NOTA SULLA “TENTAZIONE” NAZIONAL-POPULISTA …, di FF

NOTA SULLA “TENTAZIONE” NAZIONAL-POPULISTA ALLA LUCE DELLA QUESTIONE (NEO)FASCISTA E DELLA TRASFORMAZIONE IN SENSO ANTISOCIALISTA DELLA SINISTRA EUROPEO-OCCIDENTALE

Non è facile trattare in una semplice nota un argomento come quello che concerne il problema del fascismo e del neofascismo nell’attuale fase storica, contraddistinta da una crisi che non è solo economica ma concerne i fondamenti stessi della civiltà europeo-occidentale. Mi limito quindi ad alcune “sintetiche” (forse, secondo alcuni, anche troppo “sintetiche”) considerazioni di carattere generale. Ritengo comunque necessario, per evitare “spiacevoli equivoci”, precisare che si deve sempre distinguere tra le persone che si definiscono o vengono definite fasciste e neofasciste e, rispettivamente, il fascismo e il neofascismo (e lo stesso vale naturalmente per i nazional-populisti rispetto al nazional-populismo, per i “liberal” rispetto alla sinistra neoliberale, ecc.).

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Il fascismo nella sua fase iniziale (il “sansepolcrismo”, per capirsi) si presentò come una mescolanza, peraltro assai confusa, di elementi social-rivoluzionari e nazionalismo, in un contesto storico sociale completamente diverso da quello che c’era prima della Grande Guerra. Infatti, l’Italia, benché fosse tra i Paesi vincitori, era uscita dalla guerra con le “ossa rotte” sotto il profilo economico, ma al tempo stesso nutriva ambizioni di grande potenza (la “vittoria mutilata”, ecc.). Inoltre, la rivoluzione russa aveva cambiato l’intero quadro geopolitico e ideologico, diffondendo la paura del “pericolo rosso” tra le file della borghesia europea.

Tuttavia, nelle elezioni politiche del 1919 a Milano il fascismo cosiddetto “rivoluzionario” venne nettamente sconfitto e la stessa “impresa di Fiume”, contraddistinta anch’essa da aspetti social-rivoluzionari e sciovinisti, terminò con un sanguinoso fallimento nel dicembre 1920. Il fascismo comunque riuscì a sopravvivere e a rafforzarsi, grazie soprattutto al sostegno da parte del capitalismo agrario (e poi pure del capitale industriale), ossia diventando il “manganello” della borghesia contro i socialisti e i comunisti.

Nel 1921 entrò quindi a far parte dei Blocchi nazionali (una coalizione di destra) conquistando comunque solo 35 seggi (i Bocchi nazionali ne conquistarono in tutto 105, mentre i socialisti ne conquistarono 123 e i comunisti 15). Nondimeno, nel 1921-22 si moltiplicarono le violenze dello squadrismo fascista, appoggiato anche dagli apparati di coercizione dello Stato, contro i quali, come dimostrarono i fatti di Sarzana del luglio 1921, ben poco poteva fare lo squadrismo fascista. La stessa marcia di Roma, difatti, sarebbe miseramente fallita se l’esercito avesse avuto ordine di impedirla (anche se non è assolutamente certo che l’esercito avrebbe obbedito ciecamente a quest’odine; ma i carabinieri avrebbero certo obbedito, e per sconfiggere lo squadrismo fascista i carabinieri sarebbero stati più che sufficienti, se – s’intende – l’esercito non si fosse schierato con i fascisti).

Il fascismo quindi non conquistò il potere ma si alleò con il potere (a differenza del nazismo, anche se lo stesso nazismo, ispirandosi al fascismo, sfruttò le “debolezze” della repubblica di Weimar, inclusa la mancanza di un forte apparato di coercizione statale, a causa delle limitazioni imposte alla Germania dal trattato di Versailles; ma se durante il regime fascista le camicie nere giuravano fedeltà al re, durante il regime nazista le SS e la Wehrmacht non giuravano fedeltà al Kaiser ma solo ad Hitler).

Il regime fascista comunque non fu certo un regime social-rivoluzionario (lo stesso Stato corporativo fu nella sostanza un fallimento, tranne per il grande capitale), nonostante il “dirigismo” (una scelta giusta e, in un certo senso anche inevitabile) degli anni Trenta (una politica economica che avrebbe però dato i suoi migliori frutti nel dopoguerra). Difatti, nonostante la relativa modernizzazione attuata negli Trenta (sia pure in un quadro di “irreggimentazione” delle masse), il regime fascista non ebbe nemmeno il totale controllo degli apparati dello Stato – tranne una fascistizzazione superficiale, che in pratica era frutto del “matrimonio di convenienza” del fascismo con la monarchia e il grande capitale – come avrebbero dimostrato la disastrosa impreparazione bellica e la ancora più disastrosa e perfino criminale impreparazione (geo)politica e strategica che portarono il Paese sull’orlo della catastrofe già nella primavera del 1941(evitata solo per l’intervento in Africa Settentrionale dei tedeschi) e poi al totale sfacelo all’inizio del 1943.

“Scaricato” dalla monarchia e dal grande capitale (che però pensavano a salvare sé stessi più che a salvare il Paese mettendo fine ad una ignominiosa alleanza che aveva ridotto il nostro Paese a semplice strumento della politica di potenza nazista), il fascismo si dissolse di colpo nell’estate del 1943, e solo per l’incredibile viltà e/o irresponsabile negligenza dei vertici politici e militari – che non diressero, com’era loro preciso dovere, la battaglia di Roma contro i tedeschi, ma lasciarono senza ordini l’esercito, tradendo così l’intero Paese non certo la Germania nazista – si crearono le condizioni per una guerra civile, in cui “riemersero” pure alcuni aspetti del cosiddetto “fascismo movimento” ma in un contesto “segnato” irrimediabilmente dalla alleanza con i tedeschi  e dalle stragi nazi-fasciste, nonché dai fallimenti del “fascismo regime”, di modo che, al di là delle intenzioni di alcuni fascisti, la repubblica sociale tutto poteva essere fuorché una repubblica socialista.

Il vero patriottismo fu dunque quello della Resistenza (scelte diverse si possono comprendere tenendo conto solo del contesto storico, dacché non sono giustificabili sotto il profilo politico), che seppe scrivere delle pagine di storia di alto valore politico e morale, anche se non riuscì ad evitare che il nostro Paese venisse trattato come un Paese sconfitto (un “trattamento” che ha “pesato” non poco nella storia della I Repubblica e di cui ancora oggi l’Italia paga le conseguenze).

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In sostanza, il fascismo “morì” nell’estate del 1943, e la repubblica sociale fu solo, per così dire, una “appendice storica” di un movimento e di un regime politicamente e storicamente “defunti”.

Lo stesso neofascismo quindi è un fenomeno nettamente distinto dal fascismo e comprende aspetti così diversi – una caratteristica comunque dello stesso fascismo – che lo fanno apparire come un fenomeno storico e politico tutt’altro che “unitario”. Comprende “nostalgici” ma pure filonazisti, antisemiti e filo-sionisti, atlantisti e anti-atlantisti, e via dicendo. Peraltro, si dovrebbe pure distinguere tra “semplici nostalgici” e la cosiddetta “destra sociale” più attenta a “valorizzare” gli elementi social-rivoluzionari (ma sempre “in chiave” antisocialista) presenti nel “fascismo movimento” che non la politica del regime fascista. (Un discorso diverso vale per coloro che identificano nel nichilismo il nemico da combattere, e, quindi – basandosi soprattutto sulla storia comparata delle religioni, le opere di Jünger, ecc. – privilegiano un approccio di tipo esistenziale al Politico. Ma in questo caso non si tratta di neofascismo, bensì di una forma di “anarchismo di destra” – inteso come una  sorta di “via esistenziale” anti-nichilista, contrassegnata da una particolare concezione della “trascendenza” – sempre che non si “intrecci” – e non mancano numerosi esempi di tali “intrecci” – con posizioni neofasciste o addirittura esplicitamente filo-naziste).

Ma, oltre al fatto di “richiamarsi” a questo o quell’aspetto del regime fascista o nazista, ciò che accomuna le diverse forme di neofascismo è l’odio per il socialismo e il comunismo nonché l’esaltazione di qualità cosiddette “virili” (compresa la concezione secondo cui l’uso della forza è “positivo” in quanto tale), che si accompagna non raramente ad un disprezzo per la “ragione” (nel senso di “logon didonai”) che può giungere a negare l’identità sostanziale del genere umano.

Di conseguenza anche il volontarismo e l’irrazionalismo sono tratti costitutivi delle varie formazioni neofasciste, benché si debba tener presente che c’è pure un neofascismo più “moderato” (perlopiù atlantista e filosionista), che non è ostile alla democrazia liberale nella misura in cui sia radicalmente antisocialista e anticomunista. Insomma, l’anticomunismo (incluso, al di là di certi “equivoci lessicali”, l’antisocialismo) sembra essere il tratto distintivo delle varie forme di neofascismo e questo “minimo comune denominatore” ((si badi, necessario ma non sufficiente per definire il neofascismo) ha reso (e rende) possibile pure l’alleanza tra il neofascismo e il liberalismo più marcatamente anticomunista e antisocialista.

