Taiwan: la piattaforma dei semiconduttori, di Gavekal

Il controllo della tecnologia dei semiconduttori è uno degli oggetti principali della contesa geopolitica e geoeconomica, in particolare tra gli Stati Uniti e la Cina. Il contrasto tocca sia l’ambito militare che quello civile, anche se con l’andar del tempo, è sempre più problematico distinguere i due aspetti. Non ostante i proclami distensivi, su questo aspetto l’amministrazione Biden non sembra distinguersi particolarmente dal quella precedente di Trump. Non sarà il solo. Taiwan continuerà ad essere uno dei punti più caldi del pianeta. Il solito grande assente:l’Europa_Giuseppe Germinario

In Europa e negli Stati Uniti, le fabbriche di automobili vengono chiuse e i lavoratori licenziati, non a causa del Covid-19, ma a causa della carenza di microchip provenienti dall’Asia. Questa tempesta si concentra su Taiwan, che per decenni è stata un fornitore a contratto non riconosciuto di elettronica e prodotti chimici. Per coloro che non lo avessero notato, le sue aziende ora dominano la produzione globale di chip di fascia alta e le attuali dinamiche del settore significano che questa presa si intensificherà.

Articolo di Vincent Tsui, economista e analista finanziario.

Articolo originale pubblicato su Gavekal . Traduzione di conflitti.

 

Non c’è nulla di spiacevole in questa carenza poiché si è manifestata in piena vista. All’inizio della pandemia, le case automobilistiche hanno annullato gli ordini di chip, spingendo i produttori asiatici a riorganizzare le loro linee di produzione per realizzare microprocessori per dispositivi di rete 5G e smartphone. Inoltre, l’esplosione della domanda di gadget di tutti i tipi da parte dei consumatori occidentali bloccati ha reso difficile per i produttori di chip soddisfare gli ordini che le case automobilistiche hanno ripresentato nel corso dell’anno. Le sanzioni statunitensi contro il più grande produttore di chip cinese hanno anche limitato la fornitura di chip disponibili a livello globale.

 

Alla fine, questi colli di bottiglia verranno eliminati nei prossimi mesi e la produzione di auto dovrebbe riprendere subito dopo. Tuttavia, l’entità dell’interruzione mostra la vulnerabilità dei produttori avanzati a qualsiasi interruzione in una catena di fornitura di semiconduttori ora dominata da pochi attori giganti. Oltre ai fattori sopra menzionati, sono in gioco anche due fattori strutturali:

  1. Il costo della “migrazione dei nodi di processo” che riduce il divario tra i transistor per ottenere una maggiore densità logica è in costante aumento. Le nuove generazioni di chip richiedono enormi investimenti di capitale e la produzione di chip è un’attività a basso margine di profitto che richiede ai produttori un tasso di utilizzo molto alto. Attori di spicco come Taiwan Semiconductor Manufacturing Companyapprofittare delle economie di scala e investire somme considerevoli in ricerca e sviluppo per stare al passo. Le barriere all’ingresso sono dell’ordine della fortezza e il mercato è quindi pienamente consolidato. TSMC detiene più della metà del mercato globale delle fonderie di semiconduttori e, insieme alla società sudcoreana Samsung Electronics e alla società taiwanese UMC, i primi tre attori detengono una quota di mercato del 78%.

 

  1. Il processo di progettazione e produzione del chip viene diviso in due. Storicamente, aziende come Intel e Texas Instruments hanno gestito l’intera gamma di progettazione, produzione, assemblaggio e test di chip. Tuttavia, questi produttori integrati hanno gradualmente perso quote di mercato a favore di società di semiconduttori “prive di fabbrica” ​​che progettano microprocessori e affidano la loro produzione a produttori di “fonderia” come TSMC. I giocatori integrati non sono stati in grado di migliorare costantemente le fabbriche per essere alla pari con le grandi fonderie, e quindi si sono sforzati di produrre i chip più avanzati.

Padronanza tecnica della produzione di chip elettronici

 

Uno dei fattori chiave che ha incoraggiato un modello di sviluppo “separato” senza fabbrica è stata la difficoltà di Intel nel padroneggiare la tecnologia avanzata dei nodi a 7 nm. Sono passati quattro anni da Samsung e TSMC e, in una crisi umiliante, sta esternalizzando parte della sua produzione di chip alle fonderie asiatiche. Ciò ha costretto Intel ad abbandonare un modello integrato interno che aveva sostenuto per decenni e ha dato ancora più potere di mercato alle aziende taiwanesi e coreane.

 

Un’altra minaccia per i produttori integrati proviene da società di software e cloud computing come Microsoft, Amazon, Facebook e Google che stanno iniziando a progettare i propri microprocessori che saranno prodotti dalle fonderie asiatiche. I colossi americani del software lo fanno per ottimizzare le prestazioni dei loro sistemi eliminando le ridondanze insite nei chip generici. Queste società di software sono state alleate chiave per aziende come Intel per decenni (ricordate il duopolio Wintel!) E la rottura sta sconvolgendo il modello di produttore integrato.

 

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Queste tendenze hanno accelerato la fine del modello integrato di progettazione e produzione di chip da parte delle aziende “fai tutto”. Di conseguenza, la produzione di chip è destinata a diventare ancora più concentrata in Asia, il che avrà un impatto positivo sulla competitività e sulle prospettive di crescita della regione. Solo TSMC e Samsung Electronicspuò fabbricare semiconduttori avanzati con spaziatura inferiore a 10mn. Ma anche all’interno di questo duopolio, TSMC domina nonostante il fatto che il suo rivale coreano abbia speso ingenti somme cercando di raggiungerlo entro il 2022. Taiwan oggi guadagna circa il 75% del totale delle entrate globali della fonderia ed è il più grande vincitore nella tendenza dell’outsourcing. Nel quarto trimestre del 2020, Taiwan ha registrato la sua più forte crescita economica in un decennio e la situazione dovrebbe rimanere positiva.

 

Il dominio di Taiwan

 

Eppure, nonostante questo predominio taiwanese, i paesi con fonderie di medie dimensioni possono anche trarre vantaggio dall’acquisizione di ordini per chip meno avanzati, come quelli che le case automobilistiche cercano oggi. Inoltre, l’attuale carenza di chip spingerà gli acquirenti industriali a diversificare le loro reti di fornitori al di fuori di Taiwan. Si prevede quindi che le fonderie di secondo livello in Corea del Sud e Cina riceveranno ordini, sebbene le società cinesi rischiano sanzioni statunitensi se producono chip utilizzando modelli o apparecchiature statunitensi. La Corea dovrebbe quindi essere un grande vincitore secondario nel passaggio alla produzione senza fabbrica, che ha il vantaggio di ridurre la sua dipendenza dall’industria dei chip di memoria a basso margine e altamente ciclica.

 

Poiché i produttori integrati perdono terreno in questo cambio di settore, anche i paesi che ospitano i loro impianti possono soffrirne. Le fabbriche di produttori integrati a Singapore, Malesia e Filippine sono minacciate, mentre quelle negli Stati Uniti e in Cina dovrebbero essere mantenute, poiché i loro grandi mercati interni garantiranno la sostenibilità dell’ecosistema. A livello macroeconomico, questa riorganizzazione dell’industria dei semiconduttori rafforzerà la performance divergente delle esportazioni del Nord e del Sud-est asiatico, poiché esiste un forte legame tra il commercio e il ciclo degli investimenti.

 

La dimensione geopolitica

 

L’emergere di Taiwan come vincitore di un’industria dei semiconduttori riorganizzata sta concentrando l’attenzione dei responsabili politici di tutto il mondo sulle loro vulnerabilità se le relazioni attraverso lo Stretto dovessero deteriorarsi. Louis ha sostenuto che il dominio di Taiwan in quest’area potrebbe renderla geopoliticamente cruciale come lo era l’Arabia Saudita durante l’era del petrolio (vedi The New Geostrategic Pressure Point). Un assaggio potrebbe essere stato dato dalla cassaforma della produzione automobilistica. Tuttavia, la vera preoccupazione sarebbe una situazione di stallo tra Taiwan, Cina e Stati Uniti che interrompe la produzione di chip, il che potrebbe portare a una negazione permanente dell’offerta.

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Una tale interruzione delle relazioni potrebbe verificarsi se il governo di Taiwan cominciasse a considerare il suo primato nella catena di approvvigionamento elettronica come una merce di scambio quando verifica le linee rosse della sovranità. Tuttavia, la stessa criticità dell’industria dei chip di Taiwan significa più probabilmente che tutte le parti interessate nelle relazioni attraverso lo Stretto hanno interesse a promuovere la stabilità. In questo caso, Taiwan potrebbe continuare a capitalizzare la sua posizione dominante nel campo dei semiconduttori, ma vedere questo flusso di cassa scontato con un premio di rischio inferiore (vedi Il punto luminoso post-elettorale per Taiwan). Ciò fa ben sperare per le prospettive di crescita del Paese e per la performance delle sue attività di rischio.

https://www.revueconflits.com/taiwan-covid-19-puces-gavekal-vincent-tsui/

Cinque punti sull’accordo Cina-UE, di Olivier Prost e Anna Dias

Cinque punti sull’accordo Cina-UE

Con l’ambizione di “riequilibrare” i propri rapporti con la Cina, l’Unione Europea ha firmato con Pechino un accordo globale di investimenti, frutto di negoziati iniziati nel 2013 in un contesto politico completamente diverso. Sebbene il suo contenuto sia stato pubblicato di recente, Olivier Prost e Anna Dias forniscono un’analisi informata su un accordo sensibile.

Il 30 dicembre 2020, Ursula von der Leyen, Charles Michel, Angela Merkel ed Emmanuel Macron hanno annunciato in videoconferenza la conclusione di un accordo di investimento globale con la Cina di Xi Jinping, chiudendo i negoziati avviati nel 2013 (il “CAI” o “Accordo” ).

Il suo contenuto, recentemente svelato1, mostra un ambito tecnico relativamente modesto. Tuttavia, spetterà chiaramente alle imprese europee, attraverso gli strumenti offerti dall’accordo e gli strumenti per l’efficace attuazione degli accordi bilaterali della Commissione, far vivere al massimo le sue disposizioni e cercare soluzioni costruttive e pragmatiche, che gli impegni della Cina in termini di accesso agli investimenti nel suo territorio diventano una realtà più visibile.

Politicamente, tuttavia, l’Accordo è tanto coerente quanto tecnicamente modesto. Concluso in un particolare contesto geopolitico, dà alla Cina la speranza di migliorare la sua posizione nelle relazioni commerciali triangolari tra l’Unione europea (UE) e gli Stati Uniti. Questa non è la garanzia per la Cina di evitare sistematiche opposizioni UE-USA nei suoi confronti, ma la speranza che l’UE possa non allinearsi sistematicamente con le posizioni degli Stati Uniti.2. Questo costo politico, significativo per l’UE, è senza dubbio uno dei motivi per cui i suoi organi sono stati colti da diversi mesi da una frenesia di proposte normative volte a disciplinare il flusso di importazioni ingiuste, destabilizzanti o addirittura non rispettose di alcuni principi fondamentali quali come quelli relativi ai diritti umani. Sebbene queste iniziative siano rivolte a tutti i paesi, nessuno può negare che siano guidate principalmente dalla Cina.

1.  Un primo passo compiuto in un contesto particolare, un processo ancora lungo

Il trattato di Lisbona ha conferito all’Unione la competenza esclusiva nel settore degli investimenti esteri diretti (IDE). Spetta quindi ora a lui promuovere la sua competitività sui mercati mondiali attraverso maggiori investimenti e un migliore accesso ai mercati dei paesi terzi. Questa estensione delle competenze conferisce inoltre all’Europa una maggiore influenza sugli accordi di investimento internazionale, uno strumento essenziale in qualsiasi reazione alla globalizzazione.

L’obiettivo dei negoziati avviati nel 2013 con la Cina e sfociati nell’Accordo appena “firmato politicamente” è stato innanzitutto quello di sostituire il “mosaico” degli accordi bilaterali di investimento conclusi dagli Stati membri dell’UE, 25 in il tutto, comprendente perimetri diversi e incentrato sulla protezione degli investitori, senza affrontare la questione essenziale dell’accesso al mercato.

Già a settembre, a seguito di una videoconferenza con il presidente cinese Xi Jinping, il presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, aveva dichiarato alla stampa: “La Cina deve convincerci che vale la pena di avere un accordo di investimento”. La Cina sembra quindi essere stata persuasiva, facendo nuove offerte e riconoscendo che la conclusione di un accordo sotto la Presidenza tedesca offriva una finestra di opportunità che rischiava di chiudersi in seguito. Eppure, se gli ultimi quattro anni ci hanno insegnato qualcosa – il recente accordo sulla Brexit, la rinegoziazione del NAFTA, l’accordo di Fase 1 tra Stati Uniti e Cina – è che gli accordi commerciali e gli investimenti sono più che semplici accordi tecnici tra due economie.

Gli accordi commerciali e di investimento sono più che semplici accordi tecnici tra due economie. Sono diventati sempre più sforzi politici.

OLIVIER PROST E ANNA DIAS

L’Unione Europea ha deciso di suggellare l’accordo con Pechino, pur sottolineando che non era probabile che impedisse una stretta collaborazione con gli Stati Uniti sulle questioni cinesi. Lo testimonia la presentazione, lo scorso dicembre, di una nuova agenda transatlantica, di cui la Cina si qualifica ancora una volta come “rivale sistemica”. Stava rispondendo all’amministrazione Biden, che al suo arrivo ha anche sottolineato il suo impegno a lavorare con i suoi alleati e partner per affrontare le sfide che la Cina presenta agli standard e alle istituzioni globali.

Ciò non è sembrato sufficiente a creare una certa confusione nell’amministrazione Biden sul reale posizionamento dell’Unione nei confronti della Cina, e la stessa Cina sembra nella sua comunicazione pubblica dare l’impressione di aver stretto una nuova alleanza con l’Europa. È vero che la temporalità della conclusione è più che particolare: mentre le relazioni diplomatiche tra Unione, Stati Uniti e Cina sono segnate da un insieme di temi di grave e altamente politica preoccupazione (repressione degli oppositori politici a Hong Kong, deportazione di Uiguri ai campi di lavoro, censura e mancanza di trasparenza nella gestione dell’attuale pandemia) – tutte preoccupazioni che hanno portato gli Stati Uniti a prendere sanzioni nei confronti della Cina e dei suoi leader – l’Unione Europea decide di concludere un Accordo che segna una dinamica di apertura agli investimenti e di rinnovata fiducia con il suo partner cinese. Tuttavia, non si può negare che le relazioni economiche sino-europee avevano un disperato bisogno di un nuovo inizio. La Cina ha accumulato per molti anni un ritardo significativo nell’attuazione dei suoi impegni commerciali, in particolare quando è entrata a far parte dell’OMC. Potremmo ovviamente considerare la Cina come un partner in malafede, ma l’Unione Europea, sotto la guida del Cancelliere Merkel e del Presidente Macron, ha invece scelto una strada pragmatica,

La Cina ha accumulato per molti anni un notevole ritardo nell’attuazione dei suoi impegni commerciali, in particolare quando ha aderito all’OMC. L’Unione Europea, sotto la guida del Cancelliere Merkel e del Presidente Macron, ha invece scelto una strada pragmatica, che consente di sbloccare questa situazione e di far avanzare concretamente le cose a favore delle imprese europee che investono in Cina.

OLIVIER PROST E ANNA DIAS

Quanto all’entrata in vigore dell’Accordo stesso, la strada da percorrere è ancora lunga e dovranno precederla diverse tappe importanti.

Primo, perché il testo attuale non è un testo definitivo, nonostante l’importante comunicazione pubblica da entrambe le parti. La Commissione ha indicato che sta effettuando revisioni tecniche di cui non si conosce l’entità. Inoltre, l’accordo concluso dal negoziatore, vale a dire la Commissione europea, deve quindi essere riesaminato dai giureconsulti e quindi ratificato, come qualsiasi trattato internazionale, per acquisire forza di legge. È probabile che il processo di ratifica sia complesso. La Commissione ha dichiarato di ritenere che l’accordo rientri nella competenza esclusiva dell’Unione europea come definita dal trattato, il che implica una ratifica limitata al Parlamento europeo. Alla luce delle recenti esperienze con accordi conclusi, ad esempio, con Singapore o il Canada, si discute la questione delle competenze esclusive o condivise tra l’Unione e gli Stati membri. Per quanto riguarda la giurisprudenza della Corte di giustizia, quello che riguarda la tutela degli investimenti è una competenza condivisa, necessita quindi di una ratifica estesa a tutti i Parlamenti nazionali, con il rischio di blocchi e ritardi, come abbiamo visto. Con l’accordo con Canada. D’altra parte, poiché le questioni relative alla protezione degli investimenti sono state rinviate per ulteriori negoziati nell’Accordo con la Cina, si potrebbe pensare che la ratifica sarebbe limitata al Parlamento Europeo, ad eccezione di un gruppo di Stati membri. Non soddisfatto dell’Accordo non lo fa. dimostrare che alcune clausole riguardano effettivamente la protezione degli investimenti. quello che riguarda la tutela degli investimenti è una competenza condivisa, quindi richiede una ratifica estesa a tutti i parlamenti nazionali, con il rischio di blocchi e ritardi, come abbiamo visto con l’accordo con il Canada. D’altra parte, poiché le questioni relative alla protezione degli investimenti sono state rinviate per ulteriori negoziati nell’Accordo con la Cina, si potrebbe pensare che la ratifica sia limitata al Parlamento europeo, ad eccezione di un gruppo di Stati membri che non sono soddisfatti dell’Accordo non mostra che alcune clausole riguardano in realtà la protezione degli investimenti. quello che riguarda la tutela degli investimenti è una competenza condivisa, quindi richiede una ratifica estesa a tutti i parlamenti nazionali, con il rischio di blocchi e ritardi, come abbiamo visto con l’accordo con il Canada. D’altra parte, poiché le questioni relative alla protezione degli investimenti sono state rinviate per ulteriori negoziati nell’Accordo con la Cina, si potrebbe pensare che la ratifica sarebbe limitata al Parlamento Europeo, ad eccezione di un gruppo di Stati membri. Non soddisfatto dell’Accordo non lo fa. mostrano che alcune clausole riguardano effettivamente la protezione degli investimenti.

