La ricerca della protezione: appunti sul 4 marzo, di Alessandro Visalli

La ricerca della protezione: appunti sul 4 marzo.

Si può partire da molte cose per spiegare la fragorosa slavina di domenica che ha travolto tutta la sinistra italiana: in primis la sua magna parte era da molto tempo più liberale che socialista, e parteggiava abbastanza chiaramente per la metà tranquilla e garantita della società; la piccola quota di LeU, fattasi ancora minore, è risultata essere in tutte le sue componenti troppo indecisa e in alcune anche compromessa con la formazione di provenienza per essere credibile per l’altra metà del cielo; del resto anche la piccolissima, ai conti ancora più del previsto, PaP si è rivelata troppo confusa e sotto troppi profili inadeguata per rappresentarla, ed anche questa alla fine ha finito per guardare solo il proprio ombelico. In tutto non è arrivata al 25% degli elettori, cioè a poco più del 15% degli elettori.

Uscendo da questa spiegazione politicista si può anche partire da guardare al nesso tra movimenti sociali e culture politiche; cioè tra quello scivolamento verso il basso almeno del 20% che non si percepisce più classe media (per cui oggi possono sentirsi tranquilli solo il 40% ca, e invece si sentono deboli almeno il 50% della popolazione). Dunque dalla molla che nel silenzio si stava caricando, come dice Bagnasco, e che alla fine è scattata.

Come sta avvenendo in tutto l’occidente, anche in Italia continua insomma quella che Spannaus ha chiamato la rivolta degli elettori. Dal 2016 abbiamo avuto prima la brexit, poi l’elezione di Trump, quindi il preavviso non ascoltato delle elezioni italiane del 2013 e dell’esplosione del M5S, un evento che nel 2014 in “trovare la forma” mi sembrava indicare, ‘come in uno specchio’ il sorgere di un nuovo assetto, un nuovo equilibrio che sorgeva da qualche parte ed iniziava ad aggregarsi. Poi abbiamo avuto il referendum italiano che ha spezzato la traiettoria di Renzi; le elezioni francesi nelle quali la Le Pen è stata fermata (ma solo al ballottaggio), ma al contempo è emersa una sinistra nuovamente attenta alle ragioni del socialismo in Mélenchon (come in Inghilterra in Corbyn e in USA in Sanders), separandosi chiaramente da un centro liberale ricostituito in Macron; persino quelle tedesche, in cui le formazioni centrali sistemiche sono ulteriormente arretrate.

Siamo quindi da qualche anno su quello che si potrebbe chiamare “un crinale”, la pallina sta andando una volta di qua ed una volta di là.

 
Elezioni 4 marzo: rapporto tra reddito pro capite e consenso al M5S

Commentando questi eventi Carlo Formenti parla dell’esplosione della rabbia delle ‘periferie’, cioè di classi subordinate schiacciate dal riassetto sistemico in corso e incazzate in particolare con la sinistra, “che le ha consegnate alla repressione del capitale globale preoccupandosi solo di difendere i diritti civili di minoranze colte e benestanti”. Le sinistre di tradizione socialista sono, insomma, diventate esclusivamente liberali e ormai difendono ostinatamente un insediamento sociale, erroneamente considerato maggioritario, riconducibile solo a classi medie ‘riflessive’, urbane, sempre più anziane. Ne è chiara immagine il multiculturalismo e la difesa della cosiddetta “società aperta” (e competitiva) ed anche il cosmopolitismo di marca borghese spacciato per internazionalismo. Del resto anche le sinistre più o meno ‘radicali’, come LeU e soprattutto PaP scontano un complessivo e radicale disorientamento strategico; l’incapacità di individuare gli snodi essenziali della situazione e di impostare un discorso politicamente e socialmente coerente. In queste condizioni il 15% del corpo elettorale è una dimensione più che appropriata (ma può ancora scendere).

Lo sfondo è chiaro: la fase di rilancio dell’accumulazione, attraverso la finanziarizzazione, l’interconnessione e l’aumento della dipendenza, e l’estensione del dinamismo che si è avuta nel trentennio dal 1980 al 2010 si è risolta in un 66% degli italiani che (indagine Demos, 2016) reputa “inutile fare progetti per il futuro”. La scheletrica ed irresponsabile antropologia del pensiero liberista non ha capito che l’incertezza ed il rischio non sono pungoli che rendono più attivo e produttivo l’uomo; se superano una certa soglia si sopportabilità, al contrario, lo spengono. Un “futuro incerto e carico di rischi”, come quello percepito incombente e minaccioso da due nostri compatrioti su tre, induce infatti quello che Mullainthan e Safir, in un bel libro del 2013 “Scarcity”, chiamano “effetto tunnel”. La scarsità percepita “cattura la mente”, inducendola a concentrarsi solo sull’assoluto presente. Ma non si tratta di ottimizzazione, come presume tanta letteratura scritta nel chiuso dei propri dipartimenti da ricchi professori: è al contrario una “inibizione”. Gli psicologi chiamano con questa parola (per questo tra virgolette) quella capacità della mente di eliminare le possibilità alternative, rendendole invisibili. In altre parole, concentrarsi su una cosa urgente e vitale (come affrontare un predatore, o pagare la prossima bolletta della luce) “ci rende meno capaci di pensare ad altre cose che contano”; è quella che si chiama “inibizione dell’obiettivo”. Tutti i fini e le considerazioni che sarebbero altrimenti importanti (migliorare la propria competenza con un corso professionale, fare quell’investimento che pure indurrebbe grandi risparmi, curare le relazioni sociali per aumentare le proprie opportunità, …) scompaiono dalla nostra stessa vista. Mentre nei paper dei vari Lucas o quelli di Prescott, si immagina che il consumatore definisca sempre ‘aspettative razionali’ sul futuro, calcolando tutte le implicazioni di ogni politica e anticipandole nella sua azione, la maggioranza di essi è invece concentrata sul “tunnel”. La mente non è, cioè, occupata a fare complessi calcoli costi-benefici ma dalle scadenze.

È questo che alla fine impedisce qualunque progettualità, inclusa la ribellione, che spinge a vivere in un eterno attimo presente, carico di angoscia e risentimento inespresso.

Ma improvvisamente il 4 marzo, in fondo inaspettatamente, questo fondo magmatico si è espresso. L’umore nero del paese profondo, quello che la sinistra neppure riesce ad immaginare e per il quale non ha proprio le parole (risolvendosi a reiterare stanchi cliché come ‘razzismo’, ‘populismo’, ‘nazionalismo’, anche ‘fascismo’) si è improvvisamente addensato come una sorta di nuovo popolo che si separa nel paese, mettendo a punto un linguaggio, dei blocchi emotivi, nei bar, nelle strade, nei negozi, negli uffici, nelle piazze. Un ‘popolo’ che si è identificato nei ‘non’, nelle differenze dal potere, dalla politica, dalla finanza, dalla grande impresa, dalla globalizzazione, dalla tecnologia industriale, dalle <caste>, dal denaro. Anche dai meridionali, dagli immigrati, dagli altri ed estranei,

Chiaramente questa “cultura” appare agli occhi ed alle orecchie di quelli che una volta sarebbero stati chiamati <gli integrati>, cioè dei colti e formati, dei tranquilli, di chi non cambia spesso lavoro, di chi ha l’orizzonte sereno di un percorso tracciato, o delle risorse per farsi il futuro che si vuole, strana ed un poco aliena. Appare sconnessa, contraddittoria, mal costruita, oscura e per certi versi temibile; sembra pericolosa.

Questa reazione, di cui tutte le sinistre sono espressione (anche quelle ‘radicali’) non capisce nulla e non si vede che in questo c’è del nuovo. Rischia, più o meno tutta insieme, di fare la fine di De Maistre con la Rivoluzione Francese, cioè slittamento per slittamento, di trovarsi alla corte di Alessandro di Russia.

Questa reazione al plebeismo di questa ‘rivolta’ (che non è ancora una ‘rivoluzione’, di qualunque segno, e forse mai lo sarà), per ora identificabile come un ‘momento Polanyi’ con singolari e rischiose analogie con gli anni trenta (quando intellettuali allora di sinistra, come Sombart, indicarono la svolta), porta in altre parole molti a cercare di arroccarsi entro il sistema sfidato. La scelta di LeU, di utilizzare i profili istituzionali dei Presidenti di Camera e Senato e di enfatizzare in ogni occasione la propria ‘responsabilità’ suona infatti a molte orecchie come chiara scelta del campo. Un campo affollato e in via di restringimento, nel quale non c’è spazio e nel quale il 3% raggiunto appare già come un risultato notevole.

Ma anche PaP, che ha inteso restarvi fuori, rigetta il plebeismo. Invece di fare tesoro della ‘tecnica della spugna’ del M5S, della capacità di addensare i sentimenti, le parole, le pulsioni e di solidificare i vapori diffusi, ha ripetuto i suoi slogan identitari. Peraltro divergenti in modo radicale gli uni dagli altri, a causa di un rassemblement costruito necessariamente troppo in fretta e senza un vero centro.

Del resto se anche fosse vero, ma credo che questo sia parte del problema, che come scrive il mio amico Riccardo Achilli “ogni crisi e ogni fase di transizione generano, nel nostro popolo, sottoprodotti di scarto, come il giustizialismo, il plebeismo, il qualunquismo, l’avventurismo, l’anarco-individualismo”, bisogna comunque chiedersi in modo più attento perché tutto questo si è risolto nel 55% dei consensi alle forze antisistema rappresentate da M5S (32%), Lega di Salvini (17%) e la più tradizionale Fratelli d’Italia (4,5%), il primo, terzo e quinto partito, mentre le forze responsabili che hanno guidato la seconda repubblica sono scese al 40%, con il PD (18%) e Forza Italia (14%), insieme all’appendice, e considerata tale, di LeU (3%).

Ci sono naturalmente molte, diverse, spiegazioni, ma torniamo agli “snodi della situazione”; in sostanza mi pare di poter dire che la sinistra liberale (tra cui va annoverata anche LeU, che ne è solo la propaggine più radical) fatica a confrontarsi con le conseguenze de:

  • la nuova ‘piattaforma tecnologica del capitalismo’ e con le sue conseguenze sul mondo del lavoro e la distribuzione,
  • l’accelerazione dei processi di disarticolazione che ne sono parte e dei fenomeni di mobilità, con le loro radicali e crescenti conseguenze (qui viene rigettato, in nome di un cosmopolitismo verniciato di internazionalismo il tema dirimente dell’immigrazione, su cui abbiamo di recente letto Sahra Wagenknecht),
  • l’Europa nel contesto del processo di ricomposizione egemonica in corso (che avevamo chiamato “la grande partita”),
  • lo smottamento della base sociale della democrazia e l’attacco al suo ‘carisma’.

