QUALCHE NOTA SULLE ELEZIONI, di Teodoro Klitsche de la Grange

QUALCHE NOTA SULLE ELEZIONI

Sull’esito elettorale più scontato, previsto e prevedibile della storia della Repubblica italiana (prima e seconda) occorre fare qualche considerazione, selezionandole tra le meno frequentate dai giornali di regime.

La prima è che, come capita da oltre 5 anni, la larga maggioranza dei votanti, si è orientata verso partiti anti-establishment. Dalle politiche del 2018 (ma in effetti dalle ultime amministrative ad esse precedenti) la somma dei voti conseguito da M5S, Lega, FDL e partitini popul-sovranisti è largamente superiore al 50%.

Da ultimo abbiamo avuto il 26% a FDI, il 16% al M5S, il 9% alla Lega, più circa il 4% ad Italexit, Italia sovrana e popolare, ecc. ecc., cioè sommando il 55%. Che è, decimale più o meno, quanto conseguivano gli stessi sia alle politiche 2018 che alle europee 2019. Una robusta maggioranza anti-establishment che ha acquisito stabilità. Si potrebbe replicare che è una maggioranza frazionata in più soggetti politici e quindi priva di compattezza.

Sicuramente in tale obiezione c’è del vero, ma a patto di considerare anche come da un lato, lo scambio dei voti tra partiti è stato soprattutto all’interno dello “schieramento”: per cui i voti persi dal M5S alle politiche 2018 sono passati (circa la metà) alle europee 2019, a favore quasi totale della Lega e FDI, del pari tali voti sono transitati alle politiche 2022 dalla Lega a FDI. A parte comunque qualche decimale restituito, alla differente distribuzione tra i partiti corrisponde una scarsa permeabilità tra gli schieramenti (filo establishment/anti-establishment). Di voti ritornati dal M5S al PD o dalla Lega a FI ce ne sono stati, dai risultati, assai pochi, una frazione minima di quelli transitati all’ “interno”. Ad essere esaurienti anche lo schieramento filo-establishment ha avuto un andamento analogo: lo scambio è quasi tutto avvenuto al proprio interno, peraltro per cifre percentuali meno imponenti che in quello maggioritario.

Qualche anno fa mi capitò di scrivere come la situazione ricordava la tesi di Gramsci del “blocco storico” che il pensatore sardo vedeva realizzato dalla convergenza (rivoluzionaria) di operai del nord e contadini del sud, ripetuta oggi, nel XXI secolo, dall’alleanza tra ceti medi (prevalentemente rappresentati dalla Lega) e strati popolari (M5S), tutti consapevoli che la deriva economica infausta della seconda Repubblica li stava impoverendo (in economia) ed emarginando (in politica). Da cui la necessità di pensionare/privatizzare la vecchia classe dirigente (il momento del “vaffa”), connotata (negativamente) dall’idoneità, confermata in circa 20 anni, di tenere l’Italia ferma al più modesto (sotto)sviluppo d’Europa, di cui lo stivale è l’ultima ruota (dopo esserne stata per tanti anni – precedenti la “seconda Repubblica” – uno dei motori).

Il nuovo blocco, imputabile principalmente a detto tasso di (sotto)sviluppo si è realizzato in molti anni, ma con una particolare accelerazione a partire dal governo Monti. Questo, facendo peraltro aumentare assai il rapporto debito pubblico/PIL prese alcune misure particolarmente significative per l’ascesa delle forze anti-estabishment: l’IMU, la Legge Fornero, il blocco della rivalutazione delle pensioni “alte”. Malgrado i sacrifici imposti a contribuenti e lavoratori, ottenendo risultati negativi. Il tutto tra gli osanna dei media mainstream.

Dopo un insuccesso di tale portata, partite IVA, pensionati prorogati, pensionati d’oro e d’argento (v. stampa mainstream) ecc. ecc. capirono che l’interesse che li univa era quello di liberarsi di una classe dirigente rapace ed incapace, e che tutto il resto, in particolare gli interessi in conflitto tra loro era – ed è – secondario.

E che quindi il nemico (interno) era lo stesso. Si sa da millenni il nemico è un elemento unificante di ogni soggetto (o coalizione) politica. Di fronte alla sfida da esso rappresentata cessano i conflitti (v. Eschilo) o meglio si relativizzano, e si incrementa coesione e consistenza del soggetto (o della coalizione) che gli si contrappone. È il nemico il sicuro cemento anche delle alleanze, perfino le più eterogenee (v. il capitalismo anglosassone e il comunismo sovietico nella II guerra mondiale), come delle coalizioni interne (v. i governi di salute pubblica in guerra, come quello di Churchill-Atlee). Inoltre l’elettorato di schieramento privilegia tra i partiti anti-establishment quello che appare come il più contrapposto alle élite: nel 2018 il M5S, da sempre all’opposizione, nel 2019 la Lega di Salvini anti-migranti ed anti-Fornero, nel 2022 FdI unico partito d’opposizione al governo Draghi, filo-europeo e filo-atlantico. Il sentimento politico funziona anche all’interno dello schieramento. Onde il “blocco” nato nel secondo decennio di questo secolo è poco scalfibile. Almeno a livello di base.

Per cui anche la piroetta fatta col governo Conte-bis (l’alleanza col partito simbolo dell’establishment, cioè il PD) accentuava il ridimensionamento del M5S, ma non faceva perdere un voto al “blocco”. E soprattutto – e logicamente – non ne faceva guadagnare al PD. Anzi la caduta del governo Draghi da una parte, e la difesa del reddito di cittadinanza – contrastato da gran parte degli altri partiti – dall’altra rianimavano il M5S il quale recuperava all’ultimo momento gran parte dei voti persi tra il 2019 e il 2022. A conferma della forza attrattiva della collocazione anti-establishment (o meglio anti-sistema), capace di far recuperare anche incoerenze, trasformismi (e diffidenze).

Resta da vedere in che modo il M5S riuscirà a gestire l’evitato disastro. Populizzando la sinistra, dato che il PD, tallonato nelle percentuali dai grillini, è in serie difficolta? O spingendo sulla crisi e diventando il Melenchon italiano? O facendosi egemonizzare dal PD (e satelliti) e probabilmente candidarsi all’estinzione per anoressia elettorale?

La seconda, peraltro, non silenziata dai media di regime, è la bassa affluenza alle urne. Ma ad essere silenziato non è tanto il fatto (incontestabile) ma la di esso interpretazione più probabile.

Aspettiamoci anzi che venga utilizzato per delegittimare il governo futuro, sostenendo che, avendo il centrodestra il consenso di circa il 30% degli elettori, non sia rappresentativo della maggioranza del “paese reale”. A cui è facile rispondere che è sempre meglio ottenere il consenso di una grossa minoranza del corpo elettorale, che quello dei “poteri forti”, di natura non elettivi ed espressione di assai ristrette minoranze.

Ma non è questo il dato essenziale: l’astensionismo diffuso un tempo – quaranta o cinquant’anni fa, era giustificato con l’omogeneità delle società che ne erano affette, soprattutto gli USA (all’epoca votavano, alle presidenziali, circa il 60% degli aventi diritto al voto); non c’erano tra repubblicani e democratici, “scelta di civiltà” sulla quale decidere e/o contrapposizioni di sistema come percepito in Italia.

Nel caso dell’Italia di oggi tuttavia la spiegazione più probabile di tale disaffezione al voto è un un’altra – e peggiore per la salute delle istituzioni -: è che è aumentato lo iato tra volontà espressa dagli elettori, e concrete decisioni conseguenti alle elezioni. Interventi per la composizione del governo a carico di candidati ministri scomodi, governanti mai eletti neanche in un consiglio scolastico, partiti che cambiano schieramento, parlamentari che migrano da un partito all’altro, pressioni da governanti e/o istituzioni straniere hanno aumentato a dismisura il fossato tra volontà popolare e azione di governo. Per cui andare a votare appare un inutile perdita di tempo e una presa in giro. Ma è certo che ogni regime politico si fonda sul consenso (dal basso all’alto) e sul potere (dall’alto al basso): se manca il primo il sistema è zoppo; può durare per tempo limitato, per poi entrare in crisi e sfociare a prezzo di un grosso scossone (dalla rivoluzione in giù) in un governo legittimo (opposto se non diverso). Va da se che gli astensionisti di tale tipo sono non degli indifferenti, ma dei disperati. Sono la disperazione 2.0; ma in quanto tali più propensi a cambiare il sistema che a conservarlo. Sicuramente questo a quota (crescente) di disperati non esaurisce né occupa l’intero serbatoio dell’astensione elettorale, ma una buona parte.

C’è da chiedersi peraltro il senso che avrebbe una manifestazione di indifferenza nel momento in cui tutta la stampa (di regime o meno) e tutti i politici sottolineano che siamo nella peggiore crisi dal dopoguerra; e ciò corrisponde alla percezione della maggioranza degli italiani. Essere indifferenti in una situazione del genere è pericoloso per sé e per gli altri.

In terzo luogo uno degli effetti della crisi è – in genere – l’intensificarsi del sentimento politico, cioè della contrapposizione amico-nemico, nonché della violenza interna ed esterna alla comunità.