È chiaro che il processo darà luogo a un dibattito politico sulla posta in gioco delle relazioni Europa-Cina che andrà ben oltre le questioni economiche e commerciali con il potenziale o il rischio di bloccarne l’attuazione a tempo indeterminato.

OLIVIER PROST E ANNA DIAS

È chiaro che in un caso o nell’altro – ratifica da parte del Parlamento europeo o di tutti i 27 parlamenti nazionali – il processo darà luogo a un dibattito politico sulla posta in gioco delle relazioni Europa-Cina che andrà ben oltre le questioni economiche e con potenziale o il rischio di bloccarne l’implementazione a tempo indeterminato. Alcuni temi delicati legati a questo Accordo, come il commercio sostenibile oi diritti umani, dovranno assolutamente essere “chiariti” per la firma finale dell’Accordo che dovrebbe avvenire a metà della Presidenza francese dell’Unione Europea, nel primo metà del 2022, anno delle elezioni presidenziali anche in Francia. La strategia globale dell’Unione europea nei confronti della Cina dovrebbe pertanto essere quanto più chiara possibile entro il 2022.

2.  Le caratteristiche principali dell’accordo

L’accordo mira innanzitutto a consentire alle imprese europee un migliore accesso al mercato cinese e ad offrire loro condizioni di concorrenza più eque su questo mercato. D’altra parte, bisognerà attendere altri due anni prima di scoprire il secondo pilastro di questo Accordo che, una volta effettuato l’investimento, mirerà a tutelarlo da espropriazioni o altre misure penalizzanti. Questo sarà quindi il momento in cui le regole bilaterali a livello europeo sostituiranno i 25 trattati bilaterali in vigore sulla protezione degli investimenti conclusi tra la Cina e gli Stati membri.

2.1 Garantire un migliore accesso ai mercati

L’accordo contiene nuove aperture e nuovi impegni sull’accesso al mercato. In pratica, ciò significa porre fine alle restrizioni che limitano il numero di società suscettibili di operare in uno specifico settore, ai limiti alla partecipazione di capitali esteri oa requisiti come l’obbligo di costituire joint venture con una società cinese come condizione per operare in territorio cinese. Oltre a ciò, l’Accordo merita attenzione in quanto l’Unione Europea è riuscita a elencare un gran numero di impegni, ispirati da tante esperienze negative incontrate dalle aziende europee negli ultimi vent’anni – e altrettante clausole legali, specifiche, e quindi meno suscettibili all’interpretazione, che può, se necessario, essere soggetto al meccanismo delle controversie bilaterali. Tra queste clausole, si segnala il divieto di trasferimenti forzati di tecnologia o l’obbligo di svolgere una certa percentuale di ricerca e sviluppo in Cina.

Se queste concessioni cinesi possono sembrare un’importante vittoria per l’Unione Europea, va anche ricordato che molte di queste clausole erano già state concesse dalla Cina nella sua legge sugli investimenti esteri entrata in vigore nel 2020, largamente ripresa nella fase un accordo commerciale tra gli Stati Uniti e la Cina.

OLIVIER PROST E ANNA DIAS

Se queste concessioni cinesi possono sembrare un’importante vittoria per l’Unione Europea, va anche ricordato che molte di queste clausole erano già state concesse dalla Cina nella sua legge sugli investimenti esteri entrata in vigore nel 2020, largamente ripresa nella fase un accordo commerciale tra gli Stati Uniti e la Cina. Ad esempio, la legge cinese già proibiva i trasferimenti forzati di tecnologia, concedendo il trattamento nazionale alle imprese a investimento straniero e garantendo loro pari diritti di partecipazione agli appalti pubblici. Inoltre, per quanto riguarda la graduale apertura dell’accesso al mercato agli investimenti esteri, dal 1995 la Cina ha classificato i settori come “limitati” o “vietati” per l’accesso da parte di investitori stranieri. Quando questo elenco negativo è stato aggiornato l’ultima volta, conteneva solo 34 settori. Inoltre, alcuni degli impegni di apertura del mercato assunti dalla Cina ai sensi dell’Accordo sono già coperti dalle sue normative o politiche nazionali e sono applicabili a tutti gli investitori stranieri, inclusi alcuni dei settori chiave dell’Accordo.

Resta il fatto che è inutile cercare la “paternità” definitiva delle concessioni fatte dalla Cina. La cosa più importante è che esistono, e inoltre la Commissione Europea ha sottolineato che sarebbero applicabili a tutti i paesi membri dell’OMC applicando la clausola della nazione più favorita. Ma soprattutto, per le imprese europee, era fondamentale che fossero “scolpite nella pietra” in un accordo bilaterale che univa Unione Europea e Cina e capaci di essere oggetto di risoluzione bilaterale delle controversie, che non necessariamente favorisce l’approccio del contenzioso, ma la ricerca di soluzioni costruttive da parte delle aziende interessate, con il supporto dei rispettivi Stati. Perché un impegno dalla Cina poteva esistere da diversi anni e un’azienda europea,

2.2 Rafforzare la parità di condizioni

L’accordo contiene anche impegni intesi a promuovere condizioni di parità) a vantaggio delle imprese europee (cui è concesso il “trattamento nazionale”) e una maggiore trasparenza nella regolamentazione dei sussidi e delle licenze. Tra le sue disposizioni volte a garantire parità di condizioni, l’Accordo presenta un articolo volto alla regolamentazione e alla trasparenza delle sovvenzioni, con ampia copertura dei settori dei servizi. L’accordo adotta la definizione di sovvenzioni dell’Accordo sulle sovvenzioni e le misure compensative (ASCM) e non si applica alle sovvenzioni per la pesca e i prodotti della pesca o per i servizi audiovisivi. Un allegato specifica i settori ai quali si applicano gli impegni in termini di trasparenza delle sovvenzioni: servizi alle imprese, servizi di comunicazione, servizi di costruzione e relativi servizi di ingegneria, servizi di distribuzione, servizi ambientali, servizi finanziari, servizi relativi alla salute, servizi relativi al turismo e ai viaggi, trasporti e fornitura di servizi. Questo articolo prevede che le parti debbano pubblicare informazioni su obiettivi, base giuridica, forma, importo e destinatario di ciascuna sovvenzione. Questi impegni in materia di trasparenza dovrebbero entrare in vigore entro due anni dall’entrata in vigore dell’accordo.

Tenuto conto del fatto che la Cina è riuscita ad escludere le sovvenzioni dall’ambito della risoluzione delle controversie, si può affermare che in termini di controllo delle sovvenzioni concesse dal governo cinese nel suo territorio, l’accordo rimane di portata estremamente limitata.

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Tuttavia, va notato che in termini a volte un po ‘diversi, gli obblighi inclusi nel CAI in termini di trasparenza dei sussidi agli investimenti erano simili a certe disposizioni dell’OMC applicabili alla Cina dal 2001 che non erano mai state attuate correttamente fino ad oggi. Si può pensare in particolare agli obblighi di notifica delle sovvenzioni nel settore delle merci, procedura che dal 2001 è rimasta lettera morta. Inoltre e soprattutto, se si tiene conto del fatto che la Cina è riuscita ad escludere le sovvenzioni dal settore applicazione della risoluzione delle controversie, si può affermare che in termini di controllo delle sovvenzioni concesse dal governo cinese nel proprio territorio, l’accordo resta di portata estremamente limitata.

2.3 Incoraggiare il commercio sostenibile 

La lotta contro il lavoro forzato e la necessità di impegnare la Cina ad aderire alle convenzioni dell’Organizzazione internazionale del lavoro (ILO) e agli strumenti di protezione ambientale sono stati una questione importante durante i negoziati IAC. In base all’accordo, la Cina si impegna, ad esempio, a continuare ad aumentare il livello di protezione dell’ambiente e del lavoro. Né dovrebbe indebolire la protezione in quest’area per attrarre investimenti stranieri, e le discipline ambientali o lavorative non possono costituire una restrizione mascherata agli investimenti stranieri. In particolare, la Cina si impegna ad attuare efficacemente la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici e l’Accordo di Parigi. Accetta inoltre di attuare efficacemente le Convenzioni ILO che ha già ratificato e accetta di lavorare per la ratifica di altre Convenzioni fondamentali ILO, in particolare le Convenzioni n. 29 e 105, che trattano di lavoro forzato.

Su questo punto, gli impegni cinesi in materia di clima e lavoro sono probabilmente senza precedenti nel contesto di un accordo bilaterale. Resta il fatto, tuttavia, che gli impegni in questione si basano essenzialmente su clausole di ” best effort ” e soprattutto che, come le sovvenzioni, la Cina ha ottenuto che tali disposizioni siano oggetto solo di un processo di consultazione. Caso di disaccordo, meccanismo senza effetto vincolante.

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Su questo punto, gli impegni cinesi su clima e lavoro sono probabilmente senza precedenti in un accordo bilaterale. Resta il fatto, tuttavia, che gli impegni in questione si basano essenzialmente su clausole di ” massimo impegno “.E soprattutto che, come i sussidi, la Cina ha ottenuto che queste disposizioni siano soggette a un processo di consultazione solo in caso di disaccordo, un meccanismo senza alcun ambito vincolante. Si può quindi ragionevolmente pensare che la salvezza delle imprese europee interessate in questo settore passerà anche, e forse soprattutto, dall’utilizzo degli strumenti giuridici autonomi dell’Unione Europea, in particolare quelli che sono in gestazione come il “dovere di diligenza “(Commissario Reynders) e il” regime di sanzioni globali dell’UE nel settore dei diritti umani “, che prenderà di mira le persone e le entità responsabili (partecipanti o associate) di gravi violazioni o abusi nel campo dei diritti umani. sanzionare attori statali e non statali.

3. La Cina onorerà i suoi impegni?

Il record della Cina nel rispettare i suoi impegni commerciali è a dir poco mediocre, alcuni potrebbero persino optare per una qualificazione più severa. Lo stato cinese continua a guidare l’economia e il commercio, nonostante le sue stesse dichiarazioni e impegni a trasformare la sua economia in un’economia di mercato. Dalla sua adesione all’OMC, i membri dell’Organizzazione hanno perseguito molteplici sforzi per spingere la Cina a rispettare i suoi impegni. Non hanno portato a cambiamenti significativi nell’approccio della Cina all’economia e al commercio.

Dalla sua adesione all’OMC, i membri dell’Organizzazione hanno perseguito molteplici sforzi per spingere la Cina a rispettare i suoi impegni. Non hanno portato a cambiamenti significativi nell’approccio della Cina all’economia e al commercio.

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Questo approccio continua a imporre costi significativi ai suoi partner commerciali, arrivando fino alla distorsione sistematica di settori critici dell’economia mondiale come l’acciaio e l’alluminio, devastando i mercati dei paesi industrializzati. La Cina continua inoltre a prevenire la concorrenza straniera da parte di preziosi settori della sua economia, in particolare i settori dei servizi. Allo stesso tempo, la Cina mantiene una politica aggressiva di investimenti all’estero, intervenendo per conto delle sue imprese in nuovi settori e paesi emergenti dell’economia mondiale.

Sulla carta, l’accordo raggiunto rappresenta quindi un importante passo avanti, visto il contesto sopra citato. Pertanto, nei settori in cui sono stati concordati impegni di accesso al mercato, la Cina non sarà in grado di imporre limitazioni al numero di imprese che possono svolgere attività economiche, al valore totale delle transazioni, al numero totale di persone da assumere, limitare o richiedono la costituzione di una joint venture o di una specifica entità giuridica come condizione per operare. Inoltre, l’accordo prevede il divieto del trasferimento forzato di tecnologia.

Tuttavia, l’accordo ha valore solo se viene effettivamente attuato dalla Cina. E in base all’esperienza, è lecito interrogarsi su questo punto, poiché è vero che il rispetto delle sue disposizioni implica uno sconvolgimento del sistema cinese di controllo sull’economia. Tuttavia, la Cina non adotterà misure che minerebbero la sua stabilità sociale o economica. Di conseguenza, le disposizioni dell’Accordo che mirano al rispetto delle misure che incidono sul controllo dell’economia e sul rispetto delle norme ambientali e sociali sono poco restrittive, così come quelle finalizzate all’accesso al mercato, che non sono in discussione il sistema politico ed economico cinese, sono fermi e potenzialmente efficaci per le imprese.

La Cina non adotterà misure che mettano a repentaglio la sua stabilità sociale o economica. Di conseguenza, le disposizioni dell’Accordo che mirano al rispetto delle misure che incidono sul controllo dell’economia e sul rispetto delle norme ambientali e sociali sono poco restrittive, così come quelle finalizzate all’accesso al mercato, che non sono in discussione il sistema politico ed economico cinese, sono fermi e potenzialmente efficaci per le imprese.

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Da un lato, per quanto riguarda il controllo delle sovvenzioni promesso nell’accordo, la Cina ha finora rifiutato di adottare misure efficaci in questo settore. Sono come un’estensione del potere del partito e sostengono a debita distanza le imprese pubbliche in fallimento o lo sviluppo aggressivo delle imprese nei mercati interni o di esportazione.

Ad esempio, sebbene la Cina si sia impegnata ad aprire i servizi di pagamento elettronico ai fornitori stranieri come parte della sua adesione all’OMC, ha mantenuto le restrizioni, mentre un’impresa di proprietà statale (SOE), la China’s Union Pay , gode dell’accesso esclusivo al mercato interno, ha costruito una rete di servizi di pagamento elettronico in 179 paesi. È quindi improbabile che l’apertura di questi servizi agli investitori stranieri nell’accordo determini una migliore concorrenza poiché la posizione di monopolio dell’impresa statale è stabilita oggi.

D’altra parte, l’accordo include disposizioni relative all’ambiente e alle condizioni di lavoro. Richiede l’adesione ai protocolli di base dell’ILO, compreso il diritto di formare sindacati, la contrattazione collettiva e il divieto del lavoro forzato. La Cina si è impegnata solo a fare il massimo per raggiungere questo obiettivo, ma questa promessa è difficilmente credibile, dati gli scarsi risultati della Cina su questi temi.

In queste condizioni, per garantire che l’accordo non rimanga lettera morta, il meccanismo essenziale è quello che consente di risolvere le controversie e questo è uno degli obiettivi comprovati dell’Unione europea in tutti i recenti accordi commerciali che ha concluso di porre in collocare processi che consentano l’applicazione di sanzioni efficaci o misure correttive, se necessario.

Tuttavia, in questa fase, risulta che sui due punti sensibili sopra – il controllo degli interventi finanziari dello Stato nell’economia e gli impegni ambientali e il diritto del lavoro – i meccanismi destinati a garantire gli impegni di attuazione assunti nei confronti dello Stato gli interventi finanziari nell’economia o in questioni sociali e ambientali non sono vincolanti. In entrambi i casi è escluso il ricorso al meccanismo di risoluzione delle controversie previsto dalla Convenzione, che consente a una delle parti di adottare, se necessario, misure correttive. Ciò implica che per le disposizioni più delicate dell’accordo, gli unici mezzi di ricorso sono le consultazioni ministeriali e la buona volontà delle parti.

Ciò non è molto rassicurante alla luce dell’esperienza passata e un po ‘paradossale se confrontiamo questa situazione con l’accordo Brexit appena concluso, dove i nostri vicini britannici sono soggetti alla minaccia di sanzioni rapide, dissuasive ed efficaci in caso di mancato -conformità all’Accordo su questi temi specifici. Viene data la curiosa impressione di essere più flessibili con la Cina che con il Regno Unito.

Si dà la curiosa impressione di essere più flessibili con la Cina che con il Regno Unito.

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Tuttavia, l’accordo prevede un adeguato processo di risoluzione delle controversie per le disposizioni sull’accesso al mercato che è paragonabile a quello che può esistere in altri recenti accordi commerciali e di investimento in Canada, nell’Unione europea (Canada, Corea del Sud, Giappone, ecc.).