Certo chiunque fatica a confrontarsi davvero con queste forze. Tanto più quanto cerca di leggerle con gli occhiali costruiti per altre ‘piattaforme tecnologiche’ (quella fordista in primis, ma anche quella post-fordista che si sta radicalizzando andando oltre se stessa e revocando via via anche i compromessi che la costituivano, come la flessibilità in cambio del lavoro), per società ancora solide che si stanno rivelando stremate e per un progetto internazionale che presumeva un’omogeneità politica e culturale prospettica che si allontana verso modelli multipolari di difficile interpretazione. Lo smottamento della base sociale della democrazia è solo il necessario suggello a questa molteplice frana.

Dunque il 4 marzo è venuta giù la slavina che seguiva al disgelo lento di forze accumulate nel lungo tempo degli ultimi trenta anni.

Il sud Italia si è unito, come mai si era visto in precedenza, garantendo maggioranze che si possono definire ‘bulgare’ al M5S, che in alcuni territori ha superato il 60% dei consensi. Il nord Italia ha visto l’affermazione impetuosa della Lega, che è cresciuta di oltre quattro volte, portandosi ad un’incollatura dal secondo partito, in caduta libera.

Quelle espresse dal M5S al sud e dalla Lega al nord sono, a tutta evidenza, due diverse forme di politica ‘maggioritaria’ (secondo la definizione che ne dà un manifesto della politica elitaria e tecnocratica come “Lo Stato regolatore” di Majone) e di ricerca di protezione, armate l’una contro l’altra.

Il miracolo del 4 marzo è cioè figlio dell’improvviso manifestarsi, ad un livello qualitativamente superiore, di quella che Laclau chiamerebbe due diverse “faglie di antagonismo”, entrambe originate dalla sofferenza e dalla paura che la metà inferiore della piramide sociale vive. Quindi da due diverse domande di protezione. Sinteticamente dalla protezione dal mercato, da una parte, e dallo Stato tassatore (eventualmente anche europeo), dall’altra.

Il lavoro che il M5S, da una parte, e Salvini dall’altra (gli indiscutibili vincitori), hanno fatto è per entrambi di identificare, in qualche modo nominare, un obiettivo centrale per orientare le energie disattivate dalla crisi. Questo ha consentito a molti di trovare la ragione per oltrepassare l’inibizione che la pressione insopportabile dell’incertezza e della scarsità porta con sé nell’identificazione chiara di un colpevole. Si tratta di un’operazione, non ha molta importanza qui se cosciente o ‘trovata’ solidificando vapori diffusi, propriamente politica (che anzi ne è il proprio) di costruzione di egemonia. La creazione di un profilo individuale nella rappresentazione politica.

La sfida che questo ‘doppio popolo’, manifestatosi nelle urne, pone in primo luogo nella modalità della sua costruzione, alla logica razionale del discorso liberale corrente è tutto in questo ‘eccesso’. Majone ci insegna che la politica ‘madisoniana’ (per la cui radice storica rimando a questo testo di Alan Taylor) nella quale abbiamo vissuto in particolare gli ultimi trenta anni è necessariamente parsimoniosa nella ricerca del consenso, anzi in sostanza ne fa a meno. Cerca di legittimarsi da un’altra fonte (ed infatti proliferano i meccanismi per ottenere la licenza d’uso a buon prezzo, con meno voti possibili, con i più diversi trucchi ‘maggioritari’), come dice il politologo italoamericano nella credibilità dei risultati anziché nella delega della maggioranza. La fonte della legittimità, per la generazione di politici cresciuta negli ultimi decenni, non è davvero il consenso degli elettori, e la responsabilità verso i Parlamenti, ma la verità della tecnica ed i risultati, in ultima analisi il successo. Non è affatto un caso che l’Unione Europea sia quello che è: di questa logica è il distillato più puro al mondo. In essa si ha un netto e pulito rovesciamento, perché a ben vedere sono i governi che controllano i Parlamenti attraverso gli schermati organismi europei (come gli Eurogruppi o il Consiglio Europeo), cfr. Majone, cit. p.168. E per farlo ricorrono anche a ‘fiduciari’ (dei mercati-sovrani, non certo dei cittadini) che non sono legati da vincoli di mandato ma sono “indipendenti”, il migliore esempio è la BCE (di cui presto avremo notizie). La mossa vincente è disperdere il potere fra istituzioni differenti (una mossa antica ed in effetti fondativa dell’assetto politico moderno, come si vede dal libro di Taylor sulla democrazia americana delle origini) il più possibile al sicuro dall’opinione dei cittadini.

La questione non è astratta, perché c’è un nesso forte e sistematico tra la possibilità di politiche redistributive (che necessitano di uno Stato forte, ‘gestore’ come dice, e di politiche attive ed energiche) e la loro legittimazione, che deve necessariamente passare per maggioranze politiche altrettanto attive ed energiche. Indebolirle, frammentando il potere e portandolo oltre le braccia degli elettori (cioè passare allo “Stato [solo] regolatore”) implica una diversa fonte di legittimità, ancorata non al voto della maggioranza ma all’efficacia credibilmente rivendicata, cioè al sapere tecnico. Questi organismi sono quindi in effetti “creati deliberatamente in modo da non renderli direttamente responsabili verso l’elettorato o i rappresentanti elettivi” (Majone, cit. p.169).

Allora quel che anche la liberale LeU non ha capito davvero è che la questione del populismo democratico non è aggirabile, in particolare se si vuole pensare a politiche redistributive e di protezione. Nella logica corrente queste non sono possibili, e per ragioni sistematiche che vanno anche oltre il mero economico.

Quando si conferma l’abbandono delle politiche ‘populiste’ (o ‘maggioritarie’, ovvero volte a ricercare il consenso delle maggioranze, della plebe) è necessario restringere la politica in favore di un potere amministrativo che trae altrove la sua legittimità (in una idea di “ragione” posta prima del discorso stesso, in qualche modo nelle cose e nei saperi tecnici che le rappresentano).

Se, invece, si corre il rischio dell’eccesso si può ricostruire un politico. È quello che hanno fatto davanti ai nostri occhi stupefatti sia il M5S sia Salvini.

Non c’è alcuna speranza per la sinistra se non supera se stessa e impara.

Podcast n°21 (Parte Seconda) Chi per primo chiuderà il cerchio? di Gianfranco Campa

Gianfranco Campa in questa seconda parte pone finalmente la domanda fondamentale riguardante l’esito del caso Russiagate. Sembra sul punto di offrirci una volta per tutte la soluzione dell’enigma. Alla fine, però, si ritrae.

Il motivo è semplice.

Il Russiagate non è un caso giudiziario, vincolato quindi all’accertamento della verità. E’ un terreno di scontro prettamente politico ma dai connotati di una violenza inaudita e inusuale anche per un palcoscenico così spregiudicato come quello americano. Saranno quindi le prossime scadenze politiche a segnare il finale di questa “novelas”. Quanto più lo scontro diventa violento, tanto più esso assume  le caratteristiche di una lotta tra il bene e il male. Quale sarà il bene lo determineranno come sempre i vincitori. Il suo inevitabile trionfo richiederà il sacrificio definitivo dei perdenti. Il vorticoso valzer di nomine e rimozioni tra lo staff presidenziale rappresenta un ulteriore indizio dell’approssimarsi di questo momento.

Nel frattempo non ci resta che la curiosità di veder scorrere la pletora di personaggi minori intenti ad assecondare nell’ombra queste trame; loro malgrado, di tanto in tanto vengono attraversati dalle luci della ribalta, così segnandone almeno temporaneamente il destino. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

qui il link della 1a parte

http://italiaeilmondo.com/2018/03/12/podcast-n21_chi-per-primo-chiudera-il-cerchio_-di-gianfranco-campa/

qui sotto il podcast

SPIGOLATURE_ A CURA DI GIUSEPPE GERMINARIO

Qui sotto un breve post di Antonio de Martini sull’uso politico e geopolitico della logistica legata al sistema agroalimentare e sulle risorse di base necessarie alla vita delle comunità. In allegato il link ad un significativo documento stilato da tre studiosi americani e relativo all’argomento. Il testo è in inglese, ma con un traduttore si riesce comunque a coglierne il senso generale.

E’ il prodromo ad una prossima intervista_Giuseppe Germinario

PROSSIMA FERMATA, IL CAIRO, di Antonio de Martini

Ovvio che un documento accademico scritto da ben tre studiosi americani ( di differente origine nazionale e religiosa) di una prestigiosa università , sia una seria base di meditazione.

In particolare se il documento mostra che esiste una relazione precisa tra le rivolte arabo-africane degli ultimi anni e il prezzo internazionale del grano condizionato dalla borsa merci di Chicago.

Se si aggiunge a questa vicenda che oggi con la Diga RENAISSANCE etiopica ( lavoro terminato ma che non eroga elettricità, dato che Addis Abeba continua ad avere solo tre giorni a settimana di corrente, trattiene solo l’acqua del Nilo) si vuole ripetere il terribile gioco con l’Egitto e il Sudan, il quadro è più chiaro.

Nota a margine dell’autore. La Siria, negli anni, ha costruito una serie di silos enormi per non farsi ricattare nella vendita del grano annuale aI brokers internazionali. Il primo bombardamento punitivo di Obama sulla Siria non ha riguardato basi militari o colonne di rifornimento all’hezbollah, ma proprio i silos del grano che evitavano l’obbligo a vendere nelle date fissate dai contratti Continental Grain.
Miracolosamente nel precedente decennio, in quelle date, il prezzo del grano di riferimento crollava alla…borsa merci di Chicago e i siriani subivano regolarmente ingenti perdite.

http://necsi.edu/research/social/food_crises.pdf

Qui sotto, invece, un arguto commento di Pierluigi Fagan riguardante la natura e il retroterra politico-culturale del renzismo presente nel panorama politico italiano sin dagli albori della Repubblica

TAKE OVER. La Physocephala vittata è un insetto che depone le uova dentro il corpo della vittima, poi se ne ciba dal di dentro e la induce a sotterrarsi prima di spirare di modo da trovarsi casa e cucina pronte per far passare una felice e protetta infanzia alla propria prole. Negli anni ’80, tempi di scalate di giovani raider, si prendeva il potere di una azienda, la si svuotava dal di dentro e nonostante ovviamente si fosse perso molto dell’originario valore, rimaneva pur sempre una infrastruttura base che si sarebbe dovuta altrimenti costruire ex novo con molta maggiore fatica.

Così Renzi col PD, una formazione politica nata grande, composta da molte tribù politiche al suo interno e con un vasto quanto eterogeneo elettorato esterno. Renzi ha indotto alla secessione l’anima ex-PDS ed ora cercherà di fare altrettanto con gli ex Ulivo/Margherita di cui pure si era posto come riferimento. Colpiva ieri sentire l’istituzionale e felpato Zanda parlare con toni inalberati e velenosi anche a nome di Franceschini, Gentiloni ergo Mattarella, delle dimissioni a parole e non nei fatti.

