Quale futuro, dopo il Covid-19, di Angelo Perrone

 

Quale futuro, dopo il Covid-19

 

Nessun’altra epidemia ha mostrato le caratteristiche invasive e globali del Covid-19: abitudini stravolte, mente impaurita, smarrite antiche certezze. Una fase, pur gravissima, ma di passaggio, verso un futuro ancora da immaginare. Da dove ripartire? Là dove ci eravamo fermati: scuola e sanità, lavoro, infrastrutture, giustizia, istituzioni. Mettendo a frutto la lezione di umiltà e impegno civile che il presente suggerisce. Il cambiamento epocale non riguarderà i problemi da affrontare ma il modo di risolverli

 

di Angelo Perrone *

 

Non si parla che di coronavirus. E come fare diversamente?, verrebbe da domandarsi. C’è apprensione, sgomento, paura del futuro. Ci scambiamo telefonate e messaggi in cui ci chiediamo, a volte trattenendo il fiato: “come stai?, tutto bene?” Temiamo una risposta negativa, ma, poi, cerchiamo anche di darci così un po’ di conforto. Con stati d’animo alterni, apriamo il giornale, guardiamo la tv, vediamo dipanarsi giornate, che non sono più come prima.

 

Un susseguirsi di notizie, in Italia, Europa, nel mondo. Per lo più tragiche: i morti, i contagiati. Leggiamo che non c’è più posto nelle camere mortuarie, molti vengono caricati sui camion militari in cerca di un luogo dove essere cremati e trovare sepoltura. Senza parenti, perché non si può fare il funerale. Se ne vanno ad uno ad uno i ragazzini che erano su quell’altra trincea, nel ‘18. Ancora lenta la curva che indica la diminuzione dei contagi. Solo piccole incrinature nella lotta al virus: studi, sperimentazioni, prove sul campo, rese affannose dal tempo che manca.

 

Tabelle, diagrammi, e tante dissertazioni. Più o meno scientifiche, talvolta digressioni inutili, ripetizioni. L’insidia onnipresente della faciloneria in tante dichiarazioni. L’insopportabile uso delle polemiche per tornaconto politico. Come vanno realmente le cose e quando ne usciremo? Come sarà l’esistenza domani? Non riescono a dircelo né i decreti del governo né le statistiche degli scienziati. Nessuno lo sa, l’incertezza spaventa e allarma ancora di più, rendendo il futuro incerto.

 

Il sovvertimento delle abitudini ha già introdotto un cambiamento non solo negli stili di vita, ma nella mente. I riti di cui era fatta la giornata, non importa se piacevoli o stressanti, erano a modo loro tranquillizzanti. Creavano un routine, un ordine, uno spartito. Ci troviamo oggi spiazzati dalla mancanza di riferimenti. Dobbiamo costruircene di nuovi, in fretta. Ne siamo capaci?

 

Quello che abbiamo sotto gli occhi è che, in un tempo così breve, si è consumato un dramma: sono già migliaia i morti per il virus, la maggior parte tra i più deboli, anziani o gravemente malati. Se ne sta andando una generazione. 70 sono i medici, alcuni richiamati in servizio dalla pensione, che hanno già lasciato la pelle mentre provavano a salvare quella degli altri. Non è l’unico dato che tocchiamo con mano. Molte famiglie già non ce la fanno ad andare avanti. Sono milioni le domande di sussidio all’Inps. Nelle strade di alcune città sono apparse ceste ricolme di alimenti. “Chi ha bisogno prenda, chi può lasci”. Un soccorso spontaneo, alla buona.

 

Non c’è attività che non debba fare i conti con lui, il virus. Impossibile prescinderne. Che ne è del nostro lavoro, della scuola per i figli, oppure del divertimento o dello sport? Al tempo del coronavirus, nulla è più come prima, tutto è rimandato, perso, annullato, almeno modificato in peggio. Senza termini o scadenze prevedibili che indichino la via di uscita.

 

Proviamo a divagare quando ci sembra di soffocare, è naturale, ma si ritorna sempre lì. Molti musei o teatri, tanto per dire, sono accessibili gratuitamente da parte di chiunque, e così si possono vedere capolavori, ascoltare musiche, assistere a spettacoli senza spendere un cent. Una bella notizia in sé. Senonché, accade, bisogna dirlo?, perché questi luoghi sono chiusi al pubblico per il virus, e allora, al posto delle visite, sono stati creati tour virtuali. E così tante altre cose. Che il virus rende difficili o esclude. Come far prendere una boccata d’aria ai bambini chiusi in casa? Come curare malattie croniche o ottenere dei ricoveri, se gli ospedali sono impegnati con il virus? E se a prendere il Covid-19 sono donne in gravidanza?

 

Ci siamo dimenticati d’un botto quello che accadeva ieri? Ci siamo fatti trascinare altrove dalla musica assordante suonata sui balconi, dal silenzio fascinoso e stordente delle città vuote? Se fosse accaduto, saremmo entrati in una bolla d’aria. Lontani dalla realtà, non immersi in essa sino al collo come sta avvenendo. Impossibile trascurare tutto quello che prima animava le nostre discussioni. Sono problemi che pesano sempre sull’esistenza.

 

Alla svelta. L’Ilva: il dramma della salute in un’intera città, è sempre in stallo, come quello del futuro della siderurgia. Continua l’enorme spreco di denaro pubblico nelle casse di Alitalia, senza un piano industriale. La fuga all’estero dei giovani è ancora una perdita secca per il paese. La qualità della politica e il prestigio dei suoi rappresentati rimangono un problema irrisolto, dopo la crisi dei partiti, la svalutazione delle formazioni intermedie, il discredito della competenza e della professionalità.

 

Confrontarsi con il passato è utile, anzi necessario. A che punto eravamo quando è scoppiato tutto questo sconquasso? Cosa abbiamo lasciato in sospeso, o deve essere abbandonato? Proprio da lì si deve partire per capire cosa si deve cambiare oggi. Come eravamo e come saremo. Voltarsi indietro serve ad andare avanti.

 

Però, la bussola imprescindibile per orientarci è il presente, cioè l’esperienza che facciamo oggi di noi stessi, la valutazione dei problemi, la stima delle possibilità. E’ sempre problematico confrontare le epoche e le situazioni. Stabilire quale sia più gravida di conseguenze. Quali sfide siano complicate. Difficile equiparare il presente al passato. O indugiare a chiedersi, proprio ora, con il virus in casa, non sulla porta, perché non si parli d’altro. O se sia appropriato il linguaggio fatto di parole come guerra, battaglia, nemico, che evoca altri scenari. Non è il momento, non è il caso.

 

Ma poi è davvero così? Non si parla d’altro che di una malattia? Il Covid-19 ci ha messo a nudo nel profondo. Ha mostrato le nostre fragilità, la permeabilità dei confini da parte del male, la globalità mortale della sfida. Ma ha anche stimolato la nostra capacità di reazione. La necessità di solidarietà.  Un problema di tutti e per ciascuno. Questo virus ci fa da specchio, in pieno, rispetto alle scelte di vita, ai problemi da risolvere. All’esistenza intera in questo momento storico.

 

Il confronto con il passato nasconde l’insidia di una semplificazione involontaria e controproducente. Il nuovo è l’eterna ripetizione del già visto? Altri problemi, ma non più gravi di quelli del passato, rimasti irrisolti. Si rischia, mettendo il nuovo al posto del vecchio, di mistificare semplicemente la realtà? Come dire: mentre tutto cambia, tutto rimane com’era. Spostiamo l’attenzione altrove, ne rimaniamo invischiati, e cadiamo così in un inganno?

 

Il nuovo non ci proietta in una dimensione alienante se non lo vogliamo. La storia non si ripete uguale, e non è priva di senso: la precarietà della vita, l’insicurezza, la difficoltà di realizzazione personale attraversano tutte le epoche, ma in forme diverse. Necessariamente differenti sono e devono essere le risposte. Si rischia altrimenti di non apprezzare ciascun tempo in ciò che gli è proprio ed esclusivo. Di valutarne le esatte caratteristiche, difetti, ma anche aperture.

 

Non dobbiamo aver paura di fronte al nuovo che avanza e che, qualche volta, ci apporta anche del buono. Ci sono già abbastanza ragioni per essere perplessi. Chissà se riusciremo davvero a venirne fuori, a recuperare il tempo perso, a sanare tante falle: nella sanità, nella scuola, nella giustizia, nel lavoro, nelle istituzioni. E chissà quando potremo uscirne con dei risultati. Tuttavia, non dobbiamo temere di immergerci nel presente, di comprenderlo, di analizzarne i caratteri. Anche per evidenziarne limiti e negatività. Pericoli. Potrebbe accaderci, se lo facciamo, di scoprire qualcosa di noi stessi, che ci possa tornare utile nel futuro. Come stiamo reagendo alle difficoltà, come stiamo giocando la nostra vita?

 

La disciplina, la solidarietà, la capacità di fare rinunce, la percezione del bene comune: forse sono tutte cose che potremmo mettere da parte, nel bagaglio individuale e collettivo, quando si tratterà di ricominciare, facendole fruttare domani. Perché allora non aggiungere un ultimo elemento, piccolo forse, ma non di poco conto? E’ il senso di commozione che ci accompagna in questi giorni di forzato isolamento e di brutte notizie, in cui cerchiamo di coltivare un po’ di speranza e fiducia. Abbiamo bisogno di tornare a emozionarci per una causa. Dietro la suggestione per le canzoni suonate sui balconi, lo sventolio di bandiere, le immagini dei luoghi famosi d’Italia avvolti dal silenzio e i camici bianchi negli ospedali, c’è solo questo: la sincerità, forse un po’ ingenua ma autentica, dei sentimenti, che chiedono di essere liberati.

 

* Giurista, si occupa di diritto penale, politica della giustizia e delle istituzioni. Dirige Pagine letterarie, rivista online di cultura, arte, fotografia.

 

