mette in luce come nel pensiero di Machiavelli, e dei repubblicani che a lui si rifanno, non ricorrano alcuni assunti tipicamente aristotelici: l’uomo, innanzitutto, non è presentato come un animal politicum et sociale, per usare l’espressione tomistica, ma come un essere esposto alla “corruzione”, un essere che tende a trascurare i suoi doveri verso la collettività»2.

Per separare il repubblicanesimo dall’ «aristotelismo» (comunitarismo) si è individuata una componente «romana» (Skinner ha adottato la definizione «repubblicanesimo romano» avanzata da Philip Pettit), ma è stata un’operazione teoricamente poco convincente. «L’enfasi sul fatto che la tradizione repubblicana sia una tradizione esclusivamente romana, per origini e caratteri di fondo, lascia più di un dubbio: quasi che l’esperienza politica e culturale di Roma sia avvenuta senza alcun legame con quella greca, quasi che Cicerone nel redigere le sue opere non abbia avuto dei precisi modelli, primo fra tutti Platone»3. Condivisibile è il proposito di differenziare il repubblicanesimo dal comunitarismo, si tratta in effetti di dottrine diverse, senza però creare una netta separazione (ignorando i legami che pur ci sono), operazione che consente a Skinner e Pettit di riavvicinarlo al liberalismo, annacquando il carattere di alternativa teorica del repubblicanesimo.

Per i greci e i romani la libertà individuale si identifica con quella collettiva: il singolo partecipando alla determinazione dei fini collettivi si considerava libero. Nel pensiero comunale e poi nel Rinascimento si fa strada una maggiore individualizzazione, tuttavia la libertà non è ancora vista come esclusivamente individuale, divergente dai fini collettivi, come sarà poi nel liberalismo. Se è vero che la libertà è un concetto fondamentale per il pensiero comunale e rinascimentale, e certo Machiavelli conosceva i versi di Dante «Libertà va cercando che è si cara», altrettanto vero è che la libertà di Machiavelli non è quella di Hobbes o di Locke, è una libertà che comprende anche la «libertà degli antichi», è, se vogliamo dirlo con il Faust di Goehte, il «vivere libero con un popolo libero». Che si tratti di libertà come «non interferenza» (liberalismo) o di libertà come «non dominio» (repubblicanesimo come inteso da Skinner e Pettit), il fine principale è sempre la libertà dell’individuo, mentre per Machiavelli, com’è noto, la salvezza della città è prioritaria rispetto alla salvezza dell’individuo. L’«urbanizzazione» (come l’ha definita Geuna) del repubblicanesimo operata da Skinner e Pettit a me pare piuttosto una compatibilizzazione con il paradigma liberale ancora dominante. Quindi, pur condividendo il proposito di differenziare il repubblicaneismo dal comunitarismo, non condivido questo avvicinamento opposto al liberalismo. Pocock resta molto più interessante nel mettere in luce tutti gli aspetti in cui il repubblicanesimo che nasce da Machiavelli cozza contro la mentalità individualista moderna.

Machiavelli è più vicino a noi rispetto ad Aristotele non solo in senso temporale, pur perseguendo un fine «comunitario» (Machiavelli si considerò sempre un patriota, disse che bisogna amare la propria patria anche quando da questa si un cattivo trattamento4), lo fa tenendo conto della divisione in classi, mentre invece il comunitarismo può significare imporre un «patriottismo», la ricerca di un’unità sociale, che alla fine non può che essere velleitaria oltre che autoritaria, in quanto prescinde dalla mancanza di volontà delle classi superiori di integrare le classi popolari nella società. Mentre si persegue deliberatamente la precarizzazione, demolendo le conquiste del movimento operaio del secolo scorso, al fine di una esclusione delle classi non dominanti, non si può pretendere che si sentano partecipi di una società che le esclude. Machiavelli è più vicino a noi perché prendeva atto del fatto che nella società esistono due «umori diversi», e l’arte della politica consisteva nel far in modo che la conflittualità che ne scaturiva fosse fonte di dinamismo e non di disgregazione. Per quanto riguarda un comunitarismo, anch’esso aristotelico, che tiene conto della divisione in classi, abbiamo un comunitarismo abbastanza unico nel panorama teorico internazionale come quello di Costanzo Preve, per il quale la comunità si può realizzare attraverso il comunismo di Marx, cioè attraverso l’abolizione delle classi, ma tale comunitarismo oggi, dopo la passata esperienza storica, si può conservare solo come utopia, o nei termini dell’ideale regolativo kantiano, come ebbe a riformulare l’ideale comunista Costanzo Preve negli ultimi anni della sua vita.

Per quale motivo il repubblicanesimo è entrato a far parte delle storia delle «correnti sommerse» (Skinner) del pensiero umano? Diamo anche in questo caso la parola a Geuna «Qual è il senso di queste argomentazioni di Skinner? A che cosa mira questo suo lavoro di scavo? Anche in questo caso, si possono individuare due ordini di ragioni: ragioni di tipo storico e ragioni di tipo teorico. Ragioni di tipo storico, innanzitutto. Skinner è alla ricerca di spiegazioni persuasive del tramonto, della decadenza della teoria neo-romana . E effettivamente convinto che le critiche mosse alla teoria neo-romana della libertà, sul lungo periodo, abbiano contato . Menziona, a dire il vero, anche altri motivi, che non attengono al piano delle argomentazioni politiche, motivi di tipo sociale . E cioè il tramonto dell’ideale del gentiluomo indipendente, che tra Sei e Settecento aveva incarnato le aspirazioni di libertà e indipendenza dei teorici neo-romani. Ma le sue ragioni sono, ancora una volta, soprattutto di ordine teorico. Skinner intende difendere la teoria neo-romana da queste critiche. E’ convinto che queste critiche, per quanto importanti ed influenti, non si misurino con il cuore dell’argomentazione dei teorici neo-romani: con il loro modo complesso di pensare la costrizione, che assegna un ruolo di rilievo alla dipendenza. Nell’esporre e discutere le tesi dei pensatori liberali, Skinner ha dunque l’occasione per ribadire la sostanziale fondatezza, coerenza, e persuasività della teoria neo-romana»5.
Ma il repubblicanesimo machiavelliano non venne dimenticato perché soccombette alle critiche degli avversari. Federico Chabod ci fornisce una convincente esposizione dei «limiti» dell’analisi politica di Machiavelli, soprattutto per quanto riguarda la critica del «mercenarismo», cioè al suo «fissarsi» soltanto sulle questione di ordine militare, senza tenere conto delle questioni di ordine «economico». «E non s’avvedeva che proprio in quei tempi il mercenarismo militare diventava una necessità assoluta per i monarchi, volti a creare faticosamente gli Stati nazionali; e non sapeva intendere come, volendo dar loro i mezzi per trionfare delle resistenze feudali, de’ particolarismi di regioni o città, e ad un tempo per consentire l’inizio di una vera, grande politica di espansione europea, fosse necessario porre sotto gli ordini del capo del governo centrale un esercito che soltanto da lui dipendesse, da lui e dal suo tesoro, ed acquistasse, nella lunga consuetudine di una vita guerresca, la disciplina e la tecnica di battaglia necessarie per una vittoria … è superfluo mettere quindi in rilievo quanto sia errata l’affermazione di Machiavelli, che i denari non sono il nerbo della guerra, l’esperienza di quegli anni stava dimostrando proprio il contrario»6. E ciò si aggiunga la diffidenza di Machiavelli per le armi da fuoco che a suo parere non potevano sostituire la virtù.

Dunque Machiavelli non seppe vedere che il futuro apparteneva allo stato nazionale basato sulla concentrazione del potere coercitivo, nella creazione degli eserciti professionali e nello sviluppo della potenza economica atta a sostenerli. Ma Machiavelli aveva in mente uno ordinamento diverso basato sulla virtù del cittadino-soldato. Più adatta fu la teoria hobbesiana quale espressione teorica della concentrazione del potere statuale, presupposto necessario per creare quelle condizioni adatte allo sviluppo del commercio e dell’industria. In verità, Machiavelli pur cogliendo gli inizi un rivolgimento storico epocale, (la civiltà europea moderna nella fase della sua formazione) non credeva molto a ciò che stava nascendo che vedeva segnato fin dalla nascita dalla corruzione7. L’incoraggiamento della ricerca della ricchezza personale (a cui Machiavelli era contrario8 ), l’auri sacra fames, è stato il principale stimolo che ha alimentato una delle rivoluzioni tecnologiche più impressionanti dell’intera storia dell’umanità, a cui la civiltà europea si è trovata alla testa, ma che riesce a realizzare mettendo insieme le scoperte di tutte le altre civiltà (carta, polvere da sparo, sistema numerico decimale, per dirne solo alcune), conferendole un enorme vantaggio sulle altre grandi civiltà. La civiltà europea ha potuto puntare tutto sulla tecnica trascurando la virtù. La superiorità tecnica ha permesso alle società europee di superare le contraddizioni interne attraverso l’espansione coloniale e imperialistica, ed è esattamente l’opposto di quello sviluppo basato sul territorialismo a cui pensava Machiavelli rifacendosi all’esperienza di Roma.

Non è affatto «apparente»9 l’anti-imperialismo di Machiavelli, a meno di non trasformare l’anti-imperialismo in uno strumento del «politicamente corretto» con cui si condanna l’imperialismo altrui, mentre si persegue il proprio sventolando la bandiera dei diritti umani e della democrazia. Non è l’espansionismo in quanto tale ad essere imperialistico, ma un determinato tipo di espansionismo. Tutti gli stati moderni sono stati creati dall’espansionismo di una parte sull’altra che acquisisce la funzione di gruppo dominante. Il risultato finale di un anti-imperialismo basato sul concetto morale di autonomia sarebbe che ognuno dovrebbe starsene per sé. Tuttavia ci sono aggregazioni umane che lasciano uno spazio per vivere secondo i propri intendimenti e svilupparsi anche a chi è subordinato e aggregazioni basate su un dominio che tende al completo assoggettamento e controllo. Roma seguì il primo modello di dominio10 Il fascismo e il nazismo che si richiamavano per motivi propagandistici all’Impero romano seguirono il secondo. Lo sciovinismo razziale è l’antitesi della concezione imperiale romana, esso è piuttosto un prodotto dell’imperialismo europeo. Il razzialismo, poi elevato a ideologia ufficiale dal nazismo, non a caso è nato in Inghilterra. L’imperialismo vero e proprio è l’espansionismo senza limiti e senza confini che non crea un ordine, basato sulla ricerca dell’accumulazione potenzialmente illimitata di ricchezza. L’imperialismo europeo ha assoggettato e stravolto l’intero globo, ha costretto a cambiamenti radicali le altre civiltà, imponendo dappertutto il suo modello. L’imperialismo statunitense attualmente, dopo il «crollo del muro», mira alla distruzione di qualsiasi forma statuale al fine di stabilire il suo dominio mondiale. L’imperialismo europeo non ha mai creato un sistema stabile, ma ha prodotto delle «egemonie» che sono durate l’espace d’un matin rispetto all’Impero romano. Il regime finora più lungo, quello dell’egemonia britannica non è durato neanche un secolo (dalla sconfitta di Napoleone alla I guerra mondiale quando essa è già seriamente minata). Il regime statunitense sembra sulla strada di battere ogni altro «impero» (le virgolette sono d’obbligo) della storia per brevità di durata.

Per quale motivo gli stati europei non sono riusciti a costituire un sistema unitario, cioè un «impero» (tra virgolette perché a mio parere sarebbe possibile un sistema unitario di stati senza un imperatore) non può essere discusso adeguatamente in questo saggio. Dobbiamo accontentarci di riprendere alcune valutazioni di Victoria Tin-Bor Hui11: «Gli stati europei non impiegarono gli stratagemmi machiavelliani o stile-Qin l’uno contro l’altro, neanche Napoleone che “lesse avidamente e ammirò grandemente” Il Principe». Le valutazioni sul mancato impero europeo si basano su di un principio comparativo con lo sviluppo della Cina imperiale che meriterebbe di essere approfondito: «Gli europeisti credono che tale processo di formazione degli stati sia unicamente europeo e moderno. Ma le stesse dinamiche sono nel sistema dello zhongguo o stati centrali nella Cina antica»12. Possiamo dire che la politica di Napoleone fu più militaristica che strategica, motivo per cui non seppe creare un sistema di alleanze europee, come fece Roma. Non fu soltanto la mancanza dell’impiego della forza o dell’inganno, ma la mancanza soprattutto della capacità strategica che mostrarono i romani. Questo parallelo tra l’Europa moderna e la Cina antica è molto suggestivo ma data la mia scarsa conoscenza della storia cinese altro non saprei dire, mi limito a riportare un’osservazione di una certa importanza «Sun Tzu and e Fei sono talvolta chiamati i Machiavelli cinesi. Ma si potrebbe anche chiamare Machiavelli il Sun Tzu europeo»13. Rilievo ineccepibile in quanto Sun Tsu visse un millennio prima di Machiavelli. Vediamo come Machiavelli sintetizza la condotta strategica dei Romani: «Perché come ei cominciorono a uscire con gli eserciti di Italia, e ridurre i regni in provincie, e farsi suggetti color o che per essere consueti a vivere sotto i re non si curavano di esser e suggetti, ed avendo governatori romani ed essendo stati vinti da eserciti con il titolo romano, non riconoscevano per superiore altro che Roma . Di modo che quegli compagni di Roma che erano in Italia, si trovarono in un tratto cinti da’ sudditi romani ed oppressi da una grossissima città come era Roma; e quando ei s’avviddono dello inganno sotto il quale erano vissuti, non furono a tempo a rimediarvi».

Fu questo il principale stratagemma con cui Roma costituì il suo impero. Il fatto che Roma lasciò una relativa autonomia ai popoli conquistati, anche dopo che fu compiuta la sua egemonia sul Mediterraneo, dimostra che non si trattò di un puro e semplice stratagemma, ma di un carattere costitutivo della politica dei romani.

Machiavelli è il pensatore dell’Europa intesa come sistema di stati, questo è il senso principale dell’avere come modello Roma. Se è vero che un sistema di stati si è sviluppato solo in Cina e in Europa, ha molto più senso paragonare l’Europa moderna alla Cina imperiale piuttosto che all’Impero romano che si sviluppò in modo simile a quell degli altri imperi da una città-stato. Machiavelli conosceva però solo lo sviluppo dell’Impero romano e attraverso questo termine di riferimento cerca di capire la dinamica del sistema di stati europeo agli albori sotto i suoi occhi. Questo sistema implica la presenza di più stati, il che può avere sviluppi positivi in quanto «il mondo è stato più virtuoso dove sono stati più Stati che abbiano favorita la virtù o per necessità o per altra umana passione»14. Tuttavia c’è qualcosa di diverso nello sviluppo di Roma, che determina qualcosa di irrisolto nel pensiero di Machiavelli: sa che per Roma la fine del suo doppio, Cartagine (una città che aveva un sistema sociale molto simile a quello di Roma), la fine della sua sorella antagonista fu la fine della virtù di Roma. Meglio sarebbe dire che Machiavelli è fautore di quel processo che poi portò alla costituzione dell’impero. Vorrebbe che gli stati europei si indirizzassero su un percorso simile a quello di Roma e se questo sfociò nell’Impero fu negativo, ma tutte le cose di questo mondo sono finite, nondimeno Roma visse libera per 500 anni.

Se è vero che «tutto torna ma diverso», e quindi l’Europa non avrebbe seguito di pari passo l’evoluzione della Repubblica Romana#, è pur vero che qualcosa è andato storto nella storia dell’Europa moderna. Con Napoleone l’Europa si avvicinava ad un’evoluzione paragonabile a quella di Roma, ma com’è noto fu sconfitto. Noi che siamo vissuti dopo possiamo vedere come la rovina degli stati europei consista nel fatto di non esser riusciti a costruire un’aggregazione «imperiale» (secondo i termini suoi propri che non potevano essere quelli dell’antica Roma) che trascendesse e risolvesse i conflitti interni. Dalla sconfitta di Napoleone inizia una fase di decadenza dell’Europa da cui nascono le contrapposizioni ideologiche nazionalistiche o di classe. Secondo Toynbee, la nascita di un «proletariato interno» è l’indice di una frattura interna nella società che segna la sua fase di decadenza. Le contrapposizioni ideologiche non sono dovute a motivi meramente spirituali ma sono la manifestazione superficiale di fratture profonde della società.

Che Machiavelli non sia solo un patriota che auspica la nascita dello stato nazionale italiano (cosa che certamente fu, basti pensare alla parte finale de Il principe), ma che la sua ottica sia europea, lo si evince dall’analisi delle vicende dello stato francese. «Per combattere l’Inghilterra, Carlo VII costituì il primo esercito permanente in Europa, le Compagnie d’Ordinanza. Egli impose anche un drastico incremento delle tasse dirette e indirette. Sebbene rudimentali, queste furono misure auto-rafforzanti perché richiedevano alla Corte francese il miglioramento della propria capacità estrattiva [in senso finanziario]. Se la Francia avesse sviluppato queste pratiche, la storia europea sarebbe stata più simile a quella cinese … è degno di nota che Machiavelli avesse identificato il problema fin dall’inizio del sedicesimo secolo. Machiavelli elogiava la comprensione di Carlo VII della “necessità di armarsi di arme proprie”. Egli credeva che se il Regno di Francia sarebbe stato “insuperabile, se l’ordine di Carlo era accresciuto o preservato”. Sfortunatamente “re Luigi suo figliuolo spense quella de’ fanti, e cominciò a soldare Svizzeri: il quale errore, seguitato dalli altri, è, come si vede ora in fatto, cagione de’ pericoli di quello regno. Perché, avendo dato reputazione a’ Svizzeri, ha invilito tutte l’arme sua; perché le fanterie ha spento e le sua gente d’arme ha obligato alle arme d’altri; perché, sendo assuefatte a militare con Svizzeri, non par loro di potere vincere sanza essi”»15 .

Machiavelli non condivide la concezione imperiale di Dante ancora legata al medioevo e al compromesso tra i «due soli», intuendo che quanto stava venendo formandosi era qualcosa di nuovo che per affermarsi dovette lottare sia contro il Papato che il Sacro Romano Impero. La continuità tra la Roma repubblicana e quella imperiale è un elemento irrisolto del pensiero di Machiavelli, tuttavia se è vero che la fine della Roma repubblicana è la fine della virtù romana, e che fu proprio essa a dar vita all’impero si tratta di un processo inevitabile in un mondo in cui tutto è destinato a nascere, crescere e perire. Machiavelli era un patriota, ma non in senso angustamente nazionalistico. La patria di Machiavelli è laddove si sviluppa la virtù. Se la virtù muore a Roma, rinasce da qualche altra parte16.

Tuttavia vi sono delle affinità con la visione dantesca. L’Ulisse di Dante è una figura della hybris greca, la cui incarnazione con un po’ di immaginazione individuo in Alessandro Magno che dalla Persia volle raggiungere l’India in direzione di un confine ignoto, un assalto all’infinito, un voler andare oltre i limiti (come Ulisse) che poteva terminare solo con la sua sconfitta e la fine della civiltà greca.

Non a caso il Canto inizia con l’invettiva contro Firenze che stabilisce una precisa relazione con la hybris greca:

«Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande,

che per mare e per terra batti l’ali,

e per lo ‘nferno tuo nome si spande!»

(Inferno, Canto XXVI)

Lo spirito capitalistico di espansione infinita, illimitata, senza confini agli albori in Firenze per Dante è erede della hybris greca. Egualmente Machiavelli condanna Atene, Sparta e Firenze da parte di Machiavelli per aver assoggettato i territori circostanti, e la condanna è sincera perché il puro e semplice desiderio di conquista è diverso dalla capacità strategica dei Romani.

Diversamente procedette Roma. Roma nei suoi mille anni di storia arrivò ad un confronto diretto con l’impero persiano solo verso la fine dell’Impero romano (e persiano). Roma operò nell’ambito suo proprio costituito dal bacino del Mediterraneo.

L’Europa moderna invece ha varcato stabilmente le colonne d’Ercole conducendo il mondo di fronte ad un pericolo mortale.

L’imperialismo europeo trasfiguratosi nel non-luogo denominato Occidente è arrivato alla conclusione del suo percorso ora che le altre grandi civiltà, ad eccezione della civiltà islamica, sono riuscite a far fronte alla minaccia distruttiva della «civiltà occidentale». L’aver fondato tutto sulla superiorità tecnica ed economica ci rivela che la civiltà occidentale si è fondata sul nulla. Forse è questo uno dei motivi, più o meno consapevoli, per cui vari studiosi hanno ripreso a leggere Machiavelli. Ad es. Skinner dichiara che il suo interesse per Machiavelli sta proprio nella sua alterità rispetto al pensiero moderno.

In realtà il repubblicanesimo non è stato sommerso del tutto, c’è un motivo per cui continua a persistere pur all’interno di una teoria dello stato dominata dal paradigma hobbesiano. Nel conflitto tra gli stati che ha portato alla piena formazione dello stato europeo (secondo la «sociologia storica» di Charles Tilly ed altri) si è avuto ancora bisogno della virtù, in particolare durante le due più importanti rivoluzioni nell’organizzazione dello stato, la guerra civile inglese seguita dalla Glorious revolution e la rivoluzione francese, che sono due rivoluzioni principalmente statuali dettate dal conflitto tra le nazioni europee che è stato il principale motore di questo sviluppo (in tal senso vedi Tilly che ne è stato il principale teorico). «L’esercito cromwelliano fu una forza rivoluzionaria perché fu meno un’armata mantenuta dallo stato che un esercito in cerca di uno stato che potesse mantenerlo»17 Harrington non può ancora concepire l’esercito professionale, poiché era ancora in formazione, ma da ciò deriva il suo interesse per la critica machiavelliana delle milizie mercenarie.

E’ nella new model army di Cromwell che si diffondono le tendenze radicali, repubblicane, rivoluzionarie fino al radicalismo dei livellatori. Il tentativo teorico di Harrington è quello di fare una sintesi tra il repubblicanesimo e l’assolutismo. Un’eguale tendenza a conciliare il repubblicanesimo con l’assolutismo si riscontra in Rousseau «un pensatore che ha inserito sul patrimonio di concettualizzazioni del diritto naturale categorie tipiche della tradizione repubblicana moderna, pur a costo di rilevanti tensioni teoriche»18.

Se è vero che l’esercito professionale da cui poi si è sviluppato l’esercito di leva è diverso («Non è stata la coscrizione militare di per sé ma l’esercito cittadino auto-equipaggiato che storicamente ha servito come baluardo contro la dominazione»19) dall’esercito di popolo sul modello romano a cui pensava Machiavelli è pur vero che è diverso dall’esercito mercenario e dall’esercito medievale. Come scrive Max Weber:

«Il motivo della democratizzazione è sempre di natura militare; sta nella comparsa della fanteria disciplinata, dell’esercito di corporazione nel Medioevo, dove l’elemento decisivo era che la disciplina militare prevaleva sulla lotta tra eroi. La disciplina militare significò la vittoria della democrazia poiché si dovevano e volevano arruolare le masse di non cavalieri, si mettevano loro in mano le armi, e quindi il potere politico»20.

Da questa necessità di coinvolgere le popolazioni nella lotte reciproche dei principali stati europei, sorgono delle contro-tendenze democratiche nella costituzione sostanzialmente oligarchica degli stati moderni fino ai nostri giorni. Riconoscere il potere «assoluto» dello stato vuol dire riconoscere il potere assoluto di chi controlla il potere coercitivo dello stato, cioè un’oligarchia. Siccome però queste oligarchie hanno avuto bisogno del popolo si è creato quello «ossimoro» vivente che sono state le «democrazie» moderne: la democrazia oligarchica come l’ha definita il direttore di un quotidiano italiano che di repubblicano ha solo il nome, senza però tematizzare la contraddizione per cui il suo «ossimoro» è semplicemente un’assurdità, tipo il secco dell’acqua, o l’umidità della fiamma.

Il repubblicanesimo liberale di Harrington e di Locke è un sistema basato su di una contraddizione di fondo: voler conciliare il repubblicanesimo con l’assolutismo. «Né Harrington né Locke si opponevano a un potere sovrano: ritenevano entrambi che in qualunque società civile si rendesse necessaria da qualche parte la presenza di un potere politico, a cui, come si doveva sottintendere, ogni individuo avesse rimesso tutti i propri diritti e poteri, e che non fosse sottoposto a limiti da parte di qualsiasi potere umano superiore o associato. Harrington fu del tutto esplicito: “Là dove il potere sovrano non è intero e assoluto proprio come nella monarchia, non ci può assolutamente essere alcun governo” . Locke pose il potere sovrano nella società civile, cioè nella maggioranza: ammetteva che la maggioranza non volesse nient’altro che il bene pubblico, e che perciò potesse detenere senza pericolo il potere sovrano da conferire a qualcuno. Ovviamente, l’uomo o l’assemblea a cui la società civile affidava allora il potere legislativo e l’esecutivo non erano sovrani; ma in questi casi, in cui il potere veniva affidato a un’assemblea elettiva piuttosto che a un’assemblea o a un monarca auto-perpetuantesi, Locke riconosceva un esercizio virtuale del potere sovrano. Sia Harrington che Locke non videro la necessità di porre irrevocabilmente il potere sovrano nelle mani di una persona o di un’assemblea di persone con l’autorità di designare il proprio successore o i propri successori; anzi, giudicarono ciò incompatibile con gli unici scopi plausibili per cui degli individui potrebbero autorizzare un potere sovrano. In effetti, si opponevano non a un potere sovrano perpetuo, ma a una persona o a un’assemblea sovrana auto-perpentuantisi»21.

Lo stesso Hobbes aveva chiarito il potere assoluto poteva essere incarnato anche da una assemblea, tuttavia poiché riteneva necessaria l’auto-perpetuazione del potere assoluto è stato visto erroneamente come un teorico della monarchia assoluta. Poiché il suo modello, prevedeva un’inevitabile frammentazione sociale dovuta alla conflittualità generalizzata, come sostiene Macpherson, non potè considerare il dominio della borghesia in modo maggiormente flessibile ammettendo la possibilità di un assetto costituzionale che consentisse importanti cambiamenti al suo interno, pur perpetuandosi come sistema di dominio. A ciò va aggiunto il fatto che il nuovo tipo di stato è ancora un modello rigido privo di quelle articolazioni che svilupperà in seguito per restando il modello di base lo stesso.

L’equivoco riguardo al rapporto tra la teoria di Hobbes e al liberalismo è dovuto al fatto che il «collettivismo», cioè il potere assoluto dello stato, sembra escludere l’individualismo, ma si tratta di una coppia polare, l’individualismo è inseparabile dal potere assoluto dello stato, come ha brillantemente messo in luce Macpherson:. «La concezione per cui individualismo e “collettivismo” sono le estremità opposte di una scala lungo la quale si possono disporre stati e teorie dello stato, senza tener conto dello stadio di sviluppo sociale in cui si formano, appare superficiale e induce in errore. L’individualismo di Locke, cioè di una società capitalistica emergente, non esclude, ma, al contrario, richiede la supremazia dello stato sull’individuo. Non si tratta di più individualismo o di meno collettivismo. Piuttosto, quanto più compiuto è l’individualismo, tanto più totale è il collettivismo. Esempio estremamente significativo ne è la teoria di Hobbes, ma il fatto di aver negato la legge naturale della tradizione e di non aver garantito la proprietà nei confronti di un sovrano che si perpetuava, non raccomandava le sue concezioni a quelli che vedevano la proprietà al centro dei fatti sociali. Locke era più accettabile, sia per la posizione ambigua sulla legge naturale, sia per un certo tipo di garanzia che forniva ai diritti di proprietà. Se si interpreta in questo modo il carattere specifico dell’individualismo borghese del diciassettesimo secolo, non è più necessario cercare un compromesso tra le affermazioni lockiane individualiste e quelle collettiviste: nel contesto infatti si implicano a vicenda»22.

Cosa vuol dire potere assoluto dello stato? Lo stato non è e non potrà mai essere il popolo. Nietzsche la denuncia come la più «fredda menzogna del mostro», ovvero il Leviatano hobbesiano. La democrazia pura cioè basata sul governo del popolo è stata costitutivamente instabile. Machiavelli rifiuta il modello ateniese, modello di ogni forma ideale di democrazia, per la sua instabilità, dissolvendosi nella lotta tra fazioni a causa della mancanza di un governo centrale, che determina il passaggio alla monarchia (governo di uno solo), che degenera in dittatura per cui si passa all’aristocrazia che degenera a sua volta in oligarchia, da cui si passa alla democrazia determinando quel ciclo in cui si erano avvitate le città greche (ad esclusione di Sparta) che secondo Polibio il sistema misto della Roma repubblicana aveva interrotto. Il sistema non instabile più vicino alla democrazia è il sistema misto, a cui al potere dello stato si affiancano dei contro-poteri esterni allo stato. Bodin lo identifica con la democrazia tout court. Assolutismo e democrazia sono termini antitetici se stiamo al significato etimologico dei due termini. Incidentalmente Kant mise in luce il carattere non democratico del sistema parlamentare proprio perché fondato sull’assolutismo.

Che cos’è un monarca assoluto? È quello che, se dice: «Guerra sia», è subito guerra. – Che cos’è viceversa un monarca limitato? Colui che prima deve chiedere al popolo se ci debba esserci o no la guerra; e se il popolo dice «Non ci dev’essere guerra», allora non viene fatta. – La guerra, infatti, è una condizione in cui tutte le forze dello stato devono stare agli ordini del suo capo supremo. Ora, le guerre che ha condotto il monarca britannico senza chiedere alcun consenso su ciò sono davvero molte. Perciò tale re è un monarca assoluto, cosa che in base alla costituzione egli non dovrebbe essere; la quale, invece, si può sempre aggirare, proprio perché attraverso quei poteri dello stato può assicurarsi il consenso dei rappresentanti del popolo, dato cioè che egli ha il potere di affidare tutti gli uffici e gli onori. Per avere successo, un tale meccanismo di corruzione non ha certo bisogno della pubblicità. Perciò rimane sotto il velo, molto evidente, del segreto»23.

Ecco perché il potere effettivo diventa qualcosa di nascosto. Il sistema parlamentare si basa fin da Hobbes su di un patto: la sovranità, cioè il potere, la gerarchia sociale non sono legittimi in sé stessi ma derivano da un accordo collettivo che conferisce il potere a qualcuno al fine di evitare la guerra di tutti contro tutti, cioè la disgregazione sociale. In realtà il potere che non deriva da nessuna legittimazione esterna esiste eccome, come tutti sanno. Tuttavia questa finzione funzionale è essenziale al sistema, per cui la gerarchia sociale diventa qualcosa di nascosto. Per questo Marx ad es. va a ricercare dove si «nasconde» la struttura del potere effettivo, individuandola nei «rapporti di proprietà», in particolare in chi controlla i mezzi di produzione, ma è una visione parziale ed erronea, chi controlla gli strumenti coercitivi dello stato ha avuto un ruolo preponderante.
Finora nessuna società è riuscita a funzionare senza una gerarchia. Motivo per cui la gerarchia sociale non avrebbe bisogno di nessuna giustificazione. Nella Roma antica i Consoli e il Senato non avevano bisogno della legittimazione popolare (giustamente per questo Polibio dice che i Consoli erano dei re), ma oltre ai Consoli e al Senato c’era un’articolazione di varie assemblee popolari che costituivano l’aspetto democratico della Roma repubblicana.
Il potere delle classi dominanti può affermare apertamente la sua legittimità quando riconosce l’esistenza di contro-poteri nelle classi popolari. Il potere assoluto adotta invece una maschera, cioè la personae fittizia dello stato.

Oggi a noi sembra addirittura inconcepibile che il popolo possa decidere della guerra, al massimo possiamo pensare che la decisione possa essere nelle mani del parlamento, quale «rappresentante della volontà popolare», ma sappiamo che il parlamento è piuttosto uno strumento dello stato, come efficacemente mette in luce Kant. Inoltre, negli ultimi tempi si è imposta la tendenza a bypassare anche il parlamento. In Italia ad es. molte missioni all’estero sono state decise dal governo con lo strumento del decreto-legge. Nella Roma repubblicana la decisione ultima sulla guerra spettava ai comitia centuriata che erano delle assemblee popolari.

