L’uccisione di Khashoggi – Al complesso incrocio di tre punti di inflessione. di Alastair Crooke

L’uccisione di Khashoggi – Al complesso incrocio di tre punti di inflessione. di Alastair Crooke

Arabia Saudita , Jamal Khashoggi

 

Fonte: Strategic Culture, Alastair Crooke , 23-10-2018

I realisti sottolineano che lo smembramento ancora in vita e l’assassinio di Khashoggi è ancora solo la morte di un giornalista; che tali eventi non sono eccezionali – e che gli stati raramente cambiano le politiche sulla base della morte, non importa quanto atroce. Tutto questo è vero. Ma è anche vero che un evento isolato si verifica “al momento giusto”; può colpire proprio nel punto di flessione dove è pronto a oscillare; quando solo un ulteriore fiocco di neve indistinto può innescare una enorme colata la cui massa è del tutto sproporzionata rispetto al singolo chicco che la innesca. L’uccisione di Khashoggi l’ha quindi innescata? Sì, è del tutto possibile perché ci sono molti accumuli instabili di implicazioni politiche nella regione, dove anche un piccolo evento potrebbe innescare uno scenario più grande. Queste dinamiche costituiscono un legame complesso di dinamiche mutevoli.

Anche il corpo letteralmente smembrato di Khashoggi è in qualche modo un’allegoria delle più ampie dinamiche regionali che si stanno sgretolando. Khashoggi – uno dei primi membri della Fratellanza Musulmana, e considerato la loro icona – è stato, ci viene detto, letteralmente, orribilmente smembrato. Simbolicamente, la sua fine sarà considerata – almeno nella regione – come il corpo vivente ancora dei MB (Fratelli musulmani), sdraiata sulla scrivania, tagliata da apparatchik sauditi – ricordando quasi fedelmente la campagna del Golfo per schiacciare e “eradicare” La Fratellanza di questa zona.

Il simbolismo è tanto più struggente in quanto Khashoggi simboleggia, anche nella sua figura, questo tentacolo ambiguo che si estende tra Al Qaeda di bin Laden e i Fratelli musulmani – anche se Khashoggi aveva poi voluto qualificare la sua stima per bin Laden. (Khashoggi si unì alla Fratellanza Musulmana all’incirca lo stesso tempo che con Bin Laden, ha viaggiato a lungo con il leader di Al Qaeda in Afghanistan e ha scritto uno dei  primi ritratti a una rivista saudita nel 1988 ( vedi L’Osama bin Laden I Know di Peter Bergen).

Il principale “punto di inflessione” colto giustamente dal mondo, però, è la possibilità che il presidente Trump è con le spalle al muro, costretto a malincuore dal filtraggio lento delle notizie, dal flusso della trasmissione di prove – a un riequilibrio delle relazioni Usa-sauditi, per la prima volta dal 1948. E, in questo contesto, ad ammettere a malincuore che Mohammed bin Salman non è la base affidabile attorno alla quale ruotano tutti gli elementi principali della politica estera USA: Il cambio di regime in Iran, la limitazione del prezzo del petrolio mentre l’Iran è oggetto di nuove sanzioni, la vendita di armi americane e l’omaggio a Israele del suo “accordo del secolo”). Naturalmente, nessuno sa cosa potrebbe accadere in Arabia Saudita se MBS fosse emarginato come presunto erede. Ci sono rumori nella famiglia al-Saud che sono chiaramente udibili.

Trump prenderà davvero una decisione del genere? Farà di tutto per evitarlo. Tuttavia, un l’innalzamento dei toni  critici dell’opinione del Congresso degli Stati Uniti e del Beltway [il linguaggio americano usato per caratterizzare le questioni che sono, o sembrano essere, importanti soprattutto per i funzionari federali statunitensi] hanno intaccato da tempo le relazioni saudite: A poco a poco, dall’11 settembre e dalla catastrofe dello Yemen, si è innalzata questa ondata di malcontento e disagio sul merito della stretta relazione di MBS con gli Stati Uniti.

Poche persone a Washington non credono che l’affermazione di Trump che le vendite delle armi rappresentano un potenziale di 110 miliardi di dollari non siano altro che spacconate: camuffamento di vendita esistenti, già in preparazione dal tempo di Obama oggetto di alcune lettere di intenti (non vincolanti). E gli Stati Uniti non dipendono più da una fornitura sicura di petrolio saudita. Inevitabilmente, il lato negativo della relazione diventa sempre più marcato (e più scuro). E con il pubblico più consapevole degli orrori che sono il jihadismo wahabita brutale (vale a dire in Siria) e della realizzazione lenta di una “riforma” in Arabia Saudita che non corrisponde a ciò che il termine significa altrove. L’uccisione di Khashoggi è l’ultimo grano che scatenerà l’improvvisa caduta? Se il senatore Lindsay Graham può essere considerato il “canarino nella miniera”, allora sì: “Questo ragazzo [MBS], deve andarsene” Graham insiste .

E qui, l’altro simbolismo derivante dall’assassinio di Khashoggi indica un diverso “punto di svolta”: il suo smembramento ha avuto luogo in Turchia, proprio mentre stava per manifestarsi all’Istituzione del AKP (lo zio della sua fidanzata era uno dei fondatori dell’AKP). Khashoggi era anche amico del presidente Erdogan. Questo evento spaventoso ha permesso a Erdogan di massimizzare la posizione della Turchia in modo incommensurabile (specialmente quando si è verificato contemporaneamente alla liberazione del pastore americano Brunson da parte della corte turca). Trump, inchinandosi a Brunson alla Casa Bianca, si è convertito a modo suo a Damasco: ora considera la Turchia molto favorevolmente, ha detto il presidente. Erdogan trarrà pieno vantaggio da questo vantaggio ; separare gli Stati Uniti dai curdi della Siria orientale e rafforzare la propria influenza giocando a Washington contro Mosca.

Erdogan ha ovviamente maggiori ambizioni. Sta usando questa leva di Khashoggi per promuovere la sua leadership nel mondo islamico, sperando di strapparlo all’Arabia Saudita. Dopo la sconfitta dei wahhabiti in Siria, Erdogan ritiene che l’islam sunnita stia per prevalere: usa audacemente il linguaggio e l’immaginario ottomano per affermare questa passata affermazione; gli articoli della stampa turca aggiungono a ciò la richiesta che l’Arabia Saudita abbandoni la sua egemonia “wahhabita” nei luoghi santi della Mecca e Medina.

Questo è un altro importante punto di svolta: la posizione dell’Arabia Saudita sta collassando: è sempre stato uno stato politicamente marginale, ma il regno ha compensato questa situazione con una politica dei libretti degli assegni e con il suo accreditamento come guardiano dei luoghi santi.

Ma con gli eccessi dell’IS che hanno alienato le simpatie degli americani e degli europei, gli stati del Golfo si sono rivolti a una narrazione di “appello alla moderazione” e all’approvazione della “guerra contro la teocrazia” piuttosto che rischiare una condanna diretta della violenza jihadista: una posizione inaccettabile per i loro stessi chierici puritani. (Il fatto è che mentre la “guerra contro la teocrazia” potrebbe essere intesa come un esplicito impegno per combattere l’IS, è più conveniente e retoricamente servito per equiparare Iran, Hezbollah e la Fratellanza Musulmana con EI, considerandoli indistinguibili da questi ultimi). Questa è la storia altamente artificiale a cui Trump si è iscritto senza riserve.

La stessa “moderazione” ha tuttavia innescato un tentativo concertato, anche se confuso, di allontanare le monarchie del Golfo dallo “Stato islamico”. Ma, come ha sottolineato Ahmad Dailami, il nazionalismo monarchico che MBS usava per allontanare il regno dal proprio puritanesimo islamico non è stato sostituito da un altro credo o da un vero secolarismo.

Khashoggi è salutato in Occidente come un riformista pro-liberale e democratico, ma in realtà, è stato un forte sostenitore della monarchia (della quale MBS è il capo effettivo). Sostenne, tuttavia, che tutte queste monarchie fossero “riformabili” . Solo le repubbliche secolari (come Iraq, Siria e Libia) non sono riformabili e devono essere rovesciate, ha detto. Il tema di disaccordo con MBS interessa il passaggio verso la laicità o “liberismo” pro occidentali perché ha favorito una riforma islamizzata della politica araba sul modello dei Fratelli Musulmani – come Erdogan, in realtà.

Ecco il secondo potenziale punto di svolta : lo sfruttamento dell’assassinio di Khashoggi da parte di Erdogan sarà finora in grado di trascinare nella sua scia un cambiamento nel sostegno americano , che si sta allontanando dal Golfo per tornare al modello dei Fratelli musulmani turchi? Nel corso degli anni, gli Stati Uniti hanno oscillato (spesso in modo abbastanza violento) tra il sostegno ai Fratelli Musulmani come catalizzatore del cambiamento in Medio Oriente e il ritorno alle competenze dei servizi segreti sauditi per rendere questi jihadisti “dall’inferno” la migliore ricetta per rapidi cambiamenti di regime.

Trump ha accennato a un tale cambiamento possibile con i suoi commenti favorevoli sulla Turchia quando ha ricevuto il pastore Brunson: “È uno splendido passo per avere un rapporto speciale con la Turchia. I nostri pensieri sulla Turchia di oggi sono molto diversi da quelli di ieri. Immagino che avremo la possibilità di essere molto più vicini alla Turchia, di avere relazioni molto più strette. Stabilire buoni legami con il presidente Erdoğan sta guadagnando importanza. ”

E cosa costituisce la possibilità latente di un terzo punto di inflessione? Israele, ovviamente. L’ex ambasciatore degli Stati Uniti in Israele Dan Shapiro scrive :

“L’assassinio di Khashoggi ha implicazioni che vanno ben oltre il rivelare che il principe ereditario saudita è brutale e spericolato. A Gerusalemme e Washington, DC, stanno piangendo il loro intero concetto strategico per il Medio Oriente – specialmente per contrastare l’Iran … La scioccante brutalità del rapimento e dell’omicidio di Jamal Khashoggi da parte delle forze di sicurezza saudite può essere mimetizzata, indipendentemente dall’incredibile versione che viene fatta, come errore durante un interrogatorio o il lavoro di teppisti.

Ma le sue implicazioni vanno oltre la tragedia che ha colpito la famiglia e la fidanzata di Khashoggi. Ciò solleva interrogativi fondamentali per gli Stati Uniti e Israele sul loro concetto strategico in Medio Oriente … L’assassinio di Khashoggi, al di là dell’eliminazione delle linee rosse dell’immoralità, sottolinea anche l’inaffidabilità fondamentale dell’ l’Arabia Saudita di MBS come partner strategico. Quello che è successo al consolato saudita a Istanbul riecheggia le parole usate in passato per descrivere l’eliminazione di un avversario da parte di Napoleone: “È peggio di un crimine. È un errore Si potrebbe aggiungere che questo è un errore strategico. “

In effetti, apre un potenziale punto di inflessione di grande importanza. Israele potrebbe aver perso la sua superiorità aerea sulla Siria e sull’arco settentrionale del Medio Oriente, o almeno questa superiorità aerea è stata ampiamente circoscritta. Israele ha fatto affidamento su questa superiorità aerea. Ma in seguito alla perdita di un Iliushin Il-20 e dei suoi 15 aviatori sulla Siria il 17 settembre, la Russia ha installato un formidabile ombrello aereo e di difesa elettronica su gran parte dell’area settentrionale del paese del Medio Oriente.

Di conseguenza, l’equilibrio strategico nel Medio Oriente oscilla instabilmente. L’equilibrio dei poteri si è spostato verso nord: “per Israele non sarà facile navigare in queste acque, mentre l’establishment della politica estera di Washington si è rapidamente diviso in campi anti-iraniani e anti-sauditi … Per gli israeliani, [potrebbe essere] il più grande contraccolpo   dell’uccisione di Khashoggi [che] MBS, nel suo tentativo di mettere a tacere i suoi critici, ha in realtà minato la volontà di costruire un consenso internazionale per fare pressione sull’Iran “, ha concluso Shapiro. Israele ora ha un certo numero di alternative: esortare Trump ad intervenire su Putin per “tornare” a schierare la S-300 SAM in Siria; direttamente sfidare le difese aeree russe o accettare un nuovo equilibrio strategico regionale.