Alcuni hanno avanzato l’ipotesi che Renzi si sarebbe fatto un suo En Marche ma costoro non hanno calcolato quanto difficile sia una start-up e quanto rischioso sia proporsi per una adesione attiva. Una cosa è chiedere un voto espressamente per sé, altra cosa è chiedere un voto per conto di una nebulosa simbolica a cui molti sono affezionati, che sia perché progressista o socialdemocratica o social cristiana o di sinistra moderata e responsabile o social moderna o riformista migliorista o altro dei vari concetti di cui quella tradizione è tentativo (mal riuscito) di sintesi.

Non è solo la differenza tra fare una cosa daccapo e modificare una cosa che già c’è, non è solo preferire di risultare ambiguamente al centro di una serie di proiezioni ideali piuttosto che esporsi dichiaratamente in un modo preciso che esclude altrettanto precisamente altre opzioni, è che -conti alla mano- ciò che davvero rappresenta politicamente Renzi in quanto idee ovvero il “liberalismo progressista”, in Italia, pesa storicamente molto poco. Il liberalismo progressista ha lontana origine nella mentalità dei fondatori della Gran Loggia di Londra che fondò la moderna massoneria a partire dall’Inghilterra. Certo non il 18% che oggi ha, ma neanche un 8% che forse avrebbe sotto altro marchio. Anche dovesse alla fine ritrovarsi con un PD al 10%, ne avrebbe sempre un saldo attivo, rispetto al lancio di un nuovo marchio.

Ieri Renzi, ha dato colpa della sconfitta a coloro che gli hanno bocciato il referendum e poi a coloro che gli hanno impedito di andare ad elezioni prima sfruttando l’onda lunga della vittoria di Macron in Francia. La prima è semplicemente una stupidaggine perché non c’è alcuna ragione logica per sostenere quella affermazione, la seconda è addirittura un insulto all’intelligenza elettorale, come a dire “la gente è stupida, intontita dal successo di Macron mi avrebbe scambiato per lui e mi avrebbe votato sull’onda dell’entusiasmo e dell’imitazione gregaria.”. Poi ha ribadito i suoi punti forti, tutte dicotomie di cui lui è il bene e tutti gli altri il male, congegno retorico tipicamente demagogico.

Gli ex-ex comunisti li ha fatti fuori, ora vedremo cosa succede con gli ex-ex democristiani, pezzi meno facili. Un po’ dispiace, dispiace per gli amici ed amiche che continuano a votare pur con i maldipancia quel simbolo di una galassia valoriale che aveva i suoi perché, dispiace per il disequilibrio che induce nel quadro politico, dispiace per il significato politico davvero misero di questa storia troppo anni ’80. Questa l’essenza del furbo provinciale toscano, una modernità mal masticata a metà tra Fonzie e Gordon Gekko che sta divorando dal di dentro il corpaccione cristiano-social-democratico, in nome di una esuberante volontà di potenza che si ispira ai valori del liberalismo anglosassone risciacquati in Arno e supportata da una tribù di giovinastri altrimenti anonimi proiettati al vertice del mondo che conta. Una storia molto italiana, direi.

Scritti tratti da facebook

Podcast n°21 (Parte Prima) Chi per primo chiuderà il cerchio? di Gianfranco Campa

Le trame ormai si accavallano e si intrecciano. Nelle intenzioni dei tessitori il Russiagate avrebbe dovuto compiersi in poche settimane e colpire o almeno paralizzare il Presidente Trump isolandolo dallo staff a lui più vicino. L’inconsistenza della costruzione accusatoria e il protrarsi a tempo indefinito delle indagini contribuiscono a minare pesantemente la credibilità dei protagonisti impegnati nell’opera di demolizione. Poco alla volta emergono gli elementi di una vera e propria macchinazione messa in opera e i nomi delle personalità più compromesse. Non è più la caccia senza storia del gatto intento a giocherellare con il topo prima di annichilirlo; il roditore si sta trasformando in un contendente in grado di impensierire seriamente il felino. Gianfranco Campa, passo dopo passo, podcast dopo podcast, sta dipanando pazientemente la trama; i vari burattini abituati ad agire nell’ombra sono man mano ormai allo scoperto. I fili conducono apparentemente ad una sola burattinaia; non è escluso che alla fine possano emergere anche insospettabili convitati di pietra, tuttora dalle grandi ambizioni politiche. Sarebbe lo sconvolgimento completo dell’attuale quadro politico americano già particolarmente instabile. Dietro le rivalità, i complotti e le macchinazioni si nascondono le rivalità personali, ma soprattutto punti di vista divergenti sulla conduzione della politica interna ed estera. Gli altri attori dello scacchiere geopolitico internazionale sembrano averlo compreso ben presto, pur con qualche eccezione sconfortante tutta concentrata nella nostra Casa Europa. Nascondere è forse un termine inadeguato. Si potrebbe dire, piuttosto, che attraverso quelli si realizzano questi ultimi. Il confronto è ancora aperto, anche se non alla pari. Le elezioni di medio termine nell’autunno prossimo potrebbero rivelarsi il punto di svolta decisivo non solo per gli Stati Uniti. L’unica costante dell’intera vicenda rimane la vergognosa connivenza ed omertà del sistema mediatico americano e dei portatori di veline locali sparsi nella periferia. Buon ascolto_Germinario Giuseppe

https://soundcloud.com/user-159708855/podcast-episode-21-1

LA CRISI DELLA SINISTRA FRA IPOCRISIA, METAMORFOSI E IMPOTENZA, di Francesca Donato