Questo patto hobbesiano fonda il sistema su basi individualistiche. L’individualismo è la radice del totalitarismo, come ha ben messo in evidenza Louis Dumont nei sui Saggi sull’individualismo: il razzialismo hitleriano era un modo meccanico per ristabilire l’unità in una società individualistica. Ma come abbiamo visto l’individualismo è inseparabile dal «collettivismo» cioè dalla concentrazione del potere statuale che crea le condizioni per cui possa esistere una «sfera privata» in cui l’individuo è «libero» di perseguire il suo «interesse privato». Tuttavia perché potesse configurarsi ciò che noi definiamo totalitarismo era necessaria un’ulteriore evoluzione dello stato, la concentrazione del potere ideologico che è stata la trasformazione precipua dello stato nel XX secolo, ragione per cui molti studiosi si sono concentrati sulla funzione svolta dai media. Con la concentrazione del potere ideologico il sistema di dominio diventa più articolato e capillare, lo stato si evolve come Apparato di dominio.

I totalitarismi sovietico e tedesco furono tentativi imperfetti, rudimentali di far fronte ai mezzi, alla capacità di mobilitazione che aveva lo stato totalitario pienamente sviluppato, cioè gli Usa, il quale proprio perché funziona bene può instaurare un controllo capillare senza abbandonare la facciata democratica. Lasciamo da parte l’Unione Sovietica che aveva la concentrazione di potere statuale necessaria per questo scopo, ma non aveva lo sviluppo economico necessario per la creazione di un’ampia classe media, per cui sviluppò un totalitarismo molto rudimentale. La Germania invece già dal finire del XIX secolo era lo stato europeo più avanzato, quello che mostrava maggiori somiglianza con gli Usa, ed è stato quello che maggiormente ha sviluppato questi nuovi aspetti dello stato (lo stesso Hitler paragonava la propaganda politica alla propaganda americana delle saponette).

Questa dinamica la si può cogliere sulla base della teoria di Charles Tilly secondo cui le strutture statuali e non solo, ma l’organizzazione complessiva della società, si sviluppano attraverso il conflitto, in pratica, ogni qualvolta uno stato introduce un cambiamento che aumenta la propria potenza costringe gli altri stati ad introdurlo anch’essi, pena la sconfitta. La stessa rivoluzione francese ha le sue radici in questa dinamica (vedi il mio Ripensare la rivoluzione francese). Gli Stati Uniti, oltre alla concentrazione del capitale e alla concentrazione del potere coercitivo (che per Tilly sono i tratti costitutivi dello stato moderno), introducono la concentrazione del potere ideologico con lo sviluppo del sistema mediatico.

Questo nuovo regime ha la sua base nella classe media, che è essa stessa prodotto di un’ulteriore concentrazione del capitale e lo sviluppo dell’economia di scala: Charles Wright Mills nel suo classico studio sui «colletti bianchi» sottolineava la somiglianza di questa classe media con gli «impiegati» tedeschi descritti da Kracauer. Una classe media semi-parassitaria, privilegiata e allo stesso tempo priva di potere, che guarda con orrore alla classe lavoratrice. Da questa condizione sociale derivano tutte le storture della sua psicologia (in merito esiste un’ampia letteratura). E’ la progenitrice del ceto medio semi-colto, che è la principale base di propagazione del diritto-umanesimo e del politicamente corretto costitutivi dell’ideologia dominante (vedi in merito il mio Tendenze totalitarie odierne: la gender theory).

Machiavelli è il pensatore anti-totalitario per eccellenza proprio perché il totalitarismo è un’evoluzione dello stato moderno rispetto alla quale Machiavelli indica un’altra direzione.

Skinner si è occupato in vari scritti della nascita del concetto di stato, lavori sicuramente interessanti, frutto di un impressionante scavo storico, tuttavia individua una inesistente continuità24, al di là delle normali interazioni tra i principali pensatori della politica. Machiavelli è l’anti-Hobbes, il suo concetto dello stato è l’opposto dell’assolutismo hobbesiano. Il sistema misto come descritto da Polibio di cui Machiavelli era fautore è ciò che principalmente rifiutano i teorici dell’assolutismo.

Skinner e Pettit hanno concorso a darne una migliore definizione, ma ritengo che l’effettiva enucleazione del paradigma repubblicano machiavelliano la si debba allo studioso italiano Marco Geuna (e sulla sua scorta Baccelli), nonostante la minore notorietà internazionale (in ambito accademico), soprattutto perché riesce a mettere in evidenza la radicale alterità di Machiavelli rispetto a Hobbes, il principale teorico dello stato moderno. Credo non vi sia campanilismo quando Baccelli sottolinea l’italianità di Machiavelli, egli è pur sempre un prodotto della cultura italiana, chi ha studiato nella scuola italiana meglio può capirne le sfumature del linguaggio. Riporto qui un’estratto che contiene in sintesi una definizione del «paradigma machiavelliano» ripresa, approfondita e differenziata in vari articoli25.

È forse utile ricordare la pluralità di termini utilizzati da Machiavelli, sia nei Discorsi sia nelle Istorie, per sviluppare le sue riflessioni. Egli si serve, per lo più, dei termini ʻdisunioniʼ e ʻtumultiʼ per riferirsi a quei conflitti fra le parti costitutive della città che trovano una sorta di composizione istituzionale e arricchiscono di leggi e ordini la vita politica della res publica, mantenendo viva la sua libertà; altre volte, per riferirsi a questo primo tipo di conflitti, usa le espressioni ʻcontroversieʼ, ʻdissensioniʼ, ʻdifferenzieʼ, ʻromoriʼ.

Ricorre, invece, alle espressioni ʻcivili discordieʼ, ʻintrinseche inimicizieʼ, per designare un altro tipo di conflitti, per riferirsi a quegli antagonismi che degenerano in scontro di ʻfazioniʼ e di ʻsetteʼ, e mettono a repentaglio la libertà stessa della res publica. Con questi termini, Machiavelli riesce a veicolare una riflessione sui conflitti assolutamente nuova e peculiare che lo colloca in posizione di marcata discontinuità rispetto alla tradizione antica e medioevale del pensiero politico occidentale; ma che lo situa anche ai margini, in una prospettiva altra, rispetto al cosiddetto progetto politico moderno, incentrato, da Bodin e Hobbes in poi, sul ruolo del potere sovrano e sulla neutralizzazione del conflitto da esso attuata.

Questo è in sintesi il paradigma machiavelliano, il suo principale apporto allo storia del pensiero politico, il nucleo concettuale attorno al quale Machiavelli articola la sua teoria politica, una nuova concezione del conflitto che in determinate condizioni, quando non si trasforma nella creazione di «sette» è fonte di dinamismo sociale, di difesa della libertà, e delle leggi che creano l’ordine sociale.

Per chi volesse farsene un’idea con le parole di Machiavelli stesso consiglio di primo acchitto la lettura del cap. IV dei Discorsi dal titolo Che la disunione della Plebe e del Senato romano fece libera e potente quella republica.

Proviamo ad applicare il paradigma alle principali ideologie moderne: tutte sono segnate dal paradigma hobbesiano, a dispetto delle loro differenze sono accomunate dalla volontà di eliminare i conflitti sociali.

Il liberalismo neutralizza il conflitto sociale attraverso una pseudo-democrazia, basata sul gioco di specchi fra destra e sinistra, che ha inondato di menzogna e corruzione il mondo.

Il socialismo/comunismo intendeva eliminare i conflitti eliminandone le cause economiche (addirittura eliminando la divisione del lavoro secondo l’estremismo individualistico del giovane Marx), ma tale intento si rovescia necessariamente una volta al potere nella soppressione autoritaria dei conflitti.

Il fascismo intendeva sopprimere i conflitti sociali attraverso il corporativismo. Il nazismo invece li soppresse nella creazione della comunità razziale saldata dal Führerprinzip.

Tutte e tre le principali ideologie moderne e loro derivati sono segnate da un totalitarismo di fondo perché tutte nascono dal paradigma individualista hobbesiano.

Voler eliminare la conflittualità dalle relazioni umane è un’aspirazione di per sé totalitaria. Polemos è il padre di tutte le cose, scriveva Eraclito 2500 anni fa. È il conflitto per l’esistenza tra le creature viventi, e tra queste e le condizioni ambientali (caldo, freddo, acqua, mancanza di acqua, vento), che ha fatto sorgere occhi per cogliere il più piccolo movimento, arti per correre velocemente, artigli, udito, olfatto ecc. Gli esseri umani lottano per l’esistenza tanto in cooperazione quanto in lotta con i propri simili. Il conflitto scaturisce dalla necessità di cooperazione stessa, in quanto necessita di stabilire dei singoli che abbiano un ruolo di comando (finora nessuno è riuscito a creare delle società senza gerarchie, le società primitive sono soltanto più semplici ma non ne sono prive). Soltanto attraverso il conflitto si può stabilire chi comanda, ed è con il conflitto che vengono spodestate le classi dominanti incapaci di svolgere il loro principale compito, quale assicurare un’adeguata riproduzione sociale. E’ attraverso il conflitto tra i vari insiemi sociali (stati-nazione) che si evolvono i vari sistemi sociali. Negare il conflitto attraverso il pacifismo finora è servito soltanto a screditare il nemico in modo totale, in quanto nemico della «pace», criminale da spazzare dalla faccia della terra (su tale questione è imprescindibile Carl Schmitt, e più recentemente Danilo Zolo), cioè per portare al nemico una guerra più totale rispetto a chi riconosce lo justus hostis (nemico legittimo: un concetto quasi inconcepibile per la mentalità moderna egemonizzata dall’ipocrita pacifismo). Voler eliminare il conflitto è un’aspirazione propriamente totalitaria, piuttosto bisognerebbe indirizzarlo verso forme non distruttive che favoriscano lo sviluppo sociale.

Acquisito il paradigma machiavelliano proveremo ad applicarlo per definire una nuova teoria politica, ma prima volevo riprendere un interessante contributo di Massimo Morigi che ci consente di articolare ulteriormente la definizione del repubblicanesimo. Libertà come non interferenza del potere o libertà come non dominio? Morigi ha effettuato un ribaltamento dei termini della questione, potenzialmente in grado di mettere fine alla diatriba, se non fosse che «il dibattito (accademico) deve continuare», ponendo la libertà come estensione e diffusione nella società del potere. In una serie di interventi, che mi auguro possano trasformarsi in un contributo più sistematico, egli ha delineato un «repubblicanesimo geopolitico», nel quale «l’accento è messo sul potere come energia generatrice di libertà mentre il marxismo classico vuole una società dove i rapporti di forza siano estinti (fine della storia, estinzione dello stato). Secondo perché se per il marxismo l’agente generatore di una società più libera è il proletariato, per il Repubblicanesimo Geopolitico l’agente per una maggiore libertà sono proprio quelle forze ed energie (quindi anche il proletariato ma pure le forze che vi si contrappongono) che scontrandosi originano una dialettica del potere che è alla base per un concreto e non astratto ampliamento della sfera della libertà (sottolineo che questa della conflittualità come origine della libertà e/o della forza di una comunità politica non è certo molto originale discendendo direttamente da Machiavelli e dalla sua spiegazione della forza militare degli antichi romani, la quale, secondo il Segretario fiorentino, discendeva direttamente dalla lotta fra patrizi e plebei che trovava una sua valvola di sfogo nella espansione territoriale di Roma). E queste forze ed energie per il Repubblicanesimo Geopolitico possono trovare la loro piena espressione solo a condizione che il quadro geopolitico in cui questa comunità vive la sua esperienza storica sia favorevole a che questa comunità possa irrobustire la sua identità e, di conseguenza, progettare e lottare per sempre maggiori spazi di libertà»26.

Inoltre, Morigi in un’intervista video27 sottolineava che che la divisione fra dominanti e dominati non deve condurre alla conclusione apparentemente logica che i dominati non decidono. I dominati decidono a loro modo, possono decidere di seguire o non seguire i dominanti, oppure se costretti possono decidere di seguire i dominanti in modo passivo, oppure facendo resistenza fino al sabotaggio. I romani lo sapevano benissimo ed è per questo che erano consci della necessità di coinvolgere il popolo, che costituiva la base dell’esercito, nelle decisioni. Gianfranco Campa, un «repubblicano» di origine italiana trasferitosi negli Usa, «appartenente prima al mondo militare e poi a quello delle forze dell’ordine», ha scritto un articolo28 in cui descrive a tinte fosche lo stato mentale dell’esercito statunitense dove imperversano malattie mentali, uso e abuso di droghe, alcol e psicofarmaci. Non è difficile capire perché i soldati rifiutano intimamente il loro ruolo pur essendo costretti ad esercitarlo per avere un salario. È evidente che l’essere pagati non è un motivo sufficiente per uccidere o essere uccisi, quando si è consapevoli che la propria famiglia non ha nessuna garanzia di appartenenza ad un sistema sociale che la protegga dal finire in mezzo alla strada (e negli Usa è molto facile che ciò accada). E quando non si capiscono i motivi per cui si combatte una determinata guerra, se non che questa guerra non migliorerà le condizioni della propria classe sociale. Le classi dominanti statunitensi non possono contare pienamente sul proprio esercito, ma proprio questo le rende molto pericolose, perché le può spingere ad una soluzione «tecnica» (cioè facendo affidamento su armi micidiali) della propria crisi di egemonia.

Geuna ha fornito un fondamentale contributo nella definizione del paradigma machiavelliano, tuttavia la radicalità del pensiero machiavelliano non può emergere se non osiamo andare oltre il recinto accademico, sfidando ciò che i colleghi accademici occidentali ritengono sia concepibile. Geuna alla fine ci propone una realizzazione pratica del conflitto tutta interna ad un pensiero dominante. La «contestazione» (nata in ambito studentesco) che ritiene una espressione del conflitto, sulla scorta di Pettit, è in realtà una sua parodia, ricorda piuttosto le recriminazioni adolescenziali relative alla paghetta. Se davvero vogliamo parlare di conflitto dobbiamo intendere il conflitto che avviene tra adulti. Le tesi di Pettit sono poco realistiche (come lamenta Baccelli) perché ricadono nel formalismo democratico, discostandosi alquanto da ogni realismo machiavelliano. Soltanto la teoria di Machiavelli può eguagliare in realismo quella di Hobbes. La legge senza la spada è nulla, e chi impugna la spada non è sottoposto alla legge, quindi la sovranità è per forza di cose assoluta, se è l’unico ad impugnare la spada. Il motivo per cui bisogna concedere la spada al popolo costituisce uno dei passi salienti dell’intera riflessione machiavelliana:

Per tanto, se tu vuoi fare uno popolo numeroso ed armato per poter fare un grande imperio, lo fai di qualità che tu non lo puoi poi maneggiare a tuo modo: se tu lo mantieni o piccolo o disarmato per poter maneggiarlo, se tu acquisti dominio, non lo puoi tenere, o ei diventa sì vile che tu sei preda di qualunque ti assalta.

Si doveva concedere la spada al popolo, anzi era necessario se si intendeva costruire quel tipo di repubblica espansiva sul modello romano. Questo fondamentale principio machiavelliano è simile un’arma che può essere utilizzata tanto in senso offensivo che difensivo, anche intende difendersi dall’espansionismo altrui deve poter contare su un popolo forte: altrimenti sei preda di chiunque ti assalta.

Il paradigma machiavelliano va inquadrato nel concetto di sistema misto di cui Machiavelli era fautore, soltanto in questo contesto può esplicarsi quella conflittualità virtuosa che costituì la grandezza di Roma. Riprendiamo la formulazione originaria di Polibio che Machiavelli ricalca nei Discorsi 29:

«Come ho detto sopra, tre erano gli organi dello stato che si spartivano l’autorità; il loro potere era così ben diviso e distribuito, che neppure i Romani avrebbero potuto dire con sicurezza se il loro governo fosse nel complesso aristocratico, democratico, o monarchico. Né è il caso di meravigliarsene, perché considerando il potere dei consoli, si sarebbe detto lo stato romano di forma monarchica, valutando quello del senato lo si sarebbe detto aristocratico; se qualcuno infine avesse considerato l’autorità del popolo, senz’altro avrebbe definito lo stato romano democratico»30.

Il governo misto romano nacque in uno specifico contesto, diverse sono le nostre società, ma possiamo ugualmente trarne un insegnamento: nei prossimi conflitti avranno la meglio quelle società che oltre a sviluppare gli strumenti difensivi e offensivi sapranno realizzare nuove forme di integrazione del popolo, quelle società che sapranno essere più compatte sviluppando un senso di appartenenza.

A partire da questi presupposti, proviamo a pensare un nuovo ruolo per degli ipotetici movimenti popolari di domani dei quali sentiamo assoluto bisogno. Essendo la mia formazione originaria marxista mi occuperò qui delle classi inferiori, ma ugualmente bisognerebbe tentare di ridefinire un ruolo per le classi medie. Per cominciare, le classi popolare dovrebbero creare delle proprie organizzazioni politiche che non abbiano come obiettivo inviare deputati al parlamento, perché questo è uno strumento delle classi dominanti. Cosa avrebbero detto i Populares qualora i Tribuni del popolo fossero diventati parte organica del Senato? È facile immaginarlo, avrebbero detto che non erano più i loro rappresentanti, mentre ciò avviene normalmente in tutti i sistemi parlamentari. Inoltre bisognerebbe pensare in prospettiva a forme di organizzazione militare finalizzata alla difese di queste organizzazioni, altrimenti esse sono ostaggio di chiunque detiene gli strumenti per l’utilizzo della forza.

Nella maggior parte delle nazioni occidentali, le classi popolari non possono utilizzare il rifiuto delle armi come strumento di pressione nei confronti delle classi dominanti, oggi la maggiori parte degli eserciti sono formati da professionisti volontari, e anche quando esisteva l’esercito di leva, la coscrizione impediva di utilizzare questo strumento, per la plebe romana invece questo era uno strumento di pressione maggiore ancora dello sciopero. Tuttavia bisogna capire che i professionisti militare non vivono nel nulla, il loro maggiore o minore impegno è determinato dal senso di appartenenza alla società, dalla presenza di motivi validi ed uno dei principali è il combattere per una società a cui si sente di appartenere.

Lo sciopero resterebbe una delle armi principali con cui le classi inferiori manifestano la loro indispensabilità per l’intera società, ma attualmente tale strumento è stato bagattellizzato da sindacati inghiottiti dallo stato. Anche in ambito sindacale bisognerebbe mirare a ricostuire delle organizzazioni autonome dei lavoratori.

I comunisti intendevano inserirsi nei parlamenti perché il loro obiettivo era il rovesciamento dello stato, mentre invece non deve essere questo l’obiettivo piuttosto quanto creare un contro-potere che difenda gli interessi delle classi popolari, consapevoli che una forma di comando, di governo ci deve pur essere altrimenti uno stato non è tale.

Le classi sociali non hanno una base esclusivamente «economica» eliminata la quale si eliminano anche le classi sociali, le classi sociali derivano dall’esistenza di chi comanda e chi è comandato. Tuttavia le classi dominanti se non hanno un contro-potere che le contrasta tendono ad assumere il massimo potere possibile, fino a forme estreme di esclusione dalla società di quote rilevanti delle classi popolari . Tra le sventure che possono colpire l’individuo l’esclusione sociale è oggi l’equivalente della schiavitù nel mondo antico, anzi forse per chi è «buttato in mezzo alla strada» e tagliato completamente fuori può sembrare preferibile la sorte dello schiavo a cui perlomeno era assicurato un tetto e del cibo. L’esclusione sociale condivide con la schiavizzazione la dimensione della «morte sociale» che Orlando Patterson individua come il tratto distintivo della schiavitù31. Le classi dominanti hanno per loro natura il sogno di un dominio assoluto ed eterno, compito delle classi inferiori è rendergli presente, ponendo loro un argine, che questo sogno è distruttivo perché irreale, altrimenti subiranno le tendenze distruttive delle classi superiori. Finora nessuna società è riuscita a stare insieme, ad assicurare la cooperazione dei suoi membri senza uniformare molte volontà, ad una sola o a poche volontà, e da ciò deriva la necessità di affidare il comando a qualcuno, e questo comporta l’esistenza di un potere coercitivo e relative diseguaglianze di potere. Marx ed Engels ammettevano benissimo questa realtà di fatto quando si trattava di polemizzare con gli anarchici (Engels adduceva l’esempio del comandante di una nave: quando c’è una tempesta è vitale che ognuno si uniformi alla sua volontà), tuttavia vollero conservare l’obiettivo dell’«estinzione dello stato».

Ci saranno esponenti delle classi dominanti disposti a tollerare e anche ad incoraggiare e favorire forme di auto-organizzazione delle classi popolari (e con questo termine intendo sia le classi medie che inferiori), avendo bene stampato in mente l’avvertimento di Machiavelli che senza un popolo forte, attivo alla fine un stato è preda di «chiunque l’assalta»)?

Le classi inferiori devono difendere delle condizioni di vita dignitose e difendere l’autonomia della propria classe sociale, ma allo stesso tempo devono accettare il posto subordinato nella società. Non c’è nulla di disonorevole nello stare alla base della società. Inoltre, sembra che oggi la vita non abbia senso se non si fa qualcosa di «particolare», a mio parere invece non va disprezzata una «normalità» costituita da una vita in cui si da il proprio contributo lavorativo necessario al funzionamento della società, che lasci il tempo libero necessario per curare la propria famiglia e i propri interessi, oltre alla formazione militare che rende capaci di difendere se stessi, la famiglia e la patria. Una vita fondata su queste basi è del tutto sensata. Chi invece è chiamato a compiti particolari per attitudini e vocazione, deve avere la possibilità di farlo, anche se proviene dalle classi inferiori.

La teoria marxiana che voleva la classe lavoratrice capace di gestire l’intera società si è rivelata infondata, seppur diversi sono stati partiti operai di massa del novecento costituiti dai lavoratori manuali della grande industria, in quanto Marx per classe lavoratrice intendeva dall’«ingegnere all’ultimo manovale». Le «forze mentali della produzione», cioè i tecnici non si sono uniti alla classe operaia, ma se anche si fosse verificata la dinamica prevista da Marx secondo cui la proprietà si sarebbe trasformata in un gruppo parassitario, a cui si sarebbe opposto il lavoratore associato (i lavoratori manuali insieme alla forze mentali della produzione o general intellect) credo che non avrebbe configurato una «classe intermodale», cioè capace di gestire la transizione ad un nuovo sistema sociale, poiché per guidare la società non sono sufficienti le sole conoscenze di carattere tecnico, ma è necessaria quella formazione che da sempre hanno caratterizzato le classi dominanti, cioè oltre alla formazione fornita dalla pratica politica, quel tipo di formazione definita «umanistica» che si acquisisce con la conoscenza della storia, della filosofia, della giurisprudenza, delle arti. Inoltre, la politica è un’arte e come tale necessita di attitudini specifiche, in parte innate, non solo un determinato grado di intelligenza e di formazione, ma anche le attitudini psico-fisiche per reggere il conflitto, che seppur in questo campo non si svolge direttamente con le armi, spesso è ugualmente pericoloso. La politica a tempo pieno non è per tutti, e neanche tutti sono interessati ad un tale tipo di impegno. Ci sono diversi gradi, c’è chi ne fa una ragione di vita, ma la maggioranza si interessa alle questioni politiche quando sente le proprie condizioni di vita minacciate.

Le classi popolari non possono svolgere un’efficace lotta politica senza organizzazione, la quale presuppone una forma di divisione in classi interna tra chi dirige e chi è diretto. Ciò significava il principio, che Lenin trasse dal «rinnegato Kautsky», secondo cui agli «operai la coscienza può essere portata solo dall’esterno», in base al quale si organizzarono i partiti operai del secolo scorso che ebbero come modello principale la socialdemocrazia tedesca.

L’obiettivo della «fine della società di classe» va abbandonato perché si è dimostrata un’utopia individualistica (il giovane Marx con la sua hybris estremistica individualistica avrebbe voluto addirittura abolire la «divisione del lavoro»)32. L’essere umano è un essere sociale che vive in società organizzate, cioè costituite da gerarchie. Una volta stabilito tale punto fermo tutto da discutere è il rapporto tra le classi. Sicuramente le società occidentali odierne con le loro mostruose differenze di reddito necessitano di una radicale riorganizzazione. Di una radicale riorganizzazione ha bisogno anche la forma dello stato, che miri al suo rafforzamento attraverso una sua trasformazione democratica che assegni un ruolo alle classi medie e alle classi inferiori (non mi soffermo qui sul ruolo del «ceto medio semicolto» trattato in vari interventi, che è in realtà un’appendice dell’apparato statale odierno). Tale radicale trasformazione dello stato assolutistico, implica un’estensione del potere alle classi non dominanti, per dirla con Massimo Morigi, pur mantenendo una gerarchia di poteri.

Una volta stabilito il principio dell’autonomia delle classi popolari, ma all’interno di una società organizzata, le classi popolari devono ricercare l’alleanza con i membri delle classi dominanti, se ce ne sono, che non abbiano le tendenze auto-distruttive prevalenti in quelle attuali, e che abbiano l’intenzione di combattere la deriva attuale delle società occidentali. Soltanto se si realizzare tale sinergia sarà possibile nelle condizioni attuali invertire la deriva.

Va ritrovata un’unità sociale nella difesa dello stato. I recenti movimenti «sovranisti» intendono difendere la sovranità dello stato nei confronti della «globalizzazione», cioè nei confronti del tentativo statunitense di stabilire un dominio mondiale. Tuttavia la difesa di questa sovranità implica una decisa trasformazione dello stato che ne trasformi radicalmente le basi assolutistiche sulle quali è fondato. Senza questo intento il «sovranismo» non potrà essere che un altra forma di inganno, ancora un altro partito che una volta in parlamento fa esattamente il contrario di quanto aveva promesso per ottenere il voto.

Toni Negri è un «cattivo maestro», ma si impara anche dai maestri cattivi una volta riconosciuti come tali. Come scrisse Preve, è un pensatore da prendere sul serio, perché a suo modo geniale e innovativo. In Impero egli effettua una colossale mistificazione, presentando la «globalizzazione» statunitense quale erede del repubblicanesimo machiavelliano, ma confrontandosi con i suoi argomenti, frutto di una conoscenza sofisticata, si possono migliorare gli strumenti teorici necessari per combattere i conflitti attuali. Quello di Negri è stato il tentativo più significativo di trasformare il repubblicanesimo machiavelliano in una teoria politica per l’oggi, ma pervertendone il significato, trasformandolo in un’ideologia a servizio della globalizzazione. La sua antropologia del desiderio è esattamente il contrario della virtù machiavelliana, quale attaccamento alla patria, fortezza e temperanza, senso della giustizia, capacità militare e politica allo stesso tempo, e infine audacia, perché sarà necessaria molta audacia per affrontare l’Idra. Leviatano, il mostro marino, vinse Behemoth, il mostro terrestre, e con questi poi si congiunse e con l’ausilio della Tecnica diede vita all’Idra che vuole dominare tutto il globo.

Non c’è dubbio che la critica di Toni Negri della sovranità statale corrisponda alle finalità di destrutturazione degli stati a cui mira la globalizzazione (statunitense), ciò non toglie che sia sostanzialmente giusta. Difendersi dalla globalizzazione semplicemente affermando la sovranità dello stato è una lotta di retroguardia destinata alla sconfitta, perché questo tipo di sovranità svuota di ogni forma di partecipazione le classi medie e le classi inferiori. Abbiamo una contrapposizione tra stato-apparato (l’insieme dell’apparato di dominio che comprende anche i media) e la nazione (l’intera collettività). Lo stato-nazione si difende quindi ritrovando una forma di partecipazione ad esso delle classi non dominanti, il che comporta la messa in discussione dell’assolutismo di base su cui è costruito lo stato moderno. Ecco la critica dell’assolutismo su cui si fonda lo stato moderno, è evidente che essa coglie i nodi essenziali della questione:

«La teoria hobbesiana della sovranità era funzionale allo sviluppo della monarchia assoluta e, tuttavia, il suo schema trascendentale poteva essere ugualmente applicato alle altre forme di governo: all’oligarchia e alla democrazia. Nel momento in cui la borghesia stava diventando la classe emergente, sembrava che non vi fosse alcuna alternativa a questo schema di potere. Non fu dunque casuale che il repubblicanesimo democratico di Rousseau finì per assomigliare al modello hobbesiano. Il contratto sociale di Rousseau garantisce che l’accordo tra le volontà individuali viene sostenuto e sublimato nella costruzione di una volontà generale che nasce dall’alienazione delle singole volontà a favore della sovranità dello stato. In quanto modello di sovranità, l’«assoluto repubblicano» di Rousseau non è realmente diverso dall’hobbesiano «Dio in terra», e cioè dal monarca assoluto. «Queste clausole [del contratto], beninteso, si riducono tutte a una sola, cioè all’alienazione totale di ciascun associato con tutti i suoi diritti a tutta la comunità». Le altre condizioni poste da Rousseau per la definizione della sovranità in senso democratico popolare sono assolutamente irrilevanti rispetto all’assolutezza della fondazione trascendente. In particolare, la nozione rousseauviana della rappresentanza diretta è completamente distorta e, in ultima analisi, viene inghiottita dalla rappresentanza della totalità a cui è strutturalmente connessa – e tutto ciò, ancora una volta, risulta perfettamente compatibile con la concezione hobbesiana della rappresentanza. Hobbes e Rousseau non facevano altro che ripetere il paradosso che Bodin aveva già concettualizzato nella seconda metà del sedicesimo secolo. La sovranità appartiene, propriamente, soltanto alla monarchia, poiché uno solo è il sovrano. Se due, tre o più avessero il potere, non vi sarebbe sovranità, poiché il sovrano non può essere soggetto al potere di altri. Le forme politiche democratiche, plurali e popolari potranno anche essere proclamate, ma la sovranità moderna avrà sempre una sola configurazione politica: un unico potere trascendente»33.

Uno dei primi a rendersi conto che una società senza una cultura comune non poteva andare avanti fu Rousseau, il quale propose di creare in sostituzione una «religione della patria», ma poiché non vi può essere una tale comunanza in presenza di differenze sociali sostanziali, egli propose allo stesso tempo una religione dell’umanità e dell’eguaglianza, che aveva anche un suo peccato originale costituito dallà «proprietà». Se all’inizio religione della patria e religione dell’umanità andavano accompagnate nella stessa persona, come ancora in Filippo Buonarroti34 successivamente finiranno per divaricarsi per dar vita a nazionalismo e socialismo (successivamente: fascismo e comunismo), diventeranno le sorelle nemiche tanto acerrime proprio perché nate dallo stesso seme. Era già iniziato il processo della disgregazione europea. Ma il problema non fu principalmente ideologico, se l’Europa non riusci a creare una cultura comune in sostituzione del cristianesimo fu perché non riusci a svilupparsi come realtà unitaria.

La civiltà europea è giunta ad un punto morto. La sua storia iniziata con le crociate si è conclusa con conflitti insolubili, sfociati in due guerre mondiali, e infine la sottomissione agli Usa, ma non prima di aver stravolto la faccia del mondo. Chi pensa di ripartire da questa storia, dai suoi nazionalismi, magari ribattezzati rispettabilmente in «patriottismo», secondo me perde tempo. La stato nazionale va difeso, pena la disgregazione totale, ma in un’ottica rivolta al futuro, e per quanto riguarda l’Europa ciò vuol dire ricostruire le sue articolazioni nazionali intorno ad un nuovo centro, il quale sarà Russia, se è vera la profezia secondo cui Mosca è la Terza Roma. Ma questa non è prospettiva a breve termine, emergerà come orizzonte politico dopo lo scontro tra le grandi potenze che si preannuncia.

Non ritengo sia tutto da buttare della storia europea, ma neanche ci si deve nascondere il sostanziale fallimento della civiltà europea. Potremmo dire che avremmo preferito con Machiavelli uno sviluppo più classico più simile a quella di Roma, con un «progresso» meno accellerato, e più integrabile dalla psiche umana e dalle strutture sociale e non lo sviluppo abnorme, mostruoso e fuori controllo a cui siamo di fronte, tuttavia la storia non segue degli sviluppi «classici» perché attinge nella natura (nel senso di physis) che per l’essere umano è imperscrutabile nei suoi fondamenti ultimi, a cui l’essere umano può accostarsi ma mai dominare a suo piacimento. A cosa ci condurrà l’odierna situazione non lo sappiamo, di sicuro l’epoca «tranquilla», seguita alla II guerra mondiale (perché basata sulla deterrenza nucleare) durata pochi decenni sta definitivamente per concludersi. Non sappiamo cosà accadrà, di sicuro saranno conflitti enormi, proporzionati alla capacità distruttiva acquisita dell’essere umano, per affrontare i quali sarà necessaria molta, tantissima virtù per non soccombere alla fortuna.