Ovviamente, si deve sempre tener conto dei diversi contesti storici. Si pensi ad esempio all’America Latina ovverosia al cosiddetto “fascismo di mercato”, agli “squadroni parafascisti”, ecc. In Europa e soprattutto in Italia, “patria del fascismo”, il neofascismo si è manifestato e non poteva che manifestarsi in forma diversa. In particolare in Italia, oltre ai “nostalgici” (presenti una volta soprattutto nel Movimento sociale italiano) c’è stato un neofascismo ben più “aggressivo”, che si ispirava più al nazismo che al fascismo, e che oltre a scontrarsi nelle piazze e nelle scuole con le varie formazioni comuniste negli anni di piombo, è stato “usato” in chiave anticomunista da centri di potere atlantisti per attuare la “strategia della tensione”, compiere atti terroristici, ecc. (una strumentalizzazione indubbiamente favorita dalle caratteristiche del neofascismo, ossia dal culto della forza e dall’odio per il comunismo oltre, che, almeno in certi casi, da una forma di nazionalismo estremista).

D’altra parte, pure il neofascismo ha “mutato pelle” per così dire, con la scomparsa dell’Unione Sovietica, la fine della I Repubblica e la nascita del “berlusconismo”. Da un lato il neofascismo “moderato” si è riciclato in forma nazional-liberale mirando a rappresentare i “valori” della cosiddetta “maggioranza silenziosa” (media e piccola borghesia) secondo gli schemi concettuali “semplicistici” del berlusconismo. Dall’altro, terminato lo scontro con il comunismo a livello mondiale, i vari gruppetti neofascisti sono diventati sempre più “marginali” e politicamente “insignificanti”.

Del resto, il neofascismo, in tutte le sue forme, in Italia (ma pure in Europa) non può che essere “politicamente parassitario”, non avendo un progetto politico che possa essere condiviso dalla maggioranza degli italiani (e degli europei). Deve quindi necessariamente “appoggiarsi” a qualche formazione liberal-democratica o indossare le “vesti liberal-democratiche” per potere contare sul piano politico.

La crisi del sistema neoliberale, soprattutto a partire dal 2007-08, ha però nuovamente cambiato il quadro politico non solo in Europa ma pure in America, facendo crescere su entrambe le sponde dell’Atlantico una forma particolarmente “aggressiva” di populismo di destra, che, per semplicità, si può definire nazional-populismo. Si è cioè venuta a formare una situazione che offre anche ai gruppetti neofascisti l’opportunità di stabilire nuove alleanze con formazioni politiche nazional-populiste (in cui sono presenti ancora dei “semplici nostalgici”), giacché il nazional-populismo si configura come un estremismo di centro, contraddistinto da un radicale antistatalismo, da anti-intellettualismo e da antisocialismo, nonché, perlomeno in alcuni casi, da una certa xenofobia.

Peraltro, il nazional-populismo trae vantaggio pure dalla progressiva “involuzione” politico-culturale della sinistra, che in buona misura si è trasformata nella “guardia bianca” del grande capitale, rinunciando a rappresentare non solo gli interessi dei ceti sociali subalterni ma pure della piccola e di parte della media borghesia, ossia di ceti sociali penalizzati da una globalizzazione che favorisce soprattutto il grande capitale “transnazionale” o “cosmopolita”.

In questo senso l’accusa generica di fascismo nei confronti dei nazional-populisti può favorire paradossalmente solo i neofascisti e lo stesso nazional-populismo. L’ideologia “politicamente corretta” della sinistra neoliberale porta difatti a formulare dei paragoni e dei giudizi privi di ogni fondamento, che non solo non spiegano le ragioni della nascita e della diffusione del nazional-populismo, ossia del malcontento popolare a causa dei danni causati dall’attuale sistema neoliberista, ma al tempo stesso spingono la piccola borghesia e perfino buona parte dei ceti sociali subalterni ancor più verso le posizioni del nazional-populisti in quanto, in pratica, il nazional-populismo è rimasto l’unico soggetto politico a rappresentare gli interessi di questi ceti sociali.

Il fatto che il nazional-populismo proponga una “terapia” che è se non peggio altrettanto perniciosa del male che dovrebbe curare, dovrebbe invece far comprendere che solo non ignorando le ragioni del malcontento popolare e rappresentando gli interessi dei ceti sociali medio-bassi e subalterni secondo una prospettiva che riconosca il primato della funzione pubblica, e di conseguenza riconosca allo Stato il ruolo di mettere il mercato al servizio della collettività, è possibile sconfiggere il nazional-populismo e al tempo stesso relegare in un ruolo” marginale” e politicamente “insignificante” lo stesso neofascismo.

Cercare quindi di combattere il nazional-populismo senza “accorgersi” del pericolo che rappresenta la sinistra neoliberale equivale a farsi soffocare dal “boa neoliberale” per sfuggire alla “tigre” o, se si preferisce, al “gatto selvatico” nazional-populista. Del resto, se si dovesse usare il termine fascista allo stesso modo dei “liberal”, non sarebbe difficile definire pure questi ultimi “liberal-fascisti”, dato che controllano quasi tutti i gangli vitali dello Stato e della società civile (industria culturale, media, sistema educativo, ecc.), di modo da reprimere ogni forma di “dissenso”. Il neocapitalismo “a guida culturale gauchista” è una realtà che non lascia ormai spazio (politico-culturale) a nessun’altra “voce”. Certo vi è pur sempre la “rete”, ma com’è noto, “in rete” vi è tutto e il contrario di tutto, di modo che è sempre più difficile distinguere tra (la poca) informazione e (la molta) disinformazione.

Di fatto, la sinistra neoliberale (ma anche in questo caso si deve ricordare che non tutte le persone che si definiscono ancora di sinistra si identificano con le posizioni della sinistra neoliberale) non è l’erede della sinistra storica né, a maggior ragione, della Resistenza. Anch’essa ha “mutato pelle” con la fine della I Repubblica (e invero il mutamento era già cominciato alla fine degli anni Settanta) e ormai, dopo tre decenni (un periodo quindi più lungo dello stesso ventennio fascista), può non vedere che il “re è nudo” solo chi non vuole vederlo.

D’altronde, se l’irrazionalismo è tratto distintivo del nazional-populismo, la razionalità meramente strumentale che caratterizza la sinistra neoliberale è anch’essa “negazione” di quella idea di “polis” come spazio sociale e politico della ragione che la civiltà europea ha ereditato dalla cultura greca. Una razionalità al servizio del grande capitale, e che si configura quindi come strumento di dominio dell’uomo sull’uomo e sulla natura (c’è differenza tra dominio e controllo), è una razionalità “dimidiata” che alimenta essa stessa le peggiori forme di irrazionalismo e di alienazione (la sinistra europea, difatti, tranne alcune importanti eccezioni, cerca, tutt’al più, di porre la tecnologia sociale e lo stesso “agire comunicativo” al servizio dei cosiddetti “diritti individuali” – che concernono soprattutto determinati gruppi di pressione -, a scapito dei diritti sociali ed economici, nonché del benessere morale e materiale dell’intera collettività).

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Non è quindi questione di scelta tra nazional-populismo e sinistra neoliberale. Entrambi sono parte dello stesso sistema neoliberale, anche se la sinistra neoliberale occupa i “piani alti”, e l’alternativa non può certo essere quella di “invertire le posizioni” o addirittura di cercare riparo nei “bassifondi” del sistema neoliberale. Occorre piuttosto avere il coraggio civile e intellettuale di “staccare la spina”, ossia di compiere una sorta di “delinking, in un’ottica che sappia ridefinire la concezione socialista tenendo conto del quadro geopolitico mondiale.

La lotta per l’egemonia a livello mondiale, infatti, nella misura in cui si configura come uno scontro tra la potenza (ancora) egemone (ovvero gli Stati Uniti) e un centro di potenza anti-egemonico (la Cina) caratterizzato da una società “con” mercato anziché “di” mercato (e che ripropone quindi la questione della pianificazione, sia pure in un’ottica diversa da quella che contraddistinse il “socialismo reale”), acquista un significato politico che non si può ignorare, nemmeno alla luce della sconfitta del “socialismo reale” e della stessa fine della socialdemocrazia. In questo senso, “staccare la spina” non equivale a muoversi nel “vuoto”, ma piuttosto significa che si deve agire in una fase storica che proprio perché è estremamente “fluida” lascia ancora spazio per costruire una valida e realistica alternativa all’attuale società di mercato neoliberale.

https://fabiofalchicultura.blogspot.com/2020/11/nota-sulla-tentazione-nazional.html

EUROPRONI, di Teodoro Klitsche de la Grange

EUROPRONI

L’accordo raggiunto tra l’UE e i cattivissimi Orban e Morawiecki ha scatenato i media mainstream (ossia la maggioranza), solidali nel criticarlo, ma differenti nelle ragioni addotte.

Quella più frequentemente allegata, anche se la meno probabile, è che la Merkel avrebbe piegato alla volontà europea i recalcitranti di Visegrad, concedendo poco o nulla.