Clausewitz riteneva il sentimento politico uno dei componenti la triade della guerra; Girard faceva notare che la violenza si accompagna ad ogni crisi come mezzo (reale od immaginario) di soluzione. Anche le epidemie che provocarono esecuzioni pogrom, disordini, linciaggi (a farne le spese, durante la peste nera, soprattutto gli ebrei). Non è facile che oggigiorno si ripetano scenari di violenza collettiva; ma l’innalzarsi della temperatura del sentimento politico è visibile proprio dal carattere coeso, durevole e (poco) permeabile del blocco maggioritario.

La coesione del gruppo sociale in lotta è proprio uno degli effetti della contrapposizione ad un nemico. Onde è il maggiore sintomo del rafforzamento della medesima.

Da ciò deriva che tale coesione può essere mantenuta a patto di non trascurare il presupposto: ossia l’identificazione del nemico che, al fine di non cadere nell’accusa di guerrafondaio, sarebbe meglio definire colui che è animato da un’intenzione ostile e che è riconosciuto come tale. Verso il quale non è necessario muovere guerra, ma prendere atto dei contrapposti interessi. Trattare anche, perché anche l’inimicizia è una relazione sociale e proprio quella con il nemico – compresi gli accordi – ha un’importanza decisiva. Tutt’è non illudersi e non illudere. Perché la prima via porta alla sconfitta, la seconda alla disgregazione (tra vertice e base).

Compito difficile ma non impossibile, che è il segno distintivo degli statisti; merce assai rara negli ultimi trent’anni.

Teodoro Klitsche de la Grange

COME, ATTRAVERSO LA SUA PRESENZA IN LIBIA, LA TURCHIA RICATTA L’UE, di Bernard Lugan

Il conflitto ucraino e la politica sanzionatoria imposta dagli Stati Uniti alla Russia hanno accresciuto enormemente l’importanza e la competizione dei paesi, in particolare quelli europei e in primis l’Italia, nell’area sud-orientale del Mediterraneo. Una regione già di per sé altamente instabile. Ad un accresciuto interesse, corrisponde però un drammatico ridimensionamento del peso geopolitico di Francia, Spagna, Grecia e Italia e l’intenzione della attuale leadership statunitense di accontentare e ricondurre in qualche modo le ambizioni turche e di fare dell’Ucraina e di alcuni paesi dell’Europa Orientale i veri pivot, anche energetici, in grado di controllare e condizionare pesantemente eventuali ambizioni autonome della Germania e della Francia. L’Italia è come non data, irrilevante. La Nuland, potente e famigerata sottosegretaria agli esteri americana, ha infatti più volte affermato che si deve semplicemente arrangiare. L’ennesimo scorno per chi, come l’ENI, è stata protagonista delle ricerche di giacimenti in quell’area. Ma forse anche persino l’ENI volge uno sguardo sempre più distratto verso il nostro paese. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Certamente non rimprovereremo al Presidente Erdogan di aver difeso gli interessi nazionali del suo Paese, ma gli ectoplasmi dell’UE per essersi piegati alla sua politica.

Per l’UE l’unica seria alternativa al gas russo è quella offerta dal gigantesco giacimento situato nelle acque territoriali di Egitto, Gaza, Israele, Libano, Siria e Cipro (vedi mappa a pagina 9). Riserve di 50 trilioni di m3, o ¼ dei 200 trilioni di m3 stimati di riserve mondiali, più riserve di petrolio stimate in 1,7 miliardi di barili. Tuttavia, è attraverso il gasdotto EastMed che devono avvenire le future esportazioni verso l’Italia e l’intera Ue. Ma, dal 1974, la Turchia, che occupa militarmente e illegalmente la parte settentrionale dell’isola di Cipro, afferma di fatto di avere dei “diritti” territoriali su questo giacimento di gas. Per essere riconosciuta, Ankara blocca il progetto EastMed ricattando l’UE. Per “facilitare” la “riflessione” degli europei, la Turchia ha preso un solido impegno in Libia. Torna indietro. Il 7 novembre 2019, messo alle strette militarmente a Tripoli dalle forze del maresciallo Haftar, il governo di unità nazionale (GUN) guidato da Fayez el-Sarraj, ha chiesto alla Turchia di intervenire per salvarla. Il presidente Erdogan ha accettato in cambio della firma di un accordo marittimo che gli permettesse di ampliare l’area della sua area di sovranità, tagliando la zona economica marittima esclusiva (ZEE) della Grecia situata tra Creta e Cipro, proprio dove deve passare il futuro gasdotto EastMed. Questo accordo, che quindi traccia artificialmente e illegalmente un confine marittimo turco-libico nel mezzo del Mediterraneo, consente alla Turchia di tagliare l’asse del gasdotto EastMed da Cipro poiché quest’ultimo passerà attraverso acque divenute unilateralmente turche. Il presidente Erdogan sa benissimo che questo accordo viola la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS), ma la Turchia, il cui obiettivo è l’ampliamento del proprio spazio marittimo, non l’ha firmato, quindi ha potuto affermare che qualsiasi futuro gasdotto o gasdotto richiederà ora un accordo turco. Il 17 dicembre 2019 l’Egitto ha reagito all’accordo turco-pistola con la voce del maresciallo Sisi che ha dichiarato che la crisi libica era una questione di “sicurezza nazionale egiziana”. Essendo economicamente in una situazione disastrosa, l’Egitto, che conta sull’inizio della costruzione del gasdotto verso l’Europa, non può infatti tollerare che questo progetto, per esso vitale, venga messo in discussione dall’annessione marittima della Turchia. Quanto agli europei, a parte le loro solite affermazioni relative al crawling semantico, le loro proteste erano solo circostanziali. C’è da dire che all’epoca il gas russo si stava riversando nell’UE e che lì sarebbe stato versato ancora di più grazie ai gasdotti del Nord Europa… Ma, da allora, in Ucraina è scoppiata la guerra e, dato la “crociata democratica” decisa contro Mosca e le sanzioni contro la Russia, è facile capire che l’Ue ora farà di tutto per accelerare la messa in servizio del gasdotto EastMed, e questo, a costo della capitolazione alle richieste turche. La guerra in Ucraina ha infatti “aperto il gioco”, consentendo alla Turchia di scommettere su tutti i fronti contemporaneamente: – Mantiene buoni rapporti con la Russia, che le fornisce il 60% del proprio fabbisogno di gas e alla quale è legata da un partnership instaurata attraverso il gasdotto Turkstream che, attraverso il Mar Nero, aggira l’Ucraina. Pur sapendo che geopoliticamente, un giorno o l’altro scoppierà una grave crisi tra i due paesi del Mar Nero…

– Sa che, presi per la gola dalle proprie sanzioni, gli europei faranno di tutto per mettere in servizio il gasdotto EastMed. Ma, per questo, la Turchia dovrà avere la sua “quota” nello sfruttamento del giacimento del Mediterraneo orientale. Ciò avverrà a costo del riconoscimento, in forma diretta o indiretta, dell’annessione della parte settentrionale di Cipro da parte della Turchia? Ciò sarebbe singolare in un momento in cui una vera guerra è stata lanciata contro una Russia che cerca di recuperare il Donbass, la vecchia terra russa staccata artificialmente dalla madrepatria dai bolscevichi per indebolire il peso nazionale russo all’interno dell’URSS (Unione dei Soviet Repubbliche Socialiste)… In una UE senza memoria e senza spina dorsale, tutto è davvero possibile…

http://www.bernard-lugan.com

L’immigrazione, l’economia e le elezioni italiane, di George Friedman

L’Italia ha eletto un partito di estrema destra alle elezioni parlamentari tenutesi nel fine settimana. Il risultato indica che gli italiani sono scontenti della realtà del Paese. L’Italia è la terza economia dell’Unione Europea, dopo Germania e Francia, e le sue realtà economiche e sociali sono molto diverse dagli altri paesi di punta del Continente, nel senso che la sua economia è meno produttiva e genera più debito. Gli italiani credono, con qualche ragione, che la Banca Centrale Europea stia portando avanti politiche monetarie a vantaggio della Germania, che vuole mantenere il valore dell’euro come creditore netto. L’Italia privilegia una politica molto diversa di denaro a buon mercato, una preferenza ragionevole considerando che è un debitore netto. Un’unica banca europea non può servire entrambi gli interessi, né dividere prontamente la differenza. Ma date le dimensioni della Germania,

La logica impone che l’Italia eleggerebbe un governo di dura opposizione che vede la BCE come una minaccia alla prosperità italiana. È nostra opinione da tempo che la tensione tra Italia e Germania sulla politica monetaria rappresenterebbe la più grande minaccia, forse letale, per l’Unione Europea. Visto il prossimo inverno, i politici europei proteggeranno gli interessi dei propri elettori, e quindi seguiranno politiche divergenti. La BCE non sarà in grado di armonizzare le economie europee e, se l’embargo russo persiste, la competizione tra le nazioni sarà intensa. L’UE è stata creata per garantire pace e prosperità, come proclama il suo motto. La pace vacilla e la prosperità sta svanendo. Le elezioni italiane segnano una crisi.