Il modo in cui Trump alla fine decide di gestire l’assassinio di Khashoggi – se evitarlo o meno – può ben determinare quale di queste opzioni Israele – e la regione nel suo complesso – alla fine scelga di seguire.

Fonte: Strategic Culture, Alastair Crooke , 23-10-2018

 

RIEDUCAZIONE, di Antonio de Martini

ASSASSINIO PREMEDITATO IN PIENO SOLE A FINI EDUCATIVI

Nessun media del mondo ha pubblicato ( o ripubblicato) gli articoli ( e nemmeno singole frasi) del “ giornalista” Khassoghi che, in realtà abbiamo saputo essere stato il segretario del principe Turki (ex capo dei servizi segreti sauditi e ex ambasciatore negli USA fino a che non si è provato un finanziamento a uno degli attentatori dell’11 settembre da parte della moglie).

La ragione del mancato “scoop” giornalistico è che leggendo gli scritti si capirebbe che le “accuse” fatte sul Washington post ( giornale di Jeff Bezos, padrone di Amazon e amico di Mohammed mani di forbice) sono note dalla fondazione del regno, insignificanti e ignote alla stragrande maggioranza dei sauditi che sono in gran parte analfabeti anche nella loro lingua.

Nessun giornale occidentale ha mai citato testi o notizie scritte da questo signore, reso cauto anche dal fatto che il divieto di espatrio al figlio rimasto a Ryad lo aveva in pratica reso un ostaggio a garanzia di eventuali intemperanze giornalistiche.

Un poliziotto direbbe che a questo delitto non c’è movente.
Non si tratta certamente di in tentativo di conculcare la libertà di stampa o del “ cervello che deve essere messo a tacere” come disse Mussolini di Gramsci.

Trovare il movente – dato che il colpevole è certo e ormai confesso – richiede conoscere il segreto meglio custodito del momento: perché mai Khassoghi abbia messo la testa nella bocca della belva.

La spiegazione della richiesta di un certificato è risibile.

L’Arabia saudita non ha una anagrafe degna di menzione.
Per matrimonio e divorzio sono ancora più spicci: al maschio per divorziare basta pronunciare tre volte la parola “ ti ripudio” e per sposarsi basta tirar fuori l’attrezzo.

Se davvero avesser avuto bisogno di un certificato , gli sarebbe bastato chiedere al figlio che viveva in loco e una mancia a un impiegato per ottenere qualsiasi pezzo di carta timbrato e firmato.

Scoprire cosa, e chi, lo ha convinto a entrare nel consolato significherebbe fare un grande passo avanti nella ricerca della ragione vera dell’omicidio e dello scempio.

Tutte le pene che vengono inflitte in Arabia Saudita hanno intento esemplare.

Faccio un esempio noto alla mia famiglia: durante la seconda guerra mondiale, mio padre Francesco, mentre era a colloquio con uno sceicco, si trovò ad assistere all’arrivo di un giovanotto trafelato che disse al capo villaggio di aver visto, abbandonati, cinque sacchi di caffè all’entrata del villaggio.
“ come sai che è caffè?” Chiese il vecchio. “ ho aperto uno dei sacchi”.

Quando il capo villaggio ordinò di tagliare la mano allo sventurato, mio padre chiese come mai questa pena visto che nulla era stato rubato.

“ non ha rubato perché era caffè, se fosse stato oro se lo sarebbe tenuto” disse il vecchio sheikh respingendo l’appello, “avrebbe dovuto informarmi senza informarsi del contenuto”.

Ho maturato il convincimento che il delitto con annesso scempio ha tutte le caratteristiche della esecuzione esemplare: nulla è stato fatto per nasconderlo.

Il luogo, la squadra di killer giunta con due jet privati invece che alla spicciolata come da prassi, l’aver lasciata viva la fidanzata- testimone, la noncuranza per il “ cover up” , l’immediata dichiarazione americana che le forniture USA non sarebbero state interrotte, il disinteresse per le conseguenze internazionali e, in pratica , la candida ammissione, la partecipazione all’esecuzione di intimi servitori del crownprince, tutto mostra che è una pubblica esecuzione.

Il fiume di denaro che ha distratto in Occidente la pubblica opinione non è stato speso nel mondo arabo che oscilla tra l’orrore e l’ammirazione, tutto induceva pensare che nessuno voleva nascondere il delitto, anzi.

La sequela di errori politici con Yemen, Siria e Katar e l’omicidio di due familiari concorrenti al trono, hanno certamente creato una corrente contraria a Mohammed mani di forbice. In seno al Consiglio di famiglia che deve eleggere il successore di re Salman ormai con entrambi i piedi nella tomba.

Le orribili torture inflitte a un agente, che gli USA hanno deciso essere sacrificabile” sconsiglieranno molti membri della famiglia reale dal cercare un altro candidato ed un eventuale candidato dall’accettare la candidatura.

Un piano di questa complessità prevede assicurarsi la complicità USA (110 miliardi di forniture più altre dall’anno prossimo) per la copertura media e il non boicottaggio ; la complicità dei padroni del luogo ( vedrete che investimenti giungeranno in Turchia) e l’immediato permesso alla polizia a perquisire locali coperti da immunità diplomatica completano il panorama.
Per non uccidere i suoi fidi esecutori Mohammed ha pagato il prezzo del sangue ( liberando il figlio e i beni di Khassoghi e li lascerà processare in Turchia.

LA CRISI LIBANESE SARA’ LA TOMBA DELLA DINASTIA SAUDITA? IN OGNI CASO E’ UN ALTRO SCHIAFFO AGLI USA. di Antonio de Martini, scritto il 13 nov 2017

Immaginatevi che il Primo ministro Paolo Gentiloni vada in America,  all’arrivo invece del benvenuto di prammatica si veda sequestrato il telefonino, venga catapultato davanti a una telecamera a leggere una lettera di dimissioni e a chi lo contattasse per sapere quando torna in Italia, risponda ” a Dio piacendo” e avrete la fotografia di quel che è accaduto tra Libano e Arabia Saudita in questi giorni.

La motivazione del perché avviene è più complessa e andrebbe spiegata con la psicoanalisi prima che con l’analisi politica. Proviamo a dipanare questa intricata matassa di lana di cammello.Procediamo in ordine cronologico distinguendo tra interno ed estero..

Da quando il nuovo principe ereditario ( MOHAMMED BEN SALMAN) ha ottenuto dal re suo padre,( SALMAN BEN ABDULAZIZ)  approfittando della sua infermità, i pieni poteri, la situazione interna ed estera saudita ha iniziato a muoversi con un moto progressivamente accelerato. Impossibile oggi  capire se verso i vertici del mondo o verso il baratro.

SUL PIANO INTERNO

, col solito pretesto della ” lotta alla corruzione” il nuovo aspirante re ha fatto uccidere due tra i figli di  predecessori del re suo padre che avevano la caratura per contendergli il trono ( il figlio di Abdallah e quello di Fahd; ha messo agli arresto nella sua residenza il cugino ministro dell’interno Mohammed Ben Nayaf suo predecessore nel ruolo, arrestato cinque altri cugini figli di re predecessori del padre  e dieci principi minori più undici ex ministri e le tre fortune più importanti del regno.

E’ di stanotte la notizia che avrebbe arrestato l’ex capo dei servizi segreti Bandar ” Busch” Sultan che fu l’iniziatore della guerra alla Siria,  amico intimo dell’ex Presidente USA George W. Bush ( di qui il suo nomignolo) ed è stato lunghi anni ambasciatore saudita a Washington. Per metterci un po di pepe nel minestrone , sua moglie è stata notata dalla commissione di inchiesta come generosa contribuente di un pio conterraneo il cui nome figura tra quelli dei caduti sauditi che hanno condotto l’attentato alle due torri del World Trade Center.

Mohammed Ben Salman , ormai l Crownprince , è figlio dell’attuale re Salman ben Abdulaziz ,ultimo dei sette fratelli di stessa madre ( Hassa , la preferita del fondatore della dinastia) che si sono trasmessi il trono, per via adelfica, dal 1945.                                                                                                                                                                                               Prima d’essere vittima dell’Alzeimer, Salman era reputato come il più rigido della famiglia reale e il solo che nel 1991 si oppose  – nel Consiglio di famiglia composto da 150 persone – alla concessione di basi militari USA sul territorio saudita, con la motivazione che una volta installati non se ne sarebbero più andati. E’ stato facile profeta. Essndo l’ultimo figlio di Abdelaziz,  otttantenne e malato, si pensò che non avrebbe creato problemi , anzi che avrebbe dato tempo per pensare alla successione e al passaggio generazionale.

Appena salito al trono invece, Salman ha nominato – come da attese-  Crownprince Mohammed Ben Nayaf che da quattro anni era succeduto al defunto suo padre nella conduzione del ministero dell’interno. Dopo qualche tempo, però, il re creò una nuova carica: vice principe ereditario, mettendoci suo figlio Mohammed Ben Salman ( ministro della Difesa e capo della polizia religiosa).

I due Mohammed, in perfetto accordo giubilarono Bandar Bush ( creando per un breve periodo una sorta di Consiglio per la sicurezza nazionale con dentro il figlio), misero da parte il principe Muqrin che aspirava a fare da ago della bilancia tra i due  e poi iniziarono il confronto culminato nella nomina a principe ereditario ( che ha unicamente funzioni di primo ministro dato che il re viene nominato dal Consiglio di famiglia) del trentaduenne  figlio prediletto  Mohammed  il quale non ha esitato a sbarazzarsi del più anziano cugino , accoppare i due principi-cugini  più quotati alla successione e terrorizzare i membri più anziani del clan arrestando in totale quindici principi di varia caratura, oggi ospiti del Royal Carlton Hotel  trasformato in una fastosa prigione e ” fully booked” . L’inchiesta sulla corruzione prosegue senza fretta. Sono ostaggi nella più genuina tradizione beduina. E’ stato proibito in tutto il regno, il decollo di jet privati.

Posto che il piano riesca e il Crownprince prevalga, gli resterà da sciogliere il nodo della modernizzazione ( es la patente alle donne) con il fatto che egli ( e il padre) rappresenta l’ala conservatrice wahabita e si è appoggiato alla polizia religiosa nella sua scalata….

SUL PIANO ESTERO

 Come ministro della Difesa , Mohammed Ben Salman avrebbe dovuto passare per il tramite del Ministero degli Esteri per guerreggiare nello Yemen, ma come figlio del re non si attardò in quisquilie e mosse all’attacco, creandosi così una buona rete di amicizie USA tra i fornitori di materiale bellico.

Per la prima volta nella storia della dinastia il ministro degli esteri fu scelto NON tra i membri della famiglia reale e questo fu un primo segnale che sarebbe stata una partita a due.

Come nemico fu scelta la tribù degli Houti confinanti con l’Arabia Saudita a sud . Il pretesto era che stavano diventando una spina nel fianco alleata con l’Iran.        Inaspettatamente, gli Houti – privi di aeronautica-  resistettero, contrattaccarono, occuparono la capitale Sanaa e il giovane principe ebbe il suo primo “scacco al regno”.  Ossessionato dalla onnipresenza iraniana , il saudita si lanciò sulla scia USA nelle vicende irachene  che hanno visto trionfare l’Irak ufficiale ormai in mano agli sciiti per decreto ( 2003)  del proconsole USA Bremer. I Curdi rientrarono nell’ordine e l’Arabia Saudita si trovò confinante con un Irak ricostruito e diventato potenza sciita invece che sunnita come era sempre stato. Potenzialmente soggetto a influenze iraniane.

