La partenza di Victoria Nuland è importante?_di James W. Carden

La partenza di Victoria Nuland è importante?

Il cast può cambiare, ma lo spettacolo è lo stesso.

La scorsa settimana è arrivata la notizia che, dopo una lunga e storica carriera, Victoria Nuland si è dimessa dalla carica di sottosegretario di stato per gli affari politici presso il Dipartimento di Stato americano. Nel corso degli anni si è guadagnata la reputazione di intransigente neoconservatrice, avendo, tra gli altri ruoli, lavorato come assistente principale dell’intransigente anti-russo Strobe Talbott; come consigliere per la sicurezza nazionale del vicepresidente Dick Cheney; e come portavoce del Segretario di Stato Hillary Clinton. La reputazione di Nuland derivava in parte (e forse ingiustamente) anche dalla famiglia con cui si era sposata. Quindi c’è una comprensibile tentazione da parte dei sostenitori del realismo e della moderazione di tirare un sospiro di sollievo per la sua partenza dal servizio governativo.

Ma bisogna chiedersi: la defenestrazione figurata della Nuland ha davvero importanza?

La Nuland ha meritatamente ricevuto molte critiche ( non ultimo da chi scrive ) per aver inserito il fronte e il centro degli Stati Uniti nelle dispute geopolitiche che affliggono l’Ucraina. È opinione diffusa che prima, durante e dopo la rivoluzione Maidan, abbia guidato sia l’amministrazione Obama che quella Biden verso una linea più aggressiva di quanto fosse consigliabile. Ma questo forse gonfia la sua influenza; dopo tutto, sia Obama che Biden sono stati molto aggressivi da soli su questioni al di fuori della Russia-Ucraina; basta considerare le loro azioni in Libia, Siria, Yemen e Palestina.

Le speculazioni informate sull’importanza delle dimissioni della Nuland ci impongono di considerare almeno tre domande:

  • Dove viene prodotta la salsiccia? A questo proposito, l’attuale amministrazione non è molto diversa dai suoi immediati predecessori. La politica emana dal Consiglio di Sicurezza Nazionale sotto la direzione della Casa Bianca. Secondo tutti i resoconti disponibili, il consigliere per la sicurezza nazionale di Biden, Jake Sullivan, è primus inter pares tra gli uomini del presidente. La quasi sublime incompetenza di Antony Blinken ha richiesto al presidente di inviare Sullivan, il direttore della CIA William Burns e l’inviato israelo-americano Amos Hochstein come emissari in delicate missioni diplomatiche. Per apprezzare la misura in cui lo Stato è stato declassato, l’estate scorsa, un membro emergente dell’establishment della politica estera, Jon Finer, è stato indicato come possibile candidato per ricoprire il ruolo di vice segretario di Stato, il numero del dipartimento due posizioni. Eppure, alla fine, è stato ritenuto troppo prezioso per lasciare la sua attuale posizione di vice consigliere per la sicurezza nazionale. In altre parole, mentre la Nuland occupava una posizione stimata all’interno della gerarchia del Dipartimento di Stato, le vere decisioni vengono prese altrove.
  • Cosa pensano realmente coloro che formulano le politiche? Ciò è relativamente semplice, dal momento che il presidente e il suo principale consigliere per gli affari esteri, Jake Sullivan, ce lo hanno detto ripetutamente. Intervenendo a Meet the Press alla fine di febbraio, Sullivan ha espresso il suo punto di vista secondo cui “l’Ucraina ha ancora la capacità se forniamo loro gli strumenti e le risorse di cui hanno bisogno per essere in grado di prevalere in questa guerra”. E il presidente, in un esempio quasi perfetto di quello che George F. Kennan una volta definì “emotività patriottica”, ha utilizzato il discorso sullo stato dell’Unione di giovedì scorso per paragonare Vladimir Putin, ancora una volta , ad Adolf Hitler, dichiarando: “Oltremare, la Russia di Putin è in marcia, invadendo l’Ucraina e seminando il caos in tutta Europa e oltre. Se qualcuno in questa sala pensa che Putin si fermerà all’Ucraina, vi assicuro che non lo farà. Ma l’Ucraina può fermare Putin se stiamo al suo fianco e forniamo le armi di cui ha bisogno per difendersi”. Sembra davvero probabile, quindi, che il presidente e i suoi consiglieri si ritireranno di buon grado dall’Ucraina ora che la signora Nuland se n’è andata?
  • Per amor di discussione, supponiamo che il Dipartimento di Stato abbia effettivamente un ruolo di primo piano nel processo di elaborazione delle politiche dell’amministrazione Biden. Cosa significano, allora, le nomine di Kurt Campbell (al lavoro ambito dalla Nuland) e di John Bass (al lavoro che la Nuland ha appena lasciato) per la politica ucraina? Ebbene, sulla base delle loro dichiarazioni e registrazioni passate, non molto. Bass, come Nuland, servì da aiutante sia a Strobe Talbott che a Dick Cheney. E Campbell, il nuovo vice segretario di Stato, ha appena tenuto un discorso a Vienna in cui ha dichiarato : “Gli Stati Uniti, i nostri alleati e partner rimangono uniti nel sostegno all’Ucraina. E, francamente, dobbiamo essere vigili e attenti a quei paesi che sostengono privatamente o silenziosamente la Russia nella sua guerra contro l’Ucraina, e ciò include la Corea del Nord e la Cina. Continueremo a denunciare i crimini di guerra e le atrocità della Russia. Non dimenticheremo la complicità della Bielorussia nella guerra della Russia”.

