Mali: gli eteri ideologici spiegano lo sfratto della Francia, di Bernard Lugan

Due vicende ormai lontane tra loro. Il massacro di Gheddafi e la distruzione dello stato libico nel 2011; il pressante invito della giunta militare del Mali alle truppe francesi di abbandonare immediatamente il territorio nazionale. Proprio nel momento in cui si tiene a Ginevra, con qualche ironia della sorte, la conferenza congiunta tra l’Unione Europea e l’Unione Africana. Non siamo alla conclusione di una parabola, ma ci siamo ormai vicini. L’avventura libica avrebbe voluto essere l’atto di affermazione di un nuovo ruolo assertivo della Francia in Africa Settentrionale. Erano ben altre le forze in azione dietro le quinte. Ha innescato una dinamica che al contrario sta accelerando e sancendo il ridimensionamento definitivo della Francia e delle sue ambizioni neocoloniali in quell’area. In un ultimo sussulto teso a difendere i propri caposaldi, ha cercato di coinvolgere altre forze europee, in particolare italiane e tedesche, nell’avventura. Come in altre occasioni, il nostro ceto politico, privo di ogni respiro strategico e di una qualche cognizione di interesse nazionale, si è accodato supinamente a queste scelte, dilapidando ulteriormente il patrimonio di credibilità e di rispetto guadagnatosi per due decenni a partire da Mattei. L’ennesima svolta che sta maturando in Libia, con il probabile avvicinamento della Turchia all’Egitto, se a buon fine, sancirà l’estromissione definitiva dell’Italia da quell’area così prossima con tutte le nefande conseguenze che ne deriveranno; ma anche per la Francia, con il suo ruolo di mosca cocchiera nell’avventura libica, si prospetta una sorte simile, visto il suo progressivo arretramento anche in Algeria e gli esiti incerti in Tunisia. Tra Ucraina e Nord-Africa la tenaglia che stringe l’Europa amorfa, vittima accondiscendente dell’avventurismo statunitense, si stringe in una morsa ormai destabilizzante lo stesso continente. Giuseppe Germinario

Venerdì 18 febbraio 2022, la giunta militare al potere a Bamako ha chiesto che la partenza delle forze “Barkhane” avvenisse immediatamente, e non per tappe, come aveva annunciato il presidente Macron. Come siamo arrivati ​​a una tale situazione ea una tale rottura?

Come dico e scrivo da anni, soprattutto nel mio libro Le guerre del Sahel dalle origini al presente , in Mali i decisori francesi hanno sommato gli errori derivanti da una falsa analisi consistente nel vedere il conflitto attraverso il prisma dell’islamismo. Ma qui l’islamismo è prima di tutto la superinfezione di ferite etnorazziali millenarie che nessun intervento militare straniero è stato per definizione in grado di chiudere.

Inoltre, in un momento in cui sempre più africani rifiutano la democrazia in stile occidentale, la Francia si sta, al contrario, rafforzando questa ideologia vista in Africa come una forma di neocolonialismo. Più che mai, i vertici francesi sarebbero stati quindi ispirati a meditare su questa profonda riflessione che il Governatore Generale dell’AOF fece nel 1953: “Meno elezioni e più etnografia, e tutti ne troveranno qualcosa per trarne vantaggio”… uno parola, il ritorno al vero africano e non l’incantesimo a ideologie appiattite.

Questa è la grande spiegazione di questo nuovo fallimento francese in Africa. Per non parlare del concreto rifiuto di mettere in discussione semplicemente le argomentazioni della giunta maliana. Immediatamente messa alla berlina da Parigi, che non le ha lasciato alcun margine di manovra, quest’ultima è stata automaticamente costretta a una corsa massimalista a capofitto per non perdere la faccia. I piccoli marchesi che plasmano la politica africana della Francia dovrebbero però sapere che in Africa la priorità assoluta quando si entra in contenzioso è non far perdere la faccia al proprio interlocutore. Ma questo non si può imparare a Science-Po…

Infatti, dopo il colpo di stato del colonnello Assimi Goïta in Mali, Emmanuel Macron ha letteralmente strangolato il Mali economicamente imponendo sanzioni del tutto inopportune e improduttive a questo Paese, che hanno finito per opporre l’opinione pubblica maliana alla Francia.

Accecato dal suo presupposto democratico, Emmanuel Macron non vedeva che il colpo di stato del colonnello Goïta era un’occasione di pace. Poiché questo Minianka, ramo minoritario del grande gruppo Senufo, non ha contese storiche con i Tuareg e i Fulani, i due popoli all’origine del conflitto, potrebbe quindi aprire un discorso di pace attorno a una nuova organizzazione costituzionale e territoriale, così che Tuareg e Fulani non sono più automaticamente esclusi dal gioco politico dalla democrazia, che è diventata una semplice etnomatematica elettorale.

Al contrario, accecati dal loro imperativo democratico, dall’ideologia dei “diritti umani”, del “buon governo” e dello “stato di diritto”, tutte nozioni almeno localmente surreali, i leader francesi hanno considerato l’apertura di negoziati tra Bamako e alcuni gruppi armati del nord come provocazione. Mentre l’operazione sarebbe stata del tutto proficua perché avrebbe consentito di chiudere il fronte settentrionale per concentrare le risorse di Barkhane nella cosiddetta regione dei “Tre Confini”.

Frutto della reazione francese, presa per la gola, la giunta si lanciò in una corsa a capofitto consistente nell’adulare la propria opinione pubblica designando la Francia come capro espiatorio. Questo spreco ha anche permesso alle élite locali che hanno sistematicamente saccheggiato il Mali di nascondere sei decenni di corruzione, appropriazione indebita, incapacità politica, in una parola, incompetenza. Risultato, dopo la Repubblica Centrafricana, la Francia si vede “espulsa” dal Mali mentre i suoi soldati vi sono caduti per garantire l’incolumità delle popolazioni abbandonate dal proprio esercito…

L’altro grande errore francese è non aver fatto la differenza tra i vari gruppi armati. Dal 2018 al 2019, l’intrusione del DAECH attraverso l’EIGS (Stato Islamico nel Grande Sahara) ha cambiato profondamente i fatti del problema. E’ scoppiato un conflitto aperto tra l’EIGS ei gruppi etno-islamisti che affermano di appartenere al movimento di Al-Qaeda, accusandoli di favorire l’etnia a spese del califfato. Parigi poi non ha visto, mentre io non ho smesso di inviare note ai funzionari interessati, che i due principali leader etnoregionali della nebulosa di Al-Qaeda, ovvero il tuareg ifora Iyad Ag Ghali e il Fulani Ahmadou Koufa, leader del Katiba Macina, più etno-islamista che islamista, aveva deciso di negoziare una via d’uscita dalla crisi.

Non volendo una tale politica, Abdelmalek Droukdal, leader di Al-Qaeda per tutto il Nord Africa e per la striscia del Sahel, ha poi deciso di prendere il controllo e imporre la sua autorità, sia su Ahmadou Koufa che su Iyad ag Ghali. Fu poi “neutralizzato” dalle forze francesi informate dai servizi di Algeri preoccupati di vedere che lo Stato Islamico si avvicinava al confine algerino. L’Algeria, che considera il nord-ovest della BSS come il suo cortile di casa, ha infatti sempre “sponsorizzato” gli accordi di pace lì. Il suo uomo del posto è Iyad ag Ghali la cui famiglia vive nella regione di Ouargla. Questa ifora touareg è contraria allo smembramento del Mali, una priorità per l’Algeria che non vuole un Azawad indipendente che sia un faro per i propri Touareg.

Parigi non lo capiva. E non più il fatto che il ritorno al gioco politico dei Tuareg radunati alla guida di Iyad ag Ghali, e di quelli dei Fulani al seguito di Ahmadou Koufa, avrebbe consentito di concentrare tutti i mezzi sull’EIGS, e quindi pianificare a termine un soccorso di Barkhane, quindi il suo spostamento verso la regione peri-ciadica dove gli elementi della futura destabilizzazione in atto eserciteranno nel prossimo futuro pesanti minacce su Ciad e Camerun, il tutto alimentato dall’intrusione turca in Libia.

Fin dall’inizio, e come ho sempre suggerito, abbiamo dovuto andare d’accordo con questo capo Ifora con cui avevamo contatti, interessi comuni e la cui lotta è l’identità prima di essere islamista. Per ideologia, rifiutando di tener conto delle costanti etniche secolari, coloro che fanno la politica africana francese hanno ritenuto al contrario che fosse l’uomo da uccidere… Proprio di recente, il presidente Macron ha persino ordinato ancora una volta alle forze Barkhane di eliminarlo. E questo proprio nel momento in cui, sotto il patrocinio algerino, le autorità di Bamako stavano negoziando con lui una pace regionale… E siamo sorpresi dalla reazione della giunta maliana…

In un modo che definirei insolito come “carità”, l’Eliseo ha persistito nell’accumularsi di false analisi. Emmanuel Macron, quindi, non ha voluto vedere – torno a un episodio essenziale di cui ho parlato sopra – che, il 3 giugno 2020, è scomparsa l’algerino Abdelmalek Droukdal, leader di Al-Qaeda per tutto il Nord Africa e per la regione del Sahel, uccisa dalle forze francesi, ha cambiato radicalmente le definizioni del problema. La sua eliminazione diede autonomia ai Tuareg Iyad ag Ghali e al Peul Ahmadou Koufa. Dopo quelli degli “emiri algerini” che avevano guidato a lungo Al-Qaeda nella regione, quello di Abdelmalek Droukdal appunto e che ha segnato molto chiaramente la fine di un periodo, Al-Qaeda non è più guidata lì dagli stranieri, dagli “arabi”, ma da “regionali”. Questi capi regionali, però, hanno obiettivi etnoregionali radicati in un problema millenario nel caso dei Tuareg, laico in quello dei Fulani. La mancanza di cultura e i presupposti ideologici dei leader francesi impedivano loro di vederla

In questo nuovo contesto, nell’agosto 2020 è avvenuto in Mali un primo colpo di stato militare che ha permesso di avviare negoziati tra Bamako e Iyad Ag Ghali, che hanno amareggiato Parigi. Il 24 ottobre 2020 ho pubblicato un comunicato stampa sull’argomento dal titolo “Mali: serve il cambio di paradigma”. Ma, ancora una volta, Parigi non ha preso la misura di questo cambio di contesto, continuando a parlare indiscriminatamente di una lotta globale al terrorismo. Inoltre, contro quanto sostenuto dai vertici militari di Barkhane, Parigi ha quindi persistito in una strategia “all’americana”, “toccando” indiscriminatamente i GAT (Gruppi terroristici armati), e rifiutando qualsiasi approccio “buono”… “alla francese”. ..

In conclusione, da questo nuovo e amaro fallimento della politica francese in Africa si dovrebbero trarre quattro grandi insegnamenti:

– La priorità urgente è sapere cosa stiamo facendo nel BSS, dobbiamo quindi definire finalmente, e molto rapidamente, i nostri interessi strategici attuali e a lungo termine per sapere se dobbiamo disimpegnarci o meno, e se sì, a cosa livello e senza perdere la faccia.

– In futuro non dovremo più intervenire sistematicamente e direttamente a beneficio degli eserciti locali che abbiamo addestrato instancabilmente e invano dagli anni ’60 e che, ad eccezione di quello del Senegal e della guardia presidenziale ciadiana, sono incompetente.

– Sarà necessario favorire interventi indiretti o azioni rapide e specifiche realizzate dalle navi, che eliminerebbero il disagio dei diritti territoriali percepiti localmente come una insopportabile presenza neocoloniale. Sarà quindi necessaria una ridefinizione e un aumento di potenza dei nostri mezzi marittimi dispiegabili.

– Infine e in primo luogo, dovremo lasciare che l’ordine naturale africano si dispieghi. Ciò implica che i nostri intellettuali capiscano finalmente che gli ex governanti non accetteranno mai che, attraverso il gioco dell’etnomatematica elettorale, e solo perché sono più numerosi di loro, i loro ex sudditi o affluenti ora sono i loro padroni. . Ciò sconvolge le concezioni eteree della filosofia politica occidentale, ma tale è nondimeno la realtà africana.

C’è stato un “contratto” messo dalla NATO sulla testa del colonnello Gheddafi?

La Francia, allora guidata da Nicolas Sarkozy, ha una pesantissima responsabilità nella disintegrazione della Libia con tutte le conseguenze locali e regionali che sono seguite e che ancora seguono. Ma perché è entrata così direttamente in una guerra civile in cui non erano in gioco i suoi interessi? Perché anche la NATO ha interferito così profondamente in questa guerra? L’alibi umanitario citato da BHL non fornendo una risposta soddisfacente, restano ancora due domande senza risposta:

– La Francia è all’origine della guerra contro il colonnello Gheddafi?

– L’obiettivo di questa guerra era la morte di quest’ultimo?

Esistono elementi di risposta che sottolineo in occasione della ristampa aggiornata da parte di Éditions du Rocher del mio libro ” Storia della Libia dalle origini ai giorni nostri ” e che sono riportati nel seguente comunicato:

Domanda 1: La Francia è all’origine della guerra contro il colonnello Gheddafi?

Durante i lavori della Commissione Speciale del Congresso degli Stati Uniti d’indagine sull’attacco alla missione americana a Bengasi nel settembre 2012, attacco costato la vita all’ambasciatore americano Christopher Stevens, sono state prodotte e-mail riservate di Sidney Blumenthal, consigliere di allora- Il segretario di Stato Hillary Clinton.

Secondo questi documenti, la DGSE (Direzione generale per la sicurezza esterna) francese avrebbe organizzato, su ordine di Nicolas Sarkozy, incontri segreti con gli oppositori libici a partire dal febbraio 2011, quindi proprio all’inizio dei fatti.