Sempre in cerca di successi napoleonici che lo legittimassero agli occhi dei sudditi, specie dopo le prime pessime figure, Mohammed Ben Salman decise di egemonizzare il Consiglio del Golfo ( una sorta di UE degli Emirati) fino ad allora gestito assieme al Katar della famiglia Al Thani. La politica del Katar è sempre consistita nel far fluire i denari in tutte le direzioni e supplire alla dimensione minima del paese ( 300.000 abitanti) con partecipazioni e sponsorizzazioni sportive di caratura mondiale.

Invitato a rompere i contatti con l’Iran ,  Tamim al Thani ,  emiro del katar, finse di non sentire. La reazione smodata fu l’accusa ufficiale  di sostenere nascostamente  il terrorismo e la sanzione lampo fu l’embargo.

Gli americani, per mostrare equidistanza autorizzarono comunque una significativa vendita di armi all’emirato. La famiglia al Thani, approfittando che il padre dell’emiro, Ahmad ben Khalifa al Thani,   ( defenestrato su richiesta USA quando iniziarono a girare le voci sui finanziamenti al Daesch) utilizzò il padre installato negli USA, per una intervista televisiva bomba: nella sua veste di ex primo ministro, dichiarò davanti alle telecamere di aver in effetti finanziato il Daesch, e di averlo fatto suprecisa, insistente  richiesta del re Abdallahben Abdulaziz , predecessore dell’attuale, e d’intesa con il governo americano e la Turchia che si sono occupati della distribuzione dei finanziamenti, delle armi, e della selezione dei mercenari. Il gruppo era destinato a ” una partita di caccia alla volpe” siriana. A conclusione della intervista, il vecchio sceicco ha anche posto la pietra tombale al progetto, dichiarandolo fallito.

Come e dove colpire l’odiato Iran? Come recuperare prestigio alla corona? Sconfitto in Siria, scornato in Yemen e ridicolizzato a Doha, restava il Libano.

Mohammed Ben Salman, convoca il primo ministro libanese Saad Hariri ( figlio dell’ex premier, arricchitosi in Arabia Saudita e  saltato in aria nel 2009) e dopo una accoglienza fredda ( nessuno all’aeroporto ad accoglierlo) e quattro ore di anticamera l’indomani, gli ingiunge di muovere guerra all’Hezbollah. Sarebbe come chiedere alla Romania di muovere guerra alla Russia.

Giudiziosamente Saad Hariri gli deve aver risposto che ci ha già provato nel 2006, subendo una sconfitta netta – come sconfitto fu l’esercito israeliano che aveva sottovalutato il problema –  Oggi l’Hezbollah fa parte del governo, alle elezioni ottiene il 50% dei voti ed è armato fino ai denti con in più la campagna di Siria in cui ha acquisito esperienza  operativa di manovra anche a livello di brigata, cosa che l’esercito regolare non ha. Hezbollah è nell’elenco delle organizzazioni terroristiche in USA, ma un movimento che ha dietro di se metà del paese, è un problema politico , non di ordine pubblico.

Altra reazione furente: Mohammed ingiunge a Saad di dimettersi da primo ministro e lo vuole sostituire col fratello maggiore Bahaa che, guarda caso è in Arabia anche lui.  Il Libano insorge in favore del suo giovanotto in pericolo, i dirigenti del partito di Hariri ( il 14 marzo) rifiutano di andare a Ryad a prestare giuramento di fedeltà a Bahaa come richiesto,  spiegando sprezzantemente che in Libano i dirigenti dei partiti li sceglie il partito in un congresso. Pietosa bugia che rivela la paura di non tornare a casa.

il presidente  della Repubblica, generale Aoun ( i cui volontari cristiani hanno combattuto assieme all’Hezbollah in Siria) si rivolge agli USA e alla Francia per ottenere la liberazione dell’ostaggio. Il dipartimento di Stato USA rilascia una dichiarazione di solidarietà e rispetto per Hariri, mentre il presidente francese Macron va in Arabia Saudita a parlare col focoso giovanotto. Esce dichiarando di non essere d’accordo con la politica iraniana del Crownprince e di ritenere che Hariri è trattenuto. Gli americani cerchiobbottisti avventizi, dichiarano che studieranno delle sanzioni a Hezbollah e la Camera dei rappresentanti autorizza eventuali spese in questo senso.

Consapevoli della gravità del momento, Israele e Hezbollah hanno tenuto un profilo basso e insolitamente silenzioso. Il quotidiano Haartez commenta che l’Arabia Saudita vuole far fare a Israele ” il lavoro sporco”.  In sede di analisi, spiega che non vuole intralciare il processo in corso di accordo tra Hamas e Fatah al Cairo e abbisogna di almeno un anno per completare le sistemazioni difensive del Sinai.

Credo che il silenzioso Hezbollah stia cercando tra i familiari del Crownprince la persona adatta a sbarazzarci del matto, mentre Saad Hariri , rintracciato da un giornalista che voleva sapere quando sarebbe tornato in Patria,  avrebbe risposto ” tra giorni”. Inchallah.

Gli USA adesso non sanno che pesci pigliare. Se seguire il rampollo reale nella sua spericolata discesa e inimicarsi anche il Libano, oppure guardare alla dinastia giordana che potrebbe sostituire i sauditi ( wahabiti) nella custodia dei luoghi santi dell’Islam, visto che ormai i wahabiti vengono sempre più considerati come estranei all’Islam. E guidati da due matti. Sono quasi certo che prenderanno la decisione sbagliata.

Khashoggi, il buono e il cattivo_di Giuseppe Germinario

La sparizione e la probabile morte del saudita Jamal Khashoggi a Istanbul ha provocato una vera e propria indignata sollevazione di scudi. La Turchia in questi mesi ha conosciuto altri eventi drammatici che hanno riguardato diplomatici, nella fattispecie l’uccisione dell’ambasciatore russo; ha vissuto tragici attentati, un tentativo di golpe e una drastica conseguente epurazione di decine di migliaia di funzionari pubblici e giornalisti che hanno rafforzato il pieno controllo politico di Erdogan sul paese. In Arabia Saudita, d’altro canto, paese componente e sino a pochi mesi fa posto senza remore alla presidenza del Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU, il confronto politico prevede da sempre, nella gamma delle modalità, la liquidazione fisica degli avversari ed altre amene trivialità; in un paese dove la pena di morte, le punizioni corporali e il controllo capillare sono connaturati al regime integralista sin dalla nascita. A conferma che queste pratiche non risparmiano nessuno il recente attacco sanguinoso con fucili di assalto nel palazzo del Principe Selmani prontamente censurato.

Da questa plumbea normalità il caso Khashoggi è emerso con grande clamore rimbalzando in tutto il mondo.

Il paladino della democrazia, il giornalista militante della libera informazione vittima della crudeltà triviale del Principe Saudita oscurantista e paranoico. In un mondo così confuso finalmente un chiaro discrimine tra il buono e il cattivo così in voga nella narrazione cinematografica.

Una nobile indignazione colta ed alimentata da quella grande stampa che negli ultimi anni pare aver spento ogni spirito critico e ogni precauzione alla manipolazione dei fatti.

Ma siamo proprio sicuri di trovarci ad un atto di redenzione sia pure tardivo?

Proviamo a porci e porre qualche domanda.

Come mai Erdogan, sino a pochi giorni fa presentato come il grande affossatore della libertà di stampa, il fustigatore di decine di giornalisti, l’epuratore per antonomasia assurge improvvisamente agli stessi occhi dei fustigatori di un tempo al ruolo di dispensatore della verità e di giudice della barbarie saudita? Eppure sono stati i turchi ad avvertire i sauditi del prossimo arrivo di Khashoggi a Istanbul; dicono di avere prove schiaccianti e filmati del barbaro assassinio, ma tardano ad esibirle. La stessa presenza di filmati, se confermata, confermerebbe piuttosto l’esistenza di una quinta colonna nel drappello saudita incaricato della missione. In operazioni analoghe i sauditi hanno per altro dimostrato ben altra perizia con il trasbordo forzato in madrepatria della vittima designata.

Come mai la testa dello schieramento dei partigiani della verità e della democrazia è fermamente e tempestivamente presidiata, tra gli altri del medesimo campo, da John Brennan, ex capo della CIA ai tempi di Obama, grande artefice delle primavere non solo arabe e del grande caos in Medio Oriente e dal Washington Post, giornale ormai ridotto a mera cassa di risonanza partigiana dell’establishment sconfitto alle elezioni presidenziali americane. Figure ormai poco attendibili e credibili per questo genere di proclami e di campagne.

Come mai il martire Khashoggi è stato unanimemente presentato come fine giornalista e scrittore e come paladino della democrazia liberale quando il suo curriculum è ben più nutrito e abbraccia un campo di interessi e di interventi ben più vasto e rilevante. La figura del giornalista, purtroppo non è più così ben definita. Il confine tra il ruolo di giornalista, quello di informatore e di agente sta diventando labile. La scena indecoroso fferta a Tripoli da buona parte degli addetti nel 2011 è rivelatrice di una insana commistione. Nel caso di Khashoggi per altro sembrano esserci pochi dubbi. Negli anni ’80 lo vediamo impegnato a buoni livelli nella resistenza jihadista in Afghanistan; successivamente lo si vede in contatto stretto con Al Qaida e con Bin Laden al punto da essere indicato dai sauditi come mediatore di una possibile riconciliazione del capo qadista con la famiglia saudita; ancora dopo lo si vede tra i sostenitori e simpatizzanti dei Fratelli Musulmani, notoriamente sostenuti e finanziati dall’emiro del Qatar e dai Turchi e ormai da tempo scaricati dai sauditi, dopo le fallimentari prove offerte in Egitto e in Libia. Obama e il suo cerchio magico aveva notoriamente riposto in essi le maggiori speranze di successo di un ribaltamento dei regimi in Medio Oriente. Da qui il suo impegno in Siria a favore dei “ribelli moderati”, almeno nelle sigle. La democrazia rivendicata da essi e dallo stesso Khashoggi, a leggere con attenzione i suoi testi, non era altro che un tentativo di imporre un diverso regime, alternativo al modello wahabita dei Saud, ma pur sempre nettamente integralista. Quanto alla sua visione geopolitica è sufficiente sottolineare la sua conclamata omologazione del Principe Selman alla figura altrettanto nefasta di Putin. Per ultimo Khashoggi è stato per anni segretario del capo dei servizi segreti sauditi, Principe Suleiman, acerrimo avversario del Principe Selman, attualmente capo di fatto della casa saudita. Negli ultimi tempi il giornalista, entrato nelle grazie di Obama, è apparso sempre più distante ed estraneo ai giochi interni alla casa saudita e sempre più legato alle trame dei servizi angloamericani. Lo stesso era addirittura in predicato di diventare uno dei capi all’estero di una eventuale rivoluzione d’Arabia che prevedeva il controllo diretto da parte americana dei pozzi di petrolio e l’instaurazione di un nuovo regime che spodestasse i Saud. Un progetto per il momento naufragato con lo stallo in Siria e l’elezione di Trump alla Casa Bianca.

Il caso Khashoggi in realtà si sta trasformando in un’occasione e uno strumento da brandire da parte dei vari attori dello scacchiere geopolitico mediorientale e delle due fazioni in lotta negli Stati Uniti. Può servire ad Erdogan per ottenere un qualche salvacondotto nella politica di sanzioni all’Iran, visto il suo vitale interscambio commerciale con esso. Può servire a ridurre a patti e a ridimensionare il peso geopolitico del Principe Selman ed indebolire quindi il suo patto di ferro con Trump ed Israele e di conseguenza a ricucire il rapporti di Erdogan con i due schieramenti negli USA. Sarebbe in proposito interessante analizzare le linee di condotta Russa e Cinese nell’eventualità di un nuovo giro di valzer turco. Per la prima volta Trump appare stretto in un cul di sac, obbligato a due scelte alternative altrettanto costose: sostenere il maldestro Bin Selman e con questo rendersi complice di un comportamento efferato; scaricarlo e con questo mettere in discussione la triplice alleanza con i sauditi e Israele; il perno della attuale politica americana in Medio Oriente.