Del tutto convenzionalmente, questo meccanismo di risoluzione incoraggia innanzitutto le parti a risolvere le controversie avviando consultazioni. Le parti possono anche optare per la mediazione. Se le parti non raggiungono una soluzione concordata di comune accordo, la parte richiedente può chiedere l’istituzione di un collegio arbitrale. Gli arbitri saranno selezionati dalle due Parti, per essere scelti da una lista predisposta dal Comitato Investimenti istituito dall’accordo. L’arbitrato funziona come i meccanismi di risoluzione delle controversie da stato a stato che si trovano nella maggior parte dei moderni accordi commerciali o di investimento. Gli arbitri devono presentare una relazione intermedia entro 120 giorni e la relazione finale entro 180 giorni dalla composizione del collegio. Le decisioni devono essere accettate incondizionatamente dalle Parti, ma non devono creare diritti o obblighi per le persone fisiche o giuridiche. L’Accordo prevede inoltre alle Parti la possibilità di applicare misure temporanee in risposta al mancato rispetto del lodo arbitrale, inclusa la ritorsione incrociata – violazione in un settore, sospensione di diritti / obblighi in un altro. La sospensione degli obblighi sarà temporanea e cesserà non appena la parte reclamata notificherà le misure che dimostrano la conformità con la decisione del collegio. Il testo prevede inoltre che, laddove una particolare misura abbia presumibilmente violato un obbligo ai sensi della IAC e un obbligo equivalente ai sensi di un altro accordo internazionale come l’OMC, la parte attrice può scegliere il foro di sua preferenza.

4. Il successo dell’Accordo presuppone che le aziende “lo facciano vivere  “

Per anni, quando un’azienda europea si è imbattuta in una legislazione cinese protezionistica o discriminatoria, il suo primo istinto è stato spesso quello di sollevare la questione in modo “politico” con le proprie autorità politiche, la Camera di Commercio Europea in Cina o altre istanze. Le aziende europee devono ora imparare ad attuare le disposizioni dell’accordo di accesso al mercato, prendendo l’iniziativa per stimolare la risoluzione delle controversie con la Commissione europea. Bisogna ripeterlo, non necessariamente per andare in contenzioso, ma per utilizzare tutti i pallet offerti dall’accordo permettendo di trovare una soluzione costruttiva con la Cina.

Le aziende europee devono ora imparare ad attuare le disposizioni dell’accordo di accesso al mercato, prendendo l’iniziativa per stimolare la risoluzione delle controversie con la Commissione europea.

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Infatti, se gli Stati stanno manovrando per negoziare gli accordi, sono le società che stanno al timone per farli rispettare. Per fare questo, devono rivolgersi a Bruxelles e alla DG Commercio per sensibilizzare il ”  Chief Trade Enforcer Officer”. (CTEO) e ottenere dai propri servizi, in caso di violazione dell’Accordo, l’ingaggio del sistema di risoluzione delle controversie, concepito non soprattutto come contenzioso, ma soprattutto come soluzione costruttiva! Ciò è particolarmente vero per un paese come la Cina, che raramente favorisce i conflitti nella risoluzione delle controversie. Il meccanismo di risoluzione delle controversie dell’Accordo, che considera il contenzioso solo come la soluzione definitiva, è quindi benvenuto a questo riguardo, a condizione che le società europee non indeboliscano e integrino l’Accordo e la sua risoluzione delle controversie “multiforme” nelle loro strategie di commercio di esportazione, in altre parole il diritto di servire le esportazioni.

In effetti, ciò che è essenziale per noi ricordare è che le società europee non dovrebbero essere spaventate dalla natura “statale” di questa risoluzione delle controversie. Al contrario, con il ritorno della politica all’economia, questo tipo di risoluzione delle controversie sta gradualmente diventando la norma nel contesto di molti accordi bilaterali. La cosa migliore che un’azienda può fare per risolvere le controversie in questo tipo di accordo è (i) presentare una valida argomentazione che dimostri l’illegittimità di una misura cinese con l’accordo e (ii) cercare, in collaborazione con la Commissione europea, un costruttivo soluzione con la Cina. Questa ricerca sarà minacciata da una decisione del Panel che, essendo di natura orizzontale, potrebbe essere molto più penalizzante per la Cina. Preferirà davvero,

A questo proposito, è chiaro che un’Europa potente si esprime ora in molti regolamenti autonomi della Commissione, in particolare nella modifica del regolamento del 2014 che consente di rafforzare i poteri della Commissione quando un paese terzo che ha un accordo con il L’Unione non la rispetta.

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Ovviamente, affinché possa emergere una soluzione costruttiva, deve ancora sussistere il rischio di sanzioni (nell’ambito di un Panel bilaterale). Se la Cina sa che l’Europa non ha i mezzi legali o la volontà di avere una pratica sancita dall’adozione di contromisure consentite alla fine del Panel bilaterale, questa debolezza priverà le società interessate di ogni motivazione, e alla Cina ogni incentivo a cercare soluzioni costruttive. A questo proposito, è chiaro che un’Europa potente si esprime oggi in numerosi regolamenti autonomi della Commissione, in particolare nella modifica del regolamento del 2014 (”  regolamento di applicazione “) Ciò consente di rafforzare i poteri della Commissione quando un paese terzo che ha un accordo con l’Unione non lo rispetta. Tale regolamento, infatti, consentirà di adottare misure di ritorsione, non solo nel settore oggetto della violazione (ad esempio il commercio di beni), ma anche estendendolo al commercio di servizi o alla proprietà intellettuale. Si tratta in tal senso di un testo complementare ed essenziale alla risoluzione delle controversie stabilite dall’Accordo.

5. Il CAI: solo una parte del progressivo riequilibrio dei rapporti economici con la Cina

Parallelamente all’apertura del dialogo con la Cina, l’Europa vuole essere allo stesso tempo estremamente ferma sui flussi ingiusti o destabilizzanti cinesi in Europa. Questa realtà ci invita a comprendere che l’Accordo è solo un aspetto del riequilibrio delle relazioni economiche che l’Unione europea desidera portare avanti con la Cina. Questo riequilibrio si riflette anche nel moltiplicarsi negli ultimi mesi di proposte normative autonome a tutela di un mercato unico innovativo e competitivo, disciplinando ulteriormente le nostre relazioni con i paesi terzi, primo fra tutti la Cina.

L’accordo è solo un aspetto del riequilibrio delle relazioni economiche che l’Unione europea desidera perseguire con la Cina.

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5.1 Controllo degli investimenti

A seguito delle crescenti preoccupazioni per l’acquisizione di società altamente strategiche in tutta Europa, in particolare da parte di investitori cinesi, gli Stati membri hanno cercato di proteggere le proprie tecnologie e infrastrutture, senza un approccio europeo coordinato. L’Unione, da parte sua, ha introdotto una normativa entrata in vigore nell’ottobre 2020, intesa a rafforzare la cooperazione e il coordinamento tra gli Stati membri e la Commissione europea.3. Gli Stati membri dovranno ora notificare alla Commissione i casi soggetti alle loro procedure nazionali di controllo degli investimenti. Vengono quindi emessi pareri sugli investimenti o rimborsi proposti che devono essere presi in considerazione dallo Stato membro in cui ha luogo l’investimento.

Non appena annunciato l’accordo, la Commissione europea ha chiarito che non stava abbandonando gli strumenti di controllo degli investimenti appena messi in atto nei confronti della Cina e che la firma dell’accordo non segnala in alcun modo un abbassamento di tali controlli per quanto riguarda la Cina. L’Accordo, infatti, prevede esplicitamente il diritto di ciascuna parte di esercitare i propri diritti di rivedere e controllare gli investimenti dell’altra parte in conformità alla legislazione in vigore. Possiamo quindi aspettarci un aumento dell’utilizzo del nuovo strumento europeo di revisione degli investimenti perché è nuovo, ma anche perché l’accordo appena concluso dovrebbe tradursi in un aumento degli investimenti cinesi in Europa.

Possiamo aspettarci un aumento dell’utilizzo del nuovo strumento europeo di revisione degli investimenti perché è nuovo, ma anche perché l’accordo appena concluso dovrebbe tradursi in un aumento degli investimenti cinesi in Europa.

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Il focus sarà sulla tecnologia, che i governi europei generalmente considerano correlata alla sicurezza nazionale, e in particolare quelle relative all’intelligenza artificiale, ai materiali avanzati e alla crittografia. La tecnologia Internet mobile di quinta generazione (5G) è un esempio fallimentare di coordinamento europeo in questo settore. Con l’escalation delle tensioni geopolitiche tra i governi occidentali e Pechino, le restrizioni agli investimenti influenzeranno chiaramente le società cinesi. Cresce il disagio di molti governi europei per il coinvolgimento dello Stato cinese in industrie strategiche, così come la pressione politica degli Stati Uniti per ridurre l’accesso cinese alle nuove tecnologie.

5.2 Controllo degli aiuti di Stato esteri

Nel 2021 è previsto anche il riequilibrio delle relazioni UE-Cina in tema di controllo degli aiuti di Stato esteri. È anche un argomento che dovrebbe portare a pressioni molto forti durante l’anno. Infatti, contro le sovvenzioni estere, in particolare quelle cinesi, le aziende europee possono utilizzare prima di tutto strumenti di difesa commerciale, in particolare quelli che consentono di contrastare le distorsioni commerciali derivanti dall’ingerenza dello Stato cinese ( antidumpinge antisovvenzioni). Ma questi strumenti attualmente mirano solo al commercio di merci. Attualmente esiste una falla nella normativa europea, contro, ad esempio, le società cinesi presenti sul mercato europeo e che verrebbero sovvenzionate direttamente o indirettamente dallo Stato cinese nelle loro acquisizioni o partecipazioni ad appalti pubblici. Questo è il motivo per cui il Commissario Vestager ha già proposto un Libro bianco sull’argomento e ha presentato rapidamente una proposta di regolamento.4.

Attualmente esiste una falla nella normativa europea, contro, ad esempio, le società cinesi presenti sul mercato europeo e che verrebbero sovvenzionate direttamente o indirettamente dallo Stato cinese nelle loro acquisizioni o partecipazioni ad appalti pubblici.

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Conclusione

Sul CAI si è parlato molto dalla sua pubblicazione.

Prima di tutto, notiamo che il multilateralismo è fallito. Non metteremo attorno al tavolo a breve, anche se questo rimane l’obiettivo a lungo termine, 164 paesi per modernizzare e rafforzare regole insufficienti e mal applicate, che è una fonte permanente di tensione, soprattutto quelle sui sussidi industriali. Il bilateralismo, di cui il CAI è un buon esempio, permette di superare le attuali carenze del multilateralismo.

Allo stesso tempo, dobbiamo misurare i limiti di questo Accordo, che è vincolato dall’asimmetria tra il sistema cinese ed europeo, ad esempio sui sussidi industriali e sul commercio sostenibile. Per questo, in particolare, l’UE deve continuare a costruire parallelamente una politica di regolamentazione autonoma che consenta di stabilire discipline che vadano oltre ciò che può negoziare bilateralmente o a fortiori multilateralmente.

Infine, nelle loro relazioni con la Cina, le aziende europee – a seconda del loro posizionamento e dei loro interessi – devono entrambe impegnarsi risolutamente nell’attuazione dell’Accordo per migliorare l’accesso al mercato cinese, insieme alla Commissione Europea e ai loro governi. Allo stesso tempo, devono avvalersi, quando necessario, degli strumenti autonomi dell’Unione europea. È così che la strategia di riequilibrio dell’Unione nei confronti della Cina sarà una strategia vincente.

FONTI
  1. Le principali misure previste dall’Accordo sono disponibili in lingua inglese sul sito della Commissione Europea: https://trade.ec.europa.eu/doclib/press/index.cfm?id=2237
  2. L. Van Middelaar, ”  Accordo UE-Cina: l’America è ancora in grado di diventare il leader del mondo libero?  », Le Grand Continent , 12 gennaio 2021.
  3. Regolamento (UE) 2019/452 che istituisce un quadro per il controllo degli investimenti esteri diretti nell’Unione.
  4. Cfr. Il Libro bianco sugli effetti distorsivi causati dai sussidi esteri all’interno del mercato unico: https://ec.europa.eu/france/news/20200617/subventions_etrangeres_marche_interieur_fr

Che cosa succede in Francia sull’energia nucleare, di Giuseppe Gagliano

La questione ambientale sarà un terreno fondamentale di confronto e di scontro politico. Dagli indirizzi che verranno imposti e dagli strumenti che verranno utilizzati dipenderà la prevalenza dei particolari centri decisionali e la conformazione delle formazioni politico-sociali. E’ già un terreno di duro scontro nelle dinamiche geopolitiche celato dietro un lirismo stucchevole e strumentale. Buona lettura_Giuseppe Germinario

Che cosa succede in Francia sull’energia nucleare

di

L’articolo di Giuseppe Gagliano sulla chiusura della centrale nucleare di Fessenheim in Francia

 

“Nella notte tra lunedì 29 giugno e martedì 30, la centrale nucleare alsaziana di Fessenheim ha cessato definitivamente l’attività prima di essere smantellata. Situata sulle rive del Reno, vicino alla Germania e alla Svizzera, la più antica centrale elettrica della Francia ha smesso per sempre di produrre elettricità. Nei prossimi quindici anni ne è previsto lo smantellamento, a partire dalla rimozione del combustibile altamente radioattivo, che, secondo il programma sarà completato nel 2023”.

La chiusura è stata accolta come un successo della lotta ambientalista. Da molti anni infatti numerosi attivisti antinucleari hanno portato avanti manifestazioni non violente e azione di lobbying sulle autorità francesi per chiudere la centrale nucleare di Fessenheim alle quali hanno risposto provocatoriamente gli attivisti pro – nucleare.

In un primo momento si era previsto che questa chiusura dovesse essere per così dire sincronizzata con il lancio della terza centrale a Flamanville.

Ma la data di completamento è stata posticipata a causa di nuovi problemi al 2023. Quindi, come produrre i 12,32 TWh prodotti nel 2019 dalla centrale nucleare?

È più che ingenuo scommettere su mega fattorie di pannelli solari o turbine eoliche. La prevista installazione massiccia di un pannello solare nell’Alto Reno in sostituzione di Fessenheim fornirebbe solo il 17% della potenza dell’impianto. È importante sottolineare che il sole della regione ha una percentuale del 13%.

Per continuare e per compensare questa improvvisa perdita di energia, EDF dovrà rivolgersi a centrali termiche. Queste ultime pesano molto nella produzione di carbonio rispetto alle loro omologhe nucleari. Dove l’elettricità nucleare emette solo 6 g di CO2 per KWH, quella prodotta dal gas emette fra 500 e 1000 g di CO2 prodotta dall’energia dal carbone.

Anche se è necessario credere nelle fonti energetiche rinnovabili come l’eolico, il solare o l’idroelettrico, occorre assumere un atteggiamento realistico: il miraggio di questa transizione non tiene conto di molteplici elementi.

Per citarne solo uno, l’offshoring dell’inquinamento. Infatti per poter avere elettricità verde, occorre importare pannelli solari o turbine eoliche. Merci prodotte per la stragrande maggioranza nella Repubblica popolare cinese in modo molto inquinante e che richiedono materie prime estratte in modo identico e in condizioni umane più che deplorevoli.

Sarebbe quindi più realistico e soprattutto più ecologico parlare di complementarità energetica, dove le fonti di energia rinnovabile producono simultaneamente centrali nucleari, riducendo la quota di elettricità a base di carbonio.

Partendo dalla constatazione di natura storica che il nucleare sia civile che militare ha consentito alla Francia autorevolezza e credibilità sia nel contesto della autonomia energetica che in quello della politica internazionale, il caso francese dimostra in modo esemplare come i fondamentalismi in campo ecologico conducano i governi a scelte che finiscono per danneggiarne l’autonomia energetica e soprattutto la competizione globale.

A tale riguardo è di estremo interesse l’intervista rilasciata dall’ex direttore dell’impianto nucleare Joël Bultel che smentisce numerosi luoghi comuni. Secondo l’ex direttore seguire il modello tedesco costituirebbe un grave danno per la Francia.

In primo luogo gli impianti tedeschi producono quasi 10 volte più CO2 rispetto al sistema francese nel quale i consumatori pagano circa il 75% in più per la loro elettricità rispetto ai loro omologhi francesi. Si tratta di un modello energetico dai costi altissimi: parliamo di oltre 500 miliardi di euro.

Sostituire una tecnologia che produce quanto effettivamente serve con un’altra tecnologia che produce in modo intermittente a seconda delle condizioni meteorologiche significa degradare l’autonomia energetica.

In secondo luogo la chiusura di questo impianto è stata in realtà dettata da motivi squisitamente politici e questa chiusura sarà pagata molto cara da i consumatori: quasi mezzo miliardo di euro a breve termine e diversi miliardi cumulativi (tra 4 e 7 per un prezzo medio di mercato dell’elettricità compreso tra 40 e 50 € / MWh) per i prossimi 20 anni per compensare il danno.