Nel frattempo, c’era un altro problema che incombeva sulle elezioni: l’immigrazione clandestina. Questo problema è stato affrontato dall’Europa dal 2015, quando un numero enorme di migranti musulmani è arrivato nel continente. All’epoca, l’immigrazione relativamente aperta era la politica dell’UE, ma l’opposizione era sostanziale. I fautori della politica ritenevano che gli Stati membri avessero l’obbligo morale di ammettere i migranti. Ma gli oppositori sostenevano che ci si aspettava che gli Stati membri facessero entrare troppi migranti e che il blocco ei suoi sostenitori, in particolare quelli dei paesi ricchi, si stessero pavoneggiando per la loro superiorità morale senza pagare il conto.

Per capire questi temi, inserirei la mia esperienza di giovane immigrato negli Stati Uniti, cosa che ho già fatto. Sono un immigrato e di certo non mi oppongo all’immigrazione. Allo stesso tempo, capisco lo stress che gli immigrati mettono sul sistema e la paura per l’immigrazione. Quella paura non può essere liquidata come semplice razzismo. Il costo dell’immigrazione è a carico di gruppi che trovano l’onere difficile da trasportare. Tuttavia, il problema non è solo finanziario. Quando gli immigrati arrivano in un paese, non vivono tra i ricchi. Invece, sono incanalati a vivere tra i più poveri della società, dove un appartamento potrebbe essere a malapena accessibile.

Gli immigrati sono anche stranieri e spesso non capiscono il paese ospitante. I genitori spesso vanno a fare lavori umili e i loro figli sono lasciati a se stessi. Mancando la supervisione dei genitori, gli immigrati dallo stesso paese si stringono insieme e scoppiano le guerre – tra ebrei e portoricani, irlandesi e neri, italiani e dominicani, per fornire un campione dei gruppi etnici con cui sono cresciuto. Sono stati commessi crimini e i residenti sono stati rapinati e derubati nei loro appartamenti.

Il punto è che l’immigrazione è un’esperienza brutale per i giovani e un’influenza ancora più orribile sui residenti che vi si erano stabiliti anni prima. Era particolarmente un incubo per gli anziani. Chiunque potesse fuggire. Chi non poteva restare in casa. Questa è stata l’esperienza degli immigrati, ed è stata anche l’esperienza della classe operaia e dei pensionati. Non è stata davvero colpa di nessuno, a parte coloro che hanno sostenuto la politica senza capire cosa significasse l’immigrazione su larga scala e non hanno tentato di mitigare la crisi che ha causato.

Ho notato uno schema a New York che vedo in Europa e altrove. I più appassionati difensori dell’immigrazione non vivono nei quartieri in cui si stabiliscono gli immigrati, né hanno la minima idea di cosa comporterà la collisione delle culture o di cosa faranno gli adolescenti senza sorveglianza. Se niente di tutto questo accade nei loro quartieri, non è che siano indifferenti al caos; è che semplicemente non riescono a capirlo.

L’aumento dell’ostilità nei confronti degli immigrati in Europa aumenterà quando gli immigrati saranno inviati nei quartieri più poveri dei paesi più poveri. Non mi scambi per un oppositore dell’immigrazione. Sono qui in America come un immigrato. Ma sono anche consapevole che non esiste un memoriale che contenga i nomi di coloro che lo hanno pagato.

Il problema dell’immigrazione esiste in tutti i paesi. Ma in Europa è più divisivo. L’America è una nazione di immigrati e tutti noi abbiamo un antenato che è venuto qui o è stato portato qui, ad eccezione dei nativi americani, che sono stati quelli che hanno pagato per la prima ondata. Ma capisco la posizione italiana sull’immigrazione, che si può riassumere così: “Lasciateli andare tutti in Germania”. Ed è qui che la questione economica e quella dell’immigrazione si incontrano, creando un nuovo potente problema alimentato dal disprezzo rivolto a chi si oppone all’immigrazione delle classi morali superiori. L’UE sarà lacerata da questi problemi, così come altri paesi.

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IL DOPO – ELEZIONI: TRAMONTO DELLA SINISTRA PACIFISTA E COMPARSA DELLA DESTRA D’ESTABLISHMENT. GLI SCENARI INTERNAZIONALI, di Marco Giuliani

IL DOPO – ELEZIONI: TRAMONTO DELLA SINISTRA PACIFISTA E COMPARSA DELLA DESTRA D’ESTABLISHMENT. GLI SCENARI INTERNAZIONALI

La futura maggioranza sarà costituita da una destra ormai annidata nelle stanze dei poteri forti

Che il segretario uscente di ciò che qualcuno, sino a poche ore fa, osava ancora definire “centrosinistra”, avrebbe annichilito quel residuo di aspirazioni legate a una maggiore giustizia sociale, al valore del pacifismo (almeno d’estrazione cattolica) e alla tutela del mondo del lavoro, era cosa ampiamente prevista. Potremmo dire banalmente scontata. Si aprono tuttavia scenari che saranno caratterizzati principalmente da alcune variabili indipendenti e pressoché inedite del panorama parlamentare italiano: l’uscita di scena dei movimenti della sinistra pacifista (e anche un po’ classista) legata ai tradizionali canoni trasmessi dal sessantotto e l’insinuazione di una destra, se ancora si può definire destra, ormai da tempo annidata nei meandri dell’euroatlantismo filostatunitense e negli alti apparati di potere istituzionali e politici.

Chi, tra gli elettori della nuova maggioranza (che stavolta non si sono astenuti) spera in un cambiamento, c’è la seria possibilità che resti fortemente deluso; il prossimo venturo esecutivo, infatti, ha già imposto alcuni paletti a chi vorrà starci: prosecuzione dell’appoggio a Kiev in armi e miliardi e applicazione dell’agenda Draghi, almeno riguardo ai conti pubblici e alle relationship internazionali con UE e Nato. In relazione a questi presupposti, ci sarà da capire quanto il populismo della Lega sopporterà le imposizioni di Bruxelles e i diktat di Biden, che tra sanzioni e spese militari stanno rendendo la vita difficile a decine di milioni di cittadini del vecchio continente. Ma tant’è. Il rigenerato centrodestra a trazione meloniana è da tempo ancorato su posizioni conservatrici e non estremiste, linea favorita certamente dall’appiattimento dei programmi e delle scadenti iniziative del panorama politico italiano, ormai tecnocratizzato e concentrato sulle leggi di bilancio più che sulle preoccupazioni e sugli interessi dei cittadini.

La prima seduta delle due nuove camere è fissata per il 13 ottobre, e sarà condizionata, oltre che dal cosiddetto toto-ministri, anche dalla richiesta del Capo dello Stato di apporre immediatamente una forte stabilità (per poter continuare ad assecondare Casa Bianca e Von der Leyen?), della quale, in un momento di crisi internazionale così drammatico, si deve far garante. Già, perché la crisi legata al conflitto russo-ucraino continua a provocare strascichi sempre più gravi; la manomissione del Nord Stream e le annessioni dei territori del Donbass, legittimate o meno dai referendum, infatti, non hanno fatto altro che indispettire ulteriormente i falchi euroatlantici, decisi ad applicare nuove sanzioni e fornire nuove armi a Zelensky. Va ricordato altresì che i prossimi aumenti dei costi energetici non peseranno affatto sugli Usa o sui vari Borrell, Von der Leyen e Sholtz, ma solo sui cittadini comuni di un’Europa sempre più subalterna alla politica militarista di Washington. Quanto è giusto far pagare le sanzioni al popolo europeo? Perché mai le privazioni determinate dall’embargo a Mosca dovrebbero tramutarsi in bollette? Speriamo che l’esecutivo appena uscito dalle urne non ci parli di nuovi scostamenti di bilancio, perché altrimenti vorrebbe dire che le future generazioni cresceranno con enormi debiti sulle spalle vita natural durante.

Nel frattempo, lo slogan si vis pacem para bellum, risalente alla Roma antica e in particolare allo scrittore Vegezio, comincia a scricchiolare. Oltre ai mal di stomaco di Orban e del serbo Vucic, anche i tedeschi si sono scossi: con 476 no, il Bundestag ha respinto la risoluzione 20/2347 che prevedeva la spedizione di altre armi pesanti agli ucraini. Ciò significa che raccoglie sempre meno consensi il prolungamento di un conflitto che sta indebolendo solo l’Europa e che potrà allentarsi solo con una trattativa ed eventuali,  reciproche concessioni.