Prima di spiegare i motivi di tale impostazione occorre citare che il Consiglio U.E., nell’esporre il testo dell’intesa ha sottolineato che si è cercata una “soluzione reciprocamente soddisfacente” per “rispondere alle preoccupazioni espresse in merito al progetto di regolamento relativo a un regime generale di condizionalità per la protezione del bilancio dell’Unione” assicurando il rispetto dei trattati, delle peculiarità nazionali degli Stati; l’U.E. ha accettato che, in caso di ricorso alla Corte di giustizia non potranno essere prese misure a carico degli Stati disobbedienti prima della sentenza e che comunque (con espressione poco chiara) nel regolamento impugnato saranno incorporati “eventuali elementi pertinenti derivanti da detta sentenza”. Peraltro solo violazioni che hanno impatto sul bilancio U.E. possono essere sanzionate: “Le misure a norma del meccanismo dovranno essere proporzionate all’impatto delle violazioni dello Stato di diritto sulla sana gestione finanziaria del bilancio dell’Unione o sugli interessi finanziari dell’Unione”; inoltre “la semplice constatazione di una violazione dello stato di diritto non è sufficiente ad attivare il meccanismo” e “le misure si applicheranno solo in relazione agli impegni di bilancio previsti nell’ambito del nuovo quadro finanziario pluriennale, compreso Next Generation Eu”.

Più che una resa incondizionata dei discoli l’accordo appare per quello che è ogni soluzione a carattere transattivo, dove le parti si sono fatte “reciproche concessioni”: ciascuno ha dato e ottenuto qualcosa. Di guisa che, rispetto ai puri, agli estremisti, alcune critiche hanno qualche fondamento: basti ricordare che, prima dell’accordo, alcuni euroestremisti erano giunti nell’ordine a sostenere: a) la cacciata dei discoli dall’U.E.; b) l’abolizione del diritto di veto nell’ordinamento europeo.

Il tutto peraltro “giustificato” con le conseguenze economiche della pandemia – e la necessità di porvi rimedio. Ma se l’obiettivo era questo (emergenza sanitaria e risposta economica), non si capisce perché il negoziato era stato complicato e reso difficile con la condizionalità rafforzata del rispetto dello Stato di diritto. La quale, a pandemia in corso, appariva come un espediente per estorcere un consenso minacciando reazioni a comportamenti estranei all’emergenza sanitaria ed alla necessità di porvi rimedio.

Ma la questione che qui affronto è diversa: per quale ragione le élite dirigenti italiane (e i loro accoliti) vogliono dimostrare che la reazione di polacchi e ungheresi non ha ottenuto nulla (o molto poco) piegata (come sarebbe stata) dalla volontà sovrana (scusare l’aggettivo da turpiloquio) della U.E.. Con la quale è meglio assentire, sottomettersi senza discutere (tanto, si perde solo tempo).

Atteggiamento che è quello preferito da governanti eurolirici che hanno diretto l’Italia (quasi sempre) negli ultimi dieci anni e in buona parte del periodo precedente. Bastava una richiesta europea (“ce lo chiede l’Europa”) per eseguirla prontamente: e farsene titolo di merito quali novelli De Gasperi o Martino. Anche quando era evidente che qualche sgarbo dall’Europa l’avevamo ricevuto (come nella vicenda della caduta di Berlusconi e degli eurosorrisetti), bisognava incassare e fare penitenza. La quale, per gli eurodipendenti è castigo scrupolosamente riservato ai governati, anche quando una siffatta pretesa non è stata avanzata dalla Merkel o dalla Von der Layen.

Gli è che gli eurodipendenti esternano delle trattative un’immagine da solotto o da bocciofila: che per dialogare bisogna (necessariamente e previamente) assentire. Nella realtà non è così, e rientra nei fondamentali del politico: per trattare l’accordo più agognato, ossia la pace, occorre trattare col nemico.

Perché questo sia durevole, la pace deve tener conto degli opposti interessi e posizioni (se no, da trattato diventa dettato di pace; come capitò a quello di Versailles). Avete mai visto trattare qualcosa, dalla pace in giù, tra amici, cioè non solo non belligeranti, ma neppure aventi volontà e obiettivi differenti?

Quindi contrariamente all’opinione dei nostri eurodipendenti, trattare è cosa logica (e quasi sempre opportuna): avere volontà ed interessi diversi è naturale; conciliarli con quelli dell’altro è – in genere – normale e conveniente. Non c’è nulla di contrario al bon-ton diplomatico nel comportamento di chi prima minaccia, litiga e poi tratta.

Ma per i nostri ciò voleva dire legittimare (anche) la posizione di Salvini il quale, per l’appunto, chiudeva i ponti ai migranti per costringere l’Europa a farsi carico – proporzionalmente – del problema degli stessi. Atteggiamento risultato pagante dato il calo drastico, tuttora perdurante (anche se in misura minore) dei medesimi. Con sollievo delle strutture di accoglienza e del bilancio dello Stato. Ma con grande scorno di coloro che dell’accoglienza – ben remunerata – avevano fatto un affare. Strano ed inconsueto è l’atteggiamento remissivo e sottomesso praticato (e predicato) degli eurolirici. A proposito dei quali occorre dire che se polacchi e ungheresi avessero avuto la loro stessa tempra ed attitudine – mentale e morale – l’Est europeo sarebbe ancora diviso dalla cortina di ferro.

Teodoro Klitsche de la Grange

MEGLIO DENG, di Teodoro Klitsche de la Grange

MEGLIO DENG

Diceva Deng Tsiao Ping, con un’espressione rimasta famosa, che l’importante non è il colore del gatto, ma che acchiappi i topi. Con ciò il grande statista, padre dell’attuale potenza (e “sistema) cinese, cui è riuscita la conversione di un immenso paese da una economia agraria (e povera) a una post-industriale, intendeva che, nella scelta e selezione delle classi dirigenti, la capacità di raggiungere gli obiettivi fissati e/o voluti (dall’agente) debba prevalere su quello della conformità ad imperativi – nella specie politico-ideologici – ma potrebbero essere anche a fondamento religioso, estetico o della corrispondenza ad una “causa” (e ai relativi “precetti”) – intesi come superiori e determinanti.

Quando, da tanto tempo, e se in particolare con la pandemia del Covid, si ammira (anche) la capacità della Cina di affrontare con efficacia le conseguenze del virus, le spiegazioni (prevalenti) hanno carattere ideologico: la possibilità di un regime autoritario che comanda senza o pochi limiti – naturali a quelli di sistemi più rispettosi dei diritti individuali. Salvo poi a mettere in guardia contro il consenso all’autoritarismo che ne può derivare. Giustificazione (e preoccupazione) declinata in diverse forme, non esclusa – anzi forse la più ricorrente – del comunismo che, per le proprie istituzioni-tipo (centralismo, gerarchia, assenza di opposizione politica) è ancora (in parte) vivo nel sistema cinese.

Non si può escludere del tutto l’incidenza di tale fattore: anzi occorre concordare che è una componente importante del successo. Tuttavia si pensi a cosa sarebbe successo in Cina se il grande paese fosse stato fermo al comunismo agrario di Mao-Dse-Dong: il Covid avrebbe fatto un’ecatombe o comunque causato una mortalità assai superiore, un po’ come capitato all’India – paese per dimensioni demografiche paragonabili – la cui percentuale di decessi (e contagiati) da Covid è assai peggiore di quella cinese: per cui anche lo sviluppo economico (e di condizioni di vita) dovuto all’abbandono del modello comunista e l’adozione di un “socialismo di mercato” ha avuto conseguenze positive nel contenimento della pandemia.

Senza insistere nell’elencare cause concorrenti (probabili o possibili), occorre considerare quanto può aver inciso la massima – pragmatica e laica di Deng sul modello di sviluppo.

E qua occorre rifarsi a Max Weber. Scriveva il grande sociologo che “come ogni azione anche l’agire sociale può essere determinato” in modo “razionale rispetto allo scopo” ossia da aspettative sul successo rispetto al fine voluto e considerato razionalmente; ovvero “in modo razionale rispetto al valore – dalla credenza consapevole nell’incondizionato valore in sé – etico, estetico, religioso, o altrimenti interpretabile – di un determinato comportamento in quanto tale, prescindendo dalle sue conseguenze”; e poi affettivamente (da affetti e da stati attuali del sentire); o tradizionalmente (da un’abitudine acquisita). Pur non potendosi escludere contaminazioni tra i diversi tipi (per cui spesso l’agire è determinato in base sia a valori quanto allo scopo, ovvero razionale rispetto ai valori, ma allo scopo (scelto) per i mezzi da impiegare1.

Tuttavia, sostiene Weber “Dal punto di vista della razionalità rispetto allo scopo, però, la razionalità rispetto al valore è sempre irrazionale – e lo è quanto più eleva a valore assoluto il valore in vista del quale è orientato l’agire; e ciò poiché essa tiene tanto minor conto delle conseguenze dell’agire, quanto più assume come incondizionato il suo valore” (il corsivo è mio); il quale di solito è “la pura intenzione, la bellezza, il bene assoluto, l’assoluta conformità al dovere”.