Il dibattito mediatico sorto in seguito al risultato del voto del 4 marzo si avvita in
questi giorni attorno a due interrogativi fondamentali: le ragioni del crollo della
sinistra, nelle sue varie declinazioni partitiche, e quelle del trionfo dei due partiti
“populisti” Lega e M5S.
Entrambi i quesiti faticano ad ottenere risposte convincenti da parte degli
esponenti dei partiti sconfitti, e le spiegazioni fornite dai vari giornalisti, opinionisti
e politologi che sono cresciuti nutrendosi degli slogan funzionali al sistema di
governo sino a ieri in forze, risultano altrettanto inconcludenti.
Per effettuare una corretta analisi della crisi della sinistra italiana, è necessario
partire da un esame obiettivo dello stato di salute della sinistra in Europa, visto che
facciamo parte dell’Unione europea, ma anche dall’esame della situazione politica
d’oltreoceano, dato che viviamo in un mondo “globalizzato”.
Contrariamente a quanto affermato da vari commentatori, la débâcle della sinistra
in Europa non è affatto omogenea.
Al di là dei casi di Germania, Austria e Paesi dell’est, in cui le forze politiche di
destra o centrodestra sono cresciute a spese delle sinistre locali, vi sono altri Paesi
in cui invece la sinistra, nella sua veste più “estrema” (cioè tradizionale), ha
ultimamente guadagnato molte posizioni rispetto alle elezioni precedenti.
Gli esempi più recenti sono quelli dell’inaspettato successo di Mélenchon in
Francia (su cui è calata una coltre di nebbia subito dopo l’elezione di Macron) e
quello di Corbyn nel Regno Unito, ma non si può dimenticare il risultato di
Podemos in Spagna, né tantomeno il trionfo di Tsipras in Grecia. Successi ai quali
gli stessi politici che oggi si difendono dietro ad una presunta crisi generale della
sinistra in Europa, facevano riferimento millantando presunte affiliazioni o comunità
di intenti, in realtà inesistenti.
La vittoria di Trump negli USA, che molti attribuiscono a fattori pittoreschi fra i quali
– facendo proprio la ridicola versione clintoniana della vicenda – l’ingerenza russa,
dipende in grandissima parte proprio dal fatto che la sfidante Hillary Clinton è stata
imposta dal Partito dei DEM sull’altro candidato Bernie Sanders, con modalità a dir
poco opache (per non dire fraudolente), che gli stessi elettori DEM hanno
vivacemente contestato. Se il candidato DEM alla presidenza uscito dalle primarie
USA fosse stato Sanders invece che Hillary Clinton, l’esito del voto avrebbe potuto
essere diverso.
Per capire il perché di suddette disomogeneità, è sufficiente dare uno sguardo ai
requisiti identitari dei vari partiti di sinistra stranieri: laddove essi si configurano in
senso tradizionale, cioè essenzialmente anticapitalista e socialista, gli stessi
guadagnano consensi; dove invece essi si propongono come fautori delle
“riforme” o promuovono obiettivi neoliberisti o europeisti, crollano. Quest’ultimo,
infatti, è stato il caso della sinistra nostrana.
La risposta all’interrogativo iniziale, a questo punto, diventa intuitiva: la causa del
declino inarrestabile della sinistra “progressista”, da noi come altrove, è la
deviazione dai suoi contenuti e connotati storici: l’anticapitalismo;
l’antimperialismo; la tutela dei diritti dei lavoratori e del welfare; l’affermazione del
ruolo dello Stato nell’economia, a difesa delle classi più deboli ed a garanzia di
uguaglianza sociale. In una parola sola: il socialismo.
Oggi la sinistra in Italia è diventata, invece, la prima testimonial del sistema
eurocentrico basato sulle cessioni di sovranità dei singoli Stati europei e governato
da una commissione fatta di soggetti non eletti, ma nominati fra una ristrettissima
élite di uomini di potere, e da una Banca centrale europea, con un board composto
dai governatori delle banche centrali nazionali, sotto la presidenza di un superbanchiere
benedetto dalle big Banks americane. Entrambe queste istituzioni
detengono interamente il potere politico e decisionale di governo in UE, e la BCE
indirizza e definisce precisamente e direttamente le politiche finanziarie degli Stati
membri dell’eurozona.
Ergendosi a garante del sistema così configurato, la sinistra è passata dall’essere
lo schieramento politico che per eccellenza tutelava le classi più deboli (il
proletariato, composto da operai e contadini) in opposizione agli interessi delle
classi più agiate (nobiltà e borghesia), al divenire la roccaforte degli intellettuali,
nobili o altoborghesi (non a caso definiti “radical chic”), con una metamorfosi
integrale che certamente ai ceti medio-bassi non è passata inosservata.
A ciò si aggiunto il suo atteggiamento infinitamente ed esacerbatamente tollerante
e di sconcertante minimizzazione verso il fenomeno drammatico dell’immigrazione
clandestina, con persistente cecità sia di fronte all’insostenibile entità del
fenomeno, esploso negli ultimi anni, che davanti alle prove del suo configurarsi
quale brutale traffico criminale di esseri umani, da destinarsi ad attività illecite e
lavoro nero o sottopagato.
Questa “upper class” che costituisce oggi la sinistra italiana, inoltre, mentre si
riempie la bocca di plausi alla “società aperta” e di richiami ad un’elevazione del
livello culturale nel nostro Paese, di fatto rifiuta ogni confronto od obiezione,
benché fondata ed argomentata, chiudendosi a riccio nel proprio mondo blindato e
colmo di pregiudizi, false sicurezze, autocompiacimento e paternalismo verso il
“popolo bue”, circondandosi così di un’aura di superiorità elitaria che ne segna
definitivamente la distanza siderale dal resto della popolazione.
Il PD, che è il partito principale di questa sinistra, rappresenta quindi la visione del
mondo di questa “splendida minoranza”, il che cozza frontalmente con la
possibilità per lo stesso di ottenere consenso da parte della maggioranza della
popolazione, che con la stessa non può certamente identificarsi, in assenza di
alcun obiettivo condiviso. Finché, infatti, gli argomenti cari al PD e suoi vari satelliti
restano primariamente “le riforme”, “l’Europa”, i “migranti” e i “diritti civili”, non c’è
da sorprendersi se la maggioranza degli Italiani non si sente rappresentata, anzi si
ritiene più propriamente dimenticata o, peggio, messa da parte a vantaggio degli
interessi di altri soggetti, ovvero i cosiddetti “poteri forti”: le grandi multinazionali,
bancarie e non, le classi privilegiate (“la casta”), e non ultimi, gli immigrati.
A chi obiettasse a tale interpretazione il successo iniziale del governo Renzi, vanno
ricordati due dati di non poco conto: Renzi ha governato sempre con i voti di
Bersani, che si era presentato al suo elettorato con un programma molto meno
Yuppie-friendly di quello renziano; inoltre, la famosa vittoria del PD di Renzi con il
40% alle elezioni europee, era stata ottenuta in presenza di un’astensione altissima
(dovuta alla diffusa percezione dell’inutilità del Parlamento europeo) ed in una fase
in cui il nuovo premier si poneva come “il rottamatore”, cioè il “nuovo” rispetto sia
ai vecchi volti della politica di sinistra (come Prodi), sia rispetto ai precedenti
governi “tecnici” (Monti e Letta) che avevano molto rapidamente destato il rigetto
della popolazione, implementando le politiche di austerità imposte proprio dalla UE
via BCE.
Ma presto Renzi si è accreditato come il premier dell’imprenditoria “vincente”,
dell’economia “4.0”, e amico (troppo amico) delle banche, specie toscane, con
tutti gli scandali connessi al bail-in di Banca Etruria e ai salvataggi di MPS.
Gli slogan con l’hashtag davanti ed i selfie a profusione non sono bastati a
nascondere ai cittadini martoriati dalle tasse sempre in aumento, da una crisi
economica interminabile, da un welfare smantellato pezzo dopo pezzo e da un
precariato divenuto la regola, la miseria della propria condizione e l’incubo di un
futuro di disoccupazione o sottooccupazione per i giovani. L’emigrazione dal
nostro Paese verso mete fino a un decennio fa impensabili (Albania, Portogallo)
oltre a Germania e Regno Unito, è aumentata esponenzialmente; la natalità è
crollata e la povertà si è allargata a fasce di popolazione prima immuni.
In tale contesto di abbandono a se stesso del Popolo italiano da parte della
sinistra, con un atteggiamento di sufficienza e avulsione dai problemi reali che ha
dell’incredibile, è stato facile e comodo per la destra (o per il partito anomalo dei 5
stelle) raccogliere l’eredità giacente dei suoi valori e delle sue lotte storiche per farli
propri e diventarne garante presso i Cittadini, i quali – dopo le ovvie reticenze
dovute allo smarrimento ideologico – si ritrovano oggi finalmente ascoltati nelle loro
istanze fondamentali e, quindi, rappresentati da tali soggetti.
L’opera mediatica di derisione o, peggio, demonizzazione delle destre e dei
“populisti” in genere, non ha fatto che acuire la contrapposizione fra il Popolo e la
sinistra, la quale ha comunque mostrato di non accorgersene, o di non curarsene
affatto.
Oggi, dunque, i sostenitori e gli elettori dei partiti di sinistra si sono ristretti ad una
classe “colta” o presunta tale, ma più propriamente privilegiata, in quanto ancora
immune dal disagio economico profondo patito dal resto della popolazione colpita
dalla crisi e dalla recessione, composta da cattedratici, professionisti di grido,
banchieri od operatori finanziari; dipendenti statali di alto livello, artisti o
personaggi dello show-business di successo, o mega-imprenditori con
cointeressenze economiche significative con i partiti di sinistra.
Per continuare a governare il Paese, la sinistra odierna non ha che un mezzo:
evitare il confronto elettorale. Per questo, coloro che fra le file della sua classe
dirigente lo hanno ben compreso, guardano all democrazia con evidente sospetto
e malcelata insofferenza e tifano per un governo sovranazionale europeo,
composto dalle élite di cui fanno (o credono di poter fare) parte.
E per questo, coloro che nell’ambito della sinistra tentano di riproporre un ritorno
alle origini, vengono dipinti come “reazionari” e sostanzialmente isolati e sabotati:
qualsiasi posizione sgradita al gotha degli “illuminati” non merita spazio in un
sistema siffatto.
Dovrà quindi sbrigarsi, questa sinistra europeista, in accordo e sinergia con le altre
sinistre eurocentriche, ad eliminare del tutto il residuo margine di influenza del voto
democratico sugli assetti di governo nazionali, per non venire travolta presto ed
inesorabilmente dalla rivolta del nuovo proletariato che essa stessa ha creato ed
esasperato sempre più, anno dopo anno, negli ultimi vent’anni e specialmente dal
2008 ad oggi.
Solo se questo piano delle élite fallirà – e perché ciò avvenga, il ruolo
dell’informazione libera ed indipendente è fondamentale – i Popoli potranno
nuovamente vedere al governo i propri rappresentanti e sperare in una tutela dei
propri interessi. Diversamente, il mondo dipinto da Orwell nel suo più noto
romanzo, già divenuto realtà sotto molti aspetti, sarà compiuto e a noi cittadini
dell’Eurasia non resteranno che i cinque minuti di odio per sfogare la nostra inutile
e inerme rabbia, verso i capri espiatori che il regime stesso ci darà in pasto.

http://www.progettoeurexit.it/la-crisi-della-sinistra-fra-ipocrisia-metamorfosi-e-impotenza/

A PROPOSITO DELLE ELEZIONI DEL 4 MARZO, di Massimo Morigi

A PROPOSITO DELLE ELEZIONI DEL 4 MARZO 2018: BREVI RIFLESSIONI ATTORNO A  PACCO-ITALIA: ALTO/BASSO, FRAGILE, MANEGGIARE CON CURA DI ROBERTO BUFFAGNI E A SI APRANO LE DANZE DI GIUSEPPE GERMINARIO

 

Di Massimo Morigi

http://italiaeilmondo.com/2018/03/06/pacco-italia-alto-basso-fragile-maneggiare-con-cura-di-roberto-buffagni/

Si aprano le danze, di Giuseppe Germinario

 

Pur senza consapevolezza della posta in gioco e delle eventuali conseguenze da parte del corpo elettorale, le elezioni politiche italiane del marzo 2018 hanno decretato la morte delle vecchie classi dirigenti e delle loro ideologie (liberalismo ed antifascismo) che avevano legittimato di fronte ai vincitori la ricostruzione di una nazione uscita sconfitta dal secondo conflitto mondiale. Si tratta di un evento epocale di fronte al quale, in questo momento, appare onestamente del tutto secondario che la forza uscita vincitrice al nord del paese, pur espressione della sua parte più produttiva, non abbia alcuna consapevolezza teorica della posta in gioco e che la forza egemone al sud sia espressione di profonde e radicate pulsioni assistenzialistiche, senza rendersi conto gli elettori di questa parte politica che la realizzazione di un piena cittadinanza può essere realizzata solamente liberandosi dei lacci mentali dell’ideologia liberale ed antifascista che rende l’Italia una colonia economica, politica e culturale, una condizione liberatasi dalla quale solo allora sarà possibile innestare in Italia una autentica rivoluzione attraverso la quale anche le vecchie forme assistenzialistiche (prima democristiano-comuniste ed ora di appannaggio esclusivo dei pentastellati) possono tramutarsi in una autentica occasione di profondo e reale sviluppo (cioè di rivoluzione) per il sud e quindi per il resto del paese. Ma anche la forza ora politicamente egemone al nord, la Lega, non riesce ancora ad esprimere la consapevolezza che i suoi ambiziosi ed ampiamente condivisibili obiettivi (drastico abbattimento fiscale, difesa culturale dell’identità italiana e tutela economica dell’Italia e dei suoi operatori contro la peste delle globalizzazione)  sono possibili solo gettando a mare gli idola tribus ideologici di cui si è detto prima riguardo ai cinque stelle. Il processo iniziato con le elezioni del 4 marzo 2018 non è ancora completato. Da parte della Lega manca ancora il completo inglobamento di quell’equivoco chiamato Forza Italia; e da parte del movimento pentastellato non è ancora del tutto riuscito l’annientamento di quell’altro grande equivoco che va sotto il nome di partito democratico. Quando (e se) questo processo sarà completato, se ciò non sarà accompagnato da una migliore consapevolezza teorica della posta in gioco, cioè l’abbandono degli idola tribus chiamati liberalismo ed antifascismo con le conseguenze di servaggio dalle potenze straniere che sono il loro logico corollario, l’Italia, come acutamente paventa l’amico Roberto Buffagni in Pacco-Italia: Alto/Basso. Fragile. Maneggiare con cura,  ritornerà veramente ad essere una metternichiana espressione geografica. Se invece questo processo di ribellione dalle attuali élite sarà parallelamente accompagnato da un’analoga maturazione e liberazione politico-culturale, si può veramente sperare che le due direttrici della protesta possano veramente mutare natura e divenire le due formidabili braccia di una rivoluzionaria manovra a tenaglia che spezzerà le catene che tengono legata l’Italia da più di settant’anni. Se ciò non sarà, il movimento cinque stelle riconfermerà la sua natura intimamente servile di guardia bianca controrivoluzionaria al servizio delle potenze straniere che hanno vinto il secondo conflitto mondiale, e la Lega non potrà certo pretendere (e non vorrà assolutamente intraprendere) quella legittima azione di liberazione economica dalle tecnoburocrazie italiane ed europee e dalle rimanenti bardature economico-clientelari del morente PD del nord. Insomma, in questa che Germinario chiama “apertura delle danze” siamo ancora al minuetto. Penso che non dovremo attendere molto per vedere se il minuetto si trasformerà in una luttuosa marcia funebre per l’Italia oppure in un energico boogie-woogie, che, come si sarà capito, non è qui metafora di un idilliaco stato di quiete ma l’augurio di una rinnovata consapevolezza strategica perennemente   in statu nascenti, il cui cardine è la comprensione della natura intimamente creatrice del conflitto qualora questo si svolga in forme razionali e socialmente condivise. Una epifania strategica che sarebbe veramente singolare – e triste – che non si manifestasse in una nazione che ha dato i natali a Niccolò Machiavelli, Giuseppe Mazzini ed Antonio Gramsci.