In terzo luogo — sottolinea il direttore — questo impianto era in realtà funzionante e avrebbe potuto continuare a produrre elettricità a basso costo per altri vent’anni. Infatti la Corte dei Conti francese ha sottolineato il grave danno economico che una tale chiusura determinerà.

In quarto luogo questa vicenda dimostra per l’ennesima volta il ruolo sempre più importante e rilevante delle associazioni e delle ONG ambientaliste nel condizionare le scelte di politica energetica dei governi e dall’altro lato dimostra la debolezza della classe politica che per ragioni di consenso politico — non certo per convinzione — asseconda queste scelte.

https://www.startmag.it/energia/che-cosa-succede-in-francia-sullenergia-nucleare/?fbclid=IwAR1sKIHI1dKPW9-yz87f5qNgSMmVOLu4wb1aHXXh44NHxuLSgltKWFxO-9I

Giochi spericolati, di Giuseppe Masala

Sta facendo scalpore la vicenda dell’azienda americana di videogames GameStop. I fondi hedge di Wall Street ne avevano decretato la morte posizionandosi al ribasso per farne crollare le quotazioni. Inaspettatamente parte un passa parola tra gli utenti di gaming americani che stimano evidentemente questa società e decidono di acquistare in massa i titoli di GameStop. Il risultato è sconvolgente per i Signori di Wall Street: il titolo inizia a correre in borsa con una risalita del corso azionario. A questo punto i fondi hedge si ritrovano con il cerino in mano avendo venduto allo scoperto e dovendo riacquistare i titoli per coprirsi a prezzi altissimi. I Signori di Wall Street si ritrovano a perdere miliardi di dollari e in alcuni casi rischiano il fallimento. Apriti cielo, pure la Yellen tutta preoccupata dice che sta seguendo la situazione. E non ho capito; per una volta che abbiamo avuto la riprova che la Mano Invisibile può esistere e che non sempre ci sono posizioni dominanti nel mercato questi si scandalizzano anzichè fare i salti di gioia.
Attenzione che è molto importante questa storia; se capiscono che 1 milione di persone con 1000 euro coordinate tramite social valgono più dei signori di Wall Street vedremo in futuro cose molto ma molto interessanti e vedremo i politici che – tutti preoccupati – diranno che non ci si può coordinare (mentre se si coordinano gli squali delle borse va bene) e che serve una legge contro il “Gang Trading”…

 

Comprendonio
Vedete come hanno capito subito? Ora si sono lanciati su Nokia che sta segnando un rialzo del 19% e su Telegram è tutto un florilegio di gruppi dove si invita a comprare Nokia. Fantastici, hanno capito che centomila formichine coordinate abbattono un Mammuth di Wall Street. Aspettiamo le dichiarazioni preoccupate di giornalisti, economisti e politici contro i fascio sovranisti che dallo spacciare fake news per favorire Trump sono passati all’attacco delle borse perturbando i giochi. E poi alla fine qualcuno dirà che questo fenomeno è organizzato degli hacker di Putin. Claro.
Nessuna descrizione della foto disponibile.
La stangata dei Redditers.
Assume risvolti sempre più emblematici la vicenda della società americana GameStop quotata sul Nasdaq. Riassumo brevemente: una comunità che si scambia opinioni su Reddit decide di agire in maniera coordinata acquistando le azioni della società e ponendo in enorme difficoltà gli hedge fund di Wall Street che erano tutti posizionati al ribasso (vendevano allo scoperto). Le azioni della società hanno iniziato a salire esponenzialmente lasciando letteralmente in brache di tela i grandi specutori finanziari. Parte immediatamente una canea, Reddit blocca il gruppo (non si sa bene per quale motivo), i politici americani si dicono preoccupati (ma e il libero mercato vale solo quando guadagnano i loro amici?), i giornali iniziano a demonizzare attaccandosi sulle solite frasi “zezziste, razziste, omofobe” presenti nel gruppo e ora addirittura la Ceo del Nasdaq dice che bisogna interrompere le contrattazioni perchè i grandi investitori abbiano tempo per riposizionarsi rispetto al titolo. Ecco, mi soffermo su questo ultimo punto. Avete mai letto di un amministratore di un mercato finanziario che chiede l’interruzione delle contrattazioni su un titolo di stato per evitare che in quella nazione vengano chiuse scuole, ospedali, aziende a causa della speculazione? Avete mai sentito chiedere una cosa del genere per salvare la Grecia? No, mai. Il mercato non si ferma, la mano invisibile deve agire per efficientare il sistema. Ora però che la mano invisibile lascia a pane e unghie gli hedge fund degli squali di Wall Street il mercato si può fermare per evitare i fallimenti.
Ecco, io non credo che i Redditers che hanno organizzato questa stangata micidiale avessero in mente i risvolti politici. Volevano solo spennare come polli chi in genere spenna gli altri. La legge del contrappasso. Ma indipendentemente da questo, la loro azione ha una valenza politica enorme: è chiaro che il Re è nudo.
“Il libero mercato vale fino a quando i miei amici vincono. La libertà di opinione vale fino a quando non danneggi i miei politici con le pubblicazioni sui social. Le elezioni valgono fino a quando voti chi dico io, se no scoppia una pandemia e m’invento 10 milioni di voti via posta per il mio candidato. La democrazia vale fino a quando mi conviene”. Questo è ciò che ci comunicano Lorsignori.
Prendiamo atto che abbiamo vissuto in una realtà virtuale. Sotto tutti gli aspetti. Intanto ringraziamo i pazzi Redditers che si sono inventati la più divertente stangata che si sia mai vista sui mercati finanziari.
Intanto i pazzi di Reddit tornano alla carica (dopo che ieri SEC e Governo Usa hanno fatto di tutto per bloccarli compresa la disattivazione degli acquisti sulle piattaforme di trading): GameStop (GME) oggi sta a +61%.
Reuters intanto ci informa che i danni causati (fino ad ora) alle posizioni short delle istituzioni finanziarie sono quantificabili in 70 miliardi di dollari (settanta miliardi di dollari). Stasera compro popcorn e birra ghiacciata 🍿🍿🍿🍺🍺🍺
NB_tratto da Facebook

Russia: la geopolitica dell’energia _ Di Cédric Tellenne

La Russia è il secondo attore di rilievo nella geopolitica globale dell’energia: accumula le riserve di energie diverse con un potenziale totale maggiore di quello della zona Medio Oriente-Golfo e la utilizza come leva di influenza globale.


 

Dopo decenni di abbandono e saccheggi organizzati durante il periodo di Mikhail Gorbachev e Boris Eltsin , che hanno lasciato incruento il settore energetico, è Vladimir Putin che lo prende in mano per, in un primo passo, raddrizzarlo, con la rinazionalizzazione di Gazprom e Rosneft, ma anche per mettere in riga gli oligarchi (Mikhail Khodorkovsky) e usarla come fonte di arricchimento e leva di influenza in Eurasia e nel mondo. Negli anni 2010 la seconda, più delicata fase dovrebbe portare all’internazionalizzazione delle compagnie russe, con padronanza delle rotte continentali (tube) e molteplici accordi bilaterali e multilaterali.

La cornucopia russa e i suoi limiti  (1)

L’80% delle esportazioni del Paese è fornito da tre combustibili fossili: petrolio (62,5%), gas (14,5%) e carbone (3%). Per il petrolio, la Russia ha riserve accertate dell’ordine del 6% del totale mondiale, forse un po’ sopravvalutate; comunque sono un “segreto di stato” secondo un recente decreto presidenziale. Quello che è certo è che la Russia è il terzo produttore mondiale dopo Stati Uniti e Arabia Saudita. Con il gas è il primo per le riserve (20%), per la produzione e per l’export. Inoltre, avrebbe notevoli riserve di petrolio e gas di scisto (qualificati dalla formazione Bazhenov nella Siberia occidentale).

Questa è la sua forza, ma è anche una potenziale fonte di debolezza: a $ 75, la Russia è ricca; a $ 30, come è avvenuto durante la crisi globale, è indebolito. Inoltre, cerca di pesare con tutto il suo peso sui mercati mondiali: da un accordo del 2016, rinnovato nel 2018, è associato all’Arabia Saudita e all’OPEC, oltre a una dozzina di NOPEP ( non OPEC), per limitare la loro produzione di petrolio al fine di sostenere il prezzo di un barile sul mercato del petrolio. Una clausola non ufficiale nell’accordo difende l’attuale livello di produzione iraniana, quindi contro lo spirito generale del testo, per sostenere il regime dei mullah e mantenere le amicizie russe, a scapito degli interessi sauditi.

Oltre alle produzioni russe, ci sono quelle delle ex repubbliche dell’Asia centrale, come il Kazakistan, partner essenziale della Russia nella Shanghai Cooperation Organization, e dell’Unione eurasiatica. Nel Caucaso, l’Azerbaigian del clan Aliev, che trae le sue risorse anche dal Mar Caspio, conta come un partner abbastanza affidabile dell’Occidente.

Leggi anche:  L’Unione può riconnettersi con la Russia?

Controllo statale

Per il petrolio, lo stato russo controlla quasi il 50% della produzione con i giganti Rosneft e Gazpromneft . Forgia partnership straniere, perché la prospezione è stata a lungo insufficiente, e lo stesso per la manutenzione delle infrastrutture: si trattava per lo più di partnership occidentali fino al 2014 (Total, Exxon). Dal 2014, con la vicenda Ucraina e le sanzioni occidentali, hanno acquisito importanza i partner cinese e indiano, con quest’ultimo ad esempio lo sfruttamento dei giacimenti di Vankor dal 2016 (nella Siberia occidentale).

Per quanto riguarda il gas, la nuova El Dorado russa con le principali risorse mondiali, l’unica società pubblica Gazprom (stato di maggioranza al 50% + 1) genera il 75% delle esportazioni del Paese. È la più grande azienda di gas del mondo, controlla il 20% delle riserve totali di gas. Ci sono altre società esportatrici private come Novatek, il principale attore russo nell’Artico (GNL), mentre Gazprom si sta concentrando su altri progetti come i gasdotti: Force dalla Siberia alla Cina, North Stream II nel Baltico, Turkish Stream, Poseïdon nell’Adriatico. I giacimenti giganti sono sfruttati nella Siberia nord-occidentale, ma anche il deposito di Yamal-Kara-Barents o quello di Sakhalin. Le imprese straniere collaborano con la Russia, come con il petrolio: Total è partner di Novatek a Yamal, in associazione con cinesi e sudcoreani che forniscono attrezzature.

La Russia vende anche carbone (principalmente ai paesi in Europa e Asia), centrali nucleari e combustibili (Rosatom), energia idroelettrica.

Un’arma politica

Il Cremlino utilizza l’energia come mezzo di pressione sul suo ambiente circostante, come dimostrato dall’affare ucraino del gas nel gennaio 2006 che porta ad un aumento dei prezzi di consegna a questo paese, una minaccia usata anche contro la Moldova e il Regno Unito. Georgia, persino Bielorussia. È la minaccia costante delle “guerre del gas”. Potrebbe mettere l’Europa in una posizione di dipendenza, che già trae circa il 25% del suo petrolio e il 40% del gas dalla Russia. Per ora è Vladimir Putinche si lamenta dell’aggressività dell’Europa, perché questa pone la Russia sotto un regime di sanzioni internazionali e rifiuta l’espansione di Gazprom, come dimostra il blocco dell’acquisizione dell’azienda britannica Centrica. La Russia fornisce idrocarburi anche a Cina e Giappone, cercando di diventare un fornitore chiave.

Si sviluppa così una vera e propria “geopolitica dei tubi”: gasdotti North Stream I inaugurati nel 2011 (sotto il Baltico, verso la Germania, con EON e GDF-Suez), South Stream (abbandonato nel 2014) e sostituito da Turk Stream, da Dalla Russia alla Turchia poi alla Grecia, progetto White Stream II da Baku alla Romania attraverso la Georgia, condutture dalla Siberia orientale a est. Più lontano, l’Africa è anche nel mirino dei russi: ad esempio, Gazprom e Sonatrach hanno stabilito un’alleanza nel 2006, in seguito a un viaggio di Vladimir Poutine ad Algeri. In questa occasione, l’Algeria ha ordinato massicciamente armi russe.

La Russia non ha tutte le carte in mano

È prima di tutto un problema di investimenti  : Gazprom non investe abbastanza e la sua produzione non aumenta al ritmo della domanda, le infrastrutture di trasporto sono vecchie. Così il giacimento di Chtokman, nel mare di Barents, che doveva essere il più grande del mondo, viene scomposto perché richiede ingenti investimenti, il suo sfruttamento viene costantemente rimandato. Questo è il motivo per cui Mosca sta forgiando molte partnership internazionali, anche con occidentali (Total in Yamal). Allo stesso tempo c’è un problema di finanziamento, a causa dell’embargo: non puoi nemmeno fare transazioni in dollari.

È quindi un problema di cooperazione internazionale: se la Russia ora arriva a un’intesa con l’OPEC, un cartello del gas del genere è improbabile (“gas OPEC” è un vecchio serpente marino) e la Russia potrebbe essere influenzato dalle esportazioni pianificate di gas di scisto dagli Stati Uniti.

È anche una questione di equilibrio di potere: l’Europa sta cercando di reagire per evitare un’eccessiva dipendenza dalla Russia (con oleodotti dal Caspio attraverso la Turchia). Altri paesi stanno cercando di sfuggire alle strade russe, come il Turkmenistan che inizia ad esportare gas in India e Pakistan attraverso l’Afghanistan (accordo del 2012).

Par ailleurs, la Russie dépend de l’Europe autant que cette dernière dépend d’elle. Il lui faut exporter son gaz et avoir un client principal est un facteur de faiblesse ; en 2015 80 % de ses exportations de gaz se faisaient vers l’ouest. C’est pourquoi elle se tourne vers l’Asie, et en particulier la Chine. Comme l’expliquait Poutine, un gazoduc a deux extrémités.

 

  1. La solita formula della “cornucopia” va qualificata come sottolinea Pascal Marchand in Russia oltre il bene e il male , Le Cavalier bleu, 2017. In primo luogo perché le notevoli riserve del Paese sono spesso difficili da trovare. evidenziare. In secondo luogo, perché le sanzioni ostacolano l’acquisizione delle tecnologie e il finanziamento necessario per questo sviluppo. Infine, per quanto riguarda i minerali, Pascal Marchand ricorda che la Russia ha solo due posizioni dominanti su scala mondiale, palladio e diamanti.

https://www.revueconflits.com/russie-energies-petrole-abondance-poutine-tellenne/

Il debito buono e il debito cattivo, di Davide Gionco

riceviamo e pubblichiamo_Giuseppe Germinario

Il debito buono e il debito cattivo

di Davide Gionco

L’antropologo David Graeber aveva dedicato un intero saggio (Debito. I primi 5000 anni) al ruolo del debito nella storia dell’umanità, dalle prime civiltà mesopotamiche di cui abbiamo notizia fino alla crisi della Lehman Brothers del 2008.
Il debito è il principale motore dell’economia e, probabilmente, anche della storia dell’umanità. Per fare un esempio, ci eravamo già occupati dell’importanza fondamentale dei prestiti delle banche estere nella storia dell’unificazione dell’Italia sotto la corona dei Savoia. Senza i debiti contratti dal Regno di Sardegna verso le banche, non ci sarebbero stati i fondi per finanziare le guerre di indipendenza ed il corso della storia d’Italia sarebbe stato differente da quello che conosciamo.
Senza il debito gran parte delle case in cui abitiamo non sarebbe stata costruita.
Ma è anche vero che senza il debito molti paesi del Terzo Mondo non sarebbero ridotti in povertà e probabilmente non ci sarebbero i flussi migratori dal Sud del mondo verso il Nord del mondo.
Ci sono persone rovinate dai debiti, ma anche persone che sui debiti hanno costruito la loro fortuna.

Quando un debito è “buono” e quando un debito è “cattivo”?

Il debito non è qualche cosa che esiste in natura, è qualche cosa che nasce dalle relazioni umane. Il concetto di debito, evidentemente, precede l’economia. Ogni volta che diamo la nostra parola promettendo qualche cosa, ci indebitiamo verso l’altra persona, nel senso che ci impegniamo a dare a quella persona quanto pattuito: un oggetto che possediamo, un po’ del nostro tempo e del nostro lavoro o il nostro amore eterno.

Il giudizio sulla bontà del debito lo si dà a partire dalle conseguenze sulla vita reale delle persone. Ho fatto bene a promettere amore eterno a quella persona? Che cosa ci ho guadagnato?
Ho fatto bene a farmi prestare del denaro per acquistare quel macchinario o per prendere casa in centro città?