In realtà la componente wahabita più integralista, quella stessa osteggiata dal Principe Selman, potrebbe essere quell’avversario ancora più spietato e determinato, interessato a liquidare il “giornalista” troppo vicino ai Fratelli Musulmani e agli americani. Il temporaneo sodalizio di questa con il sultano turco e la sua simbiosi con la componente democratica-neocon americana potrebbe essere il trio diabolico più interessato a liquidare e sacrificare “il paladino della democrazia” addebitandone la responsabilità al Principe saudita di fatto reggente. L’improvvisa prudenza con la quale Erdogan in queste ore sta affrontando l’affaire lascia margini alla fantapolitica. Potrebbe essere la scappatoia che consentirebbe a Trump di uscire dalla trappola e di ribaltare sulle spalle altrui il dilemma; in questo, ancora una volta, sarà importante il lavoro sotterraneo di Israele, ben presente nei tre paesi principali di quell’area.

Intanto l’Arabia Saudita ha improvvisamente aumentato i volumi di produzione del petrolio; ci sarà da attendersi una pressione dei prezzi al ribasso. Russia e Stati Uniti sono avvertiti.

Ci attende un mondo sempre più complicato e dalle apparenze ingannevoli dove i buoni, in realtà, possono rivelarsi ben peggiori dei cattivi.

Due importanti progetti sono in preparazione e in espansione in Medio Oriente; potrebbero presto scontrarsi. Di Alastair Crooke

Un interessante articolo di A. Crooke sulle dinamiche in via di formazione nel Medio Oriente. La traduzione presenta qualche difetto che non inficia la comprensione in quanto per mancanza di tempo è stato utilizzato un traduttore come base di lavoro_ Buona lettura_Giuseppe Germinario

Fonte: Strategic Culture, Alastair Crooke , 18-09-2018

Sulle ceneri di due mega-progetti di questo decennio si conclude – vale a dire il tentativo di acquisizione da parte dei Fratelli musulmani e, invece, il progetto del Golfo per romperlo – e ripristinare l’assolutismo ereditaria tribale (il “sistema arabo”) – compaiono due diversi progetti contrapposti. Stanno guadagnando sempre più potere e inevitabilmente competeranno tra loro – prima o poi. In realtà, lo fanno già. La domanda è quanto lontano andrà la rivalità.

Uno di loro è l’assembramento dell’area settentrionale della regione attraverso la diffusione di un’etica politica comune (in base alla resistenza verso gli Stati Uniti i quali insistono che la regione aderisce a un’egemonia americana restaurata) e nel bisogno più concreto di trovare un modo per aggirare la macchina da guerra finanziaria americana.

Quest’ultima società ha conseguito una grande vittoria negli ultimi giorni. Elijah Magnier, un giornalista veterano del Medio Oriente, riassume la situazione in poche parole:

Il candidato preferito degli Stati Uniti al primo ministro [Haidar Abadi] perse la sua ultima possibilità di rinnovare il suo mandato per un secondo mandato quando le rivolte scatenarono attacchi incendiari nella città meridionale di Bassora. del paese e bruciato le pareti del consolato iraniano in quella città. Mentre i residenti manifestavano per le loro legittime richieste (acqua potabile, elettricità, opportunità di lavoro e infrastrutture), i gruppi sponsorizzati con diversi obiettivi si mescolavano alla folla e riuscivano a bruciare uffici, ambulanze, un edificio governativo e una scuola. associato con al-Hashd al-Shaabi e altri gruppi politici anti-americani. Questo comportamento di folla ha costretto Sayyed Moqtada al-Sadr, leader di 54 deputati, abbandonare il suo compagno politico Abadi e porre fine alla sua carriera politica. Moqtada cercò di prendere le distanze dagli eventi di Bassora per permettere che la colpa cadesse solo su Abadi. Si è unito al campo vincente, quello dell’Iran …

“Questa combinazione di eventi ha portato Moqtada a … portare i suoi 54 deputati a unirsi alla più grande coalizione. La sponsorizzazione aperta degli Stati Uniti e gli eventi di Bassora hanno messo fine alla carriera politica di Abadi in Iraq … La più grande coalizione dovrebbe ora includere molti più di 165 deputati, e quindi diventare eleggibile per scegliere il Presidente dell’Assemblea e i suoi due deputati, il Presidente e il nuovo Primo Ministro … La nuova grande coalizione non avrà più bisogno del sostegno dei curdi (42 deputati). “

Il capo di questa vasta coalizione di partiti sciiti e sunniti sarà probabilmente Faleh al-Fayyadi, il leader di Hashd al-Shaabi. Sul fronte politico, l’Iraq è ora incline a far parte del partenariato Russia-Iran-Siria guidato da Russia e Siria al Nord (anche se le divisioni all’interno del campo sciita iracheno rimangono una potenziale fonte di conflitto) . E se, come è probabile, l’Iraq è sotto embargo imposto dagli Stati Uniti per non aver rispettato le sanzioni statunitensi contro l’Iran, allora l’Iraq sarà spinto – dall’urgenza delle circostanze – nella mutevole situazione economica che è stata oggetto di importanti discussioni al vertice di Teheran lo scorso venerdì. Cioè, in una serie in continua evoluzione di quadri economici per la de-dollarizzazione e la violazione delle sanzioni statunitensi.

La portata di questo errore di calcolo (l’istigazione di proteste violente) a Bassora (una complicità saudita è ampiamente sospettata) ha implicazioni più ampie per gli Stati Uniti. Innanzitutto, è probabile che alle forze americane verrà ordinato di lasciare l’Iraq. Secondo, complicherà la capacità del Pentagono di mantenere la sua presenza militare in Siria. La logistica degli schieramenti statunitensi nella Siria nord-orientale, che attraversano l’Iraq, potrebbe non essere più disponibile e le forze statunitensi in Siria saranno inevitabilmente isolate e quindi più vulnerabili.

Ma un’inversione di tendenza in Iraq è anche il culmine dell’aspirazione del presidente Trump a riaffermare il predominio energetico americano nel Medio Oriente. Iran – si sperava – sarebbe poi capitolare e cadono sotto la pressione economica e politica, e come e quando il domino capovolgimento iraniana avrebbe portato con sé il domino iracheno che sarebbe caduta rumorosamente all’accettazione politica

Con questo scenario, gli Stati Uniti finirebbero con le principali fonti di energia del Medio Oriente a “basso costo di produzione” (cioè petrolio, gas e petrolio del Golfo, dell’Iran e dell’Iraq) nelle loro mani. Alla luce degli eventi di questa settimana, tuttavia, sembra più probabile che queste risorse – o almeno le maggiori risorse energetiche di Iran e Iraq – finiranno nella sfera russa (con le prospettive inesplorate del bacino levantino in Siria). E questo “cuore” russo, la sfera che produce energia, potrebbe alla fine rivelarsi un rivale più che sostanziale rispetto alle aspirazioni degli Stati Uniti (che è appena emerso come “il più grande produttore di petrolio al mondo”). ) per ripristinare il loro dominio energetico in Medio Oriente.

L’altra opposta “dinamica” che sta guadagnando massa critica è l’obiettivo di Kushner-Friedman-Grrenblatt di porre fine all’insistenza del popolo palestinese che la sua stessa rivendicazione è precisamente un “progetto politico”. L’obiettivo (secondo i dettagli divulgati finora), è quello di svuotare la forza politica della loro rivendicazione – tagliando gradualmente i principali lavatori di salami che costituiscono in primo luogo questa affermazione che si tratta di un progetto politico.

In primo luogo, ponendo fine al paradigma dei due Stati, che deve essere sostituito da uno stato, uno “stato-nazione” ebraico con diritti differenziati e diversi poteri politici. Secondo, rimuovendo Gerusalemme dal tavolo dei negoziati come capitale di uno stato palestinese; e in terzo luogo, tentando di dissolvere lo status di rifugiato palestinese, per reindirizzare il peso della colonizzazione sui governi ospitanti esistenti. In questo modo, i palestinesi devono essere cacciati dalla sfera politica in cambio della promessa che possono diventare più prosperi – e quindi “più felici” – seguendo la ricetta di Kushner.

E, a quanto pare, facendo affidamento sulla loro esperienza immobiliare nel gestire inquilini scomodi che si distinguono da qualsiasi importante sviluppo immobiliare, è in corso il “restringimento” di Kushner-Friedman: ritiro dei fondi da UNWRA [L’Agenzia di Soccorso e Lavori delle Nazioni Unite per i profughi della Palestina nel Vicino Oriente è un programma di assistenza delle Nazioni Unite ai rifugiati palestinesi nella Striscia di Gaza, in Cisgiordania, Giordania in Libano e in Siria, 1949, chiusura dell’Ufficio degli Stati Uniti dell’OLP; rimozione degli aiuti agli ospedali di Gerusalemme Est e demonizzazione dei funzionari palestinesi accusandoli di corruzione e ignorando le cosiddette aspirazioni della Palestina (per un’esistenza materialmente migliore).

Recentemente, la squadra di Kushner ha riproposto una vecchia idea (sottolineato in ebraico quotidiano Yedioth Ahoronot da Sima Kadmon, 7 settembre 2018) Abu Mazen [Mahmoud Abbas Selman soprannome NdT] non ha rilasciato direttamente quando è stato avvicinato). È nata con il generale israeliano Giora Eiland nel gennaio 2010 in un articolo che ha scritto per il Begin-Sadat Center for Strategic Studies. Eiland ha scritto:

“La soluzione è stabilire un regno unificante giordano con tre” stati “: la Banca orientale, la Cisgiordania e Gaza. Questi stati, nel senso americano del termine, saranno come la Pennsylvania o il New Jersey. Godranno della completa indipendenza in materia di affari interni e avranno un budget, istituzioni governative, leggi distintive, un servizio di polizia e qualsiasi altro simbolo esterno di indipendenza. Ma, come la Pennsylvania e il New Jersey, non avranno alcuna responsabilità in due aree: politica estera e truppe militari. Queste due aree, come negli Stati Uniti, rimarranno di competenza del governo “federale” di Amman. “

Eiland ha ritenuto che tale soluzione avesse evidenti vantaggi per Israele, rispetto alla soluzione dei due stati. “Primo, c’è un cambiamento nella storia. Non stiamo più parlando del popolo palestinese che vive sotto occupazione, ma di un conflitto territoriale tra due paesi, Israele e Giordania. In secondo luogo, la Giordania potrebbe essere più conciliante su alcune questioni, come la questione territoriale. Aggiungendo che “il Medio Oriente, l’unico modo per garantire la sopravvivenza del regime è quello di garantire un controllo efficace della sicurezza … quindi, il modo per prevenire disordini in Giordania, che sarà alimentato da un futuro regime di Hamas a West Bank, è il controllo militare giordano su questo territorio [più una Cisgiordania smilitarizzata su cui Israele insiste] “.

Nel complesso, i palestinesi di Gaza (secondo i rapporti) saranno installato in Gaza / Sinai (e “controllato” dai servizi segreti egiziani), mentre le restanti enclave palestinesi in Cisgiordania saranno controllati da ufficiali giordani sotto controllo della Sicurezza generale degli israeliani. È un governo “federale” giordano che riceverà le denunce e sarà ritenuto responsabile da Israele per l’intera situazione.

Naturalmente, questo potrebbe essere solo un palloncino di prova di Kushner et al. Non sappiamo quale sarà il Trion’s Century Coup (è stato ritardato molte volte), ma ciò che sembra chiaro è l’intenzione di estinguere la nozione di tutto il potere politico palestinese in sé e rendere docili i palestinesi tagliando i loro capi e offrendo loro un guadagno materiale. I palestinesi sono attualmente deboli. E non c’è dubbio che gli Stati Uniti e Israele, lavorando insieme, potrebbero riuscire a soffocare ogni opposizione al “colpo di stato”. Gerusalemme sarà “data” ad Israele. I palestinesi saranno politicamente de-fenestrati. Ma a quale prezzo? Cosa succederà allora ai re del Golfo?