MG

 

 

 

 

BIBLIOGRAFIA & SITOGRAFIA

 

Crimea: quel referendum è illegittimo, articolo del 7 aprile 2014 a cura della redazione di www.ispionline.it

Televideo Rai del 26/09/2022, pp. 120-180 –

https://www.bundestag.de/dokumente/textarchiv/2022/kw39-de-entschlantrag-reg-erklaerung-912538, link della pagina ufficiale del parlamento federale tedesco, consultata il 29 settembre 2022 –

www.notiziegeopolitiche.net, pagina del 27 settembre 2022 consultata il 29 settembre 2022 –www.theitaliantimes.it, pagina del 28 settembre 2022 consultata il 28 settembre 2022 –

 

SOCIOLOGIA DEL VOTO_di Pierluigi Fagan

SOCIOLOGIA DEL VOTO. Faremo una breve considerazione a grana grossa su dati quasi completi della Camera per il proporzionale.
Tra coloro che hanno votato, si stagliano due gruppi. Quello che si nomina ed è di fatto il CDX somma, al momento, circa 11 milioni di voti. L’altro gruppo non ha nome e non è tale neanche di fatto, ma ha certi suoi gradi di omogeneità pur molto relativa. Parliamo qui in termini di sociologia politica, classificazione per condivisioni di impostazioni politiche ideali molto a gran grossa, nulla con cui poi si fanno governi o leggi specifiche semmai frutto di mediazioni e compromessi. Composto dal CSX propriamente detto ed il M5S, peserebbe sempre 11 milioni di voti, qualche centinaia di migliaia di voti meno dell’altro. Di questo secondo gruppo non fa parte Azione-Italia Viva.
Merito del meccanismo che trasforma questo relativo equilibrio dei due gruppi socio-politici in una disfatta epocale, visto da una parte – dall’altra è un trionfo epocale, è di un certo Rosato, oggi proprio in Italia Viva, un ragioniere democristiano ai tempi parte del PD. Ma poiché la lungimiranza della classe dirigente del PD è esuberante, oltre ad aver creato un meccanismo elettorale assurdo e non aver mai neanche provato a cambiarlo sebbene più o meno tutti lo ritengono assurdo dal 2017, hanno anche deciso che per fedeltà ad un totem detto “Agenda Draghi” non si doveva neanche provare a fare un accordo tattico col M5S. Meglio per quest’ultimo, che recupera parecchio dai sondaggi estivi.
Quanto al PD propriamente detto, siamo ad un milione di voti in meno rispetto al 2018 per una percentuale appena superiore del +0,5% per via della più generale contrazione dei votanti. Un milione di voti persi, quasi un -18% e stante che questo partito, nel 2018, era guidato da uno sbiadito funzionario, tale Maurizio Martina oggi alla FAO.
Tuttavia, l’Italia si uniforma agli standard europei, festeggiando la sua prima premier donna e medie di voto basse, su standard post-democratico, due fatti tipicamente europei.
[La foto è un tributo all’intrepido ragioniere al cui nome è legato il fatidico meccanismo che ha trasformato un composito e variegato quadro politico in un monocolore di destra]
[Attenzione alle pesature di sociologia politica. Al di là degli esiti elettorali partitici, al di là del diritto a governare garantito dal voto, in politica i voti si contano ma si debbono anche pesare]
SOCIOLOGIA DEL VOTO (2). Ieri abbiamo evidenziato come i due blocchi socio-politici principali, quello che ha vinto e quello che non è neanche riuscito a presentarsi come un blocco dividendosi in due parti, (qui non uso CDX e CSX perché queste sono categorie solo politiche mentre qui l’analisi è “socio”-politica), in realtà divergono per poco. Il loro insieme fatto cento, infatti, vede quello che ha vinto al 52% e quello che ha perso al 48% (l’ipotetica alleanza elettorale CSX+5S), questa è la loro pesatura sociale relativa.
Alcuni commenti sul post di ieri, evidenziavano le varie ragioni che portarono il partito principale dell’area che non formandosi in blocco poi ha perso più del reale peso (PD-CSX), a fare questa dissennata legge elettorale. Legge che ha trasformato un dato molto relativo in assoluto. In aggiunta, la decisione di Letta ad escludere a priori ogni possibile alleanza con i 5S, decisione incomprensibile stante la meccanica elettorale. Le rapide dimissioni annunciate ieri da Letta fanno pensare che tale esito era per certi versi “programmato”, per quali ragioni può esser oggetto di speculazione. Ma ci sarebbe anche da domandarsi perché in questi cinque anni, quel partito non ha sentito necessità almeno di provare a cambiarla.
Credo la risposta risieda nella genetica del PD, un progetto bipolare su format di cultura politica anglosassone (Lab-Con UK/ Rep-Dem US), quasi che imponendo una legge elettorale maggioritaria, allora si sarebbero formati partiti e cultura politica bipolare conseguente, una assurdità. Ne è venuto fuori un accrocco con una minoranza ex-democristiana che però spadroneggia su un totale maggiore della somma delle parti, con fazioni lib-lab confusamente “post-moderne/progressiste”, altri rimasugli più un corpo in teoria, almeno potenzialmente, “socialdemocratico” in senso europeo (PSE-SPD). Parliamo non della sua classe politica di partito, di nuovo, parliamo degli elettori, dei pezzi di società. Chi non ha amici e conoscenze di persone per bene, intrinsecamente quasi-socialdemocratiche per idee e valori, che si ostinano in mancanza di meglio a votare questo accrocco che fatalmente li delude?
Dato l’evidente fallimento di impiantare una cultura politica maggioritaria in un Paese che, come la Spagna, la Francia, la Germania ovvero la tradizione europea, è intrinsecamente pluripartitico, forse arriverà il giorno in cui questo accrocco si potrà sciogliere rilasciando le sue due anime principali a due percorsi di identità propria. Queste due aree avranno poi agio di collaborare ed allearsi, ma partendo da due soggetti pesati che chiariscano il loro reale peso di rappresentanza, determinando quindi i pesi dell’agenda politica concordata -dopo- una elezione e non prima dentro lo stesso partito che tale non è vista la diversità componente obbligata a convergere su dinamiche assai poco chiare in senso democratico. Detto altrimenti, la fazione ex-democristiana non volendo tornare all’insignificanza della Margherita, vuole a tutti i costi tenere unite le parti componenti l’accrocco che non è mai stato, né mai potrà essere “un” partito. A loro conviene.
Passiamo poi ad evidenziare come il soggetto +Europa abbia fallito il quorum per 50.000 voti. Unitamente alla punizione delle principali forze di sostegno al governo Draghi (PD, FI, Lega, Di Maio etc.), si evidenzia palesemente come il dibattito politico pubblico sia artificiosamente centrato su temi ed argomenti (ad esempio il dogma sfiorante il culto di Mario Draghi) che non hanno alcuna presa sul Paese reale. Ha stra-vinto l’unica forza politica che non ha partecipato al governo del banchiere ed ha vinto relativamente (ovvero ha perso rispetto al 2018 ma rimbalzando all’ultimo momento delle più fosche previsioni) la forza che alla fine se ne è in parte dissociata tra scrosci di pubblico sdegno.
In Italia c’è un problema grave di scollamento tra élite pubblica (imprenditori, affaristi, giornalisti, intellettuali organici alle classi di potere e conseguente classe politica da questi supportata) e popolazione, è del tutto evidente. Era evidente nel 2018, continua ad esserlo. La “democrazia”, ammesso e non concesso quella solo rappresentativa possa definirsi tale, è un sistema complesso. Si può nominalmente far finta sia tale rincuorandoci dell’esser dalla parte giusta della storia politica, salvo poi manipolarla di modo che sia, com’è nei fatti, una oligarchia che si sottopone a giudizio molto poco libero una volta ogni cinque anni. E’ questo blocco dall’alto che genera come unico sfogo il c.d. “populismo”.
E veniamo ai bassifondi elettorali. Qui abbiamo una forza politica centrata su un giornalista televisivo (Paragone), senza reale consistenza politica in senso tradizionale che ottiene 540.000 voti, agitando il tema dell’uscita dell’Italia dall’euro o forse anche dall’Europa. Fa già ridere così. Nel senso di presumere il poter fare una forza politica su un singolo tema così delicato senza essere in Inghilterra (modello Farage), di nuovo presupponendo che nel mondo politico ci siano “modelli” non dipendenti dalle condizioni di contesto cui applicarli, una sorta di teoria della fisica politica trasferita alle società, alla geo-storia, alla cultura. Va be’, diciamo che il tipo che ha del furbacchione, stando già in Parlamento, ci ha “provato” a rimanere nel bel mondo, rimarchevole comunque che mezzo milione di persone gli abbiamo pure dato retta.
Quanto a Italia Sovrana e Popolare, siamo a 300.000 voti, tenuto conto che 100.000 circa sono del PC di Rizzo (2018). La c.d. area sovranista politicamente più seria del “fenomeno Paragone”, “pesa” 200.000 voti. Sul totale aventi diritto, Italia ed Estero, sarebbero lo 0,4%. Ripeto, qui facciamo pesatura all’ingrosso dei blocchi sociopolitici, quindi non consideriamo il poco tempo avuto da queste formazioni (sì perché l’area è piccola, ma ciononostante si divide in fazioni) per la campagna elettorale e gli scarsi mezzi. Anche se uno si potrebbe domandare perché con poco tempo a disposizione e scarsi mezzi, cose note a priori, qualcuno abbia sentito l’esigenza di mettere in piedi una macchina elettorale dedicata.
Qui si possono fare due considerazioni che poi è una sola. Questa legge elettorale, ma è cosa che penso rimarrà anche quando decideranno di adeguarla ad un modo normalmente proporzionale, pone lo scalino del 3% che sugli attuali votanti vale qualcosa come circa 850.000 voti. Se fossero stati quelli del 2018, lo scalino sarebbe valso 1,1 milioni di voti. Sempre poi che in una nuova legge proporzionale non decideranno, com’è probabile, di portarlo al 5%. Chi tenta la scalata elettorale deve porsi questo target. Il target dovrebbe retroagire sul pensiero ed il fare politico. Ho l’impressione che gli amici di ISP non avessero una auto-percezione realistica della propria consistenza. Ho l’impressione che questa area che ha presenza più nel virtuale che nel reale, scambi i numeri di Internet con quelli del mondo “grande e terribile”. Il che per un’area critica verso il neoliberalismo con distopiche derive da capitalismo della sorveglianza ha del paradossale. Speriamo il risultato concreto porti riflessione concreta e non collezione di scuse per continuare a pensare ed agire come s’è fatto fino ad ora. Popolo vs élite? Non c’è più destra, né sinistra? Non c’è più o non deve esserci? No perché la destra sembra ci sia e neanche poco.
E chiudiamo l’analisi del micromondo con Unione Popolare. Qui il risultato migliora dal solo Potere al Popolo del 2018 ma di molto poco e comunque anche qui, di gran lunga lontani dal quorum. Anche De Magistris, come Ingroia, come Paragone, è uno di quegli aspiranti al Parlamento, chissà se per pure ragioni personali o anche ideali. Perché gente di questa area politica si ostini a creare forze politiche che in tutta evidenza non riescono a lievitare come progetto politico e si svegliano quando sentono la chiamata alle elezioni che, come sappiamo, sono ampiamente condizionate se non truccate, ha del mistero.
Chissà profondere impegno ed energia politica nei cinque anni e non nei cinque mesi o settimane che portano alle elezioni, sarebbe più serio e proficuo?
A conclusione, ho idea che la corrosione profonda del significato del concetto di “politico” e di “società” operata ormai da decenni, abbia raggiunto il suo risultato: nessuno sa più come interpretarli. Chissà, magari, prima o poi, a qualcuno verrà in mente di studiare riflessivamente la faccenda invece che scrivere l’ennesimo libro o articolo di critica al neoliberismo. Una critica della critica, in altri tempi si sarebbe chiamata una “autocritica”. Non un pentimento formale di tipo confessional-cristiano, una applicazione delle razionalità a sé stessa. Sarebbe già un buon inizio e poiché dalle nostre parti (cultura della complessità) si dice che ogni percorso ha dipendenze dalle condizioni iniziali, sarebbe l’inizio necessario.
[Naturalmente molti lettori e lettrici, qualcuno anche in vena di commento, come ieri accaduto, non coglieranno la differenza tra una analisi sociopolitica ed una politica stile diretta Mentana. Qui si cerca di capire i rapporti tra blocchi sociali/ideali e politica, al netto di leader e partiti specifici. Altre analisi sono benvenute, polemiche da basso condominio, meno]