Il debito economico, di per sé, è solo una registrazione contabile astratta, derivante da un contratto economico, l’impegno a restituire una certa somma denaro in cambio di un bene reale ricevuto (acquisto) o di un prestito ricevuto. Sono pezzi di carta, numeri su dei computers.
Se il debito contratto sia cosa buona o cattiva lo si può giudicare solo dalle conseguenze sulla vita reale delle persone. Non è corretto un approccio etico del tipo “mai indebitarsi”, perché senza indebitamento si fermerebbe il mondo.
Non si potrebbe, ad esempio, ordinare un’automobile: io sono debitore di 20 mila euro verso concessionario, ma il concessionario è debitore verso di me di un’automobile.
Non si potrebbe stipulare un contratto di affitto: io sono debitore mensilmente dell’importo dell’affitto, il proprietario è debitore verso di me nel concedere l’uso del suo appartamento per un mese.
Non si potrebbe stipulare un contratto di lavoro: io sono debitore di 21 giorni al mese del mio lavoro verso l’impresa che mi ha assunto, l’impresa è debitrice verso di me dello stipendio mensile.

Si potrebbe discutere dell’opportunità di indebitarsi prendendo del denaro in prestito, ad esempio da una banca. Se prendo in prestito un credito da 150 mila euro per l’acquisto della casa in cui vivo, che comporta l’esborso di una rata mensile di 400 euro ed il mio lavoro mi consente agevolmente di vivere e di pagare le rate del mutuo, il debito contratto è una cosa buona, in quanto mi consente di acquistare una casa in cui vivere, la quale ha un valore reale. In sostanza quel debito è stato lo strumento per barattare la mia capacità lavorativa con la casa che ho acquistato.
Ovviamente se la casa che ho acquistato non è stato un buon affare, nel senso che era in pessimo stato, da ristrutturare, in un quartiere pieno di criminalità e privo di servizi, non si è trattato di un buon affare. In questo caso, però, la colpa non è dello strumento-debito, ma del mio errore di scelta della casa da acquistare.

I problemi legati alla contrazione del debito li si hanno quando il debito risulta non sostenibile, per cui l’impegno di restituzione ci porta a doverci privare di cose vitali. Il debito inizia ad essere un problema se per mettere insieme i 400 euro al mese della rata del mutuo mi trovo obbligato a rinunciare alle spese non essenziali che costituiscono il mio benessere. Ma il debito diventa un vero problema (“cattivo”) quando per rimborsarlo devo privarmi di beni essenziali per la mima esistenza, quali la casa in cui vivere, i vestiti, il cibo e, magari, il debito impagabile mi precipita in una situazione umana che mi fa perdere anche gli affetti più cari.
Nell’antichità la mancata restituzione del debito poteva portare non solo alla perdita di tutti i propri beni, ma anche alla riduzione in schiavitù del debitore, con moglie e figli, fino a che, lavorando, non avessero restituito quanto dovuto. Oggi le conseguenze del non pagamento del debito non arrivato a questi livelli. Il tutto dipende da come la questione viene gestita a livello giuridico.

La questione centrale del debito è dunque la sostenibilità.
Quando il debito non è sostenibile, porta sempre il debitore a cadere in situazioni umanamente inaccettabili: povertà, anche estrema, e forme di schiavitù.
Per quanto riguarda il creditore, in alcuni casi subirà anch’esso delle conseguenze a causa del mancato rimborso, che gli comporterà come minimo delle perdite finanziarie (denaro prestato e non restituito), ma anche conseguenze più gravi se quel denaro prestato doveva a sua volta essere restituito ad altri. In questi casi l’insolvenza del debitore si propaga coinvolgendo la catena dei creditori.

Ci sono anche casi nei quali il creditore non teme il mancato rimborso, vuoi perché dispone di ampie riserve di ricchezza, vuoi perché dispone del diritto giuridico di creare dal nulla, a certe condizioni, il denaro che presta ai debitori.
Un caso classico è quello degli usurai, degli strozzini, i quali dispongono di molto denaro, che prestano ai debitori a condizioni particolarmente vantaggiose per il creditore e svantaggiose per il debitore, il quale non dispone di sufficiente potere contrattuale per esigere delle condizioni più accettabili.
Una persona che abbia assoluto bisogno di denaro per sopravvivere sarà sempre disposta ad accettare delle condizioni capestro ed anche a rivolgersi a prestatori che operano al di fuori dal quadro giuridico ovvero dalle tutele che la legge riconosce ai debitori nei confronti dei creditori. Sono situazioni in cui chi dispone del denaro da prestare ha il potere contrattuale di imporre condizioni legalmente e umanamente non accettabili. Ad esempio la condizione per cui se il debito non viene ripagato sono previsti danni fisici al debitore ed ai suoi famigliari.
Una situazione simile la si ha anche quando i prestatori sono le banche che operano (almeno dovrebbero farlo) dentro il quadro giuridico vigente. Se il debitore è un piccolo artigiano che ha bisogno di credito per pagare le troppe tasse impostegli dal Fisco, è molto probabile che anche la banca approfitti della situazione per quanto le è possibile, dato che quel debitore ha un basso potere contrattuale.
Se, invece, colui che chiede credito è una grande azienda di livello nazionale o internazionale, di cui magari la banca dispone della proprietà di quote ingenti del pacchetto azionario, state certi che le condizioni del credito saranno molto più agevolate, in quanto il debitore ha un forte potere contrattuale.

Da che mondo è mondo, i piccoli debiti sono sempre stati rimborsati o hanno a portato a situazioni di sfruttamento, mentre i grandi debiti sono sempre stati rinegoziati, rifinanziati, eventualmente scaricati su soggetti più deboli (piccoli risparmiatori, si pensi al caso dei Tango Bonds) o eventualmente scaricati nel calderone del debito pubblico (si pensi al caso del Monte dei Paschi di Siena).

Quando un debito a carico di soggetti deboli, a basso potere contrattuale, risulta impagabile ed il soggetto creditore non ha la necessità di essere rimborsato (perché non ha bisogno di denaro), il creditore userà il proprio potere contrattuale per trarre altri vantaggi economici, tentando di trasformare una momentanea situazione di insolvenza in una permanente e perpetua situazione di potere sul debitore, imponendo su di esso delle condizioni per il rinnovo del debito. Il debitore non avrà scelta, non essendo in grado di rimborsare il debito contratto
Il caso tipico è quello di molti paesi de Terzo Mondo, i quali hanno nei decenni passati ricevuto prestiti da parte del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Mondiale o da parte di gestori di grandi fondi di investimento internazionali. Quando il debito arrivato in scadenza non può essere rimborsato, i creditori lo rinnovano alle seguenti condizioni:
1) Che alla prossima scadenza il debito sia certamente non ripagabile, obiettivo che viene raggiunto imponendo tassi di interesse sufficientemente alti.
2) Che il debitore metta in atto delle azioni che consentiranno ai creditori di trarre altri tipi di profitti, azioni del tipo: privatizzazioni di servizi pubblici e concessioni esclusive su risorse naturali (minerarie, agricole, turistiche, ecc.)
In questo mondo il rapporto creditore-debitore cessa di essere un rapporto di cooperazione economica (caso del debito “buono” in cui il prestito porta sviluppo) e diventa un meccanismo di sfruttamento perenne da parte dei (pochi) creditori nei confronti dei (molti) debitori.

Il problema è noto fin dagli albori delle società umane. Se ne era già occupato intorno al 1’700 a.C. il re sumero di Lagash con la legge AMA-GI che affrancava tutti i debitori dai creditori, restituendo loro la libertà. Se ne erano già occupati gli antichi Israeliti, le cui leggi prevedevano ogni 50 anni il Giubileo ovvero la cancellazione di tutti i debiti. Se ne era occupato, nell’antica Repubblica di Roma, anche il tribuno della plebe Licinio Sextio, quando il meccanismo dei debiti era quello che consentiva ai ricchi patrizi di imporre costantemente i loro interessi sopra quelli dei poveri plebei.
Sarebbe bene che anche oggi ci si occupasse della questione in modo umano e intelligente, ricordandosi che il denaro prestato non è un valore in sé, mentre un valore in sé è la vita delle persone. La cancellazione dei debiti, a determinate condizioni, è una soluzione da prendere in considerazione, se questi sono diventati un meccanismo di sfruttamento di pochi nei confronti di molti, sapendo che quei pochi non hanno affatto bisogno di quel denaro per vivere.
Non stiamo parlando di “giustizia sociale”, ma stiamo parlando di umanità nei rapporti sociali, nei quali lo sfruttamento non deve mai essere consentito, neppure se il creditore ha delle ragioni giuridiche, in quanto il diritto alla vita delle persone è più importante (anche economicamente parlando) dei diritti dei creditori nei confronti dei debitori.

Abbiamo accennato sopra ai creditori che hanno il potere, a certe condizioni, di creare da nulla il denaro che prestano. Questo è il caso delle banche commerciali che, oggi, possono creare il denaro che prestano a fronte di certe garanzie presentate alla banca centrale e, naturalmente, a fronte di certe garanzie che il denaro prestato venga restituito. Se il denaro creato viene restituito, scompare dal bilancio, lasciando al prestatore solo gli utili, che sono gli interessi. Si tratta di un meccanismo simile a quello rappresentato dal comico Erminio Macario in un suo famoso sketch.
La cosa importante è che la restituzione del prestito sia garantita. O, se non è garantita in modo totale, che l’imposizione delle successive condizioni di rinnovo del debito (ad esempio lo sfruttamento a proprio vantaggio di risorse minerarie) consentano al prestatore di far rientrare i capitali prestati insieme a degli utili.

Questo meccanismo del debito perenne sta alla base delle maggiori forme di sfruttamento oggi esistenti nel Pianeta, sia nei confronti della fasce povere della popolazione (i ricchi sfruttano i poveri, dai tempi del re di Lagash ad oggi), sia nei confronti delle nazioni povere del mondo.

In questo articolo non ci siamo occupati delle questione relative al debito pubblico, ne parleremo in un prossimo articolo.

La guerra economica da ieri ad oggi, Di Frédéric Munier

La guerra economica non è una novità: alcuni la fanno risalire ai Fenici! Sembrava a suo agio durante il boom del dopoguerra, ma non era mai scomparsa del tutto. Lo shock petrolifero del 1973 e soprattutto la globalizzazione le hanno dato una crescita eccezionale.

In De Esprit des lois , Montesquieu ha affermato che “l’effetto naturale del commercio è portare la pace. Due nazioni che negoziano insieme diventano reciprocamente dipendenti: se una ha interesse a comprare, l’altra ha interesse a vendere. Il commercio sarebbe quindi un antidoto alla guerra. Con la globalizzazione, alcuni potrebbero aver creduto che questa pacificazione sarebbe stata realizzata: mentre Alain Minc celebrava una “globalizzazione felice”, Francis Fukuyama vedeva nella fine della guerra fredda e nella generalizzazione del capitalismo liberale una “fine del mondo”. ‘storia’. Sulla scia dei classici, questi autori credevano che un mondo di crescente interdipendenza fosse portatore di una pace duratura.

Vent’anni dopo, tuttavia, sembra che il pianeta non sia così. La guerra tradizionale non è scomparsa, tutt’altro, soprattutto in Europa, dall’ex Jugoslavia all’Ucraina. Quanto alle relazioni economiche tra gli Stati, non assomigliano a un “commercio morbido”. Inoltre, nel 1990, Edward Luttwak aveva proclamato l’era della geoeconomia quando Bernard Esambert pubblicò The World Economic War.. Eccedenze tedesche contro deficit francesi, dollaro debole contro euro forte, difficili negoziati tra Stati Uniti e Unione Europea sul tema del trattato transatlantico, avidità di ricchezza africana… il mondo ora sembra un’arena. La guerra economica è onnipresente tanto che l’espressione è vittima del suo successo. Occorre quindi definire con precisione questo nuovo oggetto teorico e pratico, valutarne il reale ambito, i suoi mezzi di azione.

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La guerra economica è figlia della globalizzazione

Se la guerra economica nel senso più ampio del termine non è nuova, la sua forma contemporanea ha radici relativamente recenti. Possiamo considerare che dopo la seconda guerra mondiale, con la rinascita di un sistema monetario internazionale e la firma degli accordi GATT nel 1947, le regole per la concorrenza commerciale tra economie in gran parte nazionali furono stabilite all’interno del blocco occidentale. . Così, le lotte economiche che hanno avuto luogo in questi anni sono state confinate in un’arena di dimensioni limitate.

Inoltre, quando Bernard Esambert pubblicò Le Troisième Conflit mondial nel 1968 , tracciò i contorni di una guerra economica con virtù positive: non solo questa guerra “morbida” sostituì la guerra reale in Occidente, ma fu anche uno stimolo per i paesi industrializzati, impegnati in una proficua competizione per tutti. Inoltre, la guerra fredda ha costretto le nazioni del blocco occidentale a una solidarietà di fatto che ha ulteriormente limitato gli effetti delle loro rivalità economiche.

È stato proprio questo equilibrio a essere rotto nel 1991 con la caduta dell’URSS e la fine del comunismo. Da quel momento in poi, nulla ha ostacolato il modello capitalista e di libero scambio che, fino ad allora, rappresentava solo uno dei due sistemi economici all’opera sul pianeta. D’ora in poi l’arena è globale e quasi nessuno contesta le regole del gioco, allo stesso tempo la fine della guerra non fa scadere, tutt’altro, le politiche di potere; li sposta dal terreno militare e geopolitico (scontro di blocchi, conflitti periferici, ecc.) al terreno economico e commerciale (rivalità tra poteri sulle risorse, lotta per la quota di mercato, ecc.). Secondo Luttwak, ” in futuro sarà forse la paura delle conseguenze economiche a regolare le controversie commerciali, e certamente più gli interventi politici motivati ​​da potenti ragioni strategiche [1]  ”. Mentre probabilmente Luttwak sottovalutava l’importanza che avrebbero mantenuto le questioni geopolitiche, ha puntato il dito sulla nuova dimensione della nostra globalizzazione: quella della competizione tra le nazioni. Lungi dal pensare come gli uomini dell’Illuminismo che il commercio ammorbidisce i costumi, crede che il commercio sia solo una delle modalità della guerra quando il suo lato armato si indebolisce.

La dichiarazione di guerra

Vincitori della guerra fredda, gli Stati Uniti sono stati i primi a fare il punto sul cambiamento che il mondo stava attraversando. E’ vero, avevano praticato nei decenni precedenti il ​​versamento di parte del capitale militare verso le proprie aziende per promuovere la ricerca e lo sviluppo e per meglio armarle nella competizione internazionale. Fondamentalmente, la guerra fredda ha dato loro l’opportunità di sovvenzionare interi segmenti della loro economia per le migliori ragioni.

All’inizio degli anni ’90, l’argomento geopolitico è crollato; il discorso economico rimane in tutta la sua purezza. Carla Hills, rappresentante commerciale degli Stati Uniti, non dice allora: “Apriremo i mercati esteri con il piede di porco, se necessario”? Quanto a Bill Clinton, appena eletto, crede che ogni nazione sia ormai in competizione con le altre sui mercati mondiali. Nello stesso anno, il Segretario di Stato Warren Christopher dichiarò ufficialmente che la “sicurezza economica” doveva essere elevata al primo posto della politica estera degli Stati Uniti.

In altre parole, i vincitori della Guerra Fredda hanno ufficialmente dichiarato guerra economica al resto del mondo. La prospettiva è certamente ampiamente liberale; ognuno ha le sue possibilità e può vincere a questa partita, ma il discorso è ambiguo perché si tinge di difesa degli interessi nazionali. Alla fine mescola una retorica che è sia liberale che mercantilista, principi che sono difficilmente compatibili agli occhi degli economisti ma perfettamente legittimi per i politici.

Lo stato , comandante in capo della guerra economica

Su questo punto Bernard Esambert non ha dubbi. Perché un Paese possa combattere nella guerra economica, ha bisogno di uno Stato, “un signore della guerra risoluto, che conosca il mestiere delle armi e che ridia morale e spirito di conquista all’economia”.

Eppure negli anni ’80 e ’90, nell’era del neoliberismo e del consenso di Washington, lo stato era stato malmenato; era visto come un ostacolo allo sviluppo economico, quindi il presidente Reagan non aveva paura di affermare che “il problema è lo Stato”. La globalizzazione finanziaria, la transnazionalizzazione delle imprese, l’intensificazione del commercio internazionale hanno suonato la campana a morto per questa reliquia del passato. Tuttavia, è quasi una logica freudiana di ritorno del represso a cui stiamo assistendo oggi, ancor di più dalla crisi economica del 2008: nel 2009, The Economist non ha esitato a coprire ”  The Return of the Nazionalismo economico“. Non solo lo stato ha resistito alla pozione neoliberista, ma ora sta tornando in auge. Lo Stato ha continuato a svolgere il suo ruolo di supervisione dello spazio privato creando un ambiente legale, fiscale e infrastrutturale favorevole alla promozione dell’economia. Nel contesto attuale, gli Stati hanno, inoltre, assunto il ruolo di leader militare, nella conquista dei mercati e delle risorse, sia per assicurare il loro potere sia per l’arricchimento delle loro imprese e dei loro concittadini.