Proprio l’attenzione dell’agire razionale rispetto allo scopo ai (probabili) risultati e la valutazione decisiva (per confermarne la congruità) delle conseguenze rende, a un tempo, tale agire più “utile” e più verificabile. Se per giudicare una razionalità rispetto al valore è sufficiente confrontare valori e (intenzioni) dell’agire, nel primo caso sono le conseguenze, il risultato/i concreto/i a misurarne la validità – e quindi l’effettiva razionalità. Per cui una comunità che tenga nella maggiore considerazione – ed orienti le scelte dei dirigenti – in base alla massima di Deng ha una superiore capacità di affrontare la realtà e conseguentemente l’emergenza (cioè la fortuna machiavellica), predisponendo argini, terrapieni e canali per contenerne l’effetto distruttivo.

Dai risultati economici (e non solo) della Cina negli ultimi quarant’anni (dopo la “sterzata” di Deng) risulta che il “criterio del gatto”, evidentemente applicato, ha contribuito all’eccellenza cinese. Dato che a partire dagli anni ’90 è cominciata la stagnazione-recessione dell’Italia, occorre vedere quale dei tipi weberiani dell’agire sociale sia stato qui più praticato (e predicato). Scriveva Weber che “Per agire «sociale» si deve però intendere un agire che sia riferito – secondo il suo senso, intenzionato dall’agente o dagli agenti – all’atteggiamento di altri individui, e orientato nel suo corso in base a questo”; per chiarire quale sia il criterio (prevalente) applicato può dare un notevole aiuto l’immagine e i messaggi comunicati dalla classe politica (più che dalla classe dirigente). I quali prevalentemente sono riconducibili alla “razionalità” rispetto al “valore”. È chiaro che i valori sono, in parte, col tempo cambiati. Un tempo prevalevano bontà, rivoluzione, socialismo, comunismo, resistenza, nazione, potere, cristianesimo, libertà, costituzione (e così via), dopo il crollo del comunismo, buona parte dei “vecchi” sono stati sostituiti dal mercato, dai diritti dell’uomo, dall’ambiente.

È interessante notare come, con qualche eccezione, pur cambiando i valori di riferimento (in particolare a sinistra, più colpita dal crollo del comunismo) l’attitudine (e perfino l’apparenza) a propagandarli sia cambiata – o sia mutata di poco. Tra le rarità (parzialmente) contrarie rispetto alla regola Berlusconi, il quale rivendica per se d’essere l’ “uomo del fare” (anche se, spesso, quel fare era il minimo sindacale).

Tutti (quasi) gli altri, ancor più quelli dell’area sinistra appaiono nel linguaggio, nella mimica e nell’immagine dei predicatori2.

Tali prediche, come scriveva Hobbes sono il mezzo di comunicazione dei sacerdoti i quali hanno il compito di persuadere ed insegnare (la parola di Cristo) ma cui Dio non ha mai dato il potere di costringere, concesso al potere temporale. Questo così ha la responsabilità: a predicare fa bene ma dimezza (almeno) la propria funzione: che è quella di proteggere, anche con la forza.

Diversamente dalla razionalità rispetto allo scopo, quella ai valori si misura sulla conformità della condotta ai valori (indipendentemente dalle conseguenze) e sull’intenzione dell’agente, ossia sulla “purezza di cuore”. È chiaro che con un criterio del genere, ogni profeta disarmato (scriveva Machiavelli), ogni predicatore di successo diventa un buon governante.

Certo si potrebbe notare che spesso su quelle buone intenzioni si sono costruite fortune (economiche), come recita un detto americano sul bene perseguito dai quaccheri. Ma questo è un altro – anche se assai spesso ricorrente – discorso.

Resta il fatto che conformare la propria condotta non al perseguimento degli interessi concreti della comunità, ma ai valori esternati è una buona strada per “trovare la ruina più tanto che la preservazione sua”, predicando una condotta sostanzialmente indifferente al concreto risultato – il bene comune – (concreto) degli individui e dell’insieme sociale. Per cui portarlo a modello diventa la via maestra per la decadenza della comunità: come applicare il detto di Deng inverso.

Il solo predicarlo (prevalentemente) è già un errore, perché induce il pensiero che per ben governare occorre essere buoni (predicatori): a comportarsi di conseguenza si agevola l’emergere di una classe dirigente composta di simil-preti, buoni ma poco utili, con parecchi ipocriti che vi si nascondono. Proprio la categoria che assicura quanto capitato all’Italia, che da trent’anni ristagna. Meglio meno buone intenzioni e prediche, ma più risultati.

Teodoro Klitsche de la Grange

1 Ovvero, come scrive Weber: “individuo che agisce può – prescindendo da qualsiasi orientamento razionale rispetto al valore, in vista di «imperativi» e di «esigenze» – disporre gli scopi concorrenti e contrastanti, considerati” per cui “di conseguenza può orientare il suo agire in maniera che essi siano soddisfatti, se possibile, in tale successione principio dell’«unità marginale»” Wirtschaft und Gesellshaft trad. it. Economia e società, vol. I, Milano 1980, p. 23.

2 D’altra parte già un secolo orsono il Presidente Wilson, con la sua insistenza sui principi da applicare nella pace di Versailles appariva a un acuto economista come J. M. Keynes un “predicatore presbiteriano”; quando Keynes descrive Wilson è palese – riportandolo alla pagina di Weber sui “tipi ideali” dell’agire – che non aveva coordinato scopo e mezzi. Perché sostiene Keynes “non aveva nessun piano, nessun progetto, non idee costruttive di sorta per rivestire di carne viva i comandamenti che aveva tuonato dalla Casa Bianca. Avrebbe potuto fare un sermone su ognuno di essi o rivolgere all’Onnipotente una solenne preghiera per il loro adempimento; ma non era in grado di formulare la loro concreta applicazione allo stato effettivo dell’Europa”, v. ora trad. it. in J. M. Keynes Sono un liberale?, Milano 2010, p. 43.

La geopolitica della distribuzione dei vaccini, Di Alex Berezow

La geopolitica della distribuzione dei vaccini

Le inoculazioni sono uno sviluppo positivo, ma il pubblico dovrebbe moderarne l’eccitazione.

Di: Alex Berezow

L’azienda farmaceutica americana Pfizer, in collaborazione con l’azienda tedesca BioNTech, ha sorpreso il mondo quando ha annunciato che il suo vaccino contro il coronavirus ha mostrato un’efficacia del 90% nella prevenzione del COVID-19. Giorni dopo, un’altra azienda americana chiamata Moderna ha annunciato che il suo vaccino era efficace quasi al 95%. E poco dopo, AstraZeneca ha annunciato che il suo vaccino era efficace dal 62% al 90%. La Food and Drug Administration degli Stati Uniti impone che i vaccini siano efficaci almeno al 50% per ottenere l’autorizzazione all’uso di emergenza e la maggior parte degli osservatori non si aspettava che i candidati vaccini avessero prestazioni migliori di così. I risultati riportati, quindi, sono stati una piacevole sorpresa che ha entusiasmato allo stesso modo governi e mercati.

L’entità di questo risultato non può essere sopravvalutata. In genere, la tempistica dall’inizio all’approvazione normativa di un nuovo farmaco è di circa 10 anni. Dopo aver ricevuto l’approvazione, le aziende farmaceutiche si preparano per la produzione di massa, che a sua volta potrebbe richiedere un altro decennio. Tuttavia, grazie a una combinazione di fattori – programmi governativi come Operation Warp Speed, approvazione normativa accelerata e cooperazione globale senza precedenti – i primi lotti di un vaccino COVID-19 da una fonte affidabile verranno consegnati in meno di un anno. (Anche Cina e Russia affermano di aver creato vaccini, ma dati e trasparenza insufficienti rendono la maggior parte degli scienziati occidentali scettica sulla loro efficacia e sicurezza.)

Anche così, l’entusiasmo del pubblico è prematuro. Mancano mesi prima che la stragrande maggioranza delle persone, inclusi gli americani, possa aspettarsi di ricevere il colpo tra le braccia. L’ostacolo immediato è ottenere l’approvazione della FDA. Sebbene l’approvazione dovrebbe richiedere circa tre settimane poiché gli esperti governativi esaminano attentamente i dati, il processo potrebbe richiedere più tempo. Secondo il dottor Henry Miller, un collega presso il Pacific Research Institute e direttore fondatore dell’Office of Biotechnology della FDA, la FDA è preoccupata per la coerenza nella produzione del vaccino. In altre parole, la FDA vuole sapere se le aziende possono produrre lotto dopo lotto che soddisfano determinate misure di controllo della qualità, come potenza e purezza. Entro la fine di dicembre, Moderna prevede di avere 20 milioni di dosi, Pfizer 50 milioni di dosi e AstraZeneca 200 milioni di dosi. Quindi, alcune persone dovrebbero ricevere i colpi prima della fine del 2020 (il regime richiede due iniezioni a un mese di distanza, il che significa che il numero di persone immunizzate è la metà del numero di dosi). Entro la fine del 2021, dovrebbero esserci miliardi dosi disponibili da tutte le aziende combinate.