In una di queste note intitolata ” Come i francesi hanno creato il Consiglio nazionale libico ” si legge che gli agenti francesi avrebbero ” dato denaro e consigli ” e che questi agenti parlando a nome di Nicolas Sarkozy ” hanno promesso che non appena il (Consiglio ) è stato progettato, la Francia lo riconoscerà come il nuovo governo libico” .

In un’altra nota datata 20 marzo questa, si legge che Nicolas Sarkozy “si aspetta che la Francia guiderà gli attacchi contro (Gheddafi) per un lungo periodo di tempo” .

Se fosse autentico, e allo stato attuale del fascicolo, non vi è motivo di dubitarne, tale documento stabilirebbe quindi che, appena tre giorni dopo il voto sulla risoluzione 1973 risoluzione 1973 del 17 marzo 2011 del Consiglio di Sicurezza del le Nazioni Unite che prevedevano solo l’istituzione di una no-fly zone intorno alla sola città di Bengasi, il presidente Sarkozy avrebbe pianificato una guerra totale contro la Libia, cosa non prevista dalla suddetta risoluzione.

Domanda 2: Lo scopo della guerra era la morte del colonnello Gheddafi?

Martedì 16 dicembre 2014, a Dakar, in occasione della chiusura del Forum sulla pace e la sicurezza in Africa , acclamato dai partecipanti, il presidente ciadiano Idriss Déby ha sganciato una vera bomba quando, alla presenza del ministro della Difesa francese, ha ha dichiarato che andando in guerra in Libia: “(…) l’obiettivo della Nato era quello di assassinare Gheddafi. Questo obiettivo è stato raggiunto “.

Se è vero quanto affermato da questo intimo conoscitore del caso libico, tutta la storia di una guerra dalle conseguenze devastanti va dunque riscritta. Tanto più che questo conflitto razionalmente inspiegabile si è innescato quando, paradossalmente, il regime libico era diventato l’alleato degli europei, sia contro il jihadismo che contro le reti di immigrazione.

Torniamo indietro. :

 Il 13 gennaio 2011, dopo 42 anni al potere, il colonnello Gheddafi ha dovuto affrontare manifestazioni che si sono trasformate in un’insurrezione.

 Il 23 febbraio, per sostenere gli insorti, la Francia ha chiesto all’Unione Europea “la rapida adozione di sanzioni concrete” contro il regime libico. In Francia è stata poi orchestrata una grande mobilitazione dal “filosofo” Bernard-Henri Lévy per per “salvare” la popolazione di Bengasi.

– Il 17 marzo Alain Juppé, ministro degli Affari esteri francese, ha strappato al Consiglio di sicurezza dell’ONU la risoluzione 1973[1] , che ha consentito l’apertura delle ostilità[2]. Questa risoluzione autorizzava semplicemente e solo la creazione di una no-fly zone sulla Libia , non l’intervento nel conflitto.

Tuttavia, di fronte all’incapacità dei ribelli di minare le difese del regime, Parigi intervenne gradualmente nella guerra civile, impegnandosi anche sul campo, in particolare a Misurata dove ebbe luogo un’operazione dei Navy Commandos, e a Jebel Nefusa. Una cosa tira l’altra, violando la risoluzione 1973 del 17 marzo 2011 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, la Francia e la NATO hanno condotto una vera guerra, prendendo di mira direttamente e ripetutamente lo stesso colonnello Gheddafi.

L’attacco più sanguinoso è avvenuto il 1 maggio 2011 quando gli aerei della Nato hanno bombardato la villa di suo figlio Saif al-Arab mentre lì si teneva una riunione di famiglia, alla presenza del colonnello e di sua moglie. Dalle macerie della casa sono stati rimossi i cadaveri di Saif al-Arab e tre dei suoi figli piccoli. Reagendo a quello che ha definito un omicidio, Mons. Martinelli, Vescovo di Tripoli, ha detto: “Chiedo, per favore, un gesto di umanità verso il colonnello Gheddafi che ha protetto i cristiani di Libia. È un grande amico”. Tale non era evidentemente l’opinione di coloro che avevano ordinato questo bombardamento chiaramente inteso a porre fine al capo di stato libico.

I capi di stato africani che si erano opposti quasi all’unanimità a questa guerra e che avevano tentato senza successo di dissuadere il presidente Sarkozy dall’intraprenderla, pensavano di aver trovato un risultato accettabile: il colonnello Gheddafi si sarebbe dimesso, il potere provvisorio era assicurato dal figlio Saif al -Islam Gheddafi e questo, per evitare un posto vacante favorevole al caos. Questa opzione è stata rifiutata dalla CNT portata a condizioni di mercato dalla Francia. Di conseguenza, il colonnello Gheddafi si è trovato assediato nella città di Sirte, che è stata oggetto di intensi bombardamenti NATO.

È stata quindi preparata un’operazione di esfiltrazione verso il Niger. Tuttavia, ben informati (da chi?), i miliziani di Misurata si tesero in agguato sull’asse che da Sirte portava al Fezzan e da lì al Niger. Il 20 ottobre 2011, il convoglio di diversi veicoli civili del colonnello Gheddafi è riuscito a lasciare la città. Sebbene non costituisse un obiettivo militare, fu subito preso di mira dagli aerei della NATO e in parte distrutto. Catturato, il colonnello Gheddafi è stato brutalmente messo a morte dopo essere stato sodomizzato con una baionetta: in rete è visibile il video della sua cattura e del linciaggio. Suo figlio Moatassem Gheddafi è stato evirato, poi gli sono stati cavati gli occhi, le mani e i piedi tagliati. I loro resti sanguinanti furono poi esposti nell’obitorio di Misurata. La NATO non aveva quindi lasciato alcuna possibilità al colonnello Gheddafi e a suo figlio.

Fatte queste premesse, le accuse del presidente Deby assumono quindi tutto il loro valore. In retrospettiva, lo svolgersi degli eventi potrebbe infatti essere paragonato a un “contratto” posto sulla testa del colonnello perché non gli fu offerto alcun onorevole risultato diplomatico e tutte le sue proposte di pace furono rifiutate…

[1] Su questo argomento si veda il testo della conferenza stampa di Alain Juppé a New York ( www.ambafrance-at.org ).

[2] Su richiesta di Francia, Regno Unito e Libano, la risoluzione 1973 è stata adottata, ai sensi del capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, dal Consiglio di Sicurezza con 10 voti (10 favorevoli, 0 contrari, 5 astenuti tra cui Russia, Cina e Germania). La Russia si è astenuta dal voto all’ONU, poi Mosca ha denunciato gravi violazioni della risoluzione 1973.

I beati, i beoti e il loro Presidente_di Giuseppe Germinario

Se si dovesse esprimere un giudizio sintetico sull’epilogo della recente rielezione di Sergio Mattarella a Presidente della Repubblica e sul suo discorso di investitura al Parlamento in seduta plenaria, si potrebbe sintetizzare così: per riaffermare la propria trionfale ragione di “riesistere”, ha dovuto glissare sulle ombre del corretto assolvimento alle proprie prerogative per assumersene di altre e ulteriori, proprie di un organo politico esecutivo e deliberativo.

Aspetti, tutti e due presenti e ben rappresentati in quel consesso. Il tutto tra gli applausi scroscianti di beati e beoti, ormai sempre più accomunati e omologati.

Il discorso del Presidente, investito per altro nel suo ruolo di presidenza, tra l’altro, del Consiglio Superiore della Magistratura e del Consiglio della Difesa, nella sua banalità si focalizza su quattro punti apparentemente anodini: il richiamo potente e retorico al rispetto e alla promozione della dignità in diciotto delle sue applicazioni; il rispetto delle prerogative del Parlamento; la riforma della giustizia; l’adesione incondizionata agli indirizzi della Unione Europea.

  • La retorica della dignità, nelle sue diciotto prerogative, con la quale ha impregnato la parte essenziale del discorso sottende in realtà un netto indirizzo politico, se non un vero e proprio programma di governo. Si può affermare tranquillamente che gli equilibri e la maschera istituzionale propri della prima repubblica siano definitivamente caduti nella sostanza, ma non purtroppo nella forma. Non si sa se gli applausi ostentati di Mario Draghi siano la manifestazione di un senso di liberazione da un fardello governativo anche per lui sempre più opprimente o di una presa d’atto a denti stretti della magra figura fatta nelle trattative in corso e del ridimensionamento delle proprie ambizioni.

  • Il richiamo scontato al rispetto delle prerogative del Parlamento è un motivo ricorrente di tutti i discorsi di insediamento presidenziale. Non di meno il paradosso di una presidenza che ha avallato in quantità industriale ogni decreto e mozione di fiducia riduce il richiamo in uno strepito.

  • Il paradosso si trasforma in sconcerto con il richiamo ad una riforma della istituzione e dell’ordinamento giudiziario in un contesto nel quale avrebbe dovuto usare le proprie prerogative per fissare punti fermi sullo scandalo Palamara piuttosto che glissare elegantemente.

  • Nulla di nuovo nell’ostentato lirismo europeista ed atlantista richiamato nel discorso. Sono il segno e il sollievo da un pericolo scampato, piuttosto che di una realtà politica ormai di nuovo supinamente allineata a quegli indirizzi. Un capo dello stato attento alle proprie prerogative, piuttosto che indugiare in un lirismo ormai fuori contesto, dovrebbe soffermarsi su una definizione dell’interesse nazionale che possa plasmare la coesione e la crescita di una formazione politico-sociale e sulla sua modalità di perseguimento in un agone dove i diversi stati nazionali non si fanno scrupolo di rappresentare e contrattare i propri. Quel lirismo serve sempre più a coprire la passività, l’arroccamento e la subordinazione di una intera classe dirigente.

  • L’aspetto più significativo e rumoroso è però rappresentato da un silenzio: l’abdicazione dal suo ruolo di figura rappresentativa della unione e coesione nazionale e di punto di equilibrio in un momento di emergenza protratta. La gestione catastrofica ed approssimativa della crisi pandemica, la criminalizzazione di ogni rilievo critico e perplessità della gestione, la strumentalizzazione crescente della lunga congiuntura hanno creato una situazione di divisione manichea della società ed una condizione tale da rendere praticamente impossibile una revisione delle politiche che non sconfessi platealmente e “cruentemente” i responsabili, incluso ormai il capo del governo. Su questo ha brillato la sua assenza, se non la connivenza della figura simbolicamente più importante delle istituzioni. A memoria non si ricorda un solo suo atto solenne e significativo teso a ricondurre il dibattito in termini razionali e civili tali da scoraggiare la demonizzazione e gli esorcismi. Una mancanza le cui ripercussioni si protrarranno nel tempo ed appariranno nella loro ampiezza in un prossimo futuro.

L’espressione e le manifestazioni fisiche e comportamentali del personaggio politico valgono più di tante parole.

L’ostentazione del trasloco in corso, la scenografia disegnata e la serafica e beata accettazione del reincarico valgono più delle parole, pur esse importanti.

Giorgio Napolitano, figlio almeno dell’eredità morale e dell’ipocrisia di una classe dirigente sorta dalle ceneri della guerra, ebbe l’ardire di rimbrottare duramente il ceto politico e i rappresentanti di un parlamento che lo avevano appena rieletto. Sergio Mattarella, espressione di un regime incompiuto e decadente già al suo sorgere, ha sorvolato sul problema come una nuvoletta leggera e fugace.

La dinamica che ha portato alla rielezione di Sergio Mattarella è il segno della miseria di un ceto politico; è il prodotto della sua espressione politica più compiuta, il PD, abbarbicato e capace di determinare le scelte a prescindere dagli esiti elettorali. Suo compito principale si concentrerà nel tentativo di essere il garante del procrastinamento di questa convenzione e di circoscrivere in questo quadro l’azione di Mario Draghi. Ha smascherato definitivamente il ruolo spregevole di personaggi come Berlusconi e la pochezza, non vale la pena di utilizzare altri termini, del personale politico ormai a corollario più o meno consapevole di questa trama.

Entro certi limiti, il confronto e lo scontro tra centri politici decisori prevede la complementarietà e la surroga di alcune istituzioni, più coese od efficaci e disponibili, rispetto alle prerogative e alle competenze di altre. Quando però questa dinamica si perpetua per troppo tempo e le fasi di transizione si impantanano, si trasformano in un disordine istituzionale e in un contrasto destabilizzante e dissolutorio.

La gestione della pandemia, colta inizialmente come una occasione e un campo di azione, sta diventando sempre più un mero pretesto per altri disegni tesi a procrastinare l’esistenza di questo ceto politico e la permanenza di una classe dirigente decadente ed arroccata, incapace di organizzazione, ma decisa a sopravvivere al proprio stesso paese. Il tripudio visto in Parlamento sono la manifestazione di questa dissociazione ormai patologica.

Il terreno favorevole ad una dinamica politica di fatti compiuti e colpi di mano a dispregio delle stesse forme e della necessaria autorevolezza è predisposto.

Molti vedono in questo l’inizio della fine e la possibilità di una rinascita radicale.

Non è assolutamente detto.

Potrebbe piuttosto essere la procrastinazione di una fase crepuscolare dove impera e prospera lo scetticismo passivo ed anarcoide, la mancanza di autorevolezza di una qualsiasi autorità in essere e in divenire, l’esistenza di una classe dirigente e dominante arroccata ed auto-eteroreferenziale; dove su una opposizione politica chiara e determinata prevale il tumulto indistinto, una fase tribunizia opportunista ed incapace sul quale poter continuare a galleggiare sia pure precariamente.

La facilità e la disponibilità alla cooptazione rivelata da questa classe dirigente è sorprendente, data la precarietà crescente di risorse ed assetti.

Rivela il timore del mix esplosivo di una riorganizzazione e di un regresso della condizione socio-economica che si sta realizzando.