La capacità esplicativa del paradigma machiavelliano la si può verificare utilizzandola per quanto riguarda il mondo uscito dalla II guerra mondiale. Per l’occidente, e per la stessa Italia, le cose sono andate meglio fin quando gli Usa avevano un antagonista nell’Urss, era proprio questo antagonismo a creare un ordine. Non appena tale antagonista sbiadisce, e questo avviene ben prima del «crollo del muro», comincia la decadenza del mondo occidentale del dopoguerra e nasce il «neo-liberismo».

Machiavelli ritorna d’attualità nella misura in cui si esaurisce il vantaggio tecnologico «occidentale» sul resto del mondo iniziato cinque secoli fa. Se la civiltà ortodossa, quella sinica e anche quell’indiana (sebbene meno protagonista rispetto alla prime due non corre però rischi esistenziali), hanno superato la prova della minaccia mortale costituita dall’espansionismo mondiale dell’occidente, diversamente è stato per la civiltà islamica. A causa del fatto che ha avuto la sventura di trovarsi sopra i maggiori deposito di petrolio mondiale e per debolezze intrinseche dovute alle divisioni confessionali, la civiltà islamica è l’unica rimasta sotto le grinfie dell’occidente. Il tentativo di conquista del dominio mondiale degli Usa dopo il crollo del muro ha colpito soprattutto in questo ambito distruggendo l’Iraq e poi la Libia, mentre l’Iran resta permanentemente nel mirino. Attraverso l’Arabia Saudita e il Qatar si è riusciti a manipolare i movimenti islamisti che utilizzano gli attentati terroristici tra i principali mezzi di lotta, in modo da indirizzarli principalmente contro la Russia. Dato lo sporco gioco occidentale e dato il fatto che i nostro s-governanti hanno avuto la felice idea di lasciar crescere delle enclaves di popolazioni di religione islamiche nelle città europee, con organizzazioni legate all’Arabia Saudita e al Qatar è da prevedere che gli attentati cresceranno, qualora diventassero fenomeno quotidiano con un rischio statistico significativo, potrebbe essere lo sviluppo di forme di milizia popolare. Nei recenti attentati in Europa, la presenza diffusa di cittadini armati, con armi adeguate ed addestrati ad usarle, avrebbe potuto determinare esiti differenti (cittadini nel senso autentico della parola, cioè membri di una comunità capaci di difendere se stessi e la collettività in cui vivono). Altrimenti, l’alternativa sarebbe, nel caso di crescita significativa degli attentati sarebbe la militarizzazione delle società, e la fine di quella libertà di movimento a cui siamo attaccati.

Riconsideriamo quindi il monito che risuona nei secoli lanciato da Machiavelli alle classi dominanti:

Per tanto, se tu vuoi fare uno popolo numeroso ed armato per poter fare un grande imperio, lo fai di qualità che tu non lo puoi poi maneggiare a tuo modo: se tu lo mantieni o piccolo o disarmato per poter maneggiarlo, se tu acquisti dominio, non lo puoi tenere, o ei diventa sì vile che tu sei preda di qualunque ti assalta35.

Se è vero che gli eserciti odierni hanno una ineliminabile componente di specializzazione, è anche vero che ad usare questi strumenti sono pur sempre degli uomini e in quanto tali devono avere delle motivazioni per combattere. Il culto del drone radiocomandato è un simbolo del nichilismo tecnologico in cui si sono infognate le società occidentali. Ma il drone non si guida da solo, neppure è in grado di combattere Igor il cattivo, protagonista della recente e scadentissima saga mediatica. Le società occidentali individualiste e disgregate non forniscono queste motivazioni. Man mano che si intensificherà lo scontro multi-polare Machiavelli tornerà d’attualità. L’«occidente» ha puntato tutto sulla superiorità tecnica, ma il divario tecnico è la cosa più facile da colmare, mentre è molto più difficile far risalire la china ad una società disgregata, divisa al suo interno. Il divario tecnico di cui ha goduto l’occidente è già praticamente superato, e nel prossimo scontro vinceranno le società più compatte che sapranno realizzare forme di inclusione del popolo, che sapranno trovare un popolo disposto e capace di difendere la propria nazione.

Il Progresso è un’idea scaduta, messa radicalmente in discussione da due guerre mondiali e dall’invenzione della bomba atomica. Il progresso tecnico accresce tanto le capacità costruttive quanto quelle distruttive dell’essere umano. Affidarsi al Progresso equivale ad affidarsi alla Divina Provvidenza, un concetto religioso di cui il Progresso fu una secolarizzazione. Per gli occidentali che di fronte alla superstizione del progresso hanno adottato più o meno consapevolmente l’attitudine di alcuni superstiziosi in Italia secondo cui «non è vero ma ci credo», cioè essi non credono più al Progresso, ma continuano a credere che la «civiltà occidentale» sia comunque al culmine della civiltà mondiale, forse la visione ciclica di Machiavelli ha qualcosa da dire: «…la virtú partorisce quiete, la quiete ozio, l’ozio disordine, il disordine rovina, e similmente dalla rovina nasce l’ordine, dall’ordine virtù, da questa gloria e buona fortuna»36. Non è forse l’aver pensato di essere il culmine della civiltà e di non avere più nemici una delle cause della disgregazione e decadenza delle oscietà occidentali?

La cultura americana (statunitense) ha inondato il mondo di ciarpame, ma rispetto alla cultura europea attuale (se ne esiste una visto che ormai si limita a seguire al traino quella statunitense) è possibile rovistando trovare qualcosa di utile, talvolta indispensabile. Prendiamo la questione della guerra, è da tempo ormai che la cultura europea è incapace di affrontare tale fondamentale realtà umana, mentre invece la cultura statunitense non ha bisogno di rimuoverla. C’è un’attenzione alla questione del conflitto assente nella produzione intellettuale delle nazioni europee. Ad es. non saprei indicare un testo di uno scrittore europeo contemporaneo che possa eguagliare per profondità e realismo il libro di James Hillman, Un terribile amore per la guerra, una lettura altamente consigliata che può offrire un valido aiuto per affrontare i tempi che verranno, in quanto affronta la guerra da un punto di vista filosofico e psicologico. Penso inoltre inoltre a tutta una corrente storiografica e sociologica che ha visto nella guerra il principale fattore di sviluppo dello stato moderno. Proprio il marxismo, che si dimostra in questo un frutto della decadenza europea, è stato uno dei principali promotori di questa vera e propria rimozione. Nato, il marxismo, in un momento in cui le nazioni europee si incartavano, per così dire, in conflitti regressivi, pensava di superare questa situazione rimuovendo del tutto il fattore dell’identità di gruppo, della nazione, della conflittualità tra gli esseri umani, che ha caratterizzato ogni epoca della storia umana, sostituendovi la sola conflittualità tra le classi sociali, la quale portata all’estremo avrebbe creato un mondo senza conflitti. Il marxismo ha contribuito di molto alla perdita di contatto con la realtà della cultura europea. Non che il conflitto tra le diverse classi non esiste, l’errore è isolarlo dagli altri conflitti, non metterlo in relazione ad es. a quello inter-nazionale, mentre invece è in questa relazione che acquisisce significati diversi, anche opposti (vedi in merito il mio Relatività dei conflitti. Per un nuovo paradigma nell’analisi politica).

Guardiamo con realismo alla questione del conflitto. Ciò che ha moderato il carattere sostanzialmente oligarchico e degli stati occidentali che ha creato uno spazio per le rivendicazioni salariali è stata la necessità che si è avuta del coinvolgimento popolare per condurre il conflitto con gli altri stati. Dopo la seconda guerra mondiale la presenza dell’alternativa di sistema costituita dall’Unione Sovietica aveva spinto a delle misure, soprattutto in Europa, atte a mantenere un certo consenso popolare, da ciò è sorto il cosiddetto stato sociale. Dopo che, l’Unione Sovietica cessò di essere una sfida, prima del crollo del muro, già negli anni settanta si aveva sentore del non funzionamento del sistema sovietico, ritornò il neo-liberismo. Esso è sostanzialmente una forma estrema di individualismo, come disse la Thachter «la società non esiste». Le città statunitensi, dopo il breve periodo di ordine del dopoguerra, ritornavano allo hobbesiano stato di natura. Frank M. Colman in un articolo degli anni settanta, riconducendo il sistema alla sue radici hobbesiane, coglieva benissimo la tendenza (neo)liberista (ri)nascente. Come ha scritto successivamente Colemanm, lo stato hobbesiano quale incarnazione del creazionismo biblico nullifica il mondo. Il nichilismo in cui si è conclusa la cultura «occidentale», e che di conseguenza ha infettato le culture di tutto il mondo, è frutto di un lungo percorso. Se non altro Hobbes, il suo primo e principale fautore, ebbe l’onestà di chiamarlo con il suo nome di mostro marino, Leviatano. Esso combattè con un mostro terrestre, Behemoth, che sconfisse. Da allora Leviatano si è ingrandito al punto di essere capace ora di inghiottire la Terra, ma pochi osano dichiarare la sua mostruosità.

L’ «occidente» deve prendere atto dell’esistenza di altre civiltà con cui deve convivere. Esse non possono essere sottomesse o distrutte. L’unico tentativo «serio» di impedire la rinascita delle altre civiltà è stato quello nazista. Figurarsi quindi se l’ «occidente» oggi sarebbe in grado di sottomettere la Cina o la Russia.

Bisogna ricercare un assetto che prenda atto realisticamente della competizione per le sfere d’influenza fra le potenze eredi delle grandi civiltà, compresa la possibilità di conflitti locali e a margine delle linee di faglia degli stati eredi delle grandi civiltà, senza però che questo degeneri nel conflitto di civiltà. Il timore, anzi l’orrore, per le conseguenze probabili di una collisione diretta tra civiltà è ciò che deve guidare in negativo le relazioni internazionali. Per l’«occidente» si richiederebbe una decisa inversione di rotta dall’imperialismo da cui è sorto il globalismo (cioè la tendenza al dominio mondiale) ad un territorialismo che curi l’ordine interno. La campagna elettorale di Trump è stata improntata a un «protezionismo» che sembrava riflettesse in una certa misura il desiderio di una inversione di tendenza, ma naturalmente ora eletto non sta mantenendo nessuna promessa. Dicono perché costretto dal «deep state» (cioè dal potere effettivo nascosto, il vero stato), ma temo che quei settori delle classi dominanti che hanno sostenuto Trump non hanno avuto fin dall’inizio l’intenzione di effettuare una seria inversione di marcia. Il «populismo dall’alto» non potrà mai funzionare, se non si incontra con «populismo dal basso». Mi chiedo quanto le classi dominanti possano abusare del popolo nella loro infinita arroganza, finché i cittadini non decidano che sia il tempo di dare loro una lezione. Tra l’altro negli Usa si è conservato uno dei principi fondamentali del repubblicanesimo, cioè la possibilità per il popolo di portare le armi. Di solito si vuole discreditare questo principio sacrosanto attribuendogli la responsabilità dell’alto tasso di violenza. Accusa infondata in quanto in Canada e in Svizzera, dove ugualmente la possibilità di portare liberamente le armi è sancita dalla costituzione, vi sono tassi di mortalità per le armi da fuoco simili a quelli europei, mentre in varie nazioni dell’America Latina dove non vi è questo diritto costituzionale i tassi di mortalità sono più alti di quelli statunitensi.

Un radicale cambiamento di indirizzo degli Usa dal globalismo alla cura dell’ordine interno non è possibile senza cambiamento radicale della sua struttura interna. Tale cambiamento sembra molto difficile nelle condizioni attuali, ma l’alternativa è il declino e il disfacimento interno, oppure la ricerca di una «soluzione tecnica» della crisi attraverso le micidiali armi attuali che comporterebbe una catastrofe mai vista nell’intera storia dell’umanità. Anche se non credo che comporterebbe la fine del genere umano, si tratterebbe comunque di una catastrofe di proporzioni inenarrabili.

Siamo ad una tappa decisiva, che impone un radicale cambiamento di indirizzo, di un percorso iniziato oltre tre millenni fa. Ciò che Jaspers chiama il periodo assiale andrebbe visto come un percorso in cui l’essere umano è passato dalla soggezione verso la natura al tentativo di conquistarla. Non credo che la volontà di non essere in balia della natura sia in sé sbagliata, sicuramente vanno capite bene le modalità e i rischi che essa comporta. Innanzitutto l’essere umano può conquistare uno spazio di preminenza all’interna della natura, ma non può pensare di mettersi al di sopra di essa perché da essa è generato. Come aveva ben capito Jaspers è proprio attraverso l’insensato proposito dell’essere umano che la natura ristabilisce la preminenza. «La soggezione dell’uomo alla natura è resa manifesta in maniera nuova dalla tecnica moderna. La natura minaccia di sopraffare in modo imprevisto l’uomo stesso, proprio mercé il dominio enormemente maggiore che questi ha su di essa. Attraverso la natura dell’uomo impegnato nel lavoro tecnico, la natura diventa davvero la tiranna dell’essere umano. C’e il pericolo che l’uomo sia soffocato dalla seconda natura, a cui egli da vita tecnicamente come suo prodotto, mentre può apparire relativamente libero rispetto alla natura indomata nella sua perpetua lotta fisica per l’esistenza.»

Heidegger nell’analisi della illimitata volontà di potenza a cui Nietzsche diede l’espressione più pregnante, e che non fu certo solo della Germania nazista, scrisse: «La volontà di potenza non è soltanto il modo in cui e il mezzo mediante il quale accade la posizione di valori, ma è, in quanto essenza della potenza, l’unico valore fondamentale in base al quale viene stimata qualsiasi cosa che deve avere valore o che non puo pretendere di averne. «Ogni accadere, ogni movimento, ogni divenire come uno stabilire rapporti di grado e di forza, come una lotta… . Chi è che in tale lotta soccombe è, in quanto soccombe, nel torto e non vero. Chi è che in questa lotta rimane a galla è, in quanto vince, nella ragione e nel vero. Per che cosa si lotti è, pensato e auspicato come fine con un contenuto particolare, sempre di importanza secondaria. Tutti i fini della lotta e le grida di battaglia sono sempre e solo strumenti di lotta. Per che cosa si lotti è già deciso in anticipo: è la potenza stessa che non ha bisogno di fini. Essa è senza-fini, così come l’insieme dell’ente privo-di-valore. Questa mancanza-di-fini fa parte dell’essenza metafisica della potenza. Se mai qui si puo parlare di un fine, questo fine è la mancanza di fini dell’incondizionato dominio dell’uomo sulla terra. L’uomo di questo dominio è il super-uomo (Uber-Mensch)»37.

Frank Coleman, nell’analizzare il rapporto tra Hobbes e l’Antico Testamento, ritiene che nella misura in cui «il capitalismo è ciò che genera la percezione di un difetto nella natura, è anche il capitalismo, assistito dalla scienza moderna, che mostra ad Hobbes la via d’uscita. Il modo in cui il capitalismo ci libera dalla presenza di un difetto nella natura è attraverso il progetto di derivazione biblica di dominio sulla terra. I poteri del Dio dell’Antico Testamento sono riattribuiti al capitale e alla scienza moderna che procede quindi alla produzione di un artefatto della società civile che fa da parallelo e da rinforzo all’artefatto costituito dallo stato. […] Non è tanto il ruolo politico assegnato al capitalismo e alla scienza in sostegno allo stato moderno che è di interesse, ma il concetto che di natura ad esso sottostante. L’idea di derivazione biblica della natura quale artefatto, lasciatemi sottolineare, soggiace allo stato leviatano, alla scienza moderna, e al capitalismo nella teoria hobbesiana»38.

Seppure l’Antico Testamento ha giocato un ruolo fondamentale, io credo esso vada collocato nella cornice più ampia del movimento del pensiero umano costituito dal periodo assiale. Non a caso l’Artefice, il Creatore, the Maker (secondo la lingua inglese) ha un suo antenato nel Demiurgo platonico, figura che nasce dal e allo stesso tempo intende superare il netto dualismo tra mondo delle idee e realtà sensibile. Il trascendentalismo dominante durante il periodo assiale, che si differenzia rispetto ad un periodo precedente dominato da religioni immanenti alla natura, è l’espressione della volontà dell’essere umano di porsi al di sopra della natura. Poiché ciò che trascende l’essere umano è la natura da cui esso è generato, spostare la trascendenza dalla natura allo spirito, determinando una netta contrapposizione tra materia e spirito, tra corpo e anima, significa porre la trascendenza nell’intelligenza, in ciò che l’uomo ritiene che lo ponga al sopra degli altri esseri viventi, restringendo il significato di natura che nell’accezione dei greci comprendeva l’intero cosmo, alle sole «creature» viventi.

Il peccato maggiore dei moderni, prima che due guerre mondiali e la Bomba spegnessero le illusioni, è stata la hybris. Prometeo fu trasformato in una figura positiva, mettendone in secondo piano la tragicità. Persino Goethe, il più equilibrato di tutti, non fu esente da questa distorsione. Eppure se Prometeo fu condannato ad un pena terribile non fu senza ragione. Non tanto per aver rubato il fuoco agli Dei, quanto per aver pensato in questo modo di rendere gli uomini simili ad essi. Il peccato della hybris consiste nell’illusione di poter diventare padroni della natura, dimenticando che siamo sempre soggetti ad essa. Massima è la hybris di Marx secondo il quale sarebbe stato possibile padroneggiare addirittura la Storia, prevederne gli esiti. La storia e la natura hanno le loro radici nell’Ignoto, non sono prevedibili e padroneggiabili nei loro fondamenti ultimi. Far fronte a tale condizione esistenziale è compito degli esseri umani, ma senza pensare di poter padroneggiare ciò da cui siamo stati generati. Engels, un pensatore originale scrisse che la natura «si vendica di ogni nostra vittoria. Ogni vittoria ha infatti in prima istanza le conseguenze sulle quali avevamo fatto assegnamento; ma in seconda e terza istanza ha effetti del tutto impreveduti, che troppo spesso annullano a loro volta le prime conseguenze (…). Ad ogni passo ci vien ricordato che noi non dominiamo la natura come un conquistatore domina un popolo straniero soggiogato (…). Tuttavia il nostro dominio sulla natura consiste nella capacità, che ci eleva al di sopra delle altre creature, di conoscere le sue leggi e di impiegarle nel modo più appropriato»39.

Quando leggiamo Machiavelli lo sentiamo come un moderno, qualcuno che parla di un mondo che è anche il nostro, ma riguardo al rapporto dell’uomo con la natura appare la diversità del «pagano» Machiavelli portavoce di una modernità diversa rispetto a quella che ha prevalso.

«Quanto alle cause che vengono dal cielo, sono quelle che spengono la umana generazione, e riducano a pochi gli abitatori di parte del mondo. E questo viene o per peste o per fame o per una inondazione d’acque: e la più importante è questa ultima, sì perché la è più universale, sì perché quegli che si salvono sono uomini tutti montanari e rozzi, i quali, non avendo notizia di alcuna antichità, non la possono lasciare a’ posteri. […]. E che queste inondazioni, peste e fami venghino, non credo sia da dubitarne; sì perché ne sono piene tutte le istorie, sì perché si vede questo effetto della oblivione delle cose, sì perché e’ pare ragionevole ch’e’ sia: perché la natura, come ne’ corpi semplici, quando e’ vi è ragunato assai materia superflua, muove per sé medesima molte volte, e fa una purgazione, la quale è salute di quel corpo; così interviene in questo corpo misto della umana generazione, che, quando tutte le provincie sono ripiene di abitatori, in modo che non possono vivervi, né possono andare altrove, per essere occupati e ripieni tutti i luoghi; e quando la astuzia e la malignità umana è venuta dove la può venire, conviene di necessità che il mondo si purghi per uno de’ tre modi; acciocché gli uomini, sendo divenuti pochi e battuti, vivino più comodamente, e diventino migliori»40.

Vediamo quindi come Machiavelli ripristina spontaneamente la trascendenza nella natura. La modernità dalla antica visione del mondo si rivela tutta in queste parole che dovrebbero essere da monito per noi viventi. Se gli esseri umani non riusciranno ad invertire la tendenza riparando ai mali prodotti da un percorso millenario, che non è condannare in sé, quale volontà dell’essere umano di non essere in completa balia della natura, ma solo nell’illusione di poter soggiogare la natura, dimenticando che essa stabilisce comunque la sua preminenza rispetto al singolo individuo.

Il Grande Falegname (per quelli del tempo della Bibbia) o il Grande Ingegnere Interstellare per quelli di oggi è un concetto antropomorfico. C’è bisogno di un concetto che indichi l’esistenza di ciò che trascende la capacità di comprensione umana o che l’essere umano può cogliere in minima parte senza poterla esaurire, possiamo chiamarlo Dio, Infinito, Natura. E’ da superare il concetto di Dio creatore della natura (che il settimo giorno si riposò), perché è una proiezione dell’illusione umana di dominare la natura.

Se non si metterà il massimo impegno a invertire una «crescita» che ormai somiglia più al diffondersi di una metastasi e ristabilire un equilibrio allora sarà la natura a farlo. Questo non vuol dire affatto porsi dalla parte della «de-crescita», quel semplicismo per cui basta mettere il segno negativo al valore della «crescita». Sapranno conquistare l’egemonia quei sistemi sociali che sapranno indicare ai popoli un diverso modello qualitativo di sviluppo.

Siamo oggi nel crepuscolo del Demiurgo. Si spera che la notte che incombe non sia illuminata da esplosioni nucleari.

Non il pacifismo, né il buonismo, questi due figli ipocriti della carità cristiana, entrambi arruolati dal globalismo, ma la virtù machiavelliana può ispirare uno spirito di antagonismo nei confronti dell’Idra le cui teste sono sparse in tutto il globo, l’Apparato di potere che rischia di devastare l’intero mondo nella sua agonia. Il pericolo maggiore è che l’Idra-Apparato voglia ricorrere alla Tecnica (nello specifico all’utilizzo delle armi atomiche su vasta scala), sulla quale ha fatto sempre affidamento prioritario, per impedire o ritardare la sua fine, perché non può ricorrere alla virtù che da tempo ha soffocato nei suoi sottoposti. Il compito prioritario degli «occidentali» sarebbe distruggere questo mostro che altrimenti li porterà alla rovina. Siamo sulla strada che porterà ad uno scontro generalizzato che ridefinirà i rapporti inter-nazionali, acquisiranno un ruolo di primo piano le società che faranno affidamento non solo sulla superiorità tecnica degli armamenti, ma sulla loro maggiore compatezza, sul maggiore attaccamento dei loro cittadini al proprio stato, al proprio sistema sociale, alla proprià civiltà. Gli occidentali questo attaccamento non l’hanno, troppo marce sono diventate le società occidentali, troppo piene di diseguaglianza e plateali ingiustizie, troppo pieni di menzogne i programmi dei partiti politici, inqualificabili sono i media occidentali si dedicano deliberatamente al rimbambimento dei loro spettatori e a suscitare tutti i più miseri particolarismi.

Prepariamoci psicologicamente e fisicamente, non esiste una netta distinzione, a tempi difficili. La cosa peggiore è la fuga dalle realtà degli «occidentali», ma per chi non vuole essere in balia degli eventi, per chi ritiene che la dignità dell’essere umano consista nel tentare almeno di far fronte ai colpi della Fortuna, Machiavelli è sicuramente un compagno di strada.

1Pocock, Il momento machiavelliano, ed. it. II vol. p. 389. Ho semplificato i riferimenti bibliografici, con gli attuali strumenti informatici è molto facile ritrovare i testi citati. Inoltre, poiché ho utilizzato la versione digitale di molti testi, ho inserito il numero di pagina solo quando era disponibile, non l’ho inserito nel caso di articoli e introduzioni. L’eventuale lettore interessato al contesto da cui sono tratte alcune citazioni non farà fatica a ritrovarlo. Vorrei infine ringraziare che ha allestito il sito http://gen.lib.rus.ec/, dove ho reperito tantissimi testi e senza il quale non avrei potuto portare a termine questo lavoro.

2 Marco Geuna, Introduzione a Skinner, La Libertà prima del liberalismo, p. XVII

3 M. Geuna, Introduzione a Philip Pettit, Il repubblicanesimo. Una teoria della libertà e del governo, p. 28

4 «Sempre ch’io ho potuto onorare la patria mia, eziandio con mio carico et pericolo, l’ho fatto volentieri: perché l’uomo non ha maggiore obbligo nella vita sua che con quella, dependendo prima da essa l’essere, e dipoi tutto quello che di buono la fortuna e la natura ci hanno conceduto; e tanto viene a essere maggiore in coloro che hanno sortito patria piú nobile. E veramente colui il quale con l’animo et con l’opera si fa nimico della sua patria, meritamente si può chiamare parricida, ancora che da quella fussi suto offeso». Machiavelli, Discorso intorno alla nostra lingua

5 M. Geuna, Introduzione a Q. Skinner, La libertà prima del liberalismo

6 Chabod, Scritti su Machiavelli, p. 77

7 «Questo esemplo, con molti altri che di sopra si sono addotti, mostrano quanta bontà e quanta religione fusse in quel popolo [romano], e quanto bene fusse da sperare di lui. E veramente, dove non è questa bontà, non si può sperare nulla di bene; come non si può sperare nelle provincie che in questi tempi si veggono corrotte: come è la Italia sopra tutte l’altre, ed ancora la Francia e la Spagna di tale corrozione ritengono parte». Machiavelli, Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio

8« …tener ricco il pubblico, povero il privato, mantenere con sommo studio li esercizi militari, sono le vie a far grande una Repubblica» Machiavelli, Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio

9William J. Connell, L’espansione come telos dello stato

10 «Se però è corretto definire Impero “una organizzazione tale che in essa l’unità non agisca in modo distruttivo e livellatore nel riguardo della molteplicità etnica e culturale da essa compresa”, a ragione si può affermare con de Benoist che l’Impero romano, sotto questo profilo è un esempio particolarmente illuminante: nell’Impero romano la tolleranza religiosa è la norma, esiste una doppia cancelleria imperiale, in Egitto si continua ad applicare il diritto indigeno spolverato di diritto greco e il diritto ebraico continua ad essere valido per gli ebrei. Ogni comunità cioè ha il diritto di organizzarsi in base alla propria tradizione, benché chi gode del diritto di cittadinanza romana (concessa con l’editto di Caracalla del 212 d. C. a tutti gli abitanti liberi dell’impero) possa sempre appellarsi alla giustizia imperiale. Insomma, il cittadino romano si trova a dipendere sia dalla città in cui è nato sia dall’amministrazione imperiale. E Maurice Sartre giunge a sostenere: “Se c’è un insegnamento che dobbiamo trarre dalla storia dell’Impero romano potrebbe essere proprio questo: la coesione di un insieme tanto disparato che si basa sul rispetto di strutture locali responsabili della gestione della vita quotidiana, guardiane delle tradizioni […] A conti fatti, il rispetto delle identità culturali è più importante, a lungo termine, del successo economico o degli imperativi strategici”, in quanto sono in gioco un modello di civiltà e un sistema di valori che si ritiene di dover difendere “contro chi vorrebbe metterli in discussione, all’esterno (i barbari) o all’interno (in particolar modo i cristiani)”». Fabio Falchi, L’impero come «grande spazio» . Vedi l’intero articolo per una distinzione tra il concetto di impero e l’imperialismo. Anche se personalmente preferisco utilizzare il termine territorialismo al posto di impero. (L’articolo si può consultare sullo spazio dell’autore in academia.edu).

11da War and State Formation in Ancient China and Early Modern Europe Victoria Tin-Bor Hui, un’apparentemente modesta ricercatrice accademica, ma dal pensiero affilato come la lama di una katana, ha elaborato un interessantissimo saggio comparativo tra la sviluppo della Europa moderna e quello della Cina antica. Putroppo, lo stato comatoso della cultura europea ha lasciato passare inosservato questo saggio che pur ha ricevuto una serie di premi in ambito accademico statunitense.

12 Victoria Tin-Bor Hui, op. cit. p. 39

13Victoria Tin-Bor Hui, op. cit. p. 28

14 Arte della guerra

15Victoria Tin Hui, op. cit. p. 140-1. La citazione di Machiavelli è da Il principe

16… giudico il mondo sempre essere stato ad uno medesimo modo, ed in quello essere stato tanto di buono quanto di cattivo; ma variare questo cattivo e questo buono di provincia in provincia, come si vede per quello si ha notizia di quegli regni antichi, che variano dall’uno all’altro per la variazione de’ costumi, ma il mondo restava quel medesimo: solo vi era questa differenza, che dove quello aveva prima allogata la sua virtú in Assiria, la collocò in Media, dipoi in Persia, tanto che la ne venne in Italia e a Roma. E se dopo lo Imperio romano non è seguíto Imperio che sia durato né dove il mondo abbia ritenuta la sua virtú insieme, si vede nondimeno essere sparsa in di molte nazioni dove si viveva virtuosamente; come era il regno de’ Franchi, il regno de’ Turchi, quel del Soldano, ed oggi i popoli della Magna, e prima quella setta Saracina che fece tante gran cose ed occupò tanto mondo, poiché la distrusse lo Imperio romano orientale. In tutte queste provincie adunque, poiché i Romani rovinorono, ed in tutte queste sétte è stata quella virtú, ed è ancora in alcuna parte di esse, che si desidera e che con vera laude si lauda.