La corsa a un vaccino contro il coronavirus
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Ma la produzione è solo uno dei rompicapi. Un altro è la distribuzione, che in realtà è un duplice problema: (1) il vaccino di Moderna deve essere mantenuto congelato durante l’immagazzinamento e la spedizione a lungo termine, ma il vaccino di Pfizer deve essere mantenuto a una temperatura enorme di -94 gradi Fahrenheit (-70 gradi Celsius) spedizione; e (2) non è né eticamente né strategicamente chiaro chi dovrebbe ricevere i vaccini per primo.

Il dilemma della distribuzione

Il motivo per cui il tuo negozio di alimentari locale contiene cibo relativamente fresco dall’altra parte del pianeta è a causa di qualcosa noto come “catena del freddo”, una serie di contenitori refrigerati che consentono di spedire cibo deperibile senza rovinarsi. Molti farmaci e soprattutto i vaccini richiedono la stessa cosa. Tuttavia, il vaccino di Pfizer, che consiste in una molecola contenente informazioni instabile chiamata RNA racchiusa in una bolla di grasso altrettanto instabile, richiede una conservazione a -94 F (-70 C). In generale, solo i laboratori di ricerca possiedono congelatori che raffreddano; farmacie e ospedali no. La soluzione di Pfizer è fornire contenitori speciali che possono essere imballati con ghiaccio secco per mantenere la temperatura richiesta, ma una volta che il vaccino è stato rimosso e posto all’interno di un normale frigorifero, la durata è di cinque giorni. Il vaccino Moderna può essere conservato e spedito a -4 F e ha una durata di 30 giorni nei frigoriferi regolatori, quindi rappresenta una sfida logistica molto più piccola . Il vaccino di AstraZeneca è il più facile da distribuire, poiché può essere spedito alla normale temperatura di refrigerazione di 36-46 F e conservato sullo scaffale per sei mesi.

Coronavirus | Confronto tra potenziali vaccini
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La questione di chi riceve il vaccino per primo si svolgerà inizialmente a livello internazionale. I paesi che hanno effettuato ordini di acquisto saranno i primi a riceverli. Ad esempio, secondo Mint , l’Unione Europea si è assicurata 200 milioni di dosi (con un’opzione per 100 milioni in più) per il vaccino Pfizer, il Giappone 120 milioni di dosi, gli Stati Uniti 100 milioni di dosi (con un’opzione per altri 500 milioni) e nel Regno Unito 30 milioni di dosi. Se tutte le opzioni vengono esercitate, Pfizer semplicemente non può soddisfare tale domanda nemmeno entro la fine del 2021, il che potrebbe significare che i paesi ricchi combatteranno tra loro su chi ottiene quale lotto e quando. Gli Stati Uniti hanno già un rapporto teso con l’Europa e una lotta per i lotti di vaccini metterebbe più stress su una fragile relazione transatlantica, soprattutto perché il paese che riceve la maggior parte delle dosi di vaccino ha più probabilità di migliorare la sua economia il più rapidamente. Poiché Moderna, AstraZeneca e altre società produrranno anche vaccini, queste tensioni possono essere allentate in qualche modo, anche se qualunque paese funge da “casa” di un’azienda sarà probabilmente sottoposto a notevoli pressioni per fornire prima i vaccini ai compatrioti. Quest’ultimo punto è complicato dal fatto che alcune di queste società sono entità multinazionali e hanno “case” in diversi paesi in tutto il mondo.

Mentre i paesi ricchi se la cavano, il resto del mondo dovrà aspettare. Il denaro non risolve tutto. Le sfide logistiche poste dalla catena del freddo rendono quasi impossibile fornire un vaccino in una regione con infrastrutture scadenti e elettricità inaffidabile. Le lacune nella catena del freddo, cioè i periodi in cui il vaccino non è conservato alla giusta temperatura, distruggerebbero il vaccino. (Questo per non parlare di attività criminale. Ognuno è un potenziale bersaglio di imprese criminali che offrono vaccini falsi, ovviamente, ma i paesi più poveri sono i più sensibili dal momento che la consegna di vaccini legittimi potrebbe richiedere mesi se non anni.)

Internamente, i paesi dovranno affrontare le preoccupazioni politiche interne sull’assegnazione dei vaccini. Negli Stati Uniti, c’è tensione tra agenzie federali come i Centers for Disease Control and Prevention e governi statali sul numero di dosi che ogni stato riceverà. L’amministrazione Biden entrante sarà sottoposta a pressioni tremende per fornire prima i vaccini agli americani, indipendentemente da eventuali obblighi contrattuali che le aziende potrebbero avere. Se necessario, il presidente e il Congresso possono essere coinvolti, annullando i contratti delle società farmaceutiche in nome della sicurezza nazionale.

Dopo di che, ci sono decisioni etiche e strategiche da prendere su chi riceve il vaccino per primo. Lo stato di Washington, ad esempio, ha proposto tre fasi di distribuzione : in primo luogo, fornitori di assistenza sanitaria in prima linea, primi soccorritori e popolazioni vulnerabili (come quelli con condizioni di salute sottostanti o residenti di strutture di assistenza a lungo termine); secondo, la comunità generale; e terzo, colmare eventuali “lacune” nell’accesso ai vaccini (come nelle comunità più povere). È probabile che molti altri stati utilizzino una strategia simile.

C’è anche la questione dell’efficacia del vaccino. In poche parole, alcuni vaccini sono migliori di altri. Ricorda che i vaccini prodotti da Pfizer e Moderna sono efficaci al 95%, ma quelli di AstraZeneca sono efficaci solo dal 62% al 90%. Chi ottiene il vaccino meno efficace? E chi prende questa decisione?

The Amazing Race

Le nazioni più povere hanno maggiori probabilità di ottenere un vaccino contro il coronavirus per ultime. Ma c’è spazio per l’ottimismo poiché molte altre aziende continueranno a sviluppare vaccini contro il coronavirus. La maggior parte, come quella prodotta da AstraZeneca, non richiederà l’estrema catena del freddo di cui ha bisogno il vaccino Pfizer. Inoltre, AstraZeneca si è impegnata a rinunciare ai profitti fino alla fine della pandemia . L’azienda sta anche lavorando con organizzazioni non governative come la Bill & Melinda Gates Foundation per fornire vaccini ai paesi in via di sviluppo.

La domanda sulla distribuzione globale dei vaccini si è quindi spostata da se a quando. Ma i vaccini arriveranno in tempo per prevenire ulteriori danni economici e disordini sociali? I ritardi dei vaccini potrebbero creare o aggravare i rischi di insolvenza nei paesi più poveri, con il contagio finanziario che si diffonde ai paesi più ricchi. Molte persone non sono più disposte a tollerare i blocchi. In tutta Europa i cittadini stanno protestando contro ulteriori misure di sicurezza, con manifestazioni in Italia che sono diventate violente la scorsa settimana.

Gli effetti accessori dei blocchi hanno creato anche altri reclami contro i governi. In molti luoghi, famiglie e coniugi sono stati separati a causa della chiusura delle frontiere e delle politiche di immigrazione arbitrarie. In Indonesia, ad esempio, le coppie binazionali non sposate non possono ricongiungersi, ma gli stranieri anziani possono entrare come turisti nonostante il fatto che le persone anziane siano le più probabilità di morire di coronavirus. Queste politiche hanno portato il governo indonesiano ad essere inondato di denunce di cittadini arrabbiati. Rivelano la tensione tra le preoccupazioni per la salute pubblica, l’economia e il tessuto sociale e non è chiaro se possano essere migliorate fino a quando un vaccino non sarà completamente distribuito.

In effetti, poche società sono disposte a controllare il virus a costo di strappare il tessuto sociale. Il coronavirus ha rivelato un’immensa tensione tra i pilastri economici e sociali della nostra società. I governi non hanno buone opzioni. Alcuni saranno tentati di reimporre i blocchi, giustificandoli con l’affermazione che saranno allentati non appena sarà disponibile un vaccino. Ma questa è una falsa rassicurazione. Per i cittadini dei paesi ricchi, mancano ancora mesi alla vaccinazione diffusa. Per i cittadini dei paesi poveri, la vaccinazione diffusa potrebbe essere lontana anni. Un pubblico irrequieto non tollererà blocchi indefiniti fino al 2021 ei governi che cercano di imporli dovrebbero essere preparati a disordini civili.

https://geopoliticalfutures.com/the-geopolitics-of-vaccine-distribution/?tpa=OGJhYTFkMjcwODdiNGJlOTM5ZWM3YjE2MDc3ODczODUwZTk2NDM&utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_term=https%3A%2F%2Fgeopoliticalfutures.com%2Fthe-geopolitics-of-vaccine-distribution%2F%3Ftpa%3DOGJhYTFkMjcwODdiNGJlOTM5ZWM3YjE2MDc3ODczODUwZTk2NDM&utm_content&utm_campaign=PAID+-+Everything+as+it%27s+published