Si parla spesso e ricorrentemente della costruzione di un soggetto politico in grado di offrire una alternativa seria e credibile. Qua e là sorgono iniziative improvvise, rivelatesi sempre meteore smarrite, impazzite o in rotta di collisione.

Non è questo, purtroppo, il tema all’ordine del giorno.

Il solipsismo che affligge la società, affligge purtroppo nella stessa misura l’area dalla quale potrebbe sorgere il soggetto politico necessario.

Il tema vero è come arrivare a costruirlo, con quale retroterra culturale e organizzativo, con quali referenti nei centri decisionali ed amministrativi che pur esistono.

Su questo manca ancora una minima, sufficiente consapevolezza e disponibilità al dialogo nell’ambito stesso di una possibile formazione di questa realtà politica.

In mancanza di esso il divario tra aspirazione, necessità e possibilità è destinato ad allargarsi drammaticamente.

Più la situazione si incancrenisce, più la fretta è cattiva consigliera.

‘A gatta pe’ jì ‘e pressa, facette ‘e figlie cecate

FOCHERELLO, di Pierluigi Fagan

FOCHERELLO. È indetta per oggi una manifestazione nazionale degli studenti liceali. Presto per dire se sarà o meno un vero e proprio “movimento” a cui i giornali hanno dato già dato nome: la Lupa. I temi non mancano.
La scintilla è stato il ragazzo morto durante uno stage aziendale previsto dalle politiche di alternanza studio-lavoro inaugurato nel 2015 e proprio l’assetto studio-lavoro è finito sotto accusa come se destinazione strategica di fondo dell’istruzione fosse formare alla società di mercato e non alla società nel suo ben più ampio complesso. Viepiù oggi visto che la società che già di sua natura è un sistema complesso, si trova e sempre più si troverà a doversi adattare ad un inedito mondo complesso.
Producendo tra l’altro una precoce divisione classista tra licei professionali della periferia o dei piccoli centri ed i programmi più di cultura generale per i giovani dei quartieri del centro delle città medio-grandi. Ma l’argomento si amplia allo stato fatiscente di molti edifici scolastici, le politiche del trasporto, i bassi salari dei professori, il sovraffollamento, il modo di organizzare valutazioni ed esami, programmi sempre più orientati in favore di un certo modo di esser nel mondo, la destinazione dei fondi PNRR. Su tutte queste pregresse situazioni, si è abbattuta la pandemia e soprattutto i modi con i quali è stata gestita, tra DAD improvvisata e gestione confusa dei tracciamenti, esclusioni, quarantene e quant’altro. Su tutta questa somma dei fatti si sono infine abbattute le recenti manganellate della polizia.
Al consueto disagio ed incertezza giovanile della fase pre-adulta ed alla condizione sempre meno curata della scuola pubblica, negli ultimi anni si è abbattuta anche la consapevolezza che ormai non si sa più bene a cosa serva tutto ciò. Nel senso che, ne abbiano o meno fondata consapevolezza, i giovani avvertono che lo sbocco della vita non è pensato e debitamente organizzato. La disoccupazione giovanile in Italia, intorno al 30%, è il doppio della media europea sia versione euro, sia versione UE. Dovrebbe essere uno scandalo visto che sono i nostri figli, ma tale non è assunto nel dibattito pubblico.
Per altro, quelli che nelle statistiche compaiono tra gli occupati, hanno a che fare con precarietà endemica, salari letteralmente indecenti, rapporti e condizioni di lavoro obiettivamente insopportabili. E tali condizioni sono ormai endemiche, non si presentano solo di recente e per qualche anno iniziale del percorso di vita professionale, si protraggono a lungo ed in molti casi a lunghissimo. Con parimenti impossibilità di intraprendere percorsi adulti di vita autonoma, data l’endemica mancanza di alloggi a prezzi e condizioni praticabili. Ed è così da vari anni e pare vada sempre peggio mentre il mondo adulto parla di Next Generation, quasi che fare un titolo, magari in inglese, dia l’impressione di una cura ed attenzione che non c’è nel modo più assoluto.
Su tutto ciò, già grave di suo, va registrato il trauma pandemico, un trauma i cui risvolti psicologici e sociali sono ancora da indagare a fondo. Va ricordato a noi adulti, quali dovrebbero essere le condizioni di espressione della vita a quell’età. Espressioni che formano la socialità, la conoscenza, l’affettività, la personalità, il giudizio, la progettualità e la stessa energia vitale, l’identità e relativa intenzionalità.
L’altro giorno ho tenuto un intervento on line nell’ambito dei programmi di orientamento allo studio per classi dell’ultimo anno di liceo per un paio di cittadine delle Marche. La professoressa che organizzava gli incontri con le varie offerte formative universitarie mi dava un quadro piuttosto cupo della salute psichica dei ragazzi. Alcuni (e pare non pochi) vanno addirittura dallo psicologo come se ci fosse una “tecnica” per meglio adattarsi a questo contradditorio e desolante sfacelo, come se ci fosse una mancanza personale a sopportare queste pressioni che in primis uccidono il principio speranza. Gioventù senza speranza dovrebbe ritenersi un ossimoro in una cultura pubblica civile.
Altre generazioni hanno sofferto condizioni difficili, ma a differenza di queste che noi più anziani possiamo far risalire a racconti dei genitori sulla guerra o dopoguerra, quella dei giovani di oggi è una condizione silenziosa, non c’è rappresentazione pubblica, non c’è “mal comune mezzo gaudio”, come molte altre cose del nostro sbilenco modo di vivere anche il disagio è privatizzato. Sembra riguardi solo loro o meglio una parte di loro, coloro che non hanno famiglie ammanicate e capitalizzate e di tutto ciò non c’è visibilità e condivisione sociale. È un dramma silenzioso, una mancanza di speranza senza neanche il lamento. Non c’è neanche la minima attenzione politica e culturale visto che anche le scarse forze di opposizione sembrano magnetizzate da vaccini e permessi, distopie biopolitiche e le solite lagne sul neoliberismo ed il Grande Reset. Come se fossimo bravissimi a fare macro analisi di quadro e contesto sempre più mortificanti e paralizzanti ma si sia persa l’elementare scintilla alla ribellione, alla lotta, al darsi voce per pretendere attenzione e rimedio, a rendere il disagio pubblico e non privato.
Così volevo condividere la piccola luce di questo ancora incerto focherello, dargli almeno un po’ del mio fiato, sperando che altri venti a favore possano magari farlo diventare un piccolo punto di luce e calore in questo opprimente e grigio inverno del nostro scontento.
NB_Tratto da facebook

Presidenze d’Italia! Il tramonto interminabile di un ceto politico_con Antonio de Martini

Sei mesi di battage mediatico a coltivare aspettative di rinascita. Una rielezione di una figura dimessa tutta interna alla peggiore conservazione dell’esistente. La riconferma del Presidente della Repubblica in scadenza ha comunque dei meriti. Ha messo a nudo lo spessore di questa casta. Un vincitore apparente, il Partito Democratico. Ha cominciato la campagna a novembre con una proposta di legge che impedisse la rielezione del Presidente uscente; ha ottenuto la rielezione del suo Presidente opponendo semplicemente dinieghi alle varie rose di nomi proposte dallo schieramento di presunta maggioranza di centrodestra. Non ha dovuto faticare molto con un leader del centrodestra che aveva bisogno in primis di confermare a se stesso l’esistenza, ma che ha dimostrato ancora una volta di essere un pesce adescabile con qualsiasi esca. La figura chiave di questa farsa è stato Berlusconi, atteggiatosi a foglia di fico prima e cavalier servente dopo; disposto a liquidare anche la propria creatura. Sarebbe già sufficiente per chiudere il varco ad ogni speranza. C’è purtroppo di peggio. Ha rivelato non solo lo scarso acume delle nostre maggiori figure istituzionali, ma soprattutto la scarsa comprensione della postura e della funzione dei loro incarichi. Passi per la Casellati, visti i suoi antefatti; da Mario Draghi ci si sarebbe aspettati un aplomb più adatto alla veste. Figure le quali, evidentemente, lasciate sole a decidere, si rivelano pecorelle smarrite o elefanti nella cristalleria. Un bel problema da risolvere per chi è costretto ad allentare le briglie e volgere lo sguardo altrove. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

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Molecole della libertà per salvare l’Europa da se stessa, di americanenergyalliance

A cogliere lo spirito informatore dell’articolo in calce, gli Stati Uniti si propongono ancora una volta come i salvatori dell’Europa. Settanta anni fa dalla rivalità tra gli stati europei e dall’onta nazifascista; oggi più prosaicamente dalla penuria e dalla dipendenza energetica, in particolare di gas. In entrambe i casi “da se stessa”, dalle proprie colpe, dai propri errori. In politica, in particolare in geopolitica, anche i gesti più generosi serbano, il più delle volte nascondono sempre un aspetto utilitaristico. Stando alla lettera del titolo, l’articolista ha certamente ragione. Dubito che lo abbia nel merito di queste ragioni, se queste dovessero essere le ragioni dell’interesse dei paesi europei.

La precipitazione della crisi energetica, per altro non nuova negli ultimi cinquanta anni, è il frutto di diverse dinamiche che ormai si stanno accavallando ed intrecciando in un nodo gordiano inestricabile con “le buone maniere”.

  • da oltre dieci anni i paesi europei sono parte attiva di sanzioni sempre più pesanti nei confronti del loro principale fornitore energetico, la Russia, pagandone per altro il prezzo economico e politico più pesante. Non si comprende il motivo del disappunto nel momento in cui la Russia di Putin restituisca, per altro tardivamente, il favore con una parziale restrizione delle forniture energetiche e con la ricerca di nuovi partner economici della caratura di Cina e India;
  • da oltre venti anni tutti i paesi europei hanno alimentato l’estensione della NATO e della sua appendice dell’Unione Europea sino a ridosso della capitale russa fomentando guerre civili, disgregazione di stati (Jugoslavia), colpi di stato (Ucraina), spesso sostenendo personaggi, epigoni di fronde naziste talmente feroci da scandalizzare all’epoca gli stessi nazisti tedeschi. Alcuni paesi, in particolare la Germania, ne hanno tratto un qualche vantaggio economico e scarso vantaggio politico; altri ci hanno rimesso in tutti i sensi (Italia e Francia); altri ancora hanno soddisfatto la propria russofobia in cambio di una disgregazione sociale deprimente (Ucraina, Moldavia, Macedonia) agli antipodi delle aspettative vellicate dal mondo occidentale. Con la ciliegina sulla torta di una aperta discriminazione delle popolazioni russe rimaste intrappolate nell’implosione del blocco sovietico proprio nelle terre cosiddette paladine della difesa dei diritti umani. Il risultato è stato quello di spingere anche politicamente verso nuove sponde la classe dirigente russa attualmente dominante e la quasi totalità della popolazione;
  • da sempre l’Unione Europea, con la difesa dogmatica di un presunto virtuoso libero mercato, ha sempre più esposto la propria economia alla stagnazione, alla stasi tecnologica, alla dipendenza e subordinazione geoeconomica, alle oscillazioni nevrotiche di tipo speculativo. Nella fattispecie, il progressivo accantonamento della politica dei contratti di lunga durata richiesto dalla Russia in favore del mercato “hot spot” ha esposto ulteriormente l’Europa alle crisi speculative e alle incognite delle crisi geopolitiche e delle ritorsioni. Rimane, però, qualche dubbio sulla “oggettività” di quest’ultima dinamica. Un interrogativo, quindi, al quale dovrebbe rispondere il nostro governo, con a capo il campione dell’interesse nazionale di nome Mario Draghi: l’ENI, nostro pressoché monopolista importatore di gas, detiene ancora la maggior parte di contratti a lunga scadenza con prezzi fissati antecedenti all’esplosione di questo autunno. Gli aumenti registrati sono quindi ascrivibili in massima parte alle oscillazioni recenti o ad altri motivi? In mancanza di una risposta chiara ed esauriente saremo noi a cercarla altrove;
  • da circa cinquanta anni tutti i paesi europei hanno rinunciato ad una propria autonoma politica nel Mediterraneo allargato e in Medio Oriente, sacrificando in gran parte i propri successi in materia di individuazione e sfruttamento di giacimenti energetici a logiche geopolitiche ed economiche esterne. Da questo punto di vista l’ENI, pur resistendo, è stata una delle principali vittime di queste trame più impegnate ad alimentare le rivalità tra i polli (vedi Libia) che ad emanciparsi dal pollivendolo;
  • da circa dieci anni tutti i paesi europei raccolti nella UE, con l’Italia antesignana da cinquanta anni, sono stati artefici e vittime del proprio dogmatismo climatico-ambientalistico. Stanno spingendo verso una diffusione massiva e unilaterale tecnologie ancora premature, del quale non detengono nemmeno, in gran parte, le capacità tecnologiche ed industriali e affatto la disponibilità di materie prime; sacrificano così il principio saggio della diversificazione energetica di fonti e tecnologie e dei necessari tempi di transizione alla presunta superiorità morale di un diritto ed una regolamentazione del mercato avulsa dalla detenzione di un reale potere economico e politico; espongono così i paesi, in particolare quelli più accecati dal fervore catastrofista e per altro meno responsabili del degrado ambientale e del presunto degrado climatico, alle conseguenze nefaste del degrado territoriale locale, della speculazione finanziaria ed economica legata alle improvvise oscillazioni e ai tempi ristretti di transizione, della dipendenza geopolitica ed economica da materie prime, non solo più dagli idrocarburi.

Tutte dinamiche in mano a numerosi artefici, ma che in Europa hanno un solo determinante istigatore: i centri decisionali statunitensi, ben presenti ed influenti in tutti i campi di azione politica, economica e culturale dei paesi europei, a cominciare dalla NATO. Siamo proprio sicuri che gli stessi colossali incrementi di prezzo di gas e petrolio siano frutto esclusivo degli attriti più o meno alimentati ad arte con la Russia, quando invece interesse delle compagnie produttrici di gas e petrolio statunitense, sostenibile solo a prezzi particolarmente elevati?