  1. Machiavelli, Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio

17 Pocock, Introduzione a James Harrington The Commonwealth of Oceana and A System of Politics

18 M. Geuna, Rousseau interprete di Machiavelli

19 Victoria Tin-Bor Hui, op. cit. p.. 194

20 Max Weber, Storia economica, p. 227-8

21Crawford Brough MacphersonLibertà e proprietà alle origini del pensiero borghese: la teoria dell’individualismo possessivo da Hobbes a Locke

22Idem

23 Kant, Il conflitto delle facoltà

24Come sintetizza il titolo, From the state of princes to the person of the state, del capitolo finale del II vol. di Vision of Politics

25Diversi testi di Marco Geuna sono disponibili sul sito academia.edu

26Gli interventi di Massimo Morigi sul Repubblicanesimo Geopolitico sono stati pubblicati dal sito http://corrieredellacollera.com

27https://www.youtube.com/watch?v=VeOUHYC8zq8&t=533s

28http://www.cogitoergo.it/l%E2%80%99esercito-esaurito/

29E avvengaché quelli suoi re perdessono l’imperio, per le cagioni e modi discorsi; nondimeno quelli che li cacciarono, ordinandovi subito due Consoli che stessono nel luogo de’ Re, vennero a cacciare di Roma il nome, e non la potestà regia: talché, essendo in quella republica i Consoli e il Senato, veniva solo a essere mista di due qualità delle tre soprascritte, cioè di Principato e di Ottimati. Restavale solo a dare luogo al governo popolare: onde, sendo diventata la Nobilità romana insolente per le cagioni che di sotto si diranno si levò il Popolo contro di quella; talché, per non perdere il tutto, fu costretta concedere al Popolo la sua parte e, dall’altra parte, il Senato e i Consoli restassono con tanta autorità, che potessono tenere in quella republica il grado loro. E così nacque la creazione de’ Tribuni della plebe, dopo la quale creazione venne a essere più stabilito lo stato di quella republica, avendovi tutte le tre qualità di governo la parte sua. E tanto le fu favorevole la fortuna, che, benché si passasse dal governo de’ Re e delli Ottimati al Popolo, per quelli medesimi gradi e per quelle medesime cagioni che di sopra si sono discorse, nondimeno non si tolse mai, per dare autorità agli Ottimati, tutta l’autorità alle qualità regie; ne si diminuì l’autorità in tutto agli Ottimati, per darla al Popolo; ma rimanendo mista, fece una republica perfetta: alla quale perfezione venne per la disunione della Plebe e del Senato

30Polibio, Storie (Libro VI) L’eccellenza della costituzione romana

31Slavery and Social Death

32Sull’individualismo di Marx vedi Louis Dumont, Homo aequalis

33Michael Hardt (Autore), Antonio Negri (Autore), A. Pandolfi (a cura di), D. Didero (a cura di), Impero

34Vedi in merito il lavoro di James H. Billington, Fire in the Minds of Men: Origins of the Revolutionary Faith

35 Machiavelli, Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio

36 N. Machiavelli, Istorie fiorentine

37 Nietzsche

38The prosthetic God: Thomas Hobbes, the bible, and modernity

39Dialettica della natura

40Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio

http://www.gennaroscala.it/2017/06/21/il-paradigma-machiavelliano-per-la-definizione-di-una-teoria-politica-non-ideologica/

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Gli intellettuali e FB, di Vincenzo Costa

Gli intellettuali e FB
Un caro amico, ma di quelli proprio cari che si conoscono da almeno trent’anni, dice di non accettare dibattiti su FB, che i luoghi del dibattito sono altri: libri, articoli, etc. Premesso che la libertà di ognuno è insindacabile e che l’amicizia viene prima di ogni giudizio politico, resta che questa tesi è – secondo me- aristocratico-reazionaria, per diverse ragioni che investono la nozione stessa di cultura nel mondo della vita mediatizzato:
1) la filosofia europea inizia nelle piazze, che corrispondono a quella piazza virtuale che è oggi FB e gli altri social. Socrate poteva anche non andarci.
2) i social hanno mille limiti e altrettanti pericoli, ma sono ormai l’ambiente entro cui si muovono i flussi culturali.
3) quel criterio esclude dalla circolazione del senso tutti, lo limita a quattro gatti. Alla fine per partecipare al dibattito bisigna aver letto per anni la Logica di Hegel e tutto Adorno in tedesco.
4) i social sono un potente correttivo all’intellettualismo, come lo sono le lezioni per gli studenti. Mentre tra studiosi si fa in fretta a perdersi dietro a intenzionalità, contraddizione dialettica etc. nei social e a lezione non puoi bleffare: devi essere chiaro, per cui rappresentano un luogo di pulizia concettuale.
5) la circolazione delle idee e la riflessività sono cambiata nelle società contemporanee, avvengono per “diffusione” (qui sono oscuro, vero, ma credo si capisca): i concetti si diffondono come un’epidemia, attraverso criteri di rilevanza dettati dalle urgenze del presente.
6) ovviamente i social non sono un luogo privilegiato. Senza libri, articoli, luoghi deputati a discussioni più a grana fine saremmo più poveri, ma i social sono sorgente genuina di nuove idee, permettono lo scambio e la circolazione del senso tra mondo della vita e sistema culturale, e senza di essi questa circolazione si interrompe e il sistema culturale diventa autoreferenziale e inutile.
7) quell’idea è difensiva: ha paura dell’esposizione, di rischiarsi nel fuoco della piazza. Alla fine crea una nicchia di significato, in cui si riconosco gli adepti, e così concetti tutt’altro che definiti e che forse sono scemenze senza capo né coda diventano categorie interpretative della realtà.
8 ) c’è molta molta spocchia in quella posizione, della serie: non discuto con voi merdacce, se volete leggete i miei libri. Ecco, questo proprio no, questo è- per come intendo io la cultura e la sua funzione- inaccettabile.
9) alla base c’è forse l’aristocratismo Francofortese, la sua incapacità di comprendere la nozione di cultura popolare, ma questo richiederebbe davvero se non un libro almeno una serie articolati di post.
10) la verità è che FB è faticoso, se si cerca di usarlo come luogo di circolazione del senso, e certo ognuno di noi è già gravato da tante cose. E tuttavia, dato il sistema mediatico esistente, rappresenta l’unico spazio di intersoggettivita’ discorsiva, l’unico luogo di incontro e di scambio di idee. Poi chiaro che ci sono momenti in cui diviene necessario prendersi delle pause, ma questo deriva solo dai limiti di tempo e di energia.

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Fuori luogo, ma nel contesto (italico), di Roberto Buffagni

Signore perdonali perché non sanno quello che fanno: io invece, come Sartana in un celebre spaghetti western degli anni Settanta, NON li perdono. Come la DC ha presieduto alla fine del cattolicesimo italiano, come il PCI ha presieduto alla fine del marxismo italiano, così il governo nazionalista di FdI presiede alla fine del nazionalismo, e temo anche del patriottismo italiano (per quel che ne resta, poco). Purtroppo, i “nazionalisti” che hanno deciso questa sciatta vassallata ci hanno sicuramente pensato su, e si sono fatti venire l’idea di chiamare Gianni Morandi perché secondo loro è “nazionalpopolare”. In questa idea c’è tutto quel che li definisce, e non è un bel vedere. C’è l’idea, stupida, abietta e supponente, che al popolo si dà il latte scaduto, le merendine muffite, le patatine fritte nell’olio lubrificante perché non può assimilare altro, perché l’autentico, il bello, il dignitoso lo intimidisce, lo mette in soggezione, è incompatibile con la canottiera e il salotto della nonna. C’è l’abissale, quasi commovente cafonaggine in conformità alla quale si celebra un luogo e un’occasione elevate, solenni, ufficiali e dignitose facendo cantare a Gianni Morandi “Fatti mandare dalla mamma a prendere il latte”, appena dopo aver cantato l’inno nazionale, una strofa del quale recita “siam pronti alla morte/l’Italia chiamò” (forse dalla finestra, per farsi portare il latte).

N.B.: non ho niente contro Gianni Morandi che mi sta anche simpatico, andava benissimo per celebrare un eventuale scudetto del Bologna, l’anniversario della Camera Alta della Repubblica italiana, no. Ma non mi sono arrabbiato, semmai mi cadono le braccia. E’ andata così ragazzi, è andata così l’Italia.

Qui si vede, in forma grottesca, la conclusione della maestosa tragedia storica italiana. Nella IIGM era certo necessario e quindi giusto, tra i due mali, scegliere il male minore, la vittoria degli Alleati e la solidarietà con essi, legittimata dalla guerra partigiana del CLN. Ma oggi si vede chiaro che avevano ragione anche i migliori tra coloro che scelsero la RSI, quando dicevano che schierarsi con il nemico del giorno prima, contrabbandare la sconfitta per vittoria, ci sarebbe costato più caro che vivere la sconfitta fino in fondo, perché vi avremmo perduto l’identità, l’anima, la fiammella spirituale che tiene in vita la patria anche nella sconfitta, nella rovina, nel terribile errore, come fu un terribile errore entrare in guerra a fianco della Germania nazista (non solo perché poi ha perduto, ma perché il nazismo faceva schifo e lo sapevamo anche allora).

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L’Italia ha mandato all’aria la più grande riforma strutturale degli ultimi 40 anni, di Davide Gionco

L’Italia ha mandato all’aria la più grande riforma strutturale degli ultimi 40 anni
di Davide Gionco

Da quando esiste l’Unione Europea non fa che ricordarci, un giorno sì e l’altro pure, di attuare le famose “riforme strutturali”. Come “riforme strutturali” sarebbero intesi degli investimenti oculati che consentano di mettere insieme l’equilibrio di bilancio pubblico e la realizzazione di interventi che portino a dei vantaggi economici permanenti per il paese.

Dopo di che la stessa Unione Europea, da sempre, propone e impone (si noti il numero di raccomandazioni ai vari paesi dal 2011 al 2018)

delle “riforme” che hanno dimostrato di non sortire questi risultati, come privatizzazioni e tagli dei servizi pubblici, della sanità, del sistema pensionistico. Queste riforme in realtà ingrassano gli incassi degli investitori finanziari che operano in questi settori, sistematicamente a spese dei cittadini, che si ritrovano con servizi di peggiore qualità e più costosi.
E’ purtroppo noto che a Bruxelles operano 12’500 lobbisti registrati ufficialmente, più molti altri che operano in modo non ufficiale. Oltre a questi ci sono quelli che operano a Francoforte, sede della BCER. Tutti questi lobbisti operano con lo scopo di portare vantaggi all’organizzazione che rappresentano, mentre evidentemente i cittadini non dispongono di lobbisti che rappresentino i loro interessi.
Lo scandalo che ha coinvolto la ex-vicepresidente del Parlamento Europeo Eva Kaili è molto probabilmente solo la punta dell’iceberg. Basti ricordare che l’ex-presidente della Commissione Europea Manuel Barroso , non appena concluso il suo mandato nel 2014, diventò immediatamente un alto dirigente della Goldman Sachs. Senza parlare degli ordinativi di vaccini anti-covid per miliardi di euro fatti per da parte dell’attuale presidente Von der Leyen tramite degli SMS privati.

Ma non è di questo che vogliamo parlare. Lasciamo ai lettori, con un accorato invito ai giudici, di occuparsi degli scandali all’interno delle varie autorità europee.
Parliamo invece delle vere riforme strutturali.

 

La fine affrettata del Superbonus 110%

Il Superbonus 110% portava in sé degli aspetti fondamentali che avrebbero permesso a chi ci governa di realizzare la più grande riforma strutturale degli ultimi 30 anni. Anzi, se ci limitiamo alle riforme di tipo economico-finanziario, c’erano tutti i presupposti per la più grande riforma strutturale dai tempi dell’unità d’Italia.
L’aspetto fondamentale di questa riforma mancata non riguardava la finalità ecologica del provvedimento (isolamento degli edifici, risparmio energetico, riduzione delle emissioni di CO2), ma riguardava gli effetti del provvedimento sul bilancio dello Stato.
Per la prima volta nella storia era stato adottato un provvedimento che, strutturalmente, consentiva di non pesare negativamente sul bilancio dello stato, pur portando molti benefici ai cittadini privati. Anzi, con opportuni accorgimenti il provvedimento avrebbe consentito di realizzare degli attivi di bilancio strutturali negli anni a venire, tali da portare ad una progressiva riduzione del debito pubblico.
Oltre a questo gli effetti sull’economia reale del Paese portati dal Superbonus, anche se limitati nel tempo, hanno dimostrato tutto il potenziale di aumento strutturale dell’occupazione in Italia. Se il provvedimento fosse stato esteso anche ad altri settori dell’economia, oltre a quello rapidamente saturato dell’edilizia, si sarebbe potuti arrivare in pochi anni a creare i 5-6-7 milioni di posti di lavoro necessari per eliminare la disoccupazione in Italia, così come si sarebbe potuto conseguire il necessario graduale aumento degli stipendi, in un paese (l’Italia) in cui gli stipendi reali sono inferiori a quelli di 20 anni fa e in cui il tasso di inflazione sta erodendo drammaticamente il potere di acquisto dei lavoratori.

Come noto prima il governo Draghi e poi l’attuale governo Meloni hanno posto fine in modo affrettato al provvedimento. Come spesso accade in Italia, i mezzi di informazione non hanno aiutato a fare chiarezza su quanto accaduto. Non sono stati evidenziati i punti di forza del provvedimento che avrebbero consigliato di mantenerlo e non sono stati evidenziati i punti deboli che bastava semplicemente correggere. Il settore dell’edilizia tornerà nella crisi in cui si trovava da oltre 10 anni.
In questo articolo cerchiamo di fare chiarezza e di spiegare perché l’Italia, senza che i nostri governanti se ne rendessero conto, ha perso una occasione di storica riforma strutturale della propria economia.

 

I componenti della misura Superbonus 110%

Il Superbonus 110% è stata una misura di stimolo fiscale dell’economia italiana costituita dai componenti seguenti :

  • Un meccanismo innovativo di finanziamento. Lo Stato concede ora degli “sconti fiscali” che stimolano la crescita economica. Lo fa senza spendere nulla ora. Gli “sconti fiscali” sono cedibili a terzi. Quindi anche dei soggetti fiscalmente non capienti sono in grado di usufruire dei benefici economici del provvedimento. La possibilità teorica di cedere in modo illimitato, e trasparente, i crediti fiscali consente a chi commissiona i lavori di usare i crediti fiscali per pagare i lavori alla ditta. In seguito consente alla dita di usare quei crediti fiscali per pagare i propri fornitori. E così via, fino a che, negli anni a seguire, poco alla volta quei crediti fiscali verranno “spesi” per pagare le tasse. In quel momento futuro lo Stato registrerà effettivamente una riduzione degli introiti fiscali pari allo sconto fiscale emesso anni prima, ma nel frattempo la cessione plurima dei quei crediti fiscali avrà portato ad una maggiore emersione di fatturato imponibile per le varie imprese, al punto che l’aumento di introiti fiscali innescato compensa e supera i futuri ammanchi per gli sconti fiscali.
    E’ quello che, tecnicamente, viene chiamato moltiplicatore fiscale.
    Un centro studi economico serio e conosciuto come Nomisma ha quantificato i crediti fiscali emessi a 71,8 miliardi di euro (non di spese attuali per lo Stato, ma di future minori entrate) ed ha quantificato l’impatto economico benefico sull’economia a 195,2 miliardi di euro, tale da assicurare maggiori entrate fiscali per lo Stato tale da compensare largamente le minori entrate previste.
    Il concetto importante da comprendere che il meccanismi che consente la sostenibilità fiscale per provvedimento è proprio il meccanismo della cessione dei crediti fiscali. Quanto più vengono ceduti prima di essere scontati, tanto più il provvedimento è vantaggioso per le casse dello Stato.
    Questo meccanismo di sostenibilità non esiste per gli altri bonus fiscali “tradizionali” che gli italiani conoscono da molto tempo. I bonus ordinari sono personali ovvero vengono concessi solo ai “ricchi” che hanno sufficiente capienza fiscale per detrarli dalle proprie imposte. Non possono essere ceduti a terzi per il pagamento di altre prestazioni lavorative. Di conseguenza il loro moltiplicatore fiscale è molto più basso e, dal punto di vista del bilancio dello stato, sono decisamente meno sostenibili.
    Il principale motivo per cui gli ultimi 2 governi hanno deciso di porre fine al provvedimento è stata la sua supposta insostenibilità economica di bilancio anche se, dati alla mano, non è per nulla dimostrata. Ci ritorniamo nella parte finale dell’articolo.

 

  • L’identificazione di uno specifico settore dell’economia beneficiario del provvedimento. Si è deciso che solamente l’edilizia privata, per gli interventi di ristrutturazione energetica, doveva essere beneficiaria della misura.
    Ma, chiediamoci, se il meccanismo della cedibilità dei crediti rendeva la misura sostenibile, perché non utilizzare il Superbonus anche per finanziare i lavori di edilizia pubblica?
    Lo Stato, anziché faticare a trovare a bilancio le decine di miliardi necessarie a costruire e ristrutturare scuole ed ospedali (per fare un esempio), si sarebbe potuto auto-finanziare pagando le imprese mediante dei crediti fiscali cedibili a terzi.
    E poi perché fermarsi all’edilizia?
    Non si sarebbero potuti dare dei crediti fiscali alle famiglie più povere da “spendere” per andare in vacanza, portando anche beneficio agli operatori turistici?
    E non si sarebbero potuti pagare dei lavori di estensione della fibra ottica per le telecomunicazioni?
    La decisione di limitare il provvedimento di stimolo fiscale ad un solo settore dell’economia non trova spiegazioni logiche, se non quella di non avere compreso il meccanismo di finanziamento che ne avrebbe garantito la copertura.

Questa decisione, peraltro, ha portato troppi incentivi in un solo settore dell’economia, che non era in grado di soddisfare la troppo rapida crescita della domanda, il che è uno dei fattori che ha contribuito all’aumento dei prezzi. Nello stesso tempo ha lasciato privi di incentivi altri settori dell’economia nei quali si sarebbe potuto investire.

 

  • Una quota di detrazione fiscale pari al 110% dell’importo delle spese.
    Lo stimolo alle ristrutturazioni energetiche degli edifici avrebbe funzionato anche limitando gli sgravi fiscali ad esempio all’80%.
    Mediamente il tempo di ritorno degli investimenti di isolamento termico degli edifici, senza incentivi, è dell’ordine di 20-30 anni. Con detrazioni all’80% il tempo di ritorno si riduce a 4-6 anni. Le banche avrebbero potuto fare credito decennale per finanziare la quota restante del 20% dei lavori, facendosi ripagare dalle economia di energia. All’estinzione del mutuo sarebbero rimasti tutti i vantaggi economici di economia sulle bollette a beneficio degli utenti.
    Il fatto di poter detrarre il 100% delle spese, più un ulteriore 10% di commissioni da corrispondere alle banche (a chi, se no?) ha annullato le necessarie trattative commerciali fra venditore ed acquirente. Questo fattore, unito alla concentrazione degli investimenti in un unico settore dell’economia, ha ulteriormente contribuito all’aumento dei prezzi dei lavori e, quindi, a ridurre la redditività degli investimenti.
    Non era difficile comprendere che sarebbe stato molto meglio limitare all’80% le detrazioni fiscali, pur mantenendo la possibilità di cedere lo sconto fiscale.
    Molte persone sono convinte che sia stata l’esagerazione della quota di detrazioni al 110% a rendere insostenibile il provvedimento.
    Questo non è vero. Come i dati di Nomisma dimostrano, la sostenibilità fiscale del provvedimento era comunque garantita dal meccanismo della cessione.
    L’errata scelta della quota al 110% ha ridotto l’efficacia economica del provvedimento, probabilmente perché qualcuno ha pensato di accrescere gli utili per le banche al 10% e più della torta, ma non ne ha compromesso la sostenibilità.
    Per migliorare il Superbonus sarebbe bastato ridurre all’80% la percentuale delle spese da portare in detrazione e fare un accordo con il sistema bancario per coprire il restante 20% con crediti ad hoc, ripagati dai risparmi sulle bollette energetiche.

 

  • Un provvedimento incerto e non strutturale. Fin dalla sua origine la misura del Superbonus 110% è stata concepita come misura non-strutturale. Ovvero ogni anno, nella legge finanziaria, si doveva decidere se confermare o meno il provvedimento, in quali termini e secondo quali regole.
    Ora: se l’obiettivo del provvedimento deve essere quello di creare dei posti di lavoro stabili, allora è necessario garantire alle imprese una continuità degli investimenti. Solo avendo la certezza di commesse per i 5-10 anni a venire le imprese investiranno nell’assunzione di giovani da formare e nell’acquisto di macchinari. Un provvedimento strutturale è qualcosa che risulta da una pianificazione a medio-lungo termine, non qualcosa che di anno in anno si decide di rinnovare o di porvi fine.
    La combinazione di queste incertezze con la rapida crescita di commesse nel settore ha contribuito ulteriormente all’aumento dei prezzi. Non essendoci la possibilità di fare i lavori negli anni a seguire, le imprese si sono trovate di fronte ad una domanda eccessiva e non rimandabile. Quindi hanno aumentato i prezzi.
    Se il provvedimento fosse stato confermato per almeno 10 anni, questo avrebbe portato ad una maggiore efficienza degli investimenti ed a ricadute molto positive per l’occupazione negli anni a venire.

Anche questo è un aspetto che era sufficiente correggere, senza porre fine al provvedimento.

  • Una eccessiva burocrazia. Sappiamo che i burocrati dei ministeri vivono sulle complicazioni amministrative imposte ai cittadini. Nel caso del Superbonus 110% è stato probabilmente stabilito il record mondiale della burocrazia, che è stata resa ancora più complessa nel caso di interventi di ristrutturazione effettuati da condomini, quindi da molti proprietari “associati” fra loro. Gli effetti di questo eccesso di burocrazia sono stati un aumento delle prestazioni professionali per la realizzazione dei lavori (altra perdita di efficienza degli investimenti), dei ritardi nell’avvio dei lavori e dei vantaggi dei committenti singoli (in genere persone benestanti e accorte che hanno saputo approfittare dell’occasione) rispetto ai condomini (composti da appartamenti di persone povere e meno capaci di organizzarsi).
    Molti che avrebbero voluto realizzare (Nomisma li stima a 10 milioni di persone, 1/6 della popolazione) degli interventi di ristrutturazione energetica, cosa che sarebbe stata utile sia per il bilancio delle famiglie povere, sia per la pesante bolletta energetica del nostro paese, sia per i benefici ambientali, non sono riusciti a farlo a causa dell’eccesso di burocrazia.
    Davvero non si capisce la necessità di certificare a priori la conformità degli interventi.
    Dal punto di vista della sostenibilità fiscale, come abbiamo dimostrato al punto 1), questi controlli non erano necessari. La misura si sostiene tramite il meccanismo della cedibilità dei crediti fiscali, indipendentemente dalla conformità dei lavori. Nessun costo aggiuntivo a carico dello Stato.
    Dal punto di vista degli obiettivi di risparmio energetico era sufficiente affidare la progettazione a dei tecnici competenti e fare delle verifiche “sostanziali” sui lavori effettivamente realizzati. Non era difficile trovare dei tecnici privi di conflitti di interesse per fare delle ispezioni tecniche nei cantieri.
    Resta il sospetto che la burocrazia sia stata introdotta proprio con l’obiettivo di rendere meno fruibile il provvedimento.
    Se l’obiettivo voleva essere quello di aiutare le famiglie povere a realizzare interventi di risparmio energetico e velocizzare l’esecuzione dei lavori, lo si poteva fare in modo semplice, riducendo al minimo la burocrazia.

 

Il Superbonus e i vincoli di bilancio

Probabilmente non tutti sanno che cosa rientra nel calcolo del “debito dello stato”.
Molti pensano che si tratti di un debito simile a quello di una famiglia. In realtà questo non è vero.
Nel debito pubblico vengono contabilizzati i titoli di stato in circolazione, che il Tesoro si è impegnato a rimborsare entro una certa scadenza e ad un certo tasso di interesse. Si tratta di denaro in qualche modo “preso in prestito” dallo Stato.
Ma nel debito pubblico non sono contabilizzati le fatture non pagate ai fornitori che hanno già fornito le loro prestazioni. Stiamo parlando di diverse decine di miliardi di euro di debiti commerciali non saldati dei vari enti pubblici nei confronti di imprese private.
Secondo le normative di Eurostat questi importi non vengono conteggiati nel debito, in quanto incidono sul bilancio dello Stato solo nel momento in cui il denaro esce effettivamente dalle casse del Tesoro.
Con la stessa logica anche le detrazioni fiscali sono considerate rientranti nel conteggio del debito solo nel momento in cui vengono effettivamente scontate. Questo perché, per diversi motivi, può accadere con uno sgravio fiscale, come ad esempio i vecchi bonus per le ristrutturazioni edilizie, non venga completamente utilizzato, magari per decesso della persona avente diritto o per incapienza fiscale.

Il superbonus 110% avrebbe dovuto essere stato considerato allo stesso modo. Non un debito o deficit dello Stato al momento della sua emissione, ma solo al momento in cui, dopo la catena di cessioni, qualcuno effettivamente lo utilizza per pagare meno tasse.
Sulla questione vi è stato a inizio anno il pronunciamento del rappresentante di Eurostat Luca Ascoli, così come del direttore generale del MEF Giovanni Spalletta sul modo di calcolare nel bilancio dello stato questo nuovo tipo di sgravio fiscale. La differenza sostanziale rispetto ai bonus “vecchio stile” è che in questo caso è quasi certo che il credito fiscale venga utilizzato, in quanto la catena di cessioni del credito terminerà nelle mani di qualcuno certamente in grado di utilizzarlo.
Alla fine l’interpretazione dei quei geni della Ragioneria dello Stato è stata che debba essere inserito, contraddicendo la logica utilizzata per i debiti commerciali e per gli ordinari bonus fiscali, non al momento futuro dello sconto, ma già al momento della emissione.
E questo è significato, dal punto di vista contabile, che per gli anni già trascorsi 2020-2022, nel corso dei quali lo Stato ha emesso le decine di miliardi di crediti fiscali del Superbonus, è stato ricalcolato il bilancio dello Stato, scoprendo (ORRORE!) uno sforamento importante nel deficit preventivato per quegli anni e complessivamente stimato dai ragionieri e dal ministro Giorgetti in complessivi 120 miliardi di “buco di bilancio”.
Questa è la ragione per la quale, ufficialmente, il governo Meloni ha deciso di affossare definitivamente il provvedimento, ponendo soprattutto fine al meccanismo della cessione dei crediti fiscali.
Proviamo a paragonare al situazione a quella di una normale impresa o famiglia. Ho la possibilità di fare un investimento di 71 o di 120 mila euro (come dice Giorgetti) che, nel giro di 2 anni, mi porta benefici per 159 mila euro, con la certezza di rientrare rapidamente del mio indebitamento. Dovrei decidere di rinunciare a quell’investimento solo perché mi costa troppo caro nel primo anno?
Solo un folle (o un ministro dell’economia italiano) potrebbe ragionare in questo modo.
E a nulla serve la solita scusa “ce lo chiede l’Europa”, sia perché l’Europa per 2 anni consecutivi aveva approvato senza problemi le manovre finanziarie contenenti la misura del Superbonus. E se anche l’UE avesse qualcosa da ridire, il fatto di attuare una misura strutturale che consente nello stesso tempo di fare investimenti nella direzione delle politiche “green” europee, di creare 600’000 posti di lavoro e di far quadrare i conti del bilancio per gli anni a venire metterebbe a tacere queste critiche.

 

Conclusioni

Gli ultimi 2 governi del nostro paese hanno messo tutto il loro impegno non per rimuovere le criticità citate dalla misura del Superbonus 110%, ma per renderla via via sempre meno sostenibile dal punto di vista contabile, impedendo la cessione illimitata dei crediti fiscali.
Prima del governo Draghi, che ha fatto di tutto per limitare la cessione dei crediti alle sole banche, le quali ad un certo punto hanno rifiutato la cessione, avendo già raggiunto la loro capienza fiscale. L’impossibilità di cedere ad altri i crediti unita all’indisponibilità delle banche ha portato alla creazione dei “crediti incagliati”. Si tratta di farina cattiva del sacco di Draghi al 100%. Il meccanismo di base della cessione illimitata dei crediti doveva essere favorito, non ostacolato.
Il nuovo governo Meloni non ha fatto nulla per rimediare ai danni causati da Draghi al Superbonus, se non di trovare una soluzione “all’italiana” per i crediti incagliati, solo dopo aver posto fine al provvedimento.
La motivazione che è stata venduta all’opinione pubblica di un “buco contabile” insostenibile non è mai stata supportata da dati reali. Giorgetti si è limitato ad evidenziare il presunto scostamento di bilancio del primo anno (che in realtà non c’è stato nella sostanza), senza contabilizzare le maggiori entrate fiscali innescate dall’effetto moltiplicatore, già misurato nel corso dei primi 2 anni di attuazione del provvedimento. Quindi entrate certe, non ipotetiche.
Oltre al citato studio di Nomisma, altri istituti hanno validato al sostenibilità fiscale del provvedimento. Possiamo citare anche la Open Economics, la Luiss Business School, la Fondazione Nazionale dei Commercialisti, il Cresme, il Censis, l’Associazione Nazionale Costruttori, il Centro Studi del Consiglio Nazionale degli Ingegneri.
Non è ammissibile che un governo giustifichi di fronte all’opinione pubblica la cessazione di una misura che creerà 600’000 nuovi disoccupati (fine del mini-boom dell’edilizia), un calo del PIL, la sostanziale cessazione degli interventi di ristrutturazione energetica, solo sulla base di una cifra annunciata senza un confronto con gli istituti specialisti del settore che danno cifre completamente diverse.

A questo punto il governo ha rinunciato all’unico strumento di riforma strutturale dell’economia che aveva fra le mani. La prosecuzione dei bonus fiscali non cedibili porterà a benefici economici molto limitati per il Paese e probabilmente ad una insostenibilità fiscale, causa il basso fattore moltiplicatore. Siamo ritornati alla politichetta di misure-spot a breve termine, priva di visione e totalmente inadeguata per un rilancio economico dell’Italia.
E’ stata persa una enorme occasione di riformare il bilancio dello stato, strutturandolo su di un bilancio in euro per le spese correnti, pubbliche e private, e in moneta fiscale (tali sono i crediti fiscali cedibili) per gli investimenti per lo sviluppo.
E’ stata persa l’occasione di lanciare un piano trentennale di ristrutturazione energetica degli edifici in Italia, così come la possibilità di un piano strutturale di rilancio degli investimenti pubblici per ammodernare le strutture sanitarie, scolastiche, le telecomunicazioni, ecc.

E’ solo il caso di far notare come se l’Italia adottasse questo strumento in modo stabile per finanziare gli investimenti pubblici e per stimolare gli investimenti privati, avremmo la possibilità da un lato di ridurre strutturalmente la spesa pubblica “in euro” e dall’altro lato di stimolare la crescita del Prodotto Interno Lordo (come è fattivamente avvenuto grazie al Superbonus 110%).
Il risultato sarebbe un rallentamento della crescita del debito ed un aumento del PIL, ovvero la tanto invocata riduzione del rapporto debito/PIL richiesta dai trattati europei.
Ma a quanto pare gli esperti del MEF preferiscono continuare con le politiche economiche del passato, che da 30 anni hanno dimostrato né di potere ridurre il rapporto debito/PIL, né di portare crescita economica al Paese.
La buona occasione per la più grande riforma economica strutturale degli ultimi 40 era arrivata, ma i nostri governanti hanno pensato bene di rinunciarvi.

Di positivo ci resta solo il fatto di avere dimostrato, per chi sa guardare obiettivamente i risultati economici, che si trattava della strada giusta da seguire per la ripresa economica del Paese.
Quando avremo un governo finalmente con l’obiettivo di fare qualcosa di strutturalmente utile per i cittadini, potrà ripristinare il meccanismo degli sgravi fiscali a cessione illimitata ed utilizzarlo per rilanciare molti settori dell’economia, in modo da finanziare delle politiche per la piena occupazione (art. 1 della Costituzione), per il contrasto alla povertà, per la crescita dei redditi, in favore dell’ambiente e senza creare dissesti al bilancio dello Stato.
Aspettiamo e speriamo.
Se qualcuno ne ha la possibilità, faccia avere questo articolo ai parlamentari e a chi ci governa. Non sia mai che si ravvedano dal grave errore commesso.

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ISTITUZIONE TRA SCIENZA POLITICA E DIRITTO, di Teodoro Klitsche de la Grange

Questo saggio sull’istituzione nel pensiero di due pensatori del XX
secolo come Hauriou e Miglio è stato pubblicato sul “Behemoth” n. 51,
nel 2012.

Teodoro Klitsche de la Grange

ISTITUZIONE TRA SCIENZA POLITICA E DIRITTO

  1. Nelle “Lezioni di politica – Scienza della politica” Gianfranco Miglio dedica un capitolo dell’opera alla “teoria delle istituzioni” facendo considerazioni acute ma in qualche misura non del tutto conseguenti sia all’opinione dei giuristi cui riconosce di aver elaborato la teoria delle istituzioni (Maurice Hauriou e Santi Romano) sia (in qualche misura) con i presupposti, altrove svolti, delle proprie concezioni.

Sostiene Miglio che la teoria istituzionalista di Hauriou “è l’estremo prodotto di una capacità di elaborazione concettuale che si è avuta, in particolare fra i giuristi di scuola tedesca, durante la seconda metà del XIX e i primi decenni del XX secolo”; e spiega come nasce questa teoria”Abbiamo visto come l’uomo sia interessato a conoscere le regolarità del mondo che lo circonda e del comportamento dei suoi simili, perché operando in questo modo sa anche come regolarsi. Ma proprio per questo, l’uomo tende a costruire queste regolarità: in altri termini, tende ad organizzare il suo avvenire, proprio regolando il suo comportamento e tentando di regolare il comportamento degli altri. Qui abbiamo a che fare con regolarità non meramente ontologiche… siamo in presenza di norme e di regole teleologiche… Hauriou dice: «Ciò che fa un’istituzione è un complesso di norme legate, tenute insieme da un fine». In realtà cerchiamo di organizzare teleologicamente il mondo che ci sta intorno, in relazione ai fini”, pertanto “le istituzioni si presentano come giuochi preordinati” e così “l’istituzione è la manifestazione più concreta della vocazione che ha l’animale uomo a organizzare il futuro”; è lo sviluppo della tendenza peculiare della natura umana “l’istituzione è la manifestazione più tipica dell’uomo. Il passaggio da una regolarità ontologica a una teleologica, cioè preordinata e voluta, non è nient’altro che l’estendersi di questa capacità di organizzare ‘previsionalmente’ il futuro”[1]. Subito dopo Miglio distingue tra istituti-norma e istituti-organo.