Massimo Morigi – 8 marzo 2018

Pacco-Italia: Alto/Basso. Fragile. Maneggiare con cura, di Roberto Buffagni

Pacco-Italia: Alto/Basso.

Fragile. Maneggiare con cura

 

Com’è il pacco-Italia che ci hanno recapitato le elezioni politiche 2018?

Be’, anzitutto è rovesciato: presenta il lato Basso in alto. Però sconsiglierei di raddrizzarlo bruscamente, perché il pacco è molto Fragile: basta guardarlo un momento, e si vede che presenta una netta linea di frattura proprio a metà, fra Nord e Sud. Insomma: maneggiare con cura.

Non stupisce, che il Basso (Lega al Nord, Movimento 5 Stelle al Sud) abbia rovesciato l’ Alto. Il centro di gravità dell’Alto che sinora ha governato l’Italia (il PD) era situato troppo, troppo in alto: geograficamente, oltre la cintura alpina, a Bruxelles e a Francoforte; socialmente, nei ceti che, a torto o a ragione, identificano il loro interesse con l’Unione Europea; geopoliticamente, lungo la direttrice nordeuropea, che rovescia la naturale direttrice mediterranea dell’interesse nazionale italiano. Con la testa nelle nuvole, l’Alto ha lasciato che il Basso si allargasse, si appesantisse, si depositasse sempre più in basso, ed ecco il risultato: Basso continuo, dalle Alpi a Capo Passero.

Il risultato è un enigma, perché non può esistere un Basso senza un Alto. Chi formerà il nuovo Alto di questo Basso, e come? Il quesito da risolvere è questo.

Una prima analisi del Basso italiano distingue tra un Basso nordista che sventola la bandiera del Lavoro e, ancora timidamente, la bandiera della Nazione; e un Basso sudista che sventola la bandiera del Soccorso e, ancora timidamente, la bandiera dell’Unione Europea. Il Basso nordista cerca di diventare Popolo liberandosi dal suo servaggio con lo strumento tradizionale del suo riscatto, la laboriosità; il Basso sudista si presenta per quel che è, Plebe; e se da un canto se ne inorgoglisce sfacciatamente (“uno vale uno” vuol dire “non siete meglio di noi”) dall’altro mendica da “Franza o Spagna” l’urgente soccorso di cui ha vero bisogno, il “reddito di cittadinanza”, il “purché se magna”.

Si ridisegnano, insomma, a centosettant’anni di distanza, le linee di frattura sociali e geografiche che non riuscì a saldare l’ “eroico sopruso” dell’unificazione nazionale italiana, e ci impongono un urgente esame di realtà, senza il quale non potrà sorgere un Alto che guidi questo Basso.

Ci hanno fornito le coordinate essenziali di questo esame di realtà tre dei maggiori interpreti della storia e dell’identità italiana, che tutti conosciamo dai tempi della scuola: Alessandro Manzoni, Giacomo Leopardi, Giovanni Verga. Il conte Manzoni dedica la sua opera maggiore alle vicende di un’operaia tessile e di un operaio qualificato che diventa piccolo imprenditore. Il conte Leopardi, in una delle sue poesie più luminose, si fa pastore errante, un marginale così isolato che gli tocca di parlare con la luna. Il rentier Giovanni Verga, nel suo romanzo migliore, ci racconta la storia di una famiglia di poveri pescatori e di un carico di lupini. Ciascuno a suo modo, Alessandro Manzoni, Giacomo Leopardi e Giovanni Verga ci dicono una verità che noi italiani già sappiamo tutti, se appena ci riflettiamo e siamo onesti con noi stessi: che il modo di essere naturale, archetipico, dell’Italia e degli italiani è la povertà. Siamo stati la quinta potenza industriale del mondo, tuttora possediamo, neonati compresi, un paio di telefoni cellulari a testa, ma la povertà resta, nel bene e nel male, la nostra casa: finché ne avremo una. Povertà e ricchezza hanno ciascuna le sue virtù e i suoi vizi. Virtù e vizi della ricchezza – amore della gloria e della sfida, fiducia in se stessi, alterigia, distacco – non ci riescono bene. Siamo decisamente più a nostro agio con virtù e vizi della povertà. Le principali virtù della povertà sono: sapere, fin dentro le ossa e il midollo, che la sciagura esiste sul serio, nella vita quotidiana di tutti e non solo nei libri; la modestia del realismo; la dignità che ne consegue; e la laboriosità. I principali difetti della povertà sono: il sogno della ricchezza che divora tutto; la millanteria della grandezza; il vittimismo; e la tentazione ricorrente del melodramma, cioè a dire la tentazione di credere e agire come se i poveri e i deboli, solo perché poveri e deboli, fossero buoni e incolpevoli: come se la responsabilità di errori colpe e mali fosse sempre dei ricchi e forti, e soprattutto degli altri.

Per noi italiani la tentazione del melodramma – la tentazione di dare la colpa (e con la colpa, la responsabilità) agli altri – è oggi la più forte e la più pericolosa: e il Movimento Cinque Stelle ne è l’espressione politica schiettamente servile. Non è un caso fortuito che a fondarlo sia stato un comico. La posizione del comico è la posizione del servo, che nella zona franca della scena, dove gli spari non uccidono e le decisioni non impegnano, può salire in Alto e dire le sue ragioni. In condizioni normali, cioè se il centro simbolico, politico e sociale tiene, quando cala il sipario il servo riprende il suo posto nel mondo e torna in Basso. Oggi il centro non tiene, e il Servo si ritrova in primo piano sulla grande scena del mondo, dove le scelte hanno conseguenze, le decisioni impegnano, gli spari uccidono: e spaurito, incredulo, se ne esalta e sogna.

Che cosa sogna, il Servo-Movimento Cinque Stelle? Be’: continua a sognare, in forma semplificata, ingenua, caricaturale, il sogno che gli ha insegnato a sognare il suo padrone, il PD: il sogno dell’Europa “dove lavoreremo un giorno di meno e guadagneremo un giorno di stipendio in più”, secondo la gesuitica profezia di Romano Prodi; e lo riformula sognando che da Lassù, Qualcuno ci recapiterà lo stipendio senza che ci diamo la briga di lavorare neanche un’ora. Insensato? Certo che è insensato. E allora? A tanti italiani, specie al Sud, appare insensata l’ambizione di lavorare, crescere una famiglia, mettersi un tetto sulla testa e una lapide sulla tomba, insomma: appare insensata la vita. Perché non preferirle un sogno, altrettanto insensato ma lieto?

La Plebe del Sud che vuole sognare e il suo partito, il Movimento Cinque Stelle, sono dunque l’avversario politico naturale del Popolo del Nord, che vuole destarsi.  Se il Nord saprà proporre al Sud una via praticabile e una prospettiva sensata, vivibile anche da svegli, dal Basso del Nord e del Sud potrà sorgere un nuovo Alto, capace di ricomporre e guidare l’Italia intera. Se non ci riuscirà, l’Italia ne uscirà balcanizzata, e tornerà ad essere un’ “espressione geografica”, come la definì la celebre formula del principe Clemens von Metternich.

Si aprano le danze, di Giuseppe Germinario

Siamo all’apertura delle danze. L’esito degli esami corrisponde all’incirca ai voti di ammissione assegnati.

I resti di una classe dirigente che, rimossa senza troppe riflessioni la propria appartenenza di origine, ha governato senza gloria e imprimendo ferite indelebili al paese il dopo Tangentopoli senza trovar di meglio che rifugiarsi nella ridotta di Liberi e Uguali assieme ai paladini del diritto umanitario e della soluzione giudiziaria del conflitto politico, devono ormai riporre mestamente i remi in barca. D’Alema, Bersani avranno il privilegio di disporre di un caminetto e di poter punzecchiare qui e là, con le loro fondazioni e circoli, senza infastidire più di tanto e dopo aver strumentalizzato da par loro i resti di un movimento. Di Grasso e Boldrini ogni commento è superfluo, come superflua è stata la loro presenza politica in questi ultimi cinque anni ridotti come sono, specie l’ex terza carica, ad una caricatura.

I polli allevati in quella batteria, in particolare nel vivaio di Francesco Rutelli, li hanno scalzati appoggiandosi al Rottamatore, confidando in tal modo nella propria sopravvivenza. Un sodalizio, piuttosto una tregua concordata, durato appena tre anni. Ai primi segni di eccessivo carico di una nave in tempesta è stata la prima zavorra ad essere eliminata per salvare il comandante e la ciurma più fedele. La ripartizione dei posti nelle circoscrizioni elettorali è stato lo strumento di questa selezione con buona pace dei Franceschini e dei Cuperlo. Un modo, anche, per rendere ancora più impervia una successione non concordata con il monarca traballante.

E il monarca traballante, Renzi, pur dimissionario non ha alcuna intenzione di rinunciare alla partecipazione della tessitura. Pur di esistere è disposto a rimaneggiare ulteriormente la ridotta entro cui arroccarsi. Annuncia un nuovo congresso dove si chiariscano definitivamente rapporti di forza e linee politiche, quasi che il precedente appena celebrato non avesse già assolto ferocemente al compito. Fa il muso duro agli avversari interni ed esterni, soprattutto al M5S; nella sua determinazione, però, si riserva di “scandire i no ma anche i sì”, segno che le trattative prima o poi dovranno partire. Potrà, alla bisogna, nascondersi dietro la foglia di fico di un nuovo segretario prestanome, ma il solco comincia ad essere tracciato senza alcuna distrazione sul rispetto delle linee fondamentali portate avanti sino ad ora a dispetto delle batoste “democratiche”. Nelle more ci ha pensato l’insignificante risultato di Casapound a certificare la pretestuosità delle emergenze fasciste e razziste in agguato. Il nostro, ormai, rimane aggrappato ad una sola speranza: logorare il M5S e approfittare di una parte delle spoglie di Forza Italia. Il ventaglio delle opzioni e i margini di manovra si restringono ormai sempre più; l’ultimo appuntamento fruibile potranno essere le elezioni europee del ’19 sempre che la situazione non precipiti. Le sponde europee, a cominciare da Macron, non mancano. Un ipotesi quindi tutt’altro che peregrina. Allo stato, vista l’attuale composizione del gruppo dirigente, Renzi non ha rivali. Il pericolo potrebbe arrivare da chi ha scelto di non partecipare alla battaglia elettorale e di rimanere in attesa ai margini pur partecipando attivamente al dibattito. Una tattica della quale Renzi si è rivelato maestro. Si sa però che prima o poi un discepolo superiore in astuzia potrà superarlo. Da lì a riuscire a risollevare le sorti disperate di un partito però ce ne corre.