Il Kamalometro, di Giuseppe Masala

Il Kamalometro.
Forse ho trovato il termometro corretto per capire come andrà a finire la contesa giudiziaria sulle elezioni presidenziali in Usa.
Kamala Harris, vice presidente eletta o presunta tale a 25 giorni dalle elezioni Usa ancora non si è dimessa dal Senato come sarebbe dovuto. Ho controllato un po’ per fare qualche raffronto e ho scoperto che Obama si dimise a 12 giorni dalle elezioni che lo incoronarono Presidente.
Il Kamalometro segna +25 ed è già oltre la soglia d’allarme. Quando e se Kamala si dimetterà vorrà dire che i giochi saranno fatti. Al contrario, se non si dimetterà entro i prossimi 10 giorni possiamo parlare di gravi problemi.
[E’ un po’ buffa questa cosa, ma non essendo in grado di capire la battaglia legale in corso, mi affido a questo indicatore empirico]
NB_tratto da facebook

Malesia! La tigre asiatica e il pachiderma cinese, con Giuseppe Malgeri

Le nazioni del sudest asiatico hanno conosciuto e sperimentato i tre modelli sinora conosciuti di sperimentazione di sortita dal sottosviluppo: quello autarchico ispirato al modello socialista e ad alcune dittature satrapo-militari; quello aperto e dogmaticamente liberista; infine quello pragmatico che ha cercato e saputo dosare l’apertura selettiva dei mercati, l’accettazione selettiva degli investimenti esteri in un quadro di compartecipazione nelle società, l’incentivazione delle esportazioni, le opportunità legate alla globalizzazione. La Malesia può essere considerato un esempio di livello intermedio tra quello modesto della Cambogia e del Laos e quello più brillante di Singapore e di seguito della Thaynlandia e del Vietnam in un contesto di crescente predominio economico cinese ed equilibrio geopolitico sinoamericano. Una esperienza da cui trarre qualche insegnamento per il nostro paese ormai avviato verso un mesto e remissivo declino. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

Imperialisti buoni, imperialisti cattivi_a cura di Giuseppe Germinario

La crisi pandemica, oltre ad essere uno dei maggiori fattori scatenanti e soprattutto di accelerazione di dinamiche profonde di cambiamento dei rapporti sociali di produzione, delle catene di produzione e degli equilibri economici e geoeconomici, dei rapporti sociali stessi, sarà di per sé un arma, uno strumento di regolazione dei rapporti di potere interni ai paesi e delle relazioni geopolitiche. Non scommettiamo sulla piena attendibilità delle informazioni offerte dall’articolo; sta di fatto che sin dall’inizio il gruppo dirigente cinese ha cercato di attribuire l’origine della pandemia a svariati paesi oltre a quelli già citati dall’articolo. Uno strattagemma per sfuggire alle responsabilità politiche, ai danni di immagine, alle richieste possibili di risarcimento; soprattutto, un modo per scacciare il sospetto denso di implicazioni di una crisi originata da una manipolazione incontrollata di un virus. Considerazioni che devono spingere ad una riflessione di fondo! Quanto più avanza il multipolarismo, quanto più si avvicina una fase di policentrismo tanto meno sarà proficua una suddivisione manichea tra paesi “buoni” e paesi “cattivi”, soprattutto per quei paesi e quelle classi dirigenti con qualche ambizione di indipendenza ed autonomia, ma con forze strettamente misurate_Giuseppe Germinario

 

Dal New York Post

China suggests Italy may be the birthplace of COVID-19 pandemic

La Cina è all’opera su di un nuovo studio sulla diffusione precoce e nascosta del coronavirus in Italia per mettere in dubbio la ferma convinzione che la nazione asiatica sia stata il luogo di origine della pandemia, stando ai rapporti.

Funzionari di Pechino stanno spingendo su di un nuovo studio che suggerisce che il contagio potrebbe essersi diffuso nella nazione europea già a settembre, tre mesi prima che fosse confermato che si stava diffondendo nel presunto epicentro della città cinese di Wuhan, come il Times of London ha sottolineato .

La nazione asiatica ha anche in precedenza  ipotizzato la Spagna alle origini della pandemia, così come anche l’esercito americano, sresponsabile di aver portato il virus a Wuhan nell’ottobre dello scorso anno durante i Giochi mondiali militari; così afferma il rapporto.

Secondo il quotidiano britannico, i media statali cinesi stanno ora sostenendo con forza l’idea che il nuovo studio del National Cancer Institute dimostri che il contagio probabilmente è iniziato in Italia, non in Cina.

“Questo dimostra ancora una volta che rintracciare la fonte del virus è una complessa questione scientifica che dovrebbe essere lasciata agli scienziati”, ha detto il portavoce del ministero degli Esteri cinese Zhao Lijian, secondo il Times britannico. “[È] un processo in via di sviluppo che può coinvolgere più paesi.”

Zhao Lijian
Zhao LijianGetty Images

L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha ammesso che è possibile che il virus “circolasse silenziosamente altrove” prima di essere rilevato a Wuhan.

Tuttavia, molti scienziati sono scettici sulla ipotesi italiana dello studio e altri osservano che non ciò esclude che il coronavirus sia originario della Cina.

“Sappiamo che la Cina ha ritardato l’annuncio del suo focolaio, quindi non si sa quando è iniziato lì; la Cina del resto ha legami commerciali molto forti con il nord Italia”, ha detto allo UK Times Giovanni Apolone del National Cancer Institute di Milano.

https://nypost.com/2020/11/20/china-suggests-italy-may-be-the-birthplace-of-covid-19-pandemic/?utm_medium=SocialFlow&utm_campaign=SocialFlow&utm_source=NYPTwitter

GLI USA GIOCHERANNO DI RIMESSA O CADRANNO NELLA TRAPPOLA DI TUCIDIDE? a cura di Luigi Longo

La fase multicentrica/Le elezioni presidenziali.

GLI USA GIOCHERANNO DI RIMESSA O CADRANNO NELLA TRAPPOLA DI TUCIDIDE?

a cura di Luigi Longo

 

Propongo la lettura dei seguenti due articoli: Manlio Dinucci, La politica estera di Joe Biden, il Manifesto, 10/11/2020 e Paolo Mastrolilli, Il piano Biden per l’Italia. Intervista a Michael Carpenter, La stampa, 11/11/2020.

Sono due articoli che riguardano le prospettive di politica estera degli USA, potenza mondiale in declino sempre più evidente, a seguito delle elezioni a presidente di Joe Biden. Le elezioni sono avvenute con metodi e modalità imbarazzanti per una potenza mondiale che esporta la democrazia anche se è una nazione costituzionalmente repubblicana, non democratica (il massimo della mistificazione). “[…] Sotto, sotto c’è sempre il western […] A me l’America non mi fa niente bene. Troppa libertà. Bisogna che glielo dica al dottore. A me l’America mi fa venir voglia di un dittatore. Ohhhhh!!! Sì, di un dittatore. Almeno si vede, si riconosce. Non ho mai visto qualcosa che sgretola l’individuo come quella libertà lì. Nemmeno una malattia ti mangia così bene dal di dentro. Come sono geniali gli Americani, te la mettono lì. La libertà è alla portata di tutti come la chitarra. Ognuno suona come vuole e tutti suonano come vuole la libertà.”, così cantava il grande Giorgio Gaber nella insuperabile L’America (1).

La situazione politica del Paese è quella di una nazione che non trova più una sintesi nazionale espressione degli agenti strategici dominanti e gli squilibri territoriali, sociali ed economici sono sempre più accentuati, con forte rischio della tenuta degli Stati federati degli Stati Uniti d’America.

L’epoca della tutela delle istituzioni, luoghi di conflitto e di equilibrio dinamico degli agenti strategici, per garantire l’unità e la sintesi di una grande potenza mondiale è finita (si pensi alle elezioni presidenziali del 1960 vinte da John Fitzgerald Kennedy per il passo indietro di Richard Nixon, inteso come equilibrio dinamico degli agenti strategici vincitori, e a quelle del 2000 tra George W. Bush e Al Gore con passo indietro di quest’ultimo).

Ora, come fa capire George Friedman (2), gli Stati Uniti sono costretti a giocare di rimessa anche se il rischio con Joe Biden, e soprattutto con Kamala Harris (la nuova regina del caos), è quello di cadere nella trappola di Tucidide (la sindrome della potenza in ascesa e la sindrome della potenza dominante) (3).

Si annunciano strategie di guerra, con un ruolo decisivo della Nato, per contrastare le due potenze mondiali in ascesa (Cina e Russia), per mettere in riga i servitori europei in maniera coordinata (si pensi al duo Angela Merkel-Emmanuel Macron) con una strategia chiara di contrasto sia con la Russia (sanzioni e ridimensionamento della politica energetica) sia con la Cina (contrasto al 5G e alla via della seta), per fornire le alternative, tipo la <<Three Seas Initiative>> (4), per riprendere in mano direttamente la situazione in Libia e nel Mediterraneo, per controllare il Medio Oriente con la nuova Nato araba (Israele e il mondo arabo sunnita in funzione anti Iran in modo da ridimensionare sia l’area di influenza della Russia e della Cina sia la loro possibile alleanza), per facilitare il ritorno della Turchia nella Nato, per usare lo strumento coronavirus (Covid-19) come guerra batteriologica (è nella storia umana del potere l’uso dei batteri e dei virus come strumenti di conflitto) sia contro le potenze mondiali emergenti sia per sistemare le cose interne. Tale sistemazione è nella logica di preparazione della sempre più avanzata fase multicentrica con gli accentramenti di potere, con la risistemazione dei settori produttivi, con la riorganizzazione delle regole sociali, con la eliminazione del diritto alla salute (uso il termine diritto per comodità di linguaggio perché in una società asimmetrica, cosiddetta capitalistica, è fuorviante parlare di diritti). La guerra batteriologica tra potenze mondiali sarebbe un filone di ricerca da intraprendere con serietà e coraggio. Una ricerca basata sull’ipotesi che considera sia ciò che è accaduto e sta accadendo, sia la letteratura fin qui prodotta, lasciando perdere le stupidaggini sul negazionismo, sul complottismo.