Distinzione non nuova; per Miglio “generalmente ogni ‘istituto-organo’ nasce da un ‘istituto-norma’”: all’obiezione per cui esistono istituti-organo che nascono “di fatto”, replica che l’istituto-organo può non essere generato da una norma formale e prosegue “Nessuna legge, nessun regolamento l’ha posto in essere. Ma è proprio vero che non esiste un meccanismo normativo, un complesso di norme a monte di questo processo?… se più persone si ritrovano abitualmente – ad esempio convengono di ritrovarsi ogni settimana, ogni mese – e compiono determinati atti, determinate azioni, secondo precisi rituali, ciò accade perché coloro che così si comportano hanno come convinzione questa regolarità” e conclude “In altri termini, ciò che caratterizza la regolarità indispensabile per poter parlare dell’‘istituto-organo’, è l’esistenza di un certo modello di comportamento, che non è consolidato in nessuna norma formale, ma attiene all’ordine della consuetudine, che è anch’essa un ‘istituto-norma’… La verità è che l’unica entità originaria, che sta a monte, è l’‘istituto-norma’. L’‘istituto-organo’ è una sottospecie dell’‘istituto-norma’. Non può esistere un ‘istituto-organo’ se non c’è a monte un ‘istituto-norma’, un modello dal quale dipende, una consuetudine”. Per cui “Quelli che chiamiamo ‘istituti-organo’ e che crediamo siano cose concrete, legate a fattori materiali, in realtà non sono altro, in quanto istituzioni, che procedure convenute”. Anzi tutto il diritto consiste di procedure: per cui “Allora ecco il sospetto: che tutto il diritto si riduca a procedura convenuta; che le istituzioni siano proprio procedure convenute, comportamenti prefissati e siano tutte soltanto diritto”.

Miglio, quindi, contesta che “Legioni di storici e di giuristi hanno affermato senza dubbi: «Attiene all’ordine del “diritto pubblico” , che è “politico”». Allora come mai all’interno dello Stato si è prodotto il “politico” che è entrato in conflitto distruttivo con lo Stato?”[2]. Politica e diritto pubblico non coincidono: da una parte perché “la politica oggi si svolge  in gran parte contro lo Stato e comunque al di fuori dello Stato, i partiti, le corporazioni e via dicendo. E’ perché l’apparato che definiamo “Stato moderno” è in gran parte “diritto” e quindi struttura del “privato”. Originariamente lo Stato moderno è nato come un’aggregazione politica e come sintesi politica, ma tutto quello che ha fatto il suo “gran corpo” è nell’ordine del privato, perché è nell’ordine del diritto e là dove c’è diritto è inutile parlare di diritto pubblico”, dall’altra “Il “pubblico” o è politico o non è niente, perché se è diritto è privato. Esistono numerose prove, specialmente nella storia del diritto amministrativo, dei rami più recenti del diritto e nella storia del diritto pubblico”; e prosegue “Nel sistema politico che caratterizza la nostra età, lo Stato (moderno), ci sono un’origine e un nucleo politico e c’è un nucleo che attiene all’ordine del “privato” e che “politico” non è, perché appunto è diritto e appartiene all’area del contratto”[3].

  1. Secondo i giuristi istituzionalisti e in particolare i due più noti citati da Miglio, cioè Santi Romano e Maurice Hauriou il problema posto da Miglio (o meglio i problemi, tra loro concatenati), riconducibile al rapporto tra politico e diritto nello Stato moderno, non può risolversi separando, anzi negando, il diritto pubblico, né riconducendo agli strumenti prevalentemente impiegati (contratto o “provvedimento”) la linea di confine, né ritenendo che se entra in campo una regolazione giuridica, esce di scena la politica.

E’ d’uopo ricordare quanto scriveva Santi Romano. Questi nell’“Ordinamento giuridico” contesta che il diritto  sia norma (regola) “Ciò a cui si pensa, dai giuristi e, ancor più, non giuristi, che ignorano quelle definizioni del diritto di cui parliamo, è invece qualche cosa di più vivo e di più animato: è in primo luogo, la complessa e varia organizzazione dello Stato italiano o francese; i numerosi meccanismi o ingranaggi, i collegamenti di autorità e di forza, che producono, modificano, applicano, garantiscono le norme giuridiche, ma non si identificano con esse”[4], e prosegue “In altri termini l’ordinamento giuridico così comprensivamente inteso, è un’entità che si muove in parte secondo le norme, ma, soprattutto, muove, quasi come pedine in uno scacchiere , le norme medesime, che così rappresentano piuttosto l’oggetto e anche il mezzo della sua attività, che non un elemento della sua struttura. Sotto certi punti di vista, si può anzi ben dire che ai tratti essenziali di un ordinamento giuridico le norme conferiscono quasi per riflesso: esse, almeno alcune, possono anche variare senza che quei tratti si mutino”.

Nella concezione di Santi Romano l’istituzione è un’organizzazione dei poteri e, in quella statale (e pubblica) – del rapporto di comando-obbedienza e quindi è questa a essere la realtà del diritto quale collegamento di autorità e forza che produce, modifica, applica, garantisce le norme. Più tardi nel “Diritto costituzionale generale” scrive che lo Stato non ha ma è un ordinamento giuridico[5].

Quindi lo Stato è in primo luogo un’organizzazione di poteri (prima che un insieme di norme).

Il rapporto tra potere e regole trova la propria valvola di sicurezza nella necessità che è fonte del diritto, superiore alla legge[6]: la tensione tra “obbligazione politica” e “contratto-scambio”, il dualismo ricorrente nel pensiero di Miglio, è risolto nell’ordinamento , cioè nel diritto (che non s’identifica, è appena il caso di ricordarlo, con la legalità).

Hauriou distingue “due specie di regole d’origine istituzionale, il diritto disciplinare e il diritto statutario che sono, in una certa misura, la controparte e il correttivo l’uno dell’altro”[7], e così contribuiscono all’equilibrio dell’istituzione e delle forze che la sostengono.

Il diritto disciplinare “rappresenta” (représente) l’interesse del gruppo espresso dalla coercizione del potere di dominio”. Il diritto statutario “rappresenta l’interesse del gruppo espresso dall’adesione individuale dei componenti alle procedure collettive della vita dell’istituzione”.

Il diritto disciplinare è repressivo e organico. E’ organico perché la forza di un’istituzione e il suo peso non si esercitano solo sui “trasgressori” ma su tutti, per forzarli ad accettare le organizzazioni create all’interno dell’istituzione”[8]. Il diritto disciplinare non comporta solo regole generali per l’oggetto (regolato) ma anche ad oggetto particolare, tuttavia opponibili a tutti e sanzionabili nei loro confronti.

Caratteristica ancora più importante è la sanzione. La sanzione del diritto disciplinare è la coercitio pura e semplice, ossia l’esecuzione con la forza a disposizione del funzionario (magistrat)[9]. Il diritto disciplinare va distinto dal diritto pubblico dello Stato, la cui caratteristica è di non ammettere sanzione se non statuita da un Giudice pubblico[10]. Il diritto pubblico ha progressivamente ammesso (e annesso) intere aree del diritto disciplinare, e ciò ne rivela l’origine e l’importanza che ha nella storia del diritto “constituant une des couches profondes du tuf juridique”[11]. Il diritto statutario è anch’esso generato dall’istituzione, Comporta delle regole, ma ancora più interessanti sono gli atti e le procedure che implica. Queste procedure sono legate alla vita dell’istituzione, sono i percorsi che segue nel suo movimento uniforme[12]; costituiscono un diritto che differisce da quello disciplinare perché ammette il punto di vista individualista dei componenti il gruppo combinato con le necessità sociali. Tipico è il procedimento (e le regole) maggioritario[13].

Nel “Précis de droit constitutionnel” la distinzione che Hauriou evidenzia è tra diritto disciplinare e diritto comune. Il primo è disciplinare, interno, gerarchico, dove le parti non sono pari, neanche davanti al Giudice. Già esisteva nelle famiglie patriarcali e nei clan: “les grecs appellaient Thémis cette sorte de justice organique”. Ma accanto a questa, si costituiva un altra giustizia che i Greci chiamavano Diké[14].

La sorgente di Thémis era l’organizzazione sociale, quella di Dikè l’attitudine sociale dell’uomo (sociabilité) “qui ne perd pas ses droits même vis-à-vis des étrangers, même vis-à-vis des ennemis”. All’epoca della formazione dei premiers états, confederazioni di clans, fu necessario dirimere dalle liti tra clan diversi (e i loro membri) con Tribunali arbitrali, accanto alla giustizia (interna) ai clan. Così questo diritto nato prima della polis (cité) fu integrato in questa[15]. Ciò che ha impedito al diritto comune (Diké) di confondersi con lo Stato “sont ses tendances internationales”: come il commerce juridique non conosce frontiere e si applica sia ai rapporti con gli stranieri che a quelli tra nazionali. Per cui “Entre un État, qui est forcément national, et un droit commun à tendances internationales, la fusion est impossible”. Diritto comune e Stato sono due sistemi d’idee che possono rendersi utilità reciproche e un mutuo appoggio, ma cui le tendenze divergenti impediscono di confondersi completamente.

Il diritto comune corrisponde a quello che nei “Principes de droit public” Hauriou chiamava le “commerce juridique”. Questo è un insieme di forme giuridiche generate dal “commerce economique” legato ad una forma di società assai diversa dalla forma politica[16]. Forze politiche e forze economiche, lottando tra loro, generano due forme di società e di diritto[17]. Non bisogna comunque esagerare con la contrapposizione di questi due “tipi” di convivenza sociale: in primo luogo perché ambedue compongono la società e sono inseparabili[18]. In se “le phénomène de l’échange et des relations d’affaires n’est pas dans la donnée logique de l’institution politique. Celle-ci repose sur le pouvoir, l’échange repose sur la valeur, deux notions qui sont hétérogènes l’une à l’autre”[19].

Inoltre il commercio ha una “vocazione” internazionale: ha delle sfere territoriali ma queste non si confondono con le frontiere politiche[20].

Il “commerce juridique” sostiene poi Hauriou, con le sue regole peculiari è penetrato nel diritto amministrativo (quindi pubblico) francese[21]. A tale proposito appartiene – scriveva Hauriou – ai giudici amministrativi “ce que l’on appelle un contentieux de la pleine juridiction qui est originairement le contentieux du commerce juridique[22]. Quindi Thémis e Diké hanno dei “punti” d’incontro, distinguibili concettualmente, ma assai meno sotto il profilo organico e oggettivo: l’accumulo di differenti “tipi” di giurisdizione (per i giudici amministrativi italiani quella generale di legittimità, quella esclusiva e quella di merito) ne è un esempio, così come la tutela da parte dello stesso Giudice di situazioni soggettive diverse (diritti e interessi legittimi).

  1. A questo punto è opportuno evidenziare le differenze. Per Miglio lo Stato moderno è essenzialmente (e prevalentemente) un prodotto del diritto come contratto – scambio; e tutto il diritto è procedura[23]. Il diritto pubblico ha qualcosa di “equivoco”[24]. Adoperando il concetto d’istituzione “arriviamo a una conclusione solo apparentemente paradossale: quello che chiamiamo «Stato (moderno)», essendo un complesso di procedure convenute, di ordinamenti giuridici, non è politica. Si capisce allora perchè lo Stato e la politica tendono ad andare per la loro strada”[25].

Per cui occorre districare “l’intreccio tra politica e diritto e distinguere fra quello che nello Stato è ormai diventato soltanto diritto (e quindi solo “contratto-scambio”) da ciò che invece perennemente sfugge a questa istituzionalizzazione, ossia la politica, generata e legata a un rapporto che non è di “contratto”, che non produce diritto, come quello relativo all’obbligazione politica”; l’analisi del problema delle istituzioni “ci ha condotto non solo a chiarire un problema tecnico molto rilevante, ma anche ad avere ennesima conferma della validità dell’ipotesi dalla quale abbiamo preso le mosse, che distingue radicalmente l’obbligazione politica dall’obbligazione-contratto”. Quindi contrariamente a quello che sosteneva Hauriou del dualismo delle fonti del diritto (e della giustizia), (ossia l’istituzione e “commercio giuridico”), ma che sempre diritto (di tipi e origine diversa) era, il dualismo di Miglio è diverso e radicale: dove c’è obbligazione politica non c’è contratto-scambio: la commistione di queste negli ordinamenti non può confondere le differenze. Si può concordare su questo (cioè sulla distinzione dei concetti) con Miglio, ma comunque la commistione ha generato (e/o conservato), seguendo Hauriou, due tipi di diritto; e il fatto che il diritto “pubblico” sia tale deriva non soltanto dall’ovvio argomento che esiste, ma anche da un’analisi concettuale e storica.

La distinzione tra due diritti risale, com’è noto, al diritto romano ed al frammento di Ulpiano che “apre” il Digesto[26]. Il fundamentum distinctionis più rilevante è condensato da Jellinek – e ripetuto prima e dopo di lui da altri (tanti), che il diritto privato regola i rapporti di coordinazione tra individui, quello pubblico di subordinazione[27] . Anche se si pone il problema della difficoltà del criterio,potendo lo Stato (e gli altri enti pubblici) operare anche come “subietto economico privato”; come, d’altra parte, insegnava la dottrina del Fisco (Fiskuslehre)[28], anche se evolutasi in concezioni più moderne. Per cui “Diritto pubblico è quello che vincola un ente collettivo fornito di potere di signoria nei suoi rapporti con persone ad esso eguali oppure subordinate” e “Un potere di signoria diviene giuridico per il fatto di esser limitato: diritto è forza giuridicamente limitata”. Kelsen rileva, in relazione alla distinzione tra diritto pubblico e privato che “Secondo l’opinione più diffusa, si tratta di una suddivisione dei rapporti giuridici tale che il diritto privato indica un rapporto fra soggetti di ugual ordine e del medesimo valore giuridico, e il diritto pubblico indica un rapporto fra un soggetto sopraordinato e uno sottordinato, un rapporto quindi fra due soggetti dei quali l’uno ha un valore giuridico maggiore dell’altro. … Il maggior valore giuridico che spetta allo stato, e cioè ai suoi organi in rapporto ai sudditi, consiste nel fatto che l’ordinamento giuridico attribuisce alle persone qualificate come organi dello stato, oppure a certuni fra loro, i così detti organi dotati  di potestà d’impero, la capacità di obbligare i sudditi per mezzo di una manifestazione unilaterale di volontà (ordine)”. Ed esemplifica la distinzione facendo gli esempi dell’ordine amministrativo o del negozio giuridico. In quest’ultimo “i soggetti che sono obbligati partecipano alla produzione della norma che obbliga, e in ciò consiste del resto tutta l’essenza della produzione del diritto contrattuale, là, nell’ordine amministrativo di diritto pubblico, il soggetto che deve essere obbligato non ha nessuna parte nella produzione della norma che lo obbliga. Questo è il caso tipico di una produzione autocratica di norme; il contratto di diritto privato rappresenta invece un metodo espressamente democratico di produzione giuridica”. Dopo di che la conclusione è che “… la dottrina pura del diritto, dal suo punto di vista universalistico, sempre rivolto alla totalità dell’ordinamento giuridico, come alla così detta volontà dello stato, scorge anche nel negozio giuridico privato, come nell’ordine amministrativo, un atto dello stato, cioè un fatto produttivo di diritto che deve essere attribuito all’unità dell’ordinamento giuridico. Con ciò la dottrina pura del diritto relativizza il contrasto fra diritto pubblico, e privato che la scienza giuridica tradizionale aveva considerato come assoluto; essa lo trasforma da una distinzione extrasistematica, cioè fra diritto e non diritto, tra diritto e stato, in una distinzione intrasistematica, e con ciò si convalida come scienza appunto perchè supera anche l’ideologia che è unita all’idea di concepire come assoluto questo contrasto”. La distinzione quindi tra diritto pubblico e privato non ha nulla di essenziale e così i corollari e le conseguenze della medesima[29].

Questa, e altri criteri distintivi simili a quello (e/o al frammento di Ulpiano) sono stati ripetuti così sovente che non è il caso di ricordarli[30].

Come sostiene Miglio, anche sulla base (di parte) della dottrina amministrativista italiana del tardo novecento, lo Stato moderno (e soprattutto lo Stato “sociale”) ha acquisito molte più funzioni (e servizi), e li esercita con strumenti e modelli di diritto privato (tipico è il caso degli enti e delle aziende pubbliche economiche), per cui quello che guadagna in estensione lo perde in imperatività; resta il fatto che un nucleo – robusto – delle funzioni dello Stato, minoritarie come costo (e importanza) economica, ma maggioritarie come incidenza e orientamento sulla vita comunitaria, restano gestite con i sistemi “tradizionali”. Il cui connotato comune (relativamente agli atti) è la c.d. “imperatività”, ossia la trasposizione nella terminologia degli amministrativisti del rapporto di comando-obbedienza, uno dei presupposti – come scrive Freund – del politico[31].

Tale rapporto – quasi sempre – si esercita attraverso atti e procedure giuridiche, e il cui connotato è di poter essere controllate (annullate, disapplicate) dal Giudice. Rarissimo – ancorché politicamente decisivo – è il caso di atti sottratti al sindacato giurisdizionale; più frequente invece, quello di atti – e anche di mere azioni (non “formalizzate” in un provvedimento) – che si fondano sul potere di comando e sulla correlativa coercitio[32]. Quanto alla prima classe di atti (i quali) non sono justiciables: e la giurisprudenza francese, con un lavoro più che secolare li ha ricondotti  ad una liste jurisprudentielle, includendovi in particolare quelli relativi ai rapporti internazionali, ai rapporti tra organi costituzionali, poi anche le misure eccezionali di cui all’art. 16 della Costituzione della V Repubblica. Se poi si prova a raggruppare i caratteri comuni peculiari di tali atti consistono nello scopo per cui sono presi: la difesa della società o del governo dai nemici (esterni ed interni), la sicurezza della comunità, la tutela (almeno) dei diritti dei cittadini alla vita e ad un’esistenza ordinata. In altre parole coincidono, in larga parte con quelli che costituiscono il fine dello Stato quale istituzione. Cioè quello “politico” per eccellenza.

Il problema era posto anche in Italia, dato che l’art. 31 T.U. 26/6/1924 nel Consiglio di Stato (sostanzialmente ripetitivo dell’art.24 del precedente T.U. 2/6/1889) prevede l’inammissibilità del ricorso al Consiglio di Stato per impugnare atti “emanati dal Governo  nell’esercizio del potere politico”[33].

Quindi, se è vero che lo sviluppo dello Stato borghese ha da un lato “separato” la società dallo Stato, garantendo i diritti fondamentali, e dall’altro ha sviluppato tutta una serie di controlli e limiti interni ed esterni all’esercizio dell’attività pubblica – amministrativa (che è quella quantitativamente prevalente) – restano comunque degli atti, pertinenti al politico, non controllati né dal Giudice né da altri; così come azioni (di soggetti pubblici) che non si fondano (e non si estrinsecano con) atti e provvedimenti formali, ma sul potere di coercitio spettante al funzionario.

Proprio questi sono i principali indici che il diritto pubblico  è da una parte il rivestimento in forme giuridiche del “presupposto del politico” (Freund) di comando-obbedienza, dall’altra proprio perciò, questo genera un diritto, che, pur essendo tale, presenta connotati differenti e per certi versi opposti a quello privato. Come scrive Hauriou riguardo alla teologia (e alla metafisica) anche qui il diritto non è che l’involucro di un “fond”, nella specie, politico. Che, a seguire le doyen, comincia molto presto con lo Stato moderno, già sotto Luigi XIV: “i grandi ufficiali della corona sono sostituiti da sotto-segretari di Stato come Colbert e Louvois: la monarchia diviene amministrativa e il suo potere politico si riveste (se double) d’un potere amministrativo”[34].

Resta il fatto che, come notato da Carl Schmitt, lo Stato borghese, malgrado la regolamentazione giuridica, ha comunque i suoi poteri eccezionali, per cui c’è un’espansione della regolamentazione giuridica nelle attività pubbliche, ma mai totale. A conclusioni analoghe era giunto Jellinek, partendo dalla distinzione tra attività statale libera e vincolata[35].

Per cui non è condivisibile la concezione di Miglio dell’opposizione irriducibile tra politica e diritto (se non in senso concettuale “puro”). É invece preferibile l’ipotesi che con l’incontrarsi nel concreto (in particolare dello Stato borghese), esigenze politiche da un lato, dall’altro principi del Rechtstaat, (e precedentemente, la razionalizzazione (anche) giuridica perseguita dalla monarchia assoluta), hanno generato un tipo di diritto a se:  il diritto pubblico dello Stato moderno. Categoria che non può essere ricondotta né al diritto privato, per le differenze essenziali, come, prima tra tutte, l’eguaglianza tra le parti del rapporto; né alla politica, per la proceduralizzazione, e la sottoposizione ai controlli, soprattutto a quello giudiziario, della quasi totalità dell’attività pubblica per così dire “quotidiana”.

D’altra parte la distinzione che fa Hauriou tra diritto disciplinare e diritto comune, ricorda da vicino quella di Max Weber tra ordinamento amministrativo e ordinamento regolativo.

Secondo Weber gli ordinamenti statuiti possono sorgere: “a) mediante una libera stipulazione; b) mediante un’imposizione e una corrispondente disposizione ad obbedire. Un’autorità di governo in un gruppo sociale può pretendere la forza legittima per l’imposizione di nuovi ordinamenti” (ovviamente lo Stato moderno è un ordinamento politico, territoriale, imposto). Tra gli ordinamenti è essenziale distinguere amministrativi e regolativi[36]. Definendo cosa sia “l’agire del gruppo” Weber premette che l’ordinamento “può contenere anche norme in base alle quali deve orientarsi in altre cose l’agire dei membri dei gruppo sociale: per esempio, nello stato, l’«economia privata» che serve non all’imposizione coercitiva della validità dell’ordinamento del gruppo, ma a interessi particolari, deve orientarsi in base al diritto «privato»”; ma solo nel caso dell’ “agire dell’apparato amministrativo” si può parlare di “agire riferito al gruppo”[37].

Si può notare come l’ordinamento amministrativo ricordi da vicino il diritto generato dall’istituzione di Hauriou (sia disciplinare – in primo luogo – che statutario) e l’ordinamento regolativo il diritto comune del giurista francese. Le analogie non nascondono tuttavia le differenze. Weber pone l’accento prevalentemente sull’imposizione dei comandi (le statuizioni) riferibili all’istituzione, Hauriou, senza trascurare l’aspetto del comando, sottolinea maggiormente la necessità dell’ “accettazione”, o meglio del consenso perché vi sia un ordinamento stabile, un pouvoir de droit che comandi quale rappresentante dell’istituzione fondamentale, creando e garantendo l’ordine. Ordine che comprende anche il (rispetto del) diritto comune (Diké) non generato dall’istituzione (ma prima e/o fuori). L’eccezione ovvero il gouvernement de fait (il governo rivoluzionario o di fondazione) tende sempre a diventare governo di diritto attraverso il riconoscimento (interno ed esterno) e il ripristino di una situazione normale, segnatamente dal punto di vista istituzionale[38].

Anche Santi Romano scrive, a proposito del riconoscimento popolare di un ordinamento “nuovo” (cioè rivoluzionario) “quando di riconoscimento in tal senso si parla, non s’intende accennare ad un atto, ad un procedimento cosciente di un subbietto che sia fornito di capacità, di volontà suscettibile di produrre effetti dal diritto sanzionati, ma di un procedimento che può anche essere incosciente e che non è dal diritto regolato. In altri termini, non si tratta di un principio, di una norma, di un istituto giuridico, ma di un fenomeno sociale[39].

A prendere il più diffuso criterium differentiae tra diritto pubblico e privato, e cioè il carattere imperativo/impositivo del primo (e la connessa, indispensabile ineguaglianza tra i soggetti del rapporto), opposta a quello pattizio-paritario del secondo, appare evidente che il diritto pubblico è frutto della “giuridificazione”, come cennato, del rapporto di comando-obbedienza, cioè di un presupposto del politico. Ed è quindi essenzialmente politico. Né può inficiare questa considerazione il fatto che il costituzionalismo e tutto lo sviluppo dello Stato borghese abbiano costruito intorno a tale rapporto una rete di limiti, garanzie e controlli. Da un lato perché questi vengono meno – in tutto (o in quasi tutto) – nello stato d’eccezione, dall’altro perché concettualmente, non è razionalmente possibile l’esistenza politica di una comunità senza quello; mentre lo è senza controlli e limiti al potere, come la Storia dimostra, a partire dai Faraoni e per finire (per ora) alle dittature del proletariato; e come tanti da Hegel[40] fino a Santi Romano hanno sostenuto[41]. Quindi il fatto che lo Stato moderno sia il risultato della “fusione” di principi di forma politica e dei principi del Rechtstaat, come sottolineato da Carl Schmitt, non comporta che non sia un regime politico, e non una scorciatoia per “uscire dalla Storia”: piuttosto esso è il modo di esercitare il comando in società frutto dello spirito cristiano e del razionalismo occidentale in cui il tipo di potere prevalente è quello razionale-legale.

  1. Ci sono altri aspetti che occorre ricordare. Il primo è che molte delle funzioni acquisite (esercitate) dagli Stati nel XX secolo (e nella seconda metà del XIX secolo), non attengono all’essenza dello Stato (quale ente politico) ma all’accidentale, cioè non incidono, se non mediatamente, sul nucleo politico; senza le quali questo sarebbe perfettamente in grado di assolvere il proprio ruolo (idée directrice la chiamava Hauriou). Nel passo, sopra citato, di Hegel la distinzione tra essenza dello (Stato) politico e accidentalità dei compiti che assume è delineata con concisione ed efficacia. Ma se lo Stato (il potere pubblico-politico) assume compiti che non sono essenziali alla sua natura, non è neppure necessario, anzi per lo più è inopportuno, che lo faccia con i modelli propri delle funzioni politiche. Come scriveva Engels sia pure argomentando una tesi solo parzialmente assimilabile a quanto qui sostenuto “Ma nè la trasformazione in società anonime, nè la trasformazione in proprietà statale, sopprime il carattere di capitale delle forze produttive…Lo Stato moderno, qualunque ne sia la forma, è una macchina essenzialmente capitalistica, uno Stato dei capitalisti, il capitalista collettivo ideale. Quanto più si appropria le forze produttive, tanto più diventa un capitalista collettivo, tanto maggiore è il numero di cittadini che esso sfrutta. Gli operai rimangono dei salariati, dei proletari. il rapporto capitalistico non viene soppresso, viene invece spinto al suo apice”.[42]

Più tali compiti sono servizi del tutto analoghi a quelli che rende un’impresa privata (ad esempio le pensioni, analoghe alle rendite vitalizie; le prestazioni sanitarie, che possono parimenti essere rese da professionisti e società private, e tante altre), più i modelli di gestione e funzionalità si allontanano dal politico per accostarsi al privato. Ma questo non vuol dire che lo Stato non è più politico: ma che si allarga l’area del pubblico annettendo dei servizi e compiti privati[43].  Il politico si espande come appartenenza, ma tende a ridursi quanto ai “modelli” di gestione[44].

Ma non è solo l’ “annessione”  massiccia di compiti per così dire eudemonistici che spiega come lo Stato contemporaneo si sia, sotto tale profilo, “privatizzato”; c’è un altro aspetto, attinente alla stessa struttura, anche politica, dello stesso.

Ossia la partizione/distinzione del potere pubblico, politico e amministrativo; con una serie di status e garanzie diverse a seconda del carattere della funzione, nonchè procedure e requisiti (di nomina) diversi. Dato che però normalmente personale politico esercita (anche) funzioni meramente amministrative (ad es. il Sindaco o gli assessori del Comune) e di converso – anche se con frequenza (forse) minore – funzionari di carriera rivestono cariche a carattere (anche) politico[45], sorge il problema di distinguere, nell’ambito pubblico ciò che è politico da ciò che non lo è (e così il funzionario politico dal burocrate di carriera). Sul punto è stato già sopra scritto (relativamente all’ “atto politico”). A volerne ulteriormente precisare la connotazione occorre ricordare le considerazioni di due giuristi sul punto. Carl Schmitt, dopo aver ricordato il criterio della giurisprudenza francese del mobile politique per distinguere atti politici e no, ne da la definizione seguente “Ciò che costituisce l’atto di governo è il fine che si propone l’autore. L’atto che ha per fine la difesa della società presa in se stessa o personificata nel governo, contro i suoi nemici esterni o interni, palesi o nascosti, presenti o futuri: ecco l’atto di governo”[46]. Costantino Mortati sostiene che occorre distinguere tra ordinamenti giuridici a fini particolari e a fini generali: “gli enti del secondo tipo si costituiscono per il perseguimento di un fine generico, suscettibile cioè di comprendere in sé la soddisfazione di tutti i possibili interessi che possono o potranno essere avvertiti come necessari alla conservazione di un dato gruppo sociale”[47]. Una circostanza ricorrente e significativa è peraltro da ricordare ulteriormente: quando la funzione è (squisitamente) politica, non c’è tutela giudiziaria, nel senso del giudice indipendente e “terzo” (o è molto ridotta) e minori controlli. Non è solo il caso dell’”atto politico” ci sono – ad esempio – quelli dei diritti dei dipendenti di organi costituzionali o del controllo dei loro bilanci.[48]

Ne consegue che nell’ordinamento politico il perseguimento diretto del fine/i generico/i è ciò che connota la natura politica della funzione; diversamente dalla cura del fine specifico dei compiti particolari. Ma, il tutto non chiarisce esaurientemente la questione. Infatti l’altra “faccia” del problema è che alla funzione pubblica sono prescritti dei modi di funzionamento specifici; così come al funzionario-burocrate degli status e delle garanzie istituzionali specifiche. Ambedue aventi (prevalentemente) la propria radice nel rechtstaat.

Riguardo a ciò è particolarmente significativo quanto disposto nelle norme della Costituzione italiana relative alla pubblica amministrazione ed ai funzionari pubblici. Il relatore alla costituente, Ruini, sottolineava a proposito delle norme costituzionali relative che “Brevi sono gli accenni, per la pubblica amministrazione, al buon andamento ed alla sua imparzialità. Un testo di costituzione non poteva dire di più; ma si avverte da tutti il bisogno che il Paese sia ben amministrato, che lo Stato non sia solo un essere politico, ma anche un buon amministratore secondo convenienza e secondo giustizia”: con ciò “politico” era distinto (se non in sostanza contrapposto), dalla buona amministrazione[49]. Così carriere, obblighi, responsabilità, garanzie sono prescritti nella Costituzione e sotto riserva di legge[50].

  1. Miglio individua tra la classe politica e il seguito la categoria dell’ “aiutantato” cioè “quella dei ‘seguaci attivi’, di coloro i quali si dispongono in modo da aiutare la classe politica, i suoi membri”[51]. La tripartizione che fa Miglio (classe politica, aiutantato, seguaci) innova a quella sostanzialmente dualistica di Mosca e Pareto[52]. Nell’analisi dell’aiutantato lo studioso comasco inizia proprio dal criterio del comando (in base alla quantità del comando)[53].

Il primo elemento per quantificarlo è il quantum di discrezionalità[54]. Mano a mano che si scende nella scala di comando (dal vertice alla base dell’ “aiutantato”) la discrezionalità decresce, e aumenta la specializzazione (conseguenza peraltro, in tal senso, della “professionalità” della burocrazia nel tipo di potere razionale-legale di Weber). Per cui sul punto Miglio conclude “disponiamo di un mezzo per classificare i tipi di aiutantato. Gli aiutanti sono capi politici che presentano limiti nella loro discrezionalità, nella loro capacità di decidere”[55]. Dopo di che, e su questa base, Miglio imposta una tipologia dell’aiutantato, basata sul  rapporto tra decisione ed esecuzione (di evidente  ascendenza weberiana).

Al criterio della discrezionalità e della specializzazione – settorialità – se ne può aggiungere un altro, d’importanza (almeno) pari: è quello della subordinazione (controllo) per cui gli atti del funzionario subordinato sono sottoposti al controllo del funzionario gerarchicamente superiore, onde la discrezionalità del primo non ha la possibilità di esercitarsi del tutto “liberamente” nel proprio ambito, ma gli atti che pone in essere possono essere sostituiti, modificati o annullati dal secondo. Tale aspetto, non sempre presente nell’organizzazione dello Stato, è comunque particolarmente evidente nel corpo principale di essa, cioè quello della pubblica amministrazione, data la pluralità dei rimedi contro le decisioni degli organi subordinati (il ricorso gerarchico, connotato dal carattere “generale”, i ricorsi a commissioni speciali), mentre gli atti del potere supremo sono per definizione immodificabili e inappellabili; e più ci si avvicina al vertice, più la possibilità di riforma, riesame, sostituzione, diventa marginale ed eccezionale.

É interessante leggere all’uopo un “classico” dei manuali di diritto amministrativo, come quello  di Guido Zanobini “L’azione di quelle autorità, che fanno parte di uno stesso ramo della pubblica amministrazione, ha bisogno di  essere coordinata e diretta all’attuazione dell’unico fine, secondo criteri unitari. Questa coordinazione e unificazione viene attuata per mezzo di un particolare ordinamento, che prende il nome di gerarchia e che ha per essenziale principio la subordinazione degli organi inferiori a quelli superiori”[56].