Nella guerra di posizione appena iniziata ci ha pensato una ragazza di trent’anni a seno nudo a sbattere in faccia a Berlusconi il suo futuro. “SEI SCADUTO” recitava l’epitaffio beffardo sui seni taglia due, giusto perché fosse più nitido e leggibile, della Femen. Un gruppo, quello delle Femen che non agisce mai di propria iniziativa; che obbedisce direttamente agli ordini del filantropo Soros; che è riuscito stranamente a violare, ancora una volta, il servizio di vigilanza personale dell’ex cavaliere. Tutta l’aria insomma di un oscuro e minaccioso avvertimento a mettersi da parte, vista l’inutilità del suo impegno.

L’avvento di Trump, infatti, ha contribuito in maniera determinante ad accelerare processi già in corso. Ha quantomeno indebolito e disarticolato l’azione dei potenti mentori americani dei personaggi politici europei ed italiani attualmente sulla via del tramonto; ha mostrato che non sono onnipotenti ed inattaccabili e di conseguenza incoraggiato movimenti alternativi; sta soprattutto articolando una diversa politica estera meno propensa a sostenere senza alternative istituzioni sovranazionali come la Unione Europea.

L’onda di rinnovamento è potente e profonda, cavalcarla è difficile, ma non ha ancora trovato una direzione precisa.

Il ricambio che si sta verificando in Italia, sia negli aspetti positivi appena abbozzati, sia in quelli trasformistici ancora del tutto prevalenti, sono quindi un aspetto di un contesto ben più ampio.

Nel Mezzogiorno e nel Centro-Nord d’Italia ha assunto connotati diversi, ma va indirizzato.

Nel Nord c’è una spinta fortissima dei ceti produttivi. Una autocontemplazione delle aspirazioni, legata alla frammentazione imprenditoriale e a un fuorviante approccio tra pubblico e privato sono una barriera alla individuazione delle priorità, ivi compresi la difesa e lo sviluppo delle grandi imprese.

Nel Sud il deserto economico e sociale e la casualità delle isole di sviluppo pur presenti ha generato un movimento ancora più potente che per la fragilità e permeabilità della guida rischia di essere ricondotto rapidamente nel gioco classico del notabilato.

Una ragione in più per la costruzione di una solida e determinata guida politica.

L’avvertimento a Berlusconi sembra indicare che i portatori di questo trasformismo sono ormai altri, incompatibili con la sua persona e presenti in tutte le formazioni, alcuni nelle posizioni di comando altri momentaneamente in quiete ma pronti ad emergere alla bisogna.

Il M5S sembra essere il luogo e uno dei candidati principali a questa operazione gattopardesca anche a costo di un progressivo sacrificio degli attuali livello di consenso in tempi nemmeno così dilatati, visto lo sviluppo convulsivo degli eventi. I segnali di questa investitura cominciano ad essere numerosi. I fondamenti culturali ed ideologici del suo mutevole programma, la sua permeabilità e le prime preoccupanti indicazioni dei criteri di selezione della nuova classe dirigente sono lì ad inquietare e far vacillare le più genuine aspettative.

La cartina di tornasole sarà la propensione al cedimento delle sirene di una qualche forma di governo di larghe intese, connaturato per di più a questa legge elettorale.

Nel frattempo apprezziamo quanto meno gli spazi e i varchi che si apriranno, vista la maggiore difficoltà di perseguimento di tali mire e mettiamo a nudo la forza e le debolezze dei possibili attori e portatori di nuovi indirizzi. Le finestre di opportunità non durano all’infinito e il più delle volte non sono gli attori alternativi ad aprirle; per lo più essi devono essere pronti a coglierle.

L’importante è che il ballo cominci.

LE PAGELLE DI UNA CAMPAGNA ELETTORALE, di Giuseppe Germinario

Tempo di pagelle alla vigilia dell’esame e del verdetto!

Due mesi di campagna elettorale serrata seguita ad oltre un anno di guerra di posizione e di campagna elettorale strisciante hanno rivelato molto sulla condizione dei partiti, sulle loro mutazioni e sulla qualità dei loro gruppi dirigenti. C’è chi riesce a brillare nelle piazze. Meno il M5S rispetto agli anni scorsi, di più la Lega e Fratelli d’Italia rispetto al recente passato. I più avveduti sanno da tempo ormai che non esiste necessariamente corrispondenza diretta tra piazze piene e pienone di voti. La partecipazione ad esse infatti non comporta adesione automatica della stessa folla nelle urne; il voto di interesse e di opinione segue inoltre infiniti altri canali di espressione e subisce numerose altre modalità di influenza. Dopo questo breve preambolo qui di seguito un giudizio sui principali partiti con una precisazione: il voto non deve indurre ad una previsione del responso elettorale ad esso corrispondente. Sono due livelli di analisi diversi.

MOVIMENTO 5 STELLE: voto 8

Il suo gruppo dirigente è stato il protagonista di un ragguardevole miracolo al limite del funambolismo. È riuscito a mimetizzare quasi completamente una radicale operazione trasformistica del proprio programma e del proprio sistema di relazioni cercando di intaccare il meno possibile il totem costitutivo della propria forza persuasiva: la formulazione dal basso nelle decisioni e nell’elaborazione della piattaforma politica. A partire dal referendum sulle riforme istituzionali del dicembre 2016 è partita la caccia al grande sconfitto: il PD renziano. Da quel momento è partita la campagna di costruzione del personaggio Di Maio-uomo di governo. Una campagna per nulla estemporanea; costruita sapientemente passo dopo passo, con un dispendio di mezzi considerevole e con una inedita capacità, rispetto agli altri contendenti, di utilizzo dei sistemi mediatici tradizionali e più innovativi. È stato certamente agevolato dall’esistenza di un alter ego, Alessandro Di Battista, tutto intento a rassicurare e vellicare le pulsioni dell’anima movimentista del M5S. Ha potuto altresì godere dell’assenza di interlocuzione e di confronti diretti con i propri avversari. Un primo banco di prova che avrebbe potuto mettere a nudo le sue effettive capacità di sostenere uno scontro politico. Ha approfittato dello scarso spessore degli attacchi tutti incentrati sull’onerosità del programma economico, paragonabile a quella degli altri partiti e sulla scarsa moralità e sull’incompetenza del gruppo dirigente, quasi a voler trascinare tutti pretestuosamente nello stesso girone infernale. Un atteggiamento distruttivo, quello degli avversari, in realtà autolesionistico e incapace di offrire una prospettiva positiva al paese. Sta di fatto che il successo mediatico e la capacità di imporre i temi e di rovesciare la posizione di difesa dagli attacchi sono inequivocabili. Di Maio, soprattutto lo staff che ha sapientemente organizzato la campagna, è riuscito sin da subito a smontare i possibili argomenti di critica e di attacco più insidiosi. Recandosi negli Stati Uniti ha cercato sostegni e investiture nei circoli che indirizzano e condizionano la politica italiana. Un pellegrinaggio ostentato e evenemenziale da parte sua, assiduo e discreto da parte del suo staff, soprattutto il suo mentore Casaleggio. Portandosi, successivamente, nelle sedi dei “poteri forti” finanziari e istituzionali europei con un intento rassicurante riguardo alle proprie intenzioni. Costruendosi, in televisione, nei suoi numerosi viaggi mirati nelle realtà produttive del paese, persino nei rari comizi, l’aplomb di “uomo delle istituzioni”, sino al vero e proprio colpo di teatro della presentazione dell’eventuale governo in caso di vittoria elettorale. Una costruzione dell’immagine alla quale ha corrisposto un progressivo e per quanto possibile discreto spostamento degli originari indirizzi politici radicali in materia di politica estera, riguardo all’atteggiamento verso l’Unione Europea, la NATO, la Russia e di politica economica, sempre più di stampo meramente keynesiano, velleitaria rispetto agli attuali vincoli sottoscritti, ma compatibili col dogma del sedicente libero mercato sul quale si fonda l’attuale edificio europeista. È stato il modo quasi geniale con il quale si sono smontati sul nascere gli argomenti di critica degli avversari; sia di quelli ortodossi rispetto alla vulgata europeista e occidentalista sia di quella eretica, ma paralizzata dalla scelta di appartenenza allo schieramento di centrodestra. Si vedrà se tale modo di conduzione porterà al partito i frutti sperati. Di certo questi frutti si riveleranno ancora una volta avvelenati per il paese e rimanderanno ancora una volta la possibilità di costruzione di una classe dirigente capace di tirare fuori la nazione dalle sabbie mobili nelle quali è sempre più impantanata. Non si può nemmeno dire che si tratti di una vera e propria operazione trasformistica; consiste, piuttosto, in un adeguamento pressoché fisiologico degli indirizzi e obbiettivi politici alla visione di fondo del movimento legata alla illusione partecipativa predominante dal basso, al decentramento esasperato, alla sopravvalutazione delle tematiche dell’economia circolare e dell’ecologia, ad una visione dello sviluppo tecnologico slegato dal ruolo delle grandi imprese e delle strategie politiche dei centri di potere, per non parlare della questione dell’immigrazione. Tutti approcci perfettamente compatibili, anche nel loro velleitarismo, con gli attuali assetti istituzionali in Europa e nel mondo occidentale. Una strategia che ha condotto fisiologicamente il confronto elettorale verso i temi più congeniali, ma anche fuorvianti, al movimento: la moralità, l’onestà. La composizione del governo proposta da Di Maio è tutta lì ad attestare questo assestamento. Personaggi di seconda linea, scelta pressoché obbligata, visto il rischio personale di tale esposizione così azzardata. Personalità in parte legate al mondo della cooperazione internazionale; alcune con legami espliciti con le fondazioni di Soros e dei centri finanziari più potenti, altre con i centri culturali di emanazione europeista, altre ancora di centri universitari di seconda linea ma con legami internazionali e orientamenti spesso espliciti. Figure che danno una impronta di governo tecnico gestibile efficacemente solo grazie all’autorità assoluta del capo politico del Governo, pena l’eterodirezione della compagine. Una qualità tutta da dimostrare e sinora rimasta quanto meno in ombra nel leader emergente. Il voto è limitato ad otto per un motivo semplice quanto essenziale. Il completo successo di immagine avrebbe dovuto comportare la trasformazione di Di Maio e del Movimento in un soggetto capace di “dominare” autorevolmente le masse piuttosto che di esserne o fingerne di essere imbevuto dalle masse. “Le phisique du role” del personaggio è tutto lì a svelarne i limiti. Le conseguenze di queste impronte sono prevedibili. Un movimento sempre più terra di conquista di interessi particolaristici e di piccoli potentati locali; una direzione sempre più bisognosa di investiture esterne, piuttosto che di capacità egemoniche proprie. Il progressivo disvelamento dell’anima sinistrorsa più deleteria della dirigenza di quel movimento, legata all’antiberlusconismo moralistico, più volte segnalata negli anni da questo sito, è tutta lì a tracciare la direzione delle future scelte politiche del movimento. Taluni assimilano questa ascesa all’esperienza di Macron in Francia. L’opacità dei centri ispiratori, l’assenza di forti centri di potere endogeni promotori sono lì invece ad attestarne limiti e diversità.