Alla fine, sarebbe un trionfo della speranza sull’esperienza per noi aspettarci troppo (se non altro) dalla partenza di Victoria Nuland dal servizio governativo.

La Grande Post Guerra Fredda AmericanThinkers sulle relazioni internazionali di gilbert doctorow

La Grande Post Guerra Fredda AmericanThinkers sulle relazioni internazionali

di gilbertdoctorow

I grandi pensatori americani del dopoguerra sulle relazioni internazionali è il titolo del mio primo libro di saggi. Pubblicato nel 2010, ha una notevole utilità per capire dove siamo oggi nelle relazioni con la Russia, come e perché un Nuovo Ordine Mondiale si sta formando davanti ai nostri occhi e dove siamo diretti.

In quanto storico di formazione, ero stato a lungo scontento del modo in cui i politologi americani cercavano nella storia delle “lezioni” a sostegno delle loro ultime proposte per la politica estera del paese. Questa pratica era tanto più in vista durante gli anni ’90, nel periodo immediatamente successivo al crollo dei regimi comunisti in tutta l’Europa centrale e orientale, arrivando infine all’URSS. Gli accademici più conosciuti d’America, e anche alcuni aspiranti accademici meno conosciuti, hanno prodotto opere che avevano lo scopo di informare un pubblico confuso e anche di guidare i responsabili politici nelle più alte cariche del paese. Fornivano mappe stradali per il nuovo mondo che ora non era più diviso fino al midollo da una frattura ideologica e che non era più bipolare, ma sembrava invece unipolare, con gli Stati Uniti come unica superpotenza globale ed egemone rimasta.

Ho letto alcuni dei loro lavori, sono rimasto scandalizzato dalla lavorazione scadente e ho deciso di agire come storico chiamando all’ordine colleghi professionisti in una disciplina correlata.

Considerando i risultati della mia dissezione degli scritti degli anni ’90 e dell’inizio del nuovo millennio dei nomi affermati nel campo, alcuni lettori del mio libro hanno deciso che non ero sincero nel designarli come “grandi”. Tuttavia, il mio parametro non era il valore intrinseco dei loro scritti, ma il grado di influenza che esercitavano sulla professione e nella comunità della politica estera in generale. C’era poco da cavillare sulle mie scelte. Francis Fukuyama, Samuel Huntington, Zbigniew Brzezinski, Henry Kissinger e Noam Chomsky erano tutti ben noti al pubblico per diversi scaffali di opere che hanno avuto un interesse duraturo fino ad oggi. I nomi meno conosciuti nel mio “big ten” erano Joseph Nye, Stanley Hoffmann, G. John Ikenberry e Robert Kagan. Erano riempitivi per dare al mio volume abbastanza volume. Non mi scuso per averli inclusi perché erano ancora ineludibili nel 2010 anche se il loro valore residuo oggi è spesso trascurabile. Con un’eccezione, ovviamente, Kagan. Sarei negligente non menzionare che è il marito di Victoria Nuland, con la quale ha condiviso una visione del mondo neoconservatrice che ha contribuito a definire.