Al contrario, come cennato, salendo verso il vertice i controlli, anche quelli di altri poteri (come il giudiziario) scemano, per estinguersi del tutto quando si arriva al potere sovrano. Il quale, per definizione, ha il connotato di non poter essere limitabile (giuridicamente) cioè di essere assoluto: carattere che lo distingue da tutti gli altri poteri pubblici[57]. Ne consegue che oltre essere limitato dall’oggetto (competenza) e nella discrezionalità, la materia affidata all’ “aiutantato” è anche soggetta alla sorveglianza, ai controlli (anche sostitutivi) degli organi e uffici sovraordinati.

Questo è un carattere decisivo, che ha colpito in particolar modo i giuristi, a partire dal passo, sopra citato, di Santi Romano (v. nota 4) per arrivare alle note critiche che Carrè de Malberg rivolgeva alla Stufentheorie di Kelsen, sostenendo che la gradazione delle norme non era data della qualità delle stesse (se legislative, amministrative, contrattuali) ma dal “grado di potere” che gli organi emananti hanno nell’organizzazione dello Stato[58]. O anche al concetto di gerarchia esposto da De Valles[59]. É chiaro che gli “aiutanti” non incardinati nell’organizzazione pubblica (privi cioè sia degli obblighi che dei diritti dei funzionati) non rientrano in tale distinzione.

  1. Occorre riscontrare in che misura il concetto di istituzione e di diritto pubblico dei giuristi sopra ricordati confligga con quello di Miglio: a mio avviso assai meno di quanto pensi quest’ultimo.

In primo luogo per la preminenza che nella concezione d’istituzione ha quello di potere e di organizzazione. Come scrive Schmitt, la distinzione tra le tre forme di pensiero giuridico che distingue non si fonda sull’esclusione del concetto dell’uno o dell’altra dal mondo giuridico, ma sulla prevalenza del concetto centrale di una rispetto a quello delle altre; onde non si nega che il diritto sia composto di istituzioni, norme e decisioni, ma che una lo caratterizza e lo comprende meglio delle altre[60].

I giuristi suddetti rifiutavano che, come scrive Miglio, alla radice degli istituti-organo vi fosse un istituto-norma.

L’istituzione è organizzazione dei poteri pubblici e del rapporto comando/obbedienza, al fine di conservare l’ordine sociale. Hauriou scrive che gli Stati moderni sono delle armate (civili) in marcia, come l’agmen tenuti a conservare l’ordine; i popoli (il “seguito” di Miglio) sono inquadrati “par une forte hiérarchie administrative” la cui rete ricopre il territorio; la prima opera dello Stato è fare di una comunità non organizzata e (quindi) incapace ad agire, “un corps organisé, vivant et puissant”[61].

Essenziale è il ruolo del centro direttivo o fondatore e degli organi (e dell’organizzazione) di governo. Il ruolo delle “norme” non è considerato primario:ad esserlo è il pouvoir che lo fonda; l’ordine sociale è costituito da idee, interessi, poteri di organi e organizzazione; segno evidente del ruolo secondario delle norme. Alle quali peraltro anche Santi Romano assegnava un ruolo per così dire accessorio (e strumentale) rispetto all’organizzazione (v. sopra nota 4). Lo conferma più in particolare sostenendo “storicamente si danno, com’è, del resto, notissimo, esempi di ordinamenti giuridici, in cui non si rinvengono norme scritte o anche non scritte, nel senso proprio della parola. É stato detto più volte che è possibile concepire un ordinamento, che non faccia posto alla figura del legislatore, ma solo a quella del giudice”[62].

Anche per il giurista siciliano è essenziale il potere, e la di esso organizzazione; le norme – generalmente presenti – possono tuttavia non esserlo non essendo necessarie all’organizzazione (e all’azione) dell’istituzione.

Altra differenza è la relazione tra rapporto di comando-obbedienza e “giuridicizzazione”. Nel senso che il rapporto di comando-obbedienza (dal superiore all’inferiore) non è (sempre) mediato dalla norma, ma per così dire (dal “differenziale” di) potere e dal rapporto di subordinazione. Così Hauriou scrive (v. sopra nota 9) che la sanzione del diritto disciplinare si basa sulla coercitio che compete al magistrato, basata sulla forza propria dell’istituzione, che implica necessariamente di potersi fare giustizia da sola[63]. Il diritto, inteso come procedura e come attribuzione di competenza giuridicamente sancita e regolata, c’entra poco (o niente): il rapporto è essenzialmente fattuale e politico o meglio istituzionale. É tale perché altrimenti l’istituzione non esisterebbe: e l’esistente, nel caso di necessità, prevale sul (o non ha bisogno del) normativo; consegue dalla “natura delle cose” non dalla legalità dell’attribuzione.

Appare pertanto chiaro che nella concezione istituzionista la regola disciplina solo una parte – anche se quella quantitativamente (e di gran lunga) prevalente – ma non tutto il rapporto di comando/obbedienza ed il potere che è esercitato dall’istituzione (e dai suoi organi). La ragione è semplice: l’istituzione è diritto, ma non è norma[64]. L’estensione del concetto d’istituzione è maggiore di quella di norma (giuridica), e la concezione d’istituzione di Hauriou e Santi Romano non è quindi coestensiva con quella di Miglio.

  1. Resta ancora da fare delle considerazioni sul diritto pubblico, e approfondendo il rapporto tra questo e la politica. All’uopo è interessante notare cosa scrive Freund a proposito dell’ordine politico: che è gerarchico per natura “Sa nature hiérarchique découle à la fois de son présupposé du commandement et de l’obéissance et de sa fonction qui consiste à sauvegarder l’ordre en général… Politiquement, l’ordre est toujours imposé ou ordonné, parce qu’il n’y a pas de coordination sans subordination. Autrement dit, la coordination est l’oeuvre d’une volonté qui décide de la régle coordinatrice. Aucun ordre ne s’impose de lui-même ; il n’y en a pas non plus sans contrainte”[65].

Il tutto è parzialmente coincidente con l’enumerazione che Hauriou fa delle funzioni essenziali dello Stato[66]: in cui è evidente, come altrove nel pensiero del doyen, il rapporto comando/obbedienza.

In realtà la tesi degli istituzionisti (e non solo la loro) che il diritto è ripartito in “pubblico” e “privato” non si contrappone alla concezione fondamentale di Miglio dell’obbligazione politica distinta da quella giuridica (il “contratto-scambio”), quanto alle conseguenze che lo studioso lariano ne trae (che il diritto è privato o non è tale). E la ragione dell’esistenza di un diritto pubblico che regoli – fino ad un certo punto – la materia politica e, in particolare, il rapporto comando/obbedienza è provata da una serie di elementi.

In primo luogo l’evoluzione del diritto “moderno”, a sua volta tendente alla “giuridificazione” del politico per due “spinte” fondamentali: la prevalenza del “tipo” di potere razionale-legale negli ultimi secoli e la diffusione degli “stati di diritto” cioè di unità politiche fondate, come cennato, oltre che su principi politici su quelli del Rechtstaat (distinzione dei poteri, tutela dei diritti fondamentali “borghesi”, nonché – a seguire Hauriou – funzionalizzazione di ogni potere pubblico, ossia la “de-patrimonializzazione” della funzione pubblica).

Quanto al “tipo” di potere: se è legittimo un potere che, normalmente adotta comandi ordinati secondo lo schema atto generale/atto di applicazione (e via discendendo nella scala gerarchica degli “esecutori”, riflessa in quella dei relativi atti), non vuol dire che quegli atti non siano comandi, né che non vadano obbediti. Anche se la forma di potere razionale-legale valorizza al massimo il ruolo della legge (e dell’organo statuente, come del diritto statuito) sempre potere e comando resta. Il comando è così esercitato (prevalentemente) per (o in base a) atti legislativi invece che per rescripta principis, senza che cambi alcunché dell’essere potere. Essendo un “tipo ideale”, peraltro, in concreto, non si presenta mai in forma “pura”[67].

Il fatto che, anche in uno “Stato di diritto” vi siano dei momenti irriducibili al diritto (come il gouvernement de fait di Hauriou, la necessità di Santi Romano, l’ausnahmezustand di Schmitt)[68] non implica che non vi sia un diritto pubblico. Quanto sopra è confermato non solo dal dato positivo, e cioè l’esistenza di una regolamentazione giuridica (non totale dei) rapporti di comando-obbedienza, ma dall’esistenza di diritti e obblighi, che è il primo criterio dell’esistenza di rapporti giuridici, ai quali è connaturata l’interdipendenza delle azioni di due soggetti[69].

Anche se c’è un rapporto – quello tra il Sovrano e i sudditi – connotato dall’aver il primo solo diritti e nessun dovere (giuridico) verso i secondi, e l’inverso per questi rispetto a quello[70]; è questa, di sicuro, l’unica “eccezione”. Per il resto nei rapporti tra poteri pubblici e tra questi e i cittadini è tutto un pullulare di diritti, obblighi, potestà, interessi legittimi interdipendenti. Anche se (molti) di quei rapporti intercorrono tra soggetti non in situazione di parità (ad esempio interessi legittimi/potestà)[71] ciò non toglie che non siano giuridici e che non vi sia (quasi sempre) un giudice per dirimere le liti e statuire su tali diritti[72].

D’altra parte, anche nelle istituzioni non pubbliche esiste un diritto disciplinare, connotato dal fatto che il giudice non ha vero carattere di “terzietà”, ma è un organo dell’istituzione (sorte de justice organique, la chiamava Hauriou)[73].

In secondo luogo il tutto è una conseguenza dei principi del Rechtstaat che, necessariamente, impongono una “giuridificazione” o “giustizializzazione” anche se non assoluta, al potere politico, e in particolare al rapporto di comando-obbedienza[74].

Miglio distingue l’obbligazione politica dall’obbligazione contratto-scambio rilevandone le differenze quanto all’oggetto, ai soggetti, ai limiti, ai contenuti strutturali, al tempo ed alle strutture del rapporto[75].

Se si vuole seguire Miglio e fare una partizione – di carattere generale – tra diritto pubblico e privato – è necessario partire dal tratto comune, e cioè l’esistenza di un rapporto giuridicamente rilevante, e dalla distinzione tra quelli differenti: i presupposti, che per Hauriou sono l’organizzazione sociale per quello pubblico, l’attitudine sociale (sociabilité) per il privato[76]; per l’oggetto ossia l’istituzione e i rapporti cui da luogo da un lato, i rapporti “interindividuali” (di scambio) dall’altro; la situazione dei soggetti, ineguale per il primo, paritaria per il secondo; la funzione, ossia l’esistenza dell’istituzione e della comunità e il perseguimento dell’interesse generale per il pubblico, la regolazione dei rapporti e degli interessi interindividuali per il privato[77].

Differenze profonde che non possono però eliminare il genere (comune) “diritto”, né le modificazioni dell’istituzione (sia sotto l’aspetto organizzativo che funzionale) che la “giuridificazione” del rapporto comando-obbedienza ha determinato.

Piuttosto la concezione di Miglio è spiegabile se si considera il diritto nella prospettiva (lato sensu) di una teoria  normativistica del diritto (come fa nello specifico lo studioso lariano, contrapponendo istituti-organo e istituti-norma); anche se questa affermazione può apparire imprecisa consegue dal ripetuto uso dei concetti e termini della teoria normativistica (ancorché tra le influenze vanno annoverate delle concezioni  giusnaturaliste, liberali, economiciste, non riducibili alla reine rechtslehre). L’istituto-norma di Miglio basantesi su consuetudini e procedure consuetudinarie non ha un significato uguale (e coestensivo) alla norma di Kelsen. Infatti questa, come notato da Schmitt, non è idonea a dar conto di  aspetti essenziali del diritto, come il momento dell’applicazione, la tematica dell’eccezione (la “necessità”), fino a quella dell’efficacia del diritto. Hauriou e Santi Romano avrebbero rifiutato l’idea di Miglio che dietro (e prima) di ogni istituto-organo vi sia un istituto-norma. Per Hauriou il genitore dell’istituzione è le pouvoir, (definito “una liberta energia della volontà che assume l’impresa (entreprise) di governare un gruppo umano attraverso la creazione dell’ordine e del diritto”) che fonda l’istituzione: istituzione che, da un canto deve proteggere la comunità, e il diritto generato dalla stessa, (Diké), ma, anche a tale scopo, genera un diritto proprio (Thémis), specificamente istituzionale; per Santi Romano il rapporto tra istituzione e norma è quello tra giocatore e pedine (v. sopra), e non occorre aggiungere altro.

La teoria istituzionista riesce a dare la spiegazione unitaria ed esauriente del “fenomeno” giuridico, fatto di organizzazione e regole, di norme ed eccezione, di validità ed efficacia. A quasi due secoli non si può che ricordare, a proposito della concezione istituzionista, l’affermazione di De Maistre quando, criticando realisticamente le teorie rivoluzionarie scriveva “il n’est pas au pouvoir de l’homme de créer une loi qui n’ait besoin d’aucune exceprion”[78].

Teodoro Klitsche de la Grange

[1] Op. cit., pp. 439-444.

[2] Op. cit. p. 452.

[3] Op. cit. p. 453 (il corsivo è nostro).

[4] Op. cit. rist. Firenze 1967 p. 15 (i corsivi sono nostri).

[5] Scrive Romano  “Come ogni istituzione così anche lo Stato non ha , ma è un ordinamento giuridico. Se talvolta si dice che il diritto è l’anima e il principio vitale dei corpi sociali e, quindi, lo Stato, ciò non deve intendersi nel senso che diritto e corpo sociale siano due cose diverse, per quanto unite, e tanto meno che il primo sia un prodotto o una funzione del secondo, ché anzi quell’immagine vuol ribadire il concetto che l’uno non si può disgiungere né materialmente né concettualmente dall’altro, come non si può distinguere, se non per vuota astrazione, la vita dal corpo vivente. Si può anche dire che una istituzione ha un diritto, cioè un ordinamento, se per questo s’intendono soltanto i principi e le norme che ne fanno parte  e ne emanano, così come si dice che un tutto ha questo e quell’elemento fra gli altri che lo compongono; ma più comprensivamente si deve dire che esso è per intero un ordinamento giuridico” (i corsivi sono nostri). Op. cit. Milano 1947, p. 56.

[6] V. op. ult. cit. p. 92

[7] V. Principes de droit public  Paris 1916 (rist. 2010) p. 136.

[8] Op. cit. p. 137 e prosegue “Quand une organisation a été créée à l’intérieur d’une institution et s’est implantée d’une certaine façon, elle est liée à l’existence même de celle-ci, on sent qu’on ne pourrait pas arracher l’une sans détruire l’autre

[9] E così lo spiega “Le pouvoir disciplinaire s’appuie sur la force propre que l’institution a conscience d’avoir pour se faire justice elle-mêmeop. cit., p. 139.

[10] Op. cit, p. 141.

[11] Op. cit., p. 143.

[12] Op. cit., p. 144.

[13] Così lo descrive “cherche à dégager l’assentiment de tous les membres du groupe à une mesure déterminée, par une procédure liée à la vie même de l’institution, mai qui, par la nécessité sociale d’aboutir dans un temp donné, s’arrête à l’assentiment immédiat de la majorité”, op. cit., p. 144.

[14] v. Précis de droit constitutionnel, ed. 1929, pp. 97 ss. e specificando le caratteristiche di Dikè scrive “celle-là, était extérieure aux groupes, intergroupale, interfamiliale, et nous dirions aujourd’hui internationale; elle avait pour organes des tribunaux d’arbitres, devant lesqueles les parties étaient égales l’une à l’autre; elle était néè a l’occasion des guerres privées, des vendettas entre familles, et pour les faire cesser par des arbitrages”.

[15] Mais il ne fut jamais inhérent à l’insititution de l’Etat comme l’avait été, par exemple, le droit pénal public primitif, qui état disciplinaire”.

[16] E lo spiega così: “Tandis que, dans la société politique, les hommes sont tenus en groupe par leur soumission à la discipline d’une même institution, dans la société economique, ils sont tenus en relation les uns avec les autres par leur collaboration à l’oeuvre commune de la satifaction des besoins humains” e per cui  “on doit donc opposer les ‘situations de dépendance’ aux ‘rapports de collaboration”, op. cit., p. 177.

[17] Tendent à engendrer deux formes de société ed deux formes de droit qui se déterminent, l’une en institutions politique, l’autre en rapports ou relations du commerce juridique”.

[18] Scrive “L’institution politique n’est pas une forme sociale qui se suffise, pas plus que les rapports du commerce juridique n’en sont une. La véritable position de la question est de considérer la société complète comme composée des deux éléments de l’institution politique et du commerce juridique, et, quant à la combinaison des deux éléments, elle se présente comme l’équilibre de deux forces avec actions et réactions réciproques, mai avec légère suprématie de l’institution politique affirmée par le seul fait de l’existence des États”, op. cit., p. 180.

[19] Si noti che il valore ha qui un significato esclusivamente economico (i corsivi sono nostri).

[20] Op. cit., p. 181 ss.

[21] Op. ult. cit. p. 192.

[22] Op. ult. cit. p. 192; e prosegue in nota “Le véritable juge procédant de l’institution politique est le juge disciplinaire. Pendant que les nécessités de la discipline politique  engendrent le juge disciplinaire, celles du commerce juridique engendrent l’arbitre pour trancher les différends”.

[23] Scrive “Abbiamo allora ridotto a mal partito il mondo del diritto. Hanno ragione i giuristi a guardare lo scienziato della politica con sospetto. Qui abbiamo ridotto tutto il diritto a contratto e tutti i diritti sostanziali a procedure. Tutto il diritto diventa contratto, procedura pattuita, contrattuale. Le norme si riducono  tutte a procedura. L’ “istituto-norma” e l’ “istituto-organo” non sono che un complesso di procedure convenute”; e prosegue “A questo punto scopriamo le conseguenze del nostro lavoro d’indagine: quelle che probabilmente sono “istituzioni politiche”, in realtà sono espressione del contratto e del diritto”. Op. cit. p. 450.

[24] “Costante è il sospetto che l’interferenza della politica (perfino nei diritti pubblici soggettivi) sia macroscopica. Questo non è altro che la constatazione che area dell’obbligazione politica e area del diritto e quindi del contratto sono aree distinte in continua, conflittuale interferenza”. Op. cit. p. 451.

[25] Op. loc. cit.. Per una interessante riflessione sui rapporti tra politica e diritto (con particolare riguardo a Schmitt) V. R. Cavallo Le categorie politiche del diritto, Catania 2007.

[26] Publicum ius est quod ad statum rei Romanae spectat, privatum quod ad singulorum utilitatem,  D I, De Iustitia et jure, I,

[27] Jellinek scrive “L’antitesi fra i due diritti può essere ricondotta a questo concetto fondamentale: che, nel diritto privato, gli individui si trovano gli uni rispetto agli altri in una situazione essenzialmente di coordinazione, e quindi esso disciplina i rapporti degli individui come tali; mentre il diritto pubblico, invece, regola i rapporti tra subietti diversi dotati di autorità, nonché la organizzazione ed il funzionamento di tali subietti e le relazioni di essi con coloro che sono sottoposti alla loro autorità” v. Allgemeine Staatlehre, trad. it. di M. Petrozziello (con introduzione di V. E. Orlando) Milano 1949 p. 2. Le difficoltà di distinguere tra  pubblico e privato, e, nella specie, tra diritto soggettivo (privato) e diritto soggettivo pubblico era avvertita da Carnelutti. Dopo aver scartato che il fondamentum distinctionis  fosse il carattere del soggetto, dato che a soggetti privati possono competere diritti soggettivi pubblici, e all’inverso ad una persona giuridica pubblica un diritto privato “ad esempio, allo Stato la proprietà”; né che lo fosse la natura dell’oggetto (la cosa): ad esempio una cosa può essere demaniale (pubblica) o di proprietà privata “la demanialità o la patrimonialità deriva alla cosa dal diritto, non al diritto dalla cosa”, Carnelutti concludeva che “il fondamento va ricercato nella natura stessa del rapporto, e precisamente nel collegamento tra la forma e la sostanza e cioè tra il potere e l’interesse”. Teoria generale del diritto Roma, 1946, p. 151. Diversamente dal diritto soggettivo privato, che è “possibilità di comandare per la tutela del proprio interesse”, quello pubblico è la possibilità di comandare in funzione di un interesse collettivo (attribuito a ciascuno degli interessati).

giuridiche La concezione, distinguendo tra pubblico e privato, riguardo alle situazioni soggettive è originale; l’altro aspetto interessante – ai fini di questo scritto – della teoria di Carnelutti sul punto è che l’intera partizione tra diritti, obblighi, potestà e così via si fonda sul criterio del comando (e della soggezione relativa) e dell’interesse.

[28] Jellinek scrive “Questa dottrina del Fisco è della massima importanza per tutta la storia della concezione dei rapporti fra Stato e suddito ….. Nella Germania, pel contrario, il Fisco viene dichiarato come subietto di diritti privati, per cui è riconosciuta allo Stato una doppia personalità – di diritto pubblico e di diritto privato -: la qual cosa ha questa grande importanza pratica, che, fin dove si estende il diritto privato, sono escluse arbitrarie invadenze dello Stato nella sfera giuridica dell’individuo”.

[29] E ne conclude “D’altra parte l’attribuzione del carattere assoluto al contrasto fra diritto pubblico e privato fa sorgere anche l’idea che solo il campo del diritto pubblico, quale è prima di tutto quello del diritto costituzionale e amministrativo, sia il dominio della sovranità da cui sarebbe invece escluso il campo del diritto privato. Già anteriormente si è mostrato che questo contrasto totale fra «politico» e «privato» non sussiste nel dominio del diritto soggettivo perché i diritti privati sono diritti politici nello stesso senso di quelli che si suole designare unicamente in questo modo, perché entrambi, sia pure in senso diverso, garantiscono la partecipazione alla formazione della volontà statale, cioè alla sovranità. Con la distinzione di principio fra una sfera giuridica pubblica, cioè politica, e una privata, cioè non politica, risulta più difficile comprendere che il diritto privato prodotto nel negozio giuridico rappresenta una sfera d’azione della sovranità non minore del diritto pubblico prodotto nella legislazione e nella amministrazione”. Reine Rechtslehre. Einleitung in die rechtswissenschaftliche Problematik. Trad. it. Torino 1967, p. 132 ss.

[30] Vedasi, tra i tanti, O. Ranelletti Istituzioni di diritto pubblico, Milano 1953, pp. 29 ss.

[31] Tra tutti citiamo per la connotazione dell’imperatività quanto scritto da M. S. Giannini “L’imperatività è la produzione unilaterale di effetti giuridici a realizzabilità immediata e diretta. Il provvedimento costituisce modifica ed estingue situazioni giuridiche soggettive altrui non solo senza il concorso o la collaborazione del soggetto a cui si dirige, ma anche contro la di lui volontà”, Istituzioni di diritto amministrativo, Milano 1981, p. 299.

[32] Un esempio ne sono le c.d. “vie di fatto” e il divieto al Giudice ordinario, sancito dall’art. 4, ALL: E, L. 2248/1965 di “revocare o modificare” il provvedimento anche se illegittimo.

[33] É interessante a tale proposito il giudizio di Paolo Barile che l’attività politica non può venir “definita unicamente un’attività libera, ma un’attività libera perché politica” e che gli atti espressione della funzione di governo sono “istituzionalmente sottratti ad ogni sindacato giurisdizionale. Essi sono sottratti per natura, non perché esiste l’art. 31 T.U. sul Consiglio di Stato” v. Atto del governo (e atto politico) in Enc. dir., vol. IV, Milano 1959, p. 220 ss.

[34] Précis de droit constitutionnel cit., p. 156 (i corsivi sono nostri).

[35] G.Jellinek Allgemeine Staatslehre,trad. it., Milano 1949, p.177.Così la definisce  “attività libera è quella determinata soltanto dall’interesse generale, ma da nessuna speciale regola di diritto; vincolata, invece, quella che consiste nell’adempimento di un obbligo giuridico. L’attività libera è la prima per importanza, logicamente originaria; che sta di base a tutta la restante attività. È per essa che lo Stato fissa la sua propria esistenza, giacché la fondazione degli Stati non è mai l’esecuzione di norme giuridiche; è da essa che lo Stato riceve indirizzo e scopo della sua evoluzione storica; è da essa che procede ogni mutamento ed ogni progresso nella sua vita. Uno Stato, di cui tutta l’attività fosse vincolata, è una concezione irrealizzabile. Quest’attività libera si riscontra in tutte le funzioni materiali dello Stato, che si sono venute storicamente distinguendo; nessuna, senza di essa, è possibile. Il suo campo più vasto è nel dominio della legislazione, la quale, in confomità stessa sua natura, deve godere della maggiore libertà. Non meno importante, però, essa si mostra nell’amministrazione, dove questo elemento assume il nome di governo (Regierung)”(il corsivo è nostro).

 

[36] “Un ordinamento che regoli l’agire del gruppo, deve essere detto ordinamento amministrativo. Un ordinamento che regoli un agire sociale di altro genere, garantendo le possibilità degli individui scaturiti da tale regolamentazione, deve essere detto ordinamento regolativo… Evidentemente la maggior parte dei gruppi sociali è insieme dell’uno  e dell’altro tipo; un gruppo esclusivamente regolativo sarebbe un puro ‘stato di diritto’, teoricamente concepibile, in cui regna l’assoluto laissez faire (e ciò presupporrebbe che anche il compito di regolare la moneta fosse  affidato alla pura economia privata)” Wirtschaft und Gesellschaft, vol. 10, trad. it. Milano 1980, p. 50.

[37] La concezione di Weber è più articolata e ne riportiamo il passo essenziale: “Nel primo caso si può parlare di un «agire riferito al gruppo», e nel secondo caso di un agire regolato dal gruppo. Solamente l’agire dello stesso apparato amministrativo, e oltre ad esso ogni agire riferito al gruppo, da esso diretto in maniera sistematica, deve essere chiamato «agire del gruppo». Per esempio, «agire del gruppo» sarebbe per tutti i suoi membri una guerra che uno stato «conduce», o una «richiesta» che il comitato esecutivo dell’unione delibera, o un «contratto» che il capo stipula, imponendone o imputandone la «validità» ai membri del gruppo”, op. cit., p. 47.

[38] v. Hauriou Précis de droit constitutionnel, cit., pp. 17 ss.

[39] L’instaurazione di fatto di un ordinamento costituzionale e sua legittimazione, ora in Scritti minori, Milano 1950, p. 149 (il corsivo è nostro).

[40] v. “Una moltitudine di uomini si può chiamare uno Stato soltanto se è unita per la comune difesa della sua proprietà in generale… L’allestimento di questa effettiva difesa è la potenza dello Stato; esso deve da un lato essere sufficiente a difendere lo Stato contro i nemici interni ed esterni, dall’altro a mantenere se stesso contro l’impeto universale dei singoli… L’unità della potenza statale per lo scopo comune della difesa è l’essenziale di uno Stato. Tutti gli altri scopi ed effetti della riunione possono esistere in un modo sommamente vario e privo di unità” (il corsivo è nostro).  Verfassung Deutschlands, trad. it. Bari 1961, pp. 41 ss. Hegel prosegue distinguendo ciò che considera essenziale da quel che non lo è (unità della legislazione, della giustizia, fiscale, monetaria, ecc. ecc.) v. anche op. cit., pp. 30 ss.

[41] v. per Santi Romano “Ogni Stato è per definizione, come si vedrà meglio in seguito, un ordinamento giuridico, e non si può immaginare, quindi, in nessuna sua forma fuori del diritto. Qualunque sia il suo governo e qualunque sia il giudizio che se ne potrà dare dal punto di vista politico, esso non può non avere una costituzione e questa non può non essere giuridica, perché costituzione significa niente altro che ordinamento costituzionale. Uno Stato ‘non costituito’ in un modo o in un altro, bene o male, non può avere neppure un principio di esistenza, come non esiste un individuo senza almeno le parti principali del suo corpo. Il diritto costituzionale del c.d. Stato assoluto o dispotico sarà poco sviluppato; si concreterà in una sola istituzione fondamentale, quella del suo sovrano; sarà regolato da poche norme che, esagerandone e stilizzandone la figura tipica, si potranno ridurre magari soltanto a quella che dichiarerà l’appartenenza al sovrano di tutti i poteri; ma almeno questa norma non potrà mancare e non essere giuridica, se su di essa si impernia per intero quell’ordinamento giuridico quale è sempre, per sua indeclinabile natura, lo Stato”  Diritto costituzionale generale, Milano 1947, p. 3

[42] Antidühring, trad. it. Roma 1971, p. 297 Alla logica della produzione capitalista, si può asssimilare quella conseguente al carattere privato dell’attività gestita dallo Stato.

[43] Questo non significa che poi l’annessione di servizi, funzioni, aree di azione private al pubblico, non venga utilizzata a fini politici – anche e soprattutto di politica di partito, come l’acquisizione di consenso, l’erogazione di rendite politiche e atro, che Miglio ricorda con acuto realismo.

[44] Così tipici ne sono stati le aziende municipalizzate e gli enti pubblici economici, e il relativo rapporto di lavoro con i dipendenti, indistinguibile da quello del settore privato.

[45] Tipica, tra tante quella di Commissario agli enti locali.

[46] Cfr. Schmitt C. Der Begriff des politischen, trad it. ne Le Categorie del politico, Bologna 1972, 104.

[47] E prosegue: “La necessità del raggiungimento di tale fine, che può, in via di prima approssimazione, ricondursi a quello della pacifica coesistenza e dello sviluppo dei vari soggetti appartenenti al gruppo, induce l’ente ad assumere di volta in volta compiti svariatissimi, anche culturali o religiosi o sportivi, ecc. e in misura e con l’estensione delle più varie… ne segue che ogni mutamento che si verifichi in ordine all’assunzione o all’abbandono di compiti particolari non determina la trasformazione dell’ordinamento, non muta la sua natura di ente ai fini generali, o, come anche e più comunemente si dice, di ente «politico»”, Istituzioni di diritto pubblico, Padova 1972, pp. 19 ss.

[48] A proposito di tutte queste immunità Vittorio Emanuele Orlando scriveva “che fra gli organi onde lo Stato manifesta la sua volontà e la attua, uno ve ne sia che su tutti gli altri sovrasta, superiorem non recognoscens, e che non potendo appunto ammettere un superiore (chè allora la potestà suprema si trasporterebbe in quest’altro) deve essere sottratto ad ogni giurisdizione e diventa, per ciò stesso, inviolabile ed irresponsabile, è noto”; e  Santi Romano nel trattare delle immunità parlamentari sosteneva «Il fondamento di tutte queste immunità dei senatori e dei deputati è da ricercarsi non soltanto nel bisogno di tutelare il potere legislativo da ogni attentato del potere esecutivo e nella convenienza di non distrarre senza gravi motivi i membri del Parlamento dall’esercizio delle loro funzioni, ma nel principio più generale dell’indipendenza  e dell’autonomia delle Camere verso tutti gli altri organi e poteri dello Stato: di tale principio esse costituiscono una delle varie applicazioni o, meglio, una particolare guerentigia» Santi Romano, Corso di diritto costituzionale,  Padova 1928, 222.

[49] Diceva Mortati alla costituente “La necessità di includere nella Costituzione alcune norme riguardanti la pubblica amministrazione sorge per due esigenze. Una prima è quella di assicurare ai funzionari alcune garanzie per sottrarli alle influenze dei partiti politici. Lo sforzo di una costituzione democratica, oggi che al potere si alternano i partiti, deve tendere a garantire una certa indipendenza ai funzionari dello Stato, per avere un’amministrazione obiettiva della cosa pubblica e non un’amministrazione dei partiti. A tale proposito la Costituzione di Weimar stabiliva che i funzionari erano a servizio della collettività e non dei partiti” v. in V. Carullo, La Costituzione della Repubblica italiana, Bologna 1950, p. 396.

[50] v. sulle garanzie istituzionali della burocrazia v. Carl Schmitt Verfassungslehre, trad. it. di A. Caracciolo, Milano 1984, p. 231.

[51] E prosegue: “Ho già utilizzato il termine di aiutanti. Questa definizione generica copre la funzione che svolge questo strato, il quale è molto vicino alla classe politica e sta fra quest’ultima, intesa in senso stretto e il seguito”, op. cit., p. 362.