E’ esattamente il non detto che informa l’articolo in calce. Sta di fatto che alle drammatizzazione dei rischi da dipendenza dai russi, corrisponderebbe una ulteriore dipendenza politica ed economica dei paesi europei dagli Stati Uniti e la possibilità da parte di questi ultimi di procrastinare la politica russofoba con minori vincoli economici che la annacquino. 

Il ceto politico e la classe dirigente italica, nella loro quasi totalità, sono i meno pervasi da questi salutari dubbi e i più pervasi da certezze codine. L’unica preoccupazione di tutte le forze politiche è attualmente quella di esprimere un Presidente della Repubblica che assecondi in ogni virgola le tentazioni americane, avventuriste e guerrafondaie, in Ucraina. Ricomporre immanente la diade di prostrazione all’ALLEATO è l’imperativo categorico

Persino la Croazia, paese presente con particolare discrezione in tutte le trame interventiste degli USA nel mondo, ha osato dichiarare esplicitamente il richiamo dei propri soldati dalla NATO in caso di conflitto in Ucraina.

I beoti italici ostentato una sicumera da stolti. Non hanno capito che i singoli paesi del pollaio europeo sono destinati ad essere sacrificati nel grande tavolo geopolitico presieduto da cinque/sei potenze in competizione. Se lo hanno compreso, sperano evidentemente di non essere loro i polli destinati al sacrificio o quantomeno di salvare dalla pentola qualche preziosa pentola. Sono purtroppo i primi ma non i soli in Europa.

Il loro orizzonte culturale non consente altro. Non tanto di uscire da un sistema di alleanze nefasto e controproducente, quanto nemmeno di approfittare di una condizione multipolare per contrattare una posizione più equilibrata e dignitosa nelle alleanze occidentali. Un idea di potenza e di autonomo interesse nazionale agli antipodi di un lirismo europeista sempre più cacofonico e grottesco nella sua impotenza e nel suo servilismo. “Arrivano i nostri”, ma senza nemmeno cioccolato e sigarette. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Molecole della libertà per salvare l’Europa da se stessa

Gli Stati Uniti sono diventati il ​​più grande esportatore di gas naturale liquefatto (GNL) nel dicembre 2021, superando Qatar e Australia, poiché i progetti hanno aumentato la produzione e le consegne sono aumentate in Europa per aiutare ad alleviare la crisi energetica lì. La produzione degli impianti di GNL degli Stati Uniti ha superato il Qatar a dicembre principalmente a causa dell’aumento delle esportazioni dagli impianti Sabine Pass e Freeport. Una rivoluzione del gas di scisto, insieme a decine di miliardi di dollari di investimenti in impianti di liquefazione, ha trasformato gli Stati Uniti da importatore netto di GNL a uno dei principali esportatori in meno di un decennio. La produzione di gas naturale negli Stati Uniti è aumentata di circa il  70% rispetto al 2010  dopo che una combinazione di perforazione orizzontale e fratturazione idraulica ha sbloccato le forniture dalle formazioni di scisto in tutto il paese.

Fonte: Bloomberg

Gli Stati Uniti hanno spedito il loro primo carico di GNL prodotto da gas di scisto nel 2016. Entro la fine del 2022, si prevede che gli Stati Uniti avranno la più grande capacità di esportazione del mondo. A quel punto, la capacità di produzione massima di GNL degli Stati Uniti raggiungerebbe i  13,9 miliardi di piedi cubi al giorno , superando di gran lunga sia l’Australia (11,4 miliardi di piedi cubi al giorno) che il Qatar (10,3 miliardi di piedi cubi al giorno). Ma, poiché ci vorrà del tempo prima che i nuovi progetti raggiungano la piena produzione, le esportazioni di GNL dagli Stati Uniti potrebbero essere inferiori alla capacità disponibile.

Fonte: VIA

Quando  Golden Pass LNG  sarà online nel 2024, che è attualmente in costruzione a Sabine Pass, in Texas, la capacità massima di esportazione di GNL degli Stati Uniti raggiungerà i  16,3 miliardi di piedi cubi al giorno , ovvero quasi il 20% dell’attuale fornitura di gas naturale degli Stati Uniti. Le autorità di regolamentazione federali hanno approvato altri 10 progetti di esportazione di GNL e ampliamenti di capacità nei terminal esistenti, tra cui Cameron, Freeport e Corpus Christi, per un totale di 25 miliardi di piedi cubi di nuova capacità. Il Qatar, tuttavia, sta pianificando un enorme progetto di esportazione di GNL che entrerà in vigore alla fine degli anni 2020, che potrebbe consolidare la nazione mediorientale come primo fornitore di carburante.

Gli Stati Uniti aiutano la crisi energetica dell’Europa

Le esportazioni di GNL degli Stati Uniti in Europa contribuiranno ad alleviare la crisi globale dell’offerta quest’inverno a causa delle scorte stagionali di gas naturale basse e della mancanza di risorse eoliche. Gli acquirenti d’oltremare hanno acquistato  il 13 per cento  della produzione di gas degli Stati Uniti a dicembre, un aumento di sette volte rispetto a cinque anni prima, quando la maggior parte delle infrastrutture necessarie per spedire il carburante non esisteva.

Alla fine di dicembre, il gas naturale nell’Europa nordoccidentale veniva scambiato a circa  $ 57,54 per milione di unità termiche britanniche, quasi un terzo in più rispetto alla settimana prima, ovvero circa $ 24 in più rispetto ai prezzi asiatici e oltre  14 volte in più  rispetto al gas naturale venduto negli Stati Uniti punto di riferimento Henry Hub.

Fonte: Bloomberg

Su 76 carichi di GNL statunitensi in transito,  10 navi cisterna  che trasportano un totale di 1,6 milioni di metri cubi di GNL hanno dichiarato destinazioni in Europa. Altre 20 petroliere che trasportano circa 3,3 milioni di metri cubi stanno attraversando l’Oceano Atlantico e sono in rotta verso il continente. Quasi un terzo dei carichi proviene dal terminal di esportazione Sabine Pass LNG di Cheniere Energy Inc. in Louisiana. La notizia della flottiglia ha fatto scendere il gas di riferimento olandese del mese anteriore del mese di Amsterdam del 18 per cento a  141 euro  (159 dollari) ad Amsterdam. I contratti di elettricità francesi sono diminuiti del 24% a 775 euro ($ 875) per megawattora e l’elettricità tedesca è scesa del 15% a 277 euro ($ 313) per megawattora. Mentre lo spread è diminuito, il gas naturale europeo è equivalente a un  prezzo di $ 273 per un barile di petrolio.

Fonte: ZeroHedge

Conclusione

I terminali di esportazione di GNL degli Stati Uniti stanno operando a capacità o superiore dopo aver raggiunto flussi record e hanno conquistato il primo posto nella classifica delle esportazioni di GNL il mese scorso, superando Qatar e Australia. Mentre l’Asia è in genere la destinazione principale per i carichi di GNL degli Stati Uniti, la crisi energetica dell’Europa quest’inverno causata da forniture insufficienti di gas naturale e scarse risorse eoliche e il suo premio significativo per il gas naturale ha portato a una flottiglia di navi cisterna con GNL statunitense diretti agli impianti europei. Mentre gli Stati Uniti hanno in linea una capacità aggiuntiva di GNL, si prevede che anche il Qatar aggiungerà nuova capacità entro la fine del decennio e potrebbe riprendersi la sua posizione di numero uno. Il successo dello shale gas nei mercati mondiali è una testimonianza dell’enorme ricchezza e competenza energetica delle persone dell’industria petrolifera e del gas statunitense che operano in un mercato libero.

https://www.americanenergyalliance.org/2022/01/freedom-molecules-to-save-europe-from-itself/

Draghi sarà il Presidente della Repubblica? a cura di Luigi Longo

Draghi sarà il Presidente della Repubblica?

a cura di Luigi Longo

1.E’ opportuno, in occasione della elezione del Presidente della Repubblica, rileggere l’intervento di Mario Draghi fatto sullo yacht Britannia il 2 giugno 1992 sul progetto di privatizzazione iperliberista in Italia (l’intervento è ripreso dal sito www.ilfattoquotidiano.it del 22/1/2020 e la divisione in paragrafi è mia). Per inciso, fa ridere la boutade apparsa sui mass media che narra di Mario Draghi allievo del grande keinesiano Federico Caffè (della serie “la situazione è drammatica ma non è seria”!).

L’opportunità è data dal fatto che Mario Draghi rappresenterebbe per i pre-dominanti USA e i sub-dominanti europei il Presidente della Repubblica ideale per garantire non solo la totale servitù italiana verso le strategie statunitensi in Italia, in Europa, nel Mediterraneo e nel Medio Oriente (così come è stato per tutti i precedenti presidenti), ma anche la garanzia del controllo dei Fondi Europei del PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) e del debito pubblico, che, per essere chiari, nulla hanno a che fare con lo sviluppo del Paese e per il benessere della maggioranza della popolazione [ si veda la proposta del duo Draghi-Macron di creare una Agenzia del debito dell’Eurozona cedendo i debiti al MES (Meccanismo Europeo di Stabilità) che imporrebbe una forte riduzione del debito pubblico con tagli drastici sulle spese sociali, per approfondimenti si rimanda a Fabio Bonciani, Il piano Draghi-Macron per cedere i debiti al MES: come trasformare dei numeri in debiti in www.comedonchisciotte.org del 17/1/2022].

Per una riflessione sul ruolo del Presidente della Repubblica ripropongo un mio scritto, apparso su www.Italiaeilmondo.com il 4/9/2018, con il titolo Le istituzioni e il conflitto che introduce una stimolante lettura di Marco Della Luna sulla costituzione del Quirinale.

2.Sono scettico sul fatto che Mario Draghi possa diventare il Presidente della Repubblica per le seguenti ragioni:

la prima: la sua elezione a Presidente comporterebbe, visto il ruolo di garante che dovrà svolgere e considerata la fase storica multicentrica, la formale transizione da una Repubblica democratica ad una Repubblica presidenziale, cioè, l’adeguamento, in pratica, della forma alla sostanza. Trovo arduo, se non impossibile, tale passaggio istituzionale, sia osservando il panorama politico, economico e sociale, sia considerando ed evidenziando che Mario Draghi è un agente strategico esecutore incapace di pensare, né tantomeno di gestire, strategie di sviluppo del Paese;

la seconda: il suo potere esecutivo (mostrato con la faccia gaberiana scolpita nella pietra che con grande autorevolezza spara cazzate) da Presidente del Consiglio, gli permette di eseguire meglio, attraverso lo strumento della pseudo pandemia da Covid-19 (sulla pseudo pandemia si veda Massimo Cascone, intervista a Stefano Dumontet, Morti, vaccini e speculazioni economiche, parte 1 e 2, www.comedonchisciotte.org, del 20/1/2022 e 21/1/2022), le strategie dei pre-dominanti USA (il dominio sull’Europa attraverso la Nato essendo il progetto statunitense dell’Unione Europea esaurito) e dei sub-dominanti europei che occupano spazi istituzionali di potere usando gli strumenti finanziari, monetari, economici, culturali, mediatici e giudiziari per gestire e appropriarsi della ricchezza prodotta dai popoli europei (gestione dei fondi europei, pagamento del debito pubblico, erosione del risparmio privato e delle riserve auree).

E’ sempre utile ricordare che l’Europa non è un soggetto politico e quindi non può esprimere un’idea di sviluppo autonomo in relazione all’Occidente e all’Oriente, avendo da tempo perso ogni identità e peculiarità travolta da un processo di americanizzazione dei territori giunto a saturazione come conseguenza di una grave crisi di civiltà occidentale.

3. Un uomo di potere come Francesco Cossiga, che si divertiva a fottere il potere sempre sotto l’ordine statunitense (Francesco Cossiga con Andrea Cangini, Fotti il potere. Gli arcana della politica e dell’umana natura, Aliberti editore, Roma, 2010), aveva avvisato che “Non si può nominare primo ministro [Mario Draghi, mia precisazione LL] chi è stato socio o lavora per la Goldman Sachs, grande banca di affari americana […] Un vile affarista. E’ il liquidatore, dopo la famosa crociera sul Britannia, della svendita dell’industria pubblica italiana, quando era direttore generale del Tesoro. E immagina cosa farebbe se fosse eletto presidente del consiglio dei ministri. Svenderebbe tutto ciò che rimane ai suoi comparuzzi della Goldman Sachs”.

Il ruolo di Mario Draghi è quello di eseguire le strategie pre-dominanti statunitensi e sub-dominanti europee; per la sua storia, per le funzioni svolte a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, è illuminante, per questo è un pericolo per gli interessi nazionali e le sue articolazioni sociali

Nella corruzione di questo mondo, la mano dorata del delitto può scansare la giustizia, e si vede spesso la legge farsi accaparrare dalla sua preda […] La consuetudine, quel mostro che ogni sensibilità consuma, il demonio delle abitudini, è però anche angelo, quando con lo stesso viso veste di livrea le azioni buone e le malvage, vestito che s’indossa con facilità estrema […] L’abitudine può cambiare lo stampo della natura e domare il diavolo o cacciarlo del tutto, con forza meravigliosa (Shakespeare, Amleto, Mondadori, Milano, 1988, pp.177 e 193).