Il più forte degli autori nella mia lista erano pensatori complessi, e ci sono voluti tutti i miei sforzi per ottenere la mia mente intorno a loro per produrre un’analisi critica, incluso da dove hanno “preso in prestito” molte delle loro idee, cosa c’era di sbagliato nelle fonti e cosa è rimasto sbagliato nelle loro rielaborazioni.

Il più originale del lotto era Francis Fukuyama. Il suo Fine della storia (1992) è stato seminale, nel senso che gli altri “grandi” hanno scritto in risposta alla sua sfida, anche se non hanno mai riconosciuto il suo lavoro per nome. Il libro di Fukuyama stabiliva i principi che erano incorporati nel movimento neoconservatore. Ha sostenuto che con la sconfitta del comunismo, l’intera umanità era ora diretta nella stessa direzione verso la democrazia liberale e il libero mercato. Era un unico binario lungo il quale si stendevano tutte le nazioni della terra, chi davanti alla locomotiva, chi dietro. Con la direzione della storia chiaramente delineata da Fukuyama, è stato un piccolo passo per i Neoconservatori esortare il governo degli Stati Uniti ad accelerare i processi storici con un intervento diretto. Quando questo finì con la sfortunata invasione dell’Iraq, Fukuyama abbandonò la nave e lasciò il movimento. Ma non è mai andato molto lontano, ed è chiamato ancora oggi come esperto di affari internazionali a commentare il disastro che attende Putin dalla sua guerra all’Ucraina. Questo è stato l’argomento principale della sua intervista la scorsa settimana al programma Hard Talk della BBC. Persone molto intelligenti come Fukuyama si allontanano indenni dai relitti del treno.

Zbigniew Brezinski è ormai morto da tempo (2017) ma la sua voce si sente ancora. Nelle ultime settimane molti dei nostri commentatori citano il passaggio del libro più venduto di Brzezinski, Grand Chessboard (1997), in cui spiega l’importanza decisiva dell’Ucraina nel mantenimento o nella perdita della posizione della Russia come impero europeo. Naturalmente, c’è molto di più in quel libro delle due righe citate oggi. Racchiudeva un’intera visione del mondo che era profondamente anti-russa, proprio come lo era stata la carriera di Brzezinski quando si trasferì dalla sua cattedra universitaria per diventare consigliere per la sicurezza nazionale di Jimmy Carter.

Brzezinski è stato l’autore del piano per attirare l’Unione Sovietica in un’invasione dell’Afghanistan nel dicembre 1979 e poi per fornire supporto statunitense ai guerrieri islamici che combattono l’URSS, che, a lungo termine, ha logorato lo stato sovietico e ha contribuito alla sua scomparsa. Ci sono molti a Washington che sperano in risultati simili dal sostegno americano agli ucraini nella loro guerra con la Russia, un’altra guerra che gli Stati Uniti hanno in gran parte pianificato.

Il nome di Brzezinski non è stato menzionato nei numerosi necrologi dell’ex segretario di Stato Madeleine Albright, morta la scorsa settimana. Tuttavia, era stato il suo mentore durante i suoi studi universitari e sono rimasti in stretto contatto quando è salita alle alte cariche. Brzezinski ha accettato un incarico da Albright per assistere i piani per la costruzione di oleodotti e gasdotti dall’Asia centrale all’Europa, costeggiando il territorio della Federazione Russa, con l’intento di ridurre le entrate russe e il controllo sugli idrocarburi globali.

Non sarebbe esagerato dire che le opinioni anti-russe di Brzezinski sono state assorbite dal latte di sua madre. Sebbene sia considerato una cattiva forma nella vita politica americana attirare l’attenzione su nascita, etnia e simili, al momento della sua nomina a consigliere per la sicurezza nazionale c’erano un certo numero di seri professionisti che mettevano in dubbio la saggezza di nominare un patriota polacco, figlio di un diplomatico polacco, a partecipare al processo decisionale ad alto livello che coinvolge la politica nei confronti della Russia, visti i diversi secoli di cattivo sangue tra questi paesi e popoli.