In un articolo di opinione sul New York Times , lo studioso di Oxford Faisal Devji ha osservato il mal di testa dell’Arabia Saudita:

Dopo la prima guerra mondiale, la marina statunitense sostituì gli inglesi e il petrolio rese il regno una risorsa cruciale per il capitalismo occidentale. Ma la sua supremazia religiosa ed economica è stata contestata dalla continua emarginazione politica dell’Arabia Saudita, la Gran Bretagna, gli Stati Uniti e anche l’esercito pakistano essere responsabile per la stabilità interna e la sua difesa contro le minacce esterne.

Oggi l’Arabia Saudita si oppone apertamente all’Iran, ma le sue pretese di dominio sono rese possibili solo dal declino dell’Egitto e dalla devastazione dell’Iraq e della Siria. La Turchia rimane la sua unica rivale, ancora ambigua, con l’eccezione dell’Iran.

… Il regno del principe Mohammed è più simile a uno stato “laico” che a uno stato “teocratico”, in cui la sovranità è stata finalmente strappata da clan e religiosi per essere richiesta direttamente dalla monarchia. Ma l’Arabia Saudita non può assumere un maggiore potere geopolitico se non mettendo in pericolo il suo status religioso … [Enfasi aggiunta].

Il progetto di fare dell’Arabia Saudita uno stato politicamente definito, piuttosto che religioso, rischia di demolire la visione secolare di una geografia islamica [sunnita], che è sempre stata basata sulla costituzione di un centro depoliticizzato in Arabia Saudita. La Mecca e Medina continueranno ad accogliere i loro pellegrini, ma l’Islam [sunnita] potrà finalmente trovare la sua casa in Asia, dove vive il maggior numero di suoi seguaci e dove la ricchezza e il potere del mondo continuano a fluire.

Ma questo non è semplicemente il caso dell’islam sciita, che ha saputo unire il potere politico con status religioso restaurato – come dimostra la straordinaria crescita del centro di pellegrinaggio sciita di Karbala – e il successo della L’Iran nella sua lotta contro i jihadisti wahhabiti in Siria e Iraq. (Per l’Arabia Saudita, d’altra parte, il conflitto nello Yemen ha minato la sua credibilità politica e religiosa.

Eppure … eppure, nonostante le traiettorie contrastanti, è qui che può verificarsi una collisione: Israele si è inevitabilmente alleata con l’Arabia Saudita e l’Islam sunnita. Allo stesso modo, gli Stati Uniti hanno adottato la posizione partigiana di Israele e Arabia Saudita contro l’Iran. Entrambi spingono il re saudita da dietro per condurre una guerra ibrida contro il suo potente vicino.

Alon Ben David, corrispondente militare israeliana, scrivendo sul quotidiano Ma’ariv in ebraico (7 settembre 2018), illustra la narrazione israeliana Promethean celebra il suo successo (grazie al pieno supporto di Trump): “L’esercito di difesa “Israele [IDF], che era indietro di diversi anni nel rilevare la potenziale minaccia dell’espansione dell’Iran, ha capito che doveva agire … questa settimana l’IDF ha rivelato che erano stati effettuati oltre 200 attacchi aerei in Siria dall’inizio del 2017. Ma se si guarda alla somma delle attività dell’IDF, di solito segrete, nel contesto di questa guerra, negli ultimi due anni, l’IDF ha condotto centinaia di transazioni transfrontaliere di tipo diverso. La guerra tra due guerre divenne la guerra dell’IDF, ed è stato condotto giorno e notte … Finora, Israele è stato più forte nella guerra diretta con l’Iran … quando colpiamo, il nostro potere deterrente diventa più forte. ”

Beh … è una questione di opinione (alto rischio).

Fonte: Strategic Culture, Alastair Crooke , 18-09-2018

LE CONSEGUENZE POLITICHE DEL SANGUE INNOCENTE NELLA GUERRA MODERNA, di Antonio de Martini

LE CONSEGUENZE POLITICHE DEL SANGUE INNOCENTE NELLA GUERRA MODERNA

Le reazioni al bagno di sangue che ha inaugurato l’apertura della nuova ambasciata americana ha avuto una serie di conseguenze che possono valere quanto una battaglia vinta per molti dei protagonisti.

HA VINTO HAMAS che si è vista implorata per fermare il massacro. Cosa abbia ottenuto in cambio al momento non è noto, ma certamente non ha cessato il suo attacco senza contropartite.

HA VINTO ABU ABBAS che ha mostrato di poter gestire la nuova situazione di contenzioso anche in assenza dell’arbitrato USA, rappresentando tutti i palestinesi, anche Hamas, nei media mondiali.

HA VINTO LA NON VIOLENZA dimostrando che nel villaggio globale le truppe più imbattibili sono quelle disarmate. L’impatto è stato tanto più forte proprio perché tra le truppe armate non c’è stato nemmeno un ferito lieve.

HA VINTO ERDOGAN corteggiato a Londra come un principe reale che ha ritirato gli ambasciatori da Israele e dagli USA ( questo la TV non l’ha detto) proprio nel momento in cui gli americani credevano di averlo obbligato , in piena campagna elettorale, a prendere posizione tra loro e la Russia. Può rimandare la risposta a dopo le elezioni.

HA VINTO L’IRAN che vede l’attenzione del mondo sviata dal tema delle sanzioni e della minacciata guerra americana e israeliana. Missili e bombe hanno perso importanza di fronte alle moltitudini disarmate che vanno all’assalto cantando.

HA VINTO NETANYAHU che nessuno più associa alle indagini di polizia sui trenta milioni di dollari incassati per l’acquisto di otto sottomarini dai cantieri tedeschi. La polizia deve attendere per riprendere l’inchiesta.

HA VINTO PUTIN che adesso rimane unico possibile mediatore del conflitto israelo-palestinese. Gli americani, squalificati dalla scelta di spostare l’ambasciata, ora devono colmare con un fiume di dollari, il fiume di sangue.

PERDE LO STATO DI ISRAELE che, costretto a rappresaglie permanenti, sta subendo la strategia che Churchill applicò alla Germania con le incursioni e i sabotaggi del SOE.

Quando l’intelligence Service di Stewart Menzies protestò perché l’attività di intelligence ne soffriva, rispose che “queste azioni di sabotaggio erano utili perché avevano trasformato i tedeschi nella razza (sic) più odiata del mondo.”

Con ” soli” sessantadue morti e 1360 feriti è una battaglia che ha portato i suoi frutti e per i militari una vittoria di Pirro.
Con truppe armate il costo in vite umane, da entrambe le parti, sarebbe stato molto più pesante.

SPIGOLATURE MEDIORIENTALI, di Antonio de Martini_ a cura di Giuseppe Germinario

Qui sotto due significative spigolature di Antonio de Martini apparse sui social network. La notizia più clamorosa è la vittoria relativa di Moktada Al Sadr in Iraq. Si tratta del leader che con più accanimento ha combattuto l’occupazione americana e contemporaneamente la crescente influenza iraniana nel paese. Non a caso il suo movimento ha progressivamente affievolito l’impronta confessionale ed accentuato il proprio carattere nazionale e nazionalista.

La sua ascesa ci segnala la fragilità di molti stereotipi che hanno guidato l’interpretazione dei fatti nella polveriera mediorientale:

  • la divisione confessionale tra sunniti e sciiti spiega solo in parte, ed in misura decrescente e indiretta, il conflitto e il gioco politico delle fazioni e delle formazioni politiche
  • controllata la sbornia dell’ISIS e del suo tentativo truculento di coniugare l’aspirazione universalistica con l’esigenza di radicamento territoriale, con tutto il corollario di strumentalizzazioni e manipolazioni degli agenti geopolitici più importanti, in particolare degli Stati Uniti, inizia a riprender piede un movimento nazionale dalle sembianze diverse da quelle conosciute negli anni ’70
  • la situazione in Siria e in Iraq, in apparenza del tutto favorevole alla Russia e all’Iran, sta forse rivelando il grande limite della classe dirigente predominante in Iran: l’incapacità di fermarsi al momento giusto e il rischio di compiere un passo più lungo della propria gamba. Ha certamente il grande merito di aver contribuito ad evitare la caduta del regime di Assad e il conseguente genocidio delle minoranze di quel paese. La tentazione di fare della Siria il terreno di confronto con Israele è però sempre più forte e su questo sta incontrando la ritrosia sempre più manifesta dello stesso Assad, sostenuto in questo probabilmente dagli stessi russi. Il viaggio e l’accoglienza riservata a Netanyhau a Mosca non deve essere certo stata dettata dalle sole regole di galateo diplomatico. L’azione dell’Iran si sta spingendo ormai verso l’Atlantico. Di recente ha concesso la fornitura di grosse quantità di armi al Fronte Polisario, una organizzazione ormai dedita più che altro al contrabbando. Con questa mossa ha stuzzicato il Marocco, un paese alleato dei Saud e degli Stati Uniti; ma ha irretito anche l’Algeria, sino ad ora unico contendente del Marocco in quell’area. Anche l’Azerbaijan, paese sciita al confine con l’Iran, non gode ormai dei migliori rapporti con il paese degli ayatollah. La classe dirigente iraniana fatica a dissociare la propaganda oltranzista dalla diplomazia; è il segno della porosità di quel regime alle infiltrazioni e della radicalità del conflitto presente in essa.

Nelle more godiamoci, attraverso la sequenza fotografica di questi giorni colta da un giornalista americano presente “casualmente” all’Hotel Prince de Galles di Parigi; un’anteprima, un trailer dello spettacolo prossimo venturo del quale potremo godere

Ritraggono rispettivamente Seyed Hossein Mousavian, negoziatore iraniano sul nucleare nel 2005, Kamal Kharazi, ex ministro degli esteri iraniano, Abolghassem Delfi, attuale ambasciatore iraniano a Parigi, di spalle John Kerry all’uscita dall’hotel. In un precedente articolo http://italiaeilmondo.com/2018/05/06/diplomazie-parallele-di-giuseppe-germinario/ avevamo segnalato il corso di diplomazie parallele implicate nell’affaire Iran-USA. Queste foto ci segnalano probabilmente l’avvio di una campagna politica decisamente meno “nobile”. Il vecchio establishment americano, al momento di scatenare la campagna denigratoria verso Trump pensava di disporre del monopolio delle informazioni più riservate e private degli avversari politici. Un vantaggio indiscutibile in una contesa dai colpi bassi sempre più sconcertanti. Hanno scoperchiato invece un vaso di Pandora. Gli iraniani non devono aver preso molto bene il fallimento dell’accordo recentemente disconosciuto da Trump e l’inutilità dei loro eventuali atti di generosità. In pratica si profila uno scandalo simile a quello che sta travolgendo Sarkozy, con i suoi benefici finanziari ricevuti da  Gheddafi. E’ il segno che l’afflato pacifista, al pari di quello guerrafondaio, è il più delle volte corroborato e svilito da interessi molto più prosaici e particolaristici sui quali è facile scivolare. Una debolezza che spiegherebbe almeno parzialmente tanta insulsaggine, tante paralisi e tanti immobilismi, compresi quelli dei paesi europei, giustamente sottolineati da de Martini. Buona lettura_Giuseppe Germinario

IRAK: ALTRO BRILLANTE SUCCESSO DI AISE & CIA

Si potrebbe fare un gemellaggio tra Roma e Bagdad o almeno tra il PD e il partito di Abadi, il premier sconfitto alle urne.

Le elezioni sono ancora nella fase di spoglio, ma MOKTADA EL SADR, il mullah contrario all’Iran, come agli americani, è il vincitore col 54% dei voti espressi, mentre il servetto della CIA, Abadi, primo ministro uscente, si è classificato terzo dopo Allawi, l’ex cocco degli USA che li ha mandati a quel paese tre anni fa e ha fatto un partito suo.

MOKTADA EL SADR rappresenta la parte più bisognosa e sana della popolazione, ha istigato due rivolte armate contro le truppe occupanti ed è sospettato di essere dietro l’attentato di Nassirya.

Lusinghe e minacce non lo hanno mai piegato e non ha simpatizzato nemmeno con Teheran.

Il patriottismo di El SADR è fuori discussione e questo avrebbe potuto essere utile agli USA se solo avessero voluto veramente liberare l’Irak e instaurare un regime democratico.