Mario Draghi, la parabola di un funzionario diligente e imperterrito_di Giuseppe Germinario

Per la prima volta mi è capitato di vedere Mario Draghi sorridente e rilassato.

L’eterno ghigno obliquo che segna il suo viso nei momenti solenni e in quelli più informali quasi del tutto raddrizzato; il viso pacioso e morbido; il passo non più lievemente strascicato, ma sciolto, persino nell’atto di scendere l’impervia scaletta di un aereo; l’abbigliamento composto ma informale, illuminato di bianco.

L’espressione del classico atteggiamento e senso di sicurezza di chi si sente finalmente a casa propria, protetto dalle mura domestiche e da un ambiente familiare da poter calpestare ad occhi chiusi.

Un’alea simile l’aveva mostrata al momento di offrire le proprie dimissioni irrevocabili al Senato. Non era, però, esattamente la stessa. Allora la giovialità era accompagnata da un senso di sollievo. L’altro giorno no; era serenità paciosa ed assoluta.

Mario Draghi non era giunto, però, nel suo rifugio in Umbria; era arrivato a New York con il sovrappiù, per giunta, dei fusi orari.

Con ogni evidenza era giunto in effetti a casa sua, nella sua vera casa.

Non poteva arrivarci come padrone di casa; per meglio dire come uno dei padroni di casa.

I quotidiani italici avrebbero voluto con tutto il cuore presentarlo così; nemmeno loro, però, cosi proni e adulanti, ci sono pienamente riusciti. Hanno sottolineato con enfasi le laudi e i riconoscimenti offerti solennemente e stucchevolmente da potenti lucidi, ma decisamente attempati; hanno enfatizzato il sostegno scontato e bonario, si direbbe paterno, di una amministrazione e di un Presidente, Biden, decadenti e decomposti; hanno precisato però con sufficienza la difficoltà di ottenere un formale incontro bilaterale, richiesto con cauta insistenza, che sancisca la solennità del riconoscimento alla persona; hanno persino premurosamente glissato sull’accoglienza piuttosto freddina ed indifferente all’assemblea dell’ONU riservata al nostro SuperMario, consistita in un malinconico deserto di sedie vuote. A confronto, l’accoglienza riservata al Presidente della Mongolia, paese incuneato tra Russia e Cina, ma sgomitante, è sembrata una apoteosi.

Una accoglienza solitamente riservata, quindi, quella a Mario Draghi, con fare benevolo e paterno, ma senza inutile spreco di energie e pathos, ai servitori utili, ma non indispensabili, ormai sulla via del tramonto.

Eppure a Mario Draghi quel tiepido calore, quella ospitalità nelle stanze di servizio sono bastati a infondergli serenità gioviale. Buon per lui e per il suo equilibrio psicologico; rammentando, però, che anche le oche giulive raggiungono così il loro equilibrio, a scapito però della considerazione che nel tempo i contemporanei ed i posteri avranno maturato nei loro confronti. Il fìo da pagare anche sull’offuscamento della sua aura efficientista, costruita i tre decenni, sarà salato, ma con ogni evidenza anch’esso sopportabile.

Il raffronto dei due discorsi all’assemblea generale dell’ONU tenuti dai due leader, rispettivamente Joe Biden e Mario Draghi, è impietoso e non fa che confermare la reale postura e statura del nostro.

Zio Joe, pur con tutte le nebbie che ormai da tempo attraversano il suo cervello, ha seguito a suo modo nella sua prolusione un filo arguto e proattivo, da vero decisore politico.

Ha cercato di insinuarsi nelle reali contraddizioni delle politiche estere di Russia e Cina, in particolare nella natura dei loro impegni economici, offrendo comunque ad una il ruolo di paria e all’altra di interlocutore ostile; ha cercato di incrinare con argomenti il sodalizio crescente tra i due paesi e di proporsi come paladino ed artefice della emancipazione dei restanti paesi nel mondo. Bontà sua, senza costrizioni e per libera scelta degli stessi e in competizione bonaria con gli altri giganti emergenti, quasi a riconoscere finalmente ed implicitamente il carattere multipolare della competizione geopolitica; si è erto a paladino del diritto internazionale e della sovranità intangibile degli stati nonché delle condizioni di vita e di lavoro.

Per rendere minimamente credibile le sue tesi, si è presentato come l’artefice di una svolta radicale rispetto alle politiche dei precedenti presidenti americani.

L’asino ha cominciato a cascare nel momento in cui Joe Biden è entrato nel merito.

Quando ha riproposto le politiche agricole e le tecnologie delle multinazionali agroalimentari, utili all’agricoltura intensiva necessaria a sollevare il mondo dalla fame, come pure al controllo e alla servitù delle masse contadine; quando ha “offerto” le proprie tecnologie e i propri parametri nell’affrontare il cambiamento climatico; quando si è offerto a garante della libertà di circolazione sui mari.

Buone intenzioni, condite con numerose bugie ed omissioni, che soffrono del retaggio del passato e del ritardo rispetto all’attivismo di Cina, Russia ed ormai anche India; fini reconditi che riaffiorano inesorabilmente grazie al disincanto e alla memoria degli oggetti di attenzione.

SuperMario è apparso al contrario nella veste di un ventriloquo dalla voce atona col cipiglio di un leone tramortito da ore di abbiocco sotto il sole cocente della savana. Non ha fatto altro che riproporre pedissequamente con piaggeria indirizzi e motivazioni della Casa Madre, in particolare sul conflitto ucraino, sorvolando con indifferenza sulle implicazioni disastrose di tali scelte per il paese che governa e per il continente che lo ospita.

Mario Draghi è stato invocato ed acclamato a capo di governo in quanto tecnocrate capace e competente ed uomo influente e di successo in grado di trascinare l’Italia in una postura e ruolo da protagonista.

Ha in effetti confermato la sua capacità e la sua influenza in un particolare ambito, la sua pochezza nell’altro.

In qualità di plenipotenziario, per meglio dire di luogotenente, ha contribuito a trascinare una popolazione inconsapevole delle implicazioni suicide ed una classe dirigente priva di ogni respiro strategico autonomo al carro delle scelte geopolitiche di una fazione dell’establishment statunitense; ha vigilato coscienziosamente sulle possibili intemperanze e riottosità degli alleati europei nei confronti delle scelte americane; con il PNRR e il suo corollario di leggi e norme ha contribuito attivamente a stringere ulteriormente al collo del paese il cappio dei vincoli e delle limitazioni in grado di pregiudicare per lunghi anni ogni possibilità di crescita e sviluppo autonomo e solido.

Su questo può vantare un più che discreto successo personale.