IL DISCORSO DI MARIO DRAGHI

Privatizzazioni inevitabili, ma da regolare con leggi ad hoc”: il discorso del 1992 (ma attualissimo) di Mario Draghi sul Britannia

Pubblichiamo il discorso di Mario Draghi, allora direttore generale del Tesoro, alla Conferenza sulle Privatizzazioni tenutasi sullo yacht Britannia, del 2 giugno 1992: l’ex presidente della Bce parlò della vendita delle azioni pubbliche. Un processo con cui, 28 anni dopo, l’Italia fa i conti. Nelle sue parole i mercati come strada per la crescita, la fine del controllo politico, l’idea di public company, ma anche i tanti rischi: “Sarà più difficile gestire la disoccupazione. Non c’è una Thatcher – disse – servono strumenti per ridurre i senza lavoro e i divari regionali. Andranno tutelati gli azionisti di minoranza”. E ancora: “Questo processo lo richiede Maastricht, facciamolo prima noi. Ma va deciso da un esecutivo forte e stabile. Ridurremo il debito”.

La servitù del debito pubblico

Signore e signori, cari amici, desidero anzitutto congratularmi con l’Ambasciata Britannica e gli Invisibili Britannici per la loro superba ospitalità. Tenere questo incontro su questa nave è di per sé un esempio di privatizzazione di un fantastico bene pubblico. Durante gli ultimi quindici mesi, molto è stato detto sulla privatizzazione dell’economia italiana. Alcuni progressi sono stati fatti, nel promuovere la vendita di alcune banche possedute dallo Stato ad altre istituzioni cripto-pubbliche, e per questo la maggior parte del merito va a Guido Carli, ministro del Tesoro. Ma, per quanto riguarda le vendite reali delle maggiori aziende pubbliche al settore privato, è stato fatto poco.

Non deve sorprendere, perché un’ampia privatizzazione è una grande – direi straordinaria – decisione politica, che scuote le fondamenta dell’ordine socio-economico, riscrive confini tra pubblico e privato che non sono stati messi in discussione per quasi cinquant’anni, induce un ampio processo di deregolamentazione, indebolisce un sistema economico in cui i sussidi alle famiglie e alle imprese hanno ancora un ruolo importante. In altre parole, la decisione sulla privatizzazione è un’importante decisione politica che va oltre le decisioni sui singoli enti da privatizzare. Pertanto, può essere presa solo da un esecutivo che ha ricevuto un mandato preciso e stabile.
Altri oratori parleranno dello stato dell’arte in quest’area: dove siamo ora da un punto di vista normativo, e quali possono essere i prossimi passaggi. Una breve panoramica della visione del Tesoro sui principali effetti delle privatizzazioni può aiutare a comunicare la nostra strategia nei prossimi mesi. Primo: privatizzazioni e bilancio. La privatizzazione è stata originariamente introdotta come un modo per ridurre il deficit di bilancio. Più tardi abbiamo compreso, e l’abbiamo scritto nel nostro ultimo rapporto quadrimestrale, che la privatizzazione non può essere vista come sostituto del consolidamento fiscale, esattamente come una vendita di asset per un’impresa privata non può essere vista come un modo per ridurre le perdite annuali. Gli incassi delle privatizzazioni dovrebbero andare alla riduzione del debito, non alla riduzione del deficit.

I debiti da pagare

Quando un governo vende un asset profittevole, perde tutti i dividendi futuri, ma può ridurre il suo debito complessivo e il servizio del debito. Quindi, la privatizzazione cambia il profilo temporale degli attivi e dei passivi, ma non può essere presentata come una riduzione del deficit, solo come il suo finanziamento. (Questo fatto, nella visione del Tesoro, ha alcune implicazioni che vedremo in un secondo momento). Le conseguenze politiche di questa visione sono due. Dal punto di vista della finanza pubblica, il consolidamento fiscale da mettere a bilancio per l’anno 1993 e i successivi non dovrebbe includere direttamente nessun ricavo dalle privatizzazioni. Nel contempo, dovremmo avviare un piano di riduzione del debito con gli incassi dalle privatizzazioni. Ciò implicherà più enfasi del Tesoro sulle implicazioni economiche complessive delle privatizzazioni e sull’obiettivo ultimo di ricostruire gli incentivi per il settore privato.

La centralizzazione della ricchezza finanziaria

Secondo: privatizzazioni e mercati finanziari. La privatizzazione implica un cambiamento nella composizione della ricchezza finanziaria privata dal debito pubblico alle azioni. L’effetto di riduzione del debito pubblico può implicare una discesa dei tassi di interesse. Ma l’impatto sui mercati finanziari può essere molto più importante, quando vediamo che la quantità di ricchezza privata in forma di azioni è piccola in relazione alla ricchezza privata totale e che con le privatizzazioni può aumentare in modo significativo. In altre parole, i mercati finanziari italiani sono piccoli perché sono istituzionalmente piccoli, ma anche perché – forse in modo connesso – gli investitori italiani vogliono che siano piccoli. Le privatizzazioni porteranno molte nuove azioni in questi mercati. L’implicazione politica è che dovremmo vedere le privatizzazioni come un’opportunità per approvare leggi e generare cambiamenti istituzionali per potenziare l’efficienza e le dimensioni dei nostri mercati finanziari.

La crescita selvaggia del mercato

Tre: privatizzazioni e crescita. (In molti casi) vediamo le privatizzazioni come uno strumento per aumentare la crescita. Nella maggior parte dei casi la privatizzazione porterà a un aumento della produttività, con una gestione migliore o più indipendente, e a una struttura più competitiva del mercato. La privatizzazione quindi potrebbe parzialmente compensare i possibili – ma non certi – effetti di breve termine di contrazione fiscale necessaria per un bilancio più equilibrato. In alcuni casi, per trarre beneficio dai vantaggi di un aumento della concorrenza derivante dalla privatizzazione, potrebbe essere necessaria un’ampia deregolamentazione. Questo processo, se da una parte diminuisce le inefficienze e le rendite delle imprese pubbliche, dall’altra parte indebolisce la capacità del governo di perseguire alcuni obiettivi non di mercato, come la riduzione della disoccupazione e la promozione dello sviluppo regionale. Tuttavia, consideriamo questo processo – privatizzazione accompagnata da deregolamentazione – inevitabile perché innescato dall’aumento dell’integrazione europea. L’Italia può promuoverlo da sé, oppure essere obbligata dalla legislazione europea. Noi preferiamo la prima strada.

La mancanza di una strategia di sviluppo nazionale

Le implicazioni di policy sono che: a) un grande rilievo verrà dato all’analisi della struttura industriale che emergerà dopo le privatizzazioni, e soprattutto a capire se assicurino prezzi più bassi e una migliore qualità dei servizi prodotti; b) nei casi rilevanti la deregolamentazione dovrà accompagnare la decisione di privatizzare, e un’attenzione speciale sarà data ai requisiti delle norme comunitarie; c) dovranno essere trovati mezzi alternativi per perseguire obiettivi non di mercato, quando saranno considerati essenziali. Quarto: privatizzazioni e depoliticizzazione. Un ultimo aspetto attraente della privatizzazione è che è percepita come uno strumento per limitare l’interferenza politica nella gestione quotidiana delle aziende pubbliche. Questo è certamente vero e sbarazzarsi di questo fenomeno è un obiettivo lodevole. Tuttavia, dobbiamo essere certi che dopo le privatizzazioni non affronteremo lo stesso problema, col proprietario privato che interferisce nella gestione ordinaria dell’impresa. Qui l’implicazione politica immediata è l’esigenza di accompagnare la privatizzazione con una legislazione in grado di proteggere gli azionisti di minoranza e di tracciare linee chiare di separazione tra gli azionisti di controllo e il management, tra decisioni societarie ordinarie e straordinarie.

La svendita totale del Paese

A cosa dobbiamo fare attenzione, per valutare la forza del mandato politico di un governo che voglia veramente privatizzare? Primo, occorre una chiara decisione politica su quello che deve essere considerato un settore strategico. Non importa quanto questo concetto possa essere sfuggente, è comunque il prerequisito per muoversi senza incertezze. Secondo, visto che non c’è una Thatcher alle viste in Italia, dobbiamo considerare un insieme di disposizioni sui possibili effetti delle privatizzazioni sulla disoccupazione (se essa dovesse aumentare come effetto della ricerca dell’efficienza), sulla possibile concentrazione di mercato, e sulla discriminazione dei prezzi (quest’ultima in particolare per la privatizzazione delle utility). Terzo, occorre superare i problemi normativi. Un esempio importante: le banche, che secondo la legislazione antitrust (l. 287/91) non possono essere acquisite da imprese industriali, ma solo da altre banche, da istituzioni finanziarie non bancarie (Sim, fondi pensione, fondi comuni di investimento, imprese finanziarie), da compagnie assicurative e da individui che non siano imprenditori professionisti. In pratica, siccome in Italia non ci sono virtualmente grandi banche private, gli unici possibili acquirenti tra gli investitori domestici sono le assicurazioni o i singoli individui. Una limitazione molto stringente.

La strategia del Trattato di Maastricht

In ordine logico, non necessariamente temporale, tutti questi passaggi dovrebbero avvenire prima del collocamento. In quel momento, affronteremo la sfida più importante: considerando che una vasta parte delle azioni sarà offerta, almeno inizialmente, agli investitori domestici, come facciamo spazio per questi asset nei loro portafogli? Qui giunge in tutta la sua importanza la necessità che le privatizzazioni siano a complemento di un piano credibile di riduzione del deficit, soprattutto per ridurre la creazione di debito pubblico. Solo se abbiamo successo nel compito di ridurre “continuamente e sostanziosamente” il nostro rapporto tra debito e Pil, come richiesto dal Trattato di Maastricht, troveremo spazio nei portafogli degli investitori. Allo stesso tempo, l’assorbimento di queste nuove azioni può essere accelerato dall’aumento dell’efficienza del nostro mercato azionario e dall’allargamento dello spettro degli intermediari finanziari. Qui il pensiero va subito alla creazione di fondi pensione ma, di nuovo, i fondi pensione sono alimentati dal risparmio privato che da ultimo deve essere accompagnato dal sistema di sicurezza sociale nazionale verso i fondi pensione. Ma un ammanco dei contributi di sicurezza sociale allo schema nazionale implicherebbe di per sé un deficit più elevato. Questo ci porta a una conclusione di policy sui fondi pensione: possono essere creati su una base veramente ampia solo se il sistema nazionale di sicurezza sociale è riformato nella direzione di un sistema meglio finanziato o più equilibrato rispetto a quello odierno.

Il disegno complessivo del disastro

Questa presentazione non era fatta per rispondere alla domanda su quanto possa essere veloce il processo di privatizzazioni – non è il momento giusto per affrontare il tema. L’obiettivo era fornirvi una lista delle cose da considerare per valutare la solidità del processo. La conclusione generale è che la privatizzazione è una delle poche riforme nella vita di un paese che ha assolutamente bisogno del contesto macroeconomico giusto per avere successo. Lasciatemi sottolineare ancora che non dobbiamo fare prima le principali riforme e poi le privatizzazioni. Dovremmo realizzarle insieme. Di certo, non possiamo avere le privatizzazioni senza una politica fiscale credibile, che – ne siamo certi – sarà parte di ogni futuro programma di governo, perché l’aderenza al Trattato di Maastricht sarà parte di ogni programma di governo.

La logica dei mercati

Lasciatemi concludere spiegando, nella visione del Tesoro, la principale ragione tecnica – possono esserci altre ragioni, legate alla visione personale dell’oratore, che vi risparmio – per cui questo processo decollerà. La ragione è questa: i mercati vedono le privatizzazioni in Italia come la cartina di tornasole della dipendenza del nostro governo dai mercati stessi, dal loro buon funzionamento come principale strada per riportare la crescita. Poiché le privatizzazioni sono così cruciali nello sforzo riformatore del Paese, i mercati le vedono come il test di credibilità del nostro sforzo di consolidamento fiscale. E i mercati sono pronti a ricompensare l’Italia, come hanno fatto in altre occasioni, per l’azione in questa direzione. I benefici indiretti delle privatizzazioni, in termini di accresciuta credibilità delle nostre politiche, sono secondo noi così significativi da giocare un ruolo fondamentale nel ridurre in modo considerevole il costo dell’aggiustamento fiscale che ci attende nei prossimi cinque anni.

 

LE ISTITUZIONI E IL CONFLITTO

a cura di Luigi Longo

Suggerisco la lettura dell’articolo di Marco Della Luna, “Come prevenire un nuovo Euro-golpe” apparso sul sito www.marcodellaluna.info il 29 agosto 2018.

La sua lettura è stimolante perché evidenzia come le istituzioni sono luoghi di conflitto e di gestione del potere (degli agenti strategici sub-dominanti europei) e del dominio (degli agenti strategici pre-dominanti statunitensi).

Bisogna uscire dal campo delle istituzioni come luoghi di interesse generale, come luoghi neutrali dove si curano l’interesse della popolazione e di una nazione; occorre, invece, mettersi nel campo delle istituzioni come parti integranti del conflitto che attraversa la vita sociale di una nazione (con le sue forme di organizzazioni storicamente date) che è inserita nelle relazioni internazionali e nelle dinamiche di conflitto tra le nazioni-potenze che si configurano nelle diverse fasi storiche per il dominio mondiale.

COME PREVENIRE UN NUOVO EURO-GOLPE

di Marco Della Luna

Perché il Quirinale non può contenere il Presidente degli Italiani

Nell’estate del 2018 parecchi editorialisti stanno a congetturare sui possibili modi in cui, probabilmente, per abbattere il governo sovranista e rimetterne su uno europeista e immigrazionista, nel prossimo autunno, in tempo di legge di bilancio, verrà orchestrato un colpo di Stato dai soliti “mercati”, dal duo franco-tedesco, assieme alla BCE, ai “sorosiani”, ai magistrati “progressisti”.