LEGA DI SALVINI: voto 7

Le capacità tribunizie sono indubbie, come pure quella di trascinare il partito verso la costruzione di una immagine “nazionale”. La Lega infatti ha riscoperto, almeno nel Centro-Nord del paese, una capacità di mobilitazione ormai riservata ai ricordi della vecchia dirigenza. Il limite, però, è visibile nell’atteggiamento compiaciuto di “buon padre di famiglia” assunto, in realtà probabilmente connaturato al leader. Una veste che rende per il momento poco credibile la sua rivendicazione di uomo di governo, se non addirittura di Stato, portatore di una svolta radicale praticabile. Il retaggio della Lega Nord, con le sue impronte identitarie localistiche, antinazionali e spesso razziste, è ancora particolarmente pesante all’interno e presente nella memoria del paese. Il ripiego di fondare il partito nazionale sulla base di una alleanza dei “popoli italici” è di una tale ambiguità da compromettere ancora la solidità del nuovo edificio e da far rientrare dalla finestra i demoni accompagnati alla porta del nuovo partito. Un percorso analogo a quello che sta percorrendo il Fronte Nazionale francese. L’accordo elettorale nel centrodestra, un passo probabilmente obbligato dalla condizione interna del partito, si sta rivelando un capestro che ha impedito di mettere a frutto la diversità e l’alternatività di buona parte dei punti presenti nel programma elettorale rispetto agli avversari dichiarati del PD ed occulti interni del centrodestra e rispetto ai competitori del M5S. Le occasioni per smarcarsi e qualificarsi, anche in questa campagna elettorale, non sono mancate, a cominciare dai fatti di Macerata, della ritirata ingloriosa della nave dell’ENI dalle coste di Cipro, dalle pesanti intromissioni dei vertici della UE; ma non sono state colte se non parzialmente e in maniera inadeguata rispetto alla postura che Salvini vorrebbe assumere. Le oscillazioni, si vedrà se tattiche o strategiche, ma comunque tendenti alla normalizzazione, rispetto alla politica estera, alle politiche comunitarie, a quella industriale, come pure l’impronta data alle politiche di riforma istituzionale ne minano la credibilità. Denotano ancora una volta una colpevole sottovalutazione, comune per altro a tutte le forze di opposizione organizzate, del fatto che conquistare voti, prendere la maggioranza elettorale, assumere le redini del governo non significa conseguentemente avere la possibilità di esercitare effettivamente il potere e mettere in opera i programmi, per quanto ben intenzionati e costruiti. A controbilanciare parzialmente questi limiti e questa deriva rimangono alcune candidature significative come quella di Bagnai, ma ad una condizione: l’acquisizione di credibilità attraverso la rottura postelettorale della coalizione con Forza Italia e l’assorbimento di una parte delle sue spoglie. È probabilmente questo il motivo per il quale Salvini spera in una dèbacle solo parziale del PD e nella formazione di un governo di unità nazionale a lui estraneo, ma comprensivo di Berlusconi o del M5S. In alternativa si assisterà al rapido declino dell’ennesima promessa del firmamento politico italiano non proprio esaltante

FRATELLI d’ITALIA: voto 6

Valgono in buona parte le stesse valutazioni su Salvini ma con un margine più positivo rispetto alla coerenza politica ed autonomia di giudizio rispetto a Berlusconi ed uno più negativo rispetto al carattere un po’ casereccio della conduzione e dell’immagine, solo in parte compensato da figure come Crosetto, ma gravemente compromesse da quelle come Larussa.

FORZA ITALIA e PARTITO DEMOCRATICO: voto 5

La prima paga il segno evidente del declino irreversibile fisico, morale e di credibilità del leader Berlusconi. Un tramonto non legato alla moralità e alle vicende giudiziarie, spesso di carattere persecutorio, del personaggio. Collegato soprattutto alle scelte opportunistiche, di vera e propria sottomissione e trasformismo, sfociato in collusione, delle sue scelte di politica estera, comunitaria ed interna specie a partire dal 2010. Sta coronando il senso della sua esistenza, ormai al limite dell’inverecondia e un po’ penosa, viste le condizioni della persona, con l’estremo tentativo di bloccare l’affermazione di forze, ancora troppo premature da definire sovraniste, ma quantomeno più autonome e reattive nelle scelte politiche di conduzione del paese. Ormai si avvicina sempre più alla funzione del nobile decaduto ormai impegnato ad orientare, eterodiretto, la suddivisione delle proprie spoglie politiche in cambio di una probabile parziale salvaguardia di quelle economico-finanziarie. Da qui la conduzione di una campagna incapace di imporre i temi, un filo conduttore unitario e con lunghe pause di lucidità.

La sopravvivenza della dirigenza del PD e il suo possibile procrastinarsi al responso elettorale è ormai legata alla suddivisione di queste spoglie. Il tandem ipotizzato tra la forza tranquilla espressa da Gentiloni e Minniti e l’atteggiamento d’assalto e ultraottimistico di Matteo Renzi si è rivelato in realtà una corsa in parallelo tra due atleti. Tanto più che la riconduzione alla passiva ortodossia europeista e la rapida constatazione della inconsistenza della forza dei pugni battuti da Renzi al tavolo di Bruxelles ha privato il leader, ormai opaco e debilitato, della prospettiva di cui è stato capace Macron in Francia. Quelo che pareva un destino parallelo con il leader francese, appare ormai come un surrogato caricaturale che non porterà niente di buono al paese. La campagna elettorale è apparsa motivata più da ragioni pretestuose nei confronti degli avversari, che dall’offerta di una prospettiva credibile al paese, comprensiva dei successi e dei tanti insuccessi e risultati nefasti. Si tratta di una lotta ormai per la vita o la morte. C’è l’ambizione di rigenerarsi parzialmente raccogliendo le spoglie di chi sta ancora peggio; c’è però il rischio evidente di diventare esso stesso una preda, sia nelle parti nobili che in quelle in via di putrefazione. I travasi che si stanno verificando, specie nel Mezzogiorno, come pure le alleanze elettorali, come con la Bonino prodiga di finanziamenti e di impegno specie nei collegi esteri, segnalano ben poco di buono.

LIBERI e UGUALI: voto 4

La realtà politica ha rivelato rapidamente la sua natura. Una sommatoria di sigle in declino ed incerte sugli indirizzi concreti. Hanno nascosto la condizione dietro una sommatoria di rivendicazioni sindacali e redistributive con il cappello dei diritti umani, del legalismo giudiziario e della fantomatica lotta ai poteri forti finanziari dietro i quali giustificare le solite alleanze politiche sia internazionali, in specie con il Partito Democratico americano, che interne. Un manifesto pretestuoso utile a mascherare l’intenzione di logorare il PD renziano e di riproporsi tra i commensali dell’arco costituzionale. Una ambiguità che sta impedendo loro di recuperare la gran parte del popolo sinistrorso e di offrire una rappresentazione scialba e spesso infantile della propria identità a beneficio esclusivo, nemmeno certo, delle carriere al tramonto e pittoresche di personaggi come Boldrini o malinconiche e nostalgiche, quali quelle di d’Alema e Bersani. Il resto è pura appendice.

Questi sono i voti, del tutto personali. A presto l’esito degli esami, quello più oggettivo.

I DETENTORI DELLA VERITA’ di Gianfranco Campa

 

LA NUOVA CENSURA NEL VENTRE DELLA BESTIA FUTURISTICA

 

Il nostro mondo, quello in cui viviamo quotidianamente è ormai costellato, segnato, manipolato dall’universo dell’alta tecnologia. Un mondo che ci ha dato le piattaforme tecnologiche e i social media che dominano la nostra vita, quella di tutti i giorni, che ci consegna qualsiasi cosa desideriamo, a volte con un solo tocco di dito. Dall’informazione, alla comunicazione, allo shopping, ai rapporti sociali fino a finire alla educazione, le nostre vite sono segnati dal tempo speso su Google,  Facebook, Twitter, Youtube, Amazon, Ebay e così via. Consciamente o inconsciamente, molti di noi dipendono dalla correttezza di queste entità nell’attività di comunicare, comprare, vendere, visionare e perché no, anche monetizzare.

C’è però  un aspetto molto losco, sgradevole in questo nuovo che avanza. Il centro di questo mondo, di questo universo, che sempre di più detta i passi, scandisce l’orologio della nostre vite è la Silicon Valley. Nell’ultimo decennio, questo pezzo di terra nella baia di San Francisco, si è erta non solo a guida ma anche ad arbitro, giudice, tribunale e se necessario, a cecchino delle idee e delle opinioni pubbliche, politiche e sociali. A grandi falcate le industrie della Silicon Valley, forti del loro potere mediatico persuasivo, si  sono erette ed autoelette come paladine , guardiane di una cultura progressiva-liberale-globalizzata che pervade ormai tutti gli aspetti, anche quelli più insignificanti della nostra società e come tale non accetta nessun compromesso, ma semplicemente detta le leggi, le regole delle “diversità” ideologiche. Ciò che è meglio per noi, ciò che è più salutare, piu` igienico per il bene comune viene deciso, letteralmente parlando, da un Mark Zuckerberg o un Sundar Pichai.

Negli ultimi due anni, da quando cioè Donald Trump è entrato in politica, scardinando quei dogma che ormai erano considerati radicati è venuta fuori la vera parte torbida della Silicon Valley. Involontariamente, senza accorgersene, con il suo politicamente scorretto, con il suo pomposo modo di fare, Trump ha esorcizzato il mondo della Silicon Valley, facendone uscire appunto la parte più tenebrosa, spogliandolo della sua aura di finta santità.  Così due anni fa sono cominciati i problemi, sono venute fuori le insofferenze, le intolleranze, l’odio di chi predica libertà di espressione, di comportamenti e di credenze. La Silicon Valley spalleggiata dall’apparato composto da mass media, stato ombra, società segrete, forze di intelligence, sistemi bancari, finanziari e via dicendo, ha mostrato il suo volto reale.