Gli scritti di Henry Kissinger erano sicuramente i più difficili da padroneggiare. Si è laureato ad Harvard una summa cum laude e lo senti. Quando stavo scrivendo la mia analisi del suo capolavoro Diplomacy (1994) sono andato alla pagina amazon.com per il libro e ho esaminato i commenti dei lettori, cercando di catturare il vox populi . Un commento spiccava: “Scrive molto bene per un criminale di guerra”.

In effetti, in passato era opinione diffusa che Kissinger avesse trascorso la seconda metà della sua vita a espiare i peccati della prima metà. Il suo ruolo nel perseguire la brutta guerra criminale in Vietnam è stato il principale peccato del passato. Dagli anni ’90 in poi, si presumeva che Kissinger agisse come uno degli “uomini saggi” dando prospettiva e intuizioni a coloro che facevano politica estera, compresi i presidenti. E quando viene citato oggi, è comune indicare le sue dichiarazioni dopo il 2008 in cui sconsigliava di estendere l’adesione alla NATO all’Ucraina. Tuttavia, questo per ignorare ciò che ha fatto e detto negli anni ’90. Kissinger e Brzezinski hanno entrambi testimoniato a Capitol Hill nel periodo 1994-1996, quando l’America ha preso una decisione sull’espansione della NATO e sulle relazioni con la Federazione Russa in futuro. All’epoca Kissinger si era opposto fermamente all’inclusione della Russia nella NATO, addirittura contrario all’inclusione della Russia nel programma molto diluito del Partenariato per la Pace. La NATO doveva essere sacrosanta.

Nel 2008, quando Stati Uniti e Russia si avviarono verso la guerra per l’incursione russa in Georgia ad agosto, Kissinger era un attore di primo piano nel gruppo di alti uomini di stato che misero insieme un documento su come riavviare le relazioni con Mosca. Il documento è stato consegnato al team della campagna di Barack Obama ed è stato implementato all’inizio del 2009 come “Re-set”. Tuttavia, quel piano in realtà non metteva in dubbio i dati dell’egemonia globale degli Stati Uniti e richiedeva solo una migliore retorica quando si trattava del Cremlino. Questo qualifica a malapena Kissinger per crediti per compensare i suoi peccati passati.

Kissinger è stato benedetto dalla longevità. Il mese prossimo sarà un relatore in primo piano in un grande evento pubblico ospitato dal Financial Times . Possiamo aspettarci che resista alla crisi ucraina. Per i lettori dei miei grandi pensatori americani del dopoguerra fredda , sarà difficile trattenere gli scherni.

Infine, vorrei citare qui Samuel Huntington, un politologo che oggi è meno ricordato dei primi tre precedenti, ma la cui visione del presente e del futuro esposta nel suo Clash of Civilizations ( 1996) ha avuto una grande influenza sul pensiero sul mondo in un’intera generazione di americani e altri in tutto il mondo.

Il libro di Huntington è diventato un best seller dopo l’ attentato dell’11 settembre al World Trade Center. L’autore sembrava prevedere la lotta titanica tra l’Occidente e il terrore islamico, e tutti erano ansiosi di leggerlo. Ma il libro non si limitava al conflitto con l’Islam. Huntington aveva una serie completa di “civiltà” che presumibilmente stavano lottando per la posizione. Tra questi troviamo l’Ortodossia orientale, di cui la Russia è il caso eccezionale. A questo proposito, il lavoro rimane attuale fino ad oggi.

Detto questo, Clash of Civilizations era un’opera piuttosto scadente che doveva molto allo Study of History di Arnold Toynbee per il concetto generale e ai giovani assistenti di ricerca di Huntington per i numerosi scenari che costituiscono la maggior parte del libro.