Già i mass media pre-legittimano tale colpo di stato, come lo pre-legittimavano nel 2011, ripetendo a josa il concetto che il pericolo è il sovranismo e l’euroscetticismo, che lo scopo è come vincerli salvando l’integrazione europea, e tacendo completamente sui meccanismi e gli squilibri europei che danneggiano l’Italia a vantaggio di Germania e Francia soprattutto. Si comportano come sicuri che il golpe si farà.

Anche grazie a tali, ricorrenti campagne propagandistiche, l’idea del colpo di Stato degli interessi stranieri col tradimento del Quirinale in loro favore è oramai sentita come qualcosa di rientrante nell’ordine delle cose, di non sorprendente né, in fondo, scandaloso.

In particolare, è chiaro che il Quirinale (la cui cooperazione è indispensabile a un golpe politico, avendo esso la funzione di delegittimare il governo legittimo e legittimare quello illegittimo) è una sorta di rappresentante degli interessi e della volontà delle potenze straniere dominanti sull’Italia; e che la sua forza politica, la sua temibilità e la sua inattaccabilità derivano dal rappresentare esse, non certo dalle caratteristiche personali dei suoi inquilini. Il Quirinale è stato concepito e costruito, nella Costituzione italiana del 1948, al fine di far passare come alto giudizio e indirizzo della più alta Autorità nazionale quelle che invece sono imposizioni di interessi stranieri.

Dico “il Quirinale” e non “il Presidente della Repubblica” perché intendo proprio il Palazzo, come istituzione e ruolo nei rapporti gerarchici tra gli Stati, e non la persona fisica che lo occupa volta dopo volta. L’Italia è uscita dalla 2a Guerra Mondiale non solo sconfitta, ma con una resa incondizionata agli Alleati, e ha così accettato un ruolo subordinato agli interessi dei vincenti, incominciando dalla politica estera, per continuare con quella monetaria e bancaria. Il Quirinale è, costituzionalmente e storicamente, l’organo che ha assicurato la sua obbedienza e il suo allineamento nei molti cambiamenti di governi e maggioranze (corsivo mio, LL)

Certo, rispetto al golpe del 2011, la situazione oggi è diversa, per diverse ragioni:

-perché allora la maggioranza degli italiani voleva cacciare Berlusconi e credeva che cacciarlo avrebbe apportato legalità e progresso, mentre l’attuale governo gode del gradimento di un’ampia maggioranza della popolazione, sicché per rovesciarlo servirebbe molta più violenza di quella bastata nel 2011, oppure bisognerebbe dividere la maggioranza;

-perché da allora la gente ha capito qualcosa dall’esperienza dei governi napolitanici;

-perché Berlusconi non aveva gli appoggi di Washington e Mosca, né un piano B per il caso di rottura con l’UE;

-perché rispetto al 2011 l’eurocrazia ha perso credibilità e forza; perché essa teme le vicine elezioni europee e non può permettersi nuovi soprusi.

Come agire per prevenire un nuovo golpe, dopo tali premesse?

Suggerisco di spiegare alla popolazione il suddescritto ruolo storico e costituzionale del Quirinale, il suo ruolo di garante obbligato di interessi di potenze straniere vincitrici e sopraordinate, spesso in danno agli Italiani. Un ruolo non colpevole proprio perché obbligato, ma che in ogni caso priva il Quirinale della qualità di rappresentante degli Italiani e della autorevolezza, della quasi-sacralità che questa qualità gli conferirebbe. Il Quirinale è piuttosto una controparte dell’Italia.

Già il far entrare questa consapevolezza e questi concetti nella mente e nel dialogo dell’opinione pubblica può indebolire quel potere improprio e nocivo del Quirinale che gli consente di delegittimare i legittimi rappresentanti del popolo, sebbene esso non sia eletto dal popolo ma dalla partitocrazia, e di legittimare la loro illegittima sostituzione; quindi può aiutare la prevenzione di nuovi colpi di palazzo.

Nel tempo, si potrà pensare anche a una riforma nel senso del cancellierato, che dia più potere sul governo al premier, contenendo i poteri politici del Capo dello Stato e il fondo annuo di oltre un miliardo l’anno che egli gestisce – più della Regina Elisabetta; nonché a convertire il palazzo del Quirinale in un museo, trasferendo la sede della presidenza della Repubblica in un luogo dall’aria meno dominante e adatta alle nuove e ridotte competenze.

 

POMBALINA-E-GIOCO-DELLE-PERLE-DI-VETRO-1, di Massimo Morigi

Massimo Morigi
ANCORA IN AVVICINAMENTO AL NUOVO GIOCO DELLE
PERLE DI VETRO DEL REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO:
POMBALINA ET INACTUALIA ARCHEOLOGICA

PARTE PRIMA
Dopo la pubblicazione sull’ “Italia e il Mondo” del saggio sulla dialettica prassistica
dell’epigenetica e della sintesi evoluzionistica estesa intitolato Epigenetica, Teoria
endosimbiotica, Sintesi evoluzionista moderna, Sintesi evoluzionistica estesa
efantasmagorie transumaniste. Breve commento introduttivo, glosse al Dialectical
Biologist di Richard Levins e Richard Lewontin, su Lynn Margulis, su Donna Haraway e
materiali di studio strategici per la teoria della filosofia della prassi olisticodialetticaespressiva-strategica-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico e dopo la
recentissima pubblicazione sempre sull’ “Italia e il Mondo” sotto la Leitbild di
Federico II il Grande re di Prussia dell’inattuale La Loggia Dante Alighieri nella storia
della Romagna e di Ravenna nel 140° anniversario della sua fondazione (1863-2003) (la
prima parte all’URL http://italiaeilmondo.com/2022/01/09/massimo-morigi-la-loggia-dantealighieri-nella-storia-della-romagna-e-di-ravenna-nel-140-anniversario-della-sua-fondazione1863-2003-_________-i-parte/, Wayback Machine:
https://web.archive.org/web/20220110075018/http://italiaeilmondo.com/2022/01/09/massimomorigi-la-loggia-dante-alighieri-nella-storia-della-romagna-e-di-ravenna-nel-140-anniversario-della-sua-fondazione-1863-2003-_________-i-parte/; la seconda all’URL
http://italiaeilmondo.com/2022/01/11/massimo-morigi-la-loggia-dante-alighieri-nella-storiadella-romagna-e-di-ravenna-nel-140-anniversario-della-sua-fondazione-1863-2003-ii-parte/, Wayback Machine:
https://web.archive.org/web/20220111161456/http://italiaeilmondo.com/2022/01/11/massimomorigi-la-loggia-dante-alighieri-nella-storia-della-romagna-e-di-ravenna-nel-140-anniversario-della-sua-fondazione-1863-2003-ii-parte/ ho ritenuto presentare ai
lettori del blog alcune riflessioni se si vuole ancora più inattuali ed attinenti il
Repubblicanesimo Geopolitico solo in Statu nascenti ed inseribili in questo contesto
interpretativo ma solo in prospettiva archeologica, quattro scritti ed interventi
pubblicati o presentati in sede seminariale in Portogallo che hanno precorso,
attraverso una prima riflessione sul repubblicanesimo, sull’estetizzazione della politica
e sulla conflittualità sociale, le attuali conclusioni, anch’esse inattuali ça va sans dire,
cui è giunto il Repubblicanesimo Geopolitico, informate al paradigma olisticodialettico-espressivo-strategico-conflittuale e appunto giunte a piena maturità – o
involuzione, chi può dirlo? – nel summenzionato saggio sulla dialettica storica e
biologica. Come suggerisce il titolo, queste fonti a stampa sono state per la maggior
parte edite dalla casa editrice Pombalina dell’Università di Coimbra oppure hanno
avuto comunque un editore portoghese (anche se sul Web, oltre a questa immissione
dei documenti in questione da parte dei “portoghesi”, esiste, di queste precursioni
inattuali del Repubblicanesimo Geopolitico, pure un’edizione dello scrivente immessa
direttamente dallo stesso sul Web: si tratta di Repvblicanismvs Geopoliticvs Fontes
Origines et Via, all’URL di Internet Archive
https://archive.org/details/RepvblicanismvsGeopoliticvsFontesOriginesEtViaMassimo, un’antologia di interventi sul Repubblicanesimo Geopolitico,
comprendente anche parte dei documenti presenti in questa antologia e con contenuti
anche multimediali) e riguardano o una prima ricognizione sul concetto di
‘Repubblicanesimo’ e come questo possa venire machiavellianamente in contatto con
la conflittualità sociale e l’estetizzazione della politica e come quest’ultima venga
utilizzata dai regimi totalitari di massa del Novecento. Come Leitbild si è pensato di
ricorrere ai Due amanti di Giulio Romano. Scelta apparentemente avulsa dal discorso
delle precursioni e delle inattualità. A ben vedere non troppo se si consideri il profondo
legame dialettico fra queste quattro riflessioni e la filosofia della prassi espressa dal
saggio Epigenetica, Teoria endosimbiotica, Sintesi evoluzionista moderna, Sintesi
evoluzionistica estesa e fantasmagorie transumaniste (ed anche visto l’attuale degrado
politico-filosofico, civile e culturale che in questi tempi di pandemie virali ma anche
psichiche, con ciò intendendo non solo l’irrazionale paura della morte causa morbo ma
l’altrettanto irrazionale terrore antivaccinista – entrambe le angosce frutto della
superstizione, del fideismo e dell’anomia caratteristici delle c.d. moderne democrazie
rappresentative, un degrado la cui succitata Leitbild costituisce il più dialetttico ed
ironico controveleno). E oltre non vado perché una corretta dialettica ha sempre
implicato una creativa e penetrante attività da parte di tutti i soggetti coinvolti.
Perché, si spera e si pensa, Gentile e Gramsci non hanno certo predicato (e sofferto e
pagato) invano, e soprattutto, inattualmente. Il nuovo gioco delle perle di vetro, lo
sappiamo, disdegna la cronaca e si compiace di accostamenti (apparentemente)
inusitati per le superstiziose, anomiche, fideistiche e degradate masse dei sopraddetti
regimi “democratici”.
Massimo Morigi – Ravenna, inizio anno 2022
Massimo Morigi, Aesthetica fascistica II. Tradizionalismo e modernismo sotto l’ombra del
fascio (comunicazione inviata al convegno “IV Colloquio Tradição e modernidade no mundo
Iberoamericano – Coimbra 1, 2, 3 de outubro de 2007”), in “Estudo do Século XX”, N° 8,
Coimbra, Centro de Estudos Interdisplinares do Século XX de Coimbra – CEIS20, 2008, pp.
119-133. URL dal quale si può scaricare la rivista dal quale proviene l’estratto:
https://www.uc.pt/iii/ceis20/Publicacoes/revistas/revista_8, Wayback Machine:
https://web.archive.org/web/20201114222139/https://www.uc.pt/iii/ceis20/Publicacoes/revistas/revista_8. Inoltre in regime di autopubblicazione sulla piattaforma Internet
Archive e col titolo di GESAMTKVNSTWERK RES PVBLICA la comunicazione è visionabile e
scaricabile agli URL https://archive.org/details/GesamtkvnstwerkResPvblica e
https://ia801704.us.archive.org/2/items/GesamtkvnstwerkResPvblica/GesamtkvnstwerkResPvblica.pdf

Qui sotto il link con il testo della I parte:

POMBALINA E GIOCO DELLE PERLE DI VETRO 1

 

FASCISMI VECCHI E NUOVI, di Antonio de Martini

FASCISMI VECCHI E NUOVI
Talleyrand, commentando la fucilazione del duca d’Enghien, spiegò che era più grave di un delitto: era un errore.
Sono d’accordo e invece di soffermarmi sui delitti del fascismo ( lo fanno ormai anche i fascisti), mi soffermerò sul suo errore: il disprezzo del consenso.
Non parlo, ovviamente, della ricerca del consenso a tutti i costi, sport favorito delle mezze tacche, ma del consenzo che nasce dal confronto che forma la volontà generale.
Il fascismo trasformò i comizi in riti, i giornali di opposizione, chiusero, fu creata l’EIAR, la radio che diffondeva il pensiero unico del capo e l’Agenzia Stefani che “notiziava” il popolo d’Italia.
Tutti presidiati da fidi omuncoli con l’obbiettivo di rendere impossibile qualsiasi alternativa.
La logica conseguenza fu la creazione disorganica e spontanea di una cultura divergente che guardava al passato ( la monarchia) o al futuro ( un nebbioso utopico socialismo).
Questa considerazione affiora alla mente, vedendo più che ascoltando, la diffusione televisiva del trentottesimo “discorso di addio” di Sergio Mattarella mentre la popolazione era ancora scioccata dai catastrofici aumenti delle utenze più indispensabili al vivere.
Il disprezzo degli italiani che costui millanta di aver servito, traspare dall’aver parlato solo bene di sè, col pretesto di fare l’identikit del prossimo presidente; con platee plaudenti a successi economici, salutistici e morali che abbiamo visto…
Ha portato avanti unicamente l’argomento della sua successione usando disinvoltamente persino la citazione di un pensionato deceduto – suprema gaffe- a causa di un esplosivo difetto nella fornitura di gas aumentato del 55% mentre la sua pensione – se fosse vissuto – avrebbe avuto un incremento dell’1,5%.
Cambiamenti dai tempi di “ Duce dacci la luce” ne abbiamo avuti e non solo nelle insegne dei tabaccai come insinuò quel disfattista di Salvemini.
L’EIAR ora ha invertito l’acronimo e si chiama RAI; la STEFANI si chiama ANSA, i giornali invece di assaltarli vengono riempiti di denari dalla presidenza del Consiglio di cui dovrebbero essere i controllori.
Questa riciclata fabbrica del consenso annidata al Quirinale promette “l’immancabile vittoria finale” fidando nel “ potente alleato” mentre gli italiani, specie i giovani guardano al passato ( il fascismo) che, per fortuna non hanno conosciuto, e al futuro ( un nebbioso cosmopolitismo).
Siamo di fronte a nullità che ci ripropongono il nulla parlando del nulla con una opposizione che vale ancor meno arrocata nei suoi neo acquisiti attici.
Pensare solo a sè non è un delitto .
È il solito errore.
Ci hanno negato il diritto di comunicare con la pubblica opinione.
Errore pagato dai vecchi fascisti.
Non saranno questi nuovi melliflui fascistelli a fare eccezione.