L’Europa? La nuova strategia statunitense ha bisogno di un vassallo che sappia coordinare bene la servitù europea, senza tentazioni orientali. E’ la fine della tattica degli accordi bilaterali di trumpiana memoria.

Per capire il livello di servitù volontaria europea basta osservare che tutti i leader (da quelli che contano come Angela Merkel e Emmanuel Macron a quelli che non contano come Sergio Mattarella) hanno gioito e non vedono l’ora di lavorare (5) con Joe Biden senza minimamente attendere la formalità democratica delle elezioni dei grandi elettori che eleggeranno il nuovo presidente degli Stati Uniti d’America che vorrà guidare in maniera unilaterale il mondo, facendo così il gioco del loro nuovo signore.

 

A me l’America non mi fa niente bene!

 

 

Note

1.Giorgio Gaber, L’America in Album “Libertà obbligatoria”, 1995-1996.

2.George Friedman, Il dilemma di Biden, www.italiaeilmondo.com, 10/11/2020.

3.Luigi Longo, L’Europa tra le vie della Nato, le vie della seta e le vie dell’energia, prima parte, in www.italiaeilmondo.com, 19/11/2019.

4.Three Seas Initiative è il vertice dei tre mari. Il prossimo vertice si terrà in Bulgaria nel giugno 2021. Ogni anno riunisce 12 Paesi situati tra i mari Baltico, Nero e Adriatico. Essi sono: Estonia-Lettonia-Lituania-Polonia-RepubblicaCeca-Slovacchia-Ungheria-Slovenia-Austria-Croazia-Romania-Bulgaria. L’iniziativa Three Seas mira a promuovere la cooperazione, in primo luogo, per lo sviluppo di infrastrutture nei settori dell’energia, dei trasporti e del digitale. Mira a nuovi investimenti, crescita economica e sicurezza energetica. E soprattutto persegue gli obiettivi degli Stati Uniti finalizzati ad allargare la sua area di influenza nell’Europa centrale e orientale in funzione anti Russia.

5.Redazione Ansa, I leader mondiali si congratulano con Biden, www.ansa.it, 8/11/2020. E’ impressionante come tutti i leader hanno usato la stessa terminologia. E’ il segno dei tempi!

 

1.LA POLITICA ESTERA DI JOE BIDEN

di Manlio Dinucci

 

Le linee portanti del programma di politica estera che la nuova amministrazioneUsa si impegna ad attuare sono espressione di un partito trasversale.

Quali sono le linee programmatiche di politica estera che Joe Biden attuerà quando si sarà insediato alla Casa Bianca? Lo ha preannunciato con un dettagliato articolo sulla rivista Foreign Affairs (marzo/aprile 2020), che ha costituito la base della Piattaforma 2020 approvata in agosto dal Partito Democratico.

Il titolo è già eloquente: «Perché l’America deve guidare di nuovo / Salvataggio della politica estera degli Stati Uniti dopo Trump». Biden sintetizza così il suo programma di politica estera: mentre «il presidente Trump ha sminuito, indebolito e abbandonato alleati e partner, e abdicato alla leadership americana, come presidente farò immediatamente passi per rinnovare le alleanze degli Stati uniti, e far sì che l’America, ancora una volta, guidi il mondo».

Il primo passo sarà quello di rafforzare la Nato, che è «il cuore stesso della sicurezza nazionale degli Stati uniti». A tal fine Biden farà gli «investimenti necessari» perché gli Stati uniti mantengano «la più potente forza militare del mondo» e, allo stesso tempo, farà in modo che «i nostri alleati Nato accrescano la loro spesa per la Difesa» secondo gli impegni già assunti con l’amministrazione Obama-Biden.

Il secondo passo sarà quello di convocare, nel primo anno di presidenza, un «Summit globale per la democrazia»: vi parteciperanno «le nazioni del mondo libero e le organizzazioni della società civile di tutto il mondo in prima linea nella difesa della democrazia».

Il Summit deciderà una «azione collettiva contro le minacce globali». Anzitutto per «contrastare l’aggressione russa, mantenendo affilate le capacità militari dell’Alleanza e imponendo alla Russia reali costi per le sue violazioni delle norme internazionali»; allo stesso tempo, per «costruire un fronte unito contro le azioni offensive e le violazioni dei diritti umani da parte della Cina, che sta estendendo la sua portata globale».

Poiché «il mondo non si organizza da sé», sottolinea Biden, gli Stati uniti devono ritornare a «svolgere il ruolo di guida nello scrivere le regole, come hanno fatto per 70anni sotto i presidenti sia democratici che repubblicani, finché non è arrivato Trump».

Queste sono le linee portanti del programma di politica estera che l’amministrazione Biden si impegna ad attuare. Tale programma – elaborato con la partecipazione di oltre 2.000 consiglieri di politica estera e sicurezza nazionale, organizzati in 20 gruppi di lavoro – non è solo il programma di Biden e del Partito Democratico. Esso è in realtà espressione di un partito trasversale, la cui esistenza è dimostrata dal fatto che le decisioni fondamentali di politica estera, anzitutto quelle relative alle guerre, vengono prese negli Stati uniti su base bipartisan.

Lo conferma il fatto che oltre 130 alti funzionari repubblicani (sia a riposo che in carica) hanno pubblicato il 20 agosto una dichiarazione di voto contro il repubblicano Trump e a favore del democratico Biden. Tra questi c’è John Negroponte, nominato dal presidente George W. Bush, nel 2004-2007, prima ambasciatore in Iraq (con il compito di reprimere la resistenza), poi direttore dei servizi segreti Usa.

Lo conferma il fatto che il democratico Biden, allora presidente della Commissione Esteri del Senato, sostenne nel 2001 la decisione del presidente repubblicano Bush di attaccare e invadere l’Afghanistan e, nel 2002, promosse una risoluzione bipartisan di77 senatori che autorizzava il presidente Bush ad attaccare e invadere l’Iraq con l’accusa (poi dimostratasi falsa) che esso possedeva armi di distruzione di massa.

Sempre durante l’amministrazione Bush, quando le forze Usa non riuscivano a controllare l’Iraq occupato, Joe Biden faceva passare al Senato, nel 2007, un piano sul «decentramento dell’Iraq in tre regioni autonome – curda, sunnita e sciita»: in altre parole lo smembramento del paese funzionale alla strategia Usa.

Parimenti, quando Joe Biden è stato per due mandati vicepresidente dell’amministrazione Obama, i repubblicani hanno appoggiato le decisioni democratiche sulla guerra alla Libia, l’operazione in Siria e il nuovo confronto con la Russia.

Il partito trasversale, che non appare alle urne, continua a lavorare perché «l’America, ancora una volta, guidi il mondo».

 

 

2.IL PIANO BIDEN PER L’ITALIA

Il consigliere del presidente-eletto: ”per Joe il vostro paese è strategico. Ma attenti a Russia e Cina. E sulla via della seta…Possiamo fare grandi progressi nelle relazioni Usa-UE eliminando appena possibile i dazi e accordandoci sulla riforma del Wto. Finché la Russia mantiene truppe in Ucraina e occupa territori sovrani, non dobbiamo togliere le sanzioni”

 

di Paolo Mastrolilli

 

Ripensare il rapporto con la Cina e il 5G; mantenere le sanzioni alla Russia; aumentare gli investimenti nella difesa, o fornire assetti nel Mediterraneo e Medio Oriente; aiutare la stabilizzazione della Libia.

Michael Carpenter offre all’ Italia è un vademecum per andare d’accordo con l’amministrazione Biden. Vale la pena di ascoltarlo, perché era il braccio destro per la politica estera del vicepresidente, che lo aveva voluto nel Consiglio per la sicurezza nazionale della Casa Bianca come direttore per la Russia. Con Trump è diventato direttore del Penn Biden Center for Diplomacy and Global Engagement alla University of Pennsylvania, il think tank dove Joe ha preparato la rivincita.

 

Il presidente Biden come cambierà il rapporto con l’Europa?

«Penso che sarà il campione delle relazioni tra Usa e Ue, e cercherà di espandere commerci e investimenti. Possiamo fare grandi progressi eliminando appena possibile le tariffe».

 

La Ue ha imposto dazi alla Boeing.

«La vicenda va risolta dai negoziatori, ma se ci accordiamo sulla riforma della Wto e i principi della nostra partnership, possiamo superare tutte le questioni».

