Europa ad oriente! Cambiamenti e persistenze_con Francesco Dall’Aglio

I paesi dell’Europa Orientale sono il perno attraverso il quale gli Stati Uniti intendono trascinare l’intero subcontinente nelle loro avventure ed assogettarlo ulteriormente alle proprie strategie conflittuali nei confronti della Russia e della Cina. Il prezzo da pagare per i paesi europei è enorme, probabilmente insostenibile. La compromissione nella costruzione di dinamiche geopolitiche autonome più cooperative con la Russia ampiamente pregiudicata. In questo quadro il ruolo della Unione Europea assunto sino ad ora viene ampiamente ridimensionato nell’ambito dell’alleanza occidentale. L’istituzione rischia di diventare superflua e di ridursi ad un simulacro paralizzante. Con essa la stessa Germania è destinata a subire un ridimensionamento politico ed economico drammatico sino ad azzerare la rendita consentitale dalla passata centralità di affidataria. La partita, però, non è ancora chiusa. Dipenderà dall’esito del conflitto ucraino e dalle contraddizioni che una strategia così aggressiva sta aprendo all’interno del fronte occidentale. Ha iniziato l’Ungheria; la Bulgaria potrebbe seguire la stessa strada, come pure la Moldova; in Francia Macron mostra segni crescenti di difficoltà di tenuta; in Svezia il cammino si fa più incerto. In questo quadro grandi cambiamenti sono in corso in Europa Orientale, come pure emergono persistenze sedimentate in secoli di storia. Sono le tracce di cui discutiamo e che ci consentono di ponderare gli eventi e le possibili vie di uscita. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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ETHNOS E STATO (2 di 2), di Daniele Lanza

Proseguiamo con l’interessante analisi di Daniele Lanza sulle radici del nazionalismo in Europa Orientale. Il testo offre anche un pretesto per riproporre un tema già affrontato anni fa riguardante le ripercussioni dell’ingresso repentino dei paesi dell’Europa Orientale nell’Unione Europea a partire dagli anni ’90. A suo tempo pubblicammo due studi depositati nei polverosi archivi della UE, a nome dello storico Francziseck Draus, nei quali si esponevano tutti i limiti e i problemi che sarebbero scaturiti con l’ingresso di paesi tutt’altro che pervasi dallo spirito europeista che ha caratterizzato l’adesione dei dodici paesi originari in opposizione all’ideologia e ai regimi del blocco sovietico. Le richieste di adesione erano determinate soprattutto dalle aspettative economiche generate e dal desiderio di una parte della classe dirigente di quei paesi, alla fine risultata vincitrice grazie al determinante sostegno occidentale, di adesione soprattutto alla NATO e in particolare direttamente all’apporto militare degli Stati Uniti. Quel tipo particolare di nazionalismo è stato quindi il veicolo, ben alimentato ed incoraggiato, per orientare progressivamente in maniera sempre più aperta contro la Russia le ragioni dell’Alleanza Atlantica. Buona lettura, Giuseppe Germinario
ETHNOS E STATO (2 di 2)
(Termina qui, ma è la premessa per un capitolo sull’etnonazionalismo ucraino più contemporaneo)
(alle radici degli etnonazionalismi d’Europa orientale, con attenzione al caso ucraino)
[formulare è stato complicato : LEGGERE con pazienza ]
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Abbiamo descritto in linea di massima e con una certa libertà interpretativa la divergente genesi del nazionalismo per quadranti d’Europa (EST-OVEST), cercando di spiegare come e perché gli etnonazionalismi tendono a manifestarsi maggiormente verso est (…).
Si è concluso ricordando come anche il caso ucraino rientri in questa fattispecie, con l’unica differenza delle dimensioni territoriali e demografiche : vediamo ora di approfondire e andare al cuore del problema…
In molti altri interventi si è cercato di fare quasi l’impossibile ovvero tracciare un quadro chiaro di cosa sia l’identità ucraina : questa – al pari di quella bielorussa – nasce dal medesimo brodo primordiale di TUTTI gli slavi orientali….I RUTENI. La popolazione nativa della RUS medievale, il cui disfacimento nel XIII secolo determina faglie di divisione tra quello che un tempo era un unico grande popolo : da quel momento i differenti tronconi della popolazione rutena sarà sottoposta a differenti processi di acculturazione che vedono ad oriente trasformarsi pian piano in “russi” sotto lo scettro dello ZARATO di Mosca (venivano infatti chiamati moscoviti, identificandoli col potere centrale del proprio stato). Lo zarato, come sappiamo, appena raggiunta la propria unità pan-russa, si lancia alla conquista delle aree geografiche circostanti in tutti punti cardinali incassando una serie di successi nel corso del tempo che ampliano enormemente la propria superficie geografica rispetto a massima parte degli stati coevi : questo si rivela in un certo qual modo più fattibile verso oriente, data la scarsa densità demografica e lo stato d’arretratezza dell’opponente (potentati tatari di varia entità) che non ad occidente, dove si afferma un protagonista di forza allora equivalente, come il regno di Polonia/Lituania.
Il problema – già descritto – è dunque questo : sebbene lo zarato di Mosca (di Russia dal 1547) si presenti, sia considerato, come più legittimo successore dell’antica RUS, tale successione è in realtà asimmetrica. Lo zarato riunisce solo una parte della Rus ossia tutti i territori ex tributari dei khan tatari i quali poi ne saranno fatalmente rovesciati (da Kazan ad Astrakhan) : in parole altre la RUS “rinasce” sì, ma indefinibilmente trasfigurata concettualmente rispetto a prima sul piano della collocazione su un asse OCCIDENTE-ORIENTE. Lo stato di IVAN IV è una creatura il cui baricentro è più spostato ad oriente rispetto alla Rus di svariati secoli prima : la fase di dominazione tatara costituisce un tassello di portata non calcolabile in questa trasformazione culturale che porta all’emergere dei “russi” che si affacciano alla prima età moderna. Lo stesso non avviene in quella fascia di territorio RUS rimasta illesa dalle incursioni mongole, ma al contrario sottoposta a una lenta colonizzazione culturale di parte polacca.
Il punto è semplice nella sua complessità : mentre i ruteni d’oriente diventano “russi” nella loro lunga riconquista medievale contro il nemico tataro, quelli d’occidente non si evolvono in tale direzione essendo sottoposti a un differente genere di ombrello culturale. Una massa autoctona che – sotto dominazione feudale polacca – continua portare l’antico appellativo di RUTENI (si potrebbe mettere nel seguente modo : mentre ad oriente i ruteni vivono un esteso processo sociopolitico di crescita ed affermazione – in opposizione alla grande orda – intriso di tragedia e gloria, tale da determinare una metamorfosi anche sul piano terminologico (“russi”) i propri analoghi ad ovest non passando traverso il medesimo crogiolo – quanto sotto il più blando e stabile feudalesimo europeo di matrice polacca – risulta in un certo senso sospeso temporalmente alla beata calma della defunta RUS, conservando addirittura inalterato l’etnonimo ruteno di centinaia di anni prima (…).
In definitiva i RUSSI sono ruteni la cui identità si è evoluta in funzione delle circostanze storiche che li vede lottare contro l’avversario tataro sotto i vessilli della Moscovia ; la moltitudine di ruteni che popolava i territori corrispondenti alle attuali Bielorussia e Ucraina altro non era che LO STESSO popolo (cui si sottrae la drammatica esperienza storica del primo).
Occorre attendere il 17° secolo per vedere una scintilla che alteri la staticità del quadro : si parla della sollevazione capitanata da Khlemintskij (1654), ma notiamo che anche in questo caso non la si descrive col nome “rivolta ucraina”, quanto di “rivolta cosacca” (i cosacchi non rappresentano che una frazione di tutta la popolazione rutena esistente all’epoca e deteneva un’identità/status distinto), per quanto a posteriori, retroattivamente, le si attribuirà un carattere nazionale ucraino.
La frattura del dominio polacco lungo le rive del Dnpr è efficacemente sfruttata – come la storia ci insegna – dallo zarato di Mosca (dinastia Romanov all’opera) che sfruttano a proprio vantaggio l’evento per erodere dalle fondamenta l’areale d’influenza dei monarchi di Polonia, creando un temporaneo stato cosacco che sarà quindi inglobato nello zarato (fin qui ci siamo già, penso). Occorre aspettare un altro secolo perché anche la zona ad ovest del Dnpr venga inglobata dall’impero russo al tempo della spartizione della Polonia (1772).
Il quadro – su un piano identitario – è quantomai ambiguo a questo punto : tanto i russi quanto i ruteni (futuri bielorussi/ucraini) sono lo stesso popolo, abbiamo detto, benchè evolutosi secondo percorsi diversi. Ora, entro la tarda età moderna (16/17° sec.) i ruteni rientrano sotto l’egida politica di Mosca, prima zarato e poi impero : non è la soluzione ideale ? Popoli di comune ceppo che si ritrovano anche sotto lo stesso scettro ? Per una volta ETHNOS e STATO coincidono……e possono crescere assieme.
Eppure, anche così non è così semplice. Malgrado il comune ceppo etnico, malgrado un potere politico unico, non si cancellano 4/500 anni di divisione così densi di avvenimenti : quello che prende vita non è una perfetta omogenizzazione, ma piuttosto un’unità nella differenza. Prestare attenzione : l’ultima espressione può essere fuorviante, nel senso che può essere utilizzata per descrivere un unico ombrello politico per popoli assai diversi tra loro (tedeschi-italiani oppure anglosassoni-afroamericani), ma in questo caso si tratta di una diversità di grado minore, quella che intercorre tra civilizzazioni gemelle. Occorrerebbe implementare l’espressione facendola suonare “Unità in ARMONICA diversità”….perchè di diversità armonica, compatibile che si sta parlando.
Storicamente lo stato russo NON riesce a russificare in modo totale questi suoi ruteni, malgrado parrebbe cosa facile considerato l’alto grado di somiglianza culturale : li integra pienamente di certo, ma non fino allo stadio di far loro dimenticare che sono stati qualcosa di diverso rispetto alla Russia di Mosca un tempo (gli strati della psiche collettiva e i suoi insondabili labirinti sono la vera chiave qui). Essi sono sudditi dell’impero e slavi come i russi, sono quasi russi (quasi) : qualcosa però li fa sentire più ad ovest che il russo standard. Da questo sentire inizierà il risveglio del secolo XIX analogo a tanti altri popoli del continente europeo. Viene il tempo di Taras Shevchenko (uno dei padri spirituali della nazione ucraina) e il termine “Ucraina” – già esistente da tempo – inizia ad assumere un significato assai più forte che in passato : inizia a indicare una precisa identità nazionale in opposizione alle altre circostanti (il “sé” si definisce sempre in opposizione a ciò che non è “sé”).
Anche questo percorso tuttavia NON è semplice ! Sì, perché definire il “sé” in opposizione a cosa non lo sia è più lineare quando i popoli che ti circondano sono decisamente differenti da noi : nel caso ucraino/russo(e bielorusso) il popolo che vuole distinguersi dai suoi vicini, ha a che fare con vicini che sono assai simili a sé ! Costruire una linea di divisione può essere complesso quando lo straniero è quasi come te….come e dove porre il confine ? (territoriale, ma soprattutto psicologico). Tra tutti i popoli di cui era composto l’impero zarista, il comparto Bielorussia/Ucraina è quello che da meno problemi (comparativamente a casi come la Finlandia o Polonia o Caucaso) : occorre aspettare l’onda sismica del 1917 per vedere emergere una realtà nuova…..e assieme ad essa il germe che vediamo ancora oggi (siamo all’etnonazionalismo cui ho fatto cenno).
Cogliere la vera natura del caso russo/ucraino è quindi complicato e si sbaglia nel valutarlo cadendo in opposti estremismi. Due sono i soggetti che sbagliano….
1- sbaglia l’oltranzismo zarista (chiamiamo così l’atteggiamento più reazionario del nazionalismo russo) che nega con ingenuità ed arroganza l’esistenza di un’identità a parte per questa parte di slavi orientali un tempo “ruteni” e oggi ucraini e bielorussi. Non si vuole capacitare che mezzo millennio di divisione – malgrado la profonda comunanza – abbiano lasciato dei segni delle conseguenze nel più totale processo di etnogenesi.
2- Sbaglia l’”oltranzismo della giustizia” oggi capitanato dal mondo occidentale che interpreta in modo riduttivo l’insorgenza ucraina alla stregua di un qualsiasi conflitto coloniale (dei tanti) che vede contrapposti un dominatore e una vittima, sorvolando completamente (e follemente) il grado di parentela che in questo caso intercorre tra le due entità….fattore questo che nulla può cancellare.
In conclusione (nella prospettiva del sottoscritto) : non si può – a onore di coscienza – affermare che le forze russe facciano una passeggiata di diritto nel proprio giardino, ma al tempo medesimo non si può neppure paragonare il tutto ad un residuo di imperialismo da parte russa. La verità, se si riesce ad intrepretare la storia col metro del lunghissimo termine, è che il processo in corso sotto gli occhi di tutti, ha le sembianze di una grande GUERRA CIVILE non in seno ad un singolo stato, ma entro la cornice di un cosmo culturale -quello slavo orientale – approdato al secolo XXI nuovamente frastagliato. Una guerra civile che non riguarda una singola nazione (come l’espressione pretenderebbe), ma più di una : una “guerra civile sovranazionale”. Labirinti della semantica.
(Termina qui, ma è la premessa per un capitolo sull’etnonazionalismo ucraino più contemporaneo)