Energia, come l’Italia ha scelto di ridursi alla canna del gas, di Andrea Muratore

Le conseguenze di un paese preda di fondamentalismi e di condizionamenti esterni. Il caro bollette e la crisi energetica non sono conseguenze di un fato avverso, ma di scelte politiche nefaste nella loro continuità e perseveranza_Giuseppe Germinario

Energia, come l’Italia ha scelto di ridursi alla canna del gas

La scelta dell’Italia di castrare il gas nazionale fa sentire i suoi effetti nei giorni della grande paura per i prezzi energetici

Un danno economico, un errore politico, un errore strategico: la scelta dell’Italia di castrare il gas nazionale fa sentire i suoi effetti nei giorni della grande paura per i prezzi energetici. Gli errori del Conte I non sono stati sanati dai giallorossi e dal governo Draghi, almeno fino ad ora. E da Ravenna un attento consigliere regionale avverte sugli effetti a cascata per l’economia nazionale.

Un Paese in bolletta

Al cavallo tra l’estate e l’inverno, tra settembre e ottobre del 2021, l’Italia è la nazione che ha sperimentato i maggiori aumenti nella spesa dei cittadini e delle imprese per le bollette energetiche,   sulla scia della convergenza tra crisi dei rifornimenti e pressioni inflazionistiche. I dati di Energy Live, infatti, segnalano che Roma, già in testa alla classifica del costo in termini di euro per megawatt/ora nel mese di settembre, ha accelerato la sua spirale a ottobre, passando in meda da 158,59 €/MWh a 217,63 €/MWh (+37,22%), un aumento che batte quelli di Spagna (a ottobre 199,90 €/MWh, +28%), Francia (172,58 €/MWh, +27%) e Germania (139,59 €/MWh, +8,74%).

L’Italia alla canna del gas

La crisi dell’energia colpisce i cittadini, le imprese e i consumatori a più livelli in un Paese che è importatore netto di materie prime come il nostro: nel consumo privato, alla pompa di benzina, nelle filiere produttive dalla generazione al consumo finale, sulla scia delle tensioni finanziarie e borsistiche. Ed è a dir poco tafazziano il fatto che nel nostro Paese l’avvicinarsi di quello che potrebbe essere un inverno dello scontento sul fronte energetico vada di pari passo con la paralisi di ogni discussione sullo sfruttamento a pieno regime dell’energia che potrebbe essere il vero e proprio volano di una, almeno moderata, riduzione del fardello: il gas naturale.

Riserve di gas ai minimi già dallo scorso inverno

Martedì 30 novembre il prezzo del gas ha subito una nuova impennata: i future sul metano contrattati alla Borsa di Amsterdam, punto di riferimento per il gas europeo, hanno toccato un massimo di 101 euro. Come riporta Panorama, infatti, “l’’Europa nord-occidentale è stata colpita da ripetute ondate anomale di freddo. Di conseguenza, il volume di gas in stoccaggio nei 27 paesi dell’Unione europea e in Gran Bretagna è sceso dell’equivalente di 58 terawattora (TWh) rispetto all’inizio di ottobre, uno dei più grandi prelievi dell’ultimo decennio. Il problema è che le scorte di gas erano già ai minimi lo scorso inverno, con volumi al livello più basso dal 2013, secondo Gas Infrastructure Europe. E la situazione delle scorte non è migliorata nei mesi successivi”, creando un effetto-valanga che si è ripercosso sui prezzi.

Danni autoinferti con la ripresa della domanda

L’Italia, in questo contesto, è come un ciclista esposto al vento in discesa. Nel 2020, i consumi di gas naturale in Italia sono diminuiti del 4,2% rispetto al 2019, per un totale di 70.651 milioni di metri cubi standard (Smc), rispetto ai 73.770 milioni di Smc dello scorso anno), ma se da un lato nel 2020 le importazioni totali sono state del 6,4% inferiori a quelle del 2019 (pari a 65.855 milioni di Smc, contro 70.356 milioni nel 2019), dall’altro la produzione nazionale è scesa del 15% circa (per un totale di 3.842 milioni di Smc). La ripresa della domanda nel 2021 e la crisi energetica hanno rimesso in campo la questione della necessità di sfruttare la generazione nazionale.

Il Pitesai ostacola lo sfruttamento dei giacimenti nazionali

Dal 2018, quando con il governo Conte I il Movimento Cinque Stelle e la Lega decretarono il rallentamento delle trivellazioni, il problema dell’estrazione nazionale, soprattutto offshore, è diventato annoso. Il Pitesai, «Piano per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee», il piano introdotto nel 2018 ufficialmente come piano regolatore delle trivelle è diventato nella realtà uno strumento per impedire in modo discreto lo sfruttamento dei giacimenti nazionali. Nel gennaio 2019, in particolare, su iniziativa grillina i gialloverdi introdussero una norma che vincolava esplicitamente le ricerche di nuovi giacimenti all’approvazione del Pitesai. Essa sarebbe dovuto arrivare dopo 18 mesi, ma ancora non se ne sa nulla: l’ultima scadenza, dopo alcune proroghe, era fissata al 30 settembre ma il documento non risulta ancora approvato. Anzi, quel giorno prendeva le strade di un ennesimo giro per la Conferenza Stato-Regioni in attesa di essere ulteriormente affinato.

L’import costa dieci volte tanto

“Quello italiano”, nota Il Sole 24 Ore“è metano il cui costo di estrazione si aggira sui 5 centesimi al metro cubo. È una stima indicativa, una media avicola trilussiana, citata da Marco Falcinelli segretario della Filctem Cgil e dall’economista Davide Tabarelli di Nomisma Energia. Ecco invece il prezzo di mercato del gas che l’Italia importa da Paesi remotissimi: fra i 50 e i 70 centesimi al metro cubo, più di 10 volte tanto”, con picchi nel quadro del gas naturale liquefatto importato da Paesi come il Qatar. Nel 2000 l’Italia, per fare un paragone con il presente, estraeva 17 miliardi di metri cubi l’anno principalmente in Adriatico, ove oggi la produzione è ridotta a 800 milioni di metri cubi. Nessun operatore si impegna a mettere un singolo euro sul gas italiano fino a non avere la certezza del via libera del Pitesai. Secondo Assorisorse bisognerebbe investire 322 milioni per raddoppiare a 1,6 miliardi di metri cubi l’anno l’ormai stanca produzione, e un risultato di 10 miliardi di metri cubi l’anno, meno del 60% di inizio millennio, sarebbe ad oggi un trionfo e un toccasana per le tasche dei cittadini.

E in quest’ottica le ricadute economiche per le tasche dei cittadini si uniscono ai problemi per la crescita nazionale. L’energia pesa enormemente in negativo sulla bilancia commerciale italiano e solo nel 2019 ha comportato extra costi per 40 miliardi di euro. E in questo contesto l’Eni, che è per il 30% di proprietà dello Stato, realizza in Italia il 7% della sua produzione, dunque dell’attività operativa che contribuisce a generare flussi di cassa per lo Stato italiano.

La necessità di un cambio di passo: il gas italiano come chiave di volta per la transizione energetica

“Perché invece non programmare la produzione di gas naturale nei giacimenti italiani per i quali Eni possiede già le concessioni e pochi anni fa ha presentato un piano di investimenti consistente di oltre 2 miliardi, che produrrebbe ricchezza per i territori. Il piano porterebbe ad un aumento della produzione delle piattaforme nell’Adriatico, da meno di 40.000 barili equivalenti al giorno a oltre 100.000”, ovvero da meno di 6,2 a 15,5 milioni di metri cubi al giorno, ha dichiarato a Pandora Gianni Bessi.  Consigliere regionale del PD in Emilia-Romagna e analista geopolitico esperto in questioni energetiche, Bessi è da tempo in prima linea per difendere la produzione energetica nazionale sia in un’ottica di rilevanza strategica degli asset italiani sia nella consapevolezza che il gas italiano sia la chiave di volta per abilitare la transizione energetica. Destinata ad essere castrata, piuttosto che aiutata, dalle politiche ideologiche dei gialloverdi.

L’equazione di Mattei: l’energia nazionale è energia a buon mercato

Per Bessi “si potrebbe fare di più, specie nell’estrazione del gas naturale a km zero, incrementando un’attività che va avanti da oltre cinquant’anni”, e che includendo anche l’entroterra richiama all’epoca eroica dell’energia italiana, quella di Enrico Mattei. L’equazione che animava l’azione di Mattei vale ancora oggi: energia nazionale significa energia a buon mercato; energia a buon mercato significa sviluppo e sicurezza economica per i cittadini; sviluppo e sicurezza economica contribuiscono alla sicurezza nazionale.

“Inoltre”, come ha fatto notare Bessi,  l’attività “italiana” di Eni e degli altri player energetici non si limita alla mera estrazione ma “coinvolge le componenti tecnologiche dell’oil&gas made in Italy. Lo scorso autunno dal porto di Ravenna”, città natale del consigliere e capitale dell’energia italiana, “è stata spedita una piattaforma Tolmount destinata al Regno Unito, un manufatto da 5.500 tonnellate progettato e realizzato dalla Rosetti Marino, una commessa di 125 milioni di euro che ha richiesto oltre un milione di ore lavoro di migliaia di tecnici specializzati. È un esempio di come l’oil&gas produca ricchezza non solo economica, ma anche di occupazione di qualità”.

Quell’occupazione di qualità che, aggiungiamo noi, serve come l’aria al Paese per lo sviluppo post-pandemico. Lasciare l’Italia alla canna del gas non è solo un errore politico, ma anche un potenziale suicidio economico che non aiuta affatto a conseguire alcun vantaggio per l’ambiente. E dal Conte I a Draghi ben poco, di fatto, sembra essere cambiato: in tempi di crisi energetica tutto questo dovrebbe ricordarci che la prima transizione di cui necessitiamo è quella verso il buon senso economico.

https://www.true-news.it/economy/energia-come-litalia-ha-scelto-di-ridursi-alla-canna-del-gas

UE, Italia, Francia, Germania! Il triangolo imperfetto_di Giuseppe Germinario

Grande emozione e tanta enfasi tra i protagonisti della firma del trattato del Quirinale. Peccato che a così grandi aspettative ostentate non sia corrisposta una corrispondente ed adeguata attenzione nella stampa italiana, relegata ben addentro alle pagine interne, alle spalle della scontata sequela su green pass e coronavirus; sorprendentemente almeno un qualche minimo accenno nella stampa transalpina. Un oscuramento che stigmatizza intanto un aspetto: la credibilità di Draghi, evidentemente, non coincide e non ha un effetto di trascinamento significativo su quella dell’Italia; il destino e le fortune politiche di uno sono evidentemente separati da quelli dall’altra. Il dubbio che il segno politico concreto dell’iniziativa si discosti pesantemente dall’immagine e dalla narrazione che si è voluto offrire si insinua nelle menti meno coinvolte dalla propaganda; tutto questo a cominciare dalla forma stessa adottata prima ancora di entrare ad esaminare i contenuti. Il valzer iniziato con il trattato bilaterale di Aquisgrana tra Francia e Germania nel 2019 e proseguito con quello odierno sottoscritto da Francia e Italia richiama l’immagine di un triangolo incompiuto.

Per essere un direttorio autorevole armato della volontà di imprimere una svolta al processo di costruzione della Unione Europea nella forma avrebbe dovuto concludersi con un accordo trilaterale o quantomeno con un ulteriore bilaterale tra Italia e Germania dai contenuti del tutto corrispondenti a quello di Aquisgrana; per essere un sodalizio latino-mediterraneo credibile in grado di sostenere il confronto con le altre due aree geopolitiche costitutive della UE avrebbe dovuto comprendere almeno la Spagna, per quanto ancora essa dibattuta storicamente tra Francia e Germania.

Nel primo caso la coerenza avrebbe richiesto tutt’al più un accordo tra capi di governo tale da definire le condotte nel Consiglio Europeo e in sede di Commissione Europea, quindi nelle sedi preposte; nel secondo avrebbe sancito definitivamente anche nella forma l’Unione Europea come il terreno di confronto e cooperazione tra stati nazionali raggruppati in sfere di influenza e di interessi più omogenei.

La scelta più o meno consapevole di adottare la forma così impegnativa e costrittiva del trattato tra stati sotto le spoglie del lirismo europeista avulso e nemico degli stati nazionali non fa che accentuare i limiti, i vincoli e le ambiguità della costruzione europea tali da rimuovere piuttosto che porre chiaramente sul terreno e possibilmente risolvere i problemi e i conflitti latenti, sino a renderli progressivamente dirompenti; con il risultato finale di rivelare finalmente nella NATO più che nella UE il reale fattore, per altro esogeno, di relativa coesione politica di gran parte del continente. In mancanza saranno i trattati stessi ad essere progressivamente svuotati di contenuti o dimenticati.

I rapporti di cooperazione rafforzata, pur nella loro ambiguità, sono qualcosa di diverso e di poco compatibile con la forma del trattato, checché ne dicano gli estensori di quest’ultimo, in quanto riconoscono implicitamente la trasversalità interna agli stati del confronto politico ed esplicitamente la loro coerenza e subordinazione agli indirizzi della Commissione Europea. I due trattati, in particolare quello più esteso e specifico tra Italia e Francia, di fatto formalizzano ed irrigidiscono il confronto tra stati all’esterno del circuito istituzionale.