Questo perché lo Stato ha un certo numero di prerogative o capacità di cui le aziende sono prive per natura. Lo Stato, per usare l’espressione di Philippe Delmas, è un “maestro degli orologi [2]  “: solo può pensare a lungo termine, finanziare a lungo termine quando le aziende prediligono il breve o il medio termine. Inoltre può predisporre costosi strumenti al servizio delle proprie aziende per distinguere i settori del futuro, i campi in cui hanno interesse ad investire; in breve, lo stato ha una visione molto migliore del campo di battaglia di qualsiasi delle sue truppe. L’esempio giapponese del MITI, spesso qui citato, ha un valore paradigmatico. Ma la Commissione di pianificazione creata per la liberazione in Francia aveva ambizioni simili.

 

È anche lo Stato che guida le dinamiche di domani fissando degli obiettivi: così, la strategia di Lisbona che i paesi membri dell’UE hanno adottato nel 2000 intende fare dell’Unione “la prima economia della conoscenza” entro il 2010 collegando esplicitamente questo obiettivo a quello della piena occupazione. Solo uno Stato può affrontare questo tipo di compiti, la cui portata supera di gran lunga le capacità di finanziamento e le motivazioni di un’impresa. Aggiungiamo a questo che i capi di stato, generali in capo della guerra economica, talvolta guidano le operazioni sotto le spoglie di un VRP: si ricorda come Margaret Thatcher fosse personalmente impegnata nella negoziazione di un contratto aeronautico con Arabia Saudita negli anni ’80, pochi anni prima che Bill Clinton adottasse la stessa strategia di vendita nei confronti di Riyadh. È ovvio che il peso di un capo di Stato o di governo può essere decisivo in questo tipo di trattativa.

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Compagnie, semplici soldati?

Gli stati non fanno guerre senza truppe. Queste sono imprese, grandi e piccole. Bernard Esambert vede in esso “  i combattenti della guerra economica […] se sono al fronte esportando in maniera massiccia, dietro difendendo un mercato regionale o se attraversano i confini atterrando su territorio “ nemico ” come le multinazionali  ”. Se l’immagine è attraente, lascia da parte alcuni elementi fondamentali del dibattito sulla guerra economica.

Il primo riguarda una questione semplice ma allo stesso tempo tremendamente delicata in un’epoca di globalizzazione: la nazionalità delle aziende. Non è illusorio dire che sempre più società multinazionali, di proprietà di capitali stranieri, siano francesi? Nel 2012, più della metà del capitale del CAC 40 era detenuta da residenti stranieri. Si può immaginare un esercito i cui soldati sarebbero stati pagati dal campo di fronte? Aiutare le società cosiddette “nazionali” ha ancora senso in questo contesto?

Infatti, gli economisti hanno dimostrato che, nonostante la logica della transnazionalizzazione, l’idea di “nazionalità delle imprese” non era obsoleta [3]. Primo, perché un certo numero di società strategiche sono tutelate dagli Stati: direttamente quando sono azionisti – nel caso di Areva, Thalès o anche Dassault in Francia – indirettamente quando sono garanti della loro indipendenza dalle società estere. Ricordiamo quindi che nel 2006 l’amministrazione Bush ha costretto la compagnia Dubai Port World a vendere ad AIG International la gestione dei sei maggiori porti americani effettuata dalla compagnia P&O che DPW aveva acquistato. Allo stesso modo, nel 2005 è stato impedito alla società pubblicitaria China National Offshore Corporation di acquistare la società americana Unocal. Cosa significa questo se non che gli Stati riconoscono facilmente le società nazionali, anche se la loro capitalizzazione è ormai internazionale?

Quindi, anche nell’era dei ”  Global Players  “, si può parlare di nazionalità delle imprese. Se ci limitiamo ad alcuni esempi francesi, il tasso di partecipazione degli investitori francesi nel 2010 è stato il seguente: totale, 30%; Vivendi, 36%; Universale, 45%; Danone, 49%; BNP-Paribas, 39%; Crédit Agricole 44%, ecc. Questi esempi sono sufficienti a dimostrare che i titolari nazionali, se sono effettivamente in minoranza, costituiscono nondimeno la base dell’azienda. Quanto a manager e direttori, quasi tutti sono francesi. La capitale è internazionale ma l’azienda resta francese sia agli occhi dei suoi manager, dei suoi dipendenti che dei suoi azionisti stranieri.

Infine, possiamo assimilare le attuali grandi compagnie, a maggior ragione le FMN, alle legioni del tardo impero romano  ; misti, variegati, composti da quadri romani e truppe barbare, sono comunque l’esercito dell’Impero. Le aziende attuali, nonostante la loro natura globale, mantengono comunque un punto d’appoggio nazionale. Inoltre, il recente salvataggio di Peugeot intorno a un’alleanza tra la famiglia, lo Stato francese e il produttore cinese Dongfeng dimostra che l’idea di un’azienda nazionale non è morta con la globalizzazione, è solo  più complessa che in passato.

I nuovi obiettivi della guerra economica

La guerra economica contemporanea può essere letta come un conflitto tradizionale, con i suoi obiettivi di guerra. Il primo è simile per le vecchie potenze industriali a un imperativo difensivo: salvare posti di lavoro nell’industria. Questa sfida è diventata un’ossessione poiché le delocalizzazioni o il subappalto in paesi con bassi costi salariali stanno dissanguando i nostri paesi industrializzati.

 

Perché questa ossessione per i lavori industriali nel nostro mondo terziarizzato? Questo perché le nostre società postindustriali, nel senso che la maggior parte del PIL non proviene più dal settore secondario, sono tuttavia industrializzate come non lo sono mai state. Non solo i lavori industriali generano posti di lavoro terziario ma, inoltre, ce ne sono molti che richiedono una qualifica. Bernard Esambert parla di una “simbiosi industria-servizio” per designare questa coppia formata dall’industria high-tech e dal settore dei servizi che l’accompagna. Perdere le prime a vantaggio delle nuove potenze industriali significa perdere le seconde e rischiare di regredire, per non parlare del rischio di disoccupazione o sottoccupazione, che nessuna democrazia può sopportare a lungo termine. I sostenitori della guerra economica quindi ritengono che l’occupazione industriale debba essere difesa e persino mantenuta. Al di là dei dibattiti economici sul loro rapporto costi-benefici, la distruzione di posti di lavoro è difficile da accettare agli occhi degli elettori e, quindi, dei responsabili delle decisioni. Comprendiamo quindi lo zelo, almeno a parole, di Nicolas Sarkozy per salvare la fabbrica Gandrange o quella di François Hollande a Florange.

L’altro obiettivo della guerra, decisivo per gli Stati, non è più la difesa, ma la conquista dei mercati e delle scarse risorse. Bernard Nadoulek ha chiaramente dimostrato l’intensificazione della guerra per il controllo delle risorse naturali [4] , principalmente gli idrocarburi.

Niente forse di meglio di questo esempio illustra agli occhi dei suoi sostenitori l’evidenza della guerra economica: il petrolio è una risorsa scarsa e limitata. Ogni goccia guadagnata da uno viene persa dall’altra. Pertanto, poiché è la base dello sviluppo, è necessario che ogni Stato garantisca un approvvigionamento sicuro e continuo. La feroce lotta che Stati Uniti e Cina stanno conducendo per il petrolio africano ma anche per le altre risorse del sottosuolo di questo continente ne è un esempio. Assente dall’Africa 25 anni fa, la Cina è ora il suo terzo partner commerciale dietro Stati Uniti e Francia; per due terzi importa petrolio, ma anche metalli, cotone e pietre preziose.

Guerra economica per risorse scarse

Questa guerra per le risorse naturali è teatro di un’inversione dei rapporti di forza tra i paesi occidentali da un lato e paesi emergenti e / o in via di sviluppo dall’altro. L’ascesa della Cina , dei BRICS, l’ascesa dei fondi sovrani nei paesi arabi esportatori di petrolio lo dimostrerebbero. Nella guerra economica, le risorse sono potenti munizioni. E tutto suggerisce che questo conflitto si intensificherà.

L’Agenzia internazionale dell’energia stima che il fabbisogno energetico aumenterà del 50% entro il 2030, in particolare a causa della crescita indiana e cinese. La ricerca delle materie prime diventerà, infatti, un tema cruciale per gli Stati. Già nel 2007, il Committee on Critical Mineral Impacts on the US Economy ha pubblicato un rapporto in cui elenca undici minerali che sono particolarmente cruciali per l’economia americana a causa della loro scarsità, del loro bisogno nelle industrie ad alta tecnologia … il più ambito, è il rodio, utilizzato in particolare nei convertitori catalitici, e trovato in Russia ma anche in Sud Africa, un alleato molto migliore di Mosca. Metallo raro, è oggi oggetto di lotte in cui Stati e multinazionali combattono fianco a fianco. Garante dell’economia nazionale,

 

Sotto la “scarsità di risorse” compaiono anche le aziende che stanno diventando oggi, più che mai, preda non solo delle controparti private ma anche degli Stati. In quanto tale, la crisi ha facilitato l’ingresso nel capitale di aziende molto grandi dei paesi del sud via i potenti fondi sovrani. I grandi fondi di investimento degli Emirati Arabi Uniti, in particolare Dubai e Abu Dhabi, hanno ampiamente investito a favore della crisi economica in prestigiose società in difficoltà: EADS, AMD, Sony, Citigroup … Il fondo sovrano cinese detiene quanto a lui quasi il 10% di Morgan Stanley. Quanto al fondo Singapore, è entrato allo stesso livello nel capitale di Merril Lynch. Qui troviamo l’idea di rivoluzione nella gerarchia Nord / Sud, cara a Bernard Nadoulek; essere un vincitore nella guerra economica non è dato in eredità. I nuovi arrivati ​​stanno scuotendo la vecchia gerarchia. Si stima generalmente che l’Arabia Saudita sia responsabile del 5% del PIL degli Stati Uniti grazie alla creazione di ricchezza resa possibile dall’uso del petrolio arabo.

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Infine, c’è una merce rara e strategica che costituisce un obiettivo relativamente nuovo della guerra: l’informazione. Ora è importante che le aziende e gli Stati conoscano i loro avversari, il loro esatto livello tecnologico, la loro strategia, al fine di essere in grado di anticiparli. A volte parliamo di guerra cognitiva per designare l’arma principale della guerra economica. Éric Delbecque, specialista in intelligenza economica, afferma che “in un gioco competitivo duro che impone uno stile di gestione strategico reattivo e preciso, anche l’acquisizione di informazioni ad alto valore aggiunto si rivela essenziale per lo sviluppo dell’attività economica. che l’accumulazione di capitale finanziario e il coordinamento delle competenze umane [5] “. Se gli Stati vogliono oggi aiutare le loro imprese a conquistare quote di mercato, devono dotarsi di programmi di intelligence economica, pena il rimanere notevolmente indietro in una forma di lotta che appare sempre più cruciale.

Nel commercio multilaterale, oppositori multilaterali

Il nostro tempo è tessuto di contraddizioni; da un lato, gli Stati tengono un discorso ufficiale sostenendo, a volte con sfumature, un multilateralismo sostenuto dalle principali istituzioni internazionali come l’ONU, l’OMC, il FMI … Dall’altro, tutti vedono chiaramente che gli Stati si stanno sviluppando ragionamenti abbastanza diversi. L’imperativo della solidarietà in campo finanziario, auspicato dal G20, risponde alla necessità di non perdere quote di mercato in un contesto di tensione. Nel pieno della crisi, i Quaderni della Competitività titolava: “Alla conquista dei mercati esteri. Approfitta della globalizzazione e recupera la crescita ”. Inoltre, lo Stato sostiene i suoi imprenditori attraverso Ubifrance, l’Agenzia francese per lo sviluppo internazionale delle imprese, che riporta direttamente alla Segreteria per il commercio estero. Basti dire che la logica mostrata e assunta è proprio quella di una guerra economica.

Uno stato schizofrenico quindi? Diciamo piuttosto uno Stato emerso dalla logica della Guerra Fredda in cui l’appartenenza a un blocco implicava un comportamento almeno benevolo, se non unito, nei confronti dei suoi partner. Spetta a Christian Harbulot aver meglio mostrato questo passaggio dal manicheismo della Guerra Fredda alla guerra economica multilaterale che gli Stati stanno conducendo oggi. Secondo lui, la coppia alleato / avversario ha sostituito quella partner / concorrente. Questa trasformazione di possibili alleanze è accoppiata, secondo Harbulot, con una riorganizzazione del campo dei partner e dei concorrenti in termini geografici. I due blocchi della Guerra Fredda sarebbero succeduti a tre blocchi: il primo è l’area degradata del mondo occidentale da cui si possono eventualmente estrarre gli Stati Uniti, il secondo è lo spazio di manovra ampliato delle nuove potenze, il terzo, infine, è lo spazio di sopravvivenza di altri paesi. Ciascuno di questi spazi segue strategie di potere molto diverse. Inoltre, i membri di ogni blocco non sono necessariamente alleati come abbiamo appena visto.

Pertanto, qualsiasi affermazione perentoria diventa impossibile. Gli Stati Uniti e la Cina stanno conducendo una guerra implacabile per le risorse dell’Africa. Ma la Cina, attraverso l’acquisto di titoli del Tesoro USA, è il Paese che permette agli Stati Uniti di vivere di credito. Per quanto riguarda gli IDE americani, svolgono un ruolo significativo nella crescita cinese. Un altro esempio, Cina e Taiwan sono nemici politici ma partner economici… Christian Harbulot ha proposto un’immagine della guerra economica mondiale che riproduciamo qui. Fornisce una migliore comprensione delle ragioni e dei problemi che strutturano questo conflitto agli occhi delle persone coinvolte.

Armi e parate di guerra economica

Se la guerra economica è una lotta, si basa sulle armi e sulle parate. Nel contesto di una guerra coperta, un gran numero di strumenti sono utili come armi. Il primo di tutto è senza dubbio l’allenamento; nelle nostre società in costante cambiamento, la formazione iniziale aiuta a creare una forza lavoro o manager preparati al cambiamento.

Allo stesso modo, l’importanza data alla ricerca è fondamentale. Dal 2010 la Cina ha più ricercatori degli Stati Uniti, anche se questi ultimi godono, grazie alla pratica della fuga dei cervelli , delle menti più acute del pianeta. In questo ambito è fondamentale la collaborazione pubblico-privato; negli Stati Uniti, il Bayh-Dole Act del 1980 prevede che i brevetti finanziati con fondi pubblici – da università o centri di ricerca pubblici – siano assegnati principalmente sotto forma di diritti esclusivi a società private americane.

In altre parole, agli occhi degli Stati in guerra economica, la ricerca dei brevetti è davvero un affare nazionale, una garanzia di produttività, un’arma decisiva nella prospettiva di una lotta commerciale tra le nazioni. Questi strumenti si mettono al servizio della competitività, questa capacità di affrontare la concorrenza sui mercati esterni ed interni. Non c’è dubbio in questo campo che l’Agenda 2010 proposta dal Cancelliere Schröder dal 2003 al 2005 abbia restituito alla Germania il vantaggio che le consente di raccogliere favolosi avanzi commerciali, compreso quello del 2013 che, con quasi 200 miliardi di euro, è il più grande mai registrato nella sua storia… a scapito dei suoi vicini europei, Francia compresa.

 

L’ultima arma della guerra coperta si basa sull’intelligence economica. È simile sia a un’arma, a uno stivale segreto – che anticipa il movimento del nemico per sorprenderlo e rubargli la vittoria – ma anche a una tattica di difesa – anticipando un rischio di alleanza, praticando disinformazione, proteggiti dalla concorrenza conoscendo i progressi dei tuoi principali avversari. Gli Stati Uniti sono gli attori principali di questa guerra dell’informazione. Ora sappiamo che la NSA, inizialmente creata in una logica di controspionaggio durante la Guerra Fredda, avrebbe utilizzato la rete Echelon per conoscere la posizione dell’Unione Europea nel 1994 durante i negoziati finali dell’Uruguay Round. Nel 2014, il New York Times ha rivelato che l’Agenzia aveva spiato uno studio legale americano che difendeva un paese straniero in una controversia commerciale con gli Stati Uniti … L’informazione è diventata una delle questioni chiave nella guerra economica .

Dalla guerra coperta alla guerra aperta

Man mano che gli stati passano dalla guerra coperta alla guerra aperta, le armi cambiano. Questi attacchi possono assumere la forma di ritorsioni geoeconomiche in risposta a una crisi geopolitica; questo è attualmente il caso dell’embargo su frutta e verdura tra Unione europea e Russia.

Anche le restrizioni volontarie all’importazione sono simili a misure di ritorsione. Il noto esempio delle restrizioni imposte dagli Stati Uniti alle auto giapponesi negli anni ’80 testimonia la violenza del conflitto. Di fronte alla crescita delle vendite di auto giapponesi, Washington ha cercato di proteggere i ”  Tre Grandi  “. Piuttosto che procedere unilateralmente, il governo statunitense ha chiesto ai giapponesi di limitare le loro esportazioni. Tokyo ha preferito negoziare questa misura perfettamente anti-liberale piuttosto che correre il rischio di imporre restrizioni ancora più sfavorevoli: questo è l’ accordo di restrizione volontaria del 1980.