Ho ricordato le idee semicotte di quei giovani ricercatori che non avevano alcuna esperienza mondana quando ho scambiato e-mail questa mattina con il mio buon amico Ray McGovern e ha chiesto i miei pensieri su una recente intervista rilasciata dal professore emerito del MIT Ted Postol. Postol rimproverava i giovani “punk” che sembrano popolare i ranghi dei consiglieri di Joe Biden. Quello che mancava a Postol è che esattamente ragazzi come questi facevano sempre il lavoro sporco nelle scienze politiche. Tanta creatività, zero competenza. Erano sicuramente il tipo di persone che nel 2008 hanno detto di lasciar andare Lehman, perché avrebbe avuto un effetto salutare sull’assunzione di rischi da parte degli speculatori. Ignoravano i disastri che li attendevano allora, proprio come coloro che oggi formulano la politica delle sanzioni contro la Russia ignorano il contraccolpo a venire.

Naturalmente, nessuna nazione ha il monopolio della stupidità e dell’ignoranza dell’economia. La “leadership” dell’Unione europea sta facendo del suo meglio per mantenere la sua posizione in questo senso. Se tra tre giorni gli Stati membri dell’UE seguiranno le severe istruzioni di Gauleiter von Leyen e rifiutano la richiesta russa di pagare il loro gas in rubli acquistati sul mercato interno russo, ne seguirà il caos economico. Quel dannato sciocco, ginecologo di formazione, sta dicendo a tutta l’UE cosa fare in un settore vitale del commercio. La sua posizione equivale a un’incredibile usurpazione di poteri da parte di un guerrafondaio.

L’Occidente è puntato verso il basso, come quel Boeing 737 precipitato in Cina la scorsa settimana. Dritto e accelerando.

©Gilbert Doctorow, 2022

L’EROE GUERRAFONDAIO DI TUTTI I MONDI NON C’È PIÙ! LUNGA VITA A JOHN MCCAIN, di Gianfranco Campa

L’EROE GUERRAFONDAIO DI TUTTI I MONDI NON C’È PIÙ! LUNGA VITA A JOHN MCCAIN.

 

Stanotte è morto all’età di 81 anni, il senatore repubblicano, componente primario dell’establishment politico americano, John Sidney McCain III. Se ne va uno degli attori principali della politica americana del ventesimo e ventunesimo secolo. Se ne va colui che il New York Time ha definito: “ Il più grande leader politico del nostro tempo.” Se ne va colui che è stato un arcinemico di Donald Trump e dei suoi sostenitori. Se ne va il tardo eroe dei democratici per il suo militantismo anti-trumpiano. Un sondaggio condotto due giorni fa dice che McCain era amato da circa il 60% dei democratici contro il 48% dei repubblicani. Un amore democratico  morboso dovuto alla militanza anti-trumpiana del senatore dell’Arizona. La santificazione democratica di  McCain rasenta il ridicolo, con buona pace della memoria corta di molti democratici i quali durante le elezioni presidenziali del 2008 avevano definito McCain un sociopatico, un suprematista bianco, razzista, islamofobo, mentecatto, nazista, “moralmente ed eticamente inadatto a essere il presidente degli Stati Uniti.” (The Atlantic- SEP 17, 2008)

 

 

Il rapporto di amore passionale sfociato fra i democratici e il senatore McCain non aveva niente a che vedere con un genuino riallineamento politico di queste due entità, ma andava ricercato piuttosto in un rapporto di interesse reciproco. McCain, come altri neocons del calibro di Max Boot, Bill Kristol e via dicendo, lasciati orfani dal partito repubblicano modellato a immagine di Trump, sono stati costretti a cercare nuove sponde da dove continuare ad alimentare il loro impeto guerrafondaio; i democratici d’altro canto cercavano alleati nella loro partigiana resistenza all’invasore alieno Trump. Un rapporto di interesse quindi,  non di genuino amore.