ETHNOS E STATO, di Daniele Lanza

ETHNOS E STATO (1 di 2)
(alle radici degli etnonazionalismi d’Europa orientale, con attenzione al caso ucraino) [da LEGGERE, può essere illuminante]
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Introduzione
Nodo di Gordio (diciamo). Le difficoltà nel tormentato processo di negoziazione nella crisi in corso hanno molteplici cause : una di esse – direi quella cardine, ma che stenta ad imporsi nella narrativa d’occidente – si colloca nella più intima sfera della società ucraina ed è qualcosa che inibisce dal comunicare propriamente col vicino russo.
Si potrebbe quasi affermare che l’attuale classe politica di questo paese – al potere da oramai molti anni – è quasi ontologicamente inadatta (per sua stessa natura cioè), inadeguata al dialogo con Mosca. Questo si deve ad un genoma ideologico del tutto anomalo rispetto all’Europa di cui vorrebbe – paradossalmente – fare parte, denso di elementi identitari le cui origini variano a seconda di luogo e tempo, ma che prese tutte assieme vanno a comporre l’agglomerato che chiameremmo “nazionalismo ucraino”.
L’espressione ultima è evocata continuamente in questi giorni (intensità massima da parte russa e minima da parte occidentale) tanto da risultarne quasi banalizzata…….cerchiamo di fare un minimo di chiarezza sulla questione ora.
Premessa :
A beneficio di chi legge e ad onore della verità – a prescindere da come ci si rapporti al nazionalismo ucraino nello specifico – occorre innanzitutto ricordare un dato essenziale che concerne il contesto più ampio : si intende dire che l’intera Europa orientale, presa nella sua totalità, vede una maggiore frequenza di tali fenomeni nazionalistici ed identitari rispetto alla zona più occidentale dell’Europa. L’elenco di sigle e correnti (parlamentari e non) distribuite su tutto l’arco di paesi dell’ex patto di Varsavia sarebbe lungo : si inizia dalle provincie dell’ex Germania orientale coi suoi rigurgiti neonazisti, ai nazional-cattolici polacchi, per poi dirigersi a nord tra i paesi baltici che commemorano le proprie formazioni SS durante l’ultimo conflitto mondiale e invece a sud, nei Balcani, lo strabiliante particolarismo etno nazionalista emerso sin dalla conclusione del sistema socialista nei primissimi anni 90. L’Ucraina non fa eccezione, ma anzi rientra in tutto nella media di un quadro molto più vasto….di un brodo di coltura comune, potremmo anche dire.
Le ragioni autentiche di questo brodo di coltura – volessimo indagarne le radici ultime – sono antiche e vanno ben oltre gli slogan e i gesti ispirati ai regimi totalitari del XX secolo che tutti conosciamo : il fatto centrale è che il quadrante più orientale d’Europa vede un percorso di sviluppo sociopolitico differente rispetto al suo analogo occidentale già a partire dalla tarda età moderna e per tutta quella contemporanea (gli ultimi 250 anni). Mentre l’Europa occidentale, affacciata all’oceano si lancia nella sua conquista del mondo forgiando imperi oltremare di dimensioni continentali che vanno ad investire giocoforza altri contesti geografici e culturali (e venendone a sua volta influenzati), viceversa gli stati e le società dell’oriente europeo, fisicamente limitati in questo senso ovvero sprofondati in un loro isolamento continentale, mantengono e sviluppano una visione più autoctona del mondo. Per esprimerla in altre parole, l’est Europa percorre un sentiero divergente rispetto al processo di globalizzazione capitanato dal fulcro anglo/franco/ispanico che già prende forma nei secoli dell’età moderna (il cui prodromo sono le scoperte geografiche che mettono fine al medioevo, per andare ancora più indietro).
Individuiamo quindi in questo primo momento – che si dispiega nel corso di secoli – il primo tassello di una differenza evolutiva profonda nella sfera psicosociologica di est e ovest europeo : se è vero che i nazionalismi emergono tanto ad occidente quanto ad oriente è utile notare che il carattere più duro e premoderno lo mantengono quelli d’oriente, meno abituati al confronto col cosmopolitismo che avviene nel corso del tempo per chi si affaccia all’oceano nella sua conquista coloniale planetaria (considerazione che sfiora l’elementare eppure trascurata).
A questo macro fattore si assomma inoltre una divergenza sostanziale data dall’imperfetta sintonia tra evoluzione delle strutture politiche e della psiche collettiva (comparativamente). Proviamo a spiegarci più chiaramente : la diversità di fondo di cui si è parlato si mantiene anche entrando nell’età contemporanea e anzi si accentua proprio in concomitanza con gli eventi cardine che inaugurano il XIX secolo, quando il fenomeno della grande rivoluzione (“Rivoluzione francese” sui nostri manuali) ridefinisce il concetto di nazionalità nella cultura europea, donandogli un carattere civile, che combaci col concetto legale di stato. Tale “nazionalismo civico” posteriore al 1789 si diffonde al di fuori della Francia durante l’era napoleonica lasciando la propria eredità in tutto il continente, non priva tuttavia di un’asimmetria profonda che emergerà nel secolo a seguire : nel contesto occidentale il vibrante risveglio delle identità nazionali riesce in qualche modo ad svilupparsi e ramificarsi in sinergia con le strutture dello stato contemporaneo (parlamentare, via via democraticizzato col passare delle generazioni) mentre ad oriente il risveglio identitario in questione è un fenomeno che si manifesta al di fuori di un forte e condiviso contesto statale, essenzialmente indipendente dall’idea di statalità : questo è naturale se si considera la parcellizzata natura degli imperi multinazionali nell’Europa centro-orientale del XIX secolo. Al reazionario paternalismo di questi ultimi – contestato dai più, prima e dopo – va a sostituirsi la tempesta imprevedibile dell’etnia quindi.
Un nazionalismo popolare, scisso (o non ben amalgamato) dal più secolarizzato e organizzato concetto di istituzioni, che vede il primato dell’ETHNOS rispetto allo STATO : un arcaico diritto del sangue che prescinde/pervade quello civile (…).
Questo è quanto oggi chiamiamo ETNONAZIONALISMO, nel gergo comune.
Non è un caso se si usa tale parola per riferirsi preferibilmente ai fenomeni identitari nell’Europa orientale contemporanea : espressione pressochè assente nel frasario abituale fino ai conflitti balcanici dei primissimi anni 90 vivi ancora nella memoria di tutti (anche se in realtà lo si può usare retroattivamente per tutti i frangenti storici che vedono insorgenze etniche negli ultimi secoli). Rispetto al “nazionalismo civico” che tende a promuovere un patriottismo istituzionale basato sulla ricerca dell’unità, l’etnonazionalismo si definisce al contrario nel conflitto contro il diverso da sé, contro la “tribù differente” che ci è vicina.
Il caso UCRAINO non è diverso da altri (fatta eccezione per le dimensioni dell’areale in questione rispetto ad altri più piccoli nei Balcani)

 

Nazione, nazionalismo, etnia, popolo, razza, razzismo, impero, imperialismo, globalizzazione, cosmopolitismo (3), di Fabrizio Mottironi

Nazione, nazionalismo, etnia, popolo, razza, razzismo, impero, imperialismo, globalizzazione, cosmopolitismo (3)
Le due Guerre Mondiali hanno archiviato definitivamente il “nazionalismo” tardo ottocentesco. Gli europei sono riusciti a procurarsi 88 milioni di morti ammazzati nell’assurda gara per stabilire la loro nazione “alpha”.
88 milioni di morti per non risolvere nulla e consegnare il presunto scettro degli “alpha” (perché “presunto” lo vedremo più avanti), fino a quel momento da loro posseduto, agli USA e ai sovietici…
I nazisti hanno fondato le loro dottrine nazionalistiche sul primato della loro razza “superiore”, ma nel bunker di Berlino il loro führer si troverà a dover amaramente constatare che questa “superiorità” non si è davvero dimostrata.
Mussolini e il re italiano, mai stati razzisti ma divenuti razzisti per “Realpolitik” nazionalistica, impareranno amaramente che l’approssimazione, il velleitarismo e il cinismo non sono risultati premianti. Nel ’41 hanno dichiarato guerra agli Stati Uniti d’America nella convinzione che quel paese non sarebbe stato in grado di trasformare la propria industria civile in industria bellica: nel solo mese di aprile del 1945 gli USA fabbricheranno tanti aerei militari quanto l’Italia in tutto il periodo compreso tra il 1941 e il 1945…
La mitologia “nazionalista”, ovvero la gara europea per stabilire il “Volkgeist” più duro e puro, costato 88 milioni di morti, è dunque stata definitivamente archiviata nel 1945.
Analoga archiviazione per la mitologia positivista “razziale” che, va ricordato, non fu una sola prerogativa del nazifascismo, ma trovò fervente accoglienza fino agli anni ’50 almeno in una parte del partito democratico statunitense, ossia nel partito di Clinton, Obama e Biden, con le leggi di Jim Crow propugnate, emanate e applicate nel Sud degli Stati Uniti proprio dal partito democratico.
Gli studi di genetica hanno ampiamente dimostrato l’infondatezza dell’esistenza delle “razze” umane di cui non era per niente convinto, già nel XIX secolo, lo stesso Charles Darwin.
Sulle cause che hanno reso negli ultimi tre secoli gli europei all’avanguardia mondiale nelle scoperte scientifiche, tecniche e nell’organizzazione sociale del lavoro, vi è un godibilissimo e chiaro saggio dell’antropologo statunitense James Diamond che consiglio vivamente a tutti: “Armi, acciaio e malattie”. Vi consiglio vivamente di leggerlo…
Dalle ceneri dell’Europa 1945 escono sostanzialmente fuori due vincitori: gli Stati Uniti, propugnatori della mitologia “liberale”, e l’URSS che propugna invece la mitologia “comunista”.
La storia la conosciamo tutti. L’URSS è imploso nel 1989, al suo posto c’è oggi la Russia del nuovo zar Putin. È implosa anche una successiva superpotenza, la Cina di Mao ossia quella della Rivoluzione culturale. La Cina sorta da quelle ceneri, la Cina non ancora ‘imperiale’ di Hua Guofeng e Deng Xiaoping è già assolutamente diversa.
Da queste due implosioni del comunismo emerge un dato sconcertante. Nonostante la rigida economia comunista e pianificata e l’indottrinamento capillare per circa tre generazioni, questi due immensi paesi non hanno partorito nemmeno un singolo “uomo nuovo”, con una coscienza diversa dal denaro, potere e filosofia dell’apparire. Nemmeno uno straccio di “uomo nuovo” che potesse, pure nell’implosione, rilanciare la rivoluzione e la coscienza proletaria. E già solo questo fatto denuncia la grave fragilità antropologica di quella ideologia. Da archiviare nella pattumiera come quelle precedenti: decine e decine di milioni di morti per non concludere nulla. Niente, solo souvenir per tardi e frustrati romantici di Che Guevara.
Gli Stati Uniti? Gli Stati Uniti per come li conoscevamo alla fine della guerra sono definitivamente implosi anche loro, nonostante il vano tentativo di restaurazione operato da Donald Trump.
Gli Stati Uniti della mitologia “liberale” del secondo Dopoguerra sono coerenti con gli Stati Uniti della mitologia “liberale” del primo Dopoguerra ma vi è una profonda cesura tra questi, richiamati dall’ultimo presidente repubblicano, e i nuovi Stati Uniti della mitologia “neoliberale” di Biden, già anticipati dai Clinton e da Obama.
Non sto parlando a livello geopolitico ma solo di storia delle idee. È quello che mi preme. E i due piani (geopolitico e di storia delle idee) non andrebbero mai confusi, e questo per buone ragioni. Ma li confondono quasi tutti.
Nel frattempo, dopo questa rapida ricostruzione delle origini delle idee in circolazione e prima di arrivare nel dettaglio al caso italiano ed europeo, passando per quello statunitense, invito ciascuno di noi intanto a domandarsi dove ci si intende collocare.
Siamo “imperiali”, “sovranazionali” o “internazionali/universali”? Beh… le dottrine e i valori dell’antica Roma, del cristianesimo, del Sacro Romano Impero, dell’aristocrazia europea fino al XVIII secolo, del comunismo e del pensiero neoliberale si muovono lungo quell’asse, anche se ne predicano diversi tipi.
Oppure ci si riconosce come nazionali o nazionalisti, come ad esempio i massoni del XIX secolo o i fascisti del XX secolo, e poi questo sul piano regionale, italiano o europeo?
Ecco che, sempre con valori diversi, oggi il supermercato delle idee ci propone di acquistare i nostri prodotti ideologici preferiti misurati secondo i nostri gusti.
Oggi possiamo acquistare davvero gelati identitari “tutti i gusti” persino abbinandoli: abbiamo comunisti sovranisti, nazionalisti sovranisti, neoliberali con visione europeista ma anche internazionalista, ci sono poi i nazionalisti europeisti, i comunisti internazionalisti, cristiani sovranisti ma anche internazionalisti o europeisti o regionalisti, etc.etc. Diciamo che nessuno ha più l’esclusiva, e anche i partiti possono facilmente cambiare idea a seconda della bisogna o del momento. E lo fanno e lo faranno, fin troppo frequentemente…
Ognuno cerca le sue identità, anche a seconda della moda, della confusione o della convenienza.
Ma c’è un fatto che molti dimenticano, e lo fanno in modo imperdonabile: i desideri, anche quelli identitari, possono essere infiniti, ma le risorse no, le risorse non sono infinite, per la semplice ragione che il nostro pianeta non è infinito e la nostra vita, almeno su questo pianeta, nemmeno.
E ci sono temi davvero cogenti che nessuno ha ancora sollevato se non nei ristretti ambiti accademici, lì dove nascono le idee che poi nutriranno tutte le lobby e tutte le tifoserie con le loro mitologie spesso mal comprese, di qualsivoglia colore o sua sfumatura.

 

Nazione, nazionalismo, etnia, popolo, razza, razzismo, impero, imperialismo, globalizzazione, cosmopolitismo (2), di Fabrizio Mottironi

Nazione, nazionalismo, etnia, popolo, razza, razzismo, impero, imperialismo, globalizzazione, cosmopolitismo (2)
Abbiamo dimostrato che il moderno concetto di “nazione” nasce in un contesto filosofico massone, in opposizione all’idea imperiale e religiosa “sovranazionale”.
Ma torniamo ai Romani, quindi a Roma che la tradizione vuole fondata da vari esuli di altre città italiche, ma non è questo il tema fondante. Il tema fondante di Roma sono le nozioni di “imperator” (che non è l’imperatore, sorta di supremo re per come è indottamente e comunemente conosciuto) e di “augus”. Nozioni molto importanti per capire cosa “muove” l’antica Roma.
Imperator: è così indicato colui che dopo l’”inauguratio” è ricolmo di “augus” (per intenderci l’”ojas” indoiranico) ossia è in grado di raccogliere, determinare e confermare la “maiestas” che il dio Iupiter ha consegnato a Romulus, fondatore della città, per uno scopo: la conquista delle altre città (e del mondo intero) affinché entrino nello spazio “sacro” del re degli dèi.
Il compito di Roma non può che essere ‘imperiale’, come quello dell’impero cinese o persiano o kuṣāṇa o mongolo.
Si parte da un uomo o da una comunità investita da un compito sacro: quello di conquistare il mondo perché tutti gli uomini si sottomettano ai dettami e dell’imperatore investito dal re degli dèi o dal principio del Dharma, ricevendo in cambio la protezione affinché ognuno possa realizzare compiutamente il suo destino e comprenderne i significati ultimi.
La cittadinanza romana viene quindi via via elargita a tutti coloro, anche appartenenti a ‘nazioni’ diverse, che mostrano di essere in grado di condividere, difendere e diffondere il “mōs maiōrum” che poi è il riverbero del principio sacro della stessa “maiestas”. I cristiani con il loro Sacro Romano Impero si muoveranno nella stessa identica logica in qualità di “populus dei” guidati dal loro pastore e pontefice e con un nuovo “imperator”, a volte sì a volte no a lui sottomesso.
Vero che i Romani, come i Greci prima di loro, dividono il mondo tra loro e i “barbari”. Ma questa divisione non inerisce al “sangue”, all’eredità, ma alla capacità di dominare la “cultura” e la “lingua” (ossia il “mōs maiōrum” di riferimento). D’altronde anche i cristiani additeranno i non-cristiani come “nationes”.
Per quanto riguardai miei studi, le uniche tradizioni che fanno riferimento in qualche modo alla stretta eredità famigliare, o di casta, o di sangue, sono quella vedica (con particolare riguardo a quella ancora odierna dei Nambūṭiri del Kerala), quella giudaica (ma solo dopo la riforma esdrina), quella zoroastriana (ma solo quella dei Parsi del Gujarat). Sui Germani è più impegnativo collocarli correttamente, a parte le prime tradizioni longobarde attestate che risultano invece ben evidenti.
Tornando alla Grecia, ad Atene, Zenone di Cizio, di origini fenicie, fondava nel IV secolo a.C. la Stoa dove predicava il primo cosmopolitismo: il cosmo è l’unica patria di tutti gli uomini resi comuni nella loro capacità di pensare, trovando secoli dopo in un imperatore romano, Marco Aurelio, un fervente seguace.
Ma questo solo a veloce titolo esemplificativo. E sempre solo a veloce titolo esemplificativo, ancora secoli dopo un altro fenicio di cultura greca, Porfirio, si scaglierà contro il cristianesimo considerato una “superstitio”, o meglio, un concorrente nell’ideologia imperiale romana.
Quindi i moderni filosofi, massoni, propugnatori della nozione moderna di “nazione” si scontreranno, e non solo culturalmente, con gli eredi della idea imperiale e delle aristocrazie sovranazionali, variamente declinate nei secoli…
Ancora nella modernità, interessante, come al solito, il contributo di Giuseppe Mazzini che indirizza il concetto di “nazione” non sugli abitanti di un territorio preciso ma lo lega a un nuovo termine, quello di “patria”, a sua volta non dipendente dal territorio ma dal sentimento di condivisione tra le genti. Mazzini non era un massone, quanto piuttosto e probabilmente un “carbonaro”, quindi appartenente a un’organizzazione clandestina abbastanza simile alla prima ma di origini diverse, o se si preferisce “eretiche”.
Ecco in arrivo il “nazionalismo”, che però è cosa diversa dai moti nazionali dei nostri intellettuali, più o meno rivoluzionari, sopracitati. È la sua radicalizzazione.
Dapprima il “nazionalismo” si fonda su un diffuso vissuto di “Realpolitik”, poi declina in una vera e propria ideologia. Detto con l’accetta esso parte da intellettuali tardoromantici tedeschi con una imprecisa nozione di “Volkgeist” (nozione già utilizzata dallo Hegel!) per individuare una sorta di spirito “nazionale” che rende la nazione come un ricettacolo che sovrasta i suoi componenti indicandone il destino spesso individuato come “eletto” o “suprematista”.
Gli intellettuali che in qualche modo predicano questo indirizzo sono diversi, tra tutti spicca, quantomeno per spessore culturale e per ruolo politico, il tedesco Heinrich von Treitschke.
Nel mentre sul finire del XIX secolo il tedesco von Treitschke diffonde le sue dottrine, il francese Arthur de Gobineau diffonde le sue, raccolte nel “Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane”.
De Gobineau predica la razza come il vero fondamento di una nazione. La razza ne decide anche il destino, se la razza si mischia con altre razze, quella nazione sarà destinata al declino. Va da sé che la “razza” più importante e ‘forte’ è quella “bianca”. Ma De Gobineau non inventa nulla, prima di lui altri autori si erano dilettati a descrivere le razze umane, tra tutti il tedesco Johann Friedrich Blumenbach.
Ma il periodo di De Gobineau e di von Treitschke è anche il periodo delle ricerche degli inglesi Herbert Spencer, propugnatore del darwinismo sociale, e di Houston Stewart Chamberlain devoto allievo di De Gobineau (grazie a Cosima Wagner).
La zuppa positivista e ancora liberale incontra il nazionalismo e il piatto è ora pronto per le varie dottrine naziste e fasciste (non sempre omogenee).
Ma la correlazione tra personalità, intelligenza e segno somatico non è proprio solo dei positivisti (eredi dell’Illuminismo) e dei successivi nazisti. Cesare Lombroso ed Enrico Ferri erano infatti convintamente socialisti…
Riassumendo nei primi dell’800 va in voga tra gli intellettuali massoni e romantici la critica all’idea sovranazionale delle aristocrazie europee e all’universalismo cattolico, che fonda l’idea di “nazione”.
Verso la fine dell’800 tale idea si nutre delle nozioni positiviste della “razza” e romantiche della “Volkgeist” fondando dapprima le diverse forma di “nazionalismo”, infine dei movimenti fascisti europei. I quali, sul finire della guerra, individueranno nell’Europa unita l’unica vera nazione. Così l’intellettuale fascista francese Pierre Drieu La Rochelle: «La race des Aryens retrouve son union/Et reconnait son dieu à l’encolure forte./Trois cents millions d’Humains chantent dans un seul camp./Un seul drapeau rouge à la cime des Alpes./Voici les temps sacrés remontant des enfers»…
Oggi gli eredi del nazionalismo radicale sono al contempo anche eredi dell’idea imperiale di Roma o del cosmopolita Federico II di Svevia, sono nazionalisti italiani antieuropei ma predicano il verbo europeista di intellettuali quali Drieu La Rochelle. Poche idee mal studiate e molto confuse… un po’ come la storia della vaccinazione obbligatoria criticata con motivazioni neoliberali… ma sempre tanto entusiasmo….
2 –segue, senz’altro-
NB_tratto da facebook

 

Nazione, nazionalismo, etnia, popolo, razza, razzismo, impero, imperialismo, globalizzazione, cosmopolitismo (1), di Fabrizio Mottironi

Nazione, nazionalismo, etnia, popolo, razza, razzismo, impero, imperialismo, globalizzazione, cosmopolitismo (1)
Tanti termini controversi a partire dalla loro polisemia. Provo a fare veloce e sintetica chiarezza (una sorta di “Bignami”), visto che in giro c’è davvero tanta confusione e, soprattutto, una stupefacente ingenuità.
Incominciamo con “nazione”. Il lemma procede dal latino “natĭo –ōni”, derivando dalla radice “nāsci” (nascere).
Da notare invece che il termine “razza” non possiede alcuna radice latina. Provenendo sì da una lingua romanza (cfr. il francese medievale “haras”) che però la prende dal norreno (G. Contini, “Studi di Filologia Italiana” 17.1959, pp. 319-327) laddove indica solo un allevamento di cavalli (vedremo poi come evolverà il lemma e la sua nozione).
I romani utilizzano il termine “nazione” per indicare una comunità indigena che abita un dato territorio. Nella modernità per indicare questa nozione viene utilizzato anche il lemma “etnia” (dal greco “éthnos”: popolo, nazione).
Diversamente “popolo” (dal latino “pŏpŭlu-m”) va a indicare la stessa comunità di genti che però risulta organizzata, ossia sottoposta a un’autorità di governo. Per inciso il latino “pŏpŭlu-m” viene dall’antico umbro “poplo” (di origine indoeuropea) dove indica anche la parte posteriore del ginocchio. In antichità quella porzione del corpo umano era connessa alla generazione (da qui la relazione con il “nascere”) in quanto organo che consente la stazione eretta del corpo umano.
Nel Medioevo i significati di “nazione” e “popolo” si sovrappongono. Così nelle università medievali le comunità di studenti che provengono da diversi paesi vengono additate con il lemma di “nazione” (“natio hispanica”, “natio italica”, etc.).
Solo la modernità ha iniziato la riflessione sui concetti che questi termini intendevano, anche se in modo spesso sovrapposto e approssimativo.
Comunque a partire dal XVIII secolo il termine “nazione” inizia a indicare un’entità organizzata dal punto di vista politico, ossia giuridico-statuale.
È Johann Gottfried Herder (“Idee per la filosofia della storia dell’umanità”, 1784) il primo a individuarne le radici “culturali”; mentre Johann Gottlieb Fichte (“Discorsi alla nazione tedesca”, 1808) è il primo che ulteriormente indica nella comune lingua la vera radice “spirituale” di una nazione, andando così a proporsi come uno dei padri spirituali del successivo “nazionalismo”.
A margine, è curioso che Fichte uno dei padri, o se si preferisce nonni, del nazionalismo (e delle sue derive radicali), era al contempo il vero padre filosofico della massoneria così come la conosceremo nel XIX e XX secolo (cfr. i suoi fondamentali contributi alla rivista “Eleusinie del XIX secolo”, 1802 e 1803)…
Subito dopo, nel 1815, il nostro Gian Domenico Romagnosi (anche lui, come lo Herder e il Fichte, massone) va a delineare la “nazione” come una realtà naturale e storica (cfr. “Della costituzione di una monarchia nazionale rappresentativa”).
Con Pasquale Stanislao Mancini (“La nazionalità come fonte del diritto delle genti”, 1851), che parla di “personalità nazionale” e lo Hegel (“Lezioni sulla filosofia della storia”, 1837) che vede nel “popolo” un “individuo spirituale”, un “tutto organico”, chiudiamo con i padri della nozione moderna di “nazione”. Questa nozione non esisteva prima, essendo, prima, puramente descrittiva, indicativa.
Da ora la “nazione” risulta essere quella comunità di persone che condividono una “lingua”, un’eredità storica, una comune “cultura”.
Che i padri del concetto di “nazione”, e quindi i nonni del successivo “nazionalismo”, siano tutti massoni (di Mancini e di Hegel non è attestato, ma fortemente sospettato) non deve stupire: la massoneria è nata nel XVIII secolo come una sorta di fratellanza tra “liberi” intellettuali (per lo più filosofi con interessi “ermetici” come era costume dell’epoca) che intendevano opporsi al dominio culturale, e politico, degli imperi e della aristocrazie “sovranazionali” e della chiesa cattolica “universale”… va da sé che la massoneria non poteva che promuovere proprio una visione opposta all’idea di governo “universale”, “imperiale” e “sovranazionale”, alimentando le successive “rivoluzioni nazionali”.
Incredibile vero? Ma il bello deve ancora venire…
NB_tratto da Facebook

 

QUALE IDEA DI EUROPA? PROSIEGUO_BOTTA E RISPOSTA gambescia/buffagni_1a PUNTATA

Una replica all’ interessante articolo di Roberto Buffagni

http://italiaeilmondo.com/2018/11/08/elezioni-europee-2019-quale-idea-deuropa-di-roberto-buffagni/

Da Tiglatpileser a Hitler, di Carlo Gambescia

fonte originaria

Partendo da una serrata  critica alle  riflessioni pseudo-teologiche di  Massimo  Cacciari,  Roberto Buffagni  spiega perché questa Europa, quella dell’UE per intendersi, non gli piace (*) .

Il suo ragionamento  ruota intorno a due  principi:  quello politico dell’amico-nemico e quello religioso di un cattolicesimo controrivoluzionario, più o meno fermo alla condanna del 1789. Buffagni combatte, ideologicamente, l’UE, puntando su due cavalli di razza:  Carl Schmitt e  Joseph de Maistre.  Ovviamente, cito, andando oltre l’articolo,  solo due nomi  presi  “a caso”, ma  idealmente emblematici,   dalle sue  sterminate  letture.

In buona sostanza, sfrondando il pur agguerrito  esercito di argomentazioni  filosofico-teologiche schierato da Buffagni,  l’UE è da lui considerata l’ultima reincarnazione di uno spirito moderno, molle e decadente che  sta portando alla rovina l’Europa  ( e ovviamente l’Occidente).

A dire il vero,  la posizione di Buffagni  è più  intellettualmente onesta  di quella di Cacciari,  che invece usa  il cristianesimo contro il cristianesimo, come Lenin usava la democrazia contro la democrazia. Evidentemente,  comunisti si  muore, ci si chiami Lenin o Cacciari. Ma questa è un’altra storia.

Scorgo però nel  discorso di Buffagni  una contraddizione cognitiva. Egli sostiene,  sulla scia di Carl  Schmitt, che in politica, senza un nemico, non si può fare politica. Il che è vero, solo però se si  intende  quest’ultima, come pura e semplice  continuazione della guerra con altri mezzi. Ciò, ovviamente,   è coerente con la  visione antimoderna di Buffagni  –  e qui spunta Joseph de Maistre –  che respinge il contratto  in quanto  prolungamento della modernità.   Ma non è coerente, dispiace dirlo, con la  visione scientifica della politica ( o meglio metapolitica)  che è sì, fondata sulla relazione amico-nemico, quindi  sullo status, dettato dalla spada,  ma che  include anche il contratto, ossia  le procedure, per evitare la spada puntando sulla civilizzazione del nemico,  attraverso una proceduralizzazione (il contratto),  capace di trasformare il nemico  in  avversario. Ovviamente, il contratto non esclude la spada, e viceversa:  i sociologi, sulla scia di Simmel (e prima ancora di Kant, ma si potrebbe andare ancora più indietro), parlano di  socialità insociale. Senza l’una (la spada) non c’è l’altro( il contratto).

In realtà, e qui storia e scienza si congiungono,  la storia  della Chiesa, o se si preferisce del cristianesimo o cattolicesimo  sociologicamente applicato,   è   la storia del sapiente e secolare  uso di status e contratto,  come del resto prova  la storia degli  imperi più longevi.  Dal momento che gli imperi  che sono durati di meno –  parlo della pratica,  non dell’idea  – sono proprio gli imperi, o comunque le macro-forme politiche,  fondate solo sulla spada: dai feroci Assiri,  agli imperi romano-barbarici (con vari pendant narrativo-evocativi medievali); da Tamerlano a  Napoleone e Hitler, che aspirava addirittura a fondare un Reich millenario.

 

Di più: Roma, la Chiesa cattolica e le moderne, e ancora giovani, democrazie liberal-parlamentari sono un buon esempio, anche prescindendo dalla forma di regime politico, di come fare saggio uso dello status e del contratto. E le prime due lo sono anche di vecchiaia.

Il  gracile  Occidente liberale ha  battuto la Germania di   Hitler sul campo di battaglia e l’Unione sovietica su quello economico.  Come dire?  Ha sconfitto due muscolosi colossi  politici, sul terreno dello  status e su quello del  contratto. Perché sottovalutare tutto ciò, privilegiando una visione univoca  della dicotomia amico-nemico? Asserendo – parliamo del succo del discorso di Buffagni,  esposto anche altrove –  che  sul piano cognitivo esiste solo il nemico, incarnato, su quello filosofico-politico – quando si dice il caso – dalla cattiva modernità?

Probabilmente perché, come appena accennato, nel pensiero di Buffagni,  condanna del mondo moderno e visione univoca del politico   sono la stessa cosa. Sicché l’UE, essendo il portato di un mondo impolitico e corrotto,  non può non incorrere nella  sua  “scomunica”, che, forse proprio perché tale, si regge argomentativamente, come per i suoi due  maestri ideali, sul solo  concetto di status. Altrimenti detto, solo sulla spada.   Di qui, il peccato cognitivo di unilateralità.

Di conseguenza, secondo Buffagni, questa Europa, per salvarsi, dovrebbe rinnegare il contratto e puntare sullo status.  Insomma, sulla spada.  Ma per andare dove?  A  fare compagnia a Tiglatpileser, fondatore del caduco impero Assiro?

Carlo Gambescia

L’Europa e la questione del costruttivismo, di Roberto Buffagni

Caro Carlo,

Rispondo con piacere alla tua  acuta critica [1] al mio recente commento a un discorso di Massimo Cacciari sull’idea di Europa[2]. La tua critica   è brevissima e chiarissima, e dunque non la riassumo, pregandovi di leggerla con attenzione prima della mia replica.

Cerco d’essere altrettanto breve e chiaro. Concordo volentieri con te sulla sua obiezione principale, e cioè che  “la politica…è sì, fondata sulla relazione amico-nemico, quindi  sullo status, dettato dalla spada,  ma…anche [sul] contratto, ossia  le procedure, per evitare la spada puntando sulla civilizzazione del nemico,  attraverso una proceduralizzazione (il contratto),  capace di trasformare il nemico  in  avversario.” Verissimo. Il problema dell’attuale situazione europea e occidentale, però, è che il “contratto” capace di trasformare il nemico in avversario non è un’obbligazione sinallagmatica privata, per la quale bastano legge positiva e amministrazione capace di applicarne il comando. Il contratto capace di trasformare il nemico in avversario è il contratto, o meglio patto politico, il foedus (lo auspica anche M. Cacciari nell’intervento che ho commentato).

Un foedus presenta due aspetti: uno, analogo al contratto privato, e cioè la composizione degli interessi in un compromesso accettabile e vitale; e un altro, che dal contratto privato lo differenzia qualificandolo, e cioè la condivisione un progetto politico-culturale e di un’etica. Ora, a mio avviso questo secondo aspetto, che differenzia il foedus  politico dal contratto privato, nell’Europa e nell’Occidente odierno non si dà e non si può dare.

Non si dà né si può dare condivisione di un progetto politico-culturale e di un’etica, perché l’Unione Europea, la forma che l’odierna Europa tenta di darsi, ha ripreso in toto la pretesa illuministico-liberale di innalzare la ragione umana individuale a legislatrice assoluta, a unica determinante della condotta personale e collettiva. La società stessa, in questa prospettiva, diviene il teatro in cui le singole volontà individuali vengono a incontrarsi, ciascuna col proprio insieme di insindacabili preferenze e atteggiamenti. Risultato: il  mondo diventa “l’arena dove combattere per il raggiungimento dei propri scopi personali”, per dirla con Alasdair MacIntyre[3]. Di conseguenza, all’interrogazione riguardante i fini, personali e sociali, si sostituisce la razionalità burocratica, che weberianamente consiste nell’adeguare i mezzi agli scopi in maniera economica ed efficace.

Il dibattito intorno ai fini, infatti, è sempre anche dibattito intorno ai valori. E non appena si dibatte intorno ai valori, la razionalità weberianamente intesa non può far altro che tacere. Non solo. Quando la razionalità weberianamente intesa  si insedia al posto di comando politico, non appena si apre il dibattito intorno ai valori essa non può far altro che far tacere le voci che dissentono dal suo presupposto: essere i valori frutto di decisioni soggettive; così rovesciandosi in dispotismo, conforme l’eterogenesi dei fini vichiana. Secondo il presupposto della razionalità weberiana, infatti, ogni scelta individuale è buona: sciolte da ogni vincolo oggettivo nella comunità, nella struttura metafisica del reale o nella trascendenza, tutte le fedi e le valutazioni sono ugualmente irrazionali, perché puramente soggettive. Detto per inciso, è per questo che la coscienza moderna è soggettivista, relativista ed emotivista: nella formulazione teologica di Amerio, in breve illustrata nel mio precedente scritto, la coscienza moderna mette l’amore al posto del Logos, la volontà prima dell’intelletto, la libertà in luogo della legge, il sentimento sopra la ragione.

Questa, a mio avviso, l’origine ideale del conflitto di crescente asprezza tra legittimazione popolare e legittimazione razional-burocratica dell’Unione Europea. Conflitto insolubile, perché la crisalide di Stato europeo difetta della forza sufficiente a imporre dispoticamente il principio ordinatore razional-burocratico: ci prova, ma invano, perché non può revocare la democrazia rappresentativa a suffragio universale, che resta la “formula politica” [4] (Mosca) degli Stati che la compongono, anche se non conviene all’entità politica in fieri dell’UE; mentre la legittimazione popolare, rispecchiando i divergenti interessi, culture, persuasioni etiche di popoli, nazioni e ceti europei, affermandosi non può far altro che disarticolare il progetto razionalista di (ri)costruzione della Torre di Babele 2.0 europea, che si profila destinata a far la fine della Torre biblica 1.0.

Sul piano ideale, sarebbe possibile uscire da questo vicolo cieco, riconducendo la costruzione europea alle sue “radici cristiane”. Sottolineo “radici” piuttosto che “cristiane”, perché nelle radici cristiane c’è anche la filosofia classica greca, anzitutto platonica e aristotelica, che afferma con vigore e perspicuità il concetto di “natura umana” e della sua intrinseca socialità; e la rappresenta in una forma altamente differenziata che consentirebbe di conservare insieme sia la legittimazione dell’universalismo spirituale perenne (eguale dignità di tutti gli esseri umani) sia la legittimazione delle comunità particolari transeunti (eguale dignità nella differenza di culture, nazioni, popoli europei). Sempre sul piano ideale, su queste basi sarebbe possibile quella condivisione di un progetto politico-culturale e di un’etica che costituisce la condizione necessaria, benché non sufficiente, per il foedus politico europeo (scrivo “non sufficiente”, perché a questa condivisione di valori dovrebbe congiungersi il difficile compromesso tra gli interessi e il precipitato delle vicende storiche di nazioni, popoli e ceti europei).

Il cristianesimo che potrebbe farsi promotore di questo “ritorno alle radici europee”, dunque, non sarebbe il  cattolicesimo reazionario, “maistriano” e seccamente negatore della modernità e dell’illuminismo, ma un cattolicesimo che in mancanza di altro termine definirò “tradizionista”, piuttosto che “tradizionalista”; perché non pretenderebbe il ritorno all’endiadi Trono/Altare, né l’adesione confessionale degli Stati e dei cittadini: non vivo su Marte né sono coetaneo di S. Tommaso, e mi ci troverei molto a disagio io stesso; ma il ritorno, o meglio il ritrovamento, di quel modo di intendere l’uomo e le sue comunità politiche e sociali con il quale il cristianesimo si confrontò al suo affermarsi, e poi riprese e parzialmente integrò ispirando e costruendo la civiltà europea. E’ questa, la base etica e filosofica che costituisce la “legge naturale” che, se per i cristiani coincide con i “preambula fidei”, per tutti gli europei potrebbe (sottolineo potrebbe) coincidere con la tavola dei valori comune: comune perché fondativa della civiltà europea.

Probabilmente, è  con questa speranza che papa Benedetto XV incentrò la sua riflessione teologica intorno a una ripresa e a un aggiornamento della filosofia aristotelica, come base di dialogo con i non credenti e con le istituzioni politiche occidentali. E’ senz’altro in questa prospettiva che un gruppo di studiosi conservatori di chiara fama, tra i quali d’altronde alcuni amici personali di papa Ratzinger, ha elaborato la “Dichiarazione di Parigi”[5], che per quel che vale la mia adesione (poco) volentieri sottoscrivo nella sostanza.

L’11 febbraio 2013[6] s’è visto quali concrete possibilità di affermazione ha questo progetto (per ora non tante, diciamo).

E’ un serio problema, e non perché io, papa Ratzinger o i firmatari della Dichiarazione di Parigi ne siamo delusi.

E’ un serio problema perché osservando la logica del conflitto in corso, in Europa e in Occidente, è probabile avvenga quanto segue. Radicalizzazione e polarizzazione crescenti tra un campo che ha per minimo comun denominatore universalismo politico, mondialismo, razionalismo, scientismo, soggettività individuale dei valori; e un campo che ha per minimo comun denominatore identitarismo, nazionalismo, nei casi peggiori anche tribalismo e/o razzismo; e che con il campo nemico condivide il peggio, cioè razionalismo, scientismo e soggettività dei valori: perché sostituisce, come fonte della scelta volontaristica e arbitraria dei valori, all’individuo liberale-illuminista la comunità nazionale, o addirittura tribale e/o razziale; motiva la preferenza per il noi identitario rispetto all’ io illuminista-liberale con l’identico scientismo (superiorità genetica di una razza sull’altra, leggi etologiche del comportamento animale, etc.); e come il campo avverso persegue il suo fine – inevitabilmente, di potenza e supremazia – con il criterio della razionalità weberiana. In buona sostanza, due campi così configurati sarebbero l’uno il positivo, l’altro il negativo fotografico dell’impasse culturale e politico non dell’Unione Europea, ma dell’Europa e dell’ intera civiltà occidentale; che confliggendo al calor bianco la sprofonderebbero nel cimitero della storia, lasciandone per giunta un pessimo ricordo che magari ci meriteremmo noi, ma certo non i nostri padri.

Deus avertat. Per fortuna, probabile non vuol dire certo. L’uomo resta libero, e dunque tutto resta possibile. Meglio darsi da fare, però: aiutati che il Ciel t’aiuta.

Un abbraccio,

Roberto Buffagni

 

Caro Roberto,

Io ti ho inviato una cartolina, tu mi hai risposto con una enciclica. Quindi mi perdonerai, se  rispondo, come mio stile,  con un’altra cartolina.

Non entro nel merito della  tua  argomentazione,  che comunque conferma il rigetto della modernità, quanto meno così com’è.  E qui però vengo al punto che  mi interessa: il tuo costruttivismo.

Vedi Roberto, dal punto vista storico – della storia come flusso di eventi – nessuno ha costruito a tavolino i concetti di impero romano,  feudalesimo,  mercato,  liberalismo, modernità, solo per fare alcuni esempi.

Prima, si è avuta la realizzazione dei fenomeni storici ricordati, poi la loro teorizzazione: realizzazione che è frutto –   mai dimenticarlo –  di meccanismi sociali selettivi che sono il  portato di una  mano invisibile, che condensa le scelte  di milioni e milioni di uomini, che, perseguendo individualmente i propri interessi, non sanno, nel preciso momento in cui agiscono, che cosa stiano realizzando collettivamente.

Per contro, un  classico esempio di costruttivismo, cioè di teoria che precede la realtà, e pretende di piegarla,  è rappresentato proprio dal comunismo.   E i tristi  risultati  sono ancora  sotto gli occhi di tutti. Come vedi non sei in buona compagnia…  Lo stesso concetto si può estendere al nazionalsocialismo e al  fascismo,  frutto di un comune humus teorico, se vuoi culturale, che si proponeva, sempre   a tavolino,  la costruzione di  forme alternative di postmodernità o antimodernità, ottenendo, in quest’ultimo caso,  il beneplacito, come per il  fascismo italiano, delle gerarchie cattoliche  più retrive ed estranee o nemiche della modernità.

Sicché  quando tu dici, appellandoti all’autorità di questo o quel dotto pensatore, potremmo fare questo, potremmo fare quello, ti comporti da perfetto costruttivista.  Vuoi cambiare una realtà  che non ti piace, costruendone un’altra a tavolino.  E mettendo dentro di essa,  quel che più ti aggrada o conforta la tua tesi.   Anch’io potrei fare la stessa cosa,  ma, a differenza di te, so, da sociologo,  che la mano invisibile,  che regola i fenomeni sociali, finisce sempre per vendicarsi degli ingegneri delle anime. Pertanto, in qualche misura, se mi perdoni l’inciso,  tra noi due,  l’individualista accanito sei tu, pur professando l’esatto contrario.
Certo   –  sarebbe inutile  negarlo –    anche l’unificazione europea è un fenomeno costruttivista, con una differenza  – direi, fondamentale –   rispetto al comunismo e alle altre  forme di costruttivismo totalitario.  Quale?  Non prevede l’uso della violenza, ma si appella al contratto.  Qui la sua forza e al tempo stesso la sua debolezza.  In questo senso, però,  siamo davanti, e per la prima volta nella storia, a una “formula politica”,  o per meglio dire a un esperimento politico e sociale, che si propone di unificare l’Europa in modo pacifico, dove altri invece  hanno fallito, usando la pura forza, se non la violenza  più atroce.

Cosa c’è di male in  tutto questo?

Ricambio l’abbraccio,

Carlo Gambescia

https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2018/11/una-replica-all-interessante-articolo.html?spref=fb&fbclid=IwAR2pXredeFLtvbnTzIO-Qx94OxMztLk_JqNA4DU8HRZXp-8PiBTwEHtK-E0

[1] https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2018/11/una-replica-all-interessante-articolo.html?spref=fb&fbclid=IwAR2pXredeFLtvbnTzIO-Qx94OxMztLk_JqNA4DU8HRZXp-8PiBTwEHtK-E0

[2] http://italiaeilmondo.com/2018/11/08/elezioni-europee-2019-quale-idea-deuropa-di-roberto-buffagni/#disqus_thread

[3] In: After virtue: a Study in Moral Theory (1981).

[4] http://www.treccani.it/enciclopedia/gaetano-mosca_%28Dizionario-Biografico%29/

[5] https://thetrueeurope.eu/uneuropa-in-cui-possiamo-credere/

 

[6] https://youtu.be/tuuUcIrd2AU

 

13 novembre 2018

Telegramma a Carlo Gambescia

Caro Carlo,

tu mi hai mandato due cartoline, io un’enciclica. Per pareggiare ti invio un telegramma:

SE LA UE E’ UN CONTRATTO E’ UN PESSIMO CONTRATTO, RIVEDERE STOP

ANTICA PERO’ QUESTA MODERNITA’ CHE VA RATIFICATA IN BLOCCO MI RICORDA IL SALTO DELLA FEDE STOP

INDIVIDUALISTA LO SONO ECCOME INFATTI SOPPORTO LE IMPOSIZIONI “PER IL MIO BENE” [SIC] SOLO SE AUTORIZZATE DA UN DIO IN CUI CREDO ANCHE IO STOP

Riabbraccio affettuoso, Tuo Roberto

Al quale rispondo con  un mio telegramma :

Telegramma a Roberto Buffagni 

CONCORDO SUL RIVEDERE CONTRATTO STOP
SENZA PISTOLE ALLA MANO STOP
TRATTASI DI ESPERIMENTO STOP
ASTENERSI FIDEISTI  STOP
Un abbraccio di cuore, Tuo Carlo

MACRON Micròn_1a parte, di Giuseppe Germinario

OSPITE A CASA PROPRIA

Giugno 2017, Salone Internazionale du Bourget! Emmanuel Macron, neoeletto Presidente della Repubblica scende dall’A400M, appena atterrato. Ad accoglierlo affabile il tedesco Thomas Enders, PDG (Drettore Generale) della società, già Consorzio Airbus: “Bienvenue Monsieur le Président (benvenuto Signor Presidente)”. Da Macron la gelida inattesa risposta: “ En France, personne ne me souhaite la bienvenue. Je suis chez moi (In Francia nessuno mi porge il benvenuto. Sono a casa mia).” In un attimo emerge alla luce del sole un conflitto sordo quanto drammatico, giocato tutto all’interno della direzione della società AIRBUS, senza che trapelasse alcunché di significativo all’esterno che non seguisse il solito canovaccio della lotta alla corruzione e della moralizzazione dei comportamenti imprenditoriali. Solo il settimanale “Marianne”, a partire dallo scorso agosto, ha osato pubblicare due allarmati dossier. Eppure son quasi dieci anni che una delle poche imprese strategiche europee, ad iniziale guida franco-tedesca, diretta concorrente del colosso aeronautico americano Boeing, sta subendo una progressiva mutazione. Con la nomina, di competenza tedesca e patrocinio di Angela Merkel, di Enders, personaggio dalle note simpatie iperatlantiste e dai dichiarati legami con gli ambienti americani della NATO, si susseguono una serie di atti e strategie univoci ed inequivocabili. Si opera per sganciare la società dalla influenza dei due maggiori azionisti, lo stato francese e quello tedesco, il primo dei quali tra l’altro generoso donatore delle fondamentali tecnologie di base aerospaziali ed elettroniche, in modo tale da consentire strategie di mercato aziendali “autonome”; si teorizza, per tanto, di puntare sul mercato del trasporto aereo più ricco, quello nordamericano; si sceglie di conseguenza di insediare un grande stabilimento negli Stati Uniti e di trasferire dalla Francia alla Silicon Valley californiana il centro ricerche; si attinge a piene mani dalla DARPA, l’agenzia statunitense incaricata della ricerca e del trasferimento ad uso civile della tecnologia militare americana; si compromette e paralizza l’intera rete commerciale e di mediazione di Airbus con un’opera, guarda un po’, di moralizzazione innescata inizialmente da alcuni giornali tedeschi e proseguita da campagne giudiziarie e mediatiche di ambienti angloamericani. Il paladino Enders, fatto pressoché unico e inaudito, arriva addirittura ad autodenunciarsi preventivamente, presso organi giudiziari americani ed inglesi, con contestuale consegna di una immensa mole di documenti e dati interni suscettibili di essere utilizzati a man bassa, più prima che poi, dal concorrente americano. Nelle more si assiste ad una sospetta transumanza di propri consulenti verso rinomati studi legali angloamericani. In pratica una sorta di lenta migrazione oltreatlantico. Si insinua in quegli ambienti per tanto il sospetto che si punti a far diventare Airbus una semplice costola della Boeing o di qualche altro gruppo americano lasciando ai cinesi, quindi, il ruolo di competitori minori nel settore, almeno per un ragionevole periodo di anni.

Un esito che nelle more porterebbe inesorabilmente l’industria aeronautica italiana verso una ulteriore marginalizzazione, vedendo di fatto ridimensionata la sponda americana.

Basterebbe molto meno per regolare seduta stante simil galantuomini; si attende invece la normale scadenza del mandato nel 2019 per puntare ad un avvicendamento.

Non si tratta per altro di una dinamica del tutto imprevedibile ed originale. Cito giusto un esempio significativo del recente passato.

Alla fine degli anni ’50, i canadesi furono vittima di qualcosa di simile. Con il sistema Arrow, un potentissimo motore a reazione incapsulato in un’adeguata struttura avionica e con l’organizzazione di una apposita compagnia aerea, il Canada sarebbe stato in grado di surclassare velocemente le compagnie aeree civili degli altri paesi e di alterare pericolosamente gli equilibri militari dell’epoca. La pronta azione politica della classe dirigente e dello stato profondo americani riuscirono in pochi mesi a far trasferire inopinatamente da quel paese tecnologie, produzioni, capitali e personale qualificato. Quelle tecnologie trovarono di fatto piena e matura applicazione, negli Stati Uniti, solo dalla seconda metà degli anni ’70, guarda caso all’indomani del pantano vietnamita.

Se dal punto di vista della novità tecnologica quell’esperienza fu molto più significativa, dal punto di vista economico, commerciale e dell’autonomia ed egemonia politica lo è di gran lunga maggiore quella attualmente in corso. Tanto più che il Gruppo Airbus ha da tempo iniziato a muovere i primi significativi passi anche nell’ambito della produzione militare.

L’epilogo della vicenda, ormai nemmeno più così lontano, contribuirà significativamente a collocare realisticamente le ambizioni politiche dei due principali paesi dell’Unione Europea e ad inquadrare, nella fattispecie, con maggior obbiettività e crudezza, il personaggio Macron.

Le critiche sulla sua “grandiloquence” (magniloquenza) non proprio corrispondente alle capacità e agli atti concreti prodotti cominciano già ad affiorare sulle bocche di personaggi sempre più autorevoli.

LE AMBIGUITA’ NEFASTE DELLA MERKEL E DEI SUOI EPIGONI

Presa a sé la vicenda Airbus può ancora essere considerata come una anomalia, sia pure grave, in un contesto di rafforzamento del sodalizio franco-tedesco; un sodalizio, quello specifico ricercato e tanto invocato con Angela Merkel, considerato un tassello, di più il pilastro essenziale sul quale fondare la politica estera ed interna francese.

Le recenti elezioni tedesche hanno intanto reso certamente più fragili le spalle ed innescato ormai il declino del personaggio incaricato di tessere le fila europeiste.

L’audacia insospettabile che aveva pervaso il leader tedesco all’indomani della vittoria di Trump è rapidamente rientrata assieme all’assordante silenzio calato nei suoi confronti, anche se le frequentazioni e le affinità elettive con Obama non sono certamente cessate.

Ci sono, tuttavia, altri indizi ed elementi sostanziali, in aggiunta all’affaire Airbus, a far sospettare un rapporto franco-tedesco in realtà molto più problematico e molto meno paritario ed un sodalizio tedesco-americano molto più solido delle apparenze ed altrettanto poco paritario. Eccone alcuni; i prossimi fuochi artificiali ne porteranno alla ribalta altri, ivi compreso il tentativo di recupero di rapporti privilegiati con la Gran Bretagna.

Intanto il clamoroso annuncio dell’acquisto tedesco di un centinaio di aerei militari F35 americani; come si possa conciliare tale scelta, economicamente, politicamente e militarmente così impegnativa con i propositi strombazzati di progettazione di futuri modelli di aereo militare europei pare un compito più di aruspici che di strateghi militari. In realtà, secondo le ultime smentite, la notizia è frutto della pesante pressione dei comandi dell’aeronautica militare tedesca, alquanto significativa, all’acquisto, ma ancora contrastata da parte dei vertici politici del Ministero

La politica di cooperazione europea di difesa (PESCO) viene annunciata come il proposito finalmente operativo di una strategia integrata ed autonoma di difesa militare europea che copra tutti gli ambiti sino ad arrivare alla creazione di un complesso militare-industriale europeo proprio. I diciassette progetti di cooperazione rafforzata coincidono in realtà clamorosamente con la costruzione dei Centri Operativi di Eccellenza (COE) così caldamente raccomandati dal Comando della NATO, più in particolare dai generali e strateghi americani più influenti. Di questi progetti, quattro, in particolare tre dei più importanti, saranno a guida tedesca con grave smacco alle ambizioni francesi: la gestione medica, la mobilità delle forze armate, il Centro Operativo di Risposta Rapida e la formazione il centro di elaborazione strategica. Una scelta strategicamente ancora più rilevante se si considera il peso militare dei due paesi ancora ampiamente favorevole ai francesi e il nesso sempre più evidente tra le esigenze di mobilità, ossessivamente caldeggiate dagli ambienti americani, delle unità militari e i programmi di infrastrutture civili (vie di comunicazione, logistica) sostenuti dall’Unione Europea in particolare lungo i corridoi definiti dalla NATO.

I propositi di cooperazione europea militare rafforzata, consentiti dai trattati europei, stanno spingendo la Germania ad integrarsi, in posizione di comando, con i paesi satelliti della propria area di influenza diretta e notoriamente nel contempo più filoatlantisti, piuttosto che con la Francia.

La stessa vicenda della deroga all’utilizzo in Europa degli erbicidi glifosati, osteggiata da Francia e Italia e avvallata dall’Unione Europea grazie all’inaspettato sostegno tedesco, concomitante tra l’altro con il processo di acquisizione della americana Monsanto da parte del Gruppo Bayer tedesco lascia intravedere la solidità di un  mercimonio che lascia pochissimo spazio alla praticabilità delle ambizioni di Macron.

Una direttrice già percorsa in questo articolo http://italiaeilmondo.com/2017/09/20/deutschland-uber-alles-di-giuseppe-germinario-versione-integrale/

Come si vedrà nella seconda parte dell’articolo, Macron corre seriamente il rischio di cadere in un primo tempo nella fanfaronesca prosopopea in cui era rapidamente scivolato, in un contesto per altro ben più favorevole legato all’interventismo di Obama, Sarkozy ed in un secondo nel grigiore opaco e dimesso di Holland. Per un esteta, quale si dichiara Macron, il rischio di scivolare dalla esaltazione della complessità al groviglio inestricabile della confusione è sempre più reale.

Si vedrà come anche gli altri fronti operativi aperti dal Presidente, in particolare quello della politica interna, della politica estera subsahariana e mediorientale e quello del rapporto con la potenza egemone almeno nell’area occidentale, gli Stati Uniti rischiano di farlo pendere verso questa china.

Sotto questa luce le analogie e le diversità con la situazione italiana assumeranno caratteristiche più nette.

Non è detto che dalla coscia di Giove nascano necessariamente dei invincibili. Lo Jupiteriano Macron servirà da esempio o da monito alle ambizioni dei futuri leader scalpitanti, pronti alla ribalta.