Cercavano un servo. Lo hanno trovato che era vice presidente della Camera. Tutti sappiamo cosa vale un vice presidente. Lo hanno fatto premier e finanziato.
Si è classificato terzo su tre.

Complimenti anche all’AISE che presidiava la zona in cui EL SADR era più forte ed avrebbero potuto scovarlo e coltivarne il talento politico.

Peccato che abbiano mandato come capo centro un ufficiale che parlava solo lo spagnolo.
Magari con un po di inglese sarebbe riuscito almeno a non farsi sparare ai posti di blocco.

TRUMP SCONFESSA L’EUROPA. L’IRAN NON C’ENTRA.

Nessuno ha fatto notare la differenza di trattamento USA a Iran e Corea del Nord.

L’Iran , ha accettato di trattare con l’ONU ( tutti i membri permanenti del Consiglio piu la Germania) e di limitare il proprio sviluppo nucleare, sotto controllo AIEA, viene ad essere oggetto di nuove sanzioni ( e chi commercia con esso, di minacce sgangherate), mentre la Corea del Nord che ha completato il suo arsenale nucleare, è stata promossa da ” Stato canaglia” a cocco di papà Trump nel giro di tre mesi.

Abbiamo tutti constatato cosa sia accaduto a Saddam Hussein, Gheddafi e Assad per aver rinunziato ai WMD “mezzi di sterminio di massa”.

Disarmarsi non è dunque una opzione valida per sopravvivere. Anzi.

Proseguiamo la meditazione con due constatazioni destinate a condizionarci l’esistenza futura:

a) nessun paese dotato di armi nucleari è mai stato oggetto di invasioni, proxy guerre e rivoluzioni pseudo democratiche. Anche solo disporre di un ordigno senza vettore da usare come mina, garantisce dalle invasioni. Nemmeno il Pakistan.

b) chi esce con le ossa rotte da questa vicenda sono i paesi membri del consiglio di sicurezza più la Germania e meno gli Stati Uniti.

Credo proprio che l’intera operazione serva a dimostrare al mondo che chi conta sia soltanto il governo USA e che l’Europa, la Russia, la Cina, anche messi assieme, non contino granché, quindi ogni accordo con loro è caduco.

Basta un qualsiasi Trump per ridurre a zero la loro credibilità.
Mondo multipolare un corno.

Dall’accordo sul clima alla Corea del Nord, se non hai il bollino qualità degli USA non hai alcuna garanzia di essere dalla parte della legalità internazionale.

L’unico rischio che corrono gli USA è che la frequentazione di Russia e Cina ( e India?) potrebbe piacerci.

La solitudine in casa e fuori non fece bene a Macbeth, non farà bene a Trump.

Diplomazie parallele, di Giuseppe Germinario

Un articolo del Boston Globe del 4 maggio scorso  narra di un incontro tra John Kerry, l’ex segretario di stato americano in carica durante l’amministrazione Obama e il ministro degli esteri iraniano Javad Zarif avvenuto circa due settimane prima nella sede dell’ONU. https://www.bostonglobe.com/news/nation/2018/05/04/kerry-quietly-seeking-salvage-iran-deal-helped-craft/2fTkGON7xvaNbO0YbHECUL/story.html

(qui invece la traduzione automatica del testo) https://translate.google.com/translate?depth=1&hl=it&rurl=translate.google.com&sl=auto&tl=it&u=https://www.bostonglobe.com/news/nation/2018/05/04/kerry-quietly-seeking-salvage-iran-deal-helped-craft/2fTkGON7xvaNbO0YbHECUL/story.html  

L’autore in realtà sostiene che l’incontro rappresenta solo l’ultimo atto conosciuto di una intensa attività intrapresa discretamente dall’ex-diplomatico in questi mesi mettendo in piedi uno staff di decine di personaggi più o meno influenti, denominato “diplomacy work” e tessendo una fitta trama di iniziative e relazioni che arriva a coinvolgere anche i più alti esponenti politici europei, tra di essi Mogherini, Merkel e Macron nonchè a influenzare l’azione politica dei detrattori dell’accordo con l’Iran. Tra queste ultime, assieme alla diffusione di centinaia di articoli e servizi, la pubblicazione di un appello di ventisei ex alti ufficiali israeliani favorevoli al mantenimento dell’accordo.

Una iniziativa certamente importante per il merito. Su questo le analisi politiche non difettano di informazioni e di punti di vista diversi pur con la solita deprimente eccezione nostrana.

Molto più significativa e dirompente è l’iniziativa in se stessa.

Nelle relazioni internazionali i vari centri decisionali dispongono sempre di canali paralleli e dei più disparati livelli di azione, più o meno ortodossi, attraverso i quali mettere in atto le proprie strategie. Accade anche che in caso di conflitto o di disaccordo tra centri decisionali interni ad un paese la tenzone non si risolva con un regolamento diretto e l’accettazione del verdetto ma attraverso l’azione che coinvolge l’intero sistema di relazioni internazionali. Con il rispetto, solitamente, di una regola aurea: la assoluta discrezione. L’iniziativa di J. Kerry infrange ancora una volta, negli ultimi tempi e soprattutto nel campo fondamentale della politica estera, questo tabù. Lo stesso per il quale venne infangato e detronizzato, a pochi giorni dal suo incarico, un anno fa il suo omologo Flynn in una condizione decisamente più dubitevole e pretestuosa. E infatti lo ha immediatamente rimarcato Devin Nunes, presidente del comitato di vigilanza sui servizi segreti del Congresso Americano https://www.alternet.org/devin-nunes-calls-john-kerry-be-arrested-fbi-send-g-men

Una situazione inconsueta di aperto osteggiamento di una azione politica, tipica di una condizione di guerra civile o di colpo di stato strisciante piuttosto che di ordinario confronto politico

Rappresenta l’ulteriore indizio dell’incomponibilità e della virulenza dello scontro in atto tra centri decisionali negli Stati Uniti. Un conflitto che non lascia spazi a mediazioni durature e che si risolverà con l’annichilimento sempre più probabile di uno dei contendenti in scena. La stessa radicalizzazione e contraddittorietà del confronto geopolitico oltre che la causa ormai può essere considerata anche la conseguenza di questo conflitto interno in corso. Con una importante novità. Due anni fa poteva apparire un conflitto estemporaneo tra un establishment tetragono e una élite estemporanea e avulsa; oggi questa élite, a costo di pesanti compromessi che hanno snaturato gran parte dei propositi originari, è riuscita a mettere radici negli apparati di potere e decisionali e a consolidare un proprio sistema di relazioni internazionali sia conclamato che più discreto entro il quale trovano spazi e mediazioni alcuni centri decisionali di potenze minori come la Francia, la Turchia e la Corea.

In questo quadro possono trovare posto eventi apparentemente incomprensibili e contraddittori come la sospensione e l’eventuale taglio dei finanziamenti americani agli “Elmetti Bianchi” in Siria, una formazione assistenziale collaterale ai gruppi ribelli sostenuti e finanziati dal campo occidentale. https://www.cbsnews.com/news/u-s-freezes-funding-for-syrias-white-helmets/

Potrebbe essere un segnale lanciato ai russi di un loro riconoscimento come attori principali di una trattativa sulla Siria ancora tutta da definire ma con un ruolo dell’Iran da ridimensionare drasticamente; potrebbe essere altresì un avvertimento alla Gran Bretagna di May, principale finanziatrice e sostenitrice di quella organizzazione, ad astenersi da iniziative autonome di pressione e provocazione, come la messa in scena dell’attacco chimico a Goutha del 7 aprile; un invito a concordare le mosse con l’attore geopolitico principale, per meglio dire con la fazione attualmente al governo se non proprio al potere.

L’una ipotesi non esclude necessariamente l’altra. Si vedrà nelle prossime puntate. Con un consiglio però: leggete attentamente gli articoli postati nei link. Raffigurano la rappresentazione plastica della complessità della trama e delle dinamiche che stanno sconvolgendo le formazioni sociali. https://www.scribd.com/document/378289155/U-S-Special-Counsel-Mueller-Vs-Paul-Manafort-Judge-TS-Ellis-III-Presiding-May-4-2017

 

guerra e diplomazia in Siria, di Antonio de Martini

Sergueï Lavrov, Mevlüt Cavusoglu e Mohammad Javad Zarif, i tre ministri degli esteri di Russia, Turchia e Iran si riuniscono oggi a Mosca per l’ennesima volta con l’intento di allargare le quattro zone di de-escalation create da gennaio ad oggi.

A Ginevra continuano a riunirsi, sotto l’egida ONU il governo legittimo siriano e i rappresentanti dei gruppi ribelli.
A parte una certa convergenza sul numero delle vittime (350.000 invece dei 600000 di fonte occidentale), non si fanno passi avanti.

Assenti gli USA, a parte lo scoppio di un ordigno MOAB – una sorta di super bomba di dimensioni e peso mega già usata in Vietnam di cui un esemplare è esposto a Hanoi- che adesso cercano di attribuire a Israele.

Non si giunge a conclusioni di pace a causa delle divergenze di interessi tra i diplomatici e il bombardamento americano ” ufficiale” e questo ultimo ” ufficioso” hanno lo scopo di incrinare i rapporti tra Russi e Iraniani.

Gli uni vogliono la pace per potersene andare, gli altri, per restare. I turchi, intanto continuano a minacciare da Efrin il contingente USA di Manbij perché ci sono le elezioni, ma non attaccano perché , evidentemente non vogliono rompere definitivamente con lo zio Sam.

Restano irremovibili sulla rimozione di Assad che i russi considerano inamovibile. Da Gennaio a oggi gli incontri tripartiti sono stati quattro, ma a parte l’accordo sulle modalità e calendari degli incontri, non si riesce a raggiungere un accordo su un cessate il fuoco permanente.

SIRIA, DOSSIER E FAKE NEWS, di Giuseppe Germinario

Tranne rare eccezioni in un confronto militare la particolare posizione dell’aggressore richiede solitamente un’azione specifica che possa innescare o giustificare l’iniziativa. La gamma di iniziative è particolarmente nutrita. Si va dalla provocazione all’induzione alla reazione, alla istigazione, alla vera e propria montatura del casus belli. Un evento così traumatico deve essere giustificato, richiede la necessaria motivazione specie in un agone ancora delimitato dalla presenza degli stati nazionali e dal riconoscimento reciproco della propria esistenza.

Il conflitto in Siria non sfugge a queste dinamiche.

Partito da un movimento di contestazione, grazie ad alcune provocazioni mirate soprattutto verso le forze di polizia si è trasformato in guerra civile; da guerra civile in pochi mesi si è evoluto in un confronto prevalente con orde di uomini, da soli o con la propria famiglia, provenienti dall’Europa e dai luoghi più disparati del Nord-Africa e del Medio Oriente in cerca di fortuna; messe a mal partito queste ultime, la Siria sta ormai diventando sempre più terreno di confronto diretto di potenze regionali e globali. Una condizione che difficilmente le consentirà di salvaguardare totalmente l’integrità territoriale.

L’attitudine alla resistenza del regime di Assad è stata mirabile come pure la sua capacità di guadagnare consenso tra la popolazione. Nel suo cammino ha incontrato fortunatamente la volontà dei russi di porre finalmente un limite all’incalzare sino all’interno dei propri confini delle strategie americane; volontà senza la quale Assad probabilmente avrebbe già raggiunto Gheddafi nel suo tragico destino e la Siria avrebbe subito una sorte analoga alla Libia, ma con consistenti parti di territorio predate dai vicini.

Le forze esterne presenti sul campo sono ancora, almeno ufficialmente e con la parziale eccezione dell’esercito turco, in numero limitato e sono attente ad evitare scontri diretti tali da innescare un crescendo imprevedibile del conflitto.