Sono passate tre ore dalla morte di McCain e mentre scrivo questo articolo siamo soggetti a un continuo tributo mediatico alla memoria del senatore, eroe e prigioniero di guerra. Tutti i canali ne stanno decantando le gesta, siamo sottoposti a una indigestione di lodi che rasentano il ridicolo. Tenete conto che queste entità politiche e mediatiche sono le stesse che sputano veleno su Trump 24 ore al giorno, 365 giorni all’anno. Ci vorrebbe un po di equilibrio da parte di certa gente…  L’ultima volta che ho visto un’unità di intenti mediatica e politica di questa portata a cui ora siamo soggetti qui negli Stati Uniti è stato quando i mass-media hanno elogiato in modo unanime, su tutti i canali, George W. Bush per aver invaso due paesi sulla scia dell’11 settembre.

Aldilà del rispetto per la sofferenza di una persona e della sua famiglia in questi momenti di dolore, se non si fa una breve ma onesta analisi, si manca allora di rispetto anche verso coloro che le sofferenze e i dolori li hanno subiti per colpa di una uomo che per decenni  ha infiammato ed iniettato veleno non solo nella politica americana ma in quella di mezzo mondo.

La lista dei peccati e delle scorribande di McCain è abbastanza lunga. Per cominciare, fra i contribuenti alla sua fondazione, troviamo gente del calibro della famiglia Rothschilds, del governo Saudita, del filantropo George Soros. Quest’ultimo fra l’altro ha contribuito finanziariamente più volte alle campagne politiche di McCain.

McCain ce lo ritroviamo in Siria prima dell’inizio della guerra civile, in Ucraina prima della rimozione violenta di Viktor Yanukovych, nei Balcani prima dell’attacco alla Serbia. Ce lo ritroviamo ultras militante anti-Gheddafi prima della guerra civile in Libia. Cè lo ritroviamo  vocalmente allineato alle forze della primavera araba. Ce lo ritroviamo attivo sostenitore di quel Saakashvili che ha incendiato l’Ossezia del Sud e torturato i prigionieri nelle carceri Georgiane. Ce lo ritroviamo attore principale e instancabile sostenitore delle sanzioni all’Iraq durante il regno di Saddam Hussein, sanzioni che costarono la vita a migliaia di civili innocenti. Uno dei principali promulgatori e promotori delle due guerre del golfo. Ce lo ritroviamo sostenitore energiico e indefesso nell’espansione della NATO sino ai confini Russi. Insomma sostenitore convinto di guerre interventiste, esportatrici di democrazia mirate ai cosiddetti cambi di regime.

Se si vuole vedere un mondo sotto la ottica delle guerre neoconservatrici allora John McCain è la quintessenza delle aggressioni militari americane degli ultimi trenta anni. Il disprezzo per la vita di innocenti civili è  quello che in realtà ha propagato John McCain negli anni più attivi della sua politica. Il sangue sparso in Libia, Siria, Ucraina, Balcani, Iraq etc.  grida ancora giustizia, quella giustizia superiore a cui ora McCain dovrà dar conto.

 

 

Lo so,  vi diranno che non si può criticare McCain, perché McCain è un eroe; ma un eroe per chi? Forse per la sua prima moglie che tradì e lasciò per un’altra donna molto più giovane?  Forse per quelle accusatrici di molestie e rapporti sessuali extra matrimoniali venute fuori allo scoperto e ignorate dalla maggioranza della grande stampa? Eroe per le milioni di vittime che le guerre sponsorizzate da McCain hanno provocato? Eroe perché il senatore John McCain disse a chiunque non avesse gradito la sua decisione di consegnare il dossier di Christopher Steele all’FBI “di andare tranquillamente all’inferno.”. Sappiamo bene come la pensano i saggi conformisti di questi tempi decadenti : McCain è un eroe mentre Trump è un villano.

Meglio lasciarsi con le parole del nostro “amato” George Soros che dal suo account Twitter ci manda un messaggio di pace e speranza:  “Ricordiamo John McCain, un guerriero coraggioso dei diritti umani che si è sempre opposto alla repressione e alle torture” Meno male che ci pensa il nostro caro George ad illuminarci sulla strada di Damasco. Anche se quella strada, grazie alle opere miracolose dei discepoli di McCain, si ritrova disseminata di buche bombarole.