[52] Ma chiarisce: “Già in Mosca e Pareto tuttavia la definizione di ‘classe dirigente’ denotava questa presenza, come appare anche in altri autori che hanno seguito questa linea di ricerca. Devo però dire che normalmente la politologia moderna privilegia l’interpretazione dicotomica”, op. loc. cit..

[53] “La domanda che ci si pone è: «Come ci si presenta scientificamente il problema della quantificazione del comando?». Posto che in ciascun sistema politico c’è chi comanda di più e chi comanda di meno, si possono fare rilevazioni scientifiche, scoprire le regolarità di questa quantificazione del comando?”, op. cit., p. 364.

[54] “Colui che comanda di meno fa questo perché la sua discrezionalità nel prendere decisioni (abbiamo visto che esercitare l’autorità è decidere, prendere una decisione e il comando è ‘possibilità di decidere’ e di fare accettare queste decisioni), la sua possibilità di decidere, è limitata”, op. cit., p. 365.

[55] Op. cit., p. 370.

[56] Corso di diritto amministrativo, Milano 1954, vol. I, p. 146. E prosegue “L’ordinamento gerarchico è proprio esclusivamente delle pubbliche amministrazioni: gi organi legislativi, dato il numero ristretto e la fondamentale loro parità, non consentono alcuna applicazione del principio; quelli giudiziari, che pure sono ordinati per gradi, non presentano fra i medesimi quei poteri di direzione e di dipendenza, che sono propri del rapporto gerarchico. Nell’ordinamento amministrativo il principio è di applicazione generale” subito dopo specifica “Il rapporto di supremazia gerarchica ha per contenuto una serie di poteri dell’autorità superiore sugli organi dipendenti. Il più importante e fondamentale fra tali poteri è quello di dirigere e regolare l’attività degli inferiori per mezzo di norme generali e di ordini particolari. Le prime, dette norme di servizio, circolari e istruzioni, nonostante la loro generalità, non hanno mai valore di norme giuridiche nel senso stretto della parola” (infatti si basano, per l’appunto, sul rapporto gerarchico stricta sensu) “Il potere dei superiori di comandare, sia con tali atti sia con ordini particolari, implica il dovere degli organi dipendenti di obbedire a tali comandi” e oltre a questo vi sono “altri poteri compresi nel rapporto di supremazia gerarchica, che pel momento ci limitiamo ad enumerare:

  1. a) il potere di risolvere i conflitti di competenza, positivi o negativi, che eventualmente sorgano fra due o più autorità dipendenti;
  2. b) il potere di decidere i ricorsi amministrativi presentati contro gli atti delle autorità inferiori; e di annullare, in caso di accoglimento, i provvedimenti di queste;
  3. c) la facoltà di delega e di avocazione, nei casi eccezionali in cui tali facoltà sono espressamente consentite;
  4. d) il potere di sostituzione dell’azione dell’inferiore, quando questo, avendo l’obbligo di provvedere, non abbia provveduto” (i corsivi sono nostri).

[57] Tra i tanti che l’hanno affermato ricordiamo G.D. Romagnosi, Scienza delle costituzioni, Firenze 1850, p. 190; Max von Seydel in Principi di una dottrina generale dello Stato (trad. it.) Torino 1902, vol.. VIII della Biblioteca di Scienze politiche e amministrative, Torino 1902, pp. 1153-1161.

[58] “La gradazione delle norme, come anche quella delle funzioni e degli atti, non proviene dal grado di qualità inerente ad ogni specie di norma presa in se, ma dal grado di potere degli organi o delle autorità da cui la norma è stata emanata, dalla funzione esercitata o dall’atto compiuto. In altri termini, il percorso graduale e successivo che si osserva nella elaborazione del sistema di norme dello Stato moderno non ha la sua causa primaria nella gradazione, naturale o logica, delle norme stesse considerate nel rapporto che collega le une alle altre, ma per gradazioni di norme bisogna intendere una gradazione che ha la sua causa effettiva nelle considerazioni organiche alle quali è sottomessa, secondo l’ordine giuridico positivo, la formazione del diritto” La teoria gradualistica del diritto (trad. it.) Milano 2003, p. 38. É chiaro che Carrè de Malberg scrive dell’organizzazione generale dello Stato e non (solo) di quella della pubblica amministrazione.

[59] “Essenziale nel concetto di gerarchia è quindi l’idea di potere, sacro o profano, ordinato per gradi, nel governo della cosa pubblica, religiosa o civile; e questa idea centrale si può dire permanga anche nella moderna letteratura giuridica; ma in questa il concetto subisce una specificazione, venendo riferito al governo delle persone giuridiche pubbliche, in contrapposto al concetto di autarchia; ed uno sdoppiamento, essendo passato ad indicare, molto spesso, per metonimia l’ordine per gradi dei pubblici funzionari ed impiegati” Teoria giuridica dell’organizzazione dello Stato, Padova 1931, p. 277.

[60] v. “Ogni pensiero giuridico lavoro tanto con regole, che con decisioni, che con ordinamenti e strutture. Ma la concezione finale – per quanto riguarda la scienza giuridica – dalla quale sono derivate giuridicamente tutte le altre, è sempre e soltanto una: o una norma (nel senso di regola e legge), o una decisione, o un ordinamento concreto… In base alla diversa importanza riconosciuta, nel pensiero giuridico, a ciascuno dei tre concetti specificamente giuridici e in base alla successione per cui l’uno viene dedotto dall’altro oppure ricondotto ad esso, si distinguono i tre tipi di pensiero fondati sulla regola o sulla legge, sulla decisione o sull’ordinamento e la struttura concreta” I tre tipi di pensiero giuridico in Le categorie del politico, Bologna 1972, p. 247.

[61] Précis de droit constitutionnel, cit., p. 74 ss.

[62] E prosegue poco dopo “Se così è, il momento giuridico, nell’ipotesi accennata, deve ritenersi, non nella norma, che manca, ma nel potere, nel magistrato, che esprime l’obiettiva coscienza sociale, con mezzi diversi da quelli che sono propri di ordinamenti  più complessi e più evoluti” L’ordinamento giuridico, cit., pp. 20-21.

[63] Dall’altro lato “il n’y a pas pour l’individu exposé à l’effet du poivoir disciplinaire obligation préétablie de le subir, du moins il ‘y a pas obligation juridique, il n’y a qu’un devoir moral ou un deovir professionnel ; le pouvoir disciplinaire se présente comme una force à laquelle on obéit ou à laquelle on résiste à ses risques et périlsPrincipes de droit public, p. 139.

[64] D’altra parte, con parole diverse, concezioni simili sono state variamente espresse dalla dottrina. Carrè de Malberg, a proposito degli actes de gouvernement scrive “ciò che caratterizza, di converso, l’atto di governo è proprio d’essere, a differenza degli atti amministrativi, svincolato dalle necessità d’abilitazione legislativa e  deciso dall’autorità amministrativa con un potere d’iniziativa libera in virtù di un potere proprio e che deriva da una fonte diversa dalle leggi; di guisa da poter qualificare (la funzione di) governo, almeno in tal senso, come indipendente dalle leggi e che esiste una determina sfera di attribuzioni, ch’è precisamente quella del governo, all’interno della quale esso occupa una posizione costituzionale analoga a quella del legislatore, nel senso che, proprio come il parlamento, trae i propri poteri relativi a queste attribuzioni direttamente dalla Costituzione” Carrè de Malberg, Contribution à la theorie générale de l’État, tome I, Paris 1920, 526; o P. Barile, scrivendo degli atti politici i cui caratteri dipendono dalla natura delle cose v. Enc. dir. IV, Milano 1959, pp. 220 ss.

[65] L’essence du politique, Paris 1965, p. 270.

[66] v. “1° Protéger la société individualiste par son gouvernement, lui assurer la paix et l’ordre au dedans et au dehors par sa force armée. par sa diplomatie, par sa police, par sa législation, par ses tribunaux ; 2° La contrôler et lui rendre des services par son administration ; 3° Réprimer les écarts de l’individualisme par une organisation répressive et aussi par una oeuvre éducatricePrécis de droit constitutionnel cit., p. 49.

[67] v. Max Weber, op. cit., vol. I, p. 211. Onde la contaminatio con altri tipi non rende inutile l’elaborazione del concetto.

[68] Con la differenza tra i tre concetti che non ne alterano il connotato comune, di essere “al di là” del diritto.

[69] “Rapporto giuridico è, infatti, l’interdipendenza delle azioni di due soggetti (o «persone» in senso giuridico), stabilita da una norma in guisa che uno di essi sia titolare di un diritto verso l’altro e l’altro sia investito di un obbligo verso il primo. Così concepito, il rapporto giuridico è veramente la cellula primitiva e il nucleo irriducibile di ogni realtà sociale” v. Widar Cesarini Sforza, Il diritto dei privati, Milano 1963, p. 11.

[70] É la nota affermazione di I. Kart, il quale specifica che il Sovrano non ha doveri coattivi, v. Metaphisyk der Sitten, trad. it. Bari 1973, p. 149; il principio era stato già enunciato da S. Tommaso Summa Theologica I, II, q. 96, art. V  “Il principe si dice svincolato dalla legge quanto alla forza coattiva della legge stessa; poiché nessuno propriamente può essere costretto da se stesso, e la legge non ha forza coattiva se non per l’autorità del principe. Si dice dunque che il principe è svincolato dalla legge, poiché nessuno può condannarlo se opera contro la legge… Il principe è poi al di sopra della legge in quanto, se è opportuno, può mutarla o dispensare da essa in un certo luogo o in un certo tempo”” v. Antologia politica, Torino, s.d., p. 66.

[71] A tale proposito anche il mero depotenziamento del potere giudiziario rispetto a funzioni (funzionari, situazione, atti) pubblici può essere considerato esatto il profilo della salvaguardia del rapporto di comando-obbedienza, e della “catena di comando”. Già Tocqueville nell’Ancien Régime et la Révolution, in particolare a proposito della giustizia (e della garanzia) amministrativa, ironizzava dicendo che non si avvertivano grandi differenze tra la prassi dell’ancien règime e la legislazione post- rivoluzionaria, ambedue rivolte a salvaguardare il potere politico e amministrativo delle ingerenze giudiziarie (v. op. cit., trad. it., Milano 1981, p.91 ss.). Ma tale chiave di lettura è anche applicabile ai rapporti tra la giustizia (in particolare il Giudice ordinario) e la pubblica amministrazione, dall’unificazione italiana in poi.

In effetti l’all. E alla L. 2248/1865, sia per il dettato, ed ancor più per l’interpretazione prevalente che ne fu data, consente  una cognizione “ridotta” nei confronti della P.A.; in particolare non consente che sia comandato un facere specifico né che l’atto amministrativo venga annullato, ma solo disapplicato, né che fossero presi provvedimenti possessori, ecc. ecc., tutte deroghe che contrastano con la pienezza della tutela giudiziaria accordata tra privati (in situazione di parità) e volte a salvaguardare, per lo più, le situazioni di fatto create dall’attività della P.A..

[72] É interessante notare che uno dei punti di contatto (e di frizione) tra politico e diritto nel Rechtstaat (ma non solo) sia la c.d. giustizia politica, allorquando – specie in materia penale – il Giudice deve decidere su rapporti e soggetti politici. La politicità della materia fa si che questa giustizia abbia carattere derogatorio, sempre più evidente man mano che la posizione del giudicando sale nella scala gerarchica, di guisa da creare una rete di protezione a favore della funzione politica e in particolare del rapporto di comando-obbedienza, necessario al mantenimento e alla conservazione dell’ordine politico della comunità. Affermare che il tutto è in contrasto con il principio d’eguaglianza di fronte alla legge (isonomia) è esatto: ma è anche vero che nessun ordine sarebbe possibile, e ancor meno un ordine democratico, se anche i governanti “supremi” fossero  incarcerabili da magistrati ordinari, secondo le procedure ordinarie. La posizione “gerarchica” si riflette non solo nel potere di comando , ma anche nell’irresponsabilità assoluta (“la persona del Re è sacra e inviolabile” art. 4 dello Statuto Albertino) o relativa, sia sostanziale (come per tipi di reato punibili) o processuale (autorizzazioni a procedere, organi giudicanti speciali e così via).

[73] Scriveva a tale proposito Cesarini Sforza che “gli statuti e i regolamenti dei corpi sociali stabiliscono, di consueto, a quale organo sociale competa l’applicazione delle punizioni disciplinari… il potere disciplinare – cioè la potestà spettante ai capi di un corpo sociale di punire l’associato che sia incorso nella violazione di un obbligo sociale – è la manifestazione più evidente del carattere imperativo degli ordinamenti giuridici privati”, op. cit., p. 80 ss.

[74] É interessante notare che nel pensiero di Montesquieu la “giustizializzazione” del rapporto di comando non era neppure cennata (per l’ovvia considerazione che non esisteva né giustizia amministrativa né quella costituzionale moderna) “Quando Montesquieu nell’Ésprit des lois inizia ad esporre la teoria della distinzione dei poteri scrive: «Esistono, in ogni Stato, tre sorte di poteri: il potere legislativo, il potere esecutivo delle cose che dipendono dal diritto delle genti, e il potere di quelle che dipendono dal diritto civile.

In base al primo di questi poteri, il principe o il magistrato fa delle leggi per sempre o a termine, e corregge o abroga quelle esistenti. In base al secondo, fa la pace o la guerra, invia o riceve delle ambascerie, stabilisce la sicurezza, previene le invasioni. In base al terzo punisce i crimini, o giudica le liti dei privati. Quest’ultimo potere sarà chiamato il potere giudiziario, e l’altro, semplicemente, potere esecutivo dello Stato»”.

[75] Op. cit., p. 153 ss.

[76] Tale distinzione riecheggia in quella di Miglio “Politica e vocazione dell’animale uomo presentano un nesso molto stretto. Ecco perché un filosofo come Aristotele scrisse che l’uomo è uno zoon politikon. É qui il nesso fra politica e uomo: non si tratta affatto del nesso della ‘socialità’, che è qualcosa di completamente diverso e proprio la differenza fra queste due dimensioni potrà essere messa in luce dallo studio dell’oggetto dell’obbligazione ‘contratto-scambio’, in quanto distinto da quello dell’‘obbligazione politica’” op. cit. p. 160

[77] Scriveva V. E. Orlando “Il diritto suppone sempre, come sua essenza, una «norma» regolatrice dei rapporti sociali cui dan luogo così gl’interessi dei singoli (diritto privato) come quelli della collettività considerata in se stessa e nei suoi rapporti coi sudditi (diritto pubblico)” Diritto pubblico generale, Milano 1954, p. 69.

[78] Du Pape, Lib. II, cap. III.

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UCRAINA RUSSIA 32A PUNTATA il conflitto e la società Con Max Bonelli e Flavio Basari

Oggi continueremo a parlare del conflitto in Ucraina attraverso alcune immagini significative. Soprattutto, vi racconteremo della Russia e dei russi. Di un’altra Russia, diversa dalla scarna e faziosa narrazione che ci viene propinata. Cercheremo di constatare di aver eletto senza ragione un paese ed un popolo a nemico. Non solo! Di averne sottovalutato, a dispetto degli insegnamenti dai precedenti storici, la forza morale, la determinazione, la coesione e la capacità di adattamento. Un errore ancora non del tutto irreparabile, la cui protrazione rischierà di portare in casa propria quel collasso che il mondo occidentale, gli statunitensi in particolare, sta cercando di procurare in quel paese. Buon ascolto, con l’attenzione che meritano il contenuto e la statura dei partecipanti. Giuseppe Germinario

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VIVA LA MORIA 2.0, di Teodoro Klitsche de la Grange

VIVA LA MORIA 2.0

Quando, quasi tre anni orsono, si iniziò a parlare del PNRR scrissi un articolo, dal titolo uguale, nel quale ricordavo quanto scriveva Manzoni «che nella Milano appestata i monatti – addetti al trasporto dei malati al lazzaretto e dei cadaveri al cimitero – brindavano allegramente ripetendo “Viva la moria!”, dato che l’epidemia garantiva agli stessi un lavoro continuo e remunerativo, e la connessa possibilità di rubare e di estorcere denaro a malati e parenti». E che quel gran parlare di novità, di ricostruzione, di generosità europea poteva diventare l’ouverture di una prossima grande abbuffata. Già Conte, allora Presidente del Consiglio diceva che le spese relative dovevano essere decise e distribuite. Che un tale programma fosse il miele per attrarre un nugolo di tax-consommers era chiaro; come lo era che gli stessi si sarebbero fatti in quattro per «come dicono in Spagna buscar un lugar en el presupuesto, ossia a trovare una nicchia nel bilancio ed essendo questo all’uopo abbondantemente fornito, hanno una ricerca facile». Cattiva prospettiva per il contribuente italiano, cui sarebbe comunque toccata la parte di Brighella “che fa le spese”.

Ad alleviare i dubbi del suddetto Brighella fu anche detto che l’inquinamento (la riduzione del quale era il principale obiettivo del PNRR) aveva aiutato la diffusione del virus. Tesi poco ripetuta, forse perché spericolata.

Da notizie di stampa emerge che tra le spese finanziate dal PNRR ci sarebbero piste ciclabili, campi di padel, strutture per l’assistenza anche ai migranti, ecc. ecc. Tutte cose magari (si spera), non tanto incidenti sulla spesa complessiva, ma le quali più che ad una (necessaria, anzi indispensabile) ripresa economica, sembrano rivolte a finanziare opere ed interventi del tutto marginali, e poco o nulla suscettibili di aumentare reddito, produttività, competitività degli italiani e dell’Italia. Cioè di tutte le belle parole con cui hanno condito anche le finalità del PNRR.

Per cui non appare errato procedere alla revisione enunciata dal governo. Sperando che, essendo fatta da un governo diverso, non ripeta le “gesta” dei precedenti.

Teodoro Klitsche de la Grange

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PD E LEGITTIMITÁ IN SALITA, di Teodoro Klitsche de la Grange

PD E LEGITTIMITÁ IN SALITA

C’è un “nocciolo duro” che collega il processo di decadenza della classe dirigente della “Seconda repubblica” e in particolare il PD, confermato dalle ultimi elezioni regionali, tutte perse dall’opposizione e l’ultima rovinosamente  (Fedriga ha riportato più del doppio dei voti del candidato PD-M5S ed altri): è la perdita di legittimità delle élite in disfacimento.

L’ironia della Storia ha fatto sì che, con le ultime elezioni politiche il primo partito e la Presidente del Consiglio della “Repubblica nata dalla resistenza” siano gli eredi di coloro che la resistenza l’avevano combattuta e dall’ “arco costituzionale” erano esclusi. Così che attualmente, contrariamente alle litanie ripetute da decenni, la volontà popolare ha rifiutato l’armamentario propagandato – fino a qualche anno fa confortato dal consenso – dal 1945. In un certo senso ha disconosciuto la paternità.

Questo, indipendentemente dal fatto che la “tavola dei valori” che  ispira la nostra costituzione, da non identificare con quella propagandata per decenni dalla sinistra (e non solo) che ne costituisce una versione parziale e ad “usum delphini”, non abbia ancora una sua legittimità, nel senso di una diffusa condivisione.

Gli è che, come scriveva Thomas Hobbes, l’essenza del rapporto politico e quindi del comando-obbedienza, è che chi pretende il comando deve dare protezione (effettiva). Con la conseguenza che se quella protezione non viene data cessa anche l’obbligo di obbedire. Questo è asserito dal filosofo di Malmesbury proprio nell’ultima pagina del Leviathan: di aver scritto il trattato “senza altro scopo che di porre davanti agli occhi degli uomini la mutua relazione tra protezione ed obbedienza; alle quali la condizione della natura umana e le leggi divine – tanto naturali che positive – richiedono un’osservanza inviolabile”.

E nelle pagine precedenti del Leviathan ci dà un saggio di ciò che non da protezione e quindi non serve a pretendere obbedienza. “Casistica” che ha più che qualche carattere di somiglianza con quanto praticato (anche) dalle élite decadenti, e ancor più con i cattivi risultati della loro azione di governo. Ad esempio quando Hobbes paragona la Chiesa cattolica al regno delle fate (e gli ecclesiastici alle fate) anche perché “Quale specie di moneta abbia corso nel regno delle fate non è detto nella storia; ma gli ecclesiastici  invece accettano nelle loro riscossioni la moneta, che noi coniamo, benché, quando debbano fare qualche pagamento, li facciano consistere in canonizzazioni, indulgenze e messe” e così i chierici non lavorano, ma come le fate, vivono approfittando del lavoro degli altri, banchettando con la crema del latte munto dai fedeli (o – per il potere temporale – dai sudditi).

C’è più di un’analogia con i trasferimenti di ricchezza, da tax-payers a tax-consommers operati dai governi delle élite, o ancor più con la predazione diretta (e indiretta) connessa; senza trascurare che ad ogni salasso si accompagna una enunciazione di buone intenzioni, e ancor più lo “scambio” di beni con chiacchiere.

Oppure quando Hobbes mette in guardia dall’insistere nel giustificare l’esercizio del potere col richiamo al titolo giuridico (successione, conquista, consuetudine), invece che all’effettività e risultati ottenuti. O, in senso contrario, col giustificare il proprio potere condannando le malefatte del regime precedente (invece dei risultati propri).

Il potere pubblico, assai più che ai tempi di Hobbes, ha giustificato dallo scorcio del XIX secolo il proprio intervento e così la pubblicizzazione di attività private (soprattutto nell’economia) con gli effetti in termini di sicurezza del futuro. Ma i risultati italiani nell’ultimo trentennio, quando l’influenza del PD (e predecessori) è stata determinante, sono i peggiori dell’area UE (ed euro). Onde i risultati di un’azione di governo esteso all’economia sono pessimi, e pertanto non c’è legittimità “di scambio” (protezione/obbedienza) che possa confortarla. Non resta che rivolgersi ad una legittimità fondata sulle intenzioni conformi a certi valori. Ciò ha un doppio limite: che quei valori debbano essere condivisi dalla maggioranza e, di conseguenza – e a lato – debbano essere ragionevoli.

Tuttavia condivisione ce n’è poca (v. risultati elettorali) e ragionevolezza (nel senso di obiettivi effettivamente alla portata di un’azione di governo) non di più.

Non si capisce infatti come insistere nel primario obiettivo di tutela dei c.d. “diritti umani” di esigue minoranze posponendo loro i “diritti sociali” conseguiti nel XX secolo sia produttivo di consenso, soprattutto maggioritario. Significa scambiare (con gioia?) parte dello stipendio e della pensione per promuovere le unioni tra omosessuali, l’utero in affitto, ecc. ecc. Che ci guadagna la stragrande maggioranza?

Quanto alla ragionevolezza va tenuto conto che il marxismo ha provato il carattere totalmente immaginario del proprio  esito ultimo: la società comunista, cioè il paese dei balocchi. Ma il vizio non è stato perso.

Alla natura umana e all’ordine politico sono connaturali due caratteri: la paura della morte e la preoccupazione per il futuro.

Ambedue strumenti di governo (e di accettazione – consenso) del potere politico. Quanto al primo c’è stato il tentativo di sfruttare come instrumentum regni il Covid, e poi la guerra russo-ucraina. Quest’ultima, contraddittoriamente (per la sinistra) quale lesione alla libertà e sovranità di popolo.

Ma quale beneficio ne abbia tratto il PD (e soci) non si vede.

Quanto all’ansia per il futuro: ossia (anche) della sicurezza economica (propria e di tutti): ma non si capisce quanta tranquillità agli italiani impoveriti possa venire (sia dai risultati che) dalle intenzioni dichiarate di un partito preoccupato di tutt’altro (LGTB et similia).

Hobbes scriveva che concepire il futuro presuppone l’esperienza del passato “Un concetto del futuro è solo una supposizione circa il medesimo derivante dal ricordo di ciò che è passato; e noi, in tanto concepiamo che qualcosa avverrà di qui in avanti, in quanto sappiamo che c’è qualcosa al presente che ha il potere di produrla. E che qualche cosa abbia al presente il potere di produrre in avvenire un’altra cosa, non possiamo concepirlo, se non grazie al ricordo che esso abbia prodotto la stessa cosa già altra volta”. Ricordo che non è dei migliori.

Teodoro Klitsche de la Grange

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Un’americana di sinistra eletta in Italia, di Carlo Lancellotti

https://www.ncregister.com/commentaries/an-american-leftist-gets-elected-in-italy

 

Un’americana di sinistra eletta in Italia

COMMENTO: Cosa dice l’ascesa di Elly Schlein sul nostro attuale momento politico.

di Carlo Lancellotti[1]

La stampa americana mainstream non presta generalmente molta attenzione alla politica italiana, se non, forse, per ridicolizzare le buffonate dell’ex premier Silvio Berlusconi o per temere il ritorno del “fascismo”. Per questo, qualche settimana fa, ero curioso di vedere come avrebbero trattato l’elezione di Elly Schlein alla guida del Partito Democratico, la principale formazione politica italiana di sinistra. Dopo tutto, Schlein è la prima americana a guidare un importante partito politico italiano e ad essere un possibile futuro primo ministro.

 

Anche questo non è bastato ad attirare l’interesse dei media statunitensi, ma mi è sembrato significativo.

 

Quando descrivo la Schlein come “americana”, non mi riferisco solo al fatto che è cittadina statunitense e che suo padre è di New York (è un politologo che ha sposato un’italiana e ha cresciuto la sua famiglia in Svizzera). Intendo anche dire che la sua politica è americana: Ha imparato a fare politica come attivista nelle campagne presidenziali di Obama e le sue idee corrispondono perfettamente agli standard della sinistra sociale americana di oggi.

 

Le cause “sacre”, quelle che non possono essere messe in discussione e che segnano la divisione definitiva tra amici e nemici, sono quelle che riguardano i “diritti” individuali. Poi ci sono il riscaldamento globale e altre questioni ambientali e la condizione degli immigrati. Infine, vuole istituire un salario minimo e regolamentare la “gig economy” italiana.

 

Tuttavia, anche gli assi economici della sua piattaforma non sembrano pensati per proteggere la “vecchia” classe operaia, il tradizionale bacino di utenza della sinistra. Piuttosto, sono stati pensati per soddisfare le esigenze di quella che definirei la “classe professionale aspirante”, ovvero le persone più giovani, tipicamente urbane e ben istruite come lei, che non riescono a trovare un numero sufficiente di posti di lavoro a tempo pieno nel settore dei servizi.

 

Anche il personaggio di Schlein sarà familiare ai lettori americani. È una donna relativamente giovane (37 anni), una stereotipata “millennial”. Appartiene alla classe media professionale benestante (entrambi i genitori sono professori universitari), ha frequentato buone scuole, ha vissuto in più Paesi (possiede tre passaporti), è aconfessionale e bisessuale (attualmente vive con un’altra donna). Schlein si descrive come una progressista-femminista-ambientalista “intersezionale”. Sembra vivere in un mondo di assoluta chiarezza morale, in cui è dalla parte degli angeli e lotta per la “giustizia sociale e ambientale”.

In breve, appartiene a un “tipo” che si trova in tutto il mondo occidentale, ma che ha raggiunto la sua “perfezione platonica” negli Stati Uniti. Si potrebbe quindi dire che la sua ascesa conclude l'”americanizzazione” della sinistra italiana, un processo che probabilmente è iniziato negli anni Settanta, quando il Partito Comunista Italiano ha rinunciato alla rivoluzione marxista e ha accettato di far parte dell'”Occidente” – intendendo la nuova politica laica e neocapitalista che si era sviluppata in Nord America e in Europa durante la Guerra Fredda.

 

L’elezione di Schlein ha spinto molti editorialisti italiani a citare il defunto pensatore cattolico Augusto Del Noce, il quale aveva notoriamente previsto che la sinistra post-comunista sarebbe diventata un “partito radicale di massa”, cioè un partito liberale di stampo americano investito nei diritti individuali e nella politica culturale. Del Noce, ovviamente, non poteva prevedere che un giorno il leader stesso della “nuova” sinistra italiana sarebbe stato di origine americana, ma certamente lo avrebbe trovato simbolico.

 

Se dovessi scegliere una parola per descrivere Schlein e la cultura che rappresenta (che è, essenzialmente, la cultura “liberale” dominante dell’Occidente), sceglierei borghese. Decenni fa, quando il mondo di oggi stava prendendo forma, pensatori come Jacques Ellul e lo stesso Del Noce usavano questa parola per indicare una visione dell’umanità incentrata su un’idea individualistica e mondana di felicità. Il borghese è l’uomo (o la donna) che acquista e utilizza sistematicamente beni materiali, ma anche esperienze e relazioni, per raggiungere il “benessere”. Per lui/lei l'”altro” deve essere in definitiva uno strumento, perché la sua identità è per così dire autosufficiente. Può “aver amato molti uomini e donne” (come ha detto Elly Schlein di se stessa in un’intervista), ma in definitiva c’è una distanza tra le persone che non può essere colmata perché ognuno è un “cercatore di felicità” atomico.

 

Questa visione del mondo dovrebbe essere contrapposta a quella cristiana, in cui gli esseri umani portano un’immagine della Trinità e, quindi, la felicità è intrinsecamente relazionale: Siamo letteralmente costituiti dalle nostre relazioni con altre persone (ad esempio, i nostri genitori) e raggiungiamo la nostra realizzazione finale nella relazione con Dio. Questa è l’idea di beatitudine, che è in un certo senso l’opposto dell’idea borghese di felicità. Come dice Del Noce nel suo libro L’età della secolarizzazione, “se l’uomo non partecipa affatto a qualche forma di ragione o di valore assoluto, se non si trova unito agli altri uomini da un legame ideale, allora non può vedere nella natura o negli altri uomini altro che ostacoli o strumenti per la propria realizzazione”. Basta ricordare l’antica idea che l’amore umano è infinito e non può essere saziato da alcun bene finito”.

Del Noce aggiunge:

 

“Ora, l’idea di benessere […] non è altro che la trasposizione della beatitudine agostiniana dalla dimensione verticale al piano orizzontale. L’ascesa a Dio è sostituita dall’idea della conquista del mondo, del diritto del singolo soggetto a [possedere] il mondo. Questo diritto non ha limiti perché, essendo stato chiamato nel mondo senza la sua volontà, il soggetto sente di avere diritto a una soddisfazione infinita nel mondo stesso, quasi come una compensazione per questa chiamata. Ma, naturalmente, un singolo uomo non può realizzare interamente questa conquista. Può fare degli altri i suoi strumenti, ma facendosi a sua volta strumento; e questa strumentalizzazione reciproca, questa collaborazione senza fini ideali, è ciò che oggi si chiama “socialità”. […] L’uomo del benessere sperimenta un surrogato di libertà, non più nella liberazione dai bisogni e dagli interessi inferiori e percepibili, ma nella reciprocità del processo erotico”.

 

La differenza tra le due visioni può essere facilmente individuata in ambito politico.

 

Schlein, ad esempio, è favorevole al monopolio pubblico dell’istruzione, perché è chiaro che lo Stato dovrebbe “proteggere” i bambini (in quanto individui borghesi in erba non ancora pienamente in grado di scegliere la propria religione, il proprio sesso e così via) dall’invasione della propria famiglia. L’esempio più emblematico, naturalmente, è l’aborto, su cui Schlein ha posizioni estreme e “americane”. La mente borghese non può letteralmente elaborare una situazione in cui due vite umane sono così radicalmente intrecciate che una dipende interamente dall’altra. Subisce quindi una sorta di “cortocircuito” e per affermare il diritto alla felicità di un individuo è costretta a negare il diritto stesso all’esistenza dell’altro.

 

Schlein è, a mio avviso, un esempio perfetto di un fenomeno cruciale della politica contemporanea: Negli ultimi decenni, lo spirito borghese ha trovato la sua casa politica a sinistra più che a destra. Ha persino cooptato il tradizionale linguaggio marxista della liberazione rivoluzionaria, salvo usarlo prevalentemente per combattere “guerre culturali” e difendere gli interessi di gruppi non economici (definiti da razza, sessualità, identità di genere, ecc.). Anche se in Italia persone come la signora Schlein hanno spesso nonni comunisti e hanno ereditato da loro molte idee marxiste, non sono marxisti in senso classico. La loro utopia è strettamente individualista e borghese.