Non mancano di certo casi di attacchi diretti, in parte legati alla casualità, in parte al tentativo di testare le reazioni, in parte ancora dovuti alla conduzione schizofrenica delle campagne militari dettata dal conflitto di strategie e dal drammatico scontro politico interno soprattutto ai centri americani e sauditi. In quest’ultimo caso sono il probabile esito di pesanti provocazioni dei fautori di un conflitto più aperto presenti anche nelle potenze regionali, in particolare Israele e Arabia Saudita, intenzionate a trascinare i grandi nel conflitto a loro sostegno e in loro vece. Ne hanno fatto le spese, circa un mese fa, alcune decine di contractors russi (ex militari) vittime di bombardamenti aerei americani e israeliani.

Sta di fatto, però che le forze irregolari disposte a prestarsi a strumento di questi giochi sono in via di significativo prosciugamento, mentre gli eserciti regolari sono restii ad entrare in campo sia per un’opinione pubblica ancora ostile agli interventi, sia per l’insostenibilità di un eventuale numero elevato di perdite specie del campo occidentale, sia per la condizione caotica del fronte che ancora per la concreta possibilità di estensione incontrollata del conflitto.

Da qui la ricerca di una giustificazione e la costruzione di pretesti verosimili che legittimino gli interventi e motivino le forze disponibili.

Gli attacchi chimici sono tornati di gran voga ad essere il motivo scatenante delle intromissioni, salvo essere smentiti se non addirittura attribuiti alle presunte vittime nel breve volgere di pochi giorni e a seguito di rapidi accertamenti.

Dal punto di vista emotivo sono ancora un buon detonatore; quanto alla verosimiglianza delle versioni offerte lasciano però ormai a desiderare, visti i precedenti ingannevoli e la relativa permeabilità del sistema di informazione.

Il rapporto dato in pasto dai servizi segreti francesi e utilizzato per giustificare l’intervento anglo-franco-americano del quattordici aprile in Siria rappresenta al momento lo stato dell’arte della pretestuosità e dell’arroganza.  https://www.les-crises.fr/frappes-syrie-les-preuves-presentees-par-le-drian-le-vide-comme-nouveau-fondement-juridique-a-l-agression/

https://www.les-crises.fr/en-quete-de-verite-dans-les-decombres-de-douma-et-les-doutes-dun-medecin-sur-lattaque-chimique-par-robert-fisk/

Alcuni siti francesi si sono premurati di smontarlo punto per punto nei vari aspetti praticamente in tempo reale

  • Hanno stigmatizzato la scarsa serietà dei redattori affidatisi esclusivamente a immagini raccogliticce, definite spontanee, senza data e indicazioni precise
  • Hanno sottolineato l’ipocrisia dell’affermazione riguardante l’assenza di informatori sul campo, quando gli stessi servizi sono stati in grado di fornire l’esatta composizione delle fazioni impegnate a resistere agli attacchi delle truppe lealiste
  • Hanno denunciato la palese capziosità dell’indicazione in Assad dell’unico beneficiario possibile di tale utilizzo, a dispetto dei precedenti rapporti di organizzazioni internazionali

Sta di fatto che ciò che è apparso poco attendibile per una parte dello stesso staff presidenziale americano è rimasta una incontrovertibile verità per l’altra parte e soprattutto per il giovane Macron.

In altri tempi, quando le cortine di ferro delimitavano più chiaramente le sfere di influenza e ingessavano il confronto mediatico, tanta sfrontatezza sarebbe passata inosservata se non spacciata con buone probabilità di successo addirittura per autorevolezza.

Oggi lo scontro politico attraversa platealmente e apertamente i centri decisionali specie americani, senza esclusione di colpi. L’allentamento della presa sta facendo emergere potenziali competitori globali e una miriade di potenze regionali ambiziose in un turbinio di posizioni e di giravolte repentine tali da rendere sempre meno credibile la parola e la costruzione mediatica. Una complessità della quale rischiano di rimanere vittime, oltre che artefici anche gli attori più importanti e navigati.

Sta di fatto che la Siria è ormai diventato prevalentemente un campo di battaglia tra forze esterne dove le stesse forze lealiste di Assad, le più gelose paladine delle prerogative sovrane del paese, anche in caso di vittoria definitiva, per altro ancora lungi dall’essere conseguita, difficilmente potranno recuperare in tempi rapidi l’autonomia politica di un tempo. La posta in palio, ormai, nel breve periodo non è più l’allontanamento di Assad e nemmeno la sconfitta dei russi; è piuttosto il drastico contenimento dell’Iran. Un obbiettivo in grado di conciliare in qualche modo, in casa americana, le posizioni del nucleo originario sostenitore di Trump favorevole ad un accordo e la componente del vecchio establishment sostenitrice di uno scontro più tattico verso la Russia di Putin. Il sacrificio di Flynn e di Bannon e lo snaturamento dei propositi iniziali sono stati l’obolo necessario alla sanzione del compromesso e della stessa sopravvivenza di Trump.

Sul piano degli schieramenti internazionali hanno sancito il sodalizio americano con l’Arabia del giovane Saud e l’Israele del vecchio Netanyau; una alleanza che si sta trasformando rapidamente in un vero e proprio processo di integrazione degli stessi comandi militari nel teatro siriano i frutti del quale non tarderanno purtroppo a manifestarsi.

Si sente parlare sempre più spesso di una prossima vittoria in campo aperto rispettivamente della Russia, dell’Iran e di Assad. La sproporzione evidente delle forze militari in campo e delle risorse economiche, umane e tecnologiche disponibili dovrebbe indurre a maggior prudenza.

La maggiore coesione, la motivazione più convinta, una maggiore sagacia tattica, il parziale recupero del gap tecnologico sono i fattori che hanno consentito la tenuta dello scacchiere siriano e del regime di Assad nel breve periodo; nel lungo il logoramento potrebbe incidere più pesantemente sullo schieramento lealista.

Di tenuta tuttavia si tratta. Di una strategia tutto sommato ancora difensiva anche se dall’esito diverso rispetto a quanto accaduto in Libia e nell’Europa Orientale negli ultimi trenta anni.

Sono altri i fattori in grado di determinare un ribaltamento dei rapporti e un eventuale collasso, per lo più inerenti la situazione interna dei paesi coinvolti.

Anche la Siria ha conosciuto la propria nemesi.

Da oggetto delle brame del vicinato e da punto focale di una crisi definitiva della capacità di resistenza russa e iraniana si è trasformata in punto di irradiamento di crisi e destabilizzazione verso i predatori.

Lo si è visto in Turchia con la recrudescenza dell’irredentismo curdo e con il tentativo di colpo di stato di Gulen, duramente sopito da Erdogan. Eventi che hanno spinto il governo turco ad una inedita aspirazione di autonomia e ad un controllo ferreo delle leve anche a scapito dell’immediata efficienza degli apparati.

 Lo si intravede in Israele con la sorda guerra di Netanyau con parti della magistratura e dei servizi di intelligence che rischia di trascinare il leader verso un destino simile al suo ex-omologo Sarkozy

Lo si sospetta in Arabia Saudita dove il processo ambizioso e inderogabile di ammodernamento istituzionale, quello di riconversione di una economia troppo legata alla monocoltura di giacimenti petroliferi in via di esaurimento e di (apparente?) distanziamento dai settori più integralisti e oscurantisti del sunnismo viene sostenuto dai classici strumenti di una struttura tribale costituiti da rapimenti, sequestri e uccisioni di notabili rivali, espropriazione di patrimoni e colpi di mano su rituali di successione codificati nel tempo. Il colpo di mano nella notte di sabato scorso, documentato da immagini nelle quali riecheggiavano nutrite sparatorie nel palazzo reale a base di fucili di assalto e granate, apparse solo per pochi minuti e miracolosamente scomparse assieme all’assoluto silenzio stampa in prima mondiale, rivela quanto siano ancora precari e instabili gli equilibri in quel paese con un delfino impegnato a stringere relazioni sempre più strette, quasi simbiotiche con il nemico conclamato del mondo arabo, Israele e con il “profanatore della terra sacra” dai tempi della prima guerra a Saddam, gli Stati Uniti e coinvolto ormai direttamente in due conflitti apparentemente minori, quanto inaspettatamente logoranti. Una irruenza e un cumulo di contraddizioni e contrapposizioni giunte sino ai regimi sunniti della penisola che potrebbero costare cari alle ambizioni se non addirittura alla vita del delfino Salman.

Quanto all’Iran si è visto offrire su un piatto d’argento, grazie all’intervento americano in Iraq, l’allargamento della sfera di influenza ad occidente dopo aver approfittato della situazione precaria in Afghanistan. Si è guadagnato sul campo il potere di influenza in Siria, Libano e Striscia di Gaza incuneandosi tra le rivalità di Turchia e Arabia Saudita. E’ riuscita a mantenere un equilibrio in Libano e continua a strumentalizzare, come il resto degli attori, la questione palestinese. Allarmato dalle primavere arabe ha intensificato lo sviluppo del programma nucleare diventando un avversario temibile di Israele e dell’Arabia Saudita e cercando di entrare nel club della dissuasione nucleare. Alcune iniziative propagandistiche apparentemente gratuite ai danni degli Stati Uniti hanno forse mitigato le irruenze dei più oltranzisti, ma hanno certamente contribuito a lacerare il tenue filo che li univa agli USA. Con l’arrivo di Trump gran parte delle mediazioni raggiunte sono destinate a saltare; a meno che nel frattempo non salti il Presidente. Si tratta, comunque, di un regime e di una società molto più permeabili rispetto alle apparenze. Lo scempio operato dai servizi israeliani e americani tra i tecnici e i responsabili del programma nucleare sono un evidente indizio dello stato presente.

Lo si arguisce in Francia con un giovane e intraprendente presidente smanioso di acquisire il supporto indispensabile del paese ancora più potente, gli Stati Uniti, necessario a preservare le proprie residue sfere di influenza, di riserva economica in Africa, in Siria e nel Pacifico. Quanto sia però precaria e debole questa posizione lo rivela l’aleatorietà degli impegni economici che il regime saudita ha stretto con esso a differenza della consistenza con quelli americani. Una aleatorietà, concretizzatasi in un semplice accordo di valorizzazione del settore turistico in Arabia in netto contrasto con la pesante influenza e con le compromissioni pesanti di essa nel sistema economico-finanziario e sociale della Francia. Legami che hanno già fatto saltare le ambizioni di Sarkozy, con l’affaire libico e che promettono ulteriori sviluppi.

La fretta tradita e la grossolana costruzione di quel documento rivelano la fragilità della sicumera tutta francese di Macron, piuttosto che la sua fattiva determinazione. Il comunicato finale seguito all’incontro tra Trump e il Presidente di Francia, non ostante le effusioni, è tutta lì a rivelare le divergenze con la dirigenza americana e i legami troppo stretti, sia pur discreti, di Macron con il vecchio establishment.

Tutto dipenderà dalla prosecuzione della deriva che sta seguendo Trump. A determinarla però non sarà certamente ed eventualmente il nuovo Napoleone, se non in misura irrilevante.

Il passo dalle fake alle bolle può consumarsi rapidamente e imprevedibilmente.

Questo secolo ha rivelato la rapida evaporazione di tanti leader di successo dalle promettenti carriere. E siamo appena all’inizio.

 

LA SIRIA PUNTO DI SVOLTA DELLA FASE MULTICENTRICA, di Luigi Longo

LA SIRIA PUNTO DI SVOLTA DELLA FASE MULTICENTRICA

 

di Luigi Longo

 

 

  1. La fase multicentrica sta avendo delle impennate per il dinamismo degli USA. Un dinamismo criminale, spregiudicato, delinquenziale e fuorilegge basato sulla forza militare che assume un peso specifico nelle relazioni interne ed esterne alla potenza mondiale USA nelle fasi multicentrica e policentrica.