Da quando la Brexit ha scosso le certezze elitiste, da quando Trump è apparso sulla scena, da quando il “populismo” ha cominciato a dominare il discorso politico è immediatamente partita la controffensiva delle classi progressiste-liberali-globalizzate tesa a mettere a tacere qualsiasi voce contraria, dando così inizio alle persecuzioni.  Con il pretesto delle storie di Fake News, siti, blog, canali, voci conservatrici non allineate, si sono ritrovati bloccati, tagliati fuori dai motori di ricerca di Google, bannati da twitter, cancellati da Facebook, sospesi da youtube, hackerati dalle orde barbariche. Impiegati di google si sono ritrovati licenziati dal giorno alla notte solo per aver espresso un idea non conforme al resto dell’universo google. Siti e piattaforme digitali informative di “destra” sono stati costretti a cessare le loro attività.

Alcuni esempi: il 13 di Gennaio il sito web Right Wing News ha cessato le operazioni. Era un sito popolarissimo nell’ambito degli attivisti di destra. Nato nel 2001, era  diventato mastodontico grazie alle condivisioni e ai passaparola su Facebook. Nel luglio del 2015 la pagina Facebook di Right Wing News aveva raggiunto 133 milioni di persone. Il Right Wing News aveva quasi 3,6 milioni di “mi piace” su Facebook . Era, in termini di numeri, in diretta competizione  con i giganti giornalistici americani generando la stessa quantità di traffico web di alcuni dei più grandi giornali americani. Con la scusa delle Fake News e delle ingerenze Russe nelle elezioni presidenziali, Facebook ha cominciato a bloccare, oscurare i contenuti del sito, facendolo gradualmente, per non destare sospetti e quindi l’ira dei lettori. Un lavoro paziente, sistematico, metodico, portato a compimento nel lungo termine. Se Facebook avesse oscurato ogni pagina conservatrice da un giorno all’altro, ci sarebbe stata un’enorme protesta. Ironia della sorte, molti siti sono cresciuti grazie a Facebook e sono morti grazie a Facebook, in altre parole ciò che Facebook dà, Facebook può portare via. Senza una entità capace di sostenere con milioni di dollari un progetto mediatico serio, la monetizzazione proveniente da google, facebook, youtube e twitter non poggia su solide fondamenta poiché e`alla mercé dei furori umorali e ideologici della Silicon Valley.

C’è poi anche la storia della tattica del “Shadow Banning” usato da twitter. Storia-denuncia, portata alla luce dall’attivista conservatore James O’Keefe, direttore del Project Veritas, organizzazione che segretamente registra con audio e video incontri in incognito con figure e lavoratori di organizzazioni accademiche, governative, private e statali, di lucro e non, che esprimono o descrivono pregiudizi ai danni di persone, entità, organizzazioni conservatrici. Project Veritas ha esposto qualche tempo fa`, registrando segretamente, impiegati di Twitter che hanno ammesso come Twitter applichi lo “Shadow Banning” contro simpatizzanti e organizzazioni conservatrici di destra. Shadow Banning è anche noto come “Stealth Banning” oppure “Hell Banning” e viene usato per bloccare siti o utenti “indesiderati”. Per esempio viene comunemente usato anche da altri gestori di servizi online per bloccare i contenuti pubblicati dagli spammer. Twitter, in questo caso, invece di mettere al bando direttamente un utente, classifica i suoi contenuti come spam; il malcapitato viene quindi semplicemente “nascosto” alla vista pubblica. In molti casi i proprietari dei siti  “bannati” non si rendono nemmeno conto di essere stati oscurati.

Un altro esempio è quello del Prager University, una organizzazione mediatica conservatrice che genera video a scopo educativo. La piattaforma mediatica di Prager University è enormemente  popolare. I video di Prager sono visti da milioni di persone. Il canale youtube di Prager annovera più di 1, 2 milioni di iscritti. Alcuni video hanno generato milioni di visitatori, fino a 6,3 milioni di visioni per l’esattezza. Eppure anche Prager è rimasta vittima degli insofferenti cervelloni della silicon valley. Youtube per ridurre la monetizzazione al fine di minare l’esistenza di Prager  ha catalogato alcuni video di Prager inserendoli nella lista restrittiva; i video di Prager cioè non sono visibili nelle scuole, nelle biblioteche e in qualsiasi casa dove ci sia un filtro antipornografico, nonostante che Prager sia un sito assolutamente pulito. Prager ha risposto facendo causa a Google del quale youtube e una sussidiaria. La battaglia legale si preannuncia interessante e infuocata.  Un caso che verrà seguito da moltissime persone, entità e organizzazioni che hanno un interesse personale in questa vicenda. Youtube è una compagnia privata e quindi non legata agli obblighi costituzionali della libertà di parola. Gli avvocati di Prager cercheranno di argomentare che la piattaforma dei social media è l’equivalente di una nuova piazza pubblica; un posto in cui vai quando vuoi partecipare ad un evento pubblico; di conseguenza le disparità di trattamento sono da considerarsi discriminatorie. Sarà interessante vedere se gli avvocati di Prager riusciranno a convincere i giudici della logica di questo argomento.

E così mentre nella Silicon Valley sale in cattedra la censura, il lento, inesorabile, esodo di quei già pochi imprenditori e lavoratori che si definiscono di destra è cominciato. Quelli che rimangono lo fanno a loro esclusivo rischio; nel più benevolo dei casi di essere emarginati, nel peggiore di perdere il posto, licenziati senza se e senza ma.

Uno dei leggendari imprenditori della Silicon Valley, il fondatore di Paypal, membro del Consiglio di Amministrazione di Facebook, Peter Thiel è stato forse l’unico che ha sostenuto Trump durante le elezioni presidenziali. Thiel non è il tipico esempio della Destra dura e pura americana, composta da patrioti armati fino a denti i quali si ritrovano nel weekend col fuoristrada nei boschi a sparare, cacciare e bere birra. Thiel fa parte piuttosto di un crescente numero di nuovi arrivati al movimento conservatore che mostra un aspetto più variegato rispetto agli stereotipi del conservatore tradizionale. Peter Thiel, come molti altri che si sono accostati al movimento di Trump, è un gay dichiarato, non interventista, di definizione nazionalista. Rigetta il concetto di neoconservatorismo e si distacca dalle componenti dell’establishment, pronto quindi a mettere a frutto la sua conoscenza informatica/imprenditoriale per la causa Trumpiana. L’investitore miliardario ha catturato i titoli dei media quando nel 2016  fu il primo relatore della storia, dichiarato gay, a salire sul palco della Convention Nazionale Repubblicana. All’epoca dichiarò che “ogni americano ha un’identità unica. Sono orgoglioso di essere gay. Sono anche orgoglioso di essere un repubblicano, ma soprattutto sono orgoglioso di essere un americano.

Per questo suo sostegno a Trump, Thiel ha pagato un prezzo altissimo, marginalizzato dalla Silicon Valley, condannato dai suoi stessi “amici”, si è ritrovato nella terra di mezzo, pagando in prima persona il suo anticonformismo.  Il sostegno di Peter Thiel a Donald Trump nelle elezioni presidenziali americane del 2016, nonostante le smentite, non solo ha danneggiato la sua relazione e la lunga amicizia con l’amministratore delegato e fondatore di Facebook Mark Zuckerberg, ma ha convinto l’imprenditore Thiel a lasciare del tutto la Silicon Valley. Il sostegno di Thiel al presidente Trump lo ha emarginato nelle stanze del potere della Silicon Valley, irritando tra l’altro il resto del consiglio di amministrazione di Facebook dove ricopriva un ruolo da direttore sin dal lontano 2005. Anche l’amministratore delegato di Netflix, Reed Hastings, avrebbe direttamente criticato Thiel per il suo sostegno a Trump, mettendo in discussione le capacità di giudizio di Thiel.

Thiel è stato uno dei primi investitori di Facebook, uno che se ne intende di piattaforme social e media.  Secondo un articolo pubblicato sul Wall Street Journal, Peter Thiel ha deciso di trasferirsi lasciando San Francisco. Dopo aver trascorso quattro decenni nel nord della California, Thiel sta spostando la sua residenza e le sue società di investimento a Los Angeles. Sempre secondo il Wall Street Journal, il cinquantenne ha una villa di 650 metri quadri che si affaccia sulla Sunset Strip. Si prevede che anche i 50 dipendenti di Thiel Capital e Thiel Foundation si trasferiranno nella città degli Angeli. Thiel avrebbe qualche tempo fa, durante un incontro alla Stanford University, dichiarato che “La Silicon Valley è uno stato monopartitico

In apparenza Thiel si trasferisce dalle fogne liberal-progressiste della silicon valley a quelle liberal-progressiste di hollywood. Ma in realtà l’area di Los Angeles è diversa da quella di San Francisco. Pur essendo ampiamente democratica, a Los Angeles si sono ritagliati uno spazio e hanno sede le grandi, medie e piccole entità mediatiche che si identificano con la Destra Americana. L’area di Los Angeles e` diventata il bunker dove i sopravvissuti all’olocausto Repubblicano in California hanno trovato rifugio. Il conglomerato mediatico conservatore è ancora poco rilevante rispetto ai giganti liberali; eppure qualcosa sta cambiando. A Los Angeles hanno sede istituzioni mediatiche di Destra come Breitbart, Prager University, The Daily Wire, The Drudge Report e molti altri. E quindi entrano in gioco altre ipotesi e cioè che Peter Thiel si stia preparando con altri partner a creare un gigante dell’informazione destra-nazionalista. Secondo voci da confermare Peter Thiel e Rebekah Mercer sarebbero in trattativa per formare un’organizzazione mediatica. In questi ultimi anni, molti soldi dei due miliardari sono finiti tra i contributi finanziari elargiti al partito Repubblicano; rispetto però ad altri filantropi tradizionali “conservatori”, come per esempio i fratelli Koch, Thiel e Mercer non sono entusiasti del partito Repubblicano così come attualmente configurato. I due imprenditori hanno mostrato in tante occasioni insofferenza verso l’Establishment del Partito Repubblicano.

Thiel è in simbiosi con Trump; odia l’Establishment, ritiene certi concetti ideologici del centro destra superati, come per esempio il neo-conservatorismo e comprende che la battaglia presente e futura si giocherà su una revisione del conservatorismo stesso. Più polarizzata su un nazionalismo identitario piuttosto che su una visione globale del concetto conservatore.  In questo contesto Thiel e Mercer sanno benissimo che senza uno strumento mediatico importante di supporto a una nuova destra americana, il concetto di un nuovo movimento conservatore è destinato a fallire; durerà una stagione, quella di Trump, per poi essere relegato negli annali della Storia Americana.

La battaglia è appena cominciata, la montagna da scalare enorme, le forze oscurantiste potenti, ma se c’è un personaggio che può addomesticare il Dragone della Silicon Valley, inceneritore di idee alternative e forza di appiattimento culturale è proprio Peter Thiel. Partorito dal ventre della bestia della Silicon Valley, Thiel ne conosce le forze e le debolezze. La guerra è appena iniziata.

 

 

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