Dubbi e riserve che non sono affatto attenuati dall’esame del merito delle clausole, pur avendo queste ultime più la forma di una dichiarazione di intenti che di impegni cogenti in entrambi i trattati, ma maggiormente in quello franco-tedesco.

Quest’ultimo deve pagare certamente pegno alla funzione di apripista, ma può permettersi di indugiare maggiormente nella retorica europeista grazie al ruolo di leadership locale dei due paesi.

Essendo carenti di aspetti cogenti e piuttosto pleonastici nella stesura, non rimane che individuare nell’enfasi attribuita ai singoli aspetti le diversità, le affinità e soprattutto le intenzioni riposte in questi due atti in attesa di conoscere i protocolli aggiuntivi, sempre che siano resi disponibili.

In quello di Aquisgrana prevale nettamente l’enfasi sul ruolo del sodalizio franco-tedesco nell’agone mondiale, con la ciliegina della richiesta velleitaria di un seggio alemanno all’ONU; nell’esplicita richiesta di coinvolgimento delle Germania nell’area subsahariana con un effetto solo secondario di trascinamento della UE.

Riguardo al contesto europeo la postura generale franco-tedesca è quella di due paesi impegnati a determinare genericamente gli indirizzi e l’organizzazione della Unione Europea; quella del trattato quirinalizio è piuttosto di due paesi impegnati ad adeguarsi all’indirizzo, specie giuridico, della Comunità, per quanto si possa parlare di indirizzo giuridico coerente di essa.

L’unico afflato europeista decisamente retorico presente in quello di Aquisgrana viene riservato alla collaborazione ed integrazione persino giuridica delle aree transfrontaliere, in particolare dei distretti; un vecchio cavallo di battaglia della retorica europeista non a caso più incisivo e pernicioso nei confronti dell’organizzazione statale francese che di quella teutonica.

Un ambito curato anche in quello italo-francese ma senza enfasi ed articolato in ambiti più definiti tra i due stati.

Un altro ambito comune trattato nei due accordi riguarda la forza e il complesso industriale militare.

In quello franco-germanico il tono è più generico ed enfatico; nell’altro è più scontato e precisato.

La ragione del primo risiede sicuramente nei trascorsi storici particolarmente drammatici tra i due paesi, come pure nella loro collocazione, con la Francia dibattuta in tre scenari geografici, dei quali uno prettamente terraneo dal quale sono arrivati i guai peggiori. Sono però il presente e le prospettive future a dettare le scelte. Al destino manifesto di duratura concordia verso una meta ed una casa comune annunciato nel patto corrisponde un percorso a dir poco contraddittorio se non controcorrente. A fronte di un paio di progetti industriali integrati in stato di avanzamento corrisponde lo stallo totale in materia di controllo e gestione dell’armamento strategico nucleare, di gestione delle comunicazioni, di indirizzo e addestramento comune delle due forze militari e di sviluppo di una logistica comune. Poca cosa rispetto a progetti più importanti (Gaia, il nuovo caccia europeo, semiconduttori, ect) in colpevole ritardo, ancora ai prodromi, con un divario terribile da colmare; troppo presto per distinguere il fumo dall’arrosto, la velleità dalla volontà. Il paradosso maggiore risiede in una Germania che di fatto predilige il coordinamento e l’integrazione militare con paesi come l’Olanda, la Repubblica Ceca e la Danimarca e di un corpo militare francese assai poco disposto a condividere i propri asset strategici, specie nel nucleare, nella missilistica e in aviazione, per quanto fragili e malconci, con un paese quasi del tutto privo di conoscenze in quei settori.

Dal lato italico il quadro generale della cooperazione ed integrazione militare appare almeno in apparenza molto più scontato con la parte francese che dimostra di avere le idee molto chiare e gli italiani a giocare di rimessa e limitare i danni quando non arriva a infliggersi la zappa sui piedi. La tradizione tutta italica di adesione a qualsivoglia avventura militare occidentale in giro per il mondo e di delega agli organismi internazionali delle decisioni non fanno che alimentare queste altrui aspettative. Lo si nota già nelle facilitazioni previste alla mobilità delle truppe molto più fruttuose per la Francia, visti i suoi interessi nel Mediterraneo, che per l’Italia, assente nello scenario Atlantico e renano. La decisione, improvvida quantomeno nei tempi, di affidare integralmente all’ESA (Agenzia Spaziale Europea) la gestione dei propri fondi del settore spaziale, presa dal quel campione dell’interesse nazionale del Ministro Colao, nonché l’esito nefasto del tentativo di controllo dei cantieri navali francesi STX da parte di Fincantieri, non fa che confortare ulteriormente questa impressione di subordinazione ed ignavia ormai ben sedimentata.

Non a caso l’intervento comune in questi ambiti sia specificato molto meglio nel trattato franco-italiano.

I due anni trascorsi tra un trattato e l’altro hanno con ogni evidenza modificato notevolmente il contesto che ha portato alla loro stesura.

Allora si trattava di contrapporre un polo europeista a guida franco-tedesca all’anomalia della politica estera trumpiana, all’insorgere dell’ondata “sovranista” in Italia, in Ungheria e alla Brexit.

Oggi si tratta di riportare nell’alveo dell’eterno confronto-scontro della competizione franco-tedesca la progressiva formazione di almeno tre aree culturali e di cooperazione distinte di stati europei. In queste sono comprese quella costitutiva dell’Europa Orientale e dei paesi sede di paradisi fiscali (Irlanda, Austria, Olanda) controllata con sempre maggiore difficoltà dalla Germania; l’altra latino-mediterranea, potenzialmente dirompente, ma tutta da inventare, comprensiva almeno di Italia, Spagna e Francia.

Una prima lettura dell’accordo italo-francese potrebbe indurre a coltivare l’illusione di un’area così strategica.

La diversa qualità del ceto politico, delle classi dirigenti e degli assetti istituzionali dei due paesi e il pesante ed evidente squilibrio tra questi dovrebbero ricondurci a considerazioni più prosaiche e prudenti.

Se a questo si aggiunge il sostegno entusiastico espresso dall’amministrazione Biden, parecchi altri dubbi dovrebbero dissolversi sulla reale natura dell’accordo. Un paese che non riesce e la sua corrispondente amministrazione che, a differenza di Trump, probabilmente nemmeno intende districare il groviglio di interessi economici che la avviluppano alla Cina, principale avversario-nemico strategico, con il suo appoggio all’accordo intende paradossalmente, ma non troppo, non tanto inibire tentazioni autonome pressoché velleitarie della classe dirigente tedesca dalla leadership americana a favore delle relazione con cinesi e russi, quanto di farle capire e ricordare che gli indirizzi e gli impulsi geoeconomici relativamente autonomi devono ormai sempre più essere ricondotti e sottomessi alle dinamiche geopolitiche di un contespo multipolare.

Il trattato di Aquisgrana ha seguito infatti metodi e significati opposti rispetto a quello dell’Eliseo del 1963 allorquando fu snaturato nel significato solo dal repentino voltafaccia tedesco sotto pesante pressione americana e vide l’esclusione dell’Italia, per il suo eccessivo e cieco filoatlantismo.

IL RAPPORTO TRA ITALIA E FRANCIA

Il giudizio sul “trattato del Quirinale” non può differire di molto dal suo equivalente di due anni fa.

Vi è un punto in realtà realmente qualificante per i due paesi e disconosciuto nei commenti: l’attenzione riservata al settore agricolo. Sia l’Italia che la Francia fondano gran parte del proprio investimento in agricoltura sul prodotto tipico con un relativo ridimensionamento da parte francese, anche per ragioni di ambientalismo liturgico, di alcune produzioni intensive di allevamento e vegetali su vasti territori e con una significativa riduzione negli ultimi tempi dei contributi finanziari europei elargiti di fatto a compensazione del sostegno finanziario francese alla Unione Europea. Un aspetto che mette in concorrenza tra loro le economie agricole dei due paesi, ma che li spinge a fare fronte comune contro la Commissione Europea tutta impegnata a penalizzare questo tipo di coltivazione.

Paradossalmente, quindi, più un fattore di polarizzazione all’interno della UE che di coesione.

Per il resto la sospensione di giudizio sul trattato pende purtroppo a sfavore di un rapporto più equilibrato tra i due paesi.

La Francia infatti dispone ancora a differenza dell’Italia:

  • di una organizzazione statale, pur insidiata dal regionalismo europeista, ancora sufficientemente centralizzata, con la presenza di una classe dirigente e dirigenziale compresa quella militare, preparata e in buona parte diffidente se non ostile all’attuale presidenza, tale da consentire la definizione e il perseguimento di una strategia; quella italiana in antitesi è frammentata e ridondante nelle competenze in modo tale da consentire flessibilità e capacità di adattamento passivo e reazione surrettizia;

  • di una grande industria strategica, pubblica e privata, anche se fragilizzata, specie nell’aspetto finanziario, da alcune scelte imprenditoriali e tecnologiche sbagliate; l’Italia, dal canto suo, continua a vivere e ad emergere in qualche maniera grazie alla presenza prevalente della piccola e media industria in gran parte però dipendente produttivamente da circuiti produttivi e imprenditoriali stranieri;

  • di un sistema universitario riorganizzato in sei grandi poli in grado di offrire nuovamente, rispetto a questi ultimi anni, una buona formazione e specializzazione tecnico-scientifica. Il numero e la qualità di ingegneri e ricercatori ha infatti ricominciato a risalire;

  • di un sistema finanziario e bancario più centralizzato e indipendente reso possibile dalla presenza della grande industria, da una gestione coordinata delle risorse finanziarie ricavate dalle attività agricole e dalla rendita monetaria garantita dalla gestione dell’area africana francofona; un vantaggio che le ha consentito di codeterminare, assieme alla Germania, anche se in posizione subordinata, le regole europee di regolazione del sistema bancario e finanziario con la supervisione statunitense;

  • di un sistema di piccole e medie imprese, al contrario il quale, a differenza di quello italiano, sta rasentando l’irrilevanza e trascinando il paese verso un cronico deficit commerciale e dei pagamenti, sempre meno compensato dalla fornitura di servizi evoluti e che costringe sempre più il paese ad assorbire la propria rendita finanziaria e a dipendere ulteriormente dai dictat tedeschi e dalle scorribande e acquisizioni americane. Con un peso dell’industria che non arriva nemmeno al 18% del prodotto francese, non a caso la stampa transalpina batte ormai da anni sul problema della reindustrializzazione del paese come fattore di coesione sociale, di riduzione degli enormi squilibri territoriali e di acquisizione di potenza. Un elemento che dovrebbe mettere sotto altra luce il lirismo professato a piene mani nel trattato sui propositi di collaborazione, integrazione e scambio imprenditoriali in questo ambito. Qualcosa di particolarmente evidente assurto agli onori della cronaca nel settore automobilistico in un rapporto di gran lunga peggiorativo rispetto a quello detenuto dalla componentistica italiana rispetto all’industria tedesca.

Una situazione non irreversibile a patto di avere una classe dirigente e un ceto politico non genuflesso e capace.

Per concludere giudicare l’accordo franco-italiano soprattutto dal punto di vista propagandistico e dal vantaggio di immagine offerto a Macron in vista delle prossime elezioni presidenziali risulta troppo limitativo se non proprio fuorviante. Tant’è, come già sottolineato, che la stampa francese lo ha del tutto ignorato, quella italiana lo ha glissato e relegato, per altro per breve termine, nelle pagine interne.

Il peso politico di questo accordo rischia di essere molto più soffocante per l’Italia, soprattutto per la qualità della nostra classe dirigente che prescinde dalla validità di numerosi suoi esponenti spesso relegati in funzioni periferiche e di second’ordine, ma anche purtroppo del nostro ceto politico nella sua quasi totalità.

Una ulteriore cartina di tornasole della direzione, oltre alla già citata decisione nel settore aerospaziale a favore dell’ESA presa da Colao & C., sarà l’esito de:

  • la vicenda TIM dove si prospetta il pericolo di una divisione dei compiti tra la gestione americana della rete strategica e quella francese del sistema multimediale italiani con la eventuale compartecipazione, bontà loro, italiana

  • la vicenda OTO-Melara con la possibile cessione ad un gruppo industriale del complesso militare franco-tedesco.

Chissà se questa volta sarà sufficiente per la nostra sopravvivenza la capacità tutta italica di adeguamento passivo e di atteggiamento erosivo così brillantemente esposto da Antonio de Martini. In mancanza non resterà che sperare nel “buon cuore” statunitense, possibilmente preoccupato di un dominio franco-tedesco che potrebbe indurre dalla condizione di dipendenza privilegiata a giungere realmente ad una forma di qualche indipendenza politico-economica dall’egemone americano e di rivalsa rispetto al tradimento britannico della Brexit. Nel caso ancora più nefasto, il placet americano così entusiasta al trattato del “Quirinale” potrebbe essere il segnale di via libera ad una aggregazione dell’Italia nel tentativo di mantenere una parvenza di influenza della Francia nell’Africa francofona; soprattutto di uno spolpamento definitivo del Bel Paese, anche come compensazione dell’affronto subito dalla Francia ad opera di Stati Uniti, Gran Bretagna e Australia sulla faccenda dei sommergibili e sulla sua silenziosa esclusione di fatto dal quadrante strategico del Pacifico, pur essendo lì presente con qualche residuo coloniale. A meno di un tracollo di Macron e della macronite. Solo a quel punto il giochino a fasi alterne, tra i tanti passi quello di affidare la maggior parte dei comandi militari nella periferia della NATO alla forza militare più limitata ed infiltrata, la Germania e al potenziale ribelle qualche pacca e qualche osso, potrà richiedere qualche nuova variante.

NB_Qui sotto il testo dei due trattati oggetto dell’articolo

aquisgrana 2019

TRATTATO DEL QUIRINALE ITA FRANCIA

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