Come Capo del Governo ha operato nella pressoché completa vacuità e continuità, perfettamente in linea con i governi che lo hanno preceduto in questi trenta anni. Una vacuità la cui percezione delle tragiche conseguenze aleggia ormai con inquietudine nei corridoi e nelle strade, ma che diventerà evidente solo quando il nostro starà veleggiando in lidi più sicuri che tempestivamente sta individuando.

Con la eccezione della campagna vaccinale, efficace nelle modalità, molto meno nella risoluzione dei problemi, ha gestito in perfetta continuità l’emergenza pandemica, ingarbugliando un problema oggettivo in un groviglio di provvedimenti estemporanei, contraddittori e draconiani più confacenti ad una strumentalizzazione politica e ad una logica totalitaria di controllo che ad una gestione flessibile e ferrea, ma risolutiva o almeno contenutiva della crisi pandemica. Il risultato più evidente è stata la parziale defenestrazione della quota dalemiana di tecnici a corte con una dalle capacità simil dubbie.

Sul PNRR la strada è appena tracciata; una volta però esaurito l’effetto elementare del moltiplicatore keinesiano legato alla messa in opera degli investimenti, sempre che siano conclusi, emergerà la marginalità del moltiplicatore legato alla fase operativa delle strutture attuate. Del PNRR e più in generale dei Fondi Strutturali Europei ci siamo occupati in tre articoli di diversi mesi fa, confortati dal giudizio di una discreta letteratura europea cui risulta estranea il nostro paese. Non serve, quindi, dilungarsi più di tanto. Il dato politico ricalcherà le dinamiche e gli esiti del passato in assenza di una mole analoga di risorse nazionali, svincolate dalle normative europee e legate al perseguimento dell’interesse nazionale volto alla creazione e controllo di una capacità industriale strategica autonoma. Il recente decreto sui poteri speciali non deve ingannare. E’ rivolto a fronteggiare le mire e le collaborazioni con i paesi dichiarati ostili e tuttalpiù a parare qualche colpo troppo spregiudicato dei nostri fratelli, vicini di casa; non intende essere decisa rispetto alla capacità di controllo ed acquisizione dei fondi americani, quanto esserne compartecipi subordinati. In termini di controllo politico, il risultato certo sarà la ennesima sovrapposizione di un ulteriore apparato amministrativo, rispetto alla pletorica rete burocratica e al disordine istituzionale attualmente in atto.

Sul cambiamento climatico e sul catastrofismo ambientale il giudizio segue la falsariga. Nessuna riflessione sul realismo e la realizzabilità del piano di conversione energetica, sulle implicazioni sul residuo apparato industriae nazionale e sulla capacità di produzione e padroneggiamento delle nuove tecnologie. Uno sterile allarme sul catastrofismo ambientale di origine più o meno antropica che impedisce di agire localmente sulle cause e sugli effetti e di cogliere il nesso tra il popolamento delle aree e la loro possibilità di manutenzione e di coltivazione, riducendo di fatto i disastri a tragedie ineluttabili e il problema ambientale ad una saturazione di attività, quindi ad una necessaria ed implicita decrescita.

Superfluo, al momento, parlare del prossimo disastroso dissesto economico legato alle politiche energetiche e alla accettazione supina delle attuali e future politiche sanzionatorie. La speranza recondita sarà di farlo apparire con il tempo una fatalità.

La smentita più clamorosa delle qualità taumaturgiche di Supermario è avvenuta proprio sul suo presunto punto di forza: il ruolo, la dignità e il rispetto dell’Italia all’interno della Unione Europea. Il recente accordo bilaterale tra Francia e Germania sugli scambi energetici rappresenta soltanto la ciliegina sulla torta. Un ruolo lo avrà certamente avuto la considerazione sempre più scarsa degli dirigenza degli Stati Uniti sulla utilità residua della costruzione unitaria europea e sul ruolo di capocordata assunto sino ad ora dalla Germania. La crescente importanza attribuita ai paesi dell’Europa Orientale nel ruolo guida della politica russofoba rappresenta l’esempio più tangibile di questa svolta strisciante; la qualità di emissario diretto degli Stati Uniti espressa da Mario Draghi ha certamente spinto, appena possibile, i due leader tedesco e francese, a spingere ulteriormente nell’angolo l’Italia.

L’elenco potrebbe arricchirsi di ulteriori elementi. Se ne parlerà nel tempo, appena saranno più evidenti le conseguenze di tali scelte. Servirà quantomeno a ravvivare la memoria troppo corta degli italiani riguardo ad un personaggio attivo in qualche maniera da quaranta anni nell’agone politico italiano e corresponsabile delle scelte che più hanno compromesso il futuro del nostro paese.

È utile, piuttosto, sottolineare un altro aspetto del personaggio.

Dalla contestazione Mario Draghi è stato spesso inserito nel nutrito pantheon liberal-progressista, un po’ snob e particolarmente scettico sulla capacità degli italiani di fare le scelte politiche giuste senza l’impulso e l’intervento esterno. Personaggi, per fare qualche nome, del calibro di Andreatta, Prodi, Letta, Ciampi, ma anche componenti di altri schieramenti.

Tutti personaggi con l’atteggiamento snobistico dei parvenu, desiderosi di riconoscimento all’estero e da questo soprattutto gratificati. Personaggi, tutto sommato, ancora italiani nella loro espressione e nei loro riferimenti, come potrebbe essere ancora un Mario Monti.

Mario Draghi è qualcosa di più e di diverso. Una mutazione definitiva di quella specie.

È un alieno piombato nel nostro universo, che appartiene e deve rendere conto ad un altro universo, senza brillare mai per altro di coraggio.

Come un paese, un popolo, una classe dirigente e un ceto politico abbia potuto accoglierlo senza per altro alcun accorgimento difensivo servirà a spiegare molto della condizione di immaturità politica del nostro paese e delle condizioni necessarie ad un suo risorgimento.

Al momento, il quadro politico desolante non fa che riprodurre sullo scenario suoi epigoni caricaturali destinati ad amministrare, con gaudio effimero, le macerie prodotte dai predecessori e a ritenere sufficiente a ciò il placet esterno.

Epigoni che serviranno ben poco, anche in caso di una svolta radicale favorevole negli Stati Uniti.

Giuseppe Conte e Matteo Salvini si sono fatti conoscere nel loro spessore durante l’epopea di Trump; il loro ritorno improbabile sarebbe un “déjà vu” stucchevole. Adesso toccherà ad altri. L’effetto sorpresa, come pure il momento di gloria, saranno ancora più effimeri.

Ogni ulteriore considerazione più approfondita sarà opportuna solo dopo il 26 settembre.

Questa volta lo stellone dovrà faticare parecchio per attraversare la coltre di nubi e trarre d’impaccio in qualche maniera il paese; sempre che non si sia spento discretamente, ahimè.

Elezioni_Draghi e dopodraghi, un decreto sibillino_con Augusto Sinagra

Il Governo Draghi volge al tramonto; forse ad un possibile, anche se improbabile ritorno, quantomeno nelle attuali spoglie. L’importanza degli atti di questo governo dimissionario, in piedi per le sole funzioni ordinarie, è analoga, se non addirittura più dirompente, rispetto alla fase di pieno esercizio. Il merito delle azioni politiche si discosta sempre più dal rispetto delle forme giuridiche. E’ un segno tipico della crisi e della decadenza di una forma istituzionale e dell’ingresso definitivo in una condizione di emergenza tanto strisciante ed inquietante, quanto surrettizia e non dibattuta. Il recente decreto del 9 settembre sui poteri straordinari del capo di governo è il frutto più avvelenato di questo contesto. Non sarà l’ultimo; è semplicemente propedeutico. Un ceto politico e una classe dirigente di inetti, succubi e vili pronti a trascinare un intero paese verso il disastro senza colpo ferire e ad annichilire ogni capacità di reazione e di consapevolezza. Una èlite che per garantire la propria sopravvivenza non esita a fare il vuoto intorno a sé. Non riesce a far altro che proporre le ennesime false alternative e bruciarle in tempi sempre più ristretti, inquadrandoli in un percorso già segnato nel quale i neofiti del prossimo governo non vedono l’ora di incanalarsi beatamente. All’esterno del cerchio magico, un quadro altrettanto sconfortante con qualche barlume di lucidità, subito piegato, però, dalla logica delle rivalse e della ghettizzazione politica. Un appello alla nazione che paradossalmente si rivolge ad una fazione. Ne parleremo dopo le elezioni. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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VINCOLO ESTERNO E STRABISMO ECONOMICISTA, di Teodoro Klitsche de la Grange

VINCOLO ESTERNO E STRABISMO ECONOMICISTA

  1. Da almeno un trentennio si parla di vincolo esterno, della necessità del medesimo al fine di assicurare comportamenti economicamente virtuosi della classe dirigente, soprattutto di quella politica. Le c.d. “cessioni di sovranità” a istituzioni sovranazionali, soprattutto quelle europee sono state gli strumenti per favorirli.
  2. In effetti a giudicare il tutto dei risultati, quelli seguenti al c.d. “vincolo esterno” (e cioè soprattutto Maastricht e il “seguito”) sono stati tra i peggiori della storia d’Europa e soprattutto italiana. A fronte di una crescita economica nazionale che nei primi trent’anni del dopoguerra fu tra le migliori del pianeta, ridimensionata dopo la crisi petrolifera degli anni ’70, ma comunque rimasta tra le “mediane” della comunità europea, proprio a partire dagli anni ’90, si è ridotta prima, per poi passare da tracolli (nelle crisi del 2008 e del 2020) del PIL ad incrementi millimetrici, spesso spacciati dalla stampa di regime come grandi successi. Ad attribuire l’intera “responsabilità” da questi risultati al vincolo esterno, si può dire soltanto che è stato un pessimo affare. Né si può replicare, che senza il “vincolo esterno” sarebbe andata peggio: come sarebbe andata nessuno lo sa, perché non è accaduto: e quindi paragonare risultati ad ipotesi immaginarie è un altro dei modi per non applicare l’aureo consiglio di Machiavelli nel XV capitolo del “Principe”.