Ora però mi sento in colpa perché è volato all’aldilà  un vero  santo. Io l’avevo sotto il naso e non l’ho capito, apprezzato e venerato per quello che era realmente. R.I.P John McCain che ti sia concesso il perdono divino…

 

Il triangolo imperfetto_Un anno di Trump_19° podcast, di Gianfranco Campa

Ad un anno dal suo insediamento alla Casa Bianca si può tentare un primo bilancio della azione di Donald Trump. Gianfranco Campa, all’inizio del suo intervento, ci rivela le fondamenta e le ragioni di interesse che consentono l’instabile equilibrio tra il Presidente, il vecchio establishment neoconservatore repubblicano e l’imprescindibile elettorato più militante e critico verso la vecchia guardia. La definitiva defenestrazione di Bannon, grazie anche ai suoi incredibili harakiri, ha spianato la strada ad un accordo, per quanto difficoltoso, sulla politica interna che ha consentito di portare avanti buona parte del programma presidenziale già dal primo anno di insediamento. Un dinamismo i cui risultati stanno incrinando le certezze di vittoria del Partito Democratico Americano alle prossime elezioni congressuali di medio termine.

Molto più controverse e contraddittorie risultano essere le linee di politica estera. Appare insolitamente evidente l’esistenza di più canali diplomatici e di diversi centri strategici in diretta competizione tra loro e su linee divergenti e contraddittorie; come pure l’esistenza di canali alternativi di comunicazione con i competitori geopolitici non corrispondenti ai canali ufficiali. Una fase nella quale le logiche apparenti stridono con quelle più profonde e riservate. Un chiaro indizio che l’equilibrio faticoso e precario in questo ambito coinvolge forze molto più potenti e temibili in una condizione molto più sfavorevole rispetto alle intenzioni dichiarate da Trump nella sua campagna elettorale. Su questo piano si riscontreranno i maggiori effetti della defenestrazione di Bannon. Antonio de Martini, nel post precedente pubblicato su questo sito, ha rivelato con particolare perspicacia l’essenziale della reale posta in palio riguardante l’uso “del bottone più grosso” http://italiaeilmondo.com/2018/01/14/il-bottone-piu-grosso-di-antonio-de-martini/ . Si profila un equilibrio tra poteri, soprattutto dello stato profondo che sembra concedere qualcosa di significativo sul piano interno in cambio di una “armonizzazione” maggiore delle intenzioni trumpiane con i canoni classici della politica estera e della diplomazia americane. Sono comunque equilibri dinamici che non consentiranno comunque il ritorno allo “statu quo ante” sia per il rafforzamento progressivo degli altri attori geopolitici, ad eccezione ahimè degli stati europei, che per i diversi assetti interni alla potenza tuttora prevalente. Sta di fatto che anche su questo piano, la tattica de “l’America first” con l’indebolimento dell’approccio multilaterale e la rinegoziazione su base bilaterale dei trattati con gli USA sta modificando pesantemente e in maniera duratura le modalità e i contenuti delle relazioni internazionali. A prescindere dal suo esito tutt’ora incerto, penso che ricorderemo per tanto tempo questa presidenza. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

 

https://soundcloud.com/user-159708855/podcast-episode-1

18° podcast_ all’ultimo sangue; la battaglia in Alabama, di Gianfranco Campa

La guerra di movimento tra il vecchio establishment democratico-neoconservatore e le forze che hanno portato Trump alla Presidenza ha trovato il proprio punto di attrito decisivo nelle recenti elezioni in Alabama. L’elezione del rappresentante al Senato rappresentava la ridotta, il baluardo difensivo apparentemente secondario, dalla quale avrebbe dovuto ripartire l’offensiva di Bannon tesa a sconvolgere l’assetto del Partito Repubblicano. Ha trovato invece un muro di gomma, una classe dirigente disposta a sacrificare se stessa pur di non concedere spazio all’avversario. Per il rotto della cuffia è riuscita nell’intento, ma difficilmente potrà ricostruire su tali e tante macerie una credibilità sufficiente a riprendere il pieno controllo degli spazi politici. Una battaglia aperta e senza esclusione di colpi rischia di tramutarsi in un conflitto sordo e strisciante difficilmente controllabile e dalle implicazioni poco prevedibili. Con il ridimensionamento definitivo di Steve Bannon, almeno nei prossimi anni, Trump perde l’unica sponda cui appoggiarsi per resistere al progressivo logoramento della sua azione politica. Avrà forse guadagnato un momento di tregua ed una attenuazione della presa nelle spire che lo condannano al soffocamento; di certo non guadagnerà alcuna libertà di movimento. Potrà forse togliersi qualche amara soddisfazione. Le pedine a lui avverse più esposte probabilmente non serviranno più e potranno essere offerte in sacrificio alla plebe delusa ed assetata di sangue. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