 

In conclusione, resta da vedere se Schlein sarà in grado di risollevare le sorti elettorali della sinistra e di formare un governo qualche anno dopo. Analogamente a quanto accade negli Stati Uniti, i cattolici italiani hanno risposto alla sua elezione dividendosi lungo linee ideologiche, esprimendo opposizione o cercando di trovare un terreno comune, scegliendo le “questioni” che sostengono la loro preferenza.

 

A prescindere da chi abbia ragione (personalmente penso che sarebbe un pessimo primo ministro), vorrei che tutti fossero più consapevoli della visione del mondo che rappresenta, perché tale consapevolezza è il presupposto per un’opposizione intelligente e per qualsiasi tipo di dialogo.

[1] Carlo Lancellotti è professore di matematica presso il College of Staten Island e membro del programma di fisica del CUNY Graduate Center. Oltre alla sua attività di studioso di fisica, ha tradotto in inglese e pubblicato tre volumi di opere del defunto filosofo italiano Augusto Del Noce. Lancellotti ha scritto anche saggi su Del Noce e su altri argomenti, apparsi su Communio, Public Discourse e Church Life Journal. V. anche http://delnoceinenglish.org .

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Capire cosa sta succedendo in Francia, di Aurelien

Articolo interessante, ma con una breve chiosa. Il movimento dei “Gilet Gialli” non era promosso e organizzato da organizzazioni politiche o politico-sindacali, ma aveva agganci importanti con centri di apparati statali, specie militari. L’attuale movimento è diretto, al momento, dalle tradizionali organizzazioni sindacali; le sue dimensioni e il livello di insoddisfazione potranno spingerlo facilmente fuori dai recinti canonici della protesta, senza intravedere offerte alternative visibili di organizzazione politica. Giuseppe Germinario

https://aurelien2022.substack.com/p/understanding-whats-happening-in?utm_source=post-email-title&publication_id=841976&post_id=109974339&isFreemail=true&utm_medium=email

Capire cosa sta succedendo in Francia.

In seguito potrebbe venire la fase cinetica

di Aurelien 23 marzo 2023

Quasi sicuramente avrete letto o visto qualcosa sul caos politico che regna attualmente in Francia. Non è solo importante in sé, ma anche come potenziale indicatore di ciò che potrebbe accadere in altri Paesi. Ecco come capire cosa sta succedendo: la situazione non è semplice, ma questa spiegazione include le cose che di solito vengono tralasciate.

 

Per cominciare, qual è il problema più grande che la Francia deve affrontare in questo momento? Si potrebbe pensare all’inflazione, al forte aumento del costo dei generi alimentari e al vertiginoso aumento del prezzo del carburante che costringe alcuni ristoranti e negozi a chiudere e rende sempre più difficile per le persone stare al caldo. Si potrebbe pensare alla disoccupazione, alla povertà, alle fabbriche che chiudono, ai posti di lavoro inviati all’estero, alla corruzione nella vita politica a tutti i livelli, agli effetti dell’immigrazione incontrollata, al declino catastrofico del sistema educativo e al collasso del servizio sanitario. Oh, e si potrebbero includere il riscaldamento globale, i continui effetti del Covid e le conseguenze della guerra in Ucraina.

 

Naturalmente non è un elenco completo, ma per ora è sufficiente. Quindi, tra tutti questi, qual è l’argomento o gli argomenti principali del Presidente francese Emmanuel Macron? Cosa lo tiene sveglio di notte e su quale argomento è pronto a giocarsi la reputazione e persino la sopravvivenza politica?

 

Se siete stati attenti, saprete che la risposta corretta è “nessuno dei precedenti”. L’ossessione di Macron, da ben prima della sua seconda incoronazione nel 2022, è stata quella di far aspettare i francesi più poveri diversi anni in più prima di poter riscuotere la pensione.

 

Data l’acrimonia, il conflitto e persino la violenza che questa proposta ha già provocato, nonché la crisi politica che si sta sviluppando anche mentre scrivo questo articolo, vale la pena cercare di spiegare non solo quali sono le questioni a breve termine, non solo come siamo arrivati a questo punto, ma anche quali potrebbero essere le conseguenze: perché ciò che sta accadendo oggi in Francia potrebbe accadere domani dalle vostre parti.

 

Cominciamo quindi con un po’ di storia. La crisi politica della Francia di oggi è il prodotto di un sistema politico che è ormai in disfunzione terminale, e probabilmente è vero che se la causa immediata non fossero state le pensioni, ci sarebbe stata un’altra causa.

La politica in Francia dalla Rivoluzione in poi è stata tradizionalmente binaria e dualistica. Prima repubblicani contro monarchici; poi, all’interno della confraternita repubblicana, liberali contro socialisti; all’interno del socialismo, marxisti contro non marxisti. E dal trionfo dei principi repubblicani dopo la Seconda Guerra Mondiale, la divisione fondamentale è stata “Sinistra” contro “Destra”. C’erano famiglie con una lunga tradizione di voto per il Partito Comunista, per esempio, e altre per i socialisti, e c’erano organizzazioni intermedie come i sindacati, esplicitamente legate a un partito o all’altro. La Chiesa aveva legami con alcuni partiti di destra. Ma i partiti politici francesi cambiano, declinano, muoiono, rinascono altrove, si dividono e a volte si uniscono, cambiando continuamente nome, ed è per questo che qui parlo di gruppi piuttosto che di nomi. Un francese anziano di oggi, se glielo chiedessimo, probabilmente direbbe semplicemente “sono di sinistra” o “sono di destra”. L’esatto partito per cui ha votato dipenderebbe dalle circostanze del momento.

 

La politica francese è altamente personalizzata e la maggior parte dei “partiti” sono in pratica raccolte di fazioni. Ad esempio, il “partito” di Macron all’Assemblea nazionale è in realtà una coalizione di diversi gruppi, noti collettivamente (almeno questa settimana) come “Ensemble”. Il partito di Macron, “Renaissance”, inizialmente battezzato “En Marche” dalle sue iniziali, poi successivamente “La République en Marche”, si è unito a “Horizons”, un partito guidato da Eduard Philippe, un rifugiato dalla destra che è stato il suo primo Primo Ministro, e a un paio di altri partiti del centro-destra. Non c’è nulla di strano in questo: la consistente maggioranza che i socialisti avevano nel 2012 derivava da un raggruppamento di tutta una serie di partiti, alcuni grandi, altri piccoli.

 

Ciò ha due conseguenze che potrebbero non essere ovvie per l’osservatore casuale. In primo luogo, se i partiti della stessa parte dello spettro politico si oppongono l’uno all’altro al primo turno di un’elezione, possono effettivamente impedirsi a vicenda di qualificarsi per il secondo. È quello che è successo nel 2002, quando la disunione del Centro e della Sinistra ha fatto sì che Jean-Marie Le Pen del Fronte Nazionale arrivasse al secondo turno, precedendo di poco il candidato socialista Lionel Jospin. In secondo luogo, poiché i partiti sono, in ultima istanza, coalizioni, possono essere fragili e i loro membri possono cambiare affiliazione. (Jean-Yves Le Drian, ministro della Difesa nel governo di Hollande del 2012, è stato eletto come socialista nel 2017, ma è passato rapidamente a Macron, diventando il suo ministro degli Esteri).

 

Fino a circa una generazione fa, il sistema funzionava comunque abbastanza bene. Il primo turno vedeva una profusione di partiti ampiamente di sinistra o di destra, il secondo turno vedeva il partito che aveva fatto meglio in ogni raggruppamento portare avanti da solo lo stendardo. Questo non sempre funzionava – ad esempio nelle elezioni locali, notoriamente complicate – ma nel complesso, un sistema politico binario in una cultura binaria, di solito produceva un risultato chiaro. Più di recente, il sistema ha iniziato a rompersi e Macron è sia il risultato che l’agente del suo ulteriore declino.

 

Il caso della sinistra è quello più noto e meglio compreso. Il potente Partito Comunista Francese, che era una sorta di governo parallelo in alcune parti del Paese e che poteva contare fino al 20% dei voti nelle elezioni presidenziali e legislative degli anni Cinquanta, si è ridotto quasi a nulla (meno di 50.000 membri secondo l’ultimo conteggio). I socialisti, che avrebbero potuto raccogliere questo voto, hanno invece voltato le spalle e si sono trasformati in un partito vagamente socialmente progressista della classe media urbana. Tuttavia, fino a un decennio fa, mantenevano un sostegno istintivo tradizionale e, quando nel 2012 Nicolas Sarkozy, in preda agli scandali, cercò di farsi rieleggere, il poco carismatico François Hollande, di fronte a una campagna di allarme rosso di dimensioni e cattiveria mai viste dagli anni Ottanta, riuscì a strappare una vittoria. A quel punto, i socialisti controllavano la presidenza, avevano preso il controllo dell’Assemblea nazionale e dominavano la scena del governo locale. La loro vittoria era completa e avrebbero potuto fare qualsiasi cosa. Non hanno fatto nulla. La maggior parte del tempo di Hollande è stata impiegata per gestire faticosamente la sua fragile alleanza e per lanciare ossi a vari gruppi di interesse sotto forma di legislazione sociale. La nemesi è arrivata nel 2017, quando il candidato socialista alla presidenza è stato eliminato al primo turno con il 5% dei voti, e la nemesi ha riservato un secondo calcio nelle palle per le elezioni del 2022, quando il candidato non è riuscito a raggiungere nemmeno il 2%. La “sinistra” nell’Assemblea Nazionale è ora un gruppo instabile di partiti con circa il 20% dei seggi, e con poca identità comune.

Questo per quanto riguarda la sinistra. La storia della destra è semmai ancora più complicata (qui una versione semplificata, che non sembra avere una traduzione in inglese) e i “Droites”, come gli studiosi francesi preferiscono chiamarli, hanno incluso tutto, dai neo-monarchici ai cristiano-democratici ai liberali di stile anglosassone, passando per decine di altre tendenze. Dopo lo shock dell’ingresso di Le Pen al secondo turno nel 2002, ci sono stati tentativi di unificare la destra in Francia, per evitare che accadesse lo stesso a loro. Questo tentativo è riuscito in parte con la creazione dell’UMP nel 2002, ma le differenze politiche e le velenose animosità personali che hanno sempre caratterizzato la destra hanno reso il tutto difficile da sostenere, e anche la destra tradizionale ha subito un declino, solo non così pubblico.

 

Nel 2017, la corruzione e il cinismo degli anni di Sarkozy e l’abissale fallimento della presidenza Hollande avevano prodotto uno stato d’animo di impazienza e rabbia nei confronti della classe politica che non si era mai visto prima durante la Quinta Repubblica. Ora, la tendenza normale della politica francese potrebbe essere descritta come una dialettica incompiuta: dalla tesi all’antitesi, di nuovo alla tesi, con poca sintesi. Di conseguenza, i cambiamenti nella vita politica francese tendono a essere bruschi e discontinui quando si verificano. Quindi, in circostanze normali, la destra si sarebbe aspettata di tornare al potere nel 2017, e in effetti è quasi successo. Le ragioni per cui non è successo hanno molto a che fare con le origini della crisi attuale.

 

Gran parte dell’elettorato francese si è sentita esclusa. L’implosione dei socialisti ha fatto sì che gran parte del sostegno della classe operaia andasse a Marine Le Pen, il cui partito, il Fronte Nazionale (ora Assemblea Nazionale), è meglio inteso semplicemente come l’unico partito in Francia che parla di cose importanti per la gente comune, a prescindere da ciò che si pensa delle sue politiche in merito. Ciò significa anche che il suo sostegno alla classe media ha disertato verso i Verdi o verso l’irregolare Jean-Luc Mélenchon, e spesso ha vacillato tra i due. A destra, alcuni elettori sono stati tentati dalla Le Pen, altri hanno deciso di non votare affatto. È in questo panorama politico confuso e diviso che è entrato Emmanuel Macron.

 

Retrospettivamente, i commentatori più pigri hanno parlato di Macron che ha “conquistato” il potere. La realtà è stata ben diversa. Con enormi quantità di denaro e la maggioranza dei media alle sue spalle, era il candidato di protesta delle classi medie, come Le Pen era il candidato di protesta delle classi popolari. Con la sinistra per lo più fuori dai giochi e con la Le Pen di fatto ineleggibile, il vero obiettivo di Macron era quello di arrivare al secondo turno davanti al candidato della destra, François Fillon, dopo di che si sarebbe assicurato la vittoria contro la Le Pen. Normalmente, Fillon avrebbe battuto la sfida di Macron e sarebbe diventato Presidente, ma è rimasto invischiato in una sordida indagine per corruzione, nella quale è stato infine condannato. Questo gli è costato quei pochi punti percentuali che hanno permesso a Macron di spuntarla e di ottenere una vittoria scontata contro Le Pen, anche se l’affluenza alle urne è stata bassa per gli standard francesi e l’entusiasmo per lui è stato scarso.

 

C’erano molti francesi disposti a dare una possibilità a Macron. Certo, era un puro prodotto dell’establishment francese, ma d’altra parte non era una figura affermata della classe politica, ampiamente disprezzata. Ma la gente si è disillusa molto rapidamente di fronte a un giovane tecnocrate inesperto, che ha annaspato e sembrava avere poca idea della vita e dei problemi della gente comune. L’esplosione di protesta che è diventata nota come l’episodio dei Gilets jaunes nel 2018/19 era diretta non solo contro Macron personalmente, ma contro un intero establishment globalizzato, anglicizzato, liberale e benpensante, che distrugge posti di lavoro e di cui Macron, nonostante le sue proteste, era un rappresentante quasi caricaturale.

 

Al potere, e con un partito creato a sua immagine e somiglianza, Macron ha cercato di distruggere qualsiasi opposizione offrendo posti di lavoro a politici di destra e di sinistra per staccarli dai loro partiti e indebolirli. Lentamente, come un buco nero, ha iniziato ad attirare verso di sé gran parte della politica francese.

 

Macron è sopravvissuto ai Gilets jaunes, come è sopravvissuto al Covid. L’anno scorso, in corsa per la rielezione, la sua piattaforma consisteva nel non essere la Le Pen e la sua strategia consisteva nell’assicurarsi di combattere il secondo turno contro di lei. La sinistra tradizionale era ancora a pezzi e la destra tradizionale era stata gravemente indebolita. Le elezioni presidenziali del 2022 furono quindi una lotta tra tre candidati (Le Pen, Macron e Mélenchon) che sostenevano di essere “fuori” dal sistema. Macron ha vinto contro Le Pen (anche se non di tanto come nel 2017): avrebbe battuto anche Mélenchon se quest’ultimo fosse riuscito a recuperare i pochi punti percentuali di distacco da Le Pen. Il confronto al secondo turno tra Le Pen e Macron è stato un confronto che la grande maggioranza degli elettori francesi ha detto di non volere. L’hanno ottenuto comunque, a causa della debolezza del sistema politico francese e del vertiginoso declino dei partiti tradizionali.

 

L’ultimo tassello del puzzle è stato rappresentato dalle elezioni dell’Assemblea Nazionale del 2022, che hanno prodotto un risultato confuso in cui il partito di Macron era il più grande, ma non aveva la maggioranza. L’opposizione proveniva da contingenti ampiamente paritari della destra, dal partito della Le Pen e da un’alleanza elettorale di sinistra, ma non c’era un’unica opposizione unita.

 

Spero che questa carrellata (molto semplificata) della storia recente mostri l’estrema fragilità e disorganizzazione del sistema politico francese in questo momento. Il disgusto nei confronti dei partiti tradizionali non è necessariamente più forte in Francia che, ad esempio, negli Stati Uniti o nel Regno Unito, ma la mancanza di un forte sistema bipartitico lo rende molto più evidente. È un dato di fatto che, anche se si includono i Verdi, i partiti politici “tradizionali” in Francia riescono a raccogliere a malapena un quarto dei voti. Tra gli altri, Le Pen rimarrà per sempre fuori dal potere, l’instabile coalizione (più che partito) presieduta da Mélenchon non sopravviverà a lungo alla sua partenza e lo stesso partito di Macron non avrà futuro dopo la sua uscita dal potere nel 2027. Non c’è alcun segno di rinascita della sinistra, e la destra è divisa e sempre più debole, stretta tra il sostegno ideologico a molte delle idee più brutte di Macron da un lato, e la paura di essere data per scontata come una semplice appendice di Macron dall’altro.

 

C’è quindi un vuoto incolmabile dove dovrebbe esserci il sistema politico francese. Macron ha ereditato una pessima situazione politica e la lascerà in un campo di rovine. Un sistema politico e i suoi parassiti mediatici che per vent’anni hanno predicato la necessità di creare un “fuoco di sbarramento” contro la Le Pen hanno ora escogitato una situazione in cui nel 2027 lei guiderà l’unico partito unito e disciplinato del Paese con la possibilità di prendere il potere. Un’astuzia, questa. E in effetti, mentre la destra ha litigato pubblicamente e le tattiche parlamentari del partito di Mélenchon hanno alienato molti elettori, il partito della Le Pen è stato un modello di discrezione e di buona condotta negli ultimi mesi.

 

Quindi il sistema politico francese rischia di crollare da qui al 2027, anche senza la “riforma” delle pensioni.  I parlamentari di Macron cominceranno presto a farsi prendere dal panico, perché si renderanno conto che nel 2027 potrebbero rimanere senza lavoro. Nessuno ha idea di cosa faranno a quel punto. La destra andrà incontro a un declino terminale, a meno che non riesca a differenziarsi da Macron, ma questo significa votare contro cose come la “riforma” delle pensioni, che in realtà sostengono. Se il sistema attuale sopravvive fino al 2027, il risultato più probabile è una nuova Assemblea nazionale in cui il partito di Le Pen è il gruppo più numeroso, ma non ha la maggioranza, e si trova di fronte a un numero di gruppi che va da cinque a dieci e che non hanno nulla che li unisca. In una parola, il caos. Chi vincerà le elezioni presidenziali è semplicemente impossibile da dire.

 

Con i problemi strutturali che ho brevemente delineato e tutte le altre difficoltà sociali, economiche e internazionali che ho menzionato all’inizio, il sistema francese è in grave difficoltà e non ha bisogno di iniziative molto controverse e impopolari che peggiorano solo le cose. Ma è esattamente quello che è successo. Vediamo ora brevemente il fiasco delle pensioni e il suo significato.

In primo luogo, però, non si può negare che il sistema pensionistico francese sia un po’ un pasticcio. Come molte altre cose nel Paese, è cresciuto gradualmente nel corso delle generazioni ed è confuso sia da usare che da gestire. Tutto dipende dai settori in cui si è lavorato e da chi ci paga e quando. La maggior parte dei francesi ha almeno due pensioni, e quattro sono abbastanza comuni. Se avete lavorato per alcuni anni nel settore privato prima di diventare insegnanti e, parallelamente, avete lavorato come tutor privati per alcuni anni, potreste averne sei. Per certi versi (come nel caso della gradita introduzione della tassazione del reddito alla fonte un paio di anni fa) si sarebbe potuta realizzare un’iniziativa ragionevole e di basso profilo, che avrebbe riscosso un certo successo e che avrebbe potuto essere gestita da un ministro junior un po’ sfigato.

 

Invece, fin dall’inizio della sua carriera, Macron è ossessionato dall’idea di far aspettare di più le persone per ricevere la pensione: l’età attuale è di 62 anni (da 60 prima del 2010) e la sua intenzione originaria era di portarla a 65 anni. Ma poiché il gruppo parlamentare di Macron non ha la maggioranza, è stato costretto a cedere alla destra e a ridurre l’età a 64 anni. E da allora, ci sono state una serie di altre concessioni su punti di dettaglio che possiamo tralasciare in questa sede. Ma nonostante ciò, con ostinazione donnesca, contro l’opposizione di tre quarti della nazione e nonostante le preoccupazioni dei suoi stessi sostenitori, nonostante otto giorni di scioperi e manifestazioni, Macron è andato avanti, ricorrendo infine a una misura costituzionale per approvare le leggi necessarie senza un voto, che avrebbe molto probabilmente perso. Al momento in cui scriviamo, in tutta la Francia sono in corso manifestazioni spontanee, occupazioni, blocchi e scioperi. Sorgono quindi due ovvie domande. Perché la gente è così preoccupata per questa misura e perché Macron si ostina a rispettarla? Vediamo di affrontarle una dopo l’altra.

 

In primo luogo, il governo non si è quasi mai degnato di difendere l’iniziativa. Si è parlato di persone che vivono più a lungo, di un numero inferiore di contribuenti ai regimi pensionistici e che comunque tutti gli altri lo fanno. Ma questo è tutto. Il governo sembra credere che la gente comune sia troppo stupida per capire la necessità della “riforma”, che per loro e i loro sostenitori è evidente.  Le pensioni sono solo un’altra voce di spesa pubblica, e un governo che sta elargendo soldi a pioggia all’Ucraina e che ha dichiarato che avrebbe speso “tutto il necessario” per sconfiggere il Covid non è certo nella posizione di negare una pensione dignitosa a chi ha lavorato tutta la vita.

 

Inoltre, le “riforme” prendono essenzialmente di mira i poveri. Avvocati, politici, amministratori delegati, medici, giornalisti, banchieri… queste persone non hanno fretta di andare in pensione. Ma infermieri, autisti di mezzi pesanti, assistenti, braccianti agricoli, operai edili, raccoglitori di rifiuti… queste persone sono logorate dal lavoro manuale come non mai e non vedono l’ora di andare in pensione. In effetti, una delle ironie della situazione è che la misura non farà risparmiare molto denaro, perché molte persone della classe operaia di circa 60-62 anni sono disoccupate (poiché i giovani sono meno costosi da assumere) o percepiscono un sussidio di invalidità a lungo termine, logorati da una vita di lavoro. Proprio oggi un rapporto ha evidenziato il significativo aumento dei decessi precoci e delle invalidità di lunga durata nell’ultimo decennio, quando l’età pensionabile è stata portata a 62 anni. E poiché nessuno ha ancora capito come la misura possa effettivamente aumentare il numero totale di posti di lavoro disponibili, il risultato sarà un aumento della disoccupazione giovanile. Ma i giovani non votano.

 

È per questo motivo che l’iniziativa non riguarda e non è intesa a far “lavorare più a lungo” le persone. Si tratta piuttosto di farle aspettare più a lungo per riscuotere la pensione nella speranza, brutale, che muoiano. Cosa fare con una popolazione sempre più anziana e sempre più confinata in istituti è un problema che nessun governo francese ha ancora affrontato, quindi perché non aiutarli a morire prima, riducendo così le dimensioni del problema?

L’arroganza e la brutalità di questa misura, infine, sono solo l’ultima di una lunga serie di aggressioni al popolo francese, da parte di un Presidente che disprezza apertamente i francesi, il loro Paese, la loro storia e la loro cultura, e che considera l’essere Presidente della Francia solo un’altra casella da spuntare nel suo percorso per diventare Presidente dell’Europa, o altro. Come l’aumento delle tasse sul carburante nel 2018 è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso, scatenando la rabbia che ha dato il via ai Gilets jaunes, così questa iniziativa inutile e provocatoria, unita all’atteggiamento sprezzante del governo nei confronti dell’opinione pubblica e all’uso spudorato di espedienti procedurali per far passare la legge necessaria in Parlamento, ha fatto precipitare la Francia in una protesta furiosa e sempre più casuale e disorganizzata – un punto su cui tornerò. Dopotutto, la legittimità di un governo in Francia si basa storicamente su molto di più di un semplice risultato elettorale.

 

Ora, qualsiasi governo normale, razionale e politicamente accorto, di fronte a questo livello di resistenza da parte degli elettori, e ai dubbi persino dei suoi stessi sostenitori, e su una questione francamente marginale, avrebbe detto: “Va bene, facciamo qualcos’altro”. Ma Macron (ed è lui in persona) ha fatto passare la misura, sfidando persino il Parlamento. Che cosa sta succedendo?

 

Innanzitutto, Macron è un individuo debole, con uno scarso senso della politica e molto distaccato dalla vita comune. È un rappresentante di una nuova generazione di politici, con una mentalità tecnocratica ma con pochissime conoscenze tecniche, per i quali le cariche politiche di alto livello sono solo un altro lavoro sul proprio curriculum, che porta denaro e status, e le possibilità di trarne profitto in seguito. In Macron c’è poco o nulla del tradizionale Presidente francese: fa i rumori obbligatori, ma il suo disprezzo per i suoi concittadini non è nemmeno molto mascherato. Come la maggior parte dei suoi simili, non si aspettava di dover affrontare problemi politici autentici e tradizionali, e non ha la minima idea di come farlo. La sua performance personale durante il Covid, ad esempio, è stata pietosa, ma anche il suo tocco nelle crisi politiche in generale è stato scarso. Quindi ha deciso che questa questione, per quanto banale, è una di quelle su cui vincerà e dimostrerà chi è il capo. È un esercizio per apparire determinato e statista, e le cose sono arrivate a un punto tale che non può tirarsi indietro senza essere gravemente danneggiato politicamente. Avrebbe potuto ritirare la proposta di legge quando è apparso chiaro che probabilmente non sarebbe stata approvata dall’Assemblea Nazionale, il che sarebbe stata la cosa più sensata e professionale da fare. Invece ha usato i poteri speciali per far passare il provvedimento, peggiorando così la situazione.

 

D’altra parte, questo è un problema che Macron, in un certo senso, capisce: il tipo di scenario che gli hanno insegnato quando era all’ENA vent’anni fa, il tipo di cose che i consulenti di gestione pensano di saper gestire. Tagliare, risparmiare, far soffrire e morire inutilmente, aiutare i ricchi e danneggiare i poveri, obbedire ad astruse superstizioni economiche: è tutto lì. Non richiede alcuna conoscenza o comprensione specialistica e non presenta la complessità intellettuale e le sfide della maggior parte degli altri problemi che il Paese deve affrontare.

 

E a differenza di molti altri problemi, questo è interamente francese. Non c’è una dimensione internazionale, non ci sono sviluppi improvvisi che sfuggono al controllo francese, non ci sono trattati e accordi internazionali, non ci sono alleati di cui preoccuparsi, non ci sono questioni veramente difficili e complesse, non ci sono posizioni di altri Paesi che devono essere prese in considerazione, ma solo alcuni modi intelligenti di presentare i numeri per far sembrare che ci sia un problema. Come sempre in politica, è più facile e attraente affrontare problemi piccoli e facili che grandi e complessi. Dopotutto, si tratta di una questione su cui la “vittoria” è effettivamente possibile.

 

Quindi, a che punto siamo? I media hanno fatto un po’ di confusione e la situazione cambia ogni giorno, ma facciamo un passo indietro e guardiamo al quadro generale. In primo luogo, Macron (nella persona del suo Primo Ministro) si è avvalso di una disposizione della Costituzione francese per imporre leggi senza dibattito. Si tratta dell’articolo 49,3 della Costituzione, il famoso Quarante-neuf-trois. In pratica, consente a un Primo Ministro di forzare l’approvazione di una legge, con la riserva che i partiti dell’opposizione possono presentare una mozione di censura; se questa mozione ha successo, il governo deve dimettersi e, naturalmente, la legge decade. Ma ci sono alcune sfumature qui, quindi rimanete con me.

In primo luogo, l’articolo stesso è stato redatto, come gran parte della Costituzione della Quinta Repubblica, come reazione alla Quarta. Quella Repubblica (1946-58) era ultraparlamentare e molto divisa, e i governi avevano spesso enormi problemi a far approvare le leggi. Un governo che non riusciva a far approvare la legge di bilancio, ad esempio, non aveva altra scelta che dimettersi. Questo portò a un’instabilità senza fine e i redattori della Costituzione della Quinta Repubblica erano determinati a evitare che si ripetesse. In realtà, il Quarante-neuf-trois è stato utilizzato solo occasionalmente sotto la Quinta Repubblica, perché la maggior parte dei governi aveva comunque una maggioranza stabile. Ma nell’attuale stato caotico dell’Assemblea Nazionale, il Primo Ministro vi ha già fatto ricorso quasi una dozzina di volte, anche pochi giorni fa. E come spesso accade in Francia, la soluzione è diventata più impopolare del problema iniziale, con comprensibili proteste per il comportamento autoritario di un governo senza maggioranza. Il governo ha vinto questo recente voto di sfiducia, ma solo per un pelo, ed è difficile credere che possa ripetere lo stesso trucco per molte altre volte.

 

Detto questo, i risultati della perdita di un voto di fiducia non sono così drammatici. Per cominciare, non ha alcun effetto sulla posizione di Macron, poiché il bersaglio è il governo, non il Presidente. È possibile (appena) sbarazzarsi di un Presidente sotto la Quinta Repubblica, ma non con questo metodo.  Salvo terremoti politici (ma vedi sotto), Macron è al sicuro fino al 2027. E non è nemmeno detto che ci siano necessariamente le elezioni. L’attuale Primo Ministro deve dimettersi e Macron dovrà trovarne uno nuovo per formare un nuovo governo. Si tratterà di una sconfitta, ma in gran parte simbolica, poiché qualsiasi futuro primo ministro sarà un altro burattino dell’Eliseo. Una singola sconfitta come questa sarebbe un grande imbarazzo politico. Se ci fossero più sconfitte di questo tipo, ci sarebbero pressioni per nuove elezioni, ma non è chiaro se qualcuno le voglia necessariamente: la maggior parte dei partiti ha più da perdere che da guadagnare.

 

C’è quindi una buona probabilità che le cose vadano avanti così ancora per qualche anno e che l’Assemblea Nazionale diventi sempre più caotica e meno rilevante. Ma questa è la Francia, dove c’è una venerabile tradizione di esprimere il malcontento nei confronti del governo nelle strade. Fino a poco tempo fa, l’umore nazionale, per quanto si potesse giudicare, era di rabbiosa rassegnazione. Settimane di manifestazioni e scioperi di massa non erano riuscite a smuovere il governo e sembrava che alla fine avrebbero fatto passare il provvedimento. Questo è in gran parte accaduto (anche se ci sono ancora alcuni trucchi procedurali da provare), ma la rabbia è ancora presente. Finora le cose sono state organizzate e pacifiche. I sindacati, per una volta, hanno lavorato insieme e ci sono stati solo pochi incidenti violenti. Ma i sindacati hanno ormai esaurito le armi: le manifestazioni di massa sono l’unica cosa che sanno fare e ci sono segnali di perdita di controllo a livello locale.

 

Negli ultimi giorni, sono aumentate le segnalazioni di scioperi improvvisati, assembramenti rabbiosi davanti agli edifici ufficiali, blocchi e persino sabotaggi. In diverse città tradizionalmente militanti, i sindacati locali hanno organizzato interruzioni dei trasporti. La spazzatura continua ad accumularsi nelle strade di Parigi. Le raffinerie di petrolio hanno smesso di funzionare per un po’ e gli autotrasportatori stanno parlando di usare tattiche di blocco: un paio di dozzine di camion, posizionati strategicamente nelle ore di punta, farebbero fermare la maggior parte delle città francesi. I tentativi del governo di rimuovere i blocchi hanno ulteriormente infiammato le tensioni.  È interessante il fatto che si cominci a muovere contro l’infrastruttura dello Stato stesso e dei suoi politici eletti.

 

Finora, i sindacati sembrano avere il controllo a livello locale; ma tutti vedono la possibilità di un ritorno della protesta in stile Gilets jaunes: organizzata localmente, senza una gerarchia fissa, in gran parte senza controllo o direzione e aperta alle infiltrazioni. Come in passato, la causa apparente sarà solo una tra le tante: stiamo assistendo all’inizio di un’esplosione di rabbia contro un sistema arrogante che si comporta in modo sempre più dittatoriale. E si può contare sul fatto che Macron peggiorerà la situazione, con una risposta affrettata e probabilmente sproporzionata.

 

La realtà è che lo Stato non è in grado di affrontare efficacemente una ripetizione del 2018/19. Anche in quel caso, la polizia si è ridotta in gran parte a stare a guardare la distruzione di proprietà, intervenendo solo quando la vita era minacciata. Non ce ne sono abbastanza e non possono essere ovunque. Questa volta l’atmosfera è più pesante, la rabbia probabilmente maggiore e la scelta degli obiettivi quasi infinita. Abbiamo già subito attacchi alle infrastrutture elettriche. Non si può proteggere tutto, e anche se si potesse, non si potrebbe proteggere nient’altro.

 

Le cose potrebbero quindi diventare decisamente cinetiche, in un Paese che ha la reputazione di avere una forma vigorosa e vivace di politica di strada. Sebbene il caso francese presenti delle specificità, la maggior parte delle ragioni di malcontento è anche internazionale. È interessante ipotizzare chi potrebbe essere il prossimo.

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