Un certo numero di controversie tra Stati portano all’adozione di picchi tariffari come ritorsione; gli Stati Uniti hanno quindi deciso nel gennaio 2009 di triplicare i dazi doganali sul Roquefort in risposta al divieto di esportazione in Europa di carne bovina contenente ormoni. In ognuno di questi casi, il miglior attacco è stato la difesa.

Quando si preoccupano di evitare conflitti frontali, gli Stati preferiscono un approccio alternativo che consiste nel facilitare l’assalto delle loro aziende sui mercati esteri. Per questo il potere politico è l’ardente promotore delle sue imprese. Questa vecchia pratica è stata sistematizzata negli Stati Uniti sotto forma di “diplomazia commerciale”. Ciò si basa su tre principi: preparare il terreno liberalizzando il commercio con il paese di destinazione; utilizzare l’intelligence economica, l’intelligence industriale e commerciale per fornire alle aziende americane tutti i dati sul campo da conquistare; infine, allestire strutture ad hoc come la War room. Questa strategia pubblica offensiva è interamente al servizio delle società private che sono la forza degli Stati Uniti. È nello stesso spirito che Washington sta ora aumentando la firma di trattati bilaterali di libero scambio: con la maggior parte dei paesi dell’America centrale negli anni 2000, con il Marocco nel 2006, la Corea del Sud nel 2010. Ma le due questioni principali che li occupano ora sono il trattato transpacifico da un lato e il trattato transatlantico con l’UE dall’altro.

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Infine, c’è un’ultima arma che, singolarmente, è oggi quasi prerogativa di pochi paesi emergenti: i fondi sovrani. Anche se lo negano, questi fondi prendono piede in gruppi a volte strategici e aiutano a guidare la loro strategia.

Strategie di difesa

Per affrontare questi pericoli, coloro che sono coinvolti nella guerra economica hanno sviluppato politiche simili a scudi o persino contrattacchi. In un contesto in cui le barriere doganali sono storicamente basse, ci sono altri mezzi per preservare il suo mercato: sussidi all’esportazione, standard, favoritismi dati alle aziende nazionali in una forma o nell’altra (pensiamo allo Small Business Act che riserva -United alcuni appalti pubblici alle PMI) … tutti i mezzi sono buoni.

È il caso del denaro, che è stato a lungo e continua ad essere un’arma difensiva nelle mani degli Stati, in particolare sotto forma di svalutazione. Il Regno Unito ci ha fornito un recente esempio dell’uso geoeconomico che si potrebbe fare di una valuta: nel pieno della crisi, Londra si è lasciata sfuggire la sterlina mentre l’euro è rimasto forte. In questo modo, le esportazioni britanniche sono state stimolate. Potremmo riprodurre l’analisi per lo yuan o anche per lo yen in un momento in cui Shinzo Abe ha lanciato una politica di espansionismo monetario.

Per i grandi Stati occidentali si tratta prima di tutto di proteggere i propri mercati in un momento in cui il protezionismo di vecchio tipo è quasi bandito. Per i paesi emergenti, la posta in gioco è diversa: aumentando il numero delle fonti normative (statali, internazionali, private, pubbliche, ecc.), Indeboliscono il sistema giuridico universale progettato dagli Stati dominanti. Paradossalmente, il desiderio di unificare il commercio mondiale ha portato a una frammentazione giuridica di quest’ultimo.

 

Le regole del commercio sono diventate in pochi decenni un campo di battaglia. Ne è testimone l’emergere in Francia della nozione di “patriottismo economico”. Diffusa nel 2005 da Dominique de Villepin, allora Primo Ministro, la dottrina del patriottismo economico si basa sull’idea che spetterebbe allo Stato difendere le aziende considerate appartenenti a settori strategici. In pratica, il successo è misto: se Suez si era sposata con GDF nel 2008 per far fronte a un potenziale acquisto da parte dell’italiana Enel, Arcelor è stata assorbita da Mittal.

Ma colpisce il fatto che l’idea trascenda le divisioni politiche: Arnaud Montebourg, durante il suo breve soggiorno a Bercy, fece adottare un “decreto Alstom” che estendeva il decreto Villepin a nuovi settori, sottoponendo così gli investimenti stranieri in Francia a autorizzazione del governo. Non è esclusa la Germania di Angela Merkel, che ha anche indicato di voler vigilare sugli investimenti di fondi sovrani in società tedesche. Attraverso questi esempi, troviamo il tradizionale antagonismo tra economisti e politici: i primi insistono sul costo economico e sociale della guerra economica e sul protezionismo che essa genera, i secondi sottolineano l’indipendenza e il potere nazionale.

Considerando il pianeta nel 2014, si è tentati di concludere che la guerra ha un futuro radioso; guerra economica, ovviamente, ma anche guerra tradizionale. Forse più grave, è possibile che le guerre economiche di domani degenerino in conflitti armati. Il “dolce mestiere” caro a Montesquieu sembra lontano. Forse più che mai il mondo assomiglia alla descrizione di Nietzsche in The Will to Power  : “Un mare di forze in tempesta e flusso perpetuo, eternamente mutevole, eternamente declinato con giganteschi anni di ritorno regolare. ”

 


  1. Edward Luttwak, Il sogno americano in pericolo , op. cit., p. 40.
  2. Philippe Delmas, The Master of Clocks: Modernity of Public Action , Parigi, Odile Jacob, 1991.
  3. A questo proposito si veda Elie Cohen, La Tentation hexagonale: sovereignty put to test of globalization , Paris, Fayard, 1996.
  4. Bernard Nadoulek, L ‘ É popée des civilisations , Parigi, Eyrolles, 2005. Possiamo anche fare riferimento, dello stesso autore, a “La guerra economica mondiale per il controllo delle risorse naturali”, Géoéconomie , n ° 45, p. 23-32.
  5. Éric Delbecque, Economic Intelligence , Parigi, PUF, 2007, p. 29.    https://www.revueconflits.com/guerre-economique-histoire-mondialisation-entreprises-etats-frederic-munier/

Malesia! La tigre asiatica e il pachiderma cinese, con Giuseppe Malgeri

Le nazioni del sudest asiatico hanno conosciuto e sperimentato i tre modelli sinora conosciuti di sperimentazione di sortita dal sottosviluppo: quello autarchico ispirato al modello socialista e ad alcune dittature satrapo-militari; quello aperto e dogmaticamente liberista; infine quello pragmatico che ha cercato e saputo dosare l’apertura selettiva dei mercati, l’accettazione selettiva degli investimenti esteri in un quadro di compartecipazione nelle società, l’incentivazione delle esportazioni, le opportunità legate alla globalizzazione. La Malesia può essere considerato un esempio di livello intermedio tra quello modesto della Cambogia e del Laos e quello più brillante di Singapore e di seguito della Thaynlandia e del Vietnam in un contesto di crescente predominio economico cinese ed equilibrio geopolitico sinoamericano. Una esperienza da cui trarre qualche insegnamento per il nostro paese ormai avviato verso un mesto e remissivo declino. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

Teorici della guerra economica, di David Colle

Il campo dei teorici della guerra economica è stranamente deserto se paragonato a quello dei liberali. In questo (quasi) vuoto spicca un nome, quello di Friedrich List. Ma il numero non fa il valore di una teoria …

24 novembre 2020 In Economia, energie e imprese , Idee Lettura di 8 minuti

Come il suo (quasi) omonimo compositore Franz Liszt, che ha tirato fuori l’arpeggi di pianoforte e ottave détonnèrent al momento della Chopin, Schumann e Brahms, Friedrich List spinto all’inizio del XIX °  secolo, che lo considera – anche per essere una scuola  : classica, di libero scambio, troppo poca cura secondo lui del passato come del futuro delle nazioni.

Una semplice idea riassume il suo pensiero e lo avvicina a Marx: la produzione precede lo scambio. Prima di poter consumare, devi produrre. List rompe con una scuola che accusa di “vago cosmopolitismo”, a cui si oppone “la natura delle cose, gli insegnamenti della storia, i bisogni delle nazioni”. L’analisi dello scambio deve piegarsi a quella della produzione, il cosmopolitismo alla politica, la teoria alla storia.

Tuttavia, nulla sembra più lontano dal suo punto di vista che considerare il Sistema nazionale di economia politica come un pretesto per la guerra. Nemmeno il conflitto. Piuttosto in competizione. Se List è in guerra, è contro l’ideologia dominante del suo tempo.

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Concepito in America, scritto in Francia, pubblicato in Germania

Fu alla scuola del vasto laboratorio americano in cui List visse a lungo, ancora sotto l’influenza del Report on Manufactures scritto da Alexander Hamilton nel 1791, che fu concepito il Sistema nazionale di economia politica . Ma è in Francia che è per la maggior parte scritto, e in Germania che viene pubblicato nel maggio 1841. Che cosa c’è in gioco? La teoria dominante del vantaggio comparato.

David Ricardo formulò questa teoria della specializzazione e del libero scambio nel 1817 per estendere ma anche modificare quella di Adam Smith. Senza volerlo, e probabilmente senza secondi fini (?), Porta in pratica a stabilire il potere industriale inglese. Il Portogallo, dimostra, deve specializzarsi nella produzione del vino, l’Inghilterra in quella dei tessuti. Mentre i tessuti sono il motore della rivoluzione industriale in movimento!

 

Forse List ha visto nel libero scambio offerto dall’Inghilterra alla Francia, agli Stati Uniti o alla Germania una trappola – un complotto? – destinato a mantenere questi paesi indietro . Nel 1846, List era a Londra quando le Corn Laws furono abrogate . Fu alla fine di quello stesso anno, tornato nel continente, che List si suicidò: si spera che il suo atto non fosse correlato a questo momento chiave dell’evoluzione verso il libero scambio.

Industria e concorrenza

L’elenco dovrebbe essere letto, avendo cura di far risuonare i termini che usa: protezione delle industrie nascenti , protezionismo educativo . Il protezionismo non è giustificato né per le nazioni che non hanno ancora iniziato il loro sviluppo economico e industriale, né per le nazioni che questo sviluppo ha portato ad avere industrie che ora sono armate nella concorrenza internazionale. Viene fatto solo per educare nella fase di transizione. E se durante questa fase le industrie protette da tariffe fino al 60% non riescono a prosperare, allora la concorrenza sta facendo il suo lavoro… Darwiniana.

List resta dunque a favore del libero scambio, ma solo tra nazioni che hanno raggiunto la fase che lui chiama “economia complessa” e che diremmo “sviluppata”. “Tra due paesi molto avanzati, la libera concorrenza può essere vantaggiosa solo per entrambi, se hanno all’incirca lo stesso livello di istruzione industriale, e per una nazione indietro, da un Sorte sfortunata (…) chi (…) possiede le risorse materiali e morali necessarie al suo sviluppo, deve (…) rendersi capace di sostenere la lotta con le nazioni che l’hanno preceduta. “

Ciò che gli interessa è “il graduale sviluppo dell’economia dei popoli”. L’economico, come mezzo per sperare di distogliere l’attenzione dalla volontà di potere. Come se, ai suoi occhi, fosse il libero scambio ingenuamente cosmopolita e la negazione della storia e delle culture a portare alla guerra economica, mentre il protezionismo illuminato avrebbe unito gli stati-nazione attorno a una storia universale di sviluppo. .

Intermezzo keynesiano

Si potrebbe essere sorpresi di trovare Keynes in una rapida panoramica degli autori che hanno frequentato il concetto di guerra economica. Eppure, forse è lui che si è avvicinato di più. In effetti, le conseguenze economiche della pacea lui sono dedicate, pubblicate nel 1919: in sintesi, Keynes ritiene che la pace ottenuta a Versailles non sia altro che una guerra economica imposta alla Germania per spirito di vendetta. Vede in esso un desiderio di catturare, un desiderio di esaurire, un desiderio di impedire alla Germania di sfruttare e anche di salvaguardare le fonti del suo potere. Keynes considera il perdono economicamente redditizio, mentre la riparazione rischia di essere formidabile sia per la dinamica disincentivante che avrà per i vincitori sia per il contagio deflazionistico e recessivo che implica per tutti. Senza contare che questa guerra economica imposta alla Germania rischierà di costituire un alibi per il risentimento nazionale e la base per la vendetta.

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Nel 1933, nell’autosufficienza nazionale , Keynes non temeva tanto il libero scambio quanto la libera circolazione dei capitali. Non ci sono più politiche economiche nazionali indipendenti ed efficaci non appena il capitale è mobile. Un secolo e mezzo prima, Ricardo già temeva per una nazione i cui capitalisti avrebbero perso, per ragioni di redditività, la preferenza per gli investimenti nazionali: “riluttanza naturale” e “paura” limitano ancora l’emigrazione di capitali, “Sentimenti” che sarebbe stato, ha detto “mi dispiace vedere indebolirsi [1]  “. Una preoccupazione che è diventata di grande attualità.

Dalla strategia microeconomica alla guerra macroeconomica

Nel 1944, il matematico John von Neumann e l’economista Oskar Morgenstern, unirono le forze per pubblicare Theory of Games and Economic Behavior, che segna il punto di partenza di un nuovo modo di analizzare le interazioni strategiche tra gli attori. La polemologia, la scienza della guerra, si svilupperà su nuove basi. La teoria dei punti focali, in particolare, estende l’analisi dell’equilibrio strategico del potere e ha guadagnato Thomas Schelling, autore nel 1960 di The Strategy of Conflict , il Premio Nobel per l’economia.

Questi contributi teorici fondamentali per la scienza economica aiutano a fondare analisi che, a poco a poco, si discosteranno dal comportamento microeconomico e dall’analisi della razionalità verso il macro-potere. Lester Thurow con Testa a testa , The Coming Economic Battle between Japan, Europe and America (1993), Edward Luttwak autore nello stesso anno di The Endangered American Dream: How to Stop the United States from Being a Third World Country and How to Win the Lotta geo-economica per la supremazia industriale (un bel programma), Paul Kennedy e il suo The Rise and Fall of the Great Power: Economic Change and Military Conflict dal 1500 al 2000 (1987) lo testimoniano: la nozione di guerra economica sembra sempre più legata alla paura, da parte delle grandi potenze, di mettersi al passo con nuove potenze.

Un concetto di perdenti irritati?

Il premio Nobel francese per l’economia Maurice Allais, partecipante alla fondazione della microeconomia comportamentale, sostiene che l’analisi liberale, di cui afferma di aver trascurato troppo il tempo concentrandosi sul passaggio da un equilibrio all’altro . Sono queste le difficoltà incontrate dalla Francia che Christian Stoffaës mette in luce su La Grande Menace Industrielle nel 1978, una somma ragguardevole in cui analizza le strategie difensive e offensive nella “battaglia per il mercato mondiale”. Oggi Bernard Esambert è senza dubbio il principale difensore francese della guerra economica dal suo saggio del 1991, La guerra economica mondiale .

Questi tre autori hanno una cosa in comune: tutti e tre sono politecnici e ingegneri minerari. Il che può sollevare alcune domande, come una provocazione. Il concetto di guerra economica, se può aver avuto una leggera popolarità in Germania, un paese di aziende molto competitive, oggi ha poco o niente. Il concetto è più di moda negli Stati Uniti e in Francia, due paesi che mostrano lunghe fasi di deficit commerciale e colpiti da una reale ma forse esagerata deindustrializzazione.

La guerra economica è una preoccupazione prevalentemente americana e francese?

Maurice Allais contro il “laissez-fairism”

Maurice Allais, da tempo il nostro unico premio Nobel per l’economia (nel 1988), non usa la formula della “guerra economica”. Le analisi che ha sviluppato a partire dagli anni ’90, tuttavia, forniscono un valido supporto a tutti i critici di ciò che lui chiama “laissez-fairism”.

Maurice Allais è tuttavia un liberale che ha criticato aspramente il sistema socialista. È anche un sostenitore della costruzione europea, o meglio è stato un sostenitore perché crede che il sistema sia stato pervertito dall’inizio degli anni ’70 con l’ingresso del Regno Unito nella Comunità. Da quel momento per lui non si tratta più di Europa, ma di “organizzazione di Bruxelles”.

Paradossalmente, Allais si definisce anche un socialista. Questo perché per lui lo scambio non è fine a se stesso ma un mezzo per elevare il tenore di vita di tutta la popolazione. Non è un caso che il suo libro principale dedicato a questi temi, La Mondializzazione [2] , sia dedicato “alle innumerevoli vittime, in tutto il mondo, dell’ideologia globalista del libero scambio”.

A suo avviso, il libero scambio può realmente esistere solo tra paesi con un livello di sviluppo, costi salariali e protezione sociale comparabili. Era il caso della CEE degli anni 60. Non è più il caso dell’integrazione dei paesi dell’Est. Lo è ancora di meno quando si apre al mondo intero, rinunciando al principio di preferenza comunitaria e accettando senza precauzioni i prodotti fabbricati in paesi con salari molto bassi. I trasferimenti e l’aumento della disoccupazione sono quindi inevitabili. Come soluzione, Allais sostiene… il trasferimento di Pascal Lamy, commissario europeo e poi direttore dell’OMC. Più seriamente, chiede un protezionismo misurato che controlli le importazioni senza vietarle.