Coronavirus_Qualche risposta ai tanti perché, a cura di Giuseppe Germinario

Proseguiamo con la nostra carrellata sui diversi approcci alla crisi pandemica adottati dai vari paesi e spesso dalle varie regioni all’interno di essi. All’articolo iniziale (iniziatico?) di Roberto Buffagni, al podcast di Gianfranco Campa, agli elzeviri di Massimo Morigi, ai contributi preziosissimi di Giuseppe Imbalzano, alle riflessioni di T.K. de la Grange, ai contributi esterni, tutti raccolti in un apposito dossier, segue questo articolo dedicato alla Germania. Una modalità di azione sottotraccia quella adottata dal ceto politico e dalla classe dirigente dominanti di quel paese. Una costante delle tattiche adottate a partire dalla disastrosa disfatta militare del ’45. A cominciare dalla manipolazione di dati poco realistici. Non si tratta solo della casuale disparità dei criteri di rilevazione frutto ed indice della eterogeneità insopprimibile della galassia europea ed europeista e delle sue esigenze politiche. E’ probabilmente un accorgimento, certamente meno guascone rispetto a quello adottato dai francesi, teso a contenere l’allarmismo e il rischio di destabilizzazione interna, a giustificare misure meno draconiane e meno selettive nell’ambito delle relazioni sociali e soprattutto economiche e a porre, quindi, il paese in una posizione migliore rispetto a quella di paesi dai comportamenti più schizofrenici e massivi nell’agone internazionale, in particolare geoeconomico. Pur tuttavia, non si tratta di un mero espediente. L’articolo qui in basso rivela chiaramente anche il substrato di una gestione della crisi pandemica decisamente più accorta e preveggente sia nelle modalità operative che nella tempistica adottate. Probabilmente queste misure, in aggiunta alla annunciata valanga di sovvenzioni e di protezioni del proprio apparato economico, non saranno sufficienti a parare i terribili colpi di là da venire. La Germania è un paese troppo controllato, subordinato politicamente e militarmente, con una area di influenza diretta in un Est Europeo legato di contro a doppio filo piuttosto agli statunitensi ed una economia dai volumi e da una organizzazione impressionante, ma tecnologicamente poco innovativa e troppo vulnerabile dal punto di vista finanziario, troppo legata ai settori più speculativi della finanza anglosassone, troppo esposta alle crescenti instabilità e chiusure del commercio internazionale. Se a questo si aggiunge la sua atavica propensione a confondere le mire egemoniche in Europa con la predazione e l’annichilimento puri e semplici dei propri “fratelli europei” specie latini, non ci vorrà molto a valutare la effettiva dimensione e le conseguenze del suo progressivo e fatale isolamento. Al suo cospetto rifulge ancora di più la drammatica e sconsolante condizione nella quale si sta progressivamente cacciando il nostro paese. Un paese ormai da trenta anni dilaniato da conflitti politici tanto più virulenti quanto più privi di strategie e tattiche in grado di offrire prospettive nazionali dignitose e autonome. Un salto di qualità mancato e un degrado già ben avviato negli anni ’80 ma che ha conosciuto la propria apoteosi con l’epurazione di Tangentopoli e il progressivo emergere di un ceto politico particolarmente abile nell’annichilire ed asservire gli apparati e le competenze pubblici alle proprie baruffe di fazione. Una sterilità ed una miseria che ha trovato una ulteriore occasione di prevaricazione con questa crisi pandemica. Uno scontro ormai sordo e feroce disposto a sacrificare e strumentalizzare la stessa dedizione ed il coraggio manifestati dalle categorie professionali chiamate ad affrontare i rischi della crisi sanitaria. Uno scontro asimmetrico nella posizione dei belligeranti che lascia presagire la prevalenza di una fazione, quella più compromessa politicamente ma meno esposta amministrativamente, piuttosto che la possibilità di una emersione di una nuova classe dirigente o quantomeno di una vecchia almeno rinsavita, più accorta e autorevole. Da una parte le forze della maggioranza governativa detengono il controllo e quindi la più grave responsabilità politica di una gestione a dir poco contraddittoria e intempestiva della crisi. Appunto una responsabilità politica che facilmente potrà sfuggire alle pendenze giudiziarie e ai desideri di rivalsa delle vittime della mala conduzione che già si manifestano numerosi. Una elusione delle responsabilità  culminata nella mancata avocazione di poteri speciali, nella assenza di direttive univoche e cogenti, nella sovrapposizione di incarichi esecutivi a persone chiaramente inadatte e spesso compromesse con il processo di debilitazione delle strutture pubbliche. Figure di secondo piano destinate a non oscurare il futuro politico dei protagonisti e una insipienza a suo modo funzionale a scaricare le responsabilità sui centri amministrativi più esposti. Un rituale del cerino acceso destinato a rimanere in mano ai responsabili regionali e amministrativi. Lo stesso gioco se si vuole che, a parti rovesciate, sta probabilmente giocando Trump con i suoi avversari democratici, impelagati nel focolaio epidemico di New York. Ma con una differenza sostanziale: gli Stati Uniti sono appunto una Federazione di Stati, non di regioni dalle competenze sovrapposte. Dall’altra una opposizione, in particolare la Lega, sua componente maggioritaria, reduce già da numerosi e clamorosi errori politici che ne hanno minato credibilità e sicumera e gestore a buon titolo di una regione, il Veneto, capace di affrontare decorosamente l’emergenza, ma anche della Lombardia, epicentro della epidemia e degli errori di gestione più marchiani e dolorosi. Nei tempi ravvicinati vincerà probabilmente chi detiene il pallino dei mezzi di comunicazione e chi potrà eludere l’agorà giudiziaria. Su questo il centrosinistra è chiaramente avvantaggiato di parecchie spanne. Bisogna dar atto della resistenza di Conte alle profferte capziose degli ologrammi di Bruxelles di utilizzo dei fondi del MES e di prestiti obbligazionari con garanzie dei singoli stati; come pure del tentativo di fronte comune dei paesi mediterranei. Tentativo per altro già messo in forse dal comportamento ambiguo e subdolo di Macron, quindi della Francia. La partita non è ancora chiusa; qualche incrinatura si intravede anche nella stessa Germania e Olanda. L’esempio preclaro della devastazione della Grecia e del vacuo successo del miracolo spagnolo sono un avvertimento, un incubo chiaro più alle popolazioni che alle élites dominanti. Lo scontro all’ultimo sangue tra reciproche debolezze, il nocciolo dell’acceso scontro politico in Italia, non lascia presagire molto di buono. I ricatti, le minacce e le ritorsioni possono essere il preludio ad un ennesimo e clamoroso cedimento, ad una definitiva capitolazione seguiti da proteste ed opposizioni di comodo. Vedremo cosa succederà domani, 7 aprile. Sorge a questo punto un interrogativo angosciante. Come possono forze politiche paralizzate da una crisi sanitaria tutto sommato circoscrivibile, se gestita a suo tempo con maggiore accortezza, contrattare al meglio la propria posizione in Europa o gestire il piano B della uscita dall’euro e dalla attuale Unione Europea senza cadere in una visione assistenzialistica e parassitaria, residuale apparentemente alternativa all’attuale? Già in almeno tre occasioni l’attuale ceto politico è mancato all’appuntamento, a volte persino offerto, negli ultimi tre anni. La stessa sottovalutazione delle implicazioni geopolitiche del comunque ben accetto sostegno umanitario lascia intravedere il pressapochismo dei passi intrapresi. Si blatera tanto di volerci liberare della signoria statunitense, ignorandone le pesanti implicazioni; in realtà si fa fatica a liberarsi persino dalle angherie e dalle grettezze del suo maggiordomo tedesco, non ostante le spinte e gli incoraggiamenti nemmeno troppo velati a saltare il fosso. Al peggio non si intravede la fine. Scusate lo sfogo. Non saremo profeti in patria, almeno in Russia hanno avuto modo di apprezzare e riconoscere la competenza professionale dell’esperto che su questo blog ci ha illuminato di cotanta sagacia e supponenza nazionali. Un sincero augurio per la nuova avventura. Giuseppe Germinario

Ecco perché in Germania si muore molto meno per coronavirus rispetto all’Italia

In Germania il tasso di letalità è 1,4%, in Italia 12,5%

In Germania la percentuale delle persone che muoiono per coronavirus è bassissima rispetto ai casi rilevati in confronto alle percentuali di letalità indicate dai dati ufficiali in Italia. In parte la differenza può essere provocata da dati ufficiali poco affidabili. Ma questa da sola non può essere una spiegazione sufficiente.

Una inchiesta del NYT di cui riportiamo la traduzione di ampi stralci ci aiuta a capire perché. Ne emerge purtroppo un quadro impietoso per l’Italia

I “corona-taxi”

Heidelberg, Germania. Li chiamano “taxi corona”: medici equipaggiati con indumenti protettivi guidano per le strade deserte per controllare i pazienti che sono a casa. Prendono l’esame del sangue cercando segni che il paziente possa avere il covid19 e che le sue condizioni possano aggravarsi. Possono suggerire il ricovero in ospedale anche a un paziente che ha solo sintomi lievi: le possibilità di sopravvivere sono notevolmente più alte se si affronta il virus all’inizio.

I taxi corona di Heidelberg sono solo una delle iniziative. Ma illustrano un livello di impegno di risorse pubbliche nella lotta contro l’epidemia che aiuta a spiegare uno degli enigmi più intriganti della pandemia: perché il tasso di mortalità della Germania è così basso?

Un tasso di letalità inferiore di 9 volte a quello dell’Italia

Il virus e la malattia risultante, Covid-19, hanno colpito la Germania con forza: secondo la Johns Hopkins University il paese ha più di 90.000 infezioni confermate in laboratorio al 4 di aprile, più di qualsiasi altro paese tranne gli Stati Uniti, l’Italia e Spagna.

Ma con circa 1.300 morti, il tasso di letalità in Germania si attesta all’1,4 per cento, rispetto al 12,5 per cento in Italia, a circa il 10 per cento in Spagna, Francia e Gran Bretagna, al 4 per cento in Cina e al 2,5 per cento negli Stati Uniti. Anche la Corea del Sud, un modello di riferimento internazionale per la lotta al covid19, ha un tasso di letalità più elevato, l’1,7 per cento.

“Si è parlato di un’anomalia tedesca”, ha detto Hendrik Streeck, direttore dell’Istituto di virologia presso l’ospedale universitario di Bonn. Il professor Streeck ha ricevuto chiamate di colleghi dagli Stati Uniti e altrove. “‘Che cosa stai facendo diversamente?” mi chiedono. “Perché il tuo tasso di letalità è così basso?”

Ci sono diverse risposte dicono gli esperti, differenze molto reali nel modo in cui il paese ha affrontato l’epidemia rispetto ad altri.

Molti più test = molti casi rilevati in tempo

Una delle spiegazioni per il basso tasso di letalità è che la Germania ha testato molte più persone rispetto alla maggior parte delle nazioni. Ciò significa che individua più persone con pochi o nessun sintomo, anche tra i più giovani, aumentando il numero di casi noti ma non il numero di vittime.

Una delle conseguenze del gran numero di test è che l’età media delle persone rilevate come infette è inferiore in Germania rispetto a molti altri paesi. Molti dei primi pazienti hanno preso il virus nelle stazioni sciistiche austriache e italiane ed erano relativamente giovani e sani, ha detto il professor Kräusslich. “È iniziato come un’epidemia di sciatori”, ha affermato.

Poi con il diffondersi delle infezioni, sono state colpite più persone anziane e anche il tasso di letalità, solo lo 0,2 per cento due settimane fa, è aumentato. Ma l’età media di chi si sa che contrae la malattia rimane relativamente bassa, 49 anni in Germania, mentre in Italia è 62 anni secondo i rapporti ufficiali.

La Germania sta conducendo circa 350.000 test di coronavirus a settimana, (oltre 3 volte di più che in Italia) e comunque molto più di qualsiasi altro paese europeo. Test precoci e diffusi hanno permesso alle autorità di rallentare la diffusione della pandemia isolando i casi infettivi. Ha inoltre consentito di somministrare il trattamento salvavita in modo più tempestivo.

Preparati in anticipo alla pandemia

A metà gennaio, molto prima che la maggior parte dei tedeschi pensasse al virus, l’ospedale Charité di Berlino aveva già sviluppato un test e pubblicato la formula online.
Quando la Germania registrò il suo primo caso di Covid-19 a febbraio, i laboratori di tutto il paese avevano accumulato uno stock di kit di test.

Diagnosi precoci = meno morti

“Il motivo per cui in Germania abbiamo così poche morti al momento rispetto al numero di infetti può essere ampiamente spiegato dal fatto che stiamo facendo un numero estremamente elevato di diagnosi di laboratorio”, ha affermato il dott. Christian Drosten, capo virologo di Charité , il cui team ha sviluppato il primo test.

“Quando ho una diagnosi precoce e posso curare precocemente i pazienti (ad esempio collegarli a un ventilatore prima che le loro condizioni si deteriorino) – le possibilità di sopravvivenza sono molto più elevate”, ha affermato il professor Kräusslich.

Costanti test al personale medico

Il personale medico, particolarmente a rischio di contrarre e diffondere il virus, viene regolarmente testato. Per semplificare la procedura, alcuni ospedali hanno iniziato a eseguire test di blocco, utilizzando i tamponi di 10 dipendenti e dando seguito a test individuali solo se si riscontra un risultato positivo.

Da aprile test gratuiti su larga scala per trovare i possibili focolai

Alla fine di aprile, le autorità sanitarie hanno anche in programma di lanciare uno studio su larga scala, testando campioni casuali di 100.000 persone in Germania ogni settimana per valutare dove si sta accumulando immunità.

Una chiave per garantire test su larga scala è che i pazienti non pagano nulla per questo, ha affermato il professor Streeck. Questa, ha detto, è una notevole differenza con gli Stati Uniti nelle prime settimane dell’epidemia. “È improbabile che negli USA un giovane senza assicurazione sanitaria e prurito alla gola si rechi dal medico e quindi rischia di infettare più persone”, ha affermato.

Il caso della scuola di Bonn

Un venerdì di fine febbraio, il professor Streeck ha ricevuto la notizia che un paziente del suo ospedale di Bonn si era rivelato positivo per il coronavirus: un uomo di 22 anni che non aveva sintomi ma il cui datore di lavoro (una scuola) gli aveva chiesto di fare un test dopo aver saputo che aveva preso parte a un evento di carnevale in cui qualcun altro si era dimostrato positivo.