 

Cosa farà Biden sul clima?

«Non solo tornerà nell’ accordo di Parigi dal primo giorno, ma cercherà di costruirci sopra misure addizionali. Biden ha detto che gli Usa devono diventare “carbon neutral” entro il 2050, e ciò rispecchia gli obiettivi Ue. Ci sono enormi opportunità, se investiamo insieme nell’ energia pulita e rinnovabile. Nella ripresa post Covid, su entrambe le sponde dell’Atlantico dovremmo puntare sulle infrastrutture verdi, perché creano lavoro».

Biden prepara un vertice per rilanciare la Nato?

«Metterà grande enfasi sul suo rafforzamento, in termini di difesa e deterrenza, ma anche di coesione. C’è stato un arretramento della democrazia, ad esempio nel comportamento della Turchia. La Nato è frammentata, per Biden sarà prioritaria la coesione».

 

L’Italia deve investire il 2% del pil nella Difesa?

«La condivisione dei pesi è un importante principio Nato, ma con pandemia e crisi economica dobbiamo essere flessibili. Ci sono investimenti, su mobilità e prontezza militare, che non rientrano in quelli per la difesa, ma possono essere conteggiati per i Paesi che li espandono».

 

Biden vuole chiudere le “guerre infinite”. L’ Italia potrebbe contribuire con assetti in Medio Oriente e Mediterraneo, dove gli Usa si ritirano?

«Certo, è un tema su cui dobbiamo coordinarci con gli italiani. Sarete molto importanti per la strategia meridionale della Nato, riguardo Nord Africa e Mediterraneo, che va rafforzata. In queste regioni guarderemo a voi per un ruolo guida, anche per le migrazioni».

 

In Libia cosa può fare l’Italia?

«Siete molto impegnati e ciò è utile. La Nato deve sviluppare una strategia meridionale più complessiva, ma sulla Libia la Ue potrebbe guidare».

 

Nonostante la rivalità fra Italia e Francia?

«Questo è un caso dove ci vuole coordinamento, nella Nato e nella Ue, e gli Usa devono favorirlo».

 

Tornerete nell’ accordo nucleare con l’Iran?

«Biden ha detto che vuole farlo, se Teheran torna a rispettare i suoi obblighi. Trump ha portato gli Usa all’ isolamento, permettendo all’ Iran di riprendere il programma nucleare senza controlli».

 

Quale sarà la linea di Biden sulla Russia?

«Un approccio da una posizione di forza. Puntiamo ad unificare gli alleati per misure che potenzino militarmente la Nato, e impongano costi a Mosca quando ha comportamenti ostili, o mina la sovranità di altri Paesi. Allo stesso tempo vogliamo promuovere la stabilità, aumentando il dialogo sul controllo degli armamenti e la riduzione dei rischi».

L’ Italia ha premuto per togliere le sanzioni.

«Finché la Russia mantiene truppe in Ucraina e occupa territori sovrani, non dobbiamo togliere le sanzioni. Sarà importante sederci con i partner europei, inclusa l’Italia, per allineare le nostre visioni».

 

Con quali obiettivi?

«Contenere l’aggressione russa, impedirle di sovvertire le nostre democrazie. Il futuro potrebbe portare a una relazione più produttiva, ma non dobbiamo essere ingenui e pensare che sia dietro l’angolo».

 

Cosa farà con la Cina?

«Biden metterà gli alleati al centro della strategia. Il fallimento di Trump è stato il focus sui negoziati bilaterali per il deficit commerciale, invece delle profonde questioni sistemiche usate per manipolare i commerci. Bisogna presentare un fronte unito, con europei ed asiatici, per obbligare la Cina a cambiare».

 

La posizione dell’Italia su Via della Seta e 5G è compatibile?

«Spero sia possibile una conversazione strategica sulla minaccia che queste iniziative pongono per la sicurezza. La tecnologia cinese e il 5G sono pericolose, e le democrazie dovrebbero unirsi per produrre alternative.

La Via della Seta nasconde trappole come la diplomazia del debito o le acquisizioni di infrastrutture strategiche che non beneficiano i Paesi coinvolti. Dobbiamo fornire alternative, tipo la Three Seas Initiative».

 

Biden vuole un Summit della democrazia. Quale sarà l’agenda?

«Metterà enfasi sul sostegno della democrazia, tanto le istituzioni dei nostri Paesi, quanto i movimenti che la promuovono. Nel mio Paese un governo populista di estrema destra ha eroso le norme democratiche, perciò tutti noi dobbiamo riaffermare l’impegno a rispettarle e tutelarle».

 

 

 

L’ESSENZA DEL POTERE NON STA NEL POPOLO, di Antonio de Martini

L’ESSENZA DEL POTERE NON STA NEL POPOLO
Il primo assaggio di democrazia gli italiani lo ebbero con il referendum tra Monarchia e Repubblica nel 1946.
I numeri erano incompleti e incerti, dato che non erano rientrati in patria oltre un milione e mezzo di prigionieri di guerra e deportati e i voti espressi erano piu o meno equivalenti.
Fu dichiarata la Repubblica e la magistratura si adeguò con una presa d’atto piu che con una sentenza.
La monarchia sabauda, dopo aver usato con analoga disinvoltura i referendum per annettersi mezza Italia, non ebbe le carte in regola per protestare credibilmente.
Anni dopo, in una recente tornata elettorale, l’’onorevole Fassino, dichiarò vincitore delle elezioni il PD nel perdurare dell’incertezza sui numeri.
Ognuno di questi episodi – e mille piccoli altri avvenuti qui e altrove – ha contribuito a togliere credibilità al sistema escogitato per determinare senza spargimenti di sangue gli assetti di potere e l’orientamento politico di un paese.
L’omicidio politico nacque come esasperazione democratica per reazione allo strapotere.
Nel XIX secolo si definiva la Russia “ una monarchia assoluta temperata dal tirannicidio”.
In questa era moderna, singoli momenti ribellistici affiorano qua e la con mini spargimenti di sangue presentati come fatti patologici o di fanatismo religioso, ma – a mio avviso- andrebbero analizzati per quello che sono: stanchi di narrative fasulle, singoli si ribellano e mettono mano alle armi.
I pazzi e i poeti, si sa, anticipano i fenomeni sociali.
Questi isolati nemici del sistema , se esaminati attentamente, riveleranno di essere stati prima illusi dalle promesse della società, poi indignati per l’indifferenza e indotti alla reazione violenta dal desiderio di richiamare il mondo alla realtà del rapporto di forza reale.
I più deboli con reazioni isolate e personali, i piu muniti intellettualmente, istigando terzi elementi.
Il “sistema” si difende disinformando e attribuendo questi fenomeni a fattori psichici o di fanatismo religioso che con questi spesso confina.
Tra tutti questi fenomeni, troneggiava intatto il mito della democrazia statunitense.
L’America era il posto in cui queste brutture potevano accadere in una elezione municipale, ma non al vertice.
Trump era la prova che chiunque poteva giungere senza ostruzionismi al vertice di un paese democratico e governarlo.
Trump ha distrutto questa illusione.
Puoi essere eletto, ma non governare.
Twitter che censura il capo dello stato è il tirannicidio moderno. Mostra che il re è nudo e il potere politico democratico è una vuota forma.
Torna a prevalere l’articolo quinto ( chi c’ha i soldi in mano ha vinto).
Servirà qualche tempo per metabolizzare il tutto, ma l’insegnamento giungerà fino a noi.

TORO SEDUTO FA LO SCALPO A CAVALLO PAZZO ( SI SCOPRE CHE ERA UN TOUPET), di Antonio de Martini

TORO SEDUTO FA LO SCALPO A CAVALLO PAZZO ( SI SCOPRE CHE ERA UN TOUPET) ..
Ma non cambierà il trend.
L’America è fatta di apparati (DOS. DOD, CIA, FBI, NSA, ECC.) che hanno resistito e si sono opposti a Trump, Figuratevi se si impensieriscono minimamente.
Ho sempre detto e scritto che la politica estera USA é impersonale.
Cambieranno modi e tattiche (forse), ma la sostanza resterà immutata.
1. Punire la Russia.
2. Offrire alla Cina false favorevoli opportunità di pace commerciale (che la volpe di Pechino resisterà), così diranno al mondo che è colpa loro (il Pacifico è vitale per gli USA).
3. Finte trattative con Teheran sul Nucleare Un po per rabbonirsi la UE un po per far credere al cambiamento.
4. Scontro con UE che vuole tassare i giganti Tech US (Google, Microsoft , Amazon & co)
B. baderà più al fumo che all’arrosto come, invece, faceva il suo predecessore.
Un esempio per tutti: Biden terrà molto di più i riflettori sulla libertà a HogKong che non su i dazi, ma la sostanza non cambierà. Otterrà, altro fumo negli occhi, un cessate il fuoco nello Yemen. Rimarranno in Afganistan.
L’unica vera incognita di politica estera sarà l’atteggiamento della nuova amministrazione verso la Turchia.
E da questo dipenderanno gli equilibri nel Mediterraneo e il nostro sviluppo.
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