Piuttosto è interessante notare perché il “vincolo esterno” non potesse funzionare – se non in modo limitato e quindi secondario – e pertanto sia stato – in larga parte – un’illusione.

Occorre in primo luogo intendere come è stato definito il “vincolo esterno”, e cioè il condizionamento virtuoso che avrebbe dovuto ridimensionare le pratiche viziose della classe politica nazionale. La quale era considerata poco incline alle politiche (sostanzialmente) liberali, prevalenti nei paesi occidentali e sostanzialmente vincolanti per l’Italia sia a causa della sudditanza agli U.S.A. (compresi gli accordi di Bretton Woods) sia dell’adesione al processo di costruzione europea. Tali condizioni hanno indubbiamente costituito, in misura probabilmente maggioritaria, la ragione dello straordinario sviluppo del dopoguerra. Del pari è noto che i partiti ciellenisti,  tranne PLI o PRI, non avevano una cultura politica prevalentemente liberista. E gran parte del padronato italiano era avvezzo al protezionismo più che alla concorrenza[1].

Negli auspici dei sostenitori il vincolo (o meglio i vincoli) esterno futuro avrebbe dovuto ripetere (o non sfigurare) col “miracolo” passato. Esito non conseguito.

  1. In effetti il ragionamento a fondamento dell’effetto positivo del vincolo esterno si basava su un insieme di circostanze irripetibili (o difficilmente ripetibili); e sulla sottovalutazione e financo l’omissione della considerazione di presupposti e regolarità influenti sul comportamento collettivo ed individuale.

In primo luogo che l’uomo non è solo homo oeconomicus, ma anche zoon politikon: le essenze (à la Freund) “politico” ed “economico” fanno parte della natura e dell’esistenza umana. Ragionare in base ad una escludendo (o sottovalutando) l’altra è il miglior percorso per valutazioni parziali e perciò errate. Ad esempio: alla ricostruzione europea ha contribuito – secondo quasi tutti gli economisti – il piano Marshall. Con questo – a parte gli altri Stati europei – gli U.S.A. vincitori aiutavano due ex-nemici come Germania ed Italia a ricostruire il proprio tessuto economico. Di per se è un comportamento raro: al nemico sconfitto si chiedono tributi, indennizzi, “riparazioni”: lo si sfrutta, lo si impoverisce, non lo si aiuta a crescere. Lo stesso può dirsi degli accordi sul debito tedesco (da Londra nel 1953 ai successivi): l’America condizionò i due ex nemici servendosi più della carota che del bastone (che a Versailles si era dimostrato addirittura controproducente) rafforzato sia dalla competizione con l’URSS che dal possesso di un potere militare irresistibile (quello nucleare- e non solo) che rendeva impossibile ogni forma di revanscismo.

Dall’altro c’era un calcolo economico: aiutando l’Europa disastrata, si aiutava l’economia americana, nei fatti ripresasi completamente dalla crisi del ’29 solo con la guerra mondiale, e che rischiava di ridurre (o invertire) la crescita. Era quindi l’interesse USA a consigliare l’atteggiamento positivo e “morbido”, sia per  ragioni politiche che economiche. E cioè era la costante politica del perseguimento degli interessi dello Stato a far sì che era il vincolo esterno, con i caratteri premianti per chi lo subiva, a determinare l’effetto positivo (perché soddisfacente sia per l’interesse del vincolante che del vincolato). Era la scelta preferibile per governanti capaci e lungimiranti. Ma che succede se il vincolo è “amministrato” da governanti meno capaci, meno lungimiranti (e spesso) più inclini a interessi di “corto respiro”?

Il vincolo è un rapporto che permette a qualcuno di imporre (o condizionare) la decisione dell’altro, ma nulla dice sulla capacità e volontà del vincolante e del vincolato.

Indubbiamente auspicare il vincolo significa, in concreto, che non si giudica preferibile un governo nazionale la cui classe politica è ritenuta inadatta o comunque peggiore. Ma non è detto che la situazione perduri nel tempo e cambiando le circostanze.

Peraltro il vincolo esterno spesso non è riconducibile alla volontà di Stati e governi stranieri, ma a quelli di soggetti neppure pubblici o ad entità come i “mercati”. Gli uni e gli altri aventi in comune di non avere una responsabilità pubblica, in sostanza politica, ed essere di fatto incontrollabili (o troppo – e indirettamente  – controllabili). Quindi crea potestates indirectae (poteri indiretti) il cui connotato decisivo è di esercitare potere senza (chiara ed apparente) responsabilità; e, a differenza di quanto capita nell’occidente liberaldemocratico, di non rispondere al popolo, ossia di non essere democratici.

Gli anatemi antipopulisti delle elites sono in effetti nient’altro che la negazione del potere del popolo di decidere sul proprio destino.

  1. Dal carattere economicista del vincolo esterno deriva anche la difficoltà a comprendere i comportamenti politici, quando questi – come spesso succede – sono determinati da ragioni non economiche (e non soltanto economiche). Ne abbiamo un esempio attuale nella guerra russo-ucraina che, presentata come assurda perché non se ne comprendono le cause economiche (del tutto secondarie), onde Putin doveva per forza essere un visionario o tarato, un matto, mentre non ha fatto altro che ripetere quanto praticato a partire da Pietro il Grande, da gran parte dei governanti russi: creare sbocchi sui mari caldi, il Mar Nero soprattutto. Onde farlo è un “interesse dello Stato”, come sosteneva Meinecke. Rispondente a considerazioni strategiche (in primo luogo) quindi politiche, ma anche culturali e religiose. Per cui non è detto che il vincolante, nell’ “amministrare” il vincolo esterno, non si faccia prendere la mano da considerazioni non solo economiche. Anzi c’è da aspettarsi che lo faccia.
  2. Il vincolo esterno, così come concepito (da tecnocrati, come Carli) ha un carattere essenzialmente tecnico-economico: è buono ciò che è economicamente valido (come il Piano Marshall). Ma non è detto che lo sia sempre. In realtà, come cennato prima, ciò che rese “buono” il piano suddetto era (la felice) la coincidenza/complementarietà degli interessi.

Ma se questi non lo sono il vincolo diventa solo uno strumento per fare prevalere la volontà (e gli interessi) del vincolante sul vincolato.

Peraltro nell’interpretazione “rigorosa” (ma più che altro ragionieristica) che ha avuto negli ultimi vent’anni di politica economica europea, il vincolo si è qualificato più che tecnico-economico, contabile. Non importa tanto che l’economia cresca, ma che i conti siano in ordine.

  1. Quanto poi alla “beatificazione” del vincolo esterno, con il riferimento a quello applicato nel secondo dopoguerra, appare poco credibile che si ripeta quanto allora capitato. Ma soprattutto non si può fare di un’eccezione una regolarità, e neppure indicarla come probabile. Anzi, come sopra scritto, il comportamento dei vincitori dopo la II guerra mondiale è di per se un’eccezione. E le eccezioni, anche se ripetute, non fanno la regola, e neppure rendono probabile l’esito voluto, ma solo possibile.

Quel che invece può accadere ed è in linea con le regolarità e le probabilità della politica è che il vincolante trovi la collaborazione del governo vincolato, vuoi per timore , vuoi per l’interesse dei governanti subordinati.

Governi influenzati, protettorati, colonie, civitates foederatae, governi quisling fanno parte della storia, dato lo squilibrio di potenza tra le sintesi politiche (il Principato di Monaco non ha la potenza della Francia). La Storia e il diritto hanno conosciuto tutto un insieme di rapporti tra sintesi politiche non paritarie, sia che quella disparità trovasse formalizzazione giuridica (come nei protettorati o nelle città legate a Roma con foedera iniqua) o che lo fosse soltanto di fatto.

Ovviamente la forma politica del vincolante, ma soprattutto il vincolato possono aggravare il vincolo esterno; ossia la possibilità che la volontà del vincolante prevalga su quella del vincolato. Un governo debole e instabile, come può capitare (anche) nelle forme politiche moderne, alle Repubbliche parlamentari e/o a larga frammentazione pluralistica può facilitare l’imposizione del vincolo esterno, sfruttando la lotta tra frazioni della classe politica (partiti in primis). Cosa ancora più evidente nelle forme politiche pre-moderne, come il Sacro Romano Impero e il Regno di Polonia. Rousseau scriveva che il liberum veto era causa dell’anarchia e quindi della debolezza polacca, onde per lo più i re di Polonia eletti (nel ‘700) erano “proposti” dalle potenze straniere.