Nella maggior parte dei paesi, compresi Italia e Stati Uniti, i test sono in gran parte limitati ai pazienti più malati, quindi probabilmente all’uomo sarebbe stato rifiutato un test.

Non in Germania. Non appena i risultati del test sono arrivati, la scuola è stata chiusa e a tutti i bambini e il personale è stato ordinato di rimanere a casa con le loro famiglie per due settimane. Sono state testate circa 235 persone.

Test e monitoraggio sono la strategia che ha avuto successo in Corea del Sud e abbiamo cercato di imparare da ciò”, ha affermato il professor Streeck.

La Germania ha anche imparato a correggere i propri errori presto: la strategia di tracciamento dei contatti avrebbe dovuto essere utilizzata in modo ancora più aggressivo, ha affermato.

Tutti quelli che erano tornati in Germania da Ischgl, una stazione sciistica austriaca che aveva avuto un focolaio, per esempio, avrebbero dovuto essere rintracciati e testati, ha detto il professor Streeck e non lo abbiamo fatto ma poi abbiamo imparato.

Un robusto sistema di assistenza sanitaria pubblica

Prima della pandemia di coronavirus in tutta la Germania, l’ospedale universitario di Giessen aveva 173 letti di terapia intensiva dotati di ventilatori. Nelle ultime settimane, l’ospedale ha cercato di creare altri 40 posti letto e ha aumentato il personale che era in standby per lavorare in terapia intensiva fino al 50%.

“Abbiamo così tanta capacità ora che stiamo accettando pazienti da Italia, Spagna e Francia”, ha dichiarato Susanne Herold, specialista in infezioni polmonari che ha supervisionato la ristrutturazione. “Siamo molto forti nell’area della terapia intensiva.”

In tutta la Germania, gli ospedali hanno ampliato le loro capacità di terapia intensiva e sono partiti da un livello elevato. A gennaio la Germania aveva circa 28.000 letti di terapia intensiva dotati di ventilatori, cioè 34 ogni 100.000 persone, quasi 3 volte di più che in Italia dove il rapporto è di 12 ogni 100.000 persone.

Ora ci sono 40.000 letti di terapia intensiva disponibili in Germania.

Fiducia nel governo

La cancelliera Angela Merkel ha comunicato in modo chiaro, calmo e regolare durante la crisi, imponendo misure di distanziamento sociale sempre più rigorose nel paese. Le restrizioni, che sono state cruciali per rallentare la diffusione della pandemia, hanno incontrato poca opposizione politica e sono ampiamente seguite.

Le valutazioni di approvazione verso la Merkel sono aumentate vertiginosamente.

“Forse la nostra più grande forza in Germania”, ha affermato il professor Kräusslich, “è il processo decisionale razionale ai massimi livelli di governo combinato con la fiducia di cui il governo gode nella popolazione”.

Una fiducia che riesce a guadagnarsi grazie ai fatti.

https://www.peopleforplanet.it/ecco-perche-in-germania-si-muore-molto-meno-per-coronavirus-rispetto-allitalia/?fbclid=IwAR3SKu4ZclYWLzpPQqWFMKFKTGKqxeDbBbyWO3JVAeyKN3w_0FLetvzKuuY

37° Podcast_Coronavirus, Taiwan-un esempio rimosso_di Gianfranco Campa

 

La diffusione del covid-19 ha scoperto il vaso di Pandora del complottismo; della tesi quindi della creazione artificiale del virus e della sua diffusione consapevole ad opera dei servizi americani. La verità, compresa quella dell’incidente, per ovvi motivi non la sapremo probabilmente mai. Appare però poco verosimile l’utilizzo di una arma difficilmente gestibile e il cui uso è suscettibile di ritorcersi contro l’eventuale aggressore. Tanto fervore induce piuttosto a mettere in ombra le enormi implicazioni geopolitiche e l’azione destabilizzante e trasformatrice di una tale crisi; ad oscurare le diverse modalità con le quali vari paesi hanno affrontato la pandemia. L’esempio di Taiwan è in proposito illuminante. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

https://soundcloud.com/user-159708855/podacast-episode-37

Qui sotto una sintesi scritta dell’intervento registrato di Gianfranco Campa. Si consiglia l’ascolto dei video linkati in calce al testo.

C’è un’isola che possiamo definire miracolata. La buona novella non è il risultato di un intervento divino dopo una preghiera in una piazza vuota, in un pomeriggio uggioso, recitata da un papa disorientato e inetto. Né deriva da un colpo del destino o da una buona dose di fortuna; è l’esito invece di una pianificazione esemplare, una preparazione e organizzazione stellare e una lungimiranza peculiare  di un popolo che, nonostante la condizione di precaria sopravvivenza, minacciata dal malefico dragone appena fuori l’uscio di casa, riesce ad eccellere sempre e comunque, contro tutto e tutti, anche nella titanica lotta pluridecennale nel farsi riconoscere come stato e come nazione legittima dalla comunità mondiale: stiamo parlando di Taiwan.

Taiwan, l’isola che resiste e che grazie alla sua organizzazione e pianificazione è riuscita nel miracolo di controllare l’epidemia di Coronavirus. Si parla e discute tanto di come l’epidemia del Coronavirus viene affrontata e gestita nei vari paesi. Si cerca di spiegare la mortalità relativamente bassa registrata in Germania, Giappone e Corea Del Sud; si è alla ricerca del modello ideale da prendere come esempio; sarà la Svezia, sarà Israele, sarà chi sarà… In altre parole, chi dei governi e collettività mondiale si vuole prendere come esempio dal quale studiare, analizzare e copiare la migliore risposta alla crisi pandemica e prepararsi quindi alla prossima pandemia. Vi posso assicurare che un’altra pandemia verrà, è solo questione di tempo.

Comunque sia del modello Taiwan non ne parla quasi nessuno; non è una sorpresa poiché l’isola per motivi politici e storici è una nazione collocata ai margini della diplomazia mondiale. Per esempio proprio qualche giorno fa durante un’intervista televisiva,  un alto funzionario dell’OMS ha evitato di rispondere ad alcune domande dirette su Taiwan. Il dottore canadese Bruce Aylward è stato intervistato da una stazione televisiva di Hong Kong (RTHK). L’intervista dell’ex vice direttore generale dell’OMS è diventata virale, scatenando feroci critiche. Nel segmento televisivo la giornalista Yvonne Tong chiede se l’OMS sarebbe disposta a riconsiderare la possibilità di far entrare Taiwan nell’organizzazione, vista la sua esclusione. Alla domanda segue un lungo silenzio di Aylward; concluso con la richiesta alla giornalista di passare ad un’altra domanda. Tong ha poi chiesto ad Aylward se poteva commentare “su come Taiwan sia riuscita a gestire finora la pandemia contenendo il virus“. Aylward ha risposto: “Bene, abbiamo già parlato della Cina e quando osserviamo le diverse aree della Cina, la realtà ci dice che hanno fatto un buon lavoro. Con questo vorrei ringraziarti molto per avermi invitato a partecipare” ha risposto Aylward staccando il video…

Il comportamento dell’OMS non è una sorpresa poiché la sua linea sembra rispecchiare la posizione della Cina su Taiwan, visto che l’OMS è ormai una organo pesantemente infiltrato dal partito comunista cinese. l’OMS non riconosce ufficialmente Taiwan. Ciò significa che in questa emergenza del Coronavirus, Taiwan rimane totalmente esclusa da riunioni importanti e conferenze globali  di esperti sulla pandemia di coronavirus. Il diplomatico taiwanese, Stanley Kao, ha affermato che negli ultimi anni all’isola è stato negato il permesso di partecipare alle riunioni annuali dell’Assemblea mondiale della sanità. Questa condizione di avversione e ostilità nei confronti di Taiwan è da ricercare nella storia controversa fra il partito comunista cinese e i taiwanesi; con il progressivo aumento del peso diplomatico della Cina negli ultimi decenni, sfociato in un’aperta “guerra” diplomatica, economica e culturale lanciata dal partito comunista verso l’isola miracolosa. Al momento attuale solo 15 paesi al mondo riconoscono e hanno pieni rapporti diplomatici con Taiwan.  Dal 1971 cioè da quando le  le Nazioni Unite espulsero Taiwan dall’organizzazione, trasferendo il seggio alla Repubblica popolare cinese (RPC). l’isola è stata lentamente e inesorabilmente isolata, diplomaticamente messa alla periferia del mondo, esclusa dal resto delle organizzazioni mondiali incluso l”OMS. 

Nonostante la mancanza di sostegno dell’Oms e l’isolamento in cui opera, l’isola ha gestito e continua a gestire la crisi del Covid19 in maniera esemplare. Quali sono i motivi di questo successo? Andiamo per ordine: Prima di tutto il sistema sanitario di Taiwan è considerato il migliore al mondo. Secondo la CEOWORLD, cioè la rivista guida a livello mondiale per amministratori delegati e professionisti esecutivi di alto livello, Taiwan si colloca al primo posto al mondo per assistenza sanitaria, mentre il sistema Italia si ritrova relegato al 37° posto. Questo dovrebbe una volta per tutte mettere a tacere le opinioni che sostengono “l’eccellenza del sistema italiano” . Tra parentesi mi fido piu dell’analisi del CEOWORLD che di quella dell’OMS il quale annovera l’Italia e la Spagna fra i 6 paesi al mondo con il sistema sanitario migliore. Il fiasco Italiano nel gestire la crisi del Coronavirus dovrebbe mettere a tacere qualsiasi proclama di eccellenza…

Parte del successo del sistema sanitario taiwanese consiste nella sua semplicità ed efficienza. Solo l’1% del budget sanitario viene speso in costi amministrativi e quindi la burocrazia è ridotta al minimo; per dirla all’americana meno ufficiali e più soldati insomma… Altro punto importante nel successo del sistema sanitario taiwanese riguarda l’efficiente sistema dell’infrastruttura tecnologica informativa; questa infrastruttura ha permesso al governo taiwanese di rispondere prontamente ed efficacemente ai primi casi di coronavirus, isolando gli infettati e separandoli dal resto della comunità, mappando nei minimi dettagli le comunità contagiate, evitando così che il virus si diffondesse a macchia d’olio, silenziosamente, tra il resto della popolazione. E’ chiaro che il sistema taiwanese non è perfetto e richiede di perfezionarsi con ulteriori accorgimenti; primo fra tutti la carenza di dottori pro-capite. Il problema è che i taiwanesi approfittano della loro assistenza sanitaria economica, accessibile e qualitativa andando dal dottore molto spesso. Come risultato il numero medio di visite mediche all’anno (12,1) è quasi il doppio paragonato a quello di altri paesi. Ci sono circa 1,7 medici a Taiwan per ogni 1.000 pazienti, che è ben al di sotto della media di 3,3 in altri paesi sviluppati. Comunque sia la sanità taiwanese rimane un buon esempio da seguire, non perfetto ma perfettibile.

Il secondo punto nel successo della gestione della crisi del Coronavirus è dovuto alla preparazione del governo taiwanese dopo la crisi del primo SARS nel 2003: Per non farsi trovare impreparati, sapendo che dopo la prima SARS sarebbe stata solo questione di tempo prima che arrivasse una seconda SARS; I taiwanesi si sono adoperati affinché tutta la catena di forniture necessarie a combattere una nuova pandemia venisse prodotta in casa senza fare affidamento a forniture straniere. Mascherine, grembiuli, occhiali di protezione, guanti, visiere, ventilatori, liquido igienizzante, medicine e molto altro viene ora prodotto internamente, senza far affidamento su altri paesi. Mentre in Europa sostenevano che le mascherine non fossero necessarie alla prevenzione del Coronavirus, Taiwan ha investito pesantemente nella loro produzione sapendo benissimo che le mascherine erano strumento essenziale nella prevenzione di  COVID-19. Come se non bastasse Taiwan, tramite la mappature digitale, ha inoltre sviluppato un sistema di razionamento in base al quale ogni residente adulto è in grado di acquistare tre maschere a settimana. Per garantire che tutti i residenti rispettino la regola, le maschere possono essere acquistate presso farmacie e centri medici designati. Queste sedi hanno le strutture per scansionare digitalmente le tessere dell’assicurazione sanitaria nazionale (NHI), la qual cosa consente al governo di registrare la cronologia degli acquisti. Il razionamento però non è stato necessario poiché la capacità di produzione di mascherine è aumentata da 4 milioni nel gennaio del 2020 agli attuali 15 milioni di pezzi al giorno; ripeto, l’attuale capacità produttiva di mascherine è ora di 15 milioni di pezzi al giorno. La capacità produttiva di taiwan e talmente larga che la presidente taiwanese ha promesso di donare 10 milioni di maschere ai paesi più colpiti dal coronavirus. Il ministro degli Esteri taiwanese Joseph Wu ha specificato che le maschere sarebbero state inviate agli Stati Uniti e alle nazioni dell’Europa occidentale. Attenzione parliamo di donazioni non di vendita. Un gesto nobile per un paese piccolo e per lungo tempo abbandonato dalla comunità internazionale a scapito dei criminali di pechino.