Le suddette fasi mondiali tolgono il velo della ipocrisia e della falsa coscienza necessaria sulla democrazia e sulla libertà praticate in Occidente e portate a modello a livello mondiale [si pensi, per esempio, a quella democrazia esportata e difesa in tutto il mondo attraverso il bombardamento etico (è il titolo di un bel libro di Costanzo Preve), statunitense, con mandato divino (sic)] che ora si rivelano essere principi decisamente astratti, che poco hanno a che fare con la realtà nella quale gli agenti strategici dominanti, vettori del conflitto strategico tra le potenze mondiali, hanno bisogno di decisioni, con una filiera del comando accorciata all’essenziale duro e sbrigativo, attraverso le articolazioni istituzionali presenti sul peculiare e storico territorio nazionale che chiamiamo Stato. Il diritto, inteso come forma di organizzazione dei rapporti sociali e territoriali subisce così processi di ri-modulazione, ri-pensamento e re-invenzione. Lo stato di eccezione schmittiano diventa una eccezione regolare storicamente data che si ripresenta necessariamente nelle fasi multicentrica e policentrica del conflitto mondiale. E’ una costante storica che deve portarci a ri-considerare le relazioni e i rapporti sociali reali nelle diverse fasi della storia mondiale che definiamo monocentrica (la presenza di una potenza mondiale che funge da centro di coordinamento), multicentrica (la presenza di più potenze che fungono da coordinamento di diversi centri egemonici che si contengono l’egemonia mondiale), policentrica (il conflitto mondiale tra centri consolidati per il dominio mondiale).

 

 

  1. Gli USA sono una potenza egemone in declino che non riesce a trovare una sintesi intorno ad un gruppo strategico dominante (per i conflitti interni tra gli agenti strategici delle diverse sfere sociali) capace di frenare il proprio declino e rilanciare una nuova sfida per l’egemonia mondiale (alla Russia e alla Cina con le loro aree di influenza sempre più larghe e penetranti il territorio mondiale) che si basi su una nuova idea di società, di sviluppo, di rapporto sociale; va ricordato che non è nella storia statunitense la cultura multicentrica del mondo e la capacità di confronto tra nazioni e tra Occidente e Oriente.

La guerra in Siria, al contrario delle altre guerre nel Medio Oriente (Iraq), nei Balcani (ex Jugoslavia) e nel Nord Africa (Libia), può rappresentare il punto di svolta verso il consolidamento del polo di aggregazione intorno alla Russia e alla Cina [che già collaborano nella sfera economica (risorse energetiche, via della seta, trattati di area, accordi commerciali, eccetera)] capace di approntare una strategia tutta orientale che lancia un confronto tra nazioni eguali con una visione multicentrica del mondo e un nuovo rapporto tra Oriente e Occidente [senza dimenticare né l’influenza della sedimentazione storica del rapporto tra Russia ed Europa a partire dalla metà del XV secolo con lo zar Ivan III (1440-1505), né l’attrito storico tra Russia e Cina]. Non si tratta di un confronto basato sulla forza militare ma sul dialogo e sul confronto tra storie, culture, popoli diversi. Tale confronto non esclude affatto le questioni fondamentali quali i rapporti sociali basati sul potere e sul dominio che riguardano sia le logiche interne che esterne delle nazioni e delle relazioni con le nazioni divenute potenze mondiali [si pensi, per esempio, a quanta influenza ha l’egemonia USA nel decidere lo sviluppo e la politica delle nazioni europee e dell’Unione Europea (che è bene ricordarlo non è l’Europa della nazioni, ma un luogo istituzionale sovranazionale nato da un progetto pensato, finanziato e guidato dagli Stati Uniti e gestito da sub-agenti dominanti)].

Gli USA devono bloccare con la forza militare la possibilità di formazione del polo Russia-Cina perché sanno che l’avverarsi di tale polo, unito alla loro incapacità di fermare il proprio declino egemonico e alla convinzione che l’unica strada percorribile sia quella della guerra (è attraverso la guerra che hanno sempre affermato l’autorità globale), non sarebbe altro che l’inizio della transizione egemonica con una diversa riorganizzazione sistemica. Henry Kissinger e Zbigniew Brzezinski, due importanti protagonisti delle strategie di dominio statunitensi, hanno sempre combattuto e temuto la formazione di un polo sia euroasiatico (Europa-Russia) sia asiatico (Russia-Cina) perché vedevano in esso una seria minaccia alla egemonia mondiale statunitense.

La guerra USA, al contrario di quello che pensava Niccolò Macchiavelli (ne Il Principe) che la intendeva come portatrice di benessere, è solo distruzione di popoli, di territori e di nazioni per contenere la Russia e distruggere sul nascere il polo di formazione asiatico intorno a Russia e Cina.

Il declino egemonico mondiale degli USA sta nella perdita della capacità di un modello sociale di benessere interno ed esterno; gli Stati Uniti basano la loro resistenza egemonica solo sulla forza militare aggressiva e distruttrice senza creazione, senza consenso e senza confronto.

 

 

  1. L’Europa resta il teatro passivo del conflitto tra le potenze mondiali che si andrà sviluppando nelle surriportate fasi della storia mondiale. I sub agenti strategici, che dominano i luoghi istituzionali dell’Unione Europea, da tempo stanno accompagnando le diverse strategie USA di contenimento della Russia e di contrasto alla formazione del polo asiatico. Si pensi al ruolo dell’UE e delle singole nazioni europee all’interno della NATO, alla trasformazione della NATO da strumento di difesa contro la minaccia sovietica a strumento di attacco fuori area (la Nato Responce Force), alla militarizzazione tramite Nato del territorio europeo, alle infrastrutture civili da supporto a quelle militari della Nato, alla nascita della PeSCO (Permanent Structured Cooperation, Cooperazione Strutturata Permanente) del campo della difesa UE, agli interventi del Pentagono (Dipartimento della Difesa degli USA) sulle strutture militari presenti sul territorio europeo, all’americanizzazione del territorio europeo, eccetera; temi dei quali ho già trattato in precedenti scritti.

Il processo di americanizzazione europeo ha condizionato fortemente lo sviluppo e l’autonomia delle singole nazioni; ha ridotto l’Europa ad una espressione geografica a servizio delle strategie statunitensi nelle diverse aree mondiali. Tutte le succitate guerre degli USA [di invasione e di violenza alla sovranità nazionale tramite ONU o tramite NATO o tramite coalizione internazionale o tramite attacco diretto con alleati), a partire dalla implosione dell’URSS (1991)] hanno visto la partecipazione di diverse nazioni europee che si sono ritagliate spazi nella sfera economica (gestione di risorse energetiche, allargamento di aree di influenza e di mercato per le imprese, eccetera), ma sotto stretta sorveglianza delle diverse strategie politiche della potenza imperiale statunitense sempre per contrastare le nascenti potenze mondiali (Russia e Cina) capaci di sfidare l’egemonia statunitense [ esempi recenti la guerra di Libia (iniziata nel 2011) e la guerra in Siria (iniziata nel 2011)].

La stessa storia si ripete oggi, in maniera diversa, con il recente attacco USA alla Siria, dopo sette anni di tentativi di smembramento di una nazione sovrana, con morti e sofferenze inenarrabili della popolazione, insieme agli alleati ufficiali europei (Francia e Regno Unito) interessati alla sfera economica, per contrastare l’egemonia dell’area della Russia e il consolidamento di una potenza regionale come l’Iran che minerebbe il ruolo di Israele come potenza regionale vassallo USA nella politica in Medio Oriente (senza dimenticare la questione storica, politica e territoriale della Turchia), area nevralgica del conflitto strategico mondiale. Il pretesto dell’uso di armi chimiche non regge: perché Bashar al-Assad avrebbe dovuto usare le armi chimiche sulla popolazione di Douma, nell’ambito di un’offensiva globale nei confronti della regione Ghouta orientale, quando ormai i ribelli erano pronti alla resa?

E’ emblematico che nessuna nazione europea abbia protestato duramente contro il criminale attacco degli USA e dei suoi alleati; anzi, è stato sostenuto dal Segretario della Nato Jens Stoltenberg e appoggiato dalla UE, dalla Germania (Angela Merkel: risposta “necessaria e appropriata” agli attacchi chimici), Giappone, Canada e Israele. Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha bocciato una bozza di risoluzione proposta dalla Russia che “condannava l’aggressione contro la Siria da parte degli Stati Uniti e dei suoi alleati, in violazione delle leggi internazionali e della Carta delle Nazioni Unite”.

 

 

  1. L’Italia è una drammatica espressione geografica a servizio degli USA che considerano il territorio italiano fondamentale per le loro strategie nel Mediterraneo e nel Vicino Oriente, oltre ad ospitare basi Nato-USA di grande rilievo e importanza.

L’Italia, a partire dalla sua Unità sotto il coordinamento inglese fino alla direzione statunitense, dalla seconda guerra mondiale in poi, può essere un laboratorio storico e politico per capire come l’egemonia inglese prima e quella degli Stati Uniti dopo, hanno piegato lo sviluppo del nostro Paese alle loro strategie di dominio, sia con la forza ( uccisioni di agenti strategici che pensavano alla sovranità e allo sviluppo del Paese), sia con il consenso (selezione di sub agenti strategici pronti a sacrificarsi per il bene del Paese alla servitù inglese e statunitense).

Qual è la reazione dell’Italia alla criminale aggressione degli Stati Uniti e dei suoi alleati alla nazione sovrana della Siria fatta in questi giorni? E’ emblematica della stupidità della nostra classe dirigente ben selezionata per il bene del nostro Paese.

L’account Twitter ItaMilRadar, che monitora il traffico aereo militare sui cieli italiani e sul Mediterraneo, ha riferito che due aerei militari della US Navy sono decollati dalla base Sigonella. Il primo, per pattugliare l’area al largo del porto siriano di Latakia nei cui pressi si trova la base militare russa, il secondo per svolgere attività di pattugliamento verso Est. Un Boeing E-3 della Nato ha invece svolto attività di pattugliamento nei pressi del confine tra Turchia e Siria. Ovviamente è un pattugliamento di carattere ordinario! ( www.lasicilia.it, 11/4/2018).

Il 10 aprile scorso l’Agenzia Al Sura ha segnalato che una cisterna volante italiana KC-767 è entrata in Giordania dallo spazio aereo dell’Arabia Saudita.

Le basi Nato-Usa in Italia sono in piena allerta e pronte per gli interventi in Siria. Inoltre, l’ex Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica Militare, Pasquale Preziosa, ci ha ricordato che la base Nato di Sigonella in Sicilia, dove sono ubicati i droni strategici RQ-4 Global Hawk, è importante sia geograficamente sia strategicamente per l’attacco USA in Siria (intervista di Paolo S. Orrù pubblicata su www.tiscali.it, 14/4/2018).

Bene. Cosa fanno i nostri leader politici? Silenzio: il silenzio della paura. L’unica dichiarazione ambigua e strumentale è stata quella di Matteo Salvini che ha criticato l’attacco USA e ha precisato comunque l’importanza di stare dentro l’alleanza atlantica e che il problema è Donald Trump, come se la qualità di un Presidente facesse venir meno la criminalità imperiale statunitense.

E i nostri parlamentari? I più intelligenti hanno chiesto al Governo di conferire in Aula per conoscere i fatti ed informare il Parlamento delle iniziative prese nelle sedi competenti per una inchiesta internazionale indipendente per far luce su quanto accaduto.

 

 

  1. 5. Questo ruolo di servitù volontaria ha impedito all’Europa di essere un soggetto politico espressione di una Sintesi delle Nazioni con una propria autonomia e con un proprio ruolo da giocare nello scambio sociale, economico, culturale e politico tra Occidente e Oriente: Perché? Quali le ragioni storiche e politiche? Quali le strategie per cambiare sguardo e guardare a Oriente per un mondo multicentrico che allontani sempre più la fase policentrica?

Occorrono nuovi agenti strategici in un mondo in forte movimento per il trapasso di epoca così come sosteneva Niccolò Macchiavelli, nella Mandragola la più bella commedia italiana scritta tra il 1513 e i primi mesi del 1514, :<< […] L’espressività di Nicia, il suo sputare motti popolari a raffica diventano emblematici di un attaccamento ottuso a una fiorentinità senza prospettive, in un’epoca in cui […] la crisi politica e morale che stringe Firenze e l’Italia richiederebbe uomini nuovi, lungimiranti, tutt’altro che intenti a tenere lo sguardo fisso all’ombra del proprio campanile >>.

 

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