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Christian Harbulot – Siamo in guerra economica

Intervista a Christian Harbulot – Siamo in guerra economica

Uno dei pionieri dell’intelligence economica, Christian Harbulot è a capo della School of Economic Warfare di Parigi dal 1997 ed è il direttore di Spin Partners. Ha coordinato la stesura del manuale di Intelligence Economica presso i PUF.

 

Conflitti: perché ti sei interessato alla guerra economica?

Christian Harbulot: Può sembrare paradossale. Da adolescente ero un attivista di estrema sinistra. Eppure sono sempre rimasto un patriota. Nato a Verdun, ho immerso tutta la mia infanzia in un’atmosfera patriottica. Non potevo essere insensibile alla parola “Francia”, alla massa di morti e drammi che mi circondavano. Ho persino sognato di diventare un paracadutista. Ma gli eventi in Algeria mi hanno deluso, non mi vedevo entrare nell’esercito del generale Ailleret. Questo spiega il mio passaggio all’estrema sinistra. Ma non tra i trotskisti, tra i maoisti, insisto, la realtà patriottica non mi ha mai abbandonato. I primi sono internazionalisti, i maoisti insistono sul rapporto tra una popolazione e un territorio. Mao Zedong vince con tutti contro di lui, Washington e Mosca, ma sa come mobilitare la sua gente intorno a lui.

In effetti, ciò che è stato decisivo è stato il mio tempo a Sciences-Po dal 1973 al 1975. Non da quello che ho imparato lì, ma da quello che non ho imparato lì. Nessuno si è dato da pensare al futuro della Francia, al potere della Francia. Non ho trovato nessun mentore che stimolasse la mia mente sul futuro del mio paese, su cosa lo potesse sconvolgere, su come una nazione come la nostra potesse non solo preservare i suoi successi ma svilupparli. Nessuno che mi dia griglie di lettura. E questo in un contesto in cui il gioco dell’opposizione tra i blocchi ha portato a nascondere le divergenze che potevano esistere all’interno di ogni blocco. Sciences-Po aveva scelto il suo campo, combatteva il comunismo, era quasi totalmente sotto l’influenza americana.

Questa legge del silenzio che prevaleva a Sciences-Po non poteva soddisfarmi. Una vera omertà .

 

Conflitti: è così che hai creato la School of Economic Warfare.

Christian Harbulot: Tutto è iniziato con discussioni con i militari. Il generale Pichon-Duclos, soprattutto che ho conosciuto nel 1993 dopo aver letto i suoi articoli. Poi i generali Courmont e Merment, un gruppo che lavorava all’interno di un think tank chiamato Stratos. La nascita è stata lunga, quasi cinque anni. Pensavamo di sviluppare le nostre attività in un’università o in una grande scuola, ma si è rivelato difficile. Affrontare il problema della guerra economica, svelandone la realtà, che rischiava di essere poco apprezzata al di là dell’Atlantico. Tuttavia, i professori della Superiora temevano di dispiacere e di essere banditi dalla pubblicazione sulle riviste americane. Quindi hanno frenato quattro ferri. Un pioniere come Le Bihan, che voleva introdurre questo insegnamento all’HEC, fu costretto ad arrendersi.

Alla fine ho trovato il supporto di ESCA e EGE iniziato nel 1998.

 

Conflitti: è qui che inizia a emergere il tema della guerra economica. Perché in questo momento?

Christian Harbulot: Il fenomeno essenziale è proprio la fine della Guerra Fredda e la fine dei blocchi, e quindi dell’omertà che proibiva la pubblicità delle rivalità tra i paesi occidentali e metteva in discussione la solidarietà atlantica. Ciò che una volta era nascosto lo è sempre di meno. Allo stesso tempo, vengono rilasciate nuove forze e emergono nuovi paesi. Ma la fine della guerra fredda non pone fine alla minaccia nucleare. La bomba atomica rende impossibile pensare a grandi conflitti tra grandi potenze in termini di guerra militare, almeno se restiamo razionali. Ciò spiega in parte la trasformazione della guerra sulla base di scontri economici.

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Un evento significativo mostra quanto è cambiato. Nel 1967, il generale de Gaulle chiese la conversione dei dollari detenuti dalla Banque de France in oro. Questo fatto è spesso trascurato, nella migliore delle ipotesi è considerato molto meno importante della costruzione della forza d’attacco nucleare. Eppure de Gaulle ha osato attaccare le fondamenta del potere americano. È stata una sfida incredibile e questa politica verrà abbandonata dai suoi successori. Oggi i BRICSContestando apertamente la supremazia del biglietto verde, V. Poutine chiede di porre fine al suo ruolo predominante e Pechino, più discretamente, sta mettendo in atto tutta una serie di misure per poterne, domani, farne a meno. Tuttavia, gli Stati Uniti non possono tirarsi indietro su questo argomento, è la chiave del loro potere, ma ancor di più del loro sistema. Quella che una volta era considerata la sfida folle di un uomo sta diventando la sfida di tutte le nazioni emergenti.

Quindi quello che potremmo nascondere o minimizzare in passato non può più essere oggi.

 

Conflitti: come definisci la guerra economica?

Christian Harbulot: È l’espressione estrema delle lotte di potere non militari. Se proviamo a dare la priorità all’equilibrio di potere, i due che mi sembrano i più importanti nella storia dell’umanità riguardano la guerra e l’economia. Questo non significa che non ce ne siano altri – culturali, religiosi, diplomatici… Ma sono questi due che contano di più se guardiamo alla lunga storia, gli altri passano in secondo piano. , le loro conseguenze sono meno gravi.

 

Conflitti: questa guerra è l’azione degli stati?

Christian Harbulot: Sì, certo, sono loro che hanno le risorse materiali e la visione a lungo termine necessaria.

 

Conflitti: che dire delle imprese?

Christian Harbulot: Hanno un ruolo, ma subordinato. Il loro posto è limitato da un fattore essenziale, il fattore tempo. Gli azionisti favoriscono l’utile a breve termine; i manager generalmente rimangono a capo della loro azienda per un breve periodo. Fernand Braudel ha dimostrato che a lungo termine lo Stato vince sul mercato. Perché costruire un territorio richiede investimenti pesanti che richiedono uno sforzo a lungo termine. La sostenibilità del potere non è un business, per quanto potente possa essere, ma una costruzione territoriale la cui durata sarà molto più lunga.

L’azienda può disporre di mezzi finanziari considerevoli, superiori a quelli di alcuni Stati. Ma dipende dal mercato, dai suoi rapidi cambiamenti. Nessuna azienda può dire: “Sono qui, resto lì. La vastità dell’Impero russo è stata inscritta nel tempo per secoli; nessuna impresa privata può pretendere di ottenere questo risultato.

 

Conflitti: la guerra economica sta spingendo le aziende a rivolgersi agli Stati?

Christian Harbulot: Sì, naturalmente. L’abbiamo visto con il subprime crisi . I movimenti di capitali che seguirono hanno dimostrato una cosa, che è stata mappata: il capitale è andato dove si sentiva protetto, spesso il suo paese di origine. Le nazionalità, descritte da alcuni economisti come sciocchezze, riacquistarono importanza.

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Conflitti: visto che stiamo parlando di guerra, ci sono aziende che “tradiscono”?

Christian Harbulot:È un dibattito completamente oscurato nel nostro Paese. Questo mi ricorda un caso che mi sembra essenziale nella storia del nostro paese, il piano informatico del generale de Gaulle per l’IT. Pensava in termini di sovranità, facendoci sfuggire agli Stati Uniti dalla dipendenza dalla tecnologia informatica, ma ancor più in termini di potere, in termini di conquista dei mercati. Peyrefitte lo mostra chiaramente quando riporta una discussione con lui sulla concorrenza tra i sistemi PAL e SECAM; per de Gaulle si tratta di prendere quote di mercato. Cosa ha fatto fallire questo piano? Molte cose, ovviamente, ma soprattutto l’azione di Ambroise Roux. Pensava solo agli interessi della General Electricity Company che dirigeva. Non parlerò di tradimento,

 

Conflitti: come si può dire che la visione dello Stato sia superiore a quella delle aziende? Affermano anche di servire il bene comune, producendo dove costa meno e fornendo al consumatore prodotti economici e vari? In che modo lo Stato impedirebbe loro di farlo?

Christian Harbulot: Prima di tutto, ricordiamoci che non siamo solo consumatori, ma anche produttori. Quello che ognuno di noi guadagna da una parte, rischiamo di perdere dall’altra.

Ma non è questa la radice del problema, non sto entrando nel dibattito sulle virtù e sui limiti del liberalismo economico. Economia e politica non sono proprio sullo stesso piano. Ciò che conta sono i rapporti di potenza. È un’idea che mi sta a cuore; per avere un divenire, dobbiamo pensare al potere. Questa è la ragion d’essere degli stati, non delle imprese.

Vedere. Negli anni ’20 e all’inizio degli anni ’30 le aziende americane investirono massicciamente in Germania; questo non ha impedito agli Stati Uniti di entrare in guerra contro di essa – anche se notiamo che i bombardamenti americani hanno sorprendentemente aggirato le fabbriche di questi gruppi …

Gli interessi economici privati ​​non dettano sistematicamente gli interessi del potere. Un caso attuale è rivelatore: le società energetiche americane hanno davvero interesse a sfruttare il gas di scisto che compete con il “loro” petrolio e contribuisce all’attuale caduta del prezzo del barile? E domani, cosa succederà se inizieranno ad esportare in Europa? Lo venderanno a un prezzo elevato, che è nel loro interesse? O a un prezzo basso per rendere l’Europa meno dipendente dal gas russo e più dipendente dagli Stati Uniti? Nel primo caso prevarrebbero gli interessi delle società; nel secondo, la logica del potere dello Stato americano. In ogni caso, sarà un ottimo test, se queste esportazioni avranno luogo, per verificare chi sta imponendo il suo punto di vista (tra interesse privato e interesse di potere).

La questione di chi detiene le chiavi del potere è al centro della trama della famosa serie americana House of Cards. In questa finzione un po ‘simbolica, un uomo d’affari americano è alla disperata ricerca di una raffineria in Cina, senza prestare il minimo interesse alle tensioni geopolitiche sino-americane. Interessi privati ​​a breve termine da un lato, interessi collettivi incarnati dallo Stato dall’altro. Alcuni dicono che lo sviluppo del commercio è il modo migliore per rendere difficile uno scontro tra Stati Uniti e Cina. Ma di questo dovrebbe essere convinto anche lo Stato cinese! E che non prenda iniziative che possano minare il potere, ma anche la competitività degli Stati Uniti. Torna al dollaro. Se i paesi emergenti riescono a ridurne l’utilizzo, tutti gli americani ne risentiranno e tutte le imprese di questo paese.

Le aziende che non giocano il gioco collettivo si comportano come clandestini. Approfittano del sistema, beneficiano di tutti i beni che lo Stato americano dà loro, e soprattutto delle facilitazioni che il dollaro porta loro, ma rafforzano i potenziali avversari del loro Paese. Ecco perché un giorno o l’altro sono chiamati all’ordine dal potere statale che fischia la fine del gioco.

 

Conflitti: il problema è che le aziende non sono dalla parte del potere.

Christian Harbulot: Sì, su questi argomenti non hanno alcun controllo. Non sono le aziende che possono mantenere il dollaro come strumento duraturo del potere economico americano. L’equilibrio economico del potere non è il risultato dell’aggiunta dell’avviamento delle aziende.

 

Conflitti: che rapporto instauri tra guerra economica e guerra?

Christian Harbulot: Questo è un argomento molto importante. Alcune guerre sono spiegate da motivazioni economiche, soprattutto quando si tratta di impossessarsi di risorse vitali. Lo vediamo oggi in Africa. Ma questo è il modo più semplicistico per farlo.

L’esperienza insegna che la guerra non è il modo migliore per garantire la sostenibilità del potere e della ricchezza di un paese – sottolineo la parola sostenibilità. L’esempio più convincente è il Regno Unito che esce incruento dalla seconda guerra mondiale.

Lo scopo della guerra economica è aumentare la ricchezza e quindi aumentare il potere. La guerra in sé non è il modo migliore per ottenere questo risultato, è spesso il modo migliore per perderlo.

 

Conflitti: ma ci sono gli Stati Uniti che non hanno chiuso le porte della guerra dal 1941.

Christian Harbulot: Sì, gli Stati Uniti. È vero. Hanno riconciliato la guerra con la ricchezza e il potere. Per il momento. E trovano sempre più difficile mobilitare pesanti risorse per questi conflitti. Stanno entrando in un periodo in cui fare la guerra sarà sempre più difficile per loro.

 

Conflitti: tutti i paesi sono consapevoli della realtà della guerra economica?

Christian Harbulot: distinguo tre tipi di paese. Coloro che hanno una logica per aumentare il loro potere e la loro ricchezza: Stati Uniti, Cina, Germania, la maggior parte dei paesi emergenti. Coloro che sono sulla difensiva come la Francia e molti altri paesi europei. E quelli che sono solo posta in gioco.

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Conflitti: in guerra come in politica, è prima necessario sapere chi è il nemico. Se ti dessi la possibilità di scegliere tra tre paesi, Stati Uniti, Germania, Cina, quale definiresti il ​​nostro principale nemico economico?

Christian Harbulot: Tutti e tre, da diverse angolazioni. Il principale potrebbe essere la Germania che ha una vera strategia di potere che ci manca. Quello che ci impedisce di pensare al potere sono gli Stati Uniti. Quello che mina le basi del nostro potere è la Cina.

 

Conflitti: non è possibile un’alleanza con la Germania?

Christian Harbulot: È desiderabile. L’aggiunta delle due culture strategiche, così diverse, gioverebbe a entrambe. La Germania dovrebbe comunque accettare di vedere in noi qualcosa di diverso dai potenziali collaboratori.

Ricordo che un originale, tedesco, che insegnava in organizzazioni prestigiose come Sciences-Po o INSEAD, venne a trovarmi per offrirmi un testo il cui titolo era: “Il ripristino della nozione di collaborazione”. La sua ingenuità mi ha incantato, ma l’ho rimandato a casa.

Se ci atteniamo all’idea della supremazia di una cultura su un’altra, non accadrà nulla.

 

Conflitti: sembra che tu stia pianificando i tuoi colpi più duri negli Stati Uniti. Di cosa li biasimi? I valori liberali di cui si vantano o i metodi che li rendono i principali protagonisti della guerra economica?

Christian Harbulot: Entrambi, o meglio il divario tra i due. Si basano su un discorso che non è verificato nella pratica, perché scollegato dalla realtà, e improvvisamente agiscono al contrario dei valori che pretendono di incarnare.

Espandiamoci alla geopolitica. Il generale de Gaulle una volta ha definito gli Stati Uniti una “potenza pericolosa”. Penso che si riferisse alla guerra d’Indocina dove inizialmente sostenevano il Vietminh per “scoprire” nel 1950, quando scoppiò la guerra di Corea, che erano comunisti e che lui Bisognava combatterli prima dai francesi interposti, poi direttamente intervenendo in Vietnam. Sono molto bravi a creare mostri che si rivoltano contro di loro, i talebani in Afghanistan, gli islamisti dell’ISIS contro Assad… È una forma di schizofrenia. E all’improvviso non possono rivendicare il ruolo di potere che rassicura e protegge. Le basi della loro legittimità sono scosse.

 

Conflitti: quale sarebbe per te la recente battaglia economica più significativa?

Christian Harbulot: la politica del gas di Putin. Questa lezione è la dimostrazione più illuminante di come possiamo giocare su un equilibrio economico di potere e mettere i paesi europei in uno stato di dipendenza. Nel caso della Russia, il gas è un’arma economica al servizio del potere.

 

Conflitti: questo non ha impedito all’Unione Europea di votare sanzioni contro la Russia durante la crisi ucraina?

Christian Harbulot: Ma possiamo vedere chiaramente l’imbarazzo della Germania su questo argomento. Gli accordi economici bilaterali che ha firmato con Putin, in particolare sull’energia, riflettono una visione etnocentrica sui suoi interessi immediati e non il desiderio di giocare la coesione europea su una questione vitale a lungo termine al fine di limitare la dipendenza nel campo energetico. Anche altri paesi hanno i propri interessi da difendere in questo caso. È il caso della Francia con l’esportazione di due navi della classe Mistral. Queste contraddizioni spiegano perché le sanzioni europee sono rimaste limitate.

 

Conflitti: in conclusione, quale valutazione trae da questi diciassette anni alla guida dell’EGE?

Christian Harbulot: Molte ragioni di orgoglio quando vedo il successo dei miei ex studenti e la qualità della formazione che ho fornito loro. Ma la cosa più importante è che, ora, possiamo parlare di guerra economica in questo paese. Non è solo o anche principalmente grazie a me, ovviamente, ma alla fine ho portato la mia pietra nell’edificio, o se preferite le mie macerie al muro.

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