Per ascoltare al meglio la registrazione è consigliabile registrarsi a

https://soundcloud.com/user-159708855. Le registrazioni possono essere scaricate anche su cellulare e tablet ed essere ascoltate senza connessione.

Qui sotto il link:

https://soundcloud.com/user-159708855/podcast-episode-18

 

Steve Bannon in Italia

Steve Bannon, assieme a Roger Stone, è il principale protagonista del ristretto manipolo di persone che, negli ultimi cinque anni, ha fiutato la crescente fragilità dell’imponente establishment americano dominante e portato alla vittoria presidenziale Donald Trump. Il secondo è la figura pragmatica e disincantata, apparentemente leggera, in grado di muoversi nei meandri e di cogliere a tempo le dinamiche dei centri di potere. Ha iniziato la carriera giovanissimo come assistente di Richard Nixon, guarda caso in una fase analoga di scontro acuto, anche se meno cruento, tra strategie e centri di potere ferocemente contrapposti. Bannon è invece lo stratega, capace di intercettare e orientare i movimenti di opinione e di dare respiro alle tattiche e alla contingenza politica; per questo inafferrabile, almeno sino ad ora e in grado di trasformare la propria condizione di preda in quella di predatore. Il momentaneo sospiro di sollievo dei restauratori, determinato dalla sua uscita dallo staff presidenziale, si è trasformato in inquietudine angosciosa allorquando ha ricominciato a minare, con i suoi successi alle primarie delle prossime elezioni di medio termine, le basi politiche dei neoconservatori e di quei trasformisti che non tarderanno a riaffiorare sotto nuove spoglie. La stampa e il giornalismo nazionali, con alcune rare eccezioni, si sono accontentati pigramente e beatamente di ciò che passava il convento d’oltreatlantico; ce lo hanno presentato come rozzo, razzista, approssimativo, isolazionista, retrogrado. La breve intervista, tenuta in Italia ai primi di ottobre e tradotta in italiano, farà crollare parecchi di questi stereotipi e con esso assesterà un altro colpo alla credibilità del sistema di informazione. Per approfondire sarà sufficiente rovistare nella sua testata, Breibart. Dal canto suo, Bannon appare, assieme a Stone, uno dei pochi politici americani consapevoli delle implicazioni dell’affermazione di un mondo multipolare, se non multicentrico. Uno dei pochi che vorrebbe tentare una impresa ardua, improbabile: un arretramento “ordinato” del proprio paese, in grado di preservarlo da quelle catastrofi che in altre epoche storiche più o meno recenti hanno travolto gli imperi in crisi. Non a caso la caduta dell’Impero Romano è sempre stato oggetto di attento studio negli Stati Uniti. Non è importante, al momento, comprendere se si tratta di una posizione tattica, in attesa che eventuali situazioni di conflitto aperto sempre latenti tra i paesi emergenti, ricollochi gli Stati Uniti in una condizione simile a quella della seconda guerra mondiale; oppure di una visione strategica, sino ad ora minoritaria ma storicamente pur sempre presente nel dibattito politico statunitense anche se in forme diverse, in particolare nei movimenti civici locali. Le intenzioni dei soggetti politici spesso e volentieri sono travolte e stravolte dalle dinamiche conflittuali. L’aspetto rilevante è che il prevalere o il consolidarsi di tali posizioni, non fosse che temporaneo, offre nuovi spazi ed opportunità a quelle élites nazionali che avessero intenzione di riprendere in mano il destino del proprio paese. Un proposito lungi dall’essere coltivato dalle nostre classi dirigenti, beatamente assopite. Buon ascolto_Giuseppe Germinario