Un paio di giorni fa l’avatar; Ursula von der Leyen sul suo account twitter ha ringraziato taiwan per conto della comunità europea: “ L’Unione Europea ringrazia Taiwan per la donazione di 5,6 milioni di mascherine per aiutare a combattere il coronavirus. Apprezziamo davvero questo gesto di solidarietà. Questo focolaio globale del virus richiede solidarietà e cooperazione internazionali.” 

Terzo punto importante nella lotta contro Covid19: Taiwan ha messo in atto un sistema chiamiamolo di allerta precoce.  In altre parole; Taiwan dopo la Sars del 2003 ha creato una Task force incaricata di monitorare il mondo a caccia di possibili segnali anticipati di pandemia. Possiamo chiamarla un servizio di intelligence incaricato di occuparsi esclusivamente di identificare possibili focolai di malattie prima che arrivino a colpire Taiwan. Questo servizio di monitoraggio è soprattutto finalizzato a cogliere gli eventi in corso nella Cina continentale. Così quando a Wuhan sono trapelati i primi segni di una nuova sconosciuta e devastante epidemia  il governo taiwanese era già informato delle possibili ramificazioni e disastrose conseguenze che avrebbe potenzialmente potuto arrecare al mondo. I primi segnali si erano avuti all’inizio di Dicembre, mentre il mondo nella quasi totalità ignorava ciò che stava succedendo nella provincia di Hubei e il partito comunista cinese era intento a censurare nascondendo la apocalittica realtà. I taiwanesi si erano già messi in moto per attuare i protocolli di sicurezza sviluppati negli ultimi anni, mettendo in moto la macchina organizzativa. . “Ciò che abbiamo imparato da Sars è che dobbiamo essere molto scettici riguardo i dati provenienti dalla Cina“, ha affermato Chan Chang-chuan, decano del College of Public Health dalla National Taiwan University. “Nel 2003 abbiamo imparato una funesta lezione e quell’esperienza è qualcosa che altri paesi non hanno recepito”.

Veniano così all’ultimo quarto punto fondamentale della battaglia Taiwanese al Covid19: la chiusura totale della frontiere. Nonostante le strette relazioni ed i frenetici scambi tra Cina e Taiwan, il governo di Taipei ha immediatamente limitato gli arrivi all’isola prima dalla Cina e poi dal resto del mondo, isolando di fatto l’isola dal resto della comunità internazionale. Chi è rientrato a Taiwan è stato assoggettato ad un rigoroso protocollo di controllo , monitorato elettronicamente, tramite i  propri cellulari, gli spostamenti delle persone sotto ordine di quarantena. Il Centro di comando per il controllo delle malattie (CECC) lavorando all’unisono a livello interministeriale, ha deciso di integrare i propri dati rendendoli compatibili con i dati della l’agenzia doganale e di immigrazione, la National Immigration Agency (NIA). Questo connubio ha reso possibile individuare, tramite il sistema PharmaCloud, la sequenza degli itinerari e degli spostamenti intrapresi dalle persone che entravano nel territorio Taiwanese. Ciò ha consentito  ai medici di avere accesso ai dati dei contatti della persona implicata. Un fattore che ha aiutato non solo ad isolare i potenziali portatori di epidemie, ma ha anche aiutato i medici taiwanesi a determinare se i pazienti dovevano sottoporsi ai tamponi ai fini dell’accertamento della presenza del Coronavirus.

Ricapitolando quindi i punti fondamentali del modello taiwan sono i seguenti: Un’eccellente sistema di copertura sanitaria gestito efficientemente. Uso appropriato ed efficace  della tecnologia informatica.Pronto monitoraggio di possibili focolai nel mondo. Produzione interna del materiale medico necessario a far fronte alla malattie e, ultimo ma non meno importante, controllo meticoloso e ferreo dei confini del paese, sia in entrata che in uscita.

Questo efficace sistema taiwanese è stato adottato dal governo neozelandese. All’inizio di marzo di quest’anno, il Dr. Ashley Bloomfield, capo del Ministero della Salute della Nuova Zelanda, ha elogiato le misure di prevenzione della pandemia adottate da Taiwan. Il dottor Bloomfield ha affermato che due paesi – Singapore e Taiwan – hanno mostrato una efficace capacità di isolare e mettere in quarantena coloro che sono venuti a contatto con casi positivi di coronavirus. Prendendo spunto dai taiwanesi la Nuova Zelanda dovrebbe muoversi in questa direzione.

Il successo di questa strategia potrebbe dare un nuovo impulso alle possibilità di riconoscimento diplomatico del paese. Nel frattempo il presidente americano Donald Trump ha firmato una settimana fa , ma per lo più ignorato dai mass media per via della crisi del coronavirus,  il cosiddetto disegno di legge denominato Taipei Act. Il TAIPEI ACT segna un cambio epocale nei rapporti Taiwan-USA in chiave soprattutto anti-Cinese. Il taipei act riporta un bilanciamento nelle relazioni asiatiche migliorando il supporto degli Stati Uniti verso Taiwan e incoraggiando altre nazioni a intrecciare relazioni con l’isola. Un tentativo di isolamento di coloro che seguono gli ordini del Partito Comunista Cinese (PCC). 

L’ufficio rappresentativo economico e culturale di Taipei (TECRO), l’ambasciata di fatto di Taiwan negli Stati Uniti, ha esternato la propria approvazione e gratitudine verso il presidente americano. Il presidente taiwanese Tsai ha affermato che è stato “gratificante” vedere firmata la legge TAIPEI, salutandola come un “attestato di amicizia e sostegno reciproco mentre lavoriamo insieme per affrontare le minacce globali alla salute umana e ai nostri valori democratici. Il disegno di legge ribadisce la forza congiunta di Taiwan e Stati Uniti. Inoltre, apre la strada a scambi bilaterali ampliati, preservando allo stesso tempo lo spazio internazionale del paese di fronte alla campagna di coercizione autoritaria della Cina “

Inutile dire che Il Partito Comunista Cinese è, ovviamente, meno soddisfatto della Legge TAIPEI. “Esortiamo gli Stati Uniti a correggere i propri errori, a non applicare la legge e non ostacolare lo sviluppo delle relazioni tra altri paesi e la Cina; incontrerà altrimenti inevitabilmente una risposta risoluta da parte della Cina“, ha avvertito un portavoce del ministero degli Esteri cinese. La Cina come risposta alla legge TAIPEI ha intensificato la sua campagna di pressione militare contro Taiwan conducendo provocatorie esercitazioni navali e aeree. Ma il dado è ormai tratto, la nuova guerra fredda tra i cinesi e gli americani è solo all’inizio e continuerà ad allargarsi. 

 Nel frattempo più di qualche nazione al mondo, a parte la Nuova Zelanda, potrebbe cogliere la novità ed adottare il modello taiwan come esempio da seguire per affrontare la prossima crisi epidemica ed economica. L’italia sarebbe una candidata eccellente per attuare queste misure, ma dubito che possa farlo anche se ci fosse la volontà, poiché attuare queste misure vuol dire andare in diretto contrasto con l’unione europea. Penso solo ai cambiamenti necessari per assicurarsi il completo controllo delle frontiere.  Tali controlli sarebbero necessari per gestire in maniera competente una nuova pandemia, Ma attuare ciò vuol dire eliminare, sospendere o uscire dal trattato di Schengen. Azioni decisive e ferme che però, ahimè, i nostri politicanti attuali non sarebbero capaci di intraprendere; preferiscono seguire l’avatar di Ursula von der Leyen, che ringraziando il governo di taipei per la forniture delle mascherine ha messo a nudo l’incapacità europea di affrontare la pandemia.

I morti italiani gridano vendetta, una vendetta che richiede dei passi decisivi e drastici. L’Italia non ha bisogno dell’Europa, L’Italia ha bisogno di trasformarsi in una nuova Taiwan. Un’italia sovrana, libera, democratica, padrona del proprio destino e capace di programmare e decidere la propria risposta. L’Isola miracolata, che resiste; Taiwan segna la strada. Per l’italia il modello da seguire è quello, al resto dell’Europa alla prossima pandemia possiamo regalare eventualmente quattro mascherine per puro spirito di compassione….

 

 

 

 

https://ceoworld.biz/2019/08/05/revealed-countries-with-the-best-health-care-systems-2019/

https://www.msn.com/en-us/news/world/taiwan-donating-millions-of-masks-to-other-countries-to-fight-covid-19/ar-BB121ex5

https://www.congress.gov/bill/116th-congress/senate-bill/1678

SOLO? NIENTE AFFATTO, di Elio Paoloni

SOLO? NIENTE AFFATTO

http://italiaeilmondo.com/2020/04/01/la-solitudine-di-papa-francesco-di-angelo-perrone/

Il pezzo di Angelo Perrone, La solitudine di Papa Francesco, mi ha ricordato un post FB di Alessandro Vietti che sosteneva la tesi della cantonata mediatica a proposito della benedizione urbi et orbi:

Perché quello che ha fatto, solo, in questa Piazza San Pietro desolatamente vuota, sotto queste nuvole e questa pioggia dal sapore apocalittico, degne di un film di Ridley Scott, è stato a mio avviso quanto di più lontano ci potesse essere dalla comunicazione di un sentimento di speranza e di fiducia nel futurouna “messinscena” oltremodo tragica, surrealmente tragica, al punto da potersi dire addirittura disturbante come la migliore inquadratura di un film di David Lynch. Perché quello che resterà nell’inconscio collettivo di quell’intervento non saranno tanto le sue parole, bensì la sua immagine, la solitudine e l’impotenza dell’Uomo – di “un” uomo – di fronte alla furia cieca della Natura (del Creato) che innalza il suo urlo triste e disperato contro un cielo di piombo, cieco e sordo”.

 

Apparentemente Perrone è su un altro versante. In realtà ha la stessa impressione di Vietti e si sforza di giustificare e sublimare il “cortocircuito”.

 

Io invece non riesco proprio a capire come si possa vedervi un errore – o un inciampo – di comunicazione. E’ passato proprio ciò che andava comunicato: l’impotenza dell’uomo, la violenza della natura, l’incombere dell’Apocalisse, la consapevolezza della propria fragilità, condizione necessaria per rivolgersi a Dio.

Se anche non fosse stata voluta, era necessaria proprio la potenza di quello spettacolo, che Emiliano Ferranti descrive così: “La forza dirompente di un’immagine che è già Storia. La potenza iconica e scenografica dell’Urbe. I colori e i capricci del cielo. Forme e vuoto alternate con geometrica e sacra cadenza. Il crepuscolo di un’era. Vox clamantis nel deserto: è La Foto di un epoca che si nutre di se stessa. Di fotogrammi disorganici e frantumati. Di un’epoca di distanze abissali nel paradosso di vicinanze virtuali, di anime frantumate, di voli rasoterra. E la nostra sconfitta scolpita nello spazio, tra i marmi eterni della Grande Bellezza”.

 

Vox clamantis in deserto. Come è stato, come è e come sarà. Ma il deserto metaforico è divenuto reale. Qualcuno ha rimarcato – oltre alla solitudine del Papa – la solitudine del Cristo, la foto scattata dopo l’entrata in Chiesa del Papa, col crocifisso desolato di fronte al vuoto. E invece mai come in quel momento il Cristo miracoloso è sembrato davvero il centro del mondo. Fuori dalla clausura di San Marcello e libero da folle turistiche col cappellino da baseball sotto il solleone, eccolo abbracciare la piazza e distendere il colonnato su Roma, sul paese, sul pianeta intero. Mai si era irraggiata così la sua influenza, mai era stata così necessaria la sua benedizione. Folle di astanti mediatici la attiravano, la accoglievano, liberati dal traffico e dalle distrazioni.

 

E’ mancata, come spesso accade a quest’uomo, la genuflessione davanti al Santissimo. Ma quanti hanno potuto notarla, se è sfuggita anche a me? Non ho alcuna simpatia per Bergoglio ma quando è lì, a pregare e a benedire, vedo solo il consacrato, il tramite, il Vicario, e dimentico le fesserie che spara quando svolazza da un paese all’altro.

La speranza nel futuro che Vietti trovava troncata dalle immagini, un cattolico non la trova nelle folle, nel traffico, nel cielo azzurro: la trova – e l’ha trovata – nell’esposizione di quel cerchio di pane bianco e piatto, piccolo, con tutt’attorno il più prezioso dei metalli, mirabilmente cesellato, il fasto più ardito che l’arte umana abbia potuto concepire e realizzare, la grandiosità dell’architettura più matura e più ricca nell’audacia delle sue forme e dimensioni. Che splendeva ancor di più nell’imbrunire bluastro.

 

 

Io ho presenziato in ispirito, insieme a milioni di persone, e la commozione di fronte alla maestà della Chiesa cattolica – l’Eucaristia, il Crocifisso bagnato dalle lacrime del Cielo, la Salus Populi Romani, la preghiera in San Pietro, cuore e centro di tutto l’orbe cattolico, “il luogo, diceva Chesterton, dove tutte le verità si danno appuntamento” – maestà che non è subordinata alle qualità del papa di turno, mi hanno impedito di notare una reticenza nelle parole, quella colta da Antonio Bianco:
“Papa Francesco ha elencato una serie di “manchevolezze” (perché in tutto il suo discorso la parola “peccato” non viene mai nominata) qui riassunte: guerre e ingiustizie planetarie e  l’indifferenza verso il “grido dei poveri e il grido “del nostro pianeta gravemente malato”.

Ma se, come affermano alcuni alti prelati, e come la bimillenaria storia della Chiesa insegna, le prove che siamo chiamati a superare sono conseguenza di un avvertimento di Dio, quindi una punizione meritata dall’uomo per i suoi molteplici peccati, e se il Signore lascia che si manifestino affinché l’uomo si ravveda, comprenda e si converta tornando a Dio, alla Sua vera ed unica Chiesa, quella Cattolica, e ai suoi sacramenti, sarebbe stato opportuno un chiaro riferimento ai peccati che ammorbano il mondo contemporaneo: la negazione del primato di Dio, il non santificare le feste, l’ateismo di stato, la negazione perpetua della Verità, gli aborti, gli omicidi, i peccati di adulterio, l’eutanasia, i furti, in pratica la “normalizzazione” di ogni peccato.

Noi non siamo Profeti, non conosciamo i disegni del Signore, e non possiamo affermarlo, ma chi, in cuor suo, non è stato sfiorato dall’idea che quel deserto, quella pioggia, quelle sirene spiegate, abbiano una relazione con il peccato mortale reiterato, negato ed elevato a normalità? Anche un non credente avrà potuto vederci la punizione della Hybris, del prometeismo, della divinizzazione della scienza manipolatrice.

 

No, quell’uomo non era solo; mai tanti uomini gli sono stati accanto. E non sarà mai solo: ha l’approvazione del Mondo, è in ottima compagnia. Le moltitudini adorano chi evita accuratamente di rammentare il peccato, il giudizio, l’Inferno.

 

 

 

 

Come, quando e cosa riaprire in Italia, del dottor Giuseppe Imbalzano

Come, quando e cosa riaprire in Italia- Giuseppe Imbalzano- Medico

Giuseppe Imbalzano, medico, specialista in Igiene e Medicina preventiva. Direttore sanitario di ASL lombarde per 17 anni (Ussl Melegnano, Asl Milano 2, Ao Legnano, Asl Lodi, Ao Lodi, Asl Bergamo, Asl Milano 1). Direttore scientifico progetti UE (Servizi al cliente, Informatizzazione della Medicina Generale). Si è occupato di organizzazione sanitaria, prevenzione, informatica medica, etica, edilizia, umanizzazione ospedaliera e psicanalisi.
La situazione economica è l’elemento più critico che si sta rivelando connesso con
l’infezione da Covid 19 e che sta creando, se possibile, più danni della infezione stessa.
La modalità con cui è stata affrontata questa epidemia non sempre ha seguito la linea di
ridurre le fonti di infezione e di preservare il personale di assistenza da eventuali contagi,
ma ha diffuso il virus negli ospedali e infettato un numero incredibile di operatori. Che sono certamente la causa di ulteriori infezioni tra i familiari e i pazienti. Così come la scelta di affidare ai medici di famiglia l’assistenza dei pazienti potenzialmente infetti ha costretto i primi ad affrontare, spesso senza gli strumenti di protezione necessari, situazioni del tutto critiche che dovevano esigere ben altra organizzazione. E la numerosità dei medici infetti ha creato ulteriori focolai territoriali. E, dalle informazioni giornalistiche, appaiono esistere molti minicluster familiari come causa di questa esplosione di casi in così breve tempo.
In questi giorni sono fiorite proposte di riapertura delle attività lavorative che hanno posto
come riferimento, tra le tante cose, le proiezioni di danno delle categorie secondo le età.
Una scelta che cerca di dimostrare il basso rischio dei soggetti che devono partecipare al
ciclo lavorativo in base a valutazioni che, nei fatti, appaiono assai discutibili, sia perché prive di certezza statistica, sia perché non tengono conto che non vi è una fungibilità di tutto il personale, di un possibile utilizzo di personale qualificato in tutti i settori senza la specifica competenza di chi debba gestire l’attività e il settore specifico. Dimenticando poi che i lavoratori hanno interazione anche con parenti e amici che potremmo inserire nelle
categorie a rischio. E che accettare il rischio in se stesso (con quale garanzia per chi
rischia?) non fa parte di una corretta valutazione e modello di attività, in particolare se riferita a terzi. Sarebbe ancora più pesante che le imprese aggiungessero al peso dell’inattività il peso degli eventuali contagi correlati e dei danni immateriali e previsti dal decreto Lvo 81/08.
E non credo, considerata la macchinosità del sistema, che verrebbe apprezzata dai
sindacati e quindi approvata per poter essere attivata e gestita come regola su tutto il
territorio nazionale.
Noi, oggi, ci troviamo in una situazione di grande criticità in alcune Regioni che non hanno
sviluppato un intervento caratterizzato dal modello di Sanità pubblica ma sono intervenuti
secondo schemi di clinica medica, inseguendo i malati che man mano si sono identificati,
usando gli ospedali alla stregua di luoghi di ricovero multifunzionali, non rispettando
neanche i parametri dell’accreditamento previsti per il ricovero delle malattie infettive. Scelta del tutto inadeguata rispetto alla situazione da affrontare e, ancora di più oggi, riguardo la situazione che si è creata e che sta diventando sempre più problematica.
Anziché spegnere il fuoco iniziale, la dislocazione dei casi ha moltiplicato le fonti di infezione.
Oggi non vorremmo che tutte le scelte che si propongono dessero la stura ad ulteriori fonti
di contagio. E per evitare le stesse, con l’obiettivo di garantire attività e recupero della
gestione delle attività riteniamo di promuovere una scelta che, partendo dalla attuale
situazione, porti al doppio risultato desiderato.
Se mantenessimo la chiusura dei comuni e la netta riduzione del traffico cittadino, e se
garantissimo il monitoraggio stretto dei nuovi casi e la loro identificazione, considerato che, ad oggi, abbiamo un elevato numero di comuni senza casi di infezione, potremmo avviare le attività nelle diverse realtà che sono virusfree da almeno 30 giorni, mantenendo una rigorosa vigilanza a quanto possa naturalmente accadere.
La scelta di riattivare i comuni free risponde ai due obiettivi di garantire la sicurezza e attivare il sistema industriale e commerciale. E ad un terzo, che spingerà i comuni, e i sindaci in particolare, ad operare per ridurre i rischi e favorire il rientro nella zona di sicurezza, riattivando le attività lavorative in piena sicurezza.
Oggi abbiamo informazioni molto poco utili per intervenire correttamente e ridurre le
infezioni. Non conosciamo da dove derivino i nuovi casi e comunque gli ospedali sono
ancora fonte di infezione per il personale con le relative conseguenze quantitative e di
cattiva gestione dei focolai.
È indispensabile modificare il modello da cui derivano le infezioni e nel contempo operare
per eliminare le condizioni che determinano la diffusione delle infezioni stesse.
La realtà attuale dei comuni virusfree è assai differente nelle diverse Regioni Italiane.
Come mero esempio presentiamo alcune realtà regionali- e le stesse, naturalmente, con
l’impegno di tutti, dovrebbero attivarsi per ridurre i casi di infezione e consentire di riprendere una normalità sociale che oggi ha qualche difficoltà ad essere riattivata.

Piemonte

Lombardia

Veneto

Liguria

Emilia Romagna

Lazio

Sicilia

A Nord i comuni coinvolti sono tanti, a sud non ancora molti comuni sono stati colpiti; garantire l’assenza di infetti è sostanziale e spingerà tutti verso una comune azione di riduzione del rischio e delle infezioni

NB

http://CVBreveImbalzano

È possibile sapere chi si ammala?, di Giuseppe Imbalzano

Giuseppe Imbalzano, medico, specialista in Igiene e Medicina preventiva. Direttore sanitario di ASL lombarde per 17 anni (Ussl Melegnano, Asl Milano 2, Ao Legnano, Asl Lodi, Ao Lodi, Asl Bergamo, Asl Milano 1). Direttore scientifico progetti UE (Servizi al cliente, Informatizzazione della Medicina Generale). Si è occupato di organizzazione sanitaria, prevenzione, informatica medica, etica, edilizia, umanizzazione ospedaliera e psicanalisi.

È possibile sapere chi si ammala?

Non il mio vicino di casa, ma quali siano i luoghi e i flussi di chi continua ad ammalarsi?

Quali siano e da dove si infettano i nuovi pazienti, quale sia il percorso e chi determina i nuovi casi nella nostra comunità?

Se non specifichiamo i meccanismi e i flussi, i determinanti e tracciamo i percorsi delle infezioni e continuiamo a sparare nel mucchio, avremo numeri grossolani e casuali.

È come, per altro, sapere quanti incidenti stradali abbiamo ma non sappiamo se siano di notte o di giorno e dove, per evitare di esserne coinvolti.

E così per le infezioni.

Da dove derivano, dalle attività mantenute attive che hanno forti interazioni o dai runner e dai padroni dei cani che girano intorno al proprio palazzo o dalle fonti che hanno causato questa esplosione di casi in un tempo che dire breve è poco?

Abbiamo interrotto i flussi delle infezioni o abbiamo mantenuto i problemi di aree che hanno determinato questa situazione in poco più di 30 giorni?

Tutti guardano i numeri in più o in meno e le curve ma il perché nessuno, il dove nessuno, il chi nessuno.

E allora, chi, avendone responsabilità, riprenda la retta via delle analisi dei casi e delle loro origini, delle situazioni che ne hanno causato l’esplosione, dei percorsi, della indagine sui singoli casi e dei relativi flussi generali, delle gabbie da cui fuggono i virus, e che hanno causato così tanti casi in poco tempo?

Ad errore si rischia di sovrapporre errore e si persegue lo stesso errore. Non siamo di fronte ad una patologia cronico degenerativa, ma di fronte ad una infezione. E come tale va affrontata e risolta.

È chiaro che questa epidemia, in Lombardia in particolare, è esplosa per la moltiplicazione dei focolai con la distribuzione in tutti gli ospedali dei malati, in ambienti non sempre idonei per accoglierli.

E da lì, diffusa.

Gli oltre 6000 sanitari positivi in Italia (per non parlare di coloro che non sono stati identificati precocemente) non hanno trasmesso a nessuno l’infezione? Vittime di una organizzazione inadeguata e priva di attenzioni minime per la sicurezza dei lavoratori?

Non sappiamo quanti siano stati i malati già ricoverati infettati in seguito a questi trasferimenti, e anche loro a quante altre persone abbiano trasmesso il virus.

E quanti siano stati poi i familiari e parenti che abbiano avuto il dispiacere di esserne affetti.

E quanti invece si siano ammalati per i contatti, inconsapevoli, che hanno avuto con il personale sanitario in genere o per aver solo frequentato gli ospedali.

Forse è stato sottovalutato questo movimento e non abbiamo perseguito le linee corrette per debellare una infezione che è esplosa così velocemente.

Solo per contatti diretti ed indiretti è verosimile, ma bisogna recuperare le informazioni, che il personale sanitario abbia determinato almeno 25 mila casi, compresi parenti e amici oltre a pazienti, che poi, nella interazione dei propri territori abbiano creato le ulteriori infezioni.

E oggi?

Abbiamo la certezza che questo flusso, queste infezioni siano cessate o abbiamo ancora movimenti che provengono dalle strutture sanitarie e che negli ultimi giorni hanno avuto una rinnovata attività dalle strutture socio sanitarie, con un numero di infetti e di decessi che è del tutto innaturale?

Anche lì, cosa è accaduto? Mancata attenzione rigorosa al problema o cosa?

Sono stati predisposti protocolli rigorosi e azioni di limitazioni del rischio o perchè è accaduto?

Le domande sono tante, ma in realtà è una sola, cosa sta accadendo e come impedire che questa infezione faccia ulteriori danni e mieta ulteriori, del tutto ingiustificate, vittime.

Gli ospedali misti, come abbiamo avuto modo di dire più volte, non sono la soluzione a questo problema, comunque.

Ci chiediamo, nel contempo, cosa sia stato fatto per evitare ulteriori infezioni al personale e ai cittadini ed evitare altri possibili focolai sia comunitari che nella gestione domiciliare dei casi.

Vorremmo anche sapere cosa sia accaduto ai cittadini, sia in quarantena che per la gestione delle patologie (e se familiari siano stati successivamente infetti) e anche quali siano stati i modelli di sicurezza adottati nelle Rsa, per protocolli previsti o meno dalle Regioni ed adottati in modo organico dalle strutture assistenziali.

E cosa sia accaduto al personale sanitario, costretto a lavorare anche se abbia avuto contatti con malati infetti e quanti poi siano diventati positivi nel corso dei giorni successivi.

Non vorremmo che questo filone di infezioni sia diventato terra di nessuno e privo delle necessarie valutazioni, e azioni di mitigazione della infezione, che non è, come ci attendevamo, stata adeguatamente frenata dalla lunga chiusura in quarantena della comunità.

 

Giuseppe Imbalzano- medico

NB_ http://CVBreveImbalzano

Lettera alla professoressa Capua, del dr. Giuseppe Imbalzano

Coronavirus! Cambio di paradigma, a cura di Giuseppe Germinario

Qui sotto tre articoli che testimoniano del fatto che qualcosa sta cambiando nei criteri di individuazione e gestione dei focolai di diffusione della epidemia e soprattutto nella informazione.

Non sono solo questi due testi a testimoniarlo; anche nella cosiddetta grande stampa nazionale e nel sistema televisivo qualche barlume comincia ad illuminare la reale situazione. Sono però ancora iniziative estemporanee, frammentarie e non coordinate, comunicate significativamente sottotraccia. L’inquietudine, il timore che possano emergere già in corso d’opera i gravi errori e le pesanti responsabilità di un ceto politico in varie forme al governo e di una classe dirigente, ivi compresa quella impegnata nel sistema di informazione, tali da comprometterne del tutto la residua credibilità e autorevolezza, serpeggiano e sono palpabili. La crisi pandemica sta accelerando ed accelelerà convulsamente processi in corso da almeno quindici anni.

Il nostro sistema di informazione, gran parte del ceto accademico ed intellettuale, la quasi totalità del ceto politico, in questi anni si è trastullato da miserabile saccente a denigrare e sminuire Trump come una pittoresca meteora, ad esorcizzare Putin sin dal suo importante intervento alla Conferenza Internazionale di Monaco del 2007, a fraintendere il ruolo della classe dirigente cinese, quella che più di altri ha saputo e voluto approfittare degli spazi offerti dal processo di globalizzazione per affermare e consolidare il proprio interesse nazionale piuttosto che dissolversi nel globalismo; a cullarsi soprattutto nell’illusione della fratellanza europea.

Non ha compreso, non lo vuole, che il termine di amicizia assume un significato diverso, spesso agli antipodi se attribuito alle relazioni tra individui, a quelle tra popoli e più ancora tra i centri decisionali e gli stati. Doveva sopraggiungere il bisogno insoddisfatto di banali mascherine e di ventilatori a mostrare il re nudo e il senso reale della solidarietà internazionale.

Non è bastato però! Non v’è più cieco di chi non vuol vedere; più sordo di chi non vuol sentire. Stanno ancora tergiversando, a due mesi di distanza, su un programma di parziale riconversione produttiva realizzabile in poche settimane e si spendono a piene mani a pietire a destra e a manca, trattati spesso a pesci in faccia all’estero, i materiali necessari a garantire cure e sicurezza sanitaria.

Hanno bloccato i voli diretti dalla Cina, e con quello la possibilità di controllo diretto dei punti di arrivo dei flussi; non si sono accorti delle vie alternative utilizzate e verificabili già due giorni dopo il blocco dalle fonti di intelligence e anche da internet. L’esplosione del contagio in Iran non è un prodotto del destino avverso. Troppo impegnati a considerare e a confondere la trasmissione virale e il messaggio di fratellanza e solidarietà a base di pacche sulle spalle.

Si sono profusi in appelli accorati a mantenere le distanze e al senso civico, ma hanno ignorato la formulazione, la diffusione e l’applicazione di direttive e protocolli che limitassero i contagi tra gli operatori sanitari e tra questi e il pubblico; protocolli ben conosciuti dagli esperti di gestione sanitaria e delle emergenze; esperti autorevoli, spesso e volentieri relegati nelle quarte file.

L’autorevolezza, si sa, non si accompagna, il più delle volte, all’accondiscendenza. Hanno inventato un nuovo istituto giuridico, un vero ossimoro: la decretazione di raccomandazioni e suggerimenti. Ne è conseguita una catena di comando incerta, una sovrapposizione di incarichi, direttive contraddittorie in un contesto istituzionale già reso precario e incerto da uno sciagurato decentramento regionale. Consola la premura con la quale Borrelli, il capo della Protezione Civile, sottolinea l’attenzione e la parsimonia nella gestione della spesa; vorremmo che il proconsole che gli hanno affiancato proclamasse con la stessa partecipazione.

Una tara dovuta alla situazione d’emergenza bisogna concederla

Sta di fatto che l’istituzione più preparata alle emergenze, alla logistica, al coordinamento dei vari ambiti operativi rimane tagliata fuori e relegata al ruolo di coadiutori dei vigili urbani e delle pompe funebri.

Troppi precedenti emergenziali dovrebbero suonare come campanelli d’allarme sugli appetiti famelici da soddisfare in queste contingenze. Una inadeguatezza che rischierà di condannare definitivamente il paese quando si dovrà passare dalla fase di emergenza tesa al contenimento dell’epidemia a quella presumibile di convivenza con il virus, in attesa di una cura medica risolutiva. Ben venga la solidarietà internazionale. Cina, Russia, Cuba e Stati Uniti vanno quindi ringraziati. Un po’ meno la aperta politicizzazione. Anche la solidarietà internazionale, nel rapporto tra gli stati e nelle dinamiche geopolitiche, richiede un prezzo e uno scotto specie quando a richiederla è un ceto particolarmente remissivo e inconsapevole dell’interesse nazionale. Un prezzo sia nei confronti del singolo paese solidale, sia nei confronti di altri ben presenti sul nostro suolo da decenni e che si sentirebbero minacciati dai nuovi arrivati. Nel primo caso, nella fattispecie con la Cina, non è ancora chiaro se gli accordi commerciali prevedono solo scambi di prodotti e la concessione di presidi, simili ai fondaci che concedevano le repubbliche marinare oppure arrivano a delegare almeno in parte il controllo strategico della logistica e dei flussi; lo stesso dicasi per il 5G. Nel secondo la questione è ancora più delicata e cruciale per la sovranità del paese.

Quando si decide di risvegliare l’allarme e la preoccupazione del proprio tutore bisogna avere la ragionevole certezza, almeno probabilità, di poter resistere alle prevedibili reazioni e di poter contare su di un contesto internazionale favorevole e sul sostegno fattivo di altre potenze, Il recente esempio di Tsipras in Grecia è particolarmente illuminante. La capitolazione definitiva di Syriza sotto il giogo dell’Unione Europea è avvenuta quando Putin aveva fatto capire di non avere molte armi da offrire alla resistenza greca e quando era apparso chiaro che alla Cina premeva soprattutto mettere radici nel Pireo e non compromettere la propria penetrazione commerciale nell’Unione Europea. La domanda a questo punto sorge spontanea: questo ceto politico, questa classe dirigente ha la consapevolezza sufficiente della posta in palio; ha un sufficiente controllo quanto meno delle proprie istituzioni e dei propri apparati tale da consentirle sufficiente libertà di azione? Dispone della sufficiente autonomia e visione strategica che le possa garantire di poter giocare su più tavoli piuttosto che ridursi al carnevalesco servo di più padroni? Gli antefatti sulla Libia e sulla Unione Europea lasciano dubitare pesantemente. Conosciamo la fine delle oche giulive. Il redde rationem lo vedremo probabilmente a partire dal prossimo novembre, specie se alla Casa Bianca al tanto vituperato e rozzo Trump dovesse succedere qualche democratico compassionevole, banditore di pace e fautore di guerre.

Il nostro paese avrebbe bisogno di un cambio di paradigma, a cominciare da questa emergenza sanitaria così destabilizzante. Quello che riescono ad offrire è qualche aggiustamento perpetrato per di più di soppiatto. Lo stato di emergenza rappresenta la cornice adatta a mascherarne la pochezza. A cosa potrà portare questa commistione poco virtuosa non si sa. Potranno certo offrire una qualche via di fuga o un arroccamento; a se stessi, non alla massima parte del paese. Buona lettura e ascolto, Giuseppe Germinario

 

EPPUR SI MUOVE, a cura di Giuseppe Germinario

Pian piano comincia a farsi strada la necessità di un cambiamento di paradigma nell’affrontare la crisi epidemica del coronavirus. Una crisi destinata a dare una grande spinta allo sconvolgimento degli assetti politici, geopolitici e delle formazioni sociali. Il Governo Conte, i suoi principali attori politici, sembrano gli esponenti meno adatti a comprendere ed affrontare la situazione. Più che tamponare, tanto meno cercare di risolvere le fragilità di un apparato istituzionale ed amministrativo paralizzato da una situazione di emergenza, si sta rivelando un moltiplicatore delle conseguenze di tali debolezze. Gerarchie di comando a dir poco traballanti, sovrapposizioni di incarichi indizio di prevalenza di competizioni di potere fine a se stesse, manifesta inidoneità di gran parte dei responsabili, ministri giocherelloni (vedi il duetto Boccia/Borrelli) o fantasma, reiterata sottomissione, ormai anche psicologica, verso una leadership della UE che non fa che assecondare le decisioni degli stati e dei governi più posizionati pur di non apparire spiazzata, governi che decidono di sfondare bellamente i propri bilanci fregandosene della benevolenza della Commissione Europea. Un mix esplosivo. Segno di una classe dirigente nostrana sempre più spinta a chiudersi nelle proprie cittadelle fortificate piuttosto che ad acquisire e spendere la propria autorevolezza. Qui sotto l’incipit di tre importanti interviste in controtendenza_Giuseppe Germinario:

  • “Giuseppe Imbalzano è stato direttore sanitario di Asl lombarde per 17 anni. Melegnano, Lodi, Bergamo e Milano sono state delle seconde case, e mai in vita sua, spiega a Linkiesta, si sarebbe immaginato di vederle in queste condizioni. L’emergenza coronavirus ha messo sotto stress le strutture ospedaliere della Lombardia con un numero sempre maggiore di malati. Una situazione straordinaria, alla quale però «si fondono i problemi non risolti in principio perché mancava un piano di intervento e di programmazione adatto al contrasto di questa nuova infezione».

    Dottor Imbalzano, la Cina focolaio dell’epidemia ha quasi debellato del tutto il virus, mentre in Italia ogni giorno la situazione si aggrava in modo inquietante. Cosa è andato storto nel nostro Paese?
    La malattia, una infezione aero-trasmessa, è di per sé molto pericolosa per facilità di trasmissione e per la natura stessa del virus, nuovo per la nostra popolazione. Colpisce tutti coloro che ne vengono a contatto. Era già presente a gennaio, come è stato scoperto, prima che ci fossero gli allarmi dell’Organizzazione mondiale della Sanità e i relativi interventi di sospensione dei viaggi provenienti dalla Cina…qui il seguito https://www.linkiesta.it/2020/03/lex-direttore-sanitario-spiega-che-cosa-e-successo-a-bergamo-e-a-codogno/

  • Incontro Ilaria Capua inevitabilmente online, da dove mi accoglie sorridente e combattiva. Forse un po’ stanca di dover parlare solo di virus (“io mi occupo anche d’altro”), ma sarebbe strano il contrario. Anche perché le sue opinioni, che sembrano eruttare da un vulcano, generano una girandola di ipotesi apparentemente fertili, talvolta controcorrente. Come l’immagine del virus “opportunista e scippatore”, che ha preso l’aereo per diffondersi nel mondo e attacca dove il sistema, e le persone, sono più fragili. Sentiamo cosa ha da dirci.Cosa vedi nella inarrestabile progressione di questo nuovo coronavirus?Vedo che per la prima volta nella nostra storia stiamo osservando in diretta l’endemizzazione di un virus animale nella popolazione umana. È successo altre vote che un virus animale si sia trasferito nell’uomo, pensa al virus della peste bovina che in noi è diventato noto come morbillo. Come sai, l’uomo ha i suoi coronavirus, tipici del comune del raffreddore, i quali arrivano da animali. Ma questi passaggi risalgono a molti anni fa e sono rari….per il seguito https://www.scienzainrete.it/articolo/ilaria-capua-ritratto-di-virus-scippatore/luca-carra/2020-03-23?fbclid=IwAR31c_358HCp9NIIDEPB1uGiEFWa0EzUKwIZL05619AgtHgNsxgFY1Uwkcg
  • Non possiamo più aspettare che la situazione peggiori e, quindi, è necessario rimodulare gli attuali modelli di gestione dell’emergenza, assolutamente inefficaci, uniformandoli a tutto il territorio nazionale, comprese le isole Sicilia e Sardegna, garantendo soluzioni rapide ed efficaci che scongiurino ulteriori rischi di focolai in modo particolare nelle strutture sanitarie. Inoltre, non basta l’adozione degli attuali provvedimenti. Le criticità sono molto elevate e le conseguenze sanitarie, sociali ed economiche di continue inadeguatezze, non tarderanno a manifestarsi con una gravità molto maggiore di quella fino adesso percepita”.È quanto afferma l’europarlamentare Francesca Donato (Lega) che lancia un appello al Ministro della Sanità, ai vertici della Protezione civile e a tutti i responsabili regionali e locali, “affinché effettuino senza indugi tutti gli interventi necessari indicati dal medico Giuseppe Imbalzano”. Il seguito… https://www.ilsicilia.it/coronavirus-donato-inadeguata-la-gestione-dei-presidi-ospedalieri-in-sicilia/?fbclid=IwAR00L9GWmVUeD8mQ_aGWfF87chQg_aNHs8tkDOI4peWRYX2-yJYrq4PoD58
  • riproponiamo http://italiaeilmondo.com/2020/03/22/lettera-alla-professoressa-capua-di-giuseppe-imbalzano/

Strategie politiche contro il Coronavirus Numeri, analisi e ROI delle strategie dei governi nazionali, di Francesco Esposito


Crescita percentuale di nuovi casi in Italia al 15 marzo 2020

Questa analisi vuole partire dall’articolo di Roberto Buffagni su italiaeilmondo.com e dei commenti seguiti sul sito stesso.

Premessa: siamo in guerra. Se non per l’entità totale del rischio, lo siamo per almeno tre ragioni:

· Per la velocità con cui ci siamo trovati davanti agli occhi il fatto compiuto,

· Per le limitazioni alle libertà personali che dalla fine della seconda guerra mondiale non erano mai state messe in discussione, né durante gli anni di piombo né durante le stragi di mafia

· Per l’impatto sull’economia del Paese.

Eppure il rischio (i soldati e le bombe) non si vede, quindi siamo in guerra pur senza averne contezza.

Economicamente (e sui mercati finanziari) il propagarsi del corona virus è un misto fra l’attacco alle torri gemelle per violenza e imprevedibilità e la crisi del 2008 (o forse del ’29) per profondità. Anzi, probabilmente peggio: infatti i dati del Sole24Ore hanno evidenziato come i mercati americani ci abbiano messo solo 16 giorni per perdere più del 20% dai massimi raggiunti. Per fare un paragone calzante non si può guardare tanto al 2008 (poiché i massimi erano stati raggiunti nel 2007 e la situazione non era già delle più rosee), bensì al ’29. E nel ’29 ci vollero 42 giorni per perdere più del 20% del valore.

Rispetto alle reazioni politiche all’epidemia messe in atto dai vari paesi, in estrema sintesi Buffagni propone di dividerle sulla base di due differenti stili strategici:

· Approccio 1 (economico, breve termine): ci si rassegna al contagio, non contrastandolo, se non con misure estremamente blande, tali da non compromettere la tenuta dell’intero sistema economico e produttivo. Ci si libera, come in guerra, del peso economico (in termini di pensioni e di welfare nel complesso) degli anziani. Ci si rassegna ad un numero di morti che potrebbe essere alto;

· Approccio 2 (sociale, lungo termine): si contrasta il contagio con misure estremamente più limitanti delle libertà personali, con conseguente paralisi, almeno momentanea, del sistema economico. Si punta su una accresciuta unità sociale. Ci si rassegna ad un numero di imprese fallite che potrebbe essere alto.

Come Buffagni indica, Cina, Corea del Sud e Italia seguono il modello 2, pur con strumenti non omogenei. Gran Bretagna, (Germania, Francia) e Stati Uniti seguono (o vorrebbero seguire) il modello 1.

Le ragioni per la scelta strategica di un modello o dell’altro sono più e meno profonde.

Per la Cina si è trattato insieme di:

· Questione culturale di rispetto verso gli anziani, che sono le vittime sacrificali dell’approccio 1;

· Prove di militarizzazione di intere aree urbane;

· Tattica di lungo periodo, infatti la rinnovata e rafforzata unità nazionale potrebbe sostenere una crescita ancora più spiccata nel prossimissimo futuro;

· Asimmetria informativa: sono stati i primi a dover affrontare il virus e hanno dovuto costruire modelli predittivi e risposte adeguate senza sapere esattamente quanto e come fosse contagioso e letale il virus.

Per noi, citando letteralmente Buffagni, “la scelta [italiana] del modello 2 ha ragioni superficiali e consapevoli nei nostri difetti politici e istituzionali, e ragioni profonde e semiconsapevoli nei pregi della civiltà e della cultura a cui, quasi senza più saperlo, l’Italia continua ad ispirarsi, specie nei momenti difficili: siamo stati senz’altro umani e civili, e forse anche strategicamente lungimiranti, senza sapere bene perché”.

Infatti, abbiamo optato per il modello 2, pur con qualche ritardo, deroga e limite intrinseco (per esempio nella capacità di produrre procedure di controllo adeguate mettendo d’accordo Stato centrale e regioni varie), perché incapaci politicamente delle decisioni fortissime necessarie per attuare il modello 1, e perché fondamentalmente inconcepibili per la nostra cultura tendenzialmente cattolica e pacifista.

La cosa interessante, sempre riprendendo Buffagni, è nell’implementazione di tali modelli operativi: infatti la scelta 1 richiede forza e decisione politiche enormi (si immagini Conte a dire “moriranno centinaia di migliaia di persone”), eppure nessun cambio nella vita dei cittadini; al contrario la scelta 2 è politicamente più mite e naturale, eppure impone restrizioni pesantissime.

Di seguito una serie di domande sorgono spontanee, pur con la premessa che non esistono certezze scientifiche sull’evoluzione della curva epidemiologica e quindi non ci sono basi per previsioni che vadano molto oltre il “secondo me” sullo stato sociale ed economico di lungo periodo, ovvero si è nel raggio d’azione della Politica con la P maiuscola, quella che prende decisioni strategiche e non si limita all’esecuzione mera (pur lodevole) di pareri scientifici e tecnici.

· Quale dei due modelli produce sul breve-medio-lungo periodo più morti?
Una prima risposta naturale potrebbe essere l’opzione 1, poiché ci si rassegna in partenza ai morti. Eppure il periodo di isolamento imposto dall’opzione 2 porterà ad una crisi economica profonda con due probabilissime conseguenze: migliaia di aziende fallite che si trascinano dietro molti più disoccupati, welfare potenzialmente ridimensionato per far fronte alla crisi. Dunque sul medio periodo, magari anche in assenza di vaccini e con un ritorno del virus (cosa che la Gran Bretagna ha preventivato fino ad aprile 2021) non è affatto ovvio quale opzione provochi più morti.
La differenza politica tra le due possibilità è tutta nella scelta che si compie: privilegiando la continuità economica si sta sacrificando parte del paese (pur con tutti i se ed i ma della questione, come il tentativo del governo inglese di confinare in casa per 4 mesi gli anziani e far contagiare solo i giovani), nell’altro caso si sta scegliendo di provare a salvarli tutti, almeno in prima istanza.

· Quale dei due modelli è più sostenibile per l’equilibrio socio-economico dei paesi?
Francia e Germania hanno inizialmente provato ad attuare la strategia 1, salvo poi virare sempre di più verso il contenimento coatto del virus.
Questo perché c’è un numero di morti oltre il quale avviene il collasso sociale dello Stato, ovvero cominciano le rivolte. Inoltre, quanto tempo si può resistere continuando a produrre come se niente fosse quando gran parte degli altri paesi del mondo chiude le frontiere e le fabbriche? L’economia di un singolo stato può resistere al fermo di tutti gli altri? Nel mosaico che è la globalizzazione, la risposta è probabilmente no. Nei termini della teoria dei giochi, qual è l’equilibrio più conveniente?
Un peso enorme verrà poi giocato dagli Stati Uniti e dall’evoluzione della loro strategia e della loro situazione sanitaria che, per le elezioni imminenti e per la struttura della sanità (privata), potrebbe trasformarsi in un disastro epocale.
Se gli USA cambiassero verso la strategia di contenimento, naturalmente in ritardo rispetto a Cina ed Europa, per quanto rimarrà fermo il mondo? Alla ripresa completa della Cina non ci sarebbe praticamente mercato estero, il loro mercato interno basterà per evitare un profondo ridimensionamento delle loro ambizioni di crescita?

· L’equilibrio socio-economico da rispettare per evitare una catastrofe è unico per tutti i paesi?
Ovviamente no, e questo è chiaro analizzando la percentuale di morti sui casi totali di corona virus. Uno studio interessante è stato pubblicato su Medium.
Infatti in Corea del Sud la percentuale di morti è molto più bassa che da noi (circa l’1%), ergo lì l’opzione 1 sarebbe stata molto più praticabile che da noi (che abbiamo una percentuale di morti di circa il 7% al 16 marzo), pur consapevoli che un collasso degli ospedali avrebbe alzato il numero totale dei morti per l’impossibilità di curare anche chi avesse problemi diversi dal corona virus.
Queste differenze nel tasso di mortalità dipendono fondamentalmente da tre fattori: come si conteggiano i morti (per corona virus vs con corona virus), come è distribuita l’età della popolazione, quali fasce d’età vengono inizialmente colpite da un contagio. La Corea del Sud è stata fortunata perché, oltre ad avere meno anziani di noi europei, ha avuto la maggior parte dei contagi fra i giovani. Questa è, appunto, fortuna. Per la Germania si sta verificando la stessa cosa, in Francia sono a metà strada.
In linea totalmente teorica l’idea di Boris Johnson di far ammalare solo i giovani isolando gli anziani (come spiegato su NextQuotidiano), se realmente attuabile (e non lo è) produrrebbe probabilmente un impatto accettabile sia economicamente, poiché si tenterebbe di far lavorare tutti come se niente fosse, sia in termini di vite umane, perché sui giovani la mortalità è quasi nulla. Tutto ciò anche indipendentemente dalla presunta immunità di gregge, da dimostrare per questo nuovo virus in assenza di vaccino.

· Potevamo permetterci l’approccio 1? Potremmo dover cambiare in corso d’opera e sacrificare anche noi le vite delle fasce più a rischio?
Dipende dai dati effettivi sulla letalità del virus, sulla sua eventuale ricomparsa in autunno e scomparsa in estate, dai risultati dell’approccio 2 attuale. Di certo, per quanto animati anche da ottime intenzioni, non potremmo permetterci un fermo totale come quello attuale per un anno (seguendo le stime del governo inglese sulla primavera 2021). D’altro canto esiste la possibilità che le misure di contenimento non bastino e che allentandole il virus ricominci l’espansione. Dunque cosa si farebbe in quel caso?
Potremmo dover essere noi a cambiare e scegliere l’approccio 1, cioè il sacrificio e il lavoro come se niente fosse. A quel punto ci troveremmo potenzialmente punto e a capo. Considerando uno studio effettuato su Vo’, citato sul Corriere, il 50% degli infetti non ha sintomi. In extremis, potremmo dover essere pronti ad un sacrificio importante, consolati solo dal fatto che gli asintomatici abbasserebbero la percentuale di morti, pur senza mitigare il dolore (ed il peso, anche politico) dei morti veri. Altrimenti, se lo studio non si dimostrasse veritiero uniformemente su tutto il paese… Meglio non pensarci.

Riferimenti bibliografici

· https://italiaeilmondo.com/2020/03/14/epidemia-coronavirus-due-approcci-strategici-a-confronto-di-roberto-buffagni/

· https://24plus.ilsole24ore.com/art/come-siamo-arrivati-ribasso-piu-violento-storia-mercati-peggio-crollo-29-ADtP5uC?cmpid=nl_best24

· https://medium.com/@andreasbackhausab/coronavirus-why-its-so-deadly-in-italy-c4200a15a7bf

· https://www.nextquotidiano.it/coronavirus-azzardo-di-boris-johnson/

· https://www.independent.co.uk/voices/coronavirus-deaths-trump-stock-market-pandemic-economy-bankrupt-italy-a9394891.html

· https://www.corriere.it/cronache/20_marzo_13/coronavirus-piano-marshall-veneto-moltiplichiamo-tamponi-938c48a8-6552-11ea-86da-7c7313c791fe.shtml

Per altre informazioni: youbiquitous.net oppure instagram.com/fesposi

tratto da https://medium.com/@fesposi.ybq/strategie-politiche-contro-il-coronavirus-6a46b5aa60b7

Lettera alla professoressa Capua, del dr. Giuseppe Imbalzano

 

Giuseppe Imbalzano, medico, specialista in Igiene e Medicina preventiva. Direttore sanitario di ASL lombarde per 17 anni (Ussl Melegnano, Asl Milano 2, Ao Legnano, Asl Lodi, Ao Lodi, Asl Bergamo, Asl Milano 1). Direttore scientifico progetti UE (Servizi al cliente, Informatizzazione della Medicina Generale). Si è occupato di organizzazione sanitaria, prevenzione, informatica medica, etica, edilizia, umanizzazione ospedaliera e psicanalisi.

 

Ill.ma professoressa Capua;

A seguito delle Sue domande, quale fosse il motivo delle criticità in Lombardia, mi permetto di scriverLe e descriverLe quanto accade per comprendere come e perché, in Lombardia, nonostante tutti gli interventi messi in atto, non ci sia una attenuazione della pressione infettiva.

Il motivo è un elemento che rende difficile la gestione di questa epidemia, che sta crescendo oltre le attese e in un tempo brevissimo, una epidemia con uno sviluppo lampo e in modo tumultuoso.

In Lombardia la gestione dei pazienti infettivi ha condotto ad attivare ospedali misti, con la presenza di pazienti acuti a cronici e pazienti infettivi, con diverse condizioni di criticità, mentre in area critica, in considerazione della gravità delle condizioni individuali, molte risorse sono state assorbite da questi pazienti.

Questa situazione ha comportato, purtroppo, che la infezione sia stata poi diffusa negli ospedali e un numero elevato di personale sanitario (l’assessore aveva indicato nel 12% la percentuali degli infetti) ne sia stato contagiato.

E sappiamo che gli stessi, per lavoro, hanno numerosi e significativi contatti con il resto del personale e i malati che si rivolgono a loro. Oltre ai familiari, che risultano anche loro contagiati, creando piccoli cluster familiari.

E dopo appena 30 giorni, i pochi casi sono diventati una vera epidemia.

Una infezione, certamente seria ma non impossibile da limitare, è diventato un grave problema di sanità pubblica nazionale.

Oltre una diagnosi, certamente presunta, credo che sia utile una proposta di terapia di questa situazione, che ha avuto linee ondivaghe e incerte di soluzione.

Dopo appena 30 giorni più comportamenti, distinti e differenziati, abbiamo un numero di decessi che nelle prossime ore sarà doppio rispetto alla Cina per non parlare della progressione infettiva che appare poco propensa a frenare la propria marcia.

E siamo in una situazione che mai mi sarei aspettato, certo del lavoro e delle qualità dei nostri servizi di sanità pubblica, che si è attivata, ma forse con mezzi e risorse insufficienti.

Le indicazioni che seguono sono, naturalmente generali:

  • Ricoveri distinti in ospedali e strutture di assistenza e di ricovero per anziani dedicati unicamente a pazienti infettivi con rapida eliminazione di situazioni di ambiguità nella gestione clinica, con livelli massimi di sicurezza biologica per il personale operante.
  • Il blocco delle attività per 30 giorni senza particolari deroghe, se non per necessità industriali e di continuità lavorativa, con una gestione attiva di tutte le condizioni a rischio e delle situazioni che necessitano di supporto sociale sanitario e di servizi operativi con un’organizzazione di alto profilo sociale e funzionale.
  • Definizione di aree territoriali limitate per valutare azioni relative alle specifiche necessità locali.
  • Particolare attenzione alle esigenze sociali e cliniche dei pazienti fragili a domicilio per garantire una assistenza che non conduca alla necessità di ricoveri ospedalieri.
  • Attivazione di èquipes mediche ed infermieristiche ambulatoriali e domiciliari in sostituzione della medicina generale classica per pazienti affetti da patologie infettive trasmissibili. La riduzione dei contatti consentirà di operare in piena sicurezza su entrambi i settori. Naturalmente garantiti per sicurezza e continuità. Questo è certamente un problema di sanità pubblica e non di medicina di famiglia.
  • Monitoraggio stretto delle situazioni a rischio e garanzia di continuità e intervento tempestivo per pazienti affetti dalla patologia infettiva. La scelta di trattare questa infezione come le altre che conosciamo non è accettabile. L’obiettivo dell’Oms è l’eradicazione e non il mero controllo (che comunque l’attuale modello di intervento non garantisce)
  • Va modificato il protocollo della valutazione dei positivi e non solo dei malati, la quarantena e la separazione dei positivi anche dalle loro famiglie che certo rischiano di non restare indenni dalla malattia per la presenza dei propri congiunti.
  • Va modificato il modello di gestione del personale sanitario perché non possono lavorare nel dubbio di essere infetti, per se stessi e per i cittadini che si rivolgono a loro
  • Utilizzo della diagnostica con correttezza e non in forma di screening poiché certamente oggi possono creare false sicurezze

Con questa nuova organizzazione appare meno complesso intervenire in situazioni di criticità operativa con meno rischi considerato che il personale sarà ben protetto e il malato perfettamente assistito nelle diverse strutture in cui si trova.

Si riducono le esigenze di garanzia ambientale negli ospedali temporanei solo per pazienti Covid 19 poiché tutti i malati hanno la medesima malattia infettiva

Per ridurre l’impatto della malattia in ambito comunitario vanno conosciuti i casi e fatta un’analisi dei contatti, che ormai sono impossibili da individuare, nella situazione in cui siamo, sia per quantità che per il rischio di infezione che corre il personale sanitario nel dover fare le relative interviste e valutazioni.

Le soluzioni non sono numerose.

Considerato che appare impossibile che siano fatte le necessarie indagini epidemiologiche (analisi dei contatti etc.) sui singoli casi e che vengano determinati solo i nuovi casi patologici, deve essere modificato il modello di individuazione dei positivi e che, in assenza di diverse possibilità di gestione, si ritiene necessario che venga tolto il divieto di individuazione nominativo dei malati in modo da consentire ai contatti di afferire in centri idonei per le verifiche del caso.

Comprendiamo che si tratti di un problema grave di Privacy, ma ne va della vita dei singoli e delle loro famiglie e per esteso dell’intera Nazione. Tale indicazione va attuata per un periodo limitato a 60 giorni, e solo per questa condizione patologica.

E i servizi di identificazione e supporto ai pazienti andranno rafforzati in modo del tutto eccezionale in questo momento.

In questa chiave i medici di famiglia dovranno seguire solo i pazienti non affetti da questa patologia e dalle patologie non infettive gli ospedali temporaneamente adibiti a servizio per infettivi saranno in grado di assorbire pazienti infettivi sino ad esaurimento di tutti i posti disponibili o attivabili e senza limitazioni ambientali o fisiche per i diversi motivi che abbiamo citato, condizione che è possibile attuare se effettuata con immediatezza.

La maggior parte degli ospedali dovranno operare solo per gli acuti e i cronici. Gli interventi programmati non urgenti, naturalmente rinviati, così come tutto non espressamente necessario.

Pochi, chiari e netti interventi, date le caratteristiche dell’infezione, possono portare ad una soluzione rapida, gestendo poi diversamente le code di questa infezione.

Scelte macchinose e prive di obiettivi di sanità pubblica porteranno problemi e difficoltà per lunghi periodi e rischi di ripresa infettiva con piccoli focolai locali che necessiteranno di interventi continui e comunque del tutto inadeguati.

La valutazione delle aree indenni e la relativa dichiarazione di aree virus free porterà ad una rapida ripresa delle attività lavorative e a pieno regime, senza compromessi.

Le aree in cui permarrà la presenza del virus sarà liberata da vincoli non appena avverrà la garanzia di non avere assolutamente più rischi nel proprio territorio. La definizione delle aree deve essere di moderata superficie e per aree limitate.

Aree vaste per essere gestite e bonificate rapidamente saranno il risultato delle mini aree bonificate, e gli interventi saranno selezionati per le diverse esigenze.

Una scelta radicale e con tempi di gestione brevi ma decisi, senza ambiguità, darà anche segno della capacità del nostro sistema sociale e sanitario di uscire rapidamente da un problema che certo non era così grave all’inizio, e difficile da immaginare per lo sviluppo più che tumultuoso che ha avuto in quattro settimane.

La debolezza economica che appare dai dati economici è più legata alla evidente incapacità di uscire da una situazione complessa che dalla situazione stessa, pure aggravata da parole e narrazioni che non sempre hanno riscontro con i fatti.

Per ultimo, una informazione corretta ed esaustiva è l’elemento principale della lotta alla infezione ed è certamente più utile per educare le persone in tempo di crisi, aiutando tutti ad affrontare con più coerenza i problemi a cui andrà incontro in futuro. Lavarsi le mani va sempre bene, ma dobbiamo proteggerci dalla infezione aero trasmessa, e certamente non è sufficiente.

Purtroppo in un quadro complesso e troppo rapidamente sempre più compromesso.

E non siamo lontani, in qualche Regione, ad un momento di criticità grave per un eccesso di pazienti infettivi in tutti i settori e non solo per le terapie intensive.

 

Con la più viva cordialità

 

Giuseppe Imbalzano

NB_CVBreveImbalzano

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