  1. Il vincolo esterno consiste – a concludere – nella speranza che, laddove si ritenga che la classe politica sia inadatta (e spesso lo è), il sistema possa guadagnare da un’influenza straniera.

A patto di sperare anche che questa sia a) animata da buone intenzioni; b) disinteressata; c) e non affetta da manie di dominio. Cioè non agisca politicamente: tutt’e tre le condizioni citate sono in contrasto con altrettante regolarità e presupposti politici: quello della problematicità della natura umana (Machiavelli); dell’interesse degli Stati (Meinecke); della competizione per il dominio (Tucidide).Perché alle buone probabilità di funzionare come auspicato servirebbe un mondo governato da anime, se non proprio belle, almeno corrette e lungimiranti.

Teodoro Klitsche de la Grange

[1] Ciò non toglie che seppe utilizzare lo stimolo concorrenziale del MEC, compresa l’abolizione progressiva delle “tariffe“ doganali.

CRISI: IMPOVERIRE I CITTADINI IN NOME DI COSA? LA POLITICA DIA DELLE RISPOSTE, di Marco Giuliani

CRISI: IMPOVERIRE I CITTADINI IN NOME DI COSA? LA POLITICA DIA DELLE RISPOSTE

A rischio centomila imprese e giù i riscaldamenti per tutti. Il disagio sociale provocato dal coinvolgimento dell’Europa nella guerra e dall’aumento del caro-vita, se non seriamente motivato, non è più giustificabile

Le istituzioni politiche non ci hanno comunicato ancora in nome di quale obiettivo la UE stia trascinando la comunità e i suoi cittadini verso una condizione allarmante, sia dal punto di vista logistico che sociale. Sorgono, spontanee, alcune domande, che crediamo siano le stesse che milioni di persone rivolgerebbero ai rispettivi governi. Il motivo delle costrizioni è quello di punire Putin all’eccesso, facendone una questione morale? Oppure è quello di obbedire a nonno Biden, Borrell e Stoltemberg, che continuano a fomentare il riarmo acuendo il muro contro muro con Mosca e arricchendo le multinazionali che producono bombe? O, ancora, dare luogo a un neobipolarismo economico e politico con l’est del pianeta che sembrava superato ed è, come la Nato, vecchio di quasi ottant’anni? Non è chiaro. E mentre in Italia imperversano le elezioni, i contribuenti soffrono e la politica continentale si sta via via spaccando. Qual è il punto? Tentiamo, come è nostra prassi, di dare spiegazioni suffragate da fatti e da dati analitici raccolti in modo concreto.

Come prima riflessione, non si può non fare riferimento ai redditi medio-bassi e ai pensionati. Ergo: che tipo di interesse o giovamento può riscontrare un anziano che riceve seicento o settecento euro di pensione dal momento in cui la coppia Draghi-Di Maio, su input estrinseci, continua a ripetere, come un disco scassato, che è giusto inviare miliardi di armi agli ucraini perché è l’Occidente che lo chiede? Se la sua bolletta elettrica quadruplica, è più lecito pensare che la prenda bene poiché è un sacrificio chiesto da Washington e da Bruxelles oppure è più razionale presumere che rimanga scioccato dagli aumenti fregandosene del fatto che il signor Zelensky batta cassa un giorno sì e l’altro pure per soldi e missili? L’operaio con busta paga di 1300-1400 euro mensili, rispetto al vertiginoso aumento del caro-vita, si sente più tranquillo o più incavolato se gli si dice che il suo sacrificio si compie per indebolire Putin e per procrastinare la guerra a data da destinarsi? Propendiamo per la seconda ipotesi, e chiunque sostenga il contrario è in malafede o è da legare. Nel frattempo, all’insegna del regit et tuetur in nome della Nato, per l’anno 2022 l’Italia ha stanziato in armi qualcosa come 26 miliardi di euro (+ 5, 4 % rispetto al 2021).

Andiamo avanti. Migliaia di imprese, dopo aver sopportato due anni e mezzo di pandemia, rischiano di chiudere a causa del triplice, quadruplice e anche quintuplice aumento dei carburanti e dell’energia; qui da noi, Palazzo Chigi si giustifica sostenendo che “è priorità essenziale sostenere Kiev con sanzioni a Mosca, con l’acquisto di bombe e con la spedizione di denaro sonante al governo ucraino”. Non può più bastare, non è credibile, così come non è più ammissibile tollerare questa bassa tutela verso il fabbisogno nazionale. Non sono questi gli interessi dell’Italia, così come quelli di Germania o Spagna. Il lato peggiore dell’intera vicenda è tuttavia la penuria di volontà – da parte della comunità europea, lo ripetiamo – di ricercare una soluzione della crisi, promuovere proposte di compromessi che inevitabilmente porterebbero le parti a concedere qualcosa in modo reciproco. Chi rappresenta oggi le istituzioni, sta mascherando la corsa al riarmo con iniziative sconsiderate che tende invece a definire prioritarie ed essenziali. Allora ci pensa l’informazione, ovviamente quella indipendente, a tentare di fare luce su politiche opacissime e spesso sponsorizzate dai media mainstream senza uno straccio di autocritica o contraddittorio. Mentire all’opinione pubblica circa la convenienza di acquistare materie prime dall’Angola, dall’Algeria, dal Congo e dal Qatar (che non rappresentano certo delle democrazie illuminate), magari tacciandole come “misure urgenti”, significa tradire la fiducia dei cittadini perché il prezzo dei carburanti russi è tra i più bassi su scala mondiale. Ricorrere alle centrali a carbone (in piena era di transizione ecologica), come un secolo fa, senza riportare in modo doveroso e onesto che le stesse rappresentano una delle maggiori fonti d’inquinamento dell’intero sistema energetico, significa essere ipocriti con gli elettori a cui fu garantito un maggiore uso delle rinnovabili ai fini della salvaguardia della salute del pianeta.

La sensazione è, ma ci aggiorneremo al 26 settembre, che in Italia le elezioni cambieranno ben poco. È un sospetto che ha la sua variabile indipendente nella fila dei partiti che si è creata, come dietro a uno sportello postale, per fare a gara tra chi sarà il più gradito alla Casa Bianca e a Bruxelles. Qualunque schieramento vinca le elezioni, dovrà, per forza di cose, dichiarare la sua fedeltà a un euroatlantismo che ha fatto dello scontro frontale e della corsa al riarmo i suoi cavalli di battaglia. Ma c’è una contraddizione: poiché gli interessi geopolitici non combaciano, o si è europeisti o si è atlantisti. Lo dice la storia.

 MG

 

 

 

BIBLIOGRAFIA & SITOGRAFIA

 

Osservatorio Milex sul bilancio previsionale dello Stato per l’anno 2022, dati raccolti il 10 gennaio 2022, fonte Ministero della Difesa italiano –

Science of the Total Enviroment, rivista di scienze, 1° dicembre 2019, numero 694 –

www.ipsoa.it, pagina del 19 marzo 2022 consultata il 07/09/2022 –

www.ilsole24ore.com, pagina del 22 agosto 2022 consultata il 7 settembre 2022 –

www.micromega.net, pagina dell’8 settembre 2022 consultata l’8 settembre 2022 –

 

 

 

 

 

LO STATO DELLE COSE DELLA GEOPOLITICA, di Massimo Morigi _ 11a di 11 parti

AVVERTENZA

La seguente è la undicesima di undici parti di un saggio di Massimo Morigi. Nella prima parte è pubblicata in calce l’introduzione e nel file allegato il testo di Morigi; nella sua undicesima parte è disponibile la prosecuzione a partire da pagina 130. L’introduzione è identica per ognuna delle undici parti e verrà ripetuta solo nelle prime righe a partire dalla seconda parte.

PRESENTAZIONE DI QUARANTA, TRENTA, VENT’ANNI DOPO A LE
RELAZIONI FRA L’ITALIA E IL PORTOGALLO DURANTE IL PERIODO
FASCISTA: NASCITA ESTETICO-EMOTIVA DEL PARADIGMA
OLISTICO-DIALETTICO-ESPRESSIVO-STRATEGICO-CONFLITTUALE DEL
REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO ORIGINANDO DALL’ ETEROTOPIA
POETICA, CULTURALE E POLITICA DEL PORTOGALLO*

*Le relazioni fra l’Italia e il Portogallo durante il periodo fascista ora presentate sono
pubblicate dall’ “Italia e il Mondo” in undici puntate. La puntata che ora viene
pubblicata è la prima e segue immediatamente questa presentazione, e questa prima
puntata (come tutte le altre che seguiranno) è preceduta dall’introduzione alla stessa di
Giuseppe Germinario. Pubblicando l’introduzione originale delle Relazioni fra l’Italia
e il Portogallo durante il periodo fascista come prima puntata e che, come da indice,
non è numerata, la numerazione delle puntate alla fine di questa presentazione non
segue la numerazione ordinale originale in indice delle parti del saggio, che è stata
quindi mantenuta immutata, quando questa presente.

UNDICESIMA PUNTATA STATO DELLE COSE

1 5 